Luigi Speranza -- Grice e Piana: la ragione
conversazionale e l’implicature conversazionali dei merli – la scuola di Casale
Monferrato -- filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Casale Monferrato). Filosofo italiano. Casale
Monferrato, Alessandria, Piemonte. Grice: “I never cease to get moved when I
read Piana’s notes, “Il canto del merlo”! That’s the way to do philosophy of music – the
Italianate warmth so strange and contrasting to the coldness of Scruton!” Insegna filosofia a Milano e Pietrabianca di
Sangineto. Allievo di PACI, sotto il quale elabora la sua dissertazione sulle
opere inedite di Husserl. La sua posizione filosofica è caratterizzata dal
concetto di fenomenologia -- strutturalismo fenomenologico -- influenzato
particolarmente da Husserl, Wittgenstein, e Bachelard. Alcune indicazioni sullo
strutturalismo fenomenologico sono contenute in “L'idea di uno strutturalismo
fenomenologico”. La sua filosofia è orientata verso la conoscenza, la musica e
i campi della percezione e immaginazione. Allievi di P. sono Basso, Civita,
Costa, Franzini, Serra, e Spinicci. Uno dei più acuti e originali
filosofi italiani – L’Unità -- uno dei più interessanti interpreti e
prosecutori, in Italia, dell'indirizzo fenomenologico -- Paese Sera. Tra i
più lucidi, originali e fecondi fenomenologi italiani" -- "L'idea di
Europa e le responsabilità della filosofia". Vede l'esperienza della
fenomenologia di Husserl che costituì il centro d'interesse di un grande
maestro come Paci. Non è il caso qui di tracciare mappe di quelle vicende,
credo però che non sarebbe sbagliato sostenere che P., in quel gioco delle
parti, che è sempre l'apertura di un'esperienza plurale sul suggerimento di un
filosofo autentico, si è preso quella del fenomenologo più prossimo ai temi
duri di Husserl, agl’obbiettivi che stabiliscono la teoreticità della ricerca
fenomenologica come tratto distintivo ed essenziale rispetto ad altre figure di
pensiero -- L'Unità. Illustre filosofo della musica -- in "Il significato della
musica", relazione al convegno 'Approcci semiotico-testologici ai testi
multimediali', Macerata. In un intervento letto durante un convegno tenuto
all'Macerata. Franzini dichiara. P. è a mio parere uno dei filosofi maggiori
del dopoguerra italiano: mai prono alle mode, sempre originale e innovativo,
come dimostrano i suoi essenziali contributi alla metafisica della musica. In
sintesi, un maestro in cui si ritrovano sempre momenti di autentica filosofa. Il
più grande maestro della fenomenologia
italiana. Il suo stile filosofico rappresenta il centro di gravità attorno al
quale tendemo a condensare gran parte di quello che di eccellente la
fenomenologia italiana fa, convinti che i suoi meriti non sono ancora
adeguatamente riconosciuti. La vera filosofia tende all'elementare. E dunque
non ha fretta di correre oltre, indugia in quei punti rispetto ai quali si
potrebbe benissimo soprassedere. In certo senso, si fa custode del ricordo di
cose che si potrebbero facilmente dimenticare. La filosofia è un’arte del
ricordo. Ma vi è in ogni caso anche qualcosa di profondamente giusto nell’idea,
che si ripropone di continuo, di una scienza che deve in qualche modo liberarsi
dalla filosofia. È come liberarsi dai ricordie questo è spesso necessario per
procedere oltre. Altri saggi: “Filosofia dell’esperienza”; “L’idea di uno strutturalismo
fenomenologico”; “Il manifesto”; “La filosofia tende all’elementare e non ha fretta”;
“L’importanza filosofica di arrivare ultimi”; “Esistenza e storia” (Nigri,
Milano); “La fenomenologia” (Mondadori, Milano); “Elementi di una dottrina
dell'esperienza” (Saggiatore, Milano); “La notte dei lampi”; “La filosofia
dell'immaginazione” (Guerini, Milano); “Filosofia della musica” (Guerini, Milano);
Mondrian e la musica, Milano, Guerini); Teoria del sogno e dramma musicale. La
metafisica della musica” (Guerini, Milano); “Numero e figura: idee per una
epistemologia della ri-petizione” (Cuem, Milano); “Album per la teoria della
musica”; “Frammenti epistemologici”. I
suoi saggi sono racchiuse: “II strutturalismo fenomenologico e psicologia della
forma”; “La notte dei lampi”; “Le regole dell’immaginazione”; “Filosofia della
musica”; “Intervallo e cromatismo nella teoria della musica”; “Alle origini
della teoria della tonalità”; “Teoria del sogno e dramma musicale”; “La
metafisica della musica”; “Mondrian e la musica”; “Filosofia della musica”; “Estetica
musicale”; “Introduzione alla filosofia”; “Interpretazione del “Mondo come
volontà e rappresentazione””; “Immagini per Schopenhauer, “Interpretazione del “Tractatus”
di Wittgenstein”; “Commenti a Wittgenstein”; “Commenti a Hume”; “Prroblemi
della fenomenologia”; “Fenomenologia, esistenzialismo, marxismo”; “Fenomenologia”;
“Stralci di vita”; “Conversazioni sulla “Crisi delle scienze europee” di
Husserl”; “Fenomenologia delle sintesi passive; “Barlumi per una filosofia
della musica”; “De Musica, rivista fondata da lui. Spazio Filosofico, collana fondata
da lui; "La fenomenologia come metodo filosofico", “Linguaggio” Guerini,
Milano); "Immaginazione e poetica dello spazio", “Metafora Mimesi
Morfogenesi Progetto” (Guerin, Milano); "Considerazioni inattuali su Adorno",
"Musica/Realtà", "Figurazione e movimento nella
problematica musicale del continuo", “La percezione musicale, Guerini, Milano,
"Fenomenologia dei materiali e campo delle decisioni”; “Riflessioni
sull'arte del comporre", “Il canto di Seikilos” (Guerini, Milano); I
compiti di una filosofia della musica brevemente esposti”; De Musica, Elogio dell'immaginazione musicale, De Musica,
La serie delle seriedodecafoniche e il triangolo di Sarngadeva, De Musica; Immagini
per Schopenhauer, Il canto del merlo” –
i merli – il canto dell’uccello, funzione del canto dell’uccello maschio. “Occorre
riflettervi ancora”; “Considerazioni in margine a Fantasia e imagine”; “
Leggere i poeti. Note in margine a Pascoli”; La sociologia della letteratura
(Milano); Questioni di dettaglio (Milano), Storia e coscienza di classe (Milano)
Ricerche logiche (Milano); Storia critica delle idee (Milano); fenomenologica
italiana; Fenomenologia, coscienza del tempo e analisi musicale; Variazioni dei
significati” - Burnout e risorse; Musicoterapia, alle radici fenomenologiche
del Cosmo antico; Fondamenti della Matematica; La scienza della felicita; La
fenomenologia dell’esperienza. Scuola di Milano – scuola milanese -- Giovanni
Piana. Piana. Keywords: il linguaggio di Spinicci, merli, la serie
dodecafonica, il triangolo di Sarngadeva. Oltre il linguaggio, linguaggio e
comunicazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Piana” – The Swimming-Pool
Library. Piana.
Luigi Speranza --
Grice e Piccolomini: la ragione conversazionale, l’implicatura conversazionale,
e le figure di retorica – la scuola di Siena -- filosofia toscana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Siena).
Filosofo
italiano. Siena, Toscana. LA RETORICA. Grice: “I became especially
interested in rhetoric after Leech, an Englishman who ended up teaching at
Lancaster, argued that all I ever did was engage in ‘conversational rhetoric!” –
LIZIO. Grice: “figure of
rhetoric” – “rhetoric” versus “dialectic” inference -Alessandro
Piccolomini Da Wikipedia, l'enciclopedia libera. arcivescovo della Chiesa
cattolica Incarichi ricoperti Arcivescovo di Patrasso Nato a
Siena Nominato arcivescovo Deceduto a Siena Manuale
Frontespizio della filosofia naturale
(Siena, Siena. Filosofo, etterato, astronomo e arcivescovo cattolico
italiano. Stemma della famiglia Piccolomini Blasonatura D'argento,
alla croce d'azzurro, caricata di cinque crescenti d'oro. Membro egl’intronati
(‘Stordito’). Venne rappresentata la sua commedia Amor Costante ed Alessandro,
entrambe dall'intreccio macchinoso, ma con vena psicologica e moralistica.
Legato all'ambiente degl’intronati è il Dialogo de la bella creanza de le donne
più noto come Raffaella. Professore a Padova per. Insegna filosofia e
partecipa alle attività degl’infiammati. Scrive ad Aretino, esponendogli il suo
pensiero sul volgarizzamento della prosa scientifica. Rientrato a Siena, lascia
la città per trasferirsi a Roma. Qui vive nell'ambiente del card. Francisco de
Mendoza. Uomo di grande cultura, traduce dal latino il sesto libro
dell'Eneide (VIRGILIO) e il tredicesimo libro delle Metamorfosi d’OVIDIO, dal
greco in italiano l'Economico di Senofonte, la RETORICA e la Poetica del LIZIO e
in latino il commento di Alessandro di Afrodisia ai Meteorologica di Aristotele
e la Meccanica Aristotelica. Nominato arcivescovo di Patrasso, rimase a
Siena come coadiutore dell'arcivescovo Francesco Bandini Piccolomini. E
il primo, molti anni prima di Bayer, ad aver contrassegnato le stelle in base
alla loro luminosità con delle lettere (alfabeto latino). Il libro dal titolo
De le stelle fisse, è da molti considerato il primo atlante celeste moderno. Le
mappe contenute nell'opera presentano tutte le costellazioni tolemaiche (ad
eccezione di quella del Puledro) e mostrano le stelle senza le corrispondenti
figure mitologiche; per la prima volta in un libro a stampa venivano quindi
riportate le mappe astronomiche complete con le costellazioni tolemaiche. Il De
le stelle fisse e un altro libro, sempre
di P., dal titolo Della sfera del mondo
vennero pubblicati in un unico e rarissimo volume. In ricordo del
famoso letterato senese, sulla Luna c'è anche un cratere che porta il suo nome;
il cratere P. è molto profondo, ha un diametro di circa 88 km ed è ubicato
(29,7°S / 32,2°E) a sud del cratere Fracastoro. Opere di prosa e di
teatro Amor costante, Dialogo de la bella creanza de le donne (Venezia)
Alessandro, De la nobiltà et eccellenza
de le donne, (Venezia) Trattati Libri ad scientiam de natura attinentes,
Della sfera del mondo, La economica di Senofonte tratta di lingua greca in
toscana, Venezia, Al segno del Pozzo, De la instituzione di tutta la vita de
l'omo nato nobile, e in città libera (Venezia) In quatuor libros
meteorologicorum Aristotelis, commentatio lucidissima (Venezia) Edizione
Commentarium de certitudine mathematicarum disciplinarum (Roma) Sfera del
mondo, Venezia, Cesano. Annotazione nel libro della Poetica di Aristotele;
Della grandezza della Terra et dell'Acqua (Venezia, Ziletti) Sfera del mondo,
Venezia, Giovanni Varisco; Speculationi de' pianeti, Venezia, Giovanni Varisco;
De le stelle fisse. Edizione del Il
Libro della Poetica LIZIO. Tradotto di greca lingua in volgare da P., Con una
epistola ai lettori del modo del tradurre (Siena, per L. Bonetti) Retorica LIZIO
amplissimamente tradotta e illustrata con dotte e utilissime digressioni da P.,
Venezia per Angelieri, Libri ad scientiam de natura attinentes, Venezia, eredi
Francesco De Franceschi (senese), Libri ad scientiam de natura attinentes,
Venezia, eredi Francesco De Franceschi (senese), Bibliografia Paparelli, P., Dizionario
Letterario Bompiani. Autori, Milano,
Bompiani; P. Un siennois à la croisée des genres et des savoirs. Atti del
colloquio internazionale (Parigi), cur. di Piéjus, Plaisance, Residori, Centre
interuniversitaire de recherche sur la Renaissance italienne), Università
Sorbonne Nouvelle – Paris. P., su Treccani.it –
Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata
Pelaez, Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia
Britannica, Cyclopædia of Biblical, Theological, and Ecclesiastical Literature,
Harper. Tomasi, P., Alessandro, in Dizionario biografico degli italiani,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere
di MLOL, Horizons Unlimited. Open Library, Internet Archive, Catholic
Encyclopedia, Robert Appleton Company. Cheney, Alessandro
Piccolomini, in Catholic Hierarchy. Portale Astronomia Portale
Biografie Portale Letteratura Portale Teatro Categorie:
Letterati italiani Astronomi italiani Arcivescovi cattolici italiani Nati Nati
a Siena Morti a Siena Drammaturghi italiani Professori dell'Università degli
Studi di Padova Piccolomini Traduttori dal latino Traduttori dal greco
anticoTraduttori dal greco al latino[altre] A THEODETTO; TRADOTTI IN LINGUA. LIZIO,
5 s^rjòm TRADOTTI IN LINGVA VOLGARE, T^a AI. NVOVAMENTE DATI IN
LVCE. Con la tavola de' Sommarij. VENEZIA. Appalto Francesco
deTranceichi SanefL. tri e fetÀ A VÈJjaf: E ben'io fimpre ho fiimafà, genttlifiimi
lettori, esser tanta la differenza trai cercar curiosamente occasion di
calunniare morder, più toflo che di riprender per o [curar Ì altrui
gloria, gli Jcr itti altrui 5 0 l'opporsi dall'altra parte sinceramete per
filo %elo dellà 'verita, a quelle co/e, che paian manco vere in e fi 5 che
fi come il far questo e cosa dignissima d’ogni libero purgato intelletto
cosi il far quello a maligna, e malvagia volontà s appartiene. Niente dimanco
io fino sìa to sempre cosi nemico d’offènder in quanto si voglia pi ce la
cosa, chi si sìa y e ffetialmente con mezo di queflo infamissimo vizio
della mordacità j che per un non so che d'apparente somifilanda che fra lor
tengon le due cofidette; io voluto fiejfe volte non seguir fv nocche fapfe
ij rebbe jjj rebbe per fi lodeuóle per fuggir ogni pericolo, JoSpition
di biajmo, che potessè recare l'altra. Da questo nasce che potendo parer
maraviglia ad alcuno che doppo tante tradott:onr y fatte fin oggi della RETORICA
a Teodetto delle quali, quattro IN LINGUA LATINA e due nella nostra volgare] ho
fin hor vedute 5 io nondimeno mi sìa pofio parimente a, tradurla non ho
voluto ajsegnar per ragion di questo, imperfezione alcuna ch'in qual si
voglia delle dette traduzoni, abbia io giudicato che si ritruovi. Ma mi
contento sola, che mi bafli d'addurneal pr e finte questa ragione è,
chauend'io già fatto piena paragrafi in lingua nostra supra tutti li tre
ùbri di e fifa ^B^tpricay ed avendo quiui nella margine accennato e cituto passo
per passo i praprij luoghi del LIZIO cosi le fiejfe parole latine secondo
la traduzione di Trapezjzjun* ito $ accioche 1 Lettori della parafi aje
con minor fatiga potefierri trouare e parragonar ti te fio con la
parafi aJL^ $ giudicai, che fufie ben fatto di far le cimtioni deltefio del
LIZIO nella lingua nostra ancora. £f perche meglio si potèsse veder I 'veder
fondata la correspondenza della parafi afe al te fio, secondo il fin/o, che più
ho io /limato ejfer vero, et legittimo, feci pensiero di far la presènte
tradottiones e maggiormente essendo par ufo così ben fatto a molti amici
miei, giuditiosi, amatori di Ietterei. 6t a queflo effètto, accio che più
ageuolmente si potejfer rincontraci luoghi della parafi afe con uei
delia lettera del LIZIO dame tradotta $ ò pojlo nella margine di quella
tradottioncj alcuni numeri, chabbian da rispondera i numeri, che faran
parimente poftì nella margin della parafi afi^j, che toflo vfcirà fiora
riìlam-* poto in tutti a tre i libri inferni. Ho coluto con quefie poche
parole farui capaci (benigni fimi lettori) della cagion, che ni ha moffo a
portar la Tietoriùa del LIZIO nella nostra lingua. Jnche
fare,Jeconofcerete, eh* io mi fa in buona parte appreJfatJ alla venta
legittima dei fenfì Juoi, et a fargli chiaramente apparir altrui (che fon
le due cofe, do in tradurre mi sfòrzo d'andar cercando) filmerò io,
che ciò a me fta piena ricompensa di quefia impresa: e con maggior animo
darò fine alla tradot% tione tionc, eh e nella me de firn a noftra lingua,fo
al prefente della Toetica del LIZIO^ fjf allaparafrafe parimente ciò io le
fo Jopra. lacjual nuoua tmprefa già farebbe condotta al fne.fi
più JfreJ/e, £f men breui triegue mi concedeffe quefa lunga
infermità-, che tanti anni già mi iteri oppreffo. Ada fiero pur che la detta
tmprefa farà condotta al fin fo per tutto Ì anno feguente^j del
fettanfnjno. Dio nofiro signore vi conceda ogni prosperità. Da c ' g encr
demoliranno 5 e delle co felodeir-> li, e delle vituperabili 5 e dei
luoghi da trovarle, e da provarle, del genere giudicialc e prima
dell'ingiurie e cause di quelle;e a quai capi si poflbn ridurre, delle cose
gioconde, o ver voi uttuofe, per cagion delle quali foglion recarli a
far'ingiuria gli’uomini e dei luoghi da ritrovarle, da conofccrle e da mostrarle,
quali fogli on'esser quelli che volontieri fan no ingiuria e quelli contra
de i quali si fanno, quali azioni si debbian dir veramente giuste o ingiuste o
ver guistamente o ingiustamente fatte, e dell'equità donde la nafea, e in che
differifea dal rigor delle leggi e alcuni luoghi da conoscerla, dell'ingiurie
pofte in paragone e comparationfradi loro; quali sien maggior e quali minori e
alcuni luoghi da conoscer questo, delle pruove e modi di far fede
inartificiali, o ver senz'artiheio, del bisogno c'hà l'oratore della cognizione
degl’affetti e passioni umane, dell'affetto dell'ira, della mansuetudine, ò ver
placabilità, dell'AMORE e dell'odio, del timore, e della confidenza, della verecondia
e dell’inuerccondia, della grazia, della Compassione, dell’indegnazione, dell’invidia,
dell’emulationc, della giovinezza, e conditioni di quella, della vecchiezza e sue
proprietà, della virilità e sue condizioni, della nobilità, Si proprietà di
quella, dei costumi e proprietà dei ricchi, dei costumi di coloro c'han grande
auttorità e potenza sopra degl’altri e dei bene fortunati, continuazione delle
cose dette, con quelle chc s'han da dire nel restante, della natura del possibile
e dell’essere stato e rlcll aver cad efTcrej e dei luoghi loro e
della gradczza e piccolezza, considerate in natura loro, dell'essempio, o
ver'induzione retorica e delle specie sue e lor condizioni e del modo d'usarle, se
collocarle nell’oratione, delle sentenze oratorie, se di tutte le spetie loro
e dell’uso ed utilità di quelle, degl’entimemi e dei precetti necessarij all'uso
di quelli e quali sieno gl’entimemi puri prò uatiui e quali gli
redarguitiui, o ver reprovativi, de i luoghi comuni e quali tra gl’entimemi sié
quelli che di nobiltà e di perfezione eccedono, che si truovino Enth. Appareri
e quali essi sieno, e de i luoghi comuni che posson lor servire, De i modi
d'opporlì all’avversario e di difirioglier le sue ragioni. E che cosa sia instanza,
o ver obbiezione oratoria, e in quanti modi si faccia, dell'amplificationc, in
ampliare, e in diminuire, over estenuare, della continuazione e del proponimento, o
ver propofuion di quello, che s'ha da trattare in esso.
E della TAVOLA della pronuntia oratoria e finalmente della distinzione
della locutione oratoria dalla poetica, della virtù della locuzione oratoria e
delle condizioni, che le convengono e quai forti di parole si ricerchino
per tai conditioni: et della Metafora, et de gli Epithcti, ouer aggiunti;
della freddezza, over inettezza, e difetto della locutione oratoria; dell’imagine,
over comparazione e della differenza e covenenenza ch'ella tiene colla metafora;
della struttura della locuzione oratoria e prima del parlar grecamente e quante
e quali condizioni si ricerchino a questo; dell'ampiezza, magnificanza e
grandezza della locuzione e quai cose poflbno o nuocere, o giouare a qucfto.
Del decoro della locutione oratoria, et quarc, et quali fiélecòditioni, & rauuertetie,
che perfuacagio fi ricercano.& qual fia la locuzione proportionata, qualc la
coftumata ,&: quale la pathetica, o ver afFcttuola. Del numero e ritmo
oratorio, ed in che sia differente dal metrico dei poeti: Óc d'altre cose
appartenenti al ritmo, ed agli accenti. (ilL fasi Renella riga c .del legislatore,
bygi dal legatore. e.\o.canfagiÀ.cofagia\ f.tfiion
ejfendo.&nonejjendo. \.\6 efftndo.^ effendo. -.e *£afide.& alle
fedi. 113 4.U dell altra pan. Et dall'altra parte. 1 . Quefìe.
Quelle. tg*no.congiungam. DELLA RETORICA DEL LIZIO L.L::^ a Theodetto, TRADOTTA
IN LINGVA VOLGARE Da P., dell'utilità della reorica e delld
Jòmivltanz^a creila tien conlla DIALETTICA. a A retorica hà gran convenien
ria et corrispondenza colla DIALETTICA [cf. H. P. Grice on logical versus
pragmatic inference and G. N. Leech on pragmatics as conversational rhetoric];
percioche coli l'una come l'altra per vna ccr ta forte di vie procede, le quali
sono in un certo modo alla cognizione communemente di tutti gli rinomini
accommodare; e non dentro a termini d’alcuna particolare scientia, riftrette,
et determinate. 3c per quello lì vede, che tutti in vna certa maniera,
d'am4" bedue quelle facilità partecipano, et fon capaci: vedendo
noi, che niuno è, che fin'ad vn certo termine non fi metta a impugnare le
ragioni altrui, Se a foAener le fue; & parimente a difenderli, ed ad accusare,
ogni volta, che gliene vien bisogno. j et nella moltitudine di chi fa
quello, alcuni fono, che feonfideratamente, et inettamente lo fanno, et quasi acaso,
et altfi A per 2 Della storica d'Aristotele per il contrario lo
Tanno più ordinatamente, Se quali per habi( ro;dal'vfo, et dall'edercitatione
acquiftato. Vedendoli dunque nell'vn modo, et nell'altro far quello, chiara cosa
è, che polli bil cosa fiad'inuefligare, & veder come ciò con via, Se
con ordin fi debba fare: potendoli cercare, et trouar la cagione,ondc fia,
che confeguifean parlando l'intento loro, cosi quelli, ch’in ftrutri
dall'euercitation procedono, come quelli, che puramente a cafo. Se cofi fatta
inueftigatione, Se olTèruatione, no farà alcuno, che non confelTi efferc
opera, &offitio d'arte. Di quell'arte del dire adunque, coloro, che
fin’a qui n'han trattato, Se comporto libri, una picciola, Se breuc parte n'han
tocS co. Conciofia cosa che clfendo il prouare, e 1 far fede, l'cfientia &
lafoilantiadi quell'arre, Se tutte l'altre cose, che le ftan d attorno,
accidenti, et aggiunti di quella; eglino degl’entimemi, Se degl’argomenti che son'il
corpo fodo della fede, che s'hà da fare, non dican nulla: Se di quell’accidenti
che son fuora della sostantia, Se del negotio Hello, lungamente
parlino, 9 Se molte cofe trattino. L'affetto di calumniare, Se la compassione,
et l ira, Se V altre cosi fatte passioni dell'anima, non riguardan la causa che
s'hà da trattare, ne toccan propriamente la cosa ltclfa, ma solo han
riguardo a commouer, lìorcere Se in10 terellàrc il giudice. La onde fe in rutti
i fori, & giudirij auueniile, fi come in alcune Città, fin'ancora in quello
tempo adiuiene ; Se fpctialmente in quelle, che ben goucrnate,&:
amminilìrate fono; certamente nulla harrebber, che dir quelli tali, 1 1
Conciolìacofa che nelfun fia, che non giudichicene farebbe cofa ragioneuolmente
ratta ìlprouedere, Se prohibir con leggi, chenon s'vfcille parlando
maifuordei meriti della llelTà caufa. Et alcuni fono, che di più, cotai leggi,
non folo con l'opinione, ma con l'olleriiantia, Se con l'vfo appruouano:
come fra gli altri fan quelli, che rifeggono,& giudicano nel
configlio dell'Ariopago. Et tutto quello drittamente è lìato
confidcrato, li Se con gran ragione. Pofciache non comi iene llorcere, o
piegare dal dritto il giudice con tirarlo, Se inchinarlo ad ira,
oa inuidia, o a compadrone, non cllendo altro quali il far quello, che
s'alcuno, c'haueifea feruirfi perla drittezza, dell'opera fua d'vna
regola, o d vna fquadra, cercaiTe prima di dillorcerla, ór x 5
d'incoruarla • Oltra di quello è cofa molto manifella nó
elfere altro 77 Primo libro. j altro l'offiriodi colui, che
litiga, Se agita in giuditio la caufa Tua, fc non prouarc, Se moftrar che
la cofa di cui fi tratta, et che cade in controuerfia, fia veramente, o
non fia, over che 1a fia 4 ftata fatta, o non (la (tata fatta. Ma ch'ella
fia o grande, o piccola, o giuda, o ingiufta, in tutto quello, che di ciò non
fia flato nella legge del Legiflatorcefplicato, et detcrminato, appartiene al
giudice ftclTo, di conofcere,& di difeernerper fc medefimo, et non
d'odirlo, o impararlo da gli Oratori, cheaj»itan la j controucrfia,&
la caufa loro. Si dee dunque (limare cola molto vtilc, Se conucneuolc, che
nelle ben porte, et prudentemente ftaruitc leggi, fi truoui refoluto, decifo,
Se determinato quel più,che fi può delle cofe, Sede i cafi, ch'occorrer
poflbno: li che a coloro,c'han poi da giudicare con le lor fententic, manf
co a determinar ne re(b,che fia poflibilc. Et ciò primieramente, perche più
facil cofa e di trouarc vn folo,o pochi, che molti, li quali fieno di buon
fentimento, Se di buon giuditio, Se che fica atti a formar leggi, Se a
difeerner la ragione, c i giudo. 7 Di poi le formationi, Se le con ftitutioni
delle leggi, con la matura confideratione,& pelato difeorfo di molto tempo
fi pollbno, Se Ci foglion fare: doue che il giudicare, Se fenrentiar de
i giudici, fifa quali di fubito, Se ali 'improuifla. Onde dimcil cofa
è, che coloro, c handa fencentiare, Se da giudicare, poffan per la breuità del
tempo, il giudo, Se l'vtile drittamente co8 gnofeere, Se difpenfare. Ma quel,
ch'importa più di tutte l'altre ragioni, è, ch'il giuditio del Lcgiflatorc nel
formarle fue leggi non riguarda le perfone in particolare,^ quelle, che fon
prc lenti nel tempo fuo ; ma le riguarda come lontane ne' tempi, che
deon venire, Se come in vniuerfale contenute ne gener lo9 ro. Doue ch'i
Configlieri nelle lor confultc, &i giudici nelle lor fententic, comedi
perfone già prefenti, Se ne' lor panico* 0 lari determinate, ne difeorrono,
Se ne dan giuditio: Con lequali afiài fpefib gli fuol congiugnere, Se invìi
certo modo intcrefiàre o amore, o odio, o vtil proprio: in guiia che per
tal cagione non pollo n con dritto, Se libero occhio difeernerc,
Se vedere il vero; ma rende lor l'intelletto offufeato, ci
giuditio ofeurato l'ombra, odcl proprio diletto, o della propria molc1
ftialoro. Fa dibifogno adunque ( com'ho già detto) di lafciar minor parte,
che fia poflìbilc > dell'altre cofe in arbitrio, Se in A ij
poter del giudice, et folu il carico di vedere, et determinare fé
la cola fia,o nó fia,c neceilàrio di lalciare alla cognition de"
giudici:non ellendo pofTibile,che cofi fatte noti tie,& coli fatte
cofe, il il Lcgiflator tanto innanzi antiuegga. Eifèndo adunque quant ho
detto veriffirao, può da quello clfer beniflimo manifefto, che cofe fuor
de meriti della caula toccan nell'arte, che danno 6c trattan coloro, li
quali altre cofe fuor di quelle, che pur hora ho dette, infegnano, et difhnifcono
; umiliando (com a dire) et determinando che cola habbianccellariamcnte da
contenerli nel proemio, o nella narratone, de in ciafeheduna dell'altre parti dell
oratione. perciochc nient'altro in inoltrar cotai cofe fanno, fe non
cercar come polfano formare, rralmutare,& 13 porre qualche qualità nel
giudice. Di quelle cofe poi, ch'alio artifìcio di prouarc, tk far fede
appartengono, cioè donde poffadiucnirl huomo Enihimematico, et bene inftrutto
in argo14 menta re, non infegnan, ne moltran nulla. Et di qui parimente nafee,
che abbracciando, et contenendo quella ftellaarte, 6c via, coli le caufe
concionali» et con luh.u me, come lclirigiofc, et giudiciali, Se ellendo
oltraciòpiu nobile, traile Città più vtile, et neceilàrio il negotio delle
confili re, che quel delle particolari con uent ioni, eh in giudi tio vengono i
di quello nondimeno rutti coloro, che di queft arte trattano, non dicon nulla
; Se del negotio giudiciale dicon molto > et fanno ogni s forzo
di ir -darne l'arte. Et quello non per altro adiuiene, fe non
perche -manco hà luogo, Se men vien à bifogno nelle catife, et ne' maneqgi
coniu] tati ui, overdelibcratitii, il parlar fuor de' meri ri .della caula,
che non auuien ne' giudiciali, ik di manco corrottone cV inganno è capace il
trattar caufe dinanzi aConfiglieri, che nel foro dinanzi a' Giudici; come
che il far quello fia cofa più communc, toccando non Ibi chi parla, ma chi
afcolta an%6 cora. Polciache le cole, che quiui fi dicono fon
daquei,ch'afc coltano odire » ponderate, et giudicate come proprie
loro. Onde nient'altro a chi quiui conliglia con la tentenna fua fa
di melìier di fare, fenon mo Arare, et prouarc che la cofa verame28 te
lia, qual intendcegli di peiluaderla. Ma nelle controuerfie, et caule
giudiciali non balta, ne è lol'vtil quello, potendo haucr luogo et recar
giouamento in ette il cercar di poifedere, &ti29 rar dal fuo gli lìefli
afcoltatori: pofeiache di cole, non lor proprie, Jl Primo libro. prie, ma
ch'ad altri toccano, hanno cglinda far giudirio. La onde ponendo eglin la
loro attentione, et cófideratione à cofa, che non loro fteftì, ma i
litiganti tocca, &c in gratia,& diletto di eflì afcoltandogli ;
più tofto concedono alle lor domande, le (Ielle fententiein dono, che
veramente giudichino. Perlaqual cofa in molti luoghi (com'hò già prima
detto) fi truoua prohibito per leggi l'vlcir punto parlando, fuoi dei meriti
della cau3 1 fa, di cui li tratta. Ma nelle caufe deliberatine gli Aedi
giudici di quelle, per lormedcfimi fenzvuopo d'altra legge, (on ba31
ftantiflimi ad olleruarlo. Hor eflèndo caufagià manifefta, che quefta
ordinata, et (per dir così) methodica arte, di cui ragioniamo, intorno al
prouare, et far fede principalmente còltile ; nó ellendo altro le fedi, 6c
le pruoue,che demoftrationi,ouero argomentationi; pofeiache alhor
principalmente diam fedcVid vna cofa, quando flimiamo, che la fin. con
argomento ben di' inoltrata-, elfendo oltra ciò l'enthimcma non altro,
ch'vna re33 torica demoftrationc, come quello, che (per dir'in vna
parola) di ogni altra pruoua, et fede retorica, è princi paliamo ; ne fc34
gue da quello, ch'eficndo ancoragli fillogifmo, Se appartenendo alla
Dialettica, o ad ellà tutta,o a parte d'elIà,d'ogni fillogif3 j mo trattare, et
confiderare; può elfcr per quello manifclto, che colui, che grandemente
farà habile,& inftrutto a faper ben conofeerdi quai propofitioni, ÒVin
che maniera fi componga, et fabrichi il fillogifmo ; egli ancora grandemente
enthimematico, cioè argomentator retorico, fi potrà (limare: Tea quella notitia
saggi ugnerà parimente il fapcre intorno a qual forte di materie li fo: mino
gli enthimemi, et con quai dirlercntic fien dipinti, et diuerfida i
logicali, Se dialettici lìllogifmi, ^4 3 6 conciofiacofa che il
conofcer'il vero, Se il fimi l'ai vero, da vna 37 medefima forza, Se
potentia, Se virtù dependa, oltra ch'ai vera ftellb, et alla notitia
d'erto, par che gli huomini aliai foffitientemente dalla natura formati, ÓV
inclinati nafeano; Se nel piò delle cofe la verità, fc punto lor fi
difeuopre, riconofeano, Óc aifeguifeano. Onde chiunque farà habilc, o pu
oro inftrutto z coniettu rare, &vcdcr'il vero; quel medefimofarà
fimilmente tale verfodel probabile, et fomigliantcal vero. Già può dunque
per quel, che fi è detto, clfer manjfefto come gli altri, che han trattato
di quell'arte» habbian tocco folo quelle cofe, che fon f c De11a r
R^tprica d ' j4riftotelc^j fon fuora della foftantia, et della cofa fletta
; Se per qual cagìort fi fieno piegati, et inclinati con li ferirti loro
verfo l gencr delle 39 caule giudiciali, più rofto ch'ad altro genere.
Quanto all'vtilità 40 poi, gioueuole, Se ville quefta arte della Retorica;
primieramente perche elTcndo le cofe vere, et le giufte molto più degne, et più
eligibili per lor natura, che le lor contrarie ; non è duhio, che le i
giuditij, et le determinationi delle caufe non fi facetter per il mancar
di queiVartc fecondo che conuenillcr di farli ; non fullc necettario
pericolo, ch'il vero, e 1 giufto non fufler conculcati, et vinti da i lor
cótrari): et ciò veraméte faria 41 degno di biafmo, &di riprenfione. Oltra
di quello appretto di alcuni, fe ben'haueffimo efquifitillima feientia
d'alcuna cofa, non per quello ci faria facile di perfuaderla,& farla creder 41
loro con vie, Se ragioni da quella feientia prefe. per ciò che effendo il
parlare feientifìco accora modato, Se proportionato a trattare, Se a
infegnar dottrine, importi bil cofa faria con elio il perfuadcr a quelli:
ellendo necettario, che le fedi, Se i parlari, che fi fan loro, procedano,
non per vie lcicn litiche, ma popolari^ comuni ; li come nella Topica habbiam
detto, nel inoltrar 43 come s'habbia con la moltitudin parlando à
procedere. Appretto di quello fà di mefticri d cttcr'habilc à poter perfuader l'vna
cofa contraria, et l'altra ; fi come auuicn anche ne i dialct44 tici
fillogifmi. Se ciò non perche l'vna cofa Se l'altra fia ben di fare, non
douendofi perfuadcr già mai le cofe inique ; ma perche non ci fia nafeofto come
quefto fi foglia, o fi potta fare: Se accioche vfando altri fuora del gin
ito coli fatti parlari contra di noi, potiamo noi elfer'atti, Se inftrutti
adifciorgli, Se a oppor4 $ ci lor'incontra. Et di tutte l'altre arti, Se
facultà, nettuna e, che fia più potente ad argomentar, Se a concluder con
(ìllogifmo 1 vn contrario, Se l'altro; fe non fole la Dialettica, Se la
Retorica: come quelle, ch'ambedue, quanto à loro, l'vn contrario, 46 Se
l'altro vgualmente riguardano, quantunque le Itelle cofe cotrarie, che come materie,
et foggetti s'offerifeon loro, non vgualmente trattabili, Se fillogizabili in
lor natura fieno; ma icmprcle vere, Se le migliori fien naturalmente
nell'ettcr loro, più facilmente, et più ragioncuolmente fillogizabili, et per
la maggior parte maggiormente perfuafibili, Se habili a trouar fe47 de. A
quello s'aggiugne, che le gli è cofa ali huomo vergognofa, Se Jl Primo
libro. 7 fa, et brutta (come veramente c) il non elTer potere ad
aiurarfì, Se difenderà* con le forze del corpo Aio, contra di chi fé gli
oppone j fuor di ragione è, che no gli debba recar'ancor macchia f Se
vergogna il non poterlo far con la lingua, Se con la fauella ancora: et maggiormente
elTendo l'vfo di quella, molto a lui più proprio, che l'vfo della corporal
gagliardia non farà mai. 8 Et fc ben'importantiflìmi nocumenti può recar
con queft arte, &c con quelli facultà di dir, colui, ch'in fauor delle
cofe inique ingiuftamente fe ne fcrue,& la pone invfojquefto
pericolo nondimeno è comune, non folo a tutte le cofe, quantunque vtili,
Se buone, fuor ch'alia virtù ; ma aquellc maflìmamente, che di maggior
vtilità,& profitto fono, fi come fono la gagliar5? dia, la fanità, le
ricchezze, le dignità militari ; pofeia che col mezzo di sì fatte cofe
grandifllmi giouamenri potrà recar qualunque giuitamente, et drittamente fenc
fcrui, Se importane un'imi danni per il contrario, chiunque in fauor
dcll'ingiulti» 0 ria, contra di quel, che conuenga, le ponga in vfo. Può
già du» que per quel, che fi e detto, eiler manifefto, che la retorica non
lì truoui obligata, Se riftretta ad alcun gcnerdi materia limitato, Se
determinato, Se che per confeguente in quello venga ad elTer limile alla
Dialettica: Se che la fìa ancor' vtile, Se di1 letteuole. Se parimente da quel,
che fi è detto, lì può dedurre, che l'opera, Se l'offitio fuo ha, non il
perfuadcre, ma il potere, Se faper trottare, Se vedere intorno à
ciafehedun fu ggetto, quelle cofe, ch'effer pongono accomodare, Se vtili à
pcrfuadcrlo: 1 fi come parimente in tutte le altri arti, et facilità
cómunemen3 teaduicne. nercioche l'officio dell'arte della Medicina (per
ef. fempio) non e lintrodurre effettualmente la fanità; ma il
faper tanto oltra à punto curando, Se medicando procedere ;
quanto conuicne, et ricerca 1 in firmità, Se la ragion dell'arre. potendo molto
bcn'allc volte accadere, che alcun non polla di qualche fua infirmi cà
venir mai fano, ò tornar mai libero: il qual nondimeno beniflimo fecondo che
richiede 1 arre, curare, et medi4 car fi polla. Oltra le dette cofepuò ancor da
quel, che li è detto dedurli per manifefto,che non lolo fia offitio di
quefta arte della retorica il faper veder le cofe veramente pcrfuaiìuc, cioè
atte a perfuadcre j ma alla medelìma appartenga di conoicerc,Sedi confidcrarc
ancora quelle, che le non veramente pcrfuafiue, al men fono apparentemente
tali: fi come parimente alla dialett ica fi ricerca d hauer noti tia, non folo
del vero fillogilmo>ma a nj j cor dell'apparente. Pcrciochcil Sofifta, non
nell'arte, Se nella habilità confide di fapcrconofcere,& vfareil fa
ilo, ma più tolto 56 ncll elettione»& nel volere viario, di maniera
che in quello diff I-i iicc dalla dialettica la re tori cacche in quelli coli
colui che dea la notitia, Se 1 arredi faper vfa re apparenti > Se non.
legittime argomentationi, Se non le vuole vi. ne, fi domanda retore,
come ancor qucll altro, ch'elegge, Se tien propofitodi volerlo
fare, doue che nella dialettica per il contrario s hanno diuifo i nomi: pofeiache
colui, ch'elegge di far quello, non dialettico, ma foriila fi domanda; Se
dialettico dall'altra parte fi chiama quello, eh e 57 ha folo la facilità,
la cognitione, c i poter di farlo»: Ma a quella arte, di cui parliamo,
venendo hormai,procuriamo,cV: facciam forza di dimoftrare in qual maniera,
Se con l'aiuto di quai cole, fiam per poter confeguire, Se efeguire in
elfa il fine, Se l'offitio fuo,che lon le cofe,c habbiam propofte. Sarà
ben fatto adùque, che quafi nuouo principio facendo, aflegnata prima
ladiffinition di quell'arce, Se cfplicato, che cofa ella fia,quindi à dichiarar
l'altre cofe, che feguiranno, di mano in man crapafllamo. (apo 2. Della
diffnition della r Rgtorica 3 de i modi di prouare, dell' Gnthirnema,
deWef /empio j de i Veri/imi li, de tftgrìu et di 'varie Jpecie di Jègni,
et d'Snthimemi. Oni am dunque per hora efier la Retorica vna facultà, mediante
laquale fi pofià intorno a qual fi voglia foggetto, che fe le proponga,
trouarc, Se veder tutto quello, ch'occorrer polla accom «iodato, Se vtile
àperfuaderlo, come che il far quello di nefluna altra arre fia ofntio, Se
opera, che di quella fola. 1 impercioche ciafeheduna dell'altre facilità d
intorno à determinato foggetto, Se materia appropriata ad ellà, và
infegnando,3c facendo le pruoue, Se le fedi fue. come fi ( per elfcmpio )
l'arte della medicina intorno alla l'ani ti, de ali infermi tà de i corpi
; Se la GeoJl Primo libro. ^ la Geometria intorno a i propri j
accideti della quantità, ©Gl'Aritmetica intorno a i numeri, et il fìmil
difeorrendo per l'altre arti,& feientie tutte.Mala retorica, qual fi
voglia (ftò per dire) mareria,& foggctto,che le fiapropofto innanzi,
paiec'habbia a poteri nueftigai e, Se conofeer ciò che polla pervaderlo,
Se far ne fede. Se per quello è Irato da noi decto non hauere ella la
forza, Se l'artefitto Tuo d intorno ad alcun proprio gener limitato, Se
detcrminato. Hor quanto alle perfualìoni, Se alla fede, alcune d'elle fon
priued'artifirio, Se altre artifitiofe fono. Spogliate d'artificio intendo
io elfer tutttc quelle, chenó pernoftra opera, Se difeorfo ritrouiamo, Se ci
procacciamo ; ma comcche'n elfer già prima fieno difuora ci fon porte
innanzi: come fono (per ellcmpio) i teftimoni, le torture, le fcritturc,
Se fimili. Artifitiofe poi intendo io eller tutte quelle, le quali con arte, et
con ragione, ftà in poter noftro d' inueftigare,& di procacciare. Onde
l'vne fa di mcftieri,>non che le immaginiamo di nuouo, Se crolliamo, ma che
trouate, Se porteci innanzi, le lappiamo vfare; Se l'altre, cioè l'arti ficiofe
han di bifogno d'cflcr da noi cercare, Se formate. Hor di quefte arti
ficiofe perfualìoni, et fedi, che con arte, Se con via di ragione fi truouano,
Se lì gua0 dagnano, tre forti, onero fpetie fi truouano. alcune fono,
che cófifton nelcoftume, Se credito di colui, che parla: alcune
altre fon porte in difporre, muouerc, Se arfettionarc in vn certo modo
colui, chalcolta: Se altre finalmente fono,chc ncll'oratione, et nel parlare
ftellb confiftono ; mentre che con la forza di quelle, fi pruoua, ex fi
mortra l'intéto ; ò almen fi fa apparire, 1 che fi moftri. Per cagion del
coftume adunque la perfuafionc, et la fede, che da elfo depende, allhor shà da
ftimar, ch'ella accafehi, quando in maniera farà formata, Se detta
l'oratione, ch'ella fia habileàfar'apparir il dicitor degno di fede, cVa
dar 1 1 credito alle fue parole, concio fia cofa che alle persone tenute
da noi virtuose, Se da bene, maggiormente, et più
agcuolmente fogliamo credere, Se preftar fede, et quefto generalmente
in tutte le cofe: ma principalmcte,& fenza alcun dubbio in quelle,
nelle quali nò appare in lor natura cofi efatto, òvinanifertoil vero j Se
per confeguente nell'vna, Se nell'altra parte polfon ge13 nerar opinion di
loro. Et cosi fatto coftume, et buona opinione, che s'habbia di buone qualità
dell oratore, fa dj merticri, B ch'accai o ch'accafchi, Se
nafca Colo dalla forza della ftefla oratione; Se Scnon perche giàs'habbia
prima quefta fama, et quefta opi4 niondilui. perciò che fi come fi vede in
alcuni,ch'hanno ; ci irto di quell'arte, non hanno in ella porto la buona
opinion, che a' riabbia da guadagnar con erta colui, che parla squali che
coli fatta opinione, Se cortame poco importi alla pcrluafione, ma nel
vero quali p ri nei pallili mo, Se propriiiTimo luogo ricnil ir coftume in
acquiftar'alle parole fede. Dalla parte poi de gli afcoltatori la perfuafione,
Se la fede, che per cagion d'erti ha da nafeere, alhora s'hà da inrender
che l adiuenga, quando dalla forza dcli'oratione, a qualche paflìone et affetto
d'animo fon itf morti,& tirati, conciofiacofa che, non nella medefima
gitila logliam noi giudicare, fentcn tiare, o fiumare le fteffe cofe,
quado lipieni di moleftia, et quando lieti fiamo,ouer quando a17 inumo, et quando
odiamo. Et in quefta fola maniera di pervadere hauiam detto difopra haucr
folamente me ilo ftudio,& tentato di trattar coloro, che fin hoggidì
di quell'arre hanno Tcricto • Ma di tutte quelle cofe, che quefta maniera
di pcrrfuafion riguardano rratraremo, Se daremo didimamente cniarezza, quando
delle paftioni dell anima ragioneremo. Per cagion della ftefìa oration
finalmente, Se delle fteftc ragioni, alhora li trouerà, et s'acquifteià
fede» quando in ciafehedun fo^getto, che ci verrà dinanzi, da tutte quelle
cofe, che poflon eller perfuafiue d'elio, o il vero ftcflb, o l'apparente vero
concluderete mo,& dimonftreremo. Venendo adunque Tartificiofa perfuafione,
Se la fede da quefte tre cagioni, c'hauiam dette, manifefta cofa e, che fa di
melh'eri, di iapere, Se di polfedcr quefte tre cofe, cioè habilità, Se
notitia di lyllogizare, cognitione intorno ai coftumi, et alle virtù
dell'Intorno, et nel terzo luogo finalmente noritia intorno a gli affetti
humani, conofeendo che cofi fia ciafehedun d'erti, Se qual proprietà egli
habbia, Se dolo de fi cititi, Se fi produca, Se in qual maniera. Per la qual
colà par, che fi porta dire, che la retorica fia quafi vn germoglio
tniteme della Dialettica, et di quella faculrà,chc dei coftumi trat ta,la
quale non fenza ragione fi può politica, ouer ciuildomanX 1 dare. Onde auuiene,
che la retorica, Se con ella quelli, che prefumon di poffcdcrla, foglion per
quefto vfurpare in vn certo modo, Se veftir l'habito d'eflà /acuità ciuile
; parte per imperitu, Se Jl Primo libro. 1 / tia, Se per ignorantia,
parte per arroganza, Se parte per altre 11 caufe> che poflbn
far'errarcrhuomo. cliendo nódimen la retorica vna particella della dialettica,
Se (come fu dal principio det15 to) quauvn ritratto fimilc, Se fipruoui, ouer
fi faccia apparentia di dimoftrare, Se prouare, l'vna è, fi com'ancor nella
Dialettica, l'induttione, Se l'altra il fillogifmo: chiamando io
l'enthimema, t$ retorico fillogifmo, Se retorica induttione, l'cflèmpio.
Se tutti color, che vogliono prouando, Se dimoftrando far fede, ocffempi
adducono, o Enthimemi,& fuordi queftedue, altra colf» fa, ai cui in ciò
fiferuin, non hanno. La ondeeflendo generalmente vero, che volendo chi fi fia
in qual fi voglia modo, qual fi voglia cofà prouare, è neceflàrio, che
vfàndo o fillogifmo, o induttion lo faccia, come appar manifeflo per
quello, che detto hauiamo ne i libri refolutorij, fa per quella ragion di
meftieri, che quelle due cofe, ciocl Enthimcma, &i*ciIèmpio,à
queft'altredue, cioè al fillogifmo, Se all'induttionc, rifpondino in modo,
che l'vna, con l'vna, Se l'altra con l'altra, fìcn quafi vna 17 ftefla
cofa. Qual fia poi la dirTcrcnria tra l'eUèmpio, Se l'enthimema, facilmente per
quel, che fi c dichiarato nella Topica, può cfTer chiaro: eifcndofi quiui
del fillogifmo, Se dell indut18 rione a pien ragionato, douefù detto, che
quando in più cofe irà di lor fimili fi moftra trouarfi il medefimo di
quello, che prouar intendiamo j allhor il far quefto fi dee quiui, cioè
nella dialettica, ftimar'induttione, Se ani, cioè nella retorica, ellèra15
pio. Et dell'altra parte, quando fuppofto in eficr alcune cole» fi moftra,
che qualch'altra cofa diuerfa da quelle col mezzo loro, o comunemente, o per il
più per lor cagione adiuenga, Se confegua ; alhora vncoli fatto progreflo,
nella dialetti cachiamar U dee fillogifmo, Se in quell'arte del dire,
enthimcma. Ed è cofa manifefta che l'vno, et l'altro di qnefti comodi, Se
di quelli aiati ; cioè l'vna, et l'altra maniera d'argomentare, riabbia in
vn certo modo vna Aia propria fpetic di retorica: pofeiache fi come e detto ne
i libri, doue con ragione, ordine, et via fi e trattato di quefto, così in
quelli al prelente affermiamo au1 uenir' il medelimo: trouandofi tra le maniere
de i parlari oiatorij, alcune eflcmplificatiue, come che delfcmpi per la
maggior parte abbondino; Se altre enthimematiche, come che per il 1 più d
enthimemi iìen piene. Se quanto alla perfuafibilicà non manco fon habili a
far fede quelle orationi, che eircmplificatiue fono ; ma ben fon più impetuofe,
Se con maggior vehemetia commuouono renthimematiche. Ma qual di tutto
quefto fia la cagione, Se in qual maniera l'vnc, Se l'altre s'habbian
da trattare, Se vfare, più oltra al proprio fuo luogo dichiareremo. 3
et al prefente della natura, Se delVcfler loro alquanto più al villo
penetrando, diftintamente ragioneremo, et determinere4 mo. Dico adunque che
elfendo necelìario, che la cofa perfuafic bile, ad alcuno habbia da eifer
nerfuafibilc,& frollandoli qualche perfuafibilc, che per fc ftcno fubito,
che gli è odiro,cosi fat to appare, Se altro, che ha bifogno per apparir
tale, d cllcrdi6 dotto da altri per loro ftclTì perfualibili, Se olerà ciò non
trouandofi alcuna arte, che tratti, Se habbia in confidcration gli diuidui,
e i particolari, o fingolari, che gli vogliam chiamare: non confiderando
l'arte (per eflempio) della medicina, che cofa polla render fano Socrate, o
Calfia ; ma quello, ch'a vn tale, oa vn tale, cosi, o così difpofto polla
fanità recare: pofeiache che'n far quefto può hauer luogo l'arte,douc che
per eller'i fingolari infiniti, cader non pollon fott'arte, o feientia
alcuna, 7 ne feguc da tutto quefto, che la retorica parimente non
habbia da riguardare, o in cófideratione hauere quei perfuafibili, che aquefta,
o a quella perfona (ingoiare, com a dir a Socrate,oad Hippia, polTàn parer
tali: ma fedamente quelli, che a quella, o a quella forte di perfone cosi,
o così difpofte, Se nel tale, o nel 8 tal modo qualificate, poftàn recar
fede, Se perfuafione ; come parimente auuicn nella dialetica. percioche
ancor ella non accoglie ne i fuoi lìllogifmi tutto quello, che lenza lecita
alcuna polla parer probabilea chi fi voglia: pofeiache a gliftolti,
Se 5 forfenaati pollon anche molte cofe parer probabili. ma da quelle Jl
Primo libro. 3l rj 3 nelle cofe guida ella i Tuoi argomenti, che da forza
d'arte, Se a ragion dependono, doue che la retorica da quelle, guida,
Se diducei Tuoi, le quali giafon'vfate cader fotto configlio h umano,
percioche 1 vfo Tuo Uà porto fpctialmente dattorno a quelle cofe, nelle
quali vfiamo l'clcttione, el configlio noftro, et di cui arte alcuna
detetminata non hauiamo: Se appretto d'vna certa forte d afcoltatori fi
esercita, Se fi pone in vio, liquali no fon' habili, ò in (brutti a poter
pervia di molte cofe, Se di lunghi difeorfi, Se ragioni comprendere, et capir
le cofe, che ficn 40 lor porte innanzi, ne a difcorrerle molto eia
lontano. Et è polla l clettione, e l configlio noftro intorno a quelle cofe,
ch'a 41 noi paia, che poltan auuenire, Se non auuenire.
pofeiachedi quelle, che fon'impoffibili oa farfi, oad eflerc, oad
accalcar* altrimenti di quel, che fieno, ninno farà già mai, che (e per
tali le Itima, Se le giudica, s'aftatighi in configliarfcne: non potendofenc
determinar niente più con configlio,ch'a quella fteffa parte, Se in quello
fteflb modo, chcneceflàriamentc adiuen41 gono. Hor'egli accade nel fillogizarc,
Se concluder che fi fan le cofe, ch'alle volte fi fillogizino, Se Ci
diducano da altre propo fitioni già fillogizate, Se conclufe prima, Se
alle volte da propofitioni non prouate, ne fillogizate, et nondimeno per non
ef43 fer in loro ftelfe probabili, bifognufe di fiUogifmo. Diquefti due
modi di procedere è neceflario in quell'arte, ch'il primo no polla per
cagion della fua lunghezza eflcr da chi afcolta ben'intefo, Se feguito con
l'apprenfionc j fupponendo noi gli afcoltatori non periti, Se più torto di
femplice, che d acuto intelletto. 44 Et l'altro modo c forza, che poca
perfuafion porti fcco,non nafeendo da propofitioni già co n celle, Se prouate,
ne parimente 45 probabili per fe medefime. Per la qual cofa fa di
meitieri, che coli l'cnthimema, come TelTempio contenga propofitionc
per il più contingenti, Se tali in fomma,che pollàn' ancor
vcrificarfi dall'altra parte, Se cflcr'altrimenti di quel, che fono. conuenendo
l'elfempio con l'induttionc, Se col fillogifmo l'enthime46 ma. ilqual di poche
propofitioni fi contenta, Se fpefie volte di manco, Se di più raccolte,
che nell'intiero fuo fillogifmo non 47 conterrebbe. Imperciò che fe a
forte alcuna d'effe fi truoua efler a chi fi parla nota, non fa di bi
fogno, che vi s'efprima, potendo colui, eh' afcolta fupplirla nel concetto, Se
nell'animo fuo, Se aggiu/ 4Velia r R(torica d* Jrìflotelc^ 4S
&aggiugnerla per fc medefimo. come (per eflempio) fcvolef-» fimo
prouar, ch'il tale di narion Dorico ila flato quello, chabbia in publico, et folenne
giuoco, et contefa, confeguico vittoria, a cui fi debba premio di corona, potrà
ballar il dire, che fìa flato vittoriofo nella pugna Olimpica: ne fa
dibifogno aggiugnerui, che alla vittoria Olimpica iia douuto premio m
coio 4P na, cflèndo ciò noto a tutti. Hor perche tra le propofirionijdelle
quali fi compongono, et fi formano i retorici fillo^ifmi, poche fc ne truouan
necellàric, come ch'il più delie cofe, intorno alle quali confiftono i
giuditij, et le confiderationi, et confiate humane fien tali, che variar
potfono l'eircr loro, et altrimenti eflex di quel, che fono: pofeiache di
quelle cofe accade a gli huomini giudicare, difeorrere, Se configliarfi,
nelle quali confifton le lor'attioni,nè d'altra forte fon lelor attioni, che
di auella,c'hauiameià detto; nefluna (per modo di dire) cllcndo jo d
elle, c'habbia (eco neceflltà: ne fegue da tutto quello, che non potendo
quelle cofe, che per il più, et non nccellàriamentc adiuengono, Se che
contingenti fono, fyllogizarlì,& concluderli, fe non per il mezzo di
propofitioni limili a loro j ne ancor le propofitioni necelTarie, fc non per il
mezzo d'altre parimente necefiàri e, come può chiaramente apparir per quel,
che 51 fi è detto nei libri refolutori; ; può da tutto quello
eflèrmanifeflo, che le cofe, donde s'han da formar gli enthimemi,
alcune fon, checontengon necefiìtà, ma molte più fon quelle, che fo51
lamente per il più fon vere, Se perla maggior parte. Etperche gli
enthimemi s'han da comporre di quelle due cofe, cioè di fegni, et di
verifimili, ne fegue che formandoli eglino (cora llo detto) di cofe
necellàric, Se molto più di contingenti, fia di meftieri, che quelle due cofe,
cioè i verifimili, e i fegni, a quell'altre due, cioè alle contingenti, Se alle
neccllìrie rifpondanoin guifa, che l'vna di quelle contenga co fa, che
fiavna della con Fvna dell'altre, Se l'alrta parimente fia vna ftellà con
l'altra, Se 5$ cofi è veramente, pcrciochc vetifimile è quello, eh il più
delle ohe fuorauuenirc. ma non già vniuerfalmenre è vcro,ch'ogni cofa
tale, fi poflà chiamar verifimilc, come lo diflìnifeono al54 cuni: ma fcgli
ricerca ancor d'eifer' in quelle cofe fole, le quali efiendo contingenti,
polTon variar l'eiler loro, et altrimenti accalcare, de elTcr di quel, che
fono, Se hà di più, da riguardare la cofa di cui gli e verifimile, come
l'vniuerfale, cioè vna cofa* che lì truoua in più, riguarda il
particolare, et vna cola, che fi ff truoua in meno. Quanto a i (egni
poi,vna forte ve nc,chequel rirpetto, et riguardo tiene alla cola, di cui
fon legni, che tien' vna cofa indiuidua, oucr (ingoiare, all'vniuerlale.
Vn altra forte ve n e poi, che per il contrario riguarda la cofa di cui gli e
legno, come l'vniuerfale il particolare, o vogliam dire come la co (à,chcintieramcnte,&
communementeaccafca, riguardaquelj 6 la, ch'adiuiene in parte. et de i fegni
pure vna fpetic fi truoua, che portando fecondo neceflìtà, fi domanda
Temmirio,o certo 57 inditio, che lo vogliam chiamare. et vn'altra ve n'è
poi, laqual non porta fcco neceflìtà, Se proprio nome, che dall'altre
fpetic di fegni la diiliagoa* non tiene, ritenendo il commun nome
di j8 SEGNO. E per cole, che portin feco neceflìtà intendo io
quelle, f»cr virtù delle quali il sillogismo, che se ne forma diuiene
(labie, 6c fermo, 6c per quefto e domandato Tcmmirio vn coli latto feeno.
concioliacofa che quando (limiamo, che la cofa, che noi diciamo, et prouiamo,
non fi pofla difeiogliere, o mandar* a terra, allhora ci penfiamod'hauer
formato il Temm;rio,quafi che ben fondato, Se ben terminato, Se fermato
lia 1 argomento 60 nolìro. pofeiache teemar, donde vien teemirio, vna cofa
(leflà con peras, cioè con termine, et fine, lignifica nella greca
lingua 6 1 antica. Tra i SEGNI, adunque, quello, eh alla cofa, di cui gli
e fegno, ha quel rifpetto, che ha vn particolare, ouer (ingoiare
al fuo vniucr(ale,può eflèr (per eflempio) in quelli guiia,
come fariafe alcun volendo prouar, che gl huomini faggi fien giudi, aflegnalfe
per fegno di quello, che Socrate era li uomo (aggio 61 infiemcmente,&
giullo. cosi fatto allègnamento adunque fi può domandar fegno, madcbol
molto, Se facilmente folubile, quantunque fufle vera la cofa, che fi
pighafle per fegno, come 6 } che mala forma contenga di filloeifmo. ma fc
alcun (per eflempio) allègn a (Te per fegno dell'eder infermo, 1 haucr febbre,
o per fegno ch'alcuna hauefle partorito, 1 hauer ella latte,
cofi fatti aflìgnamenti portanan fcco ncccflìtà.& fol quefìo tra
l'altre fpetic di fegni, fi può domandar temmirio, come quello, che (egli
è vera la cofa, ch'ei reca per fegno, fi dee (limar in(b6jf tubile,
ficimpoflìbilca mandarli a terra, quella fpcric di fegno poi, laqual
riguarda la cofa, di cui l'è fegno, come rvniuerfal riguarda /
izarc, o far cnthimema non fi può dattorno alle naturali. Se il nmil
fi 7 8 può difeorrendo per tutte l'altre materie affermare. Et di
queflc due forti d'enthimemi, quelli, che pur' hof habbiara
detti,, cioè li retorici, e idialctici, non pofion far parer l huom perito più
in vn generdi cofè,ch'in vn altro, ne tirarlo detroa i confiC ni d'alcnna facilità
particolare, non guardando eflì, coméco* JS> -ranni che fono, foggetto,
o maceria limitata alcuna. Ma in quelli di queft altra ione, cioè
ch'appropriati ad altra facilità fi truouano, quanto migliore, et più
diligente lecita faremo delle propofiaoni, tanto più verremo in vn certo
modo ad accodarci a i termini, et a i confini d'altra (cicncia, dincria dalla
dialettica, et dalla retorica, pcrcioche leai principij diquella
accafcarftidurfi, apparirà chiaramente che ne alla dialettica, ne alla retorica
a p parremmo ; ma a quell'arte, o feientia di cui faran80 quei principi). Son
la maggior parte degli enthimemi diquelJc forme, Se propolìtiom formati, le
quali fono 1 penali, Se proprie di qualch arte, ofrientia particolare: Se per
il contrario in aliai minor numero fon quelli, che da communi proporzioni, Si
Se a nell'una facultà appropriate dependono. Per laqual cola farà ben fatto,
che lì come fatto fi e nei libri Topici, coli parimente in quelli, andiam
dilu'ngucndo tràdiloro le forme deli luoghi degli enthimemi, donde cflì
s'han da trarre, et da prenci dere. Se per forme intendo io propoluioni a
quello, o a quel determinato genere appropriare. Se per luoghi intendo io
poi quelli, ch'ad ogni genere, Se ad ogni materia, communi vgual8j mente
fi truouano. Primieramente adunque diremo delle forme: ma prima che ciò
facciamo, è bene, chevcggiamo,óc conofeiamo i generi di quelYarte della
retorica, acciò checonofeiu to, Se diftinto c haremo quanti chefieno,
potiam poi allegnarc, et moftrarc in cialccduno d elìì appartatamente, quali
fieno i lor propri; elementi, Se lclor proprie forme, Se
propolitionù C a P° 3* Qjtanti fieno li Cj eneri delle caufe
o~ ratorie $ quale fi a etafehedun d'efìitf de i propri} fini, £f dei
propri] tempi loro. R e fono in numero i Generi, o vogliam dir
le fpetie della Rcttorica, pofeiache d allietante forti, Se maniere
ancora fono gli afcoltatori del I orarioni, c ha ella da fabricare,
conciolìacola che da tre cofe dependa, oucr tre cole riguardi
Toratione, cioè colutene parla,la cola,di cui fi parla,& colui,acui fi
parla, &acoftui Jl Primo libro. r 9 &• a coftui oltra di
quefto, cioè ali afcol tato re, (là totalmente in3 drizzato il fine, et l'intention
della fteila oradonc. Se è forza, che colui, c ha dafcoltare, o fia puro
intenditore, Se afcolratore, ouer'oltraciò habbia fopra lccofe,ch'afcolta da
fententiare, et da giudicare, Se douendo clfcr tale, fa di bifogno ch'il
giuditio, eh egli ha da dare, fia d intorno, o a cofe, che fieno fiate,
o 4 a cofe, che habbiano ad ellère Coloro che delle cofe future
han da giudicare, Se da determinare, fon com a dir,quelli,che
s'adu mino in confulte publiche. coloro ch'intorno alle patiate
han da dargiudicio, fon com a dir, quelli che propriamente giudici
nominiamo. Se color finalmente, che folo prendon gufto di confiderare la
forza, Se l'arte, c habbia nel dire colui, che par5 la, puri afcoltatorì,
cVconiìderaton chiamar fipoiTono. Onde fa neceilàriamente di metti cri, che
tee fieno i generi dell'orarioni retoriche, ouer oratorie, il coni ul tati uo,
il giudiciale, eldi6 moftratiuo. Il confultatiuo parte confile in efortarc, Se
parte in diltogliere, ovogliara dire parte in fuadere, Se parte in
diffuadcrc, peròche tutti coloro, che, o di cofe priuate dan con figlio, o in
publiche concioni a commun beneficio dicono il pa7 rer loro ; tempre o 1 vna, o
l'altra delle dette cofe fanno. Il giudicai parimente due parti ancor' egli
abbraccia, cioè l'accuiationc, Se la difcnlione: pofeiache l'vna di quelle cofe
è forza, che facciali fempre coloro, chelitigiofc controuerfie, et forenfi 8
caufe trattano, il dimoftratiuo gcner finalmente ancor egli in 9 due partì
e diuifo, che fono il lodare, e'I vituperare. Ciafcheduno medefimamente di
quelli generi attribuire a (c,Se quali s vio furpa vna fina propria differentia
di tempo, pcrcioche a colui, che con ligi ia pare, che s'accommodi il
tempo futuro ; (olendo delle cofe, che Sconvenire configliar coli quello,
ch'eforta, Se 1 1 ("uade, come quello, che diftoglie, Se
chedifliiadc. A colui poi, che nel giudicial genere ha da parlare, par
ch'appartenga,& s'adatti il tempo già pallato: po:uache lecofegiàfattte
riguarda1 1 no Tempre coloro,ch accufano,o che difendono. Al gcner finalmente
dimoitratiuo,appropriatifilrao più di tutti gli altri tempie il prefente, come
che per il più coloro, che lodano, o biafmano habbian dinanzi per oggetto
quelle cofe, che di prelcnrc 1 3 fi truouano nella cola lodata, o
vituperata, quantunque fpeflè volte accalchi, che li tocchili le cofe
pallate, mentre eh a memoria fi riducono, et le future ancora, in far prefagio,
8c con»4 icmira d'elfo. Parimente a ciafeun de i detti generi vienadeffer
appropriato diuerfo, et diftinto fine ; et eflèndo elfi tre, tre 15
conlcgucntcmene fon'ancor i lor fini. Colui, chcconfiglia ha per fine
l'vtilc, e'1 danno: conciofiacofa che chi fuade riguardi Tempre come cofa
vtilc la cofa, ch'egli fuade, de chi la dilluade 16 per il contrario come
cola dannolà ladiHuada. et tutte 1 altre cofe^che in configliar s adduce
no, com'a dir' il ginftos Tingi ufto, l'honefto, el biafmeuole, fon prefe, et confiderete,
come ch/alle dette due cole, cioè al danno, et all'vtile fi riferivano. 17
Color poi, li eguali litigando ingiuditio contendono, han per lor fine il
gfufto,& l ijigi ulto: et tutte 1 altre cofe, di cui acca18 fchi loro di
feruirfi, a quelle indiizzano, 6V referifeono. A color fi nal mente, che nel
gencr ctiuioftratiuo lodano, o biafmano, lìà ptopofto per fine l'honcfto, el
bruito, ouer dishonefto: et a quelle due cole, qual li voglia altra cola,
ch'occorra loro di r toccare, o di riguardare, tien rifpetto, et riferimento.
Et ch'a ciafehedun de 1 detti generi lia appropriato, et accomodato
il fuo già detto fine, a quefto, com a chiaro legno fi può conofeerc, che
di tutte 1 altre cofe fuor che de i detti fini, accade alle voi 10 tedi
non contendere, Se non contrariare, co m a dir (percfiempio) che colui, che
dice in giuditio la caufa ina, non opponine contenderà alle volte di non
haucr coiti m elio il fatto imputatogli dali'auuerfario, et di non hauer
nociuto,o recato danno, ma d hauer egli ingiuraro, o ratto mgiuftamente,
non confetterà egli mai: pofeiache fe quello con f diàrie harebbe fine la
controri ucrfia, et diuenebbe contra di lui chiara la caufa. Medefimamente
quelli, che danno con la lor'orarion configlio, l'altre cofe Ipellc volte
lalcieran palliar per vere, nè s'opporrano, o cc>t [adiranno, ma che
dannofefien le cofe, che con figliando fuadono, o che vtili, et profitteuoh
ficn quelle, che dilluadono, non confeiTcranno,nè concederan già mai: ma
fe come cofa ingiunca shabbi a {limare il cercar di ìoggiogarc, Se ridurre in
feruitio i popoli vicini, dai quali non lì iìa ncenuto ingiuria, di zi
quefto, o d'altre fimil cofe fpeile volte non terran cura. Pariméte coloro, che
con la lor orationc lodano, o biafmano, non tengon conto,nc hanno in
confideratione fe colui, di cui ragionano» habbia con le Aie attioni
procacciato a fe vtilc, o danno: ari* ziipcllè Jl Tr imo libro. 2t foclTc
volte attribuifcono altrui a lode l'hauerpofooilo fall proprio, et tenuto
in poco conto cofa, che gli hauene potuto •,
rcJr^rilità.pcrfarqualch'opcrationehonefta. come (perei, fero Pio) lodano
Achille, che quantunque molto ben i lapelìc, che vendicando la morte
deliamico fuo Patroclo, fuffe perfoprauanzar poco in vita, non-s attenne per
quello di farlo: eiFendo nondimeno in fua potcftà di poter viuer più
lungamente non lo facendo, ne è dubio, chad elio il morir per li
honorata caeione, non fuilècofa fecondo l'honeftoj&i viuer
farebbe 14 ftato fecondo 1 vtilc. Può dunque per le cofe, che fi
fondette, apparir manifclto dfcr cofa necclfaria l hauere, ci poileder
primieramente propofitioni accommodate a i tre generi, et a i lor zc
trenni,chedemhauiamo:ncaltro fono le retoriche propolitioni, che temili),
vcrifimili.&fcgni. Le quali propofitioni fa di meftieri (com ho detto)
d. procacciare: peròche componendoli vnuicrfalmente ogni fillogifmo di
propofitiom.l enthtmcma, confegucntemcntceiTendo ancor egli lillogifmo, farà
copofto dipropofitioni,lequali han da elTer quelle, che pur ho16 iahauiam
dette. Et perche fatte efTcr mai, ouero habiU a farfi non polion cflTer
quelle cofe, ch'impoflibili al tutto fono, ma folamcnte può atuienir
quefto delle polTibilt: ne parimente può elTer'in alcun modo, che fieno
ftatc fatte quelle cofe, che non fono ftatc mai, o c'habbian da farfi
quelle, che mai non faranno, fa per quella cagion di meftieri, che colui, che
congna, et quel, che>n giudicio parla, Se quel finalmentcch il gencr
dimoftratiuo clfcrcita > habbian tutti,& pollcpino propofitioni, che
riguardino il poftìbile, et Timpofiibile ; 1 edere faro,, ci non efTere
ftato > Se 1 haucr ad elfere, e 1 non hauer ad eflcre. 17 Appreiro di
queftovperche tutti coloro,i i quali o lodano,o biatmano, o fuadono, o
difluadono, o accufano,o difendono ; nonfolo tentano, et fan forza di prouare,
Se moftrar le cofe già da noi dette di fopra,ma tcntanancor oltra ciò di
prouare,& moftrar, che grande, o piccola fia la cofa, che moftrar vogliono, com
adir l'vtile, o 1 danno, 1 honcfto,o 1 btafimeuolc, il
g.ufto, oWneiufto,& quefto cercan di fare, non folo confidiate
per loro ftclfe le cofeairolutamcntc, ma ancor ponendole in comX S paranon
l'vna dcll'altra,nc fegue per manifefto da tu tto quefto, che faccia di
bifogno haucr procacciate ptopofitioni della grandezza, et della piccolezza, et
della maggiore, et minor grandezza: et ciò nonfolo con fiderà te tai quantità
in vniucriale, cioè in fé iteife, et non applicate a materia alcuna, ma
ancorap* plicate aciafcheduna delle qualità già dette di fopra: com
a dir qualità maggior', o minoratile, et bene, qual fia maggiore, o
minor ingiù ria, qual cofa con maggiore, o con minor ragioa$ ne, Se giù fiuti a
fatta, c'1 iìmil difcorrendo nell'altre cofcDi quai cofe faccia adunque di
ne ce flit à meftieri di procacciare, et ha30 ucrpropofirioni, hauiam fin qui
detto abailanza. et hauendo fatto quello, faràben'hora,che
ciòfepararamente in ciafehedun 31 de i detti generi fi diftingua, et sallegni:
com'a dir alìegnando prima quai cofe habbian da contenerfi nelle confultatìoni, Se
quindi quali nell orationi dimonltratiue j& finalmente nel terzo luogo
quali in quelle de i giuditij, Se del gener giudiciale. Quai cofe
principalmente cadano fitto la deliberazione^;, et conjidtatione dell 'huomo: ^
di quat cofi fi figlia per il pm trattare ne i pub liei gouerni, et configli communi
delle Citta. Ri mi e r amente adunque dobbiam vedere intorno a qual forte di
beni, o di mali cerchili coloro, che confultano, di prendere, Se di dar
conlìglio. conciofiacofa che non in tutte le cole, che fon buone, o ree
polla 1 human configlio hauer luogo* ma fola mente in torno a quelle, che
fondabili inlorna» tura a poter eflèr, © non clfcre, ouer'a poter farli, o
non farfi. quell'altre cofe poi, le quali di ncceiìità fono, o faranno,
oucr* impoflìbil cofa è, che le fieno, o c habbian' adelfcr mai,
così fatte cole fotto configlio cader non polTono. Ma ne anche
cader vi pollbn tutte quelle, eh clfendo di natura contingenti, elFer* et non
clFer polFono: polciache tra coli fatti contingenti beni, alcuni dalla
natura, et alcunidalla fortuna vengono: intorno a i quali, quantunque
polFan'auuenire, Se non auuenire, vana nondimeno, Cv fenza bifogno, o
giouamento alcuno farebbe ogni Jl Primo libro. £ 2 3 3 ogni
confultationc. faràmanifcrto per quello adunque, chele cole, nelle quali
polla haucr luogo il conlìglio,faran iurte quelle, che fon'inlor natura, acre a
depender dal volere, et dal poter nolrro,& di cui la caufa, c i principio
di farli, o non farli, ila 4 porto in noi lleili, et nel nortro arbitrio.
Et che ciò fia il vero, noi vediamo, che nei prender conlìglio d'alcuna
cola, tinto oltra a punto andiam con la confiderationc, et col dilcorlo
prò' cedendo, fin che trouiamo, Se conosciamo fcanoi Ila polli bij le,
ouer'impotiibile il farla. Hor l'a (legnar' efquilìramentc, &c porre
in numero tutte particolarmente Iccofe, dellequali Cogliam configliarci, et formar
le noltreopcrationi, et il diuiderle didimamente nelle (licci e loro, et di
quelle fecondo Tefatta veritàloro, quanto poiiìbil da trattare, et determinare,
nónppanien di far'in quello prefente luogo: non attenendo il far quello
alla prefente arte della retorica ? ma a facultà più nobile, &acui
s'appartenga piùalviuo in ciò riguardare, et ponC d crarc il vero. Se nòdi meno
fiarn molto più noi per concedere al prefenteaquert'artc di quel, che
ricercante fpeculationi, che 7 fon fue proprie, peròchc vero fi dee rti
mare eflTer quello,chcgià di fopra hauiam detto, cioè che la retorica fia
in vn certo modo comporta della Icientia. refolutiua apparrencnreal
filIogilmo,&: 8 di quella facultà ciuile, eh intorno a i cortumi è
porta: Se parte parimente conuicnc con l'argomentationi dialettiche, ce parte
con le (bfiftiche, dando eli a luogo fi come a i veri argometi, 5 cofi
àgli apparai ancora. Onde s'aTcun farà,che o la Dialettica, o quell'arte
del dire tentarà d'cfplicare, et trattare, non come facultà comuni, ma
come efatte feien rie; egli mentre che farà q u erto, verrà quali non
s'accorgendo a corrompere, cV a ror via la natura d'eile,trapairando con
cfquifiramenre trattarne,i proprij lor confini, Se enrrado dentro a quelli
delle feicntie, chabbian per lor foggetti cole in lor natura determinate, Se
non foIamcnte ragioni, et modi d'argomentare, com hanno querte. Có tutto
quefto, noi tutte quelle cole, che pollonoeiler vtili,&: recar lume al
prefente propqfito noftro, non lalcicremo di préderc di diftinguerc, et di
trattare: lafciando nondimeno la più efqutlita lor confideratione, alla Ci
mie fcientia, di cui fon pro11 prie. Dico adunque che cinque in numero li
truouan cflèr quafi tutte le cole più importanti, cV più principali,
dellequali foglion perii piùconfukare torti quelli, che trattati
concioni, Se configli public!. et quelle fono l'entrate, et foftantie
publiche, la guerra, Se la pace, la fecurezza, Se guardia del paefe,
Se del territorio, il veder quai cofe per labboncrantia, et commodo della
citta, s'habbian da far venir d'altronde, Se quali s'habbian da portar fuora,
&da mandar'alrroue, et finalmente il for mar leggi, Se ftaniti,
fecondo, chc'l bifogno, et l'occalion ricer. li ca. Per laqual-cofa colui
primieramente, c'ha da poter ben có(igliar'in torno all'entrate, et foftantie
publiche, fa di me m eri, che molto buona notitia habbia di tutte
l'entrate, Se rendite della Città, di che qualità fieno, quante le fieno,
Se quanto importino: accioches'alcune ve ne mancalTer, ch/ellcr
nódimen vjpotcflero, vis'aggiungan di nuouo, et fe d'alcune fi
cauafle manco frutto di quel, che cattar fe ne poteiTe, fi polla accrefeei
$ re, Se augumentare. Oltra di quello gli fa bifogno di molto ben fapere
tutte l'vfcite, et fpefe della Città, acciòche s'alcuna ve ne fuife
dauanzo, Se fenza bifogno fatta, fi tolga via: Se s'alcuna ve ne fuire
maggior di quello, clic ragtoncuol mente lapotreb14 beerTcre, fi corregga, Se
fi diminuifea. pcrciòche non folo po£ fon diuenfr più ricchi,& più
opulenti gli huomini con 1 aggi u* gner femprc nuoue ricchezze, Se nuoue
entrate a quelle, che fi pofTeggono j ma ancor con riftringer le
fpefe,& tor via,o dimi1 j nuir l'vfcite. Se all'in ftrutione, et peritia di
tutto quello, non folo è vtilela notitia, che con la pratica, et con
l'efperientia s' habbia delle cofe della Città propria, Se del proprio
itato, ma fà dibifogno ancora a poter ben cófigliar'intorno a quel,
c'habbiam detto delle rendite, Se foftantie publiche,l'hauer col mezzo
dellhiftoria, piena cognitionc di quello, che d'intorno a tal 1 6 materia
habbian'altrc città vfatc, o vlìno. Della guerra poi, Se della pace colui,
c'harà da etìer'habile, a poter bendar configlio, fa di meftier, c'habbia buona
cognition delle forze,& miìitic della Città, quante le fieno al prefenre,
Se quante bifognado fuffer per poter* edere: -óedi che forte, Se qualità ficn
quelle, che ordinariamente parate fi tniouano alhor in pronto, Se di che
forte, Se qualità parimente potellero eiler quelle, chebi17 fognando vi
s'aggiugnelfero. E necelfario olrraciòdi faper turte le guerre, c'habbia farro
per l addietro quella Cirri, Se in ^ual maniera, Se con che forze, Se con
quai fuccefli li fica trattate. Jfl Primo libro. ? 2 j 1 8 tate. Se
non fol quelle della propria città, ma vtil'c ancora l'hauet notitia di quelle,
c han fatto l'altre potentie, Se città conuicine, Se quelle città fpetial
mente, con le quali iì polla più con-, o ftimardi porerageuolmentc hauer'vn
giorno guerra: accioche mediante quella notitia li polla, ponderate ben
le forze proprie, Se l'altrui, cercar di ftar in pace con le Città
piti potenti, Se perii contrario con le men potenti potiam cono/cere di
poter' a voglia nolìra confidentemente pigliar guerra, Ce 19 voglia ce ne
vcga,o occafion ci lì porga. Se a quello giona ancora il conofeer Ce le forze,
copi e, Se militie proprie,& l'altrui lieti tràdi lor limili,
ouerdillimili: pofeiachein quelli parte ancora polTòn con la dinerfa lor
qualità importar' aliai afarnediucao nir luperiori, o inferior ncll'eiito delle
guerre. Medciimaméte è n ecellàrio oltra ledette cole, il porli dinanzi a gli
occhi, non felo i maneggi, e i fucccllì delle guerre, c'han fatto la
città propria, et l'altre cirtà conuicine, ma di quelle ancora, e
han fatto altri popoli, Se altre nation lontane: pofeiache dalle
cole limili, foglion per natura ordinariamente vcnire,& nafecre anz 1
cora i fuccelTì, Se gli effetti limili. Quanto poi alla culìodia,
Se fecurezza della Città, Se del territorio, Se paefe fuo ; non ha
in modo alcuno a colui, ch'intorno a quello ha da con figliare,
da ellcr nafcoflo in qual guifa habbia daeflér potuto fecurarfì,
Se guardarli ogni parte di quello flato, Se di quel -dominio, conolcendo
molto bene, chequantità, Se numer di guardia faccia di bifogno, &di
che forre, et qualità più in quella, che in quella parte ; Se quai terre,
Se liti di luoghi fi debbian'clegger per forti, Se habbian per confeguenteda
ellcr tenuti, muniti, Se guarii dati. La qual cognitionc non porrà chi
configlia in alcun modo ha nere, fenon làià molto ben J cfperto, Se
pratico per ogni parte del fuo territorio et del Ino paefe cacciò che hauendo
dai £ioi occhi ftefli di ciò notitia-, li conofee, che n qualche
luogo iia minor copia di munitione, o di gente a guardia di
quello, che vi taccia di bifogno, polla dar configlio che vi s'accrefea
; Se per il contrario fi tolga via da qualch'altro luogo quella,
che dauanzo, Se inutil vi lòprabbondi, per poter conellà fupplir douc
lìa più neceilaria, in maniera ch'i luoghi più importanti, Se più
opportuni habbian con maggior fecurezza da faluarfi,& 13 dacuAodirfi.
Quanto appartxcn poi alla grandezza, Se abbonD dantia 2 6 Delia Tigtorica.
d Aristotele datiti* di quello, ch'ai vitto, Se foftentamento dell'humana
vi• ta faccia di bi fogno, donerà colui, c'ha da dar'intornoa ciò co• figlio,
molto ben fapere il logro, e'I bifogno di ciafeheduna cola, et quanto fia per
con fu mar rntta la città, Se quanto afofH24 cientia badar le polla, et quali
delle cole a. quello necellarienafeono, Se procacciar lì pollono nel proprio
terreno, et dominio d'ella j et quali per il contrario non vi fi trouando,
bifogni, che xj d'altronde vengano, di maniera chcbenfippia egli
fupputare, Se conofeer, non foloquai forti di merci, Se quate, come
ch'alia città foprabbondanti,s'habbian da lafciar cauar fuoradel dominio, Se
portare altroue: Se quai per il cótrario faccia di mefticri di procuracene
d'altronde lìen procacciate et portare détro. ma ancora a qual parte, ouer' a
qual luogo s'habbian da mandar le cofe, ch'auanzano, et da qual parte
s'habbian da 16 procacciar quelle, che mancano: accioche fapendo quefto
fi cerchi di tener con buone conuentioni, Se capitulationi
con quelli, che fon (ignori, et padroni di quelle parti, buona con27
cordia, Se amicitia infiemc. pcrcioche due forti (penalmente di genti ha
da guardar' vna città di non irritar có ingiurie, Ardi non prouocarfi con
orTeic incontra, cioè quelle, che fon più po tenti, Se più gagliarde di
lei, Se quelle, chepercagion del commertio, in così fatti trafportamenti, et conduciinenti
di merci, 18 le pollon' ellcr' vtili. Hor tutre le cofe, c'habbiam
raccótare fin qui, fon per la conferuationc, &: ben'efìcr della città,
neceflarie d'etler fapute da colui, eh a benefirio della ha da
configliare, manó punto maco gli fa dibifogno d'eller inftrutto, Se
ben'intelligcnte in quella, che retta del formare, Se propor leggi,
Se ftacuti: pofciache nelle ftclìe leggi ftà collocata principalmcn257 re
la fecura faluczza delle città. Perlaqual cofa cfommamente necellàrio
d'haucr cognirion di quante fpetie di Republiche, Se ciuiligouerni, fi
rirruouino, Se quai cofe a ciafeheduna fpetie poilan'efTer'vrili ; Se quali
perii contrario eflcr poflan'atrea cftinguerla,diftruggcrla, Se farle
danno,o appropriate, Se fauo30 reuoli, o neinichc, et contrarie, cherai cole le
lìano.Et quefto, ch'io dico dell'erti nguerfi, Se corromperli vna
republica dalle 3 1 cofe, che le fon fàuorcuoli, Se appropriare, dico io,
perche tutre le fpetie, et forti di republiche, Scgouerni di città,
fuorché quella fpetie, eh e ottima, Se eccellerne lopra tutte l'altre,
poffon riceuer danno, Se corrottione, così per il troppo alien rarfi, Se
lafciarfi vfcir fuoradeilor proprij termini, com'ancor per 31 troppo
reftringerfi, et ritirarfi dentro di quelli, come (per effcrapio) adiuiene, che
lo ftato popolare, non Iblo quando troppo s'allenta, vien'a indebolire, et a
perder della Tua forza, fino che finalmente nello ftato de i pochi fi
cóuerte. ma ancor quado troppo fi ftira, Se crefee, in fé ftclfo, gli adiuiene
il medeli33 mo. fi come fi vede auuenire dclnafo aquilino, Se del
(imo, cioè dell'incornato, Se dello fchiacciato. peròche non folo
con allentare, et partirfi da quella coruità,o da quella forma Ghiacciata,
vengon'a corromperli cosi fatte figure, et forme, andando verfol mezo,~come
verfo'l lor contrario, cioè verfo la drittezza, Se profilatura, ma ancora fe
troppo fi ftirailèro,&: li ftendefiero, Se Ci hcefCc crefcerela propria
figura loro, cioèfe troppo andaflc il nafo facendofi, o aquilino, o fimo, o
vogliam dire o corno, o fchiacciato, verreber tanto a corromperfi auella
fteffacoruità, Se fimità, che non folo ne aquilino, ne fimo fi potrebbe più
(limare il nafo 5 ma ne anche forma ili nafo vi refta34 rebbe. Per quel,
chnpparrien dunque alle leggi, o ftaniti, che sliabbian di nuouo
occorrendo a formare, o proporre, non Gaiamente ci lata vtile, il fapere, ci
confiderare, perlecofe, che fon'accadute, et liiccefte nei tempi addietro
alla noftra Città, quale fpetie di republica, de qual forte digouerno le fia
ftato più profitteuole, &e di maggior profperità,& maggior
faluezza. 35 mavtiliflìmo ancor farà 1 hauer informarione, et notitia d
altre ftraniere nationi, Se principati, et d'altre Città foreftierc, quai
forti, Se fpctiedi republiche, Se di gouerni, a quai forti di Città, di
popoli, Se di nationi, fiano fiate più proportionatc,cV: 3 G per
confeguente più profpcre, et più durabili. Onde efier può manifcfto,
clicgrand vtilità a così fatta peritia di formare, Se di propor leggi
pollòn recar le peregrinationi,e i viaggicene fi fanno in cercar nuoui, Se
lontani paefi: pofeiache nel far qucfto fi fjollonoauuertire, oficruare,
Se imparar varie vfanze, coftumi, eggi, Se ftatuti di diuerfe genti, Se
nationi, da poterfene accomodar poi fecondo le occafioni, a vtile, Se beneficio
della pro37 pria republica. Puòmedefimamcnte (eruire, Se recar gióuamcto alle
publiche ciuili cófultationi la cognitione, Se lcnion dell'In ftorie di coloro,
channo nei lor libri tenuro memoria delD ij lanci^ lantiquità, òv'lafciato
ferini i fotti, Se lardoni degl'hiromini. 38 Ma di tutte quefte cofe
lauuerti re, Se difeorrer minutamente, eoffitio, Se opera della ciuil
morale Scienria,& non della facultà retorica. Tante dunque, quante fin qui
habbiam yedure, Se non piò, fon lecofe, Se li capi più importanti, et pio
principali, liquali fidi bifojgnohauer per noti, et làpuri a colui, c ha
da 40 poter ben dar conlìglio nelle conful te nubliche. feguita
hora, che noi di damo da quaicofe faccia di bi fogno di prender maicria
d'argomentare, o in fuadere,o in difluadere, con" intorno ai già
detti capi, com'in torno ad altre cole, che ven i fin deli* berationc, Se
confulta pofTono. (apo f. "Dell'ultimo, vniuerfalifiimo
fine dell' aftiont^ conjultaf ioni humane, che è la. felicita
dell'huomo: delle parti di quella. 1 N ogni attion (fi può dir) dell' rinomo»
cofi a eia* fchedun priuatamcntcóc particolarmente,
come conimnncmcntc a tutti, Ila propoito tempre dinanzi vno (topo, Se Tn
fine, alquale in tu rie le cofe, chefeguono, o fchiuano gli huomini
tengon volto, e indrizzato l'animo, et 1 occhio dcll'intention
loro. 1 &quefto none altro (per parlar così in genere) fc non la
felici3 tà, Se le parti di quella. La onde (ara ben fatto, che
veggiamo per modo più torto d'effètti pio» che di methodo, et via
dottrinale, d'efplicare, Se di poi lede re, checofa fia, invn certo modo
grolfamenre, Se non cfqnilìtamcnte parlando, la felicità, et 4 quai cofe
contengano le parti lue. concio! iacofa che intorno ad ella, Se a quelle
cofe, eh ad eflà guidare, Se condur ne poffòno, Se intorno parimente a i
contrari) loro, confinano, Se f\ rauuolgano tutte le fuafioni, et le
dilfuafioni, che qual fi voglia huomo faccia, pofeiache quelle cofe folamcnte
opera, cerca, Se abbraccia l huomo, lequali procacciar gli poilono 1 intiera
felicità, o alcune parti almen di quella, o che di minori glielepoflono
accrcfcere, Se far maggiori» et perii contrario quelle fola» mente fchiua,
abhorrifce,& fugge a operare, le quali fono atte a impedire, et corromperemo^
far minori la detta felicità, et le parti Jl Primo libro. 29 f le
parti Tue, Se a riuolgcrlc finalmente ne i lor contrari). Intendali adunque
deferitta, oucr diffinita per hora la felicità con dire, ch'ella non fia altro,
ch'vn profper fucceilb delle attioni hu6 inane,congiunto cól nonetto della
virtù: ouer che la. fia vn abbondantia, o vogliam dir'vn poiTetto, per fe
(letto totalmente 7 baftante alla vita humana: o veramente vna vita
diletteuoliflì8 ma, Se piena di fccu rezza: oucr diciamo, ch'ella non
confida in altro, che n vn buon' elferc, Se in vn buono (tato, così
delle poifeflìoni, Se foftantie noftre, come de i.corpi noftri, con
etter noi habili, Se potenti alla conferuatione, al crefcimento, &al£
lWfo loro. Queftc adunque pottbno etter per hora quelle cofe, nelle quali
confitte la deferittion della felicità: pofeiache o vna fola dette, opiu
congiunte in fieme, confettano, &ftimano cólo munementc quafi tutti
glihuomini, douer'etter la felicità, cffendo adunque la felicità, qual'hauiam
detto, verran necettariamente ad etter leparti fuc la nobiltà, Tamicitia, et la
grafia di molti jl haucr'vtili,& buoni amici, le ricchezze, la buona,
et numcrofa prole, la vecchiezza commoda, tarda, Se facile, et oltra ciò le ben
difpofte qualità, Se virtù della pedona, come fono la fànità,la bellezza,
la gagliardia, la grandezza del corpo, le forze habili, Se
accommodateadogni forte di pugna, Se ettcrcitation corporale, appretto di
quefto ancora la buona fama, Se buona reputatione, l'ctter'apprezzato, Se
honorato, la buona fortuna, la virtù, Se le parti, ouero fperie d ella,
cioè 1 1 la prudentia, la fortezza, la temperanza, Se la giuftitia. 1 m
perei oche etièn do al hora Ih uomo baftantiflìmo a femcdcfimo, quando e»
pottìede i beni così interiori, come gli citeriori, pofeiache altri beni, fuora
di quefte due forti non fi ritruouano, interiori sbanda (limar' etter quei
dell'animo,& quei del corpo, poliamo commodamente vfare, Se
ellerctare corpi, &1. membri, 6 noftri,n tutti quelli oftirij, c ha la
natura aftegnat, >«^P^« ' molti fi ttuouano, che fonin vn cetto modo
fan., no hauendo Jl Primo libro. 3 3 infirmiti, clic gli moledi, fi
come fi dice, che fi trouaoaHcro-' dico: et nondimeno niun'c, che
ragioneuolmentegli poteflc (limar, per quel, eh 'appartienila fanita,
felici: facendo lorbifogno d adenerfi per conferuation di-quella, da tutte le
corporali opcrationi, et dilettationi, o dalla maggior parte. La bellezza poi,
laqual'c vn'alrra virtù, et buona qualità del corpo» non è vna (leda in
ciafeuna età dell'huomo, ma diuerfa in diuerfe età. percioche la bellezza ne i
gioueni s'ha da (limar, che fia polla inhaucr'il corpo habile, accommodato
6c vtile à loftener lefatighc; et fpetialmenre quelle, doue fadibifogno
il corlo, et l'altre edèrcirationi, die ricercan forza; con
hauer'in. uolto vna cerca fiorirà dolcezza, ch'attragga glianimi altrui,
6c caufi in edì godimento, 6c dilettatone, et per quello i Pentathii (cioè
habilia tutte cinque le maniere di eilcrcitationt corporali) fon
communementc ili mari bellifimii, come quelli* ch'a tar'aluui violenti*,
ik forza, et infiememente alla velocità, nubili, et atri fona. Ma in coloro,
che tornici Li già matura età virile, confittela bellezza in hauer la
pcrlòna atta,& potente a poter ben fupportarlc fatighc della guerra,
&:gli incommodi della militia: con hauer nel volto vna certa
apparente giocondità, congiunta con vn non so che di terribile, et di
fcuero. Nei vecchi poi finalmente fi può (limar ritrouarfi bellezza ogni volta,
che tanto di forze fia rimado nei corpi loro, che glicoli* render badanti
a comportare, &fodener le fingile, che uccella ri amen te fuo! portarla
vita: con modrar nel volto vna certa più todo lieta che amara grauità,
priua di raoledia, quali eh indino fia del non tremarli in e(Tì quelle corporali
imperfettioni, &ende, come quali comporta d'enee ; che fono la grandezza
dcl» per fona, lagaehardia, et la velocità: potendoli dir veramente gagliardo
quello, che di celerità, Se preftezza corporea è do44 tato. pcrcioche colui che
fi truoua ben'atto a potcrin vn certo modo quali fcagliar le gambe, Se
muouerle con celerità alla lunga a quiftando fpatio, fi può domandar
corridore, oucr'attoal corlo: lì comelottator li domanda quello, che può
nella lotta bene (tri nger', Se ben 'afferrare, et faldo tenere. et buon giocatore,
Se contenditor di pugna quell'altro, che in percuotere, Se fpinger chi gli flà
incontra preualc. ma chi inficinemente nella lotta, et nella contefa delle
pugna habil fi truoua, Pancratialtico fi domanda: et Pcntathlio li chiama
quello, che 45 in tutte le forti di cofi fatti giuochi, et contefe eccede.
La buona vecchiezza fi dee diveller quando ella e tarda a venire,
Se fenz'incommodo, et moleftia viene, percioche s'ella tolto
ne alTale, ouer fc tardi venendo moleftie, dolori, Se trauagli
reca; 46 buona vecchiezza non la Itimarcm giamai. Onde
all'cflcntia della buona vecchiezza fon nccclfane alcune buone qualità
dei 47 corpo, che già raccontate riabbiamo, conciofia cofa che colui, che
non farà libero da infirmità, et non harà quella robulìezza, che quell'età
può comportare, non potrà ftar fenza continue moleftie, Se dolori, et lenz'aftli
trioni della nerfona fua; ne farà capace di lunga vira. Se mancandogli dei
fuoi beni la fortuna, 48 non potrà con profferirà conferuarii. Et bene in
verità fi truoua altra ragione, et via da poter più lungamente viuerc,
fenza che l'huom fia robufto, Se fano: pofeia che molti fono, che viuon
lunghiflìma vita, quantunque priui fieno di cofi fatte virtù corporee, ma cofi
cfquifitedifpute, et minate confiderationi non pofion'al prefen te recar punto
al noftro propofito d'v49 tile, o di giovamento. L'hauer'amicitia di molti, et buon
amici, che cofa importi, ageuolraente non ci farà nafeofto fe
noi difEnicndo Jl Primo libro. jj diffinicndo che cofa fia
amico, conofeeremo che l'amico, di cui $o intendiamo al prefente, s'habbia
da inrcnder'elTer colui, donale tutto quello, ch'ei penfa potere efTer bene a
chi egli ama, tutto cercadi fareper fola cagion di quello. Colui
dunque, c harà molti di quelli tali,fi potrà di r, clic ei pofTegga quella
par te della felicità, che copia d'amici (ì chiama. Se fc quelli tali
faranno huomini virtuofi, honorati, SC da bene, colui che gli harà per amici,
harà parimente qucll altra parte di felicità, che 51 copia di buoni amici
fi domanda. La prolpera fortuna s'intende cller quando a uci beni, de iquali
luolc-ller padrona, &càgion la fortuna, Ci confeguifeono, Se duran di
pollederfi, o tutti, o la maggior parte, o almen quelli, che fon più
importanti, 51 et di maggior momento. Cagion è la fortuna alle volte
d'alcune di quelle cofe, delle eguali può eller'ancor cagione, Se principio
l'arte, ma per il più cagione è di quelle, che dall'arte non pollon
nafcerc;come fon quelle, che dalla natura ordinariamente vengono, ma
pollbn'ancofalie volte riufeir fuor dell'or» din d'ella, come (per
clìcmpio) fuol della finità eflTer cagione l'arte,& della grandezza,
Se bellezza del corpo cagion fuol'cfTcr la natura ; Se d ambedue quelle
cofe, cagion vediam'efleralle 55 volte la fortuna. Ma communementc quella
forte di beni per il più fuol dependere, Se hauer'origin dalla fortuna,
intorno a i 54 quali fuole eccitarfi inuidia. Parimente alla fortuna, come
eh 'a lor cagione s'attribuifeon quelle forti di beni, liquali par,
che 55 fuor di ragione, Se fenza cagione accafehino. come (aria
(per elicili pio, le di più fratelli, tutti gli altri ellcndo eccelli
uamente }6 brutti, vn fol tra eflì fulle dotato di bellezza: ouero, fe
non cflendo flato da molti trouato vn theforo, che cercato haueiTe57 ro,
vn fufle, che fenza cercarlo lo ritroualTe: o veramente fé vn dardo andàdo
a ferire, et percuoter chi pili lontan gli fulle ; haueile nel palTar
lafciato chi gli era più vicino, fenza toccarlo j8 punto. ouerfe venendo
alcuni la prima volta in qualche luogo, doue non fien foliti mai di venire,
fieno a punto arriuati in hora, che ila occorfo lor di riceucrui o morte,
o qualche fegnalato danno; Se vn'altro, ilqual fulle foliro di frequetafad
ogni hor quel luogo, non vi fia nondimen venuto in quel tempo, Se per
confeguente habbia fchiuato quel pericolo, Se quel nocumento. Tutti quelli
adunque, Se altri coli fatti cali, Se acciden£ i) tali (campi, polio n parere,
che buone f ortune fianb, cV da pf o5P (pera fortuna vengano. Reftarebber tra
le già propolle parti della felicità da dichiarare, Se deferiuerii le
virtù dell'animo: ma perche il far quello par, c'habbia piò proprio, et più
accò-. mo dato luoco nel trattar delle lodi; differì remo, et riferheresuo
1 allegrar le lor deferi trioni, quando più di fotto del gcncr> che le
lodi riguarda, ragioneremo. (apo 6. Del fine del gener deliberatine r$
con la defirittron dell'elle, ouer del bene: fcf de i luoghi, et propofittoni
appartenenti a quello. V a i fien dunque quellecofc, c'han daelTcr come
lini dinanzi a gli occhi, di coloro, che cercan consigliando fuadcr
qualche cofa, così pulente, come futura, già può per quel, che fi è detto
elfcr manifefto, et parimente qualicofe habbian'eglin da guardare per
diHuadere,comc ch'altre quelle non f uno che i le córrane di quelle. Hor
perche al gener deliberatiuo ita prò» polio, fecondo c'hauiam detto, come
proprio, &: peculiar Aioli ne, 1 vtili u, non delibera, o prende conilglio
1 huomogiàmai del hne, ma delle coff* che fon perii fine, et chepolTon'a
quel condurre ; Se quelle fon tutte quelle cole, che nelle attioni del*
l'huorao pollòno v r ìli:à recare ; ne fegue da quello, ch'effendo l'vrilc
parimente bene, non (ara fc non ragioncuolmente fatto; ch'aflegniamo
clementi, Se propoiìtioni. appropriate al bene, 4 &aU'viil
communemente prelo. Poniamo adunque, deferiucdo per hora il bene, ch'egli fia
quella cola, laquale per cagion j difeitclfa lìa dicibile: ouer ch'egli
lìa qucllo,pcr cagion del o quale altre cofe eleggiamo, potiamdiie ancora,
ch'ei lìa quello, che da tutte le cole èdefiderato, o da tutte almen
quelle, c'han lenti mento, oucr'intellerto,o chclodefidcrarebbcr fe
intelletto haijelTcro et ulna ciò tutte quelle cofe, cha chi Ilvoglia, il
proprio intelletto, et difcorfo nlfegnallè per buone, Se quelle parimente,
ch'intorno acìjfchcduna cofa follerdalui per tali in chi fi voglia
inoltrate, fi poflbn rifpetto a quel tale 7 ihmaf in luogo di beni.
Potiamo con altre delcritrioni medefi inamente due efler quello il bene., il
qual con la fua prefentia fa diuenir Jl Primo librò. 37 fa
diuenir la cofa, do u e ci fi truona, fi fattamente ben corrditioS nata, che
d'altro per il Tuo bene clTcr non ha bilbgno. oucr finalmente diremo eflcr
quello il bene, che per fe Hello e baftan55 re alla perfettion della cofa, che
lopoilìede. Ellendo dunque tale il bene, qual noi l'habbiam deferitto,
debbiam dire, che tutte quelle cofe, che faranno produttrici, o
confcruatrici di quelle, e habbiam polle nell'alfe^natedcfcritcioni del
bene faio ran parimente beni, et quelle medefimamente, che confegui1 1 ranno ad
elTe. ne manco ancor quelle, che delle contrarie fono 1 1
impeditiue,odiltruggitrici. Et in due modi fi può mmar>ch'vna cofa legna ad
vn'altra,o feguitandola inficine con cira,o lue* cedendole doppo. come
(per esempio) diremo, che all'imparar legni ti il laper la cofa imparata) non
infieme ; ma doppo: de ali elìcr fano confegua, non doppo, ma
congiuntamente, et 1 3 infiememente il viuere. parimente in tre modi fi può
dir, ch'vna cofa fia prodottiua, et effettricc d'vrf altra: in vn modo nella
maniera, che noi diciamo, cheTefler ben difpofto del corpo, et di buona
valetudine, fia effettiuo della fanitài in vn'altro modo fecondo che diciamo li
tali, Se tai cibi cfler produttiui della medefima fanità. de in vn'altro
modo finalmente nella maniera, che diciamo efler i'cllcrcitio caufa ancorcgli
efrettiua d ella fanità: pofciachcpcr il piùreflcrcitation corporale luol
réiler'il 1 4 corpo fano. SuppoAc adùque per vere le deferittioni, et dilìmtioni
allignate, verran n eccita riamen te a potere {limarli beni* così gli acquilti,
et riceuimenti del bene, come le liberano* ni, et li difeacciamenti del
male: pofeiache a quelli feguita convintamente concili ilnonhauer male,
chi luogo di bene, 1 1 et a quelli feguita dopo, 1 hauer'il bene.
Medefimamente il nceucr'vn maggior bene in vece d vn minore, doucremo giudicar,
che fia bene, fi com'ancor dee chiamarli tale il riceuer'vn minor male in
luogo d vn maggiore, cóciofiacofa che tutta quella parte, nella quale il
maggior'auanza il minore, li polla in quello domandar acqui (lo, oucr
riceuiméto,& in quello per 1 6 il contrario liberatione,ouer
difcacciaméto.Le virtù ancora neceiiariarnente s'han da connumerar trai beni,
pofeiache mediami quelle, color, che le pofleggono, ben qualificati diuengono,
et ben alia perfettion difpolti. olirà eh elle fon di molti beni
produttrici, et operatrici, di ciafcuaa delle quali
particolarmente t j 8 T>eUa Teorica d % 'JriFtoteIc^ larmente
che cofa lafia, et che qualità, et natura Ha la Tua, ài 17 proprio fuo
luogo dichiareremo. La voluttà parimente, o piacer fenfual, che lo vogliam
chiamare, farà ancor ella bene, come quella,che da tutti gli animali è per
natura cercata, &ded18 dcrara. Laonde le cofcdiletteuoli, et le cofehonefte
verranno adedèrnecedariamentebeni. pcrcioche quelle fon
produttrici della voluttà, &c di quefte, alcune fon diletreuoli, et altre
dir 19 cibili per fc raedefimc. Et per venir* in quella afleenation
dei beni più al dipinto, de più al particolare, e di necedìtà, che belo ni
(limar fi debbiano quelle cole, che qui tratteremo. Et primamente la della
felicità, come quella, che per cagion di fc della è eligibile,& oltra
ciò a fé mcdelìma è badante ; S: di più, 11 molte cole eleggiamo per
cagion d'ella. Doppo quella,bcni ancor fono la giuftitia, la fortezza,la remperantia,
la magnanimità, la magni hcentia, et gli altri cofi fatti habiti, elTendo eMì
virai tu dell'animo. Medelimamente beni fono la fanità, la bellezza, òc
altre così fatte qualità, pofeiache virtù del corpo fono et ef1 3 feltrici et produttrici
di molti beni: c(Tendo (per ch'empio) la fanità produttrice della voluttà,
et dello (ledo viuere. Perlaq ual cofa ottima fuol parer'ella tra gli altri
beni : come quella, che di due cofe e cagione, le quali da molti fon'in
grandi Aimo pregio tenute, che ionia voluttà, et la vita. BeniTbn parimele
le ricchezze, cioè l'vfo loro, clfendo veramente elle nó altro, che virtù di
faperle vfare, et di fapcr edèrne polfedbre, et oltra ciò effetti uc,6v cagioni
di molti beni, et di molti còrnox$ di. L'amico ancora, et 1 amicitia fon beni :
edendo in vero l'amico eligibil per fe mcdefimo, et operatiuo, ouefcffettiuo
di molti beni. L'honor medefimamente, et la gloria fi deono conumerar tra
i beni, fi perche fon cole gioconde, 6c dilctteuoli, et che panorifcon'altrui
di molti beni, et fi ancora perche per il più par,chc confegua
congiuntamele ad eflì il poifeder quelle cofe, per le quali è fatto altrui
qucH'honore, et data quella gloria. Leder nel parlar efficace, et potente
di lingua, Se l'cfier'habile, c\ potete in trattar negotij,fon due cofe,che
dcon* ef fer collocate tra i beni : pofeiache di così fatta habilità
molti 18 beni, 6e molte comodità deriuano." Oltra di quefto
l'indudria, Se la bontà dell'ingegno, la tenacità della memoria, la
facilità d'imparare la perspicacia, Se velocità dell intelletto, Se
tutte l'altre Jl Primo libro. J 9 l'altre così fatte
difpofitioni, fon daeilere (limate neceflTirianiente beni : ell'end'crte
potenti mezzi a cagionare, et produr19 relacquifto di molti beni. Perla
medefìma, o limil ragion'an30 cora tintele feientie fon beni, et tutte le arti
parimente. Et il viuere ftelfo mcdeiimamentc è bene: pofeiache dato
bench'ai tro ben da elio non ne feguille, per (efteflb nondimcn è co
fa. 3 1 cligibile, et defidcrabile. Il giudo ancora, et l'equità faran
bc31 ni, perche comune, et publica vtilità n'apportano. Etquelti, chabbiam
fin qui allignati, fon, fi può dir, quei beni, che da tutti
concordeuolmente fon hauti, confeflì, et (limati per tali. $3 Quelli altri
poi, dei quali non s'hauendo la medelìma cómu* ncopinion,chc fien beni,
che foglion cader in cótrouerfia d'effcr', o non eilcr beni, fi pocrano come da
proprij luoghi, in comparation Tvn dell* altro. A perche fpeffe volre adiuicne,
che di due cofe, che ci fien propofteinnanzi,giudichercmo,&
cófcllcremo, cialchcduna ellèr vtilc, et bene, ma qual di quelle fia la
migliore, et di maggior gioitainen copercheremo, et dubiteremo j larà ben ratto
di seguitar di dir al preferire qualche cofa a rarconòfeere il %
maggior bene, e 1maggioratile. Prendafi adunque prieramete per cofa nota,
che la cola eccedente, ouer auanzante s'intenda clfcr quella, che fia
tanta,quata la cofa da ella ecced uta,& qualche cofa di più ;&
l'ecceduta per il contrario quella, che ilia 3 comprefa, Se inchiuianell
eccedente. Oltra di quello la cofa maggiore, in rifpetto d vna minore e
forza che fia maggiore, Se 4 il più parimente, in rifpetto del meno è
detto più. ma nel dir grande, 6c piccolo, fi com'ancor nel dir molto, Se
poco, il rifpetto fi confiderà di molte cofe; nelle quali quella,
ch'eccede l'altra fi dice eiTer grande, Se quella, ch e auanzata, Se
ecceduta fi dice eiTer piccola, Se il fimile adiuicn nel molto, Se nel po$ co.
Hauendo noi adunque già detto ciTerben quello, che non per cagion d altro,
che di fe ìleiìb è eligibile: et quello parimele, ilqual tutti appetifeono: et quello,
che tutte lecotè, c'haueller'intellctto, Se prudentia eleggerebbero: et quello
medefimamente, che de i già detti beni iìa effètti uo,&
conferimmo, olier a cui li già detti confeguono, Se vengon dietro: Se
elìendo che quello, per cagion delquale fi elegge qualch'altra cola, vicn'ad
eller, come fin di quella, per eller quello il fine, per cagion del quale fi
eleggono altre cofe: Se oltra ciò cflendo bene ad alcuno in particolare,
non fol quello, ch'alibi utamente contiene le già dette conditioni, maancor
quello, che, fenon allo6 lutamente, almen rifpetto aquel tale, lecótiene;
nefeguenecclTariamente da tutto quello, che prefi inficine più di così
ratti deferitti beni* importeran maggior bene, che fc vn folo
d'elfi, oin minor numero fodero, purché queit vno, et quelli di maco
numero, fian dentro a quei tai comprefi. perciò che in quella guifa, verranno
quiui più ad ecceder, come che dentro di lor coraprendan quelivno, oquei
manco, i quali confcgucnrc 7 vengono a re ftar' ecceduti. Diremo ancora,
che fe quella cofa, ch e grandilfima nel gencr fuo, farà maggiore di
quella, che fia grandi/lima in vn'altro genere, faranno ancor maggiori
vniuerialmcnte le cofe di quel genere, che di quello. et ali
incontra ancora, fe vniucrfalmctcle coied vn genere fon perii più maggiori
di quelle dvn altro genere, farà ancor la grandiflìma in quel genere,
maggior di quella,chegrandi(Iìma farà in quell'ai 8 tro.com' a dir(pcr
clTcmpio)che le il gràdillìmo di tutti gli huoF ij mini mini è maggior
della grandiflìma di tutte le donne ; s'ha da (limar ch'vniuerfalmente gli
rinomini fien per il più maggiori delle donne. et all'incontra Te gli
riuomini generalmente lon per il più maggiori delle Donne; vien parimente
ad elfcrc il grandiflìmo huomo, maggior della grandiflìma donna, conci
odacofh che con quella medefima proportione vengano a riguardarti tra di loro
gli eccedi tra gli ltefli generi, con laqual fi } riguardano i grandiuìmi
l'oggetti, che fono in quelli. Medcfimamente quàdo ad vno di due beni feguitarà
l'altro, et a quell'altro non feguitarà quelPvno,diremo che maggior lia quel
primo,ch'è feguitato,Cv fi tira dietro l'altro. Se ilfcguitard'vna colà ad
vn'al tra, fi può intendere, o perche la feguiti infamemente, cioè nel medefimo
tempo con clfa, o perche le venga dietro dapoi, oucr finalmente perche in
virtù, et in potentia fi truoui in quclla,per caufa, che l'vfo d'efla ftia
pofto in vinù ncll'vfo 11 di quella, a cui ella fegue. cV per aifegnar in
tutti quefti tre modi di confeguimento efiempi, diremo che infiememente, et in vno
fteifo tempo feguiti ali cller fano il viuere; ma non già diremo, ch'alia vita,
la finità confegm. Il fapere, et la feicntia diremo, che feguiti ali im para
re, non già infiememente con elio, ma col tempo poi. In virtù, 6c in
porentia finalmentedircnio, ch'ai (àcrilegio, ch'c furio di cofe fagrc,
feguiti il furto femplieemente prem. peroche colui, che non s'afticne da
commetter faci ilegio,ftà quanto a lui paratOjpotente, pronto, &difpofto a
furar 1 1 ancor le cofe,chenó fien (agre, fc Toccafion fegli porga.
Appreffo di quclto tra quelle cofe, ch'vna medefima cofa eccedono, quella
farà maggiore, che 1 eccede con maggioi'auanzo, ellcndo uccellano ch'ella in
tal calo 1 auanzi per quato trà gli eccedi 1 3 foprauanza il maggior
eccello, quelle cole ancor iaran maggior bcnijlcquali fono
cfifètciue,& prodottnei di maggior bene: peroche in qucfto con lìfte la
natura dcH'clIcrvna cofa effettiuadi 1 4 maggior bene, cioè in cfTcr
maggior bene. Et limilmcntc all'incontra a n cora, q u el la cofa farà maggior
bene, che farà prodotta da vn ben maggiore. Onde eflendo (pcrellempio) le
cofe falubri, et che fon atte a render li corpo lano più cligibili, et maggior
bene, che non fon le gioconde, che non caufan fenon diletto, verrà parimente la
lanitàad cAcr maggior ben della voI ; luttà. Parimente la cofa,ch'c eligibile
per fe ltefla maggior bene fi dee Jl Primo libro. j-j fi dee
{limar di quella, che non per cagion di fe ftefTa,ma d'altra cofa
s'elegge, come (per ellcmpio) diremo, che la forza, et la ga gliardia
corporale iìa maggior bene di quelle cofe, che li fanno per acquetare la
fanità: pofeiache quelle non sappctifcon,nè fi cercan per cagion di fc
ftefie, ma per cagion della fanità: douc che quelle, quando ben non
peraltro, lon nondimeno defiderabili per loro lleiFe m1 che propriamente alla
natura del bene 1 6 apparticne.Oltra di quelle le di due cofe farà 1 vna
come fin del1 altra, et l'altra non farà fin di quella ; maggior ben farà
quella prima,chc farà fine, pofeiache l'altra verrà ad eHer'cligibilc,
nó per cagion di fe ftella, maper cagion di quella, douc che
quella per cagion di fe medefima farà tale, come (per elfcmpio) vediamo
che l'ellercitio della pei fona fifa per cagion del ben eficrc, 17 Se
della fanità di quella. Medcfimamente quel di due beni larà maggiore,
ilqual non harà bilogno di quellalrro, ma ben quell'altro di lui, ouer di manco
cole harà di bifogno, che non harà quello. Et quello adiuiene perche il
non haucr bifogno nafee dall haucr foffitientia, et ballanza dafe
medelìmo, in che confitte la ragione, cVdiffinition del bene. &per manco
haucr bifogno inrendiamo 1 haucr mellieri o di manco cofe, o di più fa18 cili.
Apprelfo di quello quando di due cofe vna ve ne, che non f>uò fenza
l'altra (lare, o produrli in cllere, ma ben lo può qucla fenza quella;
fcnzalcun dubbio quella di quella farà maggior bene.cóciofiacofa che per
quello, vega ad haucr mcn bifogno,& per confeguente maggior ballanza,
et fofficientia a fc medelì19 ma ; onde ragioncuolmcnte maggior bene appare.
Quando ancor di due cofe l'vna farà principio, Se l'altra nó principio,quella,
che larà principio farà maggior bene. et medcfimamente fe l'vna farà
caufa, et l'altra non larà caufa, verrà ad eller maggior benquella, che
farà caufa, perla medefima ragione. &: quella è chefenza la fua caufa,
et fcnza'l fuo principio, impoflìbilc e, 10 ch'alcuna cofa fia,o fi
faccia, et fi produca mai. Oltra di quello fefaran due principij, quella
cola, che daquel principio farà f prodotta, ilqual farà maggiorc,farà
parimente maggiofanch'cla. &c finnlmcnte quella cofa, che nafee da quella
delle due caufe, che fia maggiore, farà ancora ella maggiore di
quella> 11 che nafeerà dall altra caufa. Et all'inaura ancora, quello
di due principij farà maggiore, ilqual di maggior cofa farà principio. et quella ^
^ ^ella Se quella dì due caufe maggior farà, che di maggior cofa (ara cà1 1
gione. Per quel che fi c detto può eflèr manifelto, che vna medeiìma cofa potrà
alle volte in rilpetto d vn'altra parer maggiore ndl'vno, et nell'altro modo,
cioè cosi per vna delle conditori già dette, come per la Tua contraria, perochc
s'ella farà principio, Se quell'altra nò, potrà ella parer maggiore: et parimente
fe la medefima non farà principio, ma più tofto fine, et quell'altra farà
principio, potrà nondimen'etfa parer maggiore, ellendo maggior bene il
fine, ilqual nondimen non è principio. xj Si come può apparir per quello,
ch'vsò di dire Leodamantc: ilqual nclTaccul.i, che fece contra di
Calliftraro, dille, che maggior colpa haucua in quel delitto, delqualc era
l'accula, colui, che configliato 1 haucua, che quello lteflo, elici haucua
comincilo: pofeiache commellb non l'harebbe egli, fc non folle ! fiato chi
rhauerfeaciò configliato: douendofi ltiroar il conli14 elio, principio, et caufa
del delitto. Et in vn'altra accufa, ch'ei fece poi contra di Gabrìa,
affermò maggior colpa haucr chi ha>ueua commctfb il delitto, che chi
coniigliato l'haueua: perche mai non fi confultarebbe vn delitto, fc non
fulTc chi lo comrnetteflcjnon per altro come fine configliandolo chi lo
configlia, fc non accioche finalmente commciio, Se efeguiro fia:
di maniera che il commetterlo viene ad ellcr'il fine, per cagion
del X j quale vien configliato. Medefimamente di due cofe
diremo,che quella, ch'c più rara, et più di rado fi truoua, fia maggior
ben di quella,di cui più s'abbonda, (ì come (per ellèmpio fi
dirà) che Toro fia di maggior pregio, che il ferro, anchor che di minor
vtilità fia di quello: pciciochela maggior difficultà nel trouarfi, fa
parimente, che di maggiore ltuna fia il pollederlo. 16 Et per altra ragion
fi può incontra dire, che di due cofe quella, di cui in maggior copia
coromunemente s'abbonda, fia da anteporre a quella, che rara fi truoua: pofeia
che nalcendodal .maggior vfo di quella, maggior'ancor'vtilità, come che lo
fpeilo vfarb auanzi il di rado vfaru; vien per quella ragione a
poterfi ftimar di maggior pregio, onde prefe occafionc il
prouerbio, 17 fecondo ilqual logham dire, ottima cofa efferc l'acqua. Et
in fomma da vna parte debbiam'dirc, chele cofe più difficili debbiano
elTère antepofte alle più fatili» come quelle, che fon più 18 rare, dando
lor pregio la lor rarità: et doli altra parte le più facili han danteporfi a le
più difficili, come per quella facilità più 9 accalchi la cofa. fecondo
che noi vogliamo. Olerà di quello 0 quella cofa maggior farà, il cui
contrario farà maggiore; Se maggior parimente quella, di cui farà maggior
la priuatione. 1 Se U virtù maggior farà della difpofitione,che non è fatta
ancor virtù. Se il vitio parimente farà maggior della
difpofitione» che ancor non è fatta vitio: pofeiache quelle cofe, cioè la
virtù, cil vitio fon fini; Se quelle, cioè le difpofuioni non fatte 1
ancor nè virtù, ne vitij, non fon fini. Quelle cofe ancora, le opere et gli
erletti delle quali faranno o migliori, o peggiori; eirc parimente, che
gli producono, faranno o nel bene, o nel j mal maggiori. Et medefi
inamente di quelle cofe, di cui le virtù e i viri; fon maggiori, maggior fono
ancora gli effetti, Se 1 opere, con ciofia colà che fecondo che fi
ritruouano cfler le caule, e i principi) ; fi truouano cllcr parimente gli
effetti, Se gli auueniraenri, che da elfi nafeono. et dall'altra parre
ancora, (e* condo che fon gli effetti, Se gli auucnimenti ; fon parimente
le 4 caufe, e i principi; loro. Oltra di quelto quelle cole fon migliori,
Se più eligibili,nellc quali l eccedere fia più eligibilc,& mag. gior
bene, come (per ellèmpio) diremo, che ellendo cofa più eli gibile l
eccedefin vcdcr'acutamcncc, ch'in acutamente odorare; vien per quello a poterli
anteporre il fentimcnto della villa a quel dell'odorato. Se elTcndo più
honclta colà 1 eccedere in eiler amator d amici, eh in eifere amato r di
danari ; farà ancor femplieemente più honello l'amor, che fi porti a gli
amici, che f quel, che fi porti a i danari. Et parimente riuolgendo
quello luogo in oppolla parte diremo, che delle cofe migliori fian
parimente migliori gli eccelli, che fiano in elfe; &piu nonetti
delle £ piuhonelle. Migliori ancora, Se più lodatoli fon quelle
cofe, delle quali fon migliori, Se più lodeuoli i defiderij:
pofeiache 7 delle cofe maggiori, i deliderij fon'ancor maggiori. Onde
all'incontra faranno migliori, Se più lodeuoli i deliderij, fe migliori, 8
Se di maggior lode faran le cofe,chc s'appetifeono. Oltra di que fto
quelle cofe fon più pregiate, Se di maggiore fludio, Se diligenza dcgne,lc
feientie delle quali faranno ancor/ette tali:
però cheproportionatamcnterifpondon lefcientie alla verirà,& na9
turadc lor foggetti: hauedo ciafeheduna d eife riguardo a tlar fopra di
quei ioggetti,chc fon fuoi proprij. Ond all'incòtta per la mesf. 8 'Della
Tigtprica d'^riflotelc^ la medcfima cagione di queAa proponionc, migliori,
Sedi pia Audio, et pregio fon quelle fcientie, lequali di cole fono,
che 40 migliori, et più pregiate fiano. Quello oltra ciò, che
maggior bene giudicherieno, o habbian altra volta giudicato le
perlune prudenti, o tutte, o molte di quelle, o la maggior parte
d'elfo, O almen le più faggie, et di maggior prudentia, quello li dee
nccefiariamente per maggior ben tenere, o Templi cernente, et affolutamente j o
almeno fecondo quelle qualità, che riguardan la prudentia, et peritia di
quelle tai pedone ; selle non atfblu41 tamente in ogni cola fon tenute tali. Et
quello c habbiam detto del riferirli al giuditiode i periti, è commune non
folo al guidino, che fi faccia de i maggior beni, di che parliamo al prelente y
ma di tutte l'altre cofe ancora ; come a dir delle foftantic del le cofe,
delle quantità, et delle qualità: douendou" in tutre queAe cofe per la
determination loro riferirfi a quello, che le proprie fcientie loro, et i
periti di tali fcientie determinano co 'llor 41 giuditio. ma noi
fpctialmcnte alla conlìdcrationc, et determination de i beni, habbiam così
fatta regola, et luogo applicato • ; t conciona cola che hauendo noi dirHnito
il ben'efler quello, che ciafeheduna co(a,s'haucilc intelletto
eleggerebbe; vien per que* Ao ad elTcr manifcfto, che maggior farà quel
bene, che maggior 43 da chi habbia prudentia fia giudicato. Quellr ancora
faran maggior beni, i quali in miglior (oggetti, et in più nobili porti-ilo
ri Il rirroueranno, o fempli cernente, o almen fecondo quella parte, in
che fon migliori, come (per elfcmpio) diremo, che la vn44 tù della fortezza Ila
maggior ben della gagliardia. Parimente maggior ben fi dee 111 mar quello,
che da miglior perfona, o lempliccmente, et ordinariamente, o almen in quanto
ch'ella è mi gliorc, farebbe eletto. A come (perch'empio) diremo ellcr
meglio il ricruere ingiuriarne il farla, pofciachc più tolto quello, 45
-chequcfto eleggerebbe chi maggiormente fuAcgiuAo. Apprefjb di quello fi potrà
maggior bene Ai mar quella cofa, che lia più xìilettcuole, et più
gioconda, ouer più voluttuofa, di quella,che fia manco tale, pcroche tutte
le cole feguon voluntieri la voluttà ! et è ella oltra ciò feguita,&
defidcrata perengion di Ce nicdefima: cV già nel di frinir la natura del fine,
6c del bene, l'vna, ficl altradi qucAeconditioni glie data ài fopra
aflegnata. Più gioconde poi, et più diletteuoli s'intendon'ellcrlecofe,
inelTer maggiorJl Primo libro. 4 p maggiormente priuc di dolore, et diraoleftia;
Se ineflcr più lungo tempo durabile il diletto, Se la
giocondirà,checontengo46 no. Le cole medefimamente, c'hanno in fe bellezza
maggiore» fi pollono (limar maggior beni, che quelle, che 1 han minore: conciofiacofa
che la bellezza infefiacofa dilctteuole, Se oltra 47 ciò, per Ce della eli
gì bile. Oltra di queft.j quelle cofe fideono (limar maggior beni, delle
quali maggiormente vorrebber gli huomini elfer cagione, o in (e (ledi, o
negli amici loro. Se per il contrario maggior mali faran quelle, di cui
eglin manco vor48 rebbero in fé, o negli amici clfcr cagione. Medefimamente
fra più beni, li più durabili fi deono (limar maggiori di quelli,
che 4P manco tempo fon per durare in ellere. Se li più fermi, Se li più (labili
ancora maggior beni fono de i màco (labili: perochc ìvfo, e l godimento di
quelli, viene ad ecceder fecondo la quantità del tempo; Se l'vfodi quelli
eccede nello dar maggiormente nella volontà,&: ncll arbitrio noflro:
pofeiache quanto lacofacpiù ferma, Se più (Libile, tanto l'vfo Aio è
maggiore; 50 et p.ù fecuramenre parato ali arbitrio del voler noftro.
Apprcf fo di quello perche quelle Cofe, eh o congiugate, ò di (imil
cafo fi domandano, hanno quella proprietà, che quello, che feguita ali
vna, feguita ancor all altra ; li come tal conditione ha luogo in elle nell
altre qualità, cosi 1 ha parimente ncll'crter mag5 1 gior bene. Onde le (per
eflempio) quefto aduerbio,foncmente, porta feco maggior bene, che 1
aduerbio, tcpcraramente.tal che l operar fortemente (la più cligibil, che
l operar teperatamenre ; la tortezza ancor farà più cligibile, che la
temperanza, Se 1 ellcr forte p:ù cligibil, che 1 ellcr temperato. Le cofe,
che tutti eleggono lon maggior beni di quelle, che non tutti ; Se le cofe parimente,
che da i più fono elette, fon maggior beni di quelle, che da i meno,
perciochc eflendo il ben quello, che tutti deliberano, nefegue, che maggior
farà quello, che farà da i più delìde53 rato. Può medefimamente elfer tenuto
maggior bene in noi quello, che tale è giudicato da gli auuerfarij, co i
quali conrendiam nella caufa, o dagli (ledi nemici noftri, o da quei, che
con giudici nella caufa. percioche quanto ai due primi,(ìpuò (limar, come
fc quel giudirio forte di tutti. Et quanto a i giudici poi, fi fuppongono
intelligenti in quella caufa Se periti ; Se hà14 no autorità nella caufa. Oltra
di quefto alle volte maggior bene G accade, che fia da noi (limato quello,
che in tutti gli altri, come d'eflb partecipi fi ri truoua: recandoci noi
in vn certo modo a vergogna il non hauere ancor noi parte in quello, come
hanno gli altri, c i non poter confeguir quello, che gli altri hanconfej $
guito. Se alle volte per il contrario maggior ci parrà quel bene, che in
niflunaltro, o almcn'in pochi fi ri truoui: parendoci per quello di
poflTeder cofa più rara, Se che per tal rarità preda pref6 gio. Le cofe ancora,
lequali appaion communementc degne di maggior lode, fi deono ftimar
maggior beni, come quelle, che per tal caufapoflbno efler giudicate più honoratc,più
nobili,& 57 più honefte. Nè maco deon'efler tenute per maggior beni
quelle, lequali, come a cofe di maggior prezzo maggiori honori
fi foglionfàre: eflendo l'honorquafi vn prezzo, che mifura l'ec58
ccllentia, et la degnità delle cofe. Maggiori ancora s'han da ftimar quei
beni,dclla perdita de i quali più importante, Se magJ5> giornerefultaildanno.
Oltra di quefto quelle cofe s'han da ftimar maggiori,le quali con
maggiofauanzo eccedono quelle, che communementc da tutti fon tenute per
grandi, o almeno 60 quanto ad eflc poflbno apparir tali. Sogliono ancor
lecofc diuiic in più parti, parer maggiori, che ftando in Ce ftefle vnite:
pofeiache con quella moltitudin di più parti, vicn'a farfi apparecia 61 di
maggior' ccccflò. Se per quefta ragion dice il buon Poeta effcrc ftato
eccitato, Se perfuafo Mcleagro a difender la patria fua con tai parole, ò
quanti mali, Se quante miferie, portano a gli huomini l'cfpugnationi, et prefure
delle città; i Cittadini, et glihabitatori ibnooccifi,& mandati a fil di
ft>ada,la Città tutta dal fuoco è ridotta in cenere, fono i proprii
figli, Se le donne iftefle in habito fu ccinre menate via, et ftrafeinate
prigioni in Ci feruitù dei nemici loro \ Se quel che fegue. Se per il
contrario ancora può l'adunar.comporre, Se accumular infiememente
in vno, far parer la cofa maggiore, chefepartita fimoftralfe
nelle parti fue, come fi vedeoiferuatoda Epicharmo. Se quefto accade fi
per la medefima ragioncjchcpur'hora habbiamo allignata per la
diuifione,faccndo apparir eccello ancor la compofitione> Se fi anchor
perche tal compofitione fa nel comporto apparétia 65 di principio, Se di
caufadi cofe grandi. Appretto di quefto perche maggiori habbiara detto eller
quelle cofe, che fon più difficili, Se ancor quelle, che fon più rare, di qui
è, che loccafioni, l'età, Jl Primo libro. jt reti» i luoghi, i
tempi, et le forze, Se condiiionf aTrru?, vengono a recar grandezza, Se
crefeimenro alle cofe. pcrciochc fc le attioni fi moftrano cller fatte da noi
fopra le forze noftre, fopra l*ctà, fopra gli altri nolìri pari,ouer nel
tal modo, o nel tal luogo, o nel tal tempo, vengon per quello a
riceuefapparente quantità,& crefcimento,non folo nelle cofchonefte,
ncll vtili, 64 Se nelle giù (le, ma parimente ne i lor contrarij: onde da
quello prefe forza, Se foggetto quello, che fi contiene in quello
Epigramma, che fu fatto per vno, ch'era rimafto vittoriofo ne i giuochi
Olimpici, quando ei dice; Sopra di quelle proprie fpalle hauendo io la
cella graue, foleua da Argo portar già il pefee in 6$ Tegea. Se perla forza
del medefimo luogo ancora vsò ificrate di dir quelle parole, Ih mandole a
lode fua ; O da quai principi;, CC a quai iucceffi fon'io venuto.
Mcdefimamentequci beni,chc fo no,innati,natij,&per natura
tali,maggiori fon di quelli, chaduentitij,& aggiunti di fuora vengono :
folendofi quelli più difficilmente acquiftare, Se trouar' in altrui, che
quelli, onde non fenza ragione quel Poeta dice, Io quel, ch'io sò ho
imparato per 67 me medefimo. L'edere ancor p ri nei pai idi ni a. Se
grandi di ma parte d'vna cofa, chenelTeder (uo fia grande, aggi tigne
grandezza : fi come (per edèmpio) ben conobbe Pericle, quando in quella
oration funebre intitolata l Epicaffio, dille non altrimenti edere (lata tolta
via della Città quella gioii entò, ch'era morti nel fatto d'arme, che fe di
tutto Tanno fuilè tolta, Se rapita la 6Z primauera. Quelle cofe ancora,
lequali in maggior bifoeno, Se in più vrgente necedità fono vtili; come
faria (per eilempio) net tépo della vecchiezza,& neH'infirmità,fi
deono (rimar mag6 9 giori, Se più eligibil beni. Medcfi mamente di due beni,
quello 7 o li potrà (limar maggiore, che più farà, vicino ai fine. Se a
ciafche duno anchor s'ha da (limar, che fia maggior ben quello, che
fia maggiore fpetialmente a lui, che quello,chc fia tale femplieeme 71
te,c m natura fua.Quel parimele di due beni, che ci fia polli
bil'a cófeguire, maggiore habbiam da Mimar/che fia di quello, che
ci fia impodi bile ; percioche quello viene ad eller bene a
noi,doue che que(lo,dato bc che fia in fua natura bene, nódimeno a
noì,a 71 cuinòèpodìbilc,nófipuòdirchefiabene. Oltra di quello
le cofe,chcs'inchiudono,& concorrono nel fin della vita noftra, fon
maggior beni, come quelle, che più fon vicine, Se cógiunte G ij
alfine, j 2 usua x^crorica a jirisioreic^ 7j al fine, che non fon
quelle, che fon mezi al fine. Quelle cofe ancora fogliamo (limar maggior
beni, nel! elcttion delle quali fogliam riguardar più torto la flcHa
verità, et l elfcrc ifìeflo della cofa, che il parerà gli altri. et in quello
iìà pofìo, et s ha da intender l'eucr le cofe ad opinione, ÓV parer de gli
altri, che le non fi eleggerebbero, fe fi penfalle, che le itetiero
ignote, et na74 feofte altrui. Onde per quella ragione può ad alcun
parer'ellèr più cligibil cofa il nccuer bencnuo, cheil farlo : perochc il
ri— ceuerlo e cofa, che quantunque la fullèpcr elfere appretto de gli
altti non nota, ne manifefta ; in ogni modo per fe medeflma £ eleggerebbe,
don e che il far benefitio non clegercbbe ognun, che lo fi, fe ciò do u
elle refìar afeofo al mondo, et non mai fa7J puto. Medefimc mente quelle cofe
poiìon parer maggior beni, lequali Ci defìdera più folio, che veramente
fiano, che appaian d'efrerc : pofeiache in tal guifa vengono a riguardar
più tofìo il vero, che il parere, ÒV l'opinion de gli altri. èv da quelìo
cercan di prouar alcuni, che la giuftitia in rifpetto della fanità, .fi
debba fìimar picciol bene; perche nella gin flit la par, che ila
più .eligibile il parer gi urto, che l'cller giurto;douc che nella fa76
nità tutro il contrario adiuiene. Quei beni ncoia fi debbono ili mar
maggiori, i quali polTbno a molti beni eilcrc vtili, com'a -dir (per
eflempio) a vincre,a commodamente menarla vira, alla voluttà, et ad operar cofe
honefle. Onde none marauiglia, che le ricchezze, et la buona valetudine
appaiano communeme te grandiUìmi, et importanti mi beni, pofeiache tutte
le dette 77 cofe, par che polTeggono, ÓV portin feco. Oltra di qucfto
quel bc diremo, che fia maggior, il qual lìa priuo di molefìia,&
hab bia olerà ciò feco voluttà congiunta, pofeiache più bene viene egli
in tal guifa ad hauere, hauendo feco la voluttà, la qual è bene,fì com ancora
ha luogo di bene la macanza, che vi lì truoua» 78 del dolore, cV della
molcflia. Et quella ancor di due cofe farà maggiore, laqnalaggiunta
advn'altra terza cofa, produrrà vn tutto maggior, che non fi produrrebbe 5
alla medefima s'ag79 gì ugnelle quell'altra. Quei beni oltra ciò,li quali,
quando fon prefirn ti, manco pollono fìarafeofi altrui, maggiori vengono
ad clìere, che per il contrario quelli alm,liquali prefenti fi frano
afcofi : pofeiache quelli più vengono ad hauer parte nella verità, che non
fan quelli, onde per tal ragione 1 cilcr veramente ricco lì co fi potrà
Rimar maggior bene, ch'il parer d'edere. Mcdcfimamence vna coCa, che fia da
edere hauuta fommamente cara, maggior ben farà in coloniche 1 haran (ola.,
che in quelli, che 1 hauefleraccompagnata da altra cofa fimile, o vguale
ad eflà. Etdaquedo nafee, chenond vgualgadigo faria punito colui, che
caliate vn'occhio ad vn lufco, che non n hauefle fé non vno, et chilo cauairc
ad vno, ch'hauendogli ambidue, redatte 51 con l'altro libero. Da quai
propofitioni adùque,& da quai mezzi fi pollàn così nel fuadere,comc nel
dilluadercjtrar quali tutte le pruoue a far fede,habbum fin qui detto, et mofhato,
quanto occorrcua. (apo 8. De gli Stati, G ouerni delle Città 5 di
quante Jorti fieno ; et de ifim loro. R a tutte le cofe, ch'à bene in condrite
pervadere, et ottimamente configliare, come importanti fi ricercano;
grandifli ma, Se potentiffima fi dee (rimar, che fia la notitia, che fi
pofl'egga di tutte le forti di republichc, et ciuili amminidtarioni,* et il
conofeer ben di (tintamente le confuetudini, i collumi, eli in1 dittiti, i fini,
et le vtilità di ciafeheduna. conciofia co(a che tutti vniuerfalmente fi
muouauo, et perfuafi reftino dallo dello vtile ; et quel (blamente s'ha da
(limar'efler'vcilc, che può con3 fcruar lo (lato, et gouerno della cittì. Olita
di quello le detcrminarioni, e i decreti s'han da intendere elfcr quelli, che
nafeon dall'arbitrio, et dalla pronuntia di chi tenga la Comma potetti nel
gouerno ; che tanto è a dir, quanto, da chi fia principe 4 in elio.
Lcquali Comme poteftà, et principati Con tra di lor didimi fecondo le Cperie
delle republichc: poCcia che quede Con tali Cpetic, altrerante Corti
vengon necefiariamente ad efler le 5 Comme potedà. onde eflendo cinque le
Tpetic delle republichc, prio fine, fe non la cuftodia, et faluezza
fua. Può apparir dunque • f/ Primo libro. f j ^ue manifefto cfler
neceflàriamente di mcftieri d'hauer ben note, et ben diftintc quali
confuetudini, quali inftituti, quai cofiumi, et finalmente quali vtilità in
ciafcheduna fpetie di republica appropriatamente, Se peculiarmente, riguardino
il proprio fin di quella. percioche nelldettion, che s'ha quiui da
far delle cofe, s'had hauer Tempre riguardo, che a quel tal fine
fi 20 poftan come vtili riferire. Ma perche le fedi, et le
perfuafioni fi fanno, non folo con l'orationc argomentati ua> et fondata
in pruoue y ma ancor col mezo dell'oration morata, ch'indi tio dia de
i coftumi, Se delle qualità di colui, che parla: pofeia che il parer noi,
8e efler tenuti della tale, Se tal qualità, fuol tirar quei, ch'afcoltano
a creder alle parole noftre ; il che alhora fpetialmenteadiuienc, quando per
huom da bene, o per bencuol 1 1 loro ci facciam conofeere a l'vna cofa Se
l'altra; fa di meftier per quello, che noi beniflìmo potfediamo la notitia
de i coftumi, et qualità di ciafcheduna forte di republica: eflendo
neceflario, che in ciafcheduna di dette fpetie, fia principalmente
perfuafibile, et facihflìma ad elTcr creduta quella forte di coftumi,
che il ad efa fon proprij, et accommodati. Li quali coftumi facilmente ci
potran venire in cognitione per quelle medelime cofe, che de i diuerfi fini d
effe republichc, poco di fopra fi fon dichiarate, percioche tali i coftumi fi
moftran fuora, quali fon dentro l'elettioni, donde cflì nafeono; Se
l'elecrioni nan fem*3 prc riguardo, et riferimento ai fini. Habbiamo adunque
fin qui, quanto conuiene alla prefente occafione, et proponto, dichiarato
quai cofe habbi in da riguardare, Se da proporli dinanzi coloro, c'han da
fuader qualche cofa, o come futura, o 14 come prefente: et donde fien' per
poter trarfedi, Se pruoue a i J moftrar l'utile: Se parimente da quai vie,
Se in quai modo poffan diuenir copiofi nel dire intorno a quanto a ciafcheduna
fpe x6 ne di republica conuenir polla. Ma di tutto qucfto habbiara ne
i libri della Republica, come in luogo a cosi fatte materie proprio, con
più cV efquiuta dottrina, et con maggior diligenza fcritto. T>el G
enerDemoJlratiuo 5 et delle co/e lodeuolu et delle 'Vituperabili: et de i
luoghi da trottarle, £f da prosarle. g5/5 Ato nomai fine a quanto fi e dcrro
fin qui, regniremo al prefente di ragionare della uircù, et del vaio,
&inliemcmcnrcdeirhonefto,& del brutto: eflendo quelli i fini, et gli
("copi di coloro, che lodano, o biafmano. Ol tra che in vn mcdefimo tcpo
haremo dal far ciò quello di bene, che nel trattar di tai cole, potrà fard
ancor manifefto, da quai cofe potrem noi procacciarci là via d'eller tenuti di
quelle qualità, ch'ai buon coftumc importano ; in che confitte il fecondo
modo di far fede, con# ciofiacofa che da i medefimi luoghi, aiuti, et principi!
potrem far parer, cosi gli altri, come noi ftcflì tali per virtù, che ne
fac5 eia communemente tener degni di fede. Et perche in due modi fuole
fpeire volte accader d'hauere a lodar, non folamcntehuomini, o dì j, ma cofe
ancor priue d'anima, et qualche fpetie, o indiuiduo d'irrarionale animale
;& quelli modi fono,l'vno fenza che la neceffità di qualche caufa Io
ricerchi, fol per puro intertenimento, et diletto, et quali per palla,
tempo, &c per fcherzo j et l'altro perche qualche ragioneuol caula
n'inuiu, et ne tiri a farlo; farà ben fatto per quella ragione, che feguendofi
il medefimo modo, che fi è leguito nel trattato precederei s afiegnino
ptopofitioni, ch'a quel, che pur'hor fi e propolìo, 4 pollano euer vtili.
Noi dunque più toAo fcmplicemcnte, 6c quafi per via d eifempio, che
ùmilmente per via d 'efquilìte ragioni: ci ingegneremo di dir, quanto ci parrà,
che faccia a propofito inrorno a qucflo. L'honelìo dunque sintéde eflcr quello,
che eirendo eligibilper fe medefimo, hà ancor di più, che egli e parimente
per fe ilcllb lodcuolc. potiam'ancor dir, che egli fia quello, che elfendo
in fe bene, e ancor diletteuole in quanto che gli e bene. Hor'elTendo
l'honctlo fccódo che 1 habbiam deferitto, neceflariamente ne feguc, che la
virtù fia colk honelìa: pofcia eh elTendo ella bene, e ancor olrra ciò
cofa lodcuolc. et e la virtù per quel, che fuol communemente patere
9 i Jl Primo libro. " rere,vna parata, cV pronra habilità,
procaccia trice, Se confer* j uatrice di molti beni, potiam'ancor dir la
vinù efTer quella, che ne può render potenti, et pronti a giouare, Se a
beni fi care in molti commodi, e in molti beni.& è in Comma tra i
beni quella, che (com'in prouerbio fi luol dire) è in tutte le cofe
il 10 tutto. Parti, oucrofpcrie della virtù fon la Giù ftitia, la
Fortezza! IaTempcrantia,la Magnificentiaja Magnanimità,la Libera1 1 lira, la
Manfuctudinc, la Prudentia,la Sapicria. Tra lequali virtù fa necelfariamente di
mefticri, che quelle (ìano grandinarne reputate, lcquali fiano a benefitio
altrui vtiliflime fopra l'altre; hauendo noi già detto clfer la virtù
diCpolìrione, Se riabilita be1 1 neficariua per Tua natura. Se per quello i
giufti, e i forti, Cogliono cifer Copra tutti gli altri huomini communemenre
honorati, Se reputati: pcrochc la virtù di quelli ne i tempi di guerra,
Se la virtù di quelli in tempi di pace, reca grande vtile, Se gioua1 j
mento a gli huomini. La Liberalità doppo quefte è ancor'clla grandemente
honorata: peroche i liberali largamente Cpendono, ne (Un mai altercando, Se
contendendo per conto di danari, et d'hauere, di che per il più Con cupidi
communemenre gli 14 altri. La Giuftitia adunque s'hà da intender'eiler vna
virtù, mediante la quale ciaCcun poffiede le proprie coCe Cue, fecondo ij
ch'ordinano, Se diCpongon le leggi. Se l'ingiuftitia per il contrario induce,
Se è mezo a far pofleder l'altrui contrai ordin delle 1 6 medefime leggi.
La fortezza poi è vna virtù, per la quale s'induco n gli huomini a operar ne
gli vrgenti pericoli,che ne CopraftU no, ateioni valoroCe, Se congiunte
con 1 nonetto: oc ciò (ccódo, clic lor comandano,cV diCpongon le leggi:
come quelli, cheper 17 ral vinù fi rendono ad clfc obedienti, Se volonticr
Copgetti. M a la Timidirà, o codardia, che la vogliam chiamare^ dì
tiirto'I co18 trario a punto c mezo, Se cagione. La Tempera n ria ì vna
virtù* mediate la quale intorno alle CenCuali voluttà corp oreCjIn q Ue
|, la maniera fi edificano, Se fi diCpongono gli huomini, che
le dell'eleggi comandano. Se al contrario a pi^ro fi diCpongon
per 15) cauta, òc incitation dell'inrempcrantia. La Liberalità poi ci
rende dupoftì agiouarcon i danari, &Coirantie noftre, et a far benefitio a
molti. a cui fi com'è oppofta l'atiaritia, cosi ancor a falò re il contrario ci
diCpone, Se ci guida. La Magnanimità è virtù, che rende rhuomo parato, Se
pronto a far'altrui benefitio in H cofe 1 1 cofe grandi, Se
clumportin molto. et la mngnihccntia poi è virtù, ch'induce ancora ella, Se
difpone a operar cofe grandi,ma fol rifpetto alla larghezza delle fpeie,
ch'occorron farti in operar rai colc,(i che nello fpcnderc in cofe
importanti, moftra fempre grandezza. Li contranj poi di quelle due virtù fonala
pu filladi mi tà, *$ cV la Grettezza, et mefehinezza nella fpendere. La
prudentia è virtù del difcorfiuo intelletto, mediante laqualc
diueniainohabiJi, et potenti a prcnderm noi conlìglio d'intorno a quelle cole,
ch'o buone, o cattine, o vogliam dire, o cligi bili, o fchiuabili, habbiam
raccontate, come appartenenti alla felicità dell'huo14 mo. Ma della virtù, Se
del vitio in vniuerfale confiderà», et par ticolarmente poi delle parti,
Se delle fpetie loro, può, per quanto ricerca ilprefcntc proposto, fumarti a balìanza,
quanro fin M qui ti e detto. Di quelle cofe, che in quella materia reftan
ancor 16 da ditti, non farà difficile il determinare. pcrcioche
primieramente può cller manifclìo, chequelle cofe, che faranno prodottici,
&c erTet trici della virtù, necetiariamentc per riferirti all'honefto della
virtù,farano ancora etiehonefte,& parimcte faran tali ancor quelle,chc
fegtiirino, Se nafeerino dalla virtù: come fono 17 gli inditij delle
virtù, Se l'opere, Se Ieattioni di quelle.Et perche gli inditi], Se tutte
quelle forti di cofe, che fono o arcioni, o paffioni di cofa honefla, fon
confeguentemente cofe honefte, ne lcgue di neceffità, che tutte le cofe, che
faranno opere, Se effetti di fortezza, oueroinditij, et fegni di quella, o
veramente cofe foftenute,& patite fortemente, haran congiunto 1 nonetto
feco. a.8 fi come l'haranno ancora le cofe, che faranno inditij di giù
fati a, 19 Se l'onere gin ftam ente fatte, ma non già fbroar fi doueràno
honefte le cole, che ti lòftengono, et ti paton giuflamente. conciofiacofa che
in quefta fola virtù della giù fu ria, trà tutte l'altre virtù accalchi, che
non fempre tia cofa honefla, et lodeuole il patir guittamente, anzi nel riccuer
punitione, Se galìigo, più brutta cofa, vergognosi, Se biafmeuol s'hà da fumar
che ua il riccio uerlo ciuflamcnte, che ingiu/hmence. ma in tutte l'altre
virtù,!! fomigìianreadiuiene, c'habbiam deno auuenir nella Fortezza
4 J 1 Appreflb di quello tutte quelle cofe, a cui e propoflo come premio
l'honore, ti deono giudicar congiunte co l'hone/to.& quelle
parimente,Iequali pia tolto con I honore flelTo, che con danari, o con
iofiantie, logliono efTer premiate, et ricompenfare. Honefte, Se lodeuoli
ancor fono a noi quelle cofc,ch euendo per fe fteile eligibili, noi più
torto per curai d'altri, che di noi me33 definii procuriamo. et traquelle cofe,
che fono in lor natura femplieemente beni, quelle, hanno in fe molto
deH'honefto, le quali porta da canto l vtilità, ck l'intereUe proprio,
(blamente 34 per benefitio, ck vtilità della patria operiarno. Pamapan
parimente dell'honefto quei beni, che fon beni in lornatura,& dal35 la
natura dati. ck quelli ancora, i quali l'vfo, e'1 godimelo proprio di color,
che gli polleggono, non riguardano: pofeiache il riguardarlo farebbe
inditio, che roller. per cagione, ck per vtil de 36 gli ftclTì lor
poiTclìori, tk non de gli altri. Lodeuoli ancoFa, et nonerti s'han da ftimar,
che Cittì più torto quei beni, chefi foglion concedere, tk dare a gli huomini
doppo la morte loro, che non fon quelli, che fi concedon lormcnrre che
fono in vira, peroche le cofe, che fi danno, ck gli honori, che fi fanno a
color, che fono ancora in vira, può più ageuolmenre parer,chc fi dieno, et
fi facciano in gracia loro, et perfol piacer ad erti, ck non per 37 caufa
della fola lor virrù, come ai già morti adiuiene. Hanno ancor molto deH'honefto
quelle opere, che fi fanno per caufa d'vtilc, tk commodo, che ne venga ad alrri:
come quelle, che in talguifa minorapparenria tengon d'efter farrc per fola
caufa di 38 femedefimc. Mcdefimamcntc i nego ti j, le fatighe, cV le
cure, ben maneggiate, et diligentemente trattate, et condotte a fine, appartenenti
ad altri, più torto, ch'a fe Hello, non è dubio, ch'elle non habbian cogiunto
molto del lodeuolc, tk deH'honefto feco: ck fpecialmcntcfe tai negotij a
perfonc appartengono, dalle quali shabbia riceuuto benefitij: pcroche in
tal calò la giuftitia 35 così ricerca, et s'opera giuftamente in farlo,
tkin fomma rutti li benefitij, che fi fanno altrui, tengon fcco, inquanto
rali, parte 40 non piccola deH'honefto. Quelle cofe medefimamcnre,le
cótrarie delle quali foglion'indurrc alrrui adarroflìr per vergogna,
fi poflono ftimar honefte. percioche cofe brutte, et biafmeuoli
fon quelle, le quali quando diciamo,o facciamo,o già già fiam'in
ani mo parati, de pronti per dire, o per fare, ci foglion cagionar ve41
«econdia. fi come bene ef^rciTc Saffo ne i fuoi verfi, quando haucndole detto
Alceo, volontieri, o Saffo, ti dirci alcune cole, ch'io hò nell'animo, fe
la verecondia non mi ritcneffe, ella rispondendo gli dine. Se ci foiTe caduto
in animo, o Alceo, delìH ij derio 6 o % JJeua Jsetprica a
yirmotti^ dcrio di cofc, c'haueflcr dellhonelto, et del ragioocaolc, Se
non furte acconcia, Se parata la tua lingua a dir cola brutta, Se
degna di nprenlionc, certamente la verecondia non uoccupatebbe, ne t
accenderebbe il volto, ma fecuramente parlerei, non hauen41 do ad»r cola, che
non fuOegiufta. Oltra di quello quellccolc, che loelion tener gli huomini
in angofeia, Se angonia di mente, fc congiunto con elTa non è timor, o
tcrror d'animo ; li poùono Aimar cofe pendenti dahonorc,& dahoncftà,
folcndo vn tale accidente accafcarc aglihuomini percagion di quella forte
di 4 j beni,che riguardan la rcputationc,& la gloria. Appretto di
quefto quelle virtù, et lodeuoli operc,chcfon proprie di (oggetti m lor
natura più nobili, faran parimente ancora elle più honeltc, Se più
pregiate ; come fon (per esempio) quelle dell h 11 omo n44 fpetto a quelle
delle Donne. et meddimamentc più congiunte con 1 nonetto fon quelle virtù,
che fon più atte ad eller godute. Se con diletto guftatc da gli altri, che
da color, che le poligono. Se per qudta ragione il giudo, et la giuftitia fon
giademen4 r te partecipi dell honefto. Maggiore fplendore ancora d
bonetti fi dee fornir, che fu nel prender vendetta de. fu 01 nemici,
che nel riconciliarfi pacificamente con efli.cooaoliacofa che da giùftitia
nafea il ricompenfar fecondo lcqUalità, Se .1 render pari a pari, et quel,
eh è giufto, fia parimente nonetto, oltra che cofa da huom forte è il non
cedere alle ingiuricnecome infenor loc*6 comberc alla forza d'altri. La
vittoria ancora,* ilpremio, che vincendo fi confeguifcc> fon cofc da
elTcr connumcrate tra le cofe honeue, comcqucllc, che quantunque al tro vtile.
o frutto no portin feco, fon nondimeno eligibili per fc ^edefiroe, et danno 47
infiemementeindino d ecceiro divina Olrra diqueitonguardan 1 nonetto quelle
cofe, che foglion cófcruar viua 1 altrui memoria: Se quanto più fono atte a
rarqucfto,tamo han maggiormente dell nonetto: ne è dubbio, che più non fiano atte
a tarlo 48 quelle,chc (èguitao 1 huomo doppo la morte ancora. I arirocnte
lodeuoli, et honefte fon quelle cofc, alle quali vien dietro ho49 nore, Se
reputazione. Se quelle medefiinamentc fi fan tenere per 4^ «uiv, v +
^orpn.ate lcaua i eccedon 1 altre nel maegiormentchoneltc, Spregiate, ic
qua» „ rtl r^, art >«. nenVr loro, Se più ancora, te noi foli forno,
che le polliamo. Jofcnche per tal cagione vengon a ferii più -o«W.,^ P«
con50 Vegnente pili atte a reftar ncU aUrui memoria. Le pozioni ancora, parche
crcfcan di degnici, fe più torto amene, che frurruofe fono: come quelle, che in
quella guifa fan maggiore ap51 parentia di liberalità. Apprcilo di ciaicheduna
nanoneancora, quelle cole, eh ad effa fon proprie, et peculiari, fi deono
(limar' 51 nonorate, Se habili a recar lode. Se parimente quelle, che
poflbno efier inditij di cofa, appretto di quefto, o di quel popolo lodata,
honefta, Se peculiarmente tenuta in pregio, come (per ef(empio) era cofa
honorata appreflb de i Lacedemoni il nodrire, Se conferuar lunga
capigliatura, eden do quefto vno inditio della libertà, et ingenuità loro, come
che 1 vlo del portar la chioma lunga, non laici agcuolmcnte
elfercitarealcuna operation ferui5 j le. Cofa medefimamente, che porti honeftà
feco,s ha da ftimar, che fia il non clfercitare alcun arte medianica, Se
illiberale, conciolìacofa che conuenga ali rinomo libero, Se ingcnuamete edu/4
cato, il non foftcntarla vita ad arbitrio d altri. Recherà giouamcnto ancora a
poter commodamente lodare, o bial mare, l'vfar di prender in luogo delle
cofe delle, quelle, che per vicinanza, Se fomighanza, che tengon con elle,
poflbn parer quelle delie mede firn c. comcauuerrebbe (per ch'empio) le
vn,chcfullè ne i pericoli cauto, Se auuertitamente animofo, futfc da noi
chiamato timido» et inlidiofo: Se vno ftolido,& mezo matto, chiamaflìmo
femphee, Se puro: Se il nome di manfueto delfinio /; a vno infenfaco.
Medefimamente in ciafcheduna cofa s hàda procurar, che di tutte quelle
cofe, che fcguitano,& s'accompagnano, Se van dietro a quella, fi prendi no
in luogo d ella quelle, che più ci paia che tornin bene, comefe
(pereHempio) colui che fufle iracondo, et quafi furibondo; nominafurno huomo
femplice, Se li'oero: Se ad vn faftoib, Se fupcrjf bo delti mo il nome di
magnifico, et grane. Et coloro oltra ciò, i quali ne gli eccelli, et ne
gli eftremi, tra i quali dan ripofte le virtù, traboccatfèro, potremo cofi
nominare, comefe nei mezi,cioé nelle virtù fi trouallero: comauuerria
nomi57 nando l'audace forte, et il prodigo liberale. Perciochc oltra ch'a
i più degli huomini,come impenti foghon communemen re parer virtù cofi
fatti eccedi ; ci s aggiugne quefto di più, che ingannando in vn certo
modo co fallace fillogifmo fe ftedi ; par loro, che ragione, Se caula ci
fia, per laqual fi pollano accettar j8 perhoncfti,& lodeuoli i già
detti eccedi. Conciofiacofa che s alcun'è* 6 2 Della Retorica d
Arisxotelt^ s'alcun' c, che doue non faccia dibifogno fi metta più di quel, che
conuiene ardito in pericolo,può vcrifimilméte parere, che molto più
farebbe egli quefto quando la ragione,& lhoncfto lo ricercate. Se
fefenza diftintione alcuna farà largo in donare il fuo à chiunque gli
venga innanzi ; fi può ftimar, che molto più fia per far quefto co gli
amici fuoi,di maniera che può parer vno eccedere, Se vno eilcreabondanre
nella virtù, tf fare vtile, et beneficio à tutti. Fà ben meflier d auuerrire,
Se di confiderare alla prefentia di quai per Ione fi prenda à lodar la perfona,
ò la cofa, che noi lodiamo: percioche fecondo che folcua dir Socrate, non è
diflficil cofail lodar gli Atheniefi,apprciTb de gli Athc60 niefi. Et fi dee
parimente auuerrir, che quelle cofe, che fon tenute honcfte,& lodeuoli
appretto di quelli, ò di quelli, dinanzi ài quali parliamo ; fiano
accertate, Se lodare da noi, come che veramente,& in lor natura fien
tali, Se non perche eglino cofi le (limino: comeauuerria (per ellcmpio)
s'appreflb de' Scithi,dc* Lacedemoni j,dc'Filofofi,ò d'altre narioni, ò
profeflìoni occorrere hau ere à lodar qualche cofa. doue (perbreuementedire
) bi fogna fempre cercar di tirare all honefto timo quello, eh 'apprcifo
di lor fia hauutoin cóto,8c tenuto in pregio.il che non fa rà difficile,
per la vicinanza, c ha l'cifer tenuto in honor, co Thonetto. Oltra di quefto
quelle cofe fi deono come honcfte,& degne di lode fumarci le quali può
parer, ch'alia cofa lodata contengano, Se quafi come fuc appartengano. come
faria ( perefTempio) fc le fu 1 *" cofe degne de i fuoi maggiori, ò a i
ratti di quelli proportionate ; &cfe\c corri fpódeirero ad altre fuco
loro proprie honorate anioni: perochel'aggiugncrej&accumui lare honor
fopra honore, molto porta fcco d'honeftà, Se di felici cita. Ridonda ancor
grandemente in lodeil moftrar, che fuor di quello, ch'ordinariamente, Se
vcriGmilmcntc fc ne fune po6} tutoafpettare,habbia proceduto la cofa lodata in
meglio, come -auuerria (per elTcmpio) fc diceilìmo, che coftui nella
buona, Se profpera fortuna fua fi fece fempre conofeer per modefto,per hu mano,
et per moderato ; Se nell'acerba, et auucrfa, per magnanimo, Se per co ftan te.
ò fcd'vno, che fufteda balla condì tion falito à ricchezze, Se à degniti,
diceflìmo, chei fempre fulfediuenuto in miglior coftumt, cV: più fempre
affabile, Se più trattata bile. Se in quefto e fondato il detto, che folcua
vfare Ificratc di femeJl Primo libro. f j Ce medefìmo dicendo; O da
quai principi j à quai fu cecili fon io 6} venuto. Se quell'epigramma
medefimamente di colui, c haue* ua ottenuto vittoria nei giuochi
Olirrìpici, doueei dice; Sopra di quelle proprie fpalle hauendio la celta
grauej Se quel chclc66 gue. et quel detto parimente di Simonide, Il padre, il
marito, 6j Se li fratelli di cortei furon tiranni. Et perche la lode
principalmente alle operationi attribuir (idee; Se è proprio di
color,che operano virruofamentel operar con elcttione ; fa di meftierper quello
di tentare, Se di far forza Tempre di fare apparir, chele operationi di
colui, che noi lodiamo, iìano fiate fatte concon6% figlio, et con elettione. Et
vtile à farquefto farà il inoltrar, che 6? fpeflè volte habbia egli fatte
quelle lidie attioni. Onde fe ben vi fuircr di quelle, che rullerò
accadute fortuitamente, Se quafi lenza penfarui, fatte à cafo ; farà non
di mcn ben /atto, che con inoltrar, che fpeflo fiano auucnutc, fi faccia
apparir, che non à forte fiano accadute, ma con elcttione. concionacofa
che fc mol te,& tra di lor fomiglianti fi moftreran tali attioni,
chiaro indi7« rio farà,chc da virtù, et da elettion fian nate. Hor non
cllendo adunque altro la lode, che vna narratione, per laqual fi moftra, Se
fi fa conofeer la grandezza della virtù, fa di meftieri, che le operationi
fiano dimoftrate tali, che paia, chedalla virtù nate 7 1 fiano. ma la
celebratione s'intende eller delle opre ftefle ; Se le altre cofe, che di
fuor fi prendono, Se fuor della ioltantia dell'opre ; fi prendono in fede, Se
in fegno della bontà delle opere; co me fon ( per efiempio ) la nobiltà,
et la buona educatone : ed fendo verilimile,che da i buoni naicano,&
deriuino i buoni; Se che color, che con buona, Se honefta education
nodriti, Se in72 (limiti fono ; buoni, Se honefti parimente fiano. Pcrlaqualcoia
celebrar fogliamo altrui, hauendo principalmente rifpetro alle opere, Se alle
attioni loro ; ellcndo le opere quelle, che danno inditio de gli habiti, donde
elle nafeono : perciochc lodi fi darebbeno ancora à quelli, di cui non fi
folTer vedute le opere, fi credette, Se s'haucilenotitia, che in cfll fi
troualfero habiti 7 3 da operarle. La beatifìcation poi, Scia
felicitatione, cioè il predicare alcun per beato, Se il predicarlo per felice,
fono quanto à fe quali vna ftella cofa ; ma no già vna lleila cofa con le
già dette, cioè con la lode,& con la celebrationt. ma nel modo, che
la felicità comprende, Se ricerca la virtù ; cofi la felicitatione,ò
ver predication del felice ricerca, et comptende ambedue le già dec74
tecofe. Hanno il lodare, et il fuader configliando, vna cena forma comune,
nella quale in foftancia conuengono: percioche quelle Ite Ile cofe, à cui
fi cerca defortare, indurre, ò ammonendo fuader ne i configli ; le medefime,
trafpofro alquanto l'orditi 7J della locutionc,diuengonoairegnationi di
lode. Per laqual cola hauendo noi già veduto quai cofe còuengon di fare a
vo'huó da bene, Se degno di lode, et qualmente diipofto,&
qualificato debba eilere ; tutto quello potremo mcdefimamente ammonédo, Se
iuadendo dire ; tralportando folo, in vn certo modo aljC quanto le parole, Se
trafmutando l ordin della locutione. come ( per eirempio ) fe diremo, Non
conuenir gloriar/ì, ne fondar la reputatione nei beni della fortuna j ma
in quelli, che in poter di fe ftcilo fono, cV dall'in tri nfcca virtù
dependono ; verràqueflo concerto in cotal modo efplicato,ad elfer vtile,&
proportionato all'ammonitione, Se alla fuafione. Se il medefimo diuerrà a
lodare accomodato, fe murate alquanto le parole diremo, che il tal non fi
gloriatane da più fi repuraua punroper i beni eli ci poilcdciia della
fortuna ; ma folo per quelli, che daii'intrinfcca 77 virtù fua depcndeuano.
Per laqualcofa quando vorrai lodare alcuno, andarai cólidcrando di che
cofa l'ammoni redi, de àche cofalo fuaderefti. Se all'incontro quando
ammonire, ò fuader lo vorrai, andarai vedendo che cola trouarfi porta
degna di lode in chi fi fia : folo il modo della locutioue, Se 1 ordin delle
parole farà contrario nelle due intentioni, Se efpreflìoni già dette; efprimendofi
1 vna per modo di prohibire,& altrafenza cofi fat 75 tomodo. Molti
ancora di quelli aiuti in lodar iarà ben di viare, iquali han forza
d'amplificar le cofe. come le (per cileni pio) dicemmo, che colini nella
tale honorata attione, Se lodcuol fatto, fu folo à operarlo, ò vero il primo di
tutti gli altri, òalmen pochi hebbein fu a compagnia; Se ch'egli fuil
principaliflìmo. Se quello in lomma, à chi principalmente fi debba
attribuirei! fatto. perochc cofi fatte conditioni, Se circoltantic portan
icco molto dell'honefto,cV alleattioni nó piccolo fplendoreaggiun75 gono.
Tra le quai circoftantie quella del tempo, Se quella dcU Poccafione, fon
di gran momento in amplificare/ Se fpetialmcn te quando le portan cofa
fuora di quello, che vcrifimilmen te px lo rena, che fi po celle
afpcccare. Medcfiraaracncc amplificatione importa Jl Primo libro. 6
j imporra nella virtuofa operacion d alcuno, il moftrar,
ch'egli molte voice nel medefimo, ò nel fimil fatto, il medefimo
valor habbia moftrato : pofeiachein quefla maniera, oltra ch'apparirà più
nonetto, Se più grande il fatto; farà ancor giudicato, che. non à cafo,ò per
fortuna (la accaduto, ma per maturo configlio, 8 1 et deliberata «lettion
di lui ftctTo, che l'hà operato. Verrà parimente ad amplificarfi il fatto
d'a!cuno,fe moltreremo,che per tal cagione fi lìa per honorarlo trouaro,
«Sé inftiruiro di nuouo alcun di quei premij,& legni d'honore, che
fogliono eccitar gli huomini à bene oprare, tic recar lor gloria, et honorara
fama. Si com'àdir, ch'egli lia flato il primo ad eifer con oration
publica celebrato; com auuennead Hippolocho: et fi come
Annodio, ÓVAriftogitone furono i primi, ài quali fu ifer drizzale fta tue
pu 83 bliche in honor loro. Et il medefimo fimilmentc s'hà da mten /
dere, et fi può confiderare, èV applicar nelle cofe, alle già dette, 84
contrarie; cioè à quelle che recan biafmo. Ma fela perfona ftef ' fa, di
cui prenderemo à parlare, non ci potrà co i fatti fuoi proprij abbondanrc
materia fom mini (tra re; potremo in tal cafo ridurlecolein comparatione,
ponendola in paragon con altri. fi come foleua fare Socrate ; come quello,
ch'era molto vfàto, et alTuefatto nel gener giudiciale. Maja ben di metti eri
di far la comparation con perfone d ìlluttre virtù, di chiara fama
: conciofiacoià che amplificata, Se ingrandita vien la virtù di colui, il
qual fia à quelli, che vircnofi lono, ancepofto. Et in vero non fenza
ragione in teruiene^fc hà luogo l'amplificacion, nel laudare; come quella,
che conulte in vn certo eccello: Se già fàppiamo, che l'eccedete hà in
apparentia in fe del lodeuole,& dell'honelto. Oride hafee chequando ben non
fi pollon le perfone, che lodiamo, paragonare, et comparar con perlone *
egregie, &di gran virtù; li doueran nondimcn porre in conparatione con
altre, quai fi voglian che fieno. pofciache pur che s'ecceda,parchc il
folo eccedere porti inditiodi vrrcù, et faccia 85? accrefeimento alla lode.
Hor per concludere, pare, che di tutte le fpetie, et forme d'argomentare, che
fon cornimi ni à tutti i generi delle orarioni, l'ampliflcation ita,
piùaccominodara, 6c 90 proportionata alle demoftratine. conciofiacofa clic
color, c hàn da lodare, pccndan di fuora, et come già manifefte
fuppongan le arcioni, c'han da narrare : di maniera che folo retta loro
di far con amplificatone apparir la grandezza d'effe, et Ihoneflà 51
che le portan feco. Gli elTempi poi fon molto accommodati et appropriati alle
orationi del gencr confultatiuo : perciochc dalle cole già meccite per il
Dallato, fogliamo decorrendo, Se 51 conictturando fargjuditio delle
future. Et gli Emhiniemi final mente pare, ch'allc gìudjciali
orationi.4>ccomroodino, et conuengan principalmente: ( pofciache le Gftfe,
che già fon pattate, cVhan giàhauuto effetto, pollonpriocipalmctc tra
tutte l'altre* maggiormente dar luogo al ccrcarfene la cagione,& ad
cifer demottrate con fillogifmo, non elfendo elle manifcftc, poi che caj$ dono
in controuerlìa. Daquai cole adunque depcndano, et qua(ì nafeano tutte (lì può
dir ) le lodi, et i biafmi : Se à qtiai cole parimente s'habbia da tener
l'occhio volendo lodare, ò biafmare : Se da quai propofitioni, come da luoghi,
fi poifan trar forme da celebrare, et innalzai lodando, ò da infamare, et imbruttir
vituperando ; può effei mani fedo per le cofe, che fi fon dette fin qui :
potendo facilmente per fe medelìme, dalle cofe, che dette fi fon della
lode* apparir note quelle ancora, che lor fon contrarie: pofciacjie dai
contrari j dcllalode, Se dellhoncfto, rcfulra, Se d crina il hi*fmo. (apo io.
T>el Gencr giudìciale : et prima dell'ingiurie, tfcaujè di quelle 5
{fàquai capi fi poffon ridurr^. Egueal prefente, che palliamo fecondo I
ordin'incpminciato, à dir dell accufationc, et della difenÀ ' (ione ; Se
alfegniamoda quante cofe, Se da quali s habbian da formare, et da
concluder in quelle, le argomcnutioni. Fà dunque di meftieri in quello
propoli to di vedere, Se di potlcder tre cofe. L vna e, per cacion di quali, Se
di quante cole far fogliano ingiuria gli huomini. La feconda è poi, di che
forte, Se come dilpoiti fien quelli, chela fanno. Se la terza gli
arTctti,& paflìon dell'animo, piò di lotto al Tuo luogo dichia i j
Jcremo. Reità al preferite che noi veggiamo per cagion diquai \ cofe j Se
in che maniera qualificati, et difpofti, et contea di. che ò 16 forte di
perfone, loglian fare ingiuria ^li huomini. Primieramente adunque voglio, che
distinguiamo, et moftriamo per \ .quai cofe conseguire,. et perquaifehiuarc,
fogliam noi rentaic, Se indurre l'animo a fare ingiuria: cirendo mani
fe&o, ch'a col uf chacenfa, appartien di cercare, Se di confiderarc
quali, Se quan tedi quelle cofe fi truouino nell auuerfano, lequali
appetir foglion rutti coloro, ch'ingiurian chiunque fia. &achi
difende, perii contrario, Quante, óc quali. di quefte cofe medefìru*
non 17 yi fi trottino. Dico adunque ohe tutte le cofe, che tutti gli
huo *ni ni fanno, parte fanno eglino non da fc ftcflì, nè per
arbitrio proprio ; Se parte da fc fteiìì per lor proprio arbitrio. Se di
quel le, che non da fc ftefli fanno, alcune ne fan per fortuna,&
altre fpinti da ncceflìtà. Se parimente tra quelle, che fan petneceflìtà,
alcu ne ne fan violentati da forza eilerna, et altre ipinti, et in io
dotti dalla natura. Onde ne fegue, chetarne' le cofe y che gli huomini,
non da fc ftcflì fanno, alcune da fortuna, altre da natura, Se altre finalmente
da violentia, Se da forza nafeono. Di ueJlecofepoiJcqualicglindafe Itéflfì
fanno, Se di cui elfi meefimi fon cagione,alcunc fan per confnetudine, et altre
per ap ai petito. et qucile ò per appetito rationale, ò per appetito non
ra rionale : eiTendo la volontà, rationale appetito di bene;
po1 feiache nell'uno e, eh altra cola voglia, che quella, che già da
lui 13 (la giudicata, et accettata lotto ragtó di bene. L'appetirò
irrario nal poi fi truoua eiTcr di due maniere, quello dell ira, et quello »4
della cupidità, over della concupifeentia. Per laqual cofa neceflàriamente da
quel, che fi e detto fegue, che tutte le cofe, che fanno gli huomini, da
vna di quelle fette caufe per forza nafeano. cioè oda fortuna, òda violentia, ò
da natura, oda confiteli nuli ne-, ò da ragione, ò da ira, ò da cupidità. conciofiacofa
che il voler, con aggiugnere altre diuilìoni, diilingnerlcattioni
dcll'huomo, fecondo la ditlintion dell'età, de gli habiti, Se dell'altre
códitioni, Se qualità de gli huomini \ farebbe cofa fupcrHua, 16 Se fenza
bifogno fatta. Peroche fe a quelli, che fon ne gli anni giouenili pare,
che fegua quella proprietà d'eiferc iracondi, Se pieni Jl TrtmoTibro.
6 > pieni di cupidità ; non per quello dalla giouinezza fon
molli, Se indotti a far quel, che fanno: ma l'ira, et la cupidità fon
quel 17 le, che gli muouono. Ne parimente i ricchi, Se quelli, chefono
opprefli da poucrtà,fon dalle ricchczze,cV dalla pouertà fpm ti alle loro
attioni : ma per accidente accade, ch'i poueri per cagion delbifogno, et mancanza
loro, habbian cupidità di danari, dalia qual cupidità fon molli. &i ricchi
per la confidenza, c hanno di poter confegnir quel, che vogliono,
appetifconole Cofe più tolto voluttuofe, che necellarie. onde gli vni,
&gli altri di quelli vengono a operai e, non moflì, come da caufa, dalle
lor ricchezze, ò dalla pouerrà, ma dalle lor cupidità folamcn18 te. Non
altrimenti ancorai giù iti, Se gli ingiulti, Se tutti gli altri,
ch'operano fecondo qualc'habito, ò difpofition, che tengono : operano quel, che
operano per alcuna di quelle cagiòn già dette: operando elfi, ò per
ragione ò per affetto dell'appetito : quantunque alcuni di loro per collumi, Se
per affetti buoi ni, Se alcuni peri lor contrari j faccian le loro attioni. E x
beni vero ch'ad altre, Se altre forri d'habiti, accufano,&
confeguono parimente altre, Se altre delle già dette caufe. conciofiacofa
che l'ubico ch'vn fia temperato, gli confeguitin tal volta per
cagion di quella temperanza, intorno a i piaceri del fenfo opinioni,
Se appetiti honefti ; Se all'intemperato per il contrario intorno
à quelle {Ielle cofe, feguitano opinioni, Se cupidità contrarie. 3 o
La onde quelle così fatte diuifioni lì pollon ragioneuolmente la 3 1
feiarc indietro, Se Col balla quanto ad effe conlidcrare quali del* ledette
caufe, a quali conditioni, et qualità d'huomini, feguitij i no Se vengan dietro.
Però che fe ben per elTer Ih uomo ò bianco, ò negro, ò grande, ò piccolo, ò
d'altro limile accidente ; no per quello gli leguita più l'vna, che
l'alerà delle dette caufe delle attioni fue; nondimeno percller egli
ògiouine,ò vecchio, ò giù (lo, òingiulìo, ò limile, gran diuerlìtà li
croucrà per quello ncl3 3 le decce caufe, che lo feguiranno. Ec per dir
breuemente in tatti quelli accidenti, et in tutte quelle qualità, che fono
habili a variare, Se a far differenti i collumi nellhuomo, cometaria
lo (limarli ò ricco, ò pouero, ò in auucrfa, ò in profpera fortuna, ò
in fimil qualità,• in tutte (dico) li troucrà dirTercn ria nelle caii 3 4
fe deH'opcrare,che le feguiranno. Ma di quelle cole ragionerc3 j ino poi nel
proprio luogo loro. Se al preferire quel,che celia per’ora di dire, anderem
feguendo. Dalla forruna adunque fi dicon farli, et venir quelle cole, le quali
non han certa, et determinata caufa, et non per cagion d'elle fon fatte, ne
fempre, nè ii più delle volte, ne ordinariamente adiuengono : le quali
tutte conditioni poiron perla diffìnition della fortuna venir manife$7
(le. Dalla natura poi vcngono,& lì fan quelle cofe,la caufa delle quali è
in clic in trinfeca > et con ordin determinato le produce ; come quelle, che
ò fempre, ò il più delle volte nel medefi3 8 mo modo il veggon fatte, peroche
quanto a quelle cole, che nel la natura fuor della natura fi producono,
non conuiene al prelente noftro propofito fottilmente inueftigare, et moftrare,
fe da qualche potentia, òc forza della natura Iteflà, ò ver più
torto daqualch'altra cagion deriuino : folendo parer, chela
forruna 1$ ancora, cllcr ne polla (limata caufa. Da violcntiadircm poi
farli quelle cofe, lequali da quelli ItelTì, che le fanno, fon fatte có40 tra
la lor cupidità, cV contra i volere, et configlio loro. Per cófuetudin fidicon
poi farfi quelle, che per haucrle l'huomo fpef41 fi (Time volte fatte, le fa
poi quafi come arfu efatto in elle. Per difeorfo poi di ragione, cV per
configlio fi fan quelle cofe, dalle quali paia, che polla venir commodo,
Se vtilità, et che fondi quei beni, che già di fopra hauiamo allignati, ò
come h ni,ò come mezi indirizzati ai fini: et fi fanno ol tra ciò per cagione,
et 41 conintention di quel commodo, &di qucH'vtile. quello
dico, peroche alcune cofe parimente vtili, può accader, che
faccian gli intemperati; ma non già le fanno per cagione, &a fin
di auelivtile, ma per cagion più tolto di quella voluttà, et piacer 43
fen filale, che Ila congiunto con elle. Da animo accefo,& da ira 44
vengon fuor quelle attioni, che rieuardan vendetta : et è dipinta la vendetta
dal gaftigo,ò ver dalla puni rione, perciocheil gaItigo fi fa per caufa, ÓV per
vtil di colui che lo paté, et io riceue: doue che la vendetta fi cerca di
far per caufa, et fodisfattion di chi la fa, accioche egli col mezzo di
quella renda fatio il fuoani45 mo del danno d'altri. Ma intorno a quai cofe
confi Ila, et riabbia forza l'ira, potrà efler manifcfto per le cofe, che poi
al luogo 46 fuo tratteremo degli affetti, et paffion dell'animo. Per
cupidità finalmente fi fan quelle cofe, che fon voluttuofe, gioconde : et tra
cofi fatte cofe gioconde, fi deon connumerar le cofe fatte già confuete,&
per il lungo vfo diuenute quafi domeniche, Jl Primo Itbro. 7 / che,
Se naturali : pofeiache molcc cofe fono, ch'in lor natii» ra non recan
piacere, ne fon gioconde, eV nondimeno per il lungo vfo frequentate, con
diletto, Se con giocondità lì fanno. Per laqual cofa per raccogliere in
capf, quanto in quello proposto detto riabbiamo, tutte le cofe, che gli huomini
da loro Acuì fanno, o le fon buone, o vogliam dire vrili, o le appaion
tali, o uer fon gioconde, o gioconde appaiono. Et perche tutte le
cole, ch'eglino da loro flefli fanno, le fanno volontariamcnte,& (ponraneamente,
Se non fpontaneamente fan quelle, che non fan da loro fteilì, ne fegue da
quello, che tutte le cofe, che fpontaneamente, Se volontariamente fanno,
iianodi ncceilìtà buonc,o vo gliam dire, vtili, o appaiilcon tali, ouer
fian gioconde, o giocoeie appaiono. Et pongo io in numero frà i beni, Se fra
gli vtili, la libcratione, Se lo fchiuamento de i mali,& di
quclli,cnappaioa mali : Se parimente il riccuimento del manco malc,in
1uol;o del maggior male : emendo l vna, Se l'altra di quelle cofe in vn
certo modo, eligibilc. Et per la medefima ragione pógo in numero
fri lccofevoluttuofe, &c gioconde, la libcratione, et lo fchiuamento
delle cofe dolofe, Se molefte, Se di quelle, chappaton tali, Se il
riceuimento parimente del minor dolore, Se minor rooleflia » in luogo
della maggiore. Fa di mellieri adunque di cercar',& di veder quante,
et quali fiano le cofe vtili, et le gioconde. Et quato alle cofe vtili, già di
fopra nel trattar del gcner d ehb erati uo,fcn'e detto quantopuò ballare, onde
refta, che delle gioconde, Se Yoluttuofcal preien te ragioniamo. In che
far' debbiamo (limar, poter lediffinitioni, et deferittioni che daremo,
fodisfàre a ba-» ftanza,fe tutte quelle cofe, ch'occorreranno, faran non
efattamente efquifite, ne con ofeurità poco manifefle. Poniamo adun que
per hora non elfere altro la voluttà, ch'vn mouimento, Se titillamento dell'animo,
Se vn fubito ritorno, Se fcnfibilmcnte percettibile, a reftaurara natura :
Se il contrario di quello s ha da intendere ellèr la molellia»'Del/a r R^tprtca
dlA^> (apo il. Ideile co/e gioconde, ouer voluttuoje \. per cagion
delle quali,Joglion recar fi a fare ingiuria gli huomim. et de i luoghi da
tro~ uarle, da conojcerle, £f da moHrarle^j. Ssendo adunque la voluttà
della forte, c'habbiam dichiarato, già può per quello apparir
manifefto, che giocondo, et voluttuofo fi debba (limar tutto quello,
chefiaerfettiuo, et prodottiuo di tal crletto : et quello per il contrario, ch
o di quello (IciTo affetto faràdeftruggitiuo, o del contrario d eflb,
eflettiuo, doloralo, et inolefto potrà giudicarli. Laonde nectllariamente ci fa
per il più,giocódo il lentire appro(lìmarcia quello, chcci paia, che
ricerchi in noi la natura. et ciò maggiormente quando fi fen ta,chc quelle
cofe, ch'appetite in noi dalla natura fono,fianoarriuatea confeguir la natura
loro.Et le cófuetudini ancora>cV le co* fe per lungo vfo confuere, ci
fon gioconde : perochc quello, che per fiequcce vfo,& lùga
alUicfattion diuien cófueto, par che douenti colà quali naturale,hauédo aliai
fomiglianza la còfuctudine có la natura. cóciofiacofa che appartenevo alla
natura ilfemprc,& alla cófuetudin lo lpclfo,c'l frequétameto, par che lo
fpeffo,& la frequétia,sauuicini in vn certo modo al fempre.Oltra
di quello giocóde fon quelle cofc,che violctia alcuna nó hàno
feco, clTendo la violentia, 6c la forza, cornra la natura, et a quella
opponga. 8c per quello lenccelTìtà fon fempre noiofe, et molcltc, onde non
fenza ragion fi fuol dire, che tu tre le cofe, che h fanno impofte, &c
violentate da neceffità, han feco congiunra noia, de moleftia. Per la qual
cofa le cure, gli ftudij, lediligcntic, et gli sforzi, cV le anfictà dell
animo, fon tutte cofe moiette, come quelle, che fono in vn certo modo
necellìtate, Se violentate, fc ià per lungo codumc, et inuecchiata
confuetudinc, non fune huomo aliucfatto, et quali riabituato in clTe:
percioche in tal 4 cafo l'vfo, 6c la confuetudinc le farebbe parer
gioconde. Ma li contrari; d elle tengono in fe giocondità, et per
confeguente la pigriria, l'incrtia, lo fchiuamento della fatiga, la
negligentia, il lolazzo del giuoco, il npofo, il fonno, et limili, fon
tutte cofe > che Jl Primo libro. 7 3 che trà la gioconde
connunierar fi pollbno, non eiTendo in effe 7 forza di neceflìtà, che
moleftclc polla rendere. Ogni cofa anco* ra, di cui fi tenga cupidità, fi
può (limar gioconda, non ertendo altro la cupidità, ch'appetito di cofa
gioconda, o (oaue, che voI gliam dire. Delle quali cupidità, alcune fon'in noi
difgmntc da $ ragione, Se altre per il contrario congiunte con erta,
ditgiunte da ragion chiamo io quelle, che fenza difeorfo, ogiuditio di
ragione, Se fenza che laiiuerriamo, o confidcriamo, cadon nel defidcrio,&
appetito noftro. tali fon tutte quelle, che fon dette in noi cupidità di
natura, come eccitate» Se nate da quella : fi come lon quelle, ch'ai corpo
dello per fuo foftenta mento, Se bifogno, (penalmente appartengono : come a dir
la lete, et la fame, 10 che (on defidenj di nutrimento :& finalmente
tutte le altre cufuditàjche riguardan ciafcunaalrra fpctic di nutrimento.eHa r
B^tprìca d 9 miriti otelz^ che gioconde furono, fc doppo quelle, nel
tempo, che fia fegui16 to poi, qualche cola o honefta o vtile fi fia cófeguita.
onde non fenza ragione fuorviarli quel detto. Dolce cola è il ricordarli
dei palla ti pericoli, a chi già laluo fé ne vede fuora.cV quell'altro
detto. Doppo li (udori, &lcfatighe gran diletto fente qualunque molti
mali habbia già (offerto, et molte cofe habbia fatigofamentc fatto. et la
ragion di tutto quello nafee dall cfierc ancor cofa 17 dolce, cV gioconda
il non hauer'il male. Et quanto alla lperanza poi, quelle cofe nello
fperarle ci pollbn parer gioconde, le quali ci paia, che prefenti ci
fu/Ter grandemente o per dilettare, oper cflerc vtili, o che almen con l
vtilità che porraifero, non fullc cógiunta moleflia alcuna. et per dir
breuemcnte,tutte quelle cofe, che pofion prefenti recar diletto, et giocondità,
potranno per il iS più,& nel ricordarfenc, et nello fpcrarfi, parer
gioconde. Et per quella ragione l'accenderli d'ira porta giocondità, ÓV
diletto fe19 co. fi come Homeronefà teftimoniaza poetizando dell'ira, quado
dice, che l'ira moltopiù dolce del mele, cade diftillando in20 noi. et quello
auuienc perche nelFun s'accende d'ira contra di chi polla egli (limar cofa
imponibile il far vendetta: et contra di quelli ancora, i quali potiamo
(limar, che molto d'autorità* et di poter ci auanzino, o non diueniamo irati, o
molto meno. Suole ancora alle ftellc cupidità, Se fpetialmentc fc molto
vehementi fono, feguitare, et cógiugneriì le voluttà rpercioche dando cógiunto
con fi fatte cupidirà,o la ricordanza d'haucr già cófeguito, et goduto
quelIo,di che fiam cupidi, ola fperanza d hauerlo a conseguire, veniamo a
fentir lieti vna certa voluttuofa dilettatane, come vediam (per elicili pio)
aunenirca quelli, ch'inMarnati da potente fcbre,ardon di lete, peroche
ricordandoti di quando han ben uro, o fperando, et difegnado d'hauer pur
qualche volta a bere, fentono in cosifatta imaginatione, piacere,
Se diletto. Parimente coloro, ch'ardentemente amano, ogni volta che
ragionano, o ieri nono della cofa amata, o altra cofa fanno, che riguardi,
o habbia per oggetto quella, fenton piacere, Se dilettationc. conciofiacoia che
tenendo eflì in tutte quelle cofe l'imaginatione, et la memoria nella
cofa, ch'amano, paia loro 25 in clfcd hatierla allo (tciTblorfcnfo
prefente. et per quello il più certo principio d'inditio d'amore in tutti
quelli, ch'amano, (i può (limar, che fia, quando non lolo fenton diletto
mentre che la cofa Jl Primo libro. fa cofa amata ftàlor
prefcnte, ma ancor nell'adentia di quella» conferuandola nella memoria,
l'amano, et piacer fcnton nel ricordarli di quella : et per confeguenreallhor
fi può dir, chadamar comincino, quando per non lhauer prefenrc
s'affliggono, 14 8c molema fcntono. Oltra di quello nel mczo dei pianti,
cV dei lamenti fteflì, fuol parimente vna certa voluttà mcfcolarfi:
perciochc il dolore, et la triftezza quiui nafcc per la mancanza della cola,
della cui perdita piangiamo, et ci lamentiamo, cornea dir della morte
d'alcuna perfonacara : et il piacer nafcc dal ricordarci, et imaginarci la
prefentia di quella, che ce la fa parer quali hauer dinanzi a gli occhi,
rapprefentàdocifi come prefenti le tali, cV le tali cole, che ella già fatte
haueua,& particolarmente ogni qualità fua, et tale in fomma a punto, quale
era fatai ta. Onde fu ragioncuolmcnte detto, Cosi parlato hauendo, fece 16
in tutti nafecre vn defiderio di piangere. Medcfimamcnte il far vendetta
contra de' fuoi nemici, ha congiunto fcco piacere, et giocondità : peroche
quelle cofe, che in non confeguirfi recati moleftia, vengon, fele fi
confeguifeono a parer gioconde, onde eflTendo fuor di modo molefto a
quelli, che fon prefi dall'ira, il non vendicarti, vengon, non folo in far
la vendetta a fentir pia27 cere,ma ancor nello fperarla. Il vincer parimente è
cofa gioconda, et non folo a quelli, che fon per propria condition loro,
cótcntiofi, et auidi di vittoria, et di foprauanzarc, ma a tutti
gli huomini comunemente, conciofiacofa che nel vincerli venga
a generare in chi vince, vn certo concetto, et vna certa imaginatione, et opinion
d'eccedere,di che tutti gli huomini,chi più, et chi manco, fon vaghi, cV in vn
certo modo per natura cupidi. aS Etdaqueftoeirer cofa gioconda il vincere,
nafee confeguenre* mente di ncceflìtà, che tutte quelle forti di giuochi,
rechin diletto, i quali han feco congiunta contcntiofa altercatione,
emùlatione, et gara, come a dir quelli, c'hanno in fe vna certa fomiglianza di
contefa, et di pugna : et quelli parimente, ne i quali con harmonia di
muficali inftromenti fi gareggia, o con difpu19 tatiue dubitationi, et queftiqni
fi contende, peroche in cosi fatti giuochi accade fpefle volte, che fi vinca,
la fpcranza della qual vittoria c gioconda, onde nel giuocho parimente de
i dadi, della palla, delle tauole, degli fcacchi, et umili, fi come vna
fpetie di contention vi fi truoua, così ancor piacere, et giocondità vi
fi K ij gufta. Se nei giuochi oltra.ciò più fatigofi,& ferij,&
chchan piò del graue,& cÌcH'ingcnuo,il medefimo parimele
adiuienc.perciò che alcuni di lor fi redon diletteuoli per 1' vfo,&
per 1 allucfattion, che fi faccia in elfi, et altri dal principio per loro
ideili lon gioco di,comc fon le caccie có cani, et tutte l'altre foni di
cacciare, de porre infidie, et perfecutioni a fiere: pofciache douuque fi
truoua contcntionc, e con rialto, quiui è forza, che parimente vi Ci 3 1
porta trouar vittoria. Et per quefto il trattar liti in guidino, et le di
fruì tat ioni piene di con n onci ha, portan feco piacere, et giocondità a
quelli ch'ofonafiuefatti,& confueti in eirc,o fi lenton 32 potenti, et
habili a valere in quelle. Appn Ilo di quefto 1 honorc, et la buona reputatone,
che s'habbia di noi, li dcono tra le cofe grandemente gioconde
connumerare,per l'immaginai ione* et opinion, che da quefto ne viene a ciafcuno
d'efier virtuofo, che gli impru* 5 j denti, et più tofto finalmente i
molti, ch'i pochi : ellcndo molto più verifimilc, che fien per giudicare, et dire
il vero qucfti ta$6 li, che noi habbiam nominati, che i lor contrarij.
perciochedi coloro, che noi in niun conto, et in nell'una ftima teniamo,
come fon fanciulli, o fiere, o limili, poco fogliam curare, o auuertir per le
ftcftb honore alcun, che ci facciano,o qual li voglia opinione, et rifpetto,
chabbian di noi, dico per fe fteifo,pcrciòche può accadere, che per cagion
di qualche altro interelTe,che vi fia 17 congiunto, fi tenga di tal cofa
conto, &c piacer fe ne prenda. Gli amici ancora fon da clTcr pofti in
numero con le cofe gioconde, effondo gioconda cofa in fe ftcftà l amare:
pofeiache neflun fi vede eller (per ch'empio) amator del vino, che nel vino non
lenta 3$ diletto. Dall'altra parte èancor cola gioconda l cHcr'amato:
percioche, quefto ancor vien'a generar in noi immaginatone, et credenza, che in
noi fia qualche virtù, et qualche bene, ch'attragga afe queir araorc> della
qual credenza comunemente tutti gli huoJl V rimo libro. 77 gli
huomini, che non fono infenfati, fon cupidi. cVgià fi e detticene 1 ellèr'amato
cófifte in efTer'hauuro caro per loia cagion di 1 9 le ltello, Se non per
cagion di chi ama. Oltra di quello gioconda, cola è 1 cllere limi uro in n
in mi rat ione, re can do giocondi tà,& di40 letro 1 "e Ili-re
honorato. et ladulation parimente è dolce, et gioconda cola, Se per confeguentc
gli adulatori ancora, concioliacofa che color, ch'adulano, tengano apparentia d
ammiratori, ò in vn altra iìcila qualità congiunte, pare, che in quella
natura tra di lor con uengano ; di qui e*, che tutte quelle cofe, che
hanno in lor cofi fatto congiugnimelo di fomigliaza,fono l'vna all'altra per il
più giocóde: com a dir 1 h uomo ali h nomo, il cauallo al cauallo,i
gioueni a i gioueni,& |4 limili. Onde fon nati quei triti (fi mi
prouerbij, il Coerano gode di dar col Cocrano j il limile appctifee, et ama
il fuo limile $ l'vna fiera fegue,& conofee l'altra ; La (la fempre con
la et Cornacchia, et altriprouerbij limili. Et perche à
cia(cheduno fon gioconde quelle cofe, c'han qualche congiuntone,
(omiglianza, et conformità con elTo,* et ciafeheduno ha cotali condirioni
principalmente con fcco ftcflb ; ne fegue neceilàriamente, che tutti gli
huomini ò più, ò meno > fian cari, 8c giocondi a fc fteffi, et amatori di
(emedefimi: verificandoti, et hauendo luogo in ciTì tutte ledette conditioni,
et modi di con* ;6 giugnimento, principalmente in rifpetto di lor
medefimi. et da quello cfler tutti amatori di fc fteffi, nafee
ncce(fariamentc,che a tutti parimente paion gioconde le proprie cofe
loro : cornea 57 dire i propri) lor fatti, le proprie loro drationi, Se
limili. Er da quefto nafee, che per il più lògliono gli huomini elTer
amatori degli adulatori, et degli amanti, ò innamoracene vogliam dij8 re;
Se parimente auidi d'etfère honorati; &vehcmenti ama5 9 tori de i lor figli
; ellcndo i figli proprie opere loro. Medelìma60 mente gioconda cofa è il dar
perfezione, Se por l'vhima mano aimpreie, et cole incominciate da altri,
&poi lafciate imperfette : parendo a quei che lo fanno, eh in quella guifa
vengano 61 a douentar quelle tai cofe, come opere lor proprie. Oltra
di quefto eflendo il regnare, ò vero il dominar, cofa giocondilTìma per
Aia natura, vien confeguentemente ad cilèr cofa giocon dal clferhauuto per
faggio, et per fapientc: pofciac'.e l eifer dotato di fapientia, ha in Ce
del regio, et ticn grandapparcntia di principato: non e (fendo altro la
fapientia, chefeientia, Se co gnition di molte cofe egregie, nobili, Se
piene d arnmirationc. 61 Etpcrche gli nomini per il più fon cupidi
d'honore; ne fegue necellariamente, che nell ammonir, Se correggere gli
altri, 6} Se inoltrar loro i loro errori, fi fenta dilettatione. Appretto di
quefto porta aU'huomo giocondità l'occuparli, Se confumare il tempo in quelle
attioni, Se nello ftudio di quelle cofe, doue egli in fe ftellb fi
perfuade d'eccedere, et di valer molto ; li come dice Euripide con quefte
parore,Ciafcun fi vede elfer frequente, Se follecito, &la maggior parte del
giorno alfegna, et (pende in quelle cofe, nellequali fi Itima eccellerne, et pare
afe 64 ftellb di valere aliai. Medelimamente perche il giuoco, ci
follazzo, et ogni forte di rjpofo, Se di relallàtione, fon da porre
in numero tra le cofe gioconde, &il rifo parimente; ne
feguedi neceflìtà, che gioconde faranno ancor tutte le cofe fefteuoli,
Se atte, Se accommodate a muouer rifo, ò huomini che le fi fieno, o
in detti, ò in fatti, che le confiftano. Ma de i ridicoli fi è trattato, et detcrminato
appartatamente come in p.opno luogo, *S nei Libri della Poetica. Et tanto
balli hauer-dìn qui detto delle cofe gioconde, delle noiofe,dolorofe, Se
moleftc poi, fi potrà 66 facilmente da i contrarij di queftehauer notitia.
Tali adunque quali habbiam dette, fon le cofe, per cagion delle quali
foghont gli huomini offendere, Se fare ingiuria'. / o tDella r
R(torica dlArì8otele^> (apo 12. Quali Jogliono ejftr quelli, che
volentieri fanno ingiuria, quelli, cantra de i quali fi voglia farcs. Eguita
al preferite, che noi diciamo, qualmente iicn difpolli, et condmonati
quelli, che fanno ingiurie, Se conerà qual forte, Se condition d
hiio mini fi foghan fare. Quanto dunque a quei, che le fanno, allhor
primieramente s'inducono gli huomini a fare ingiuria, quando penfan, che
la colà in felia poffibile, et a loro (ledi, che la machinano, poiTibile a
tiuicire. Se parimente s'eglino (limano, ò fperano, eh il fatto rubbia da
palla re occulto; ò quando pur venga a luce, non n'habbian da eiTer
puniti, Se da patir pena ; ò fe pur n habbian d'hauer punitione, ila per
ciTer nondimen la pena, e'1 galli go minor del guadagno, Se del commodo,
che dalla fatta ingiuria fiaper venirne, òa loro fletti, òa perfone, che
fian lor care. Se delle quali ad elTe lìnterelio, Se la cura tocchi. Quai
fian poi le cofe, che poflbno apparir poffi bili, Se quali
impolTib.li, li dirà, Se fi dichiarerà, et saflegneran di poi al fuo
proprio luo go, per ciTcr quella, vna delle cole communi a tutte le parti,
et generi di quell'arte della Retorica. Hor quanto a quelli, che fian per
confidare, Se (cimar di potere ingiuriando palTare, impuniti, Se fchiuarei!
gaftigo ; tali principalmente fon quelli, che fon potenti nel dire,
&cono(con di valer aliai con la loro eloquenza. et quelli parimente,
che fono atriui, et piatichi nelle attioni del mondo, et elperimcntati
nelle liti, Se nelleagitationi delle caufe, Se delle controuerfie ellercirati. Et
tali ancor faranno fe molti amici, et la grafia di molti haranno.& fc
faranno abbondanti di ricchezze. Et quella confidenza auuerrà lor
principalmenrc, fe conofeerano, che le dette condiriom, fi truouino in
elfi proprij : Se quando in lor non fiano, almen che le fiano in amici
loro, ò in miniilri loro, ò in compagni nelle ingiurie, che fian per fare.
Tuttequellc condiriom adunque polTon recare a gli huomini poflìbilirà di
fare, Se di celar i ingiù jia, Se di fchiuar, quando la non fi celi, il
gaftigo, et la punì rione. Se Jl Primo libro. et i % ne. Se il
medefimo potranno fperare ancora, fe faranno amici a gli ftcflì
ingiuriati, o a i giudici, dinanzi a i quali habbiadapen5 der la cauta loro,
percioche gli amici non fi guardando, Se non fofpettando, fi rendon come
men cauti, più facili ad effere ingin riati. Se oltra ciò fi può fpcrar,
che per clFeramici, fiano per voler terminarla cauli dellla ricciiuta ingiuria,
più rollo per via di 10 riconciliatione, che per viad'accufa, Se
digiuditio. Se quanta a i giudici fi dee credere, ch'eflendo lor amici,
ccrchcran di gratificar fi loro in tutto quel, chepoflono, Se per confcgucntc
laranno, o totalmente per liberargli, et lalciargli impuniti, o al1 1 men per
dar piccolo, Se leggicr gaftigo. Quanto poi al confidar di poter relhr'occulto,
Se ignoto l'auttor dell'ingiuria* quelli primicramcntcpollono ciò fperare,
i quali aquella forte d'ingiuria, che fanno, pollbn parere inhabili, Se poco
proportionati, et tali, che da elfi afpcttar non fi douclic mai.
come faria (per ch'empio) ch vna pedona inferma, Se di dcbol forza,
fi fuflc pofta a dar delle battiture, o delle ferite ad vno, che
molto più gagliardo fufle : ouer eh' vno, chefuilc pouero di robba,
o brutto della perfona, hauelTc commetto adulterio con bella, et il
nobildonna. Pongono ancora Ilare occulte le ingiurie, et i delitti, quando
accafean farli intorno a cofe, che molto alla libera, Se alla lcoperta
efpofte dinanzi a gli occhi di tutti ftano. perciòche per non crederli,
ch'alcun mai ardilfe di por le mani in elTè, fon 13 per quello con minor
cura,& diligentia cuftodite. Et il medefimo ancor lì può dire, quando le
cole fulferdi tanta grandezza, Se quantità, et di tal qualità, che non lì
douelTefofpicar mai, che in animo d'alcun cadclfe intention di commetter
delitto in elle, Se non fi fapelTe, ch'alcun l'haiieHe in fimtl cofa
comincilo mai. nel qual cafo non è dubio,che tai cofenon veniilero ad
eller manco 14 guardate,^ molto alla fecurarcnute. conciofiacola che tutti
gli huomini comunemente, fi còme di quelle forti d'infirmità temono, Se da
ciré fi guardano, che foglion frequentemente accafcare,& di quelle perii
contrario non rengon cura,lequali non fi sà, ch'ad alcun fiano accadute,
così parimente da quelle forti d'ingiurie, Se d ofTefc, fi rcndon cauti,
et con diligentia procuran di cuftodirfi, che per il più fi foglion fare,&
più vfirate fono, Se a quelle, che nelfuno è c habbia commclfo mai, non
tengon i; l'occhio. Mcdcfimamente s inducon'a fare ingiuria con la SPERANZA
T>ella lirica d* Jlrtttotelz^j panna di rcftare occulti, coloro,i quali
non hanno alcun nemico, 16 et color parimene che molti nemici tengono;
percioche gli vniprendon confidentiadi pacare occulti, come quelli, che
nó temon d ellerc olTeruati, 6c in fofpetto hauuti : et gli altri,
cioè quelli, c'han molti nemici, (limano ancoreflì di re Ita re
afcod,& di non ditienir palelì : per nó parer verifimile, eh clfendo
lofpetti, et del continuo olleruati, fi mettano a far Tintinna quali 17 eh
alla feoperta. oltra chcpolfon difegnar d'hauer poi quella difendone in dire,
che tapédo d'elfere hauuti in fofpetto, et che facilmente li farebbe attribuita
la cofa a loro, non lì farebber mai 1 8 melTi a tentar vi! fatto tale.
Tengono ancora, in vn certo modo confidenza di non elfer difeopcrti autori
dell'ingiuria coloro, c hanno occadonc, et coramoduà d afconderil fatto,
et a cuinó i manca ccmpo,o luogo,o altro modo, óc via di reftar'occulti. Si foghon
mededmamente indurre a fare ingiuria coloro, li quali non riufeendo loro
di celarci delitto, pollòno al meno fperar di fchiuare, ck di tor via da
fe,che la cauta vada in giudicio, o veramente di poter prolungarla, et inandarla
molto tempo in lun10 go, ouer finalmente di poter corromper i giudici.
Etilmedcdmo fi dee (cimar di quelli, i quali fapendo, che fc punition
farà pur data loro, quella harà da eder' in danari, polforVconfidarc,
o di liberarfcne, 6c redime alioluri, o di molto differire, et roan^ dare
il pagamento in lunga, o Veramente in tanta pouertà (i vegai gono, che nulla da
retato lor più, che perdere. Difpodrion parimente atta a ingiuriare, fi dee
itimarc elfcre in coloro, ai quali per Ungi uria che fanno, iìa per venire
il guadagno, c'1 commodo o certo, o grande, o propinquo» Óc il gaftigo per il
contrario,o piccolo, o cìubiofo, et incerto, o lontano, cioè con djlarion
di. 11 tempo. et maggiormente aucrrà qucfto fela punitione, ci
ga*« (ìigo, tiicna mai per venitnev quanto (i voglia grande clic liajarà
(empre minor dcll'ttile, et del còmodo» che iìa per recar 1 in-. 13
giuria, come par chegli adiuenga nella Tirannide. Soglion'aa-s cor'wdurlì
a fare ingiuria quelli, a cui per 1 ingiuria, che fian per fare, dd per
venite vtile, et guadagno, et il galhgo, che ne pollano haucrc, altro non
damper importare, che .infardi » oc* ignomu, 24 ma fola; et quelli per il
contrario ancora, i quali veggono, che dall' ingiuria, che facciano» da
lor per multar lode, honore, &. riputatone, comcauucrria (per
cecropio) le con l'ingiuria fuilc congiunto fi Primo libro • 8
$ congiunto il vendicarli deH'orFcfe fatte al padre, o alla madre,
(i coro auuenne a Zenonc;& dall'altro canto la punitione, che fia
per fcguimc, habbia da cller o di danari, o d efilio, o d altra t$
colatale, percioche gli vni, et gli altri di coftoro, et nell'vno, ffc òc
nell'altro dei due detti contrari) modi difpofti, logliono indurli a fare
ingiuria; ma non nelle m ed edm e pedone, et nella medelìma forte
d'huomini ; ma più torto in perfone di coftumi, cV di qualità contrarie, haran
luogo i due detti contrarij z6 effetti. S'inducon parimente, et s'all'cairano
a fare ingiuria co loro, che hauendo molt altrcvolte ingiuriato, o non
iono (lari difeoperti, ne conolciuti mai, o non n hanno hauuto gartigo,
ti 17 né punitione alcuna. 8c color medefimamenrc, i quali hauendo molte
volte tentato di farl'ingiuria,non è mai luccelfà lor la cofa felicemente,
percioche fi trouano alcuni, ch'in querto fatto dell ingiuriare, foglion far,
come farfi fuol nelle cofe dellaguerra, doue (e ben più volte fi e riccuuto
danno nella battagliaci ritorna nondimcn con nuoua fperanza a tentare altra
voi 18 ta il fatto d'arme. Et coloro ancora agcuolmentc fi difpongono a
fare ingiuria, a cui dal farla il piacere, c i diletto ne feguc alhorain
fatto ; et la moleftia, chen'habbia loro a venire, fia per fegu ir molto
doppo: o veramente il guadagno fia per eilèr pretto, Se prefente, et la
punition neirauucnir molto tarda. et coli fattamente difpoftì fono gli
incontinenti: potendo l'incontincntia hauer luogo intorno a tutte quelle cole,
che fon fotto19 pofte ali humano appetito. Et per il contrario dall'altra
parte poi, fogliono indurli a fare ingiuria coloro,a i quali la
moleftia, o la pena, che fia per feguirne loro, fia percllcr prefente, et per pall'ar
tofto ; 6c il guadagno, e 1 diletto fian, per fucceder doppo, et per durare
aliai, pcrochc li continenti, 6c i prudenti, co30 li fatti, Se in quella guila
difpofti appaiono. Quelli ancora a ingiuriar volunricr li recano, i quali
fi perfuadon di poter parer poi d hauerlo fatto ò a cafo, o sforzati da
ncceflità,ò pei impeto di natura, o per confuetudine, et d'hauerlo fatto in
lomma 3 1 più torto per errore, che per mahtia, Se per far ingiù ria. Et
quel li parimente, che confidan d'ottener, che la caula habbia ad e(fcre
in giuditio trattata più tofto con difereta equità, che con ri31 gorofa gi urti
ria. Et quelli medefimamentc, i quali fon bilo3 3 gnofi. ma di due maniere
bifognofi fi foglion rrouare gl’uomini, conciofiacofa che portano efler
bifognofì, ò delle cofe ftelTe neceilarie, come fono i poueri, o mendici,
chevogliam dire,* o veramenre delle cofe fuperflue, Se foprabondanti, et 14
quefti fono i ricchi. Due altre forti ancora.dhuomini tradilor contrarie,
polTon facilmente difporfi a fare ingiuria : cioc quelli, che fon tenuti,
communcmcntc in buoniflima opinione, Se di chiara fama : Se quelli per il
contrario, che fono in mal concetto d ognvno,& quali tenuti infami. gli vni
per checonfidon, che nelTun fia mai per attribuir quel fatto a loro; et quefti altri
perche non e reftato lor punto di buona fama, o di buona }f opinion da
perdere. Nella maniera dunque, chabbiatn detto, fon difpofti,&
qualificati quelli, che foglion tentare, et metterli a fare ingiuria. contra di
color poi la fmno, che tali fono, et tali qualità, et condition ritengono,
quali noi hora diremo. 1 6 Primieramente adunque fogliono elfere
ingiuriati quelli, c'han no,o pofleggon quelle cole, di cui han defidcrio,
et bifogno quei, che gli ingiuriano : o riguardi cotal bilogno le cofe
nccertaricaUa vita, o le fuperflue, Se foprabbondanti, o il godimc|7 mento
delle dclitiofe, Se voluttuofe. Faffi oltraquefto ingiuria a quei, che fon
di lontan paefe ; Se a qucHi, che ci fon d'appreffo. peroche le cofe di quefti
fono in> pronto, et facili ad ctter prettamente tolte, &ariceuere
fpeditamentc offefa. et quanto a quelli, fi può creder, che la vendetta,
Se la punition, che ce ne lia per venire, fia per efter tarda, et per
andare in lunga : come vediamo auuenirein coloro, che predando, fan danno
ai Carta 3% ginefi. Sono ancor efpofti alle ingiurie quelli, che non fon
cau ti in guardar/i, ne diligenti nel cuftodirfi,• ma liberi,&
femplici fono, Se facili a creder ciò ch'è detto loro : perciochc cotal
forte d'h uomini facil cofa c d'offènder copertamente, Se
celatamcnte. $9 Parimente vi fono efpofti i pufillanimi, Se quei, che tono
in vna certa vile, Se negligente inertia inuolti. peroche eftendo cofa
da folleciti, Se da diligenti il chiamare, Se agitar caufe in giuditio
; non fi hà da temere, che coftoro, com'amici dell'odo, lo faccia* 4°
no. Son atti ancora ad erter offefe le perfone di natura vereconde, Se gelofe
dell honor loro : perciochc di coli fatta folte d huo mini, non foglion
volontier volere eflcrvifti contender in giudi41
tiopercontodiguadagnOjodirobba. Mede/Imamente fono in pericol deflcre
ingiuriati coloro, li quali hajiendo da molti riceuuta ; ; Sf unto
altre Tolte ingiuria, non han mai per alcuna via tentato di tifencirfene. onde
vengon ad clter quelli tali, (fecondo che (1 42 fuol dir inprouerbio)
preda dei Mifij. Sogliono ancora gli huoraini indurfi ageuolmentc a
ingiuriar cofi quelli, à cui non hanno mai altra volta fatta ingiuria,
come ancor quelli, che fo43 no flati da loro molte altre volte ingiuriati,
conciofiacofa che coli gli vni, come gli altri fiano incauti, Se
negligenti nel guardacene : gli vni per che non elfendo flati altra volta da
coloro ofte(i,fe ne ftan lecuri fcnzafofpctto alcuno : et gli altri per
che fumando lor fatij dell'altre ingiurie fatte, non temon, che
fian, 44 per farne più. In pericolo ancoi d'cllere ingiuriati fi
truouan quelli, che fon communemente in mala opinione, et in mala fama, et
atti per la lor malavita ad elici lor facilmente trottate cu 45 lumnie, o
delitti addolìo. peraoche coli fatti huomini non fi rcchcrebbcno a voler
chiamare in giuditio alcuno, perla tema c'harebber di rauuolgerfi
d'intorno a Giudici. et quando pur lo facclTero non pcrfuaderebber,nc
farebbe datafede,ò orecchio alle lor parole. Et il medefimo fi può fumare
ancor di quelli, 46 che ò odiati, o inuidiati communemente fono. Ci
fogliamo lafeiare ancor facilmente indurre a ingiuriar coloro, nei quali
ci fi porge occafionc di feufare, et colorire il fatto, per haucr
già o eglino fteflì, ò i loranteccffoti, o gli amici loto, offefo, o
tentato, et fatto opra d offendere o noi (tedi, o alcun de i noftri
prò genitori, o perfona in fomma,il cui interefTe,& la cui falutc
appartenelle, et toccaife a noi. perche ( come fi fuol di re inpro47 uerbio )
fola la malitia ha mellier di feufa. Appretto di quello ci lafcian
facilmente tirare a offender coloro, che ci tengon per amici : et quei
parimente, che noi habbiam per nemici : conciofiacofa che contra quelli ci fi
renda l imprefa facile; et con48 tra quefti ci fi renda dolce, et piena di
diletto. Sono efpofti ancora alle ingiurie quelli, chefonpriui damici in
tutto; et quelli non manco ancora, i quali non han potentia,o valore alcuno» ne
in dir, ne in fare peroche quefti tali, o non fi rifentono, ne accula, o
querela in giuditio pongono o per via di nconciliation la terminano;
ofeguendo pur la cauta, 45 reità lor finalmente imperfetta, cV rielce vana.
Quelli ancora par, che dieno altrui animo di far loro ingiuria ; a i
quali non è vtile,nè mette conto di confumar tempo in
afpettarjch'o in giuditio la caufa fi termini, o che con I'efecution della
giudicata pena, fia lor ricompenfato, et fodis fatto il danno. et tali fon
(per elfcmpio) i fore(tieri,& quelli, che fi guadagnano il vit to di
giorno in giorno con le lor mani. pcrochc quefte tai (orti di pedone, per
pocacofa, che (la data loro, rimetton Tingi arie,: $o &c facili li
rendono a comporre, o abbandonar le caule. Sogliamo ancor facilmente lafciarci
indurre a ingiuriar coloro» c han fatto ancora elfi molte ingiurie ad
altri,o le non molte,n'hanno fatte almen di quella (teda force, che da noi
riccuono : p o( el iche quàdo alcun rimane orTelo di quella (tclla
orTefa,ch'eeli hab bia fatta ad altri, par che l'ingiuria, eli ci riceue,s
appretti quali a poter non elfer chiamata, o (limata ingiuria, vò dir (per
elTcm pio) come fe fu ile alcuno, che riceueitè fcherno,&
contumelia» 51 eflendo (olito di farne ad altri. Et il medclimo ci auuicn
contraquelli, i quali in altro tempo han fatto danno, o mal t rat rata mento a
noi, o l'hanno voluto fare; over lo voglian fare ai prelente, o hanno in
animo, et fi preparan di farlo ncll auuenire:perocheil nuocere, et l'offender
loro, in tal cafo, ha infc molto del giocondo, et deirhonefto ancora, et s
a pprcll a quafì 51 il non clìer veramente ingiuria. Sogliamo anche
noneilerc alieni da ingiuriar coloro, nell'ingiuria dei quali, vediamo
di far cofa grata, o ad amici no 11 ri, òa perfone da noi ammirate, et tcnutein
conto, ò a perfone, di cui lìamo innamorati, 6c d a more accefi ; o ad
alcuni, che ci lìan padroni, et habbiano auto rità fopra di noi j ò a
perfone in fomiti a, da cui in qual fi voglia 53 modo dipendala vita
noftra. Et ci aifecuriam parimente a offen der quelli, la manfueta, &:
modella natura de 1 quali ci dia lpc-> 54 ranza, che lìan facilmente
per rimetter l'ingiuria. et quelli parimente, i quali habbiamo già prima
calumniari di qualche delitro,* et quelli ol tra ciò, dalla cui
ftrettaamicitia,fcopcrtamen« o non apparire -, Se coti fatte lon quelle, che
pre fta mente lilograno, et ti confumano ; come fon (per cllempio) le cofe
da mangiare; et quelle ancora, le quali fon arre a facilmente vari u Ci,
éc parer diuerfe per can* giamenro, o di figura, o di forma, o di colore,
o di miftura, $c 61 temperamento. 6V quelle medehmamente, che con gran
com> modità fi poflono in quella, o in quel luogo afeondere, ofe
fu Uè fatta vnalìmil bruttezza di violcntia nella perfona di noi fteffi, o
dei 64 figliuoli, ò d altra perfona, che ci atten elle. Et da quella
maniera d'ingiurie ancora ageuolmente non ci atterremo, delle quali, fe
colui, che le riceue lì qucrelallè, et accula ne mouef. fein giuditio,
filile per etTere in ciò ltimato troppo litigiofo, Se troppo amico di
conrefe, et di controuerfìe. Et coli fatte ingiurie fon quelle, che come
leggieri, poco imporrano, et di poco momento fono ; et quelle parimente,
cbeloglion perii più 6$ riceucrefcula, òc meritar perdono. Quelle dunque,
che noi habbiam dette, fon (lì può dir) r iute quelle cole,
clioccorreua di dire per far conofeer qualmente conditionati, et difpofti,
fogliano cfter quelli, che fanno ingiurie; et intorno a quai cofe, et contra di
quai perfone, et per quai cagioni finalmente le foglian fare. (apo rj.
Quali anioni fi debbiati dir 'veramente giufte, ò ingiu/le, o 'ver
giuflamente, b ingiuftamente fatte. £f delt Equità, donde la nafia, ^ in
che differì fca dal rigor delle leggi. £tf alcuni luoghi da conojcerla. Egve
al prefente che di fti tigniamo, et dichiariamo quali fian le cole giufte, et le
in giù Ite, cioè le guittamente, et le ingiuftamente fatte: et prende remo
il principio primieramente di qui. Le cole giufte, et le ingiufte pendon nella
lor di ftinrione, 6c determinatione da due forti di leggi, Se da due ma in c|
redi perfone .& quanto alle leggi, alcune dico efter proprie, 4 &c
altre communi. Propria intendo efler quella, che ciafchcduna Città o nationca
fc ftelfà particolarmente appropria, et determina. et di quefte leggi proprie,
alcune fcrittc non fono, 6c 5 altre fono fciitte. Le leggi communi poi fon
quelle, cheion nfcll huomo impreflc dalla natura. conciofiacofa che vna
certa forte di giufto, et d'ingiufto fi truoui al mondo, il quale,
quantunque neiruna communicanza, òconlènlo dhuomini habbia con alcun patto,
o condition, conuenuto, o concorfo in elio ; nondimeno tutti gli huomini,
con vn certo con(en(o di natura, 6 conuengono in conofcerlo, et in
approuarlo : lì come molti a d intendere Antigona appreflb di Sofocle ;
quando arìcrroa effer cofa giuda il dare a Polinice fepoltura, ancor che dal Re
prò lubita, et vietata fufle : elTendo il far queftacofa, giufto per
legge, non d huomo, ma di natura. dice ella dunque ; non è nata, nè
introdotta quefta fortedi giufto, ne oggi, nèhieri,ma (emprc è egli flato, 6c
ha vilìuto femprc, et neflun potè mai faper 7 quando gli hauefle origine. Et
di qucfto mcdefimo giufto intende Jl Primo libro. S p tende
Empedocle, quando parlando del non elfcr ben fatto l'vccidere, et priuar
d'anima le cofe animate, dice, chetai cofa, non appretto d'alcuni è
giufta, Se appretto d'altri non giufta, ma c introdotta, et dettata da vna
legge, che a tutte le genti è commune, et per l'immenfo cielo fi diffonde, Se
per l'acre ampio Se fpaS tiofo u ftende. E Alcidamante ancor, accenna, et adduce
il me defirno nella fua oratione infcritta, Se intitolata
Meilcniaca. Quanto poi alla diftintione per caufa di perfone, due parti
Bàri* mente ha la determination dell cofe giuftamentc, o ingiuftamentc
fatte. percioche nelle cofe, che dee fare, o non dee fare l'huo mo, o s'ha
refpetto a tutta vna Città, o natione, o altra communicanza d'huomini,
confidcrati in commun tutti infieme : ò ver s'ha rifpetto a quella, o a
quella perfona particolare di quella có10 municanza. Se pcrconfeguente in due
modi potton confiderarsi, Se detcrminarfi le cofe, che dir fi pottono o
giuftamente,o ingiuftamente fatte: comequelle,che o riguardano alcuna
determinata particolar perfona; over tuttala Città communemente. percioche
colui, che commette vn adulterio, o percuote,& batte ingiuriofamentc alcuno
; vien folo, a fare ingiuria, Se a commetter cofa contra di determinata
particolar perfona. ma s ei recufa di prender le armi per (aluezza della Città
fua, tutta la città 11 conlcgucntementc riguarda cofi fatta offefa.
Eflendo dunque in due forti, Se in due maniere diftinre tutte le ingiurie,
Se tutte le cofe, che ingiuftamente fi fanno ; riguardando alcune d'ette
il communc interefTedi tutto'l corpo della republica; Scaltre il
pri nato di vna, odi più priuate perionein particolare; feguirem
di dir quei, che reità, fc prima diffiniremo,Se dichiareremo che 1 1
cofa fia, Se in che confifta il riceuere, Se patire ingiuria. Il patire, Se
riceuer ingiuria adunque non e altro che patir cofe ingiufte da perfone, che
fpon rancamente, et volontariamente le facciano : hauendo noi già di
fopradiffinitoefier cofa fpontanea,& 13 volontaria il fare ingiuria.
Et perche necettariamen te colui, che paté, Se riceue ingiuria, viene a
riceuer lefione, Se danno, et ciò 1 4 cótra 1 voler fuo proprio ; potrà
facilmente per le cofe, che fi fop. dette di fopra etter manifcfto in che
confifta il danno, et quali co fe fi polTan domandar dannofe : hauendo noi
già prima diftinta mente attignatele cofe che fon beni, Se quelle, che fon
mali. Se parimente habbiam dichiarato quaifianle cofe fpontancamenM te fatte, p
o 'Della 'Retorica d * Arili 1 ottica te farre, determinando elTer quelle,
che conofeentemente fi fani f no. Da tutto qucfto adunque ncceiTariamente
fegue, che tutte le colpe, et tu tei li delitti, che fi fanno, ò
riguardino tutta la rcpublica communemente, over quella, et quella pedona
priuatamentc: Se oltra di quello o fon fatte non conofeendo, et non volendo, o
ver per il contrario volendo, Se conofeendo. et quello in due modi può auuemre,
cioè o con demone deliberatamente over per impulfo di qualche affetto, Se paf17
fion dell'anima. Ma quanto a coli fatti impilili, lì darà noti1 8 tia d elfi
quando poi de gli affetti tratteremo. Se quanto all'eleetionc, già di fopra
habbiam noi dichiarato prima, quali fian le cofe, che con deliberata
elettion lì fanno; Se come fatti color, chele fanno, Se qualmenre difpofti
fiano. Ma perche molte voi te accade, che fi conceda, Se fi confeflfì il
fatto,ma non fi confenta, ne fi conuenga già nel nome del fatto, fecondo'l
fitolo,chegli da l'accufatore, o ver nel lignificato intefo da chi are u
fi, nel detto titolo, Se nel detto nome : come le (per effètti pio )
concede/limo hauer tolto, ma non già furato ; ellere dati i primi ad
haucr dato delle battiture, o delle ferite, ma non già hauer fatto
fopr'vfo, o contumelia ; hatiere ha miro commertio venereo con la
tal donna, ma non hauer commtiTb adulterio ; hauer furato, ma
no commelfo facnlcgio, non eltèndo cola facra, Se che il culto diuin
riguardi quello, che tolro habbiamo,• hauer coltiuato terre» che non fien
nollrc, ma non Liner per quello fatta ingiuria al pti blico ; elTere (lati
a parlamento co 1 nemici, ma non hauer fatta 10 tradimento : di qui è die
fa di bilojmo di faper dirrinire, Se diftmramenredplicartutre aderte
co(è>& quel, ch'i mportino i nomi loro : com a dir che cola in furto,
che cofa fia contumelia, che cofa fia adulterio; accioche volendo noi
inoltrar, eh e tai col* pc, Se tai delitti fi truouino,o non fi truonino
nella perfona di cui fi tratta ; potiamo con la detta nonna hauer fàcultà
di far ncllvna cofa, Se nell'altra, fecondo che più ci piace, apparire
il 11 guitto, percioche in tutte le dette con rrouerfie, nei porri
cfTèmpwallegate, Se in tutte le altre limili, conlifte il pnnro della
queftione, Se della contronerfia, in veder feil fatto fia ingiù (lo, Se li
iniquo, o ver fc fia non ingìuflo : efiendo ringiultitia,& l'iniqui 15
tà fondata nell'eledone.: &" demone importano, Se
dimoftrano tutti quelli già detti nomi ; come adir la contumelia, il
furto, et Jl Primo libro. p / i4 gli altri. conciocofa che in hauer noi
batruro,o percoffb alcuno, non per quello fi può vn tal fatto veramente
chiamar contumelia, ma (blamente fc à tal fine, ò con tal intention 1
habbiam fatto ; com'a dir fe habbiam voluto in far quello far a lui contu1
c melia, o ver recar piacere, et diletto a noi. ne parimente fi può in
tutto dir, c habbia furato colui, che di nafcoflo qualche cofa habbia
tolto ; ma (olamente quando habbia fatto qucfto, o con animo, et intention
di far danno all'altro, o d'appropriar la cofa furata a fe fteflb. et il
medcftmo fi può parimente allegare, Se difeorrer nelle altre cofe
c'habbiam difeorfe, et allegate di que16 ile. Horeifendo due forti, o ver due
fpetie di cofe giufte, Cv ingiufte, fecondo c'habbiam veduto, l'vnc feri tte,
&c l'ai tre non foriere ; quanto a qucllc,chefotto a fcritte, et promulgate
leggi fi ftan determinare, habbiam d'elle già detto, quanto
occorreua. ty Di quelle poi, che non fcritte fono, due parimente forti, ò
vero fpetie fi truouano. alcune fono,che fon porte in vn certo eccello, ouer
foprabbondantiadi virtù, odi vitio : de han luogo principalmente in ertii
vituperi;, et lelodi, l'ignominia, cV gli hono1$ ri, 6cipremij ancora. et cosi
fatte cofe fon, com'a dir (pereffempio) l'clfer d'animo grato de i beneficij,
che fi riceuono, il ricompenfare i riccuuti, con altri beneficij ; l'eller
pronto, difpoap ilo, cV parato ad aiutar eli amici, et altre cofe cosi fatte.
Alcune altre fon poi, lequali altro non fono, eh vn certo
fupplimcnto del difetto delle proprie leggi fcritte : conciofiacofà che le
cofe, 50 che fon d'equità,parimentegiuitemmar fi debbiano:
nóefiendo altro l'equità, fe non quella parte del giuflo, che non e fiata
comprefa dalla legge fcritta, ma è dita dal legiflator lafciata fuora di j
1 quella. Et quello in due modi può, et fuole accafcarc. percioche alle
volte lo fanno i Legiflatori non volendo; et alle volte volen$ 1 do. non
volendo accade quando eglino non fc n'accorgono, ne 53 l'auuereifcono. ma
volendo occorre quando elfi conofeon non cflcrlor poflìbile di comprendere,
et di determinar nella lcg3 4 ge, che formano, ogni particolare occorribil
cafo. et per quello fi lafcian tirar dalla neceffitàapor la legge in
vniuerfale, quantunque nelle cofe da lei comprefe, non fempre quell
vniuerfàlirà, ma per la maggior parte, et per il più, debba hauer
luogo. $j Accade ancora alle volte quello mcdehmo,non fol per
l'impoffibili tà,com' habbiam detto, ma ancor per la gran dimcultà, che
fi M ij rruoua p 2 'Della r Rgtprìca d'Arìttotelt^ truoua in
determinare nella legge tutti li poflìbil cali, cflendo e£ fi, ii può dire
infiniti : come (per eflempio) fc nel prohibìr'il ferir con ferro, s'hauellè a
determinar di che quantità, Se di che qualità shabbia da intendere il
detto ferro : percioche prima man carebbe l'età d'vn'huomo, che egli
potette tutte le varietà d'elfo ferro accogliete, Se numerare. Se
pcrquefto cflendo tal cofadifficiliffima a determinare, &douendon pur
farli legge, chela prohibifea, e forza che non determinatamente, ma lemfé
pliccmente fi faccia, et in vniuerfale. Laonde fc cafo
auuerrà, ch'alcun'hauendo in dito vn'anello di ferro, et alzando con
impeto la mano percuota chi fi Cìsl con quell'anello; in tal cafo fecondo la
forza della legge fcritta, farà co Qui obligato alla pena, che fi contiene
in ella, come ch'ingiuria habbia ratto. et nondimeno fecondo la verità non hà
fatta ingiuria, nè cofa ingiufta. 57 et quello è quello, ch'equità fi
domanda. Eifendo dunque l'c38 quitàqueiìaj che noi habbiam detto, ageuolmcnte
fi potrà hor far manifeflo quali fian quelle cofe, che contengono, o non
cutengono equità, et quali fiano gli huomini,chc non la poifeggono, Se dir per
quello fi pofion non ragioncuoli. Percioche quelle cofe primieramente lì
pollono (limar ricercar equità, le quali» Ce ben par che in efle fi truoui
fallo, et errore, meriran nondime40 no fcula, Se perdono. Equità ancor fi
douerà ltimare il n5 giudicar dvguale importantia, Se degni d'vgual gaftigo i
falli, che fi fan per errore, et quelli, chefi fanno con ingiulìitia, et per
fare ingiuria : Se il non por parimente in grado vguale quei, che
per error fi fanno, con gli infortunij, che carnalmente per
contraria 41 fortuna accalcano. et infortunij, ouer fortuiti falli
s'intendono efler quelli, che fuor d'intentionc,& di confideration di
chi gli 41 fi, fon fatti fenza vi tio, o malitia alcuna. Quei falli poi,
chefi fan per errore, Ce ben non adiuengono fenza intentione, o
confideration di chi gli fà, nondimeno ancora effi non davitio, o 4J da
malitia vengono, ma in quei, che veramente ingiurie fono, Se Ceco
ingiuftitia tengono, non fol concorre in tcn none, Se confidcratione di chi gli
fa, ma ancor da malitia, et da iniquità deriuano : peroche da vitio, Se da
malitia procedono i falli, che da 44 impeto di cupidità, o di fi mi
l'affetto nafeono. Oltra di quello, equità fi dee ftimar, che fia, l'hauer
femprc confideratione ne gli errori, che fa l'huomo, alla fragil natura h
umana, Se a quelli dar 1 volonjfl Primo libro. $ 3 4j volontier
perdono. et il non haucr principalmente rifpetto, de 4 'Della r R^tprìca d
% Arìttotel^J (apo 14.. 'Dell 1 ingiurie fotte in paragone, et comparation
fra di loro ; quali fian maggiori, rjuai minori : £f alcuni luoghi da conojcer
quctto. 1 Ngivrie maggior! s'han da (limare,e(Ter qucl2 h?j9 tsSI che da
maggiore ingnilliti.! procedono : per IrSki K?$J 4 UC ^° g r andiflìrnc
vengono ad eiler quelle, ch'in | t^jr y^J j P» cco ^^ ma cofa confiftono. fi
come Caliiftrato in accufarMelampo aggrauaua l'accufa con dire, che
della facra pecunia desinata alla fabrica dei Tempio, haucffe egli di tre mezi
oboli, fraudato color, che la cura dell'edificio 4 haueuano. Ma nella giù
ftitia, &c nelle cofe,che fi fanno fecondo quella, il contrario a
punto adiuiene. Son dunque grauiflìme così fatte piccoli (lime ingiurie
per l'eccedo, de grandezza, che tengon nella forza, virtù, 6c pollanzaloro
: pofeiache colui, che fi pone a furar tre mezi oboli al culro diuino
confecrati, molto più fi può (limar, choccorrcdo, ingiù Ilo farebbe in
cofa di magc gior momento. In quella maniera adunque chabbiam detto,
li può (limare, et ponderare alle volte la grandezza della maggior* l
ingiuria. In altra maniera (ì può itimarancora in ponderarla,^ 7
giudicarla fecondo la grandezza del danno, che ne rifui ti. Maggiore è ancora
l'ingiuria quando non par, chepunirione, et gaftigo fe le polla trouar vguale,
ma ogni pena Ga minor di quello, 8 che fc le conuenga. E parimente
maggiore è quando il danno, che la reca, mal li può medicare, o con
remedio alcun rifarcirc : elTcndo cofa grandemente acerba, et morella il
mal'impofllbilca f rimediarli. Mcdefimamenre maggior fi rende l'ingiuria
quando a colui, che la riccuc, vicn tolta la poffibilità di fodisfarlì, in
veder che gaftigo, o vendetta ne venga all'autor di quella, percioche viene in
quella maniera a rcflar l'ingiuria fenza medicina, o rimedio : cflendo la
vendctta,& la punition dell'ingiuria, vn ccr lo to medicamento, 8c
refarci mento di quella. Si dee (limare ancor l'ingiuria maggiore, quando
colui, eh e ingiuriato, Se che pa te, Se riceuc l'offcia, fente cofi
infopportabilmente il danno, o la vergogna, eh 'ci riceuc ; ch'impaciente
a tollerarla, riuolge il dolor còntra fc {teflb, et contra di fe proprio
rliuien crudele. nel qual cafo non è dubio che di molto maggior pena, et punirion li
non fia degno colui, che l'ingiuria fece; comallegaua Sofocle, perciochc
fauorendo egli in giuditio la caufa d Euttemone, il qual non hauendo
potuto tollerar hgnominia della riceuuta ingiuria, s'era da le Ite ilo
vccifo ; dille non parergli punto da ihmar manco, et ili men gaitigo degna la
contumelia di quell'ingiuria, che colui proprio, che riceuuta 1
haueua,rhaueileapprez li zata, et (limata conerà di le medefimo. Maggior
parimente diuien l'ingiuria, le colui, che 1 hà fatta larà (lato lolo, oil
primo,o 13 con pochi a farla. Et l'hauerc oltra ciò più volte commeiro
lo fteiro delitto, Se la lidia ingiuria, le reca grandezza,&
ampliano 14 non piccola. Maggiori medclimamente il deono (limar
quelle ingiurie, òcquei delitti, percagion dei quali (1 (ìcn per rimediar gli,
et vietargli, inueftigatc, et trouatc nuouc forti di (uppluij, Se Ij di
pene. fi come vediamo, che in Argo hanno ordinato propria pena a punir
colui, il qual con fuo delitto dia cagione di trouar nuoua legge, o d
cdificar'nuouo carcere, o di trouar tormento 16 nuouo. Quei delitti ancora
haran da ellerc (limati maggiori, Se più graui, i quali più haran del
ferino, et più s accolleranno alla 17 natura più torto delle belile, che
dell'huomo. Maggiori parimente fon I ingiurie, e i delitti, fc pcn Guarnente,
Se daconlide18 rato configlio premeditati nalcono. Più graue oltra ciò fi
dee (limar qucllingiuria, laquale nell animo di chi l ode è arra ad ec19
citar più torto affetto di terrore, che di compaflìone. Appretto di quello
fono ancor picnedi retorica ampli heation per ingrandir l ingiurie, alcune
allegationi di circollantie cofi fatte : come a dir, che cortili con la
tale ingiuria habbia in vno Hello tempo in molte cofe, et in molti modi
macchiata, et corrotta la giuftiria, et trapallàtooltra'ldouer ìlgiufto;
hauendo egli infiememéte il facto giuramento, la data delira, la promelTa fede,
et la fteilà inuiolabil legge del matrimonio, violato. pcrcioche cofi
dicendo non è dubio, che raccolte nella detta maniera in vno molte cofe
ingiù He, non faccian nell'ingiuria apparentia d'vn certo ec10 cello. Aggiugnej
ancor grauezM al delitto, lcller commetto in quello Hello luogo, doue
fogliono clTcr condennati, et puniti i delinquenti -, fi come lo commerton
coloro, che falla teftimonUnza in publico giuditio fanno.perciochc douenon
pcccarebbeco p 6 T>eBa Teorica d' Arìttotelt~> bcro eglino, Se
in qual luogo s'aftcrrcbber da far cofa ingiufta, Ce di peccar non
s'aftengon nel publico tribunale, et nella propria il corte della
giumtia?Maggiore ancora apparirà l'ingiuria le fi mo ftrarà ertere intorno
a cole, che recar foglian rolTbr grandiflì rao ti di verecundia fcco. Medefimamente
-più grauc (limata farà l'ingiuria, fé contra di colui farà fatta, dal quale
habbia colui, che la fa riccuuto benefitij : peroche in più cole viene
egli in tal fatto a peccare, Se a vfar contra di colui l'ingiuftitia fua ;
cioè in fargli nocumento, Se in non giouargli per ricompenfa, Se
gratitudin a 3 dei benefitij. Più grauemente ancor potiam dir, che fi
debba ftimar, che pecchi colui, che delitto cornette contra'l giudo delle
leggi no lei i tte: impcrochc gli è cofa da h uomo di maggior vir tù,&
di maggior bontà il feguir la giù ititi.», et operar colcgiuftc, nò
forzato da nccciììtà: et le leggi lentie fon quel le, che vengona fare in
vn certo modo forza col terror della punitionc : doue che le leggi non
Icrittc liberamente muouono l'animo fenza forza,o 24 violetta
alcuna.Dalialtra parte per altra ragion diuerfa,pare,che per il contrario
maggior fia l'ingiuria, e'1 delitto,fc contra le leggi fcrittc farà commetto. conciofiacofa
che colui, che non s aftien da vfare ingiù iti ria in quelle cole, che portano
il terror della fcritta legge feco, Se che punition minacciano; molto
manco s afterrà dall'ciTer ingiuftoin quei delitti, che fenza temenza
di 2.5 gaftigo, o terror di legge, vegga di poter commettere. Et tanto
badi fin qui d'haucr detto delle ingiurie maggiori, Se delle minori. (apo ij.
'Delle pruoue, £f modi di far fede mart fidali, 0 'ver fenz^a artificio. Ecvita
alle cofe dette, che noi alprcfcnte trafeorrendo diciam qualche cofa di quelle
pruoue, Se fedi, che fi domandano in artificiali, Se d'arteficio priue :
eflendo eflc aflai proprie, Se domeftiche alle caufe giudiciali : Se fono a
punto cinque in numero, cioè le leggi ; i teftimonij ; le fcritture, o ver i
patti ; la tor tura ; Se il giuramento. Et cominciando dalle leggi,
anderem di chiarando in che maniera nel fuadcre, Se nel difiuaderc,
nell'accufaJl Primo libro. $ y cufare,& nel difendere, s'habbial'huomo
a feruir dell'vfo loro. 4 E cofa ramifcfta adunque che fé alcuno haràla
legge feri tta cetraria alla caufa Tua, douerà rifuggire all'vfo della legge
commune, et al giudo dell'equità, come che più ragioncuol fia, Se più $
intrinfccamente congiunto con la giuftitia. Et douerà ancor dire, che il
giudicar con fententia ottima, Se ragioneuoliflìma, no confifte
principalmente in altro, ch'in non adherir puntualmen 4 te in ogni cofa
alle leggi scritte. Se che l'equità femprc vna fteffainuariabil dura, fi come
parimente immutabil dura, Se fi confcruala legge commune ancora ; come quella,
che nella natura è fondata, Se con la natura nafec. doue che le leggi
fcritte fpeflc 7 volte fi mutano,& a variation fon fortopofte. da die
prende forza quel detto di Sofocle nella fua Antigona : pcrochc difendendofi
Antigona con dird'haucrfartoconrralaleggedi Creonte, ma non già contra la
legge non fcritta ; parlando di tal legge dice; None nata, ne introdotta quefta
forte di giurto nèo^gi, ne hieri, ma femprc è ella ftata': Se hauendo
quefto giufto dal mio, non temo, o curo di quel, ch'in contrario comandi
qualfi voglia" 5 huomo. Si potrà mede/imamente dire, ch'il giurto fia
cofa realmente vera, 6Vvtilc, &noninvniuerfa!e, &quafi in ombra, et in
apparentia;cVchepcrquefto la legge fcritta, emendo più rotto ombra, che corpo
del gì urto, non fia vera mente legge ;pofcia «> che far non può ella
offitio di vera legge. Et che li ludici fon porti foprai gitiditi; a guifa
di quelli artefici, che fon porti a cono iccre, et a difcerncie il falfo
dal vero argento ; acciò ch'ancor ef-. fi conofeano, Se diftinguan bene il vero
giufto dall adombraro, I o Se adulterino. Potremo parimente aggiugner,che
fia cofa da huo mo di maggior bontà, et di miglior coftumi, l'vfar nelle
fueattio nilamifurapiù torto delle leggi non fcritte, che delle fcritte,
Se li inquellcftarc,& fecondo quelle viuere. Etdoueremo
auucrtic a " cora (c la ie gg c > ch e ci e addotta incontrala
contraria a qualche altra legge tenuta communementeper buona, et perapprouata ;
o ver s'ella fia contraria a Ce medefima: come a dir che da vna parte
commanda/Te, Se difponcne, che fufic valido,& fermo tutto
quello,inchcgli huomini per patto conuengono inficme; &dallalrra parte
prohibitfc, che patto, o conucntionc alcuna fi I» laceilc contra le fteirc
leggi. Doucrem parimente confederar, fe Ja detta legge, che ci e addotta
incontra, fi truoua ambiguamenN te feri ty8 'Della ch'ai le
volte non ben con l'intelletto capitici o le paiole, o 1 fen cimento
della legge, non habbian da cadete in pencolo di fpetgiuto nel pat1 5
tirli da quella. Potterao anche dite non ciler alcuno, ch'in eleggete, Se
ceteate il benc,elegga, o cetchi quello, che fia in vniuct lale,&
Semplicemente bene; ma che ciafcun'elcgge quello, che 16 (la bene a lui.
Et aggiugnci potiemo non eflct di ifc renna alcuna trai non efletc otdinattf,
Se ftatuite leggi fetitte, Se il non vo17 Jet poi vfatle, et olletuatlc,
fetitte, che le lono. Douetemo oltra di quello dite, ch'in tutte l'altre aiti,
Se facilità, è cofa più torto perni tiofa,chc vtilc, il volet pattiti! dal
giuditio dei peliti in quella : coma dir nell'arte della medicina, dal
patere, Se giuditio del medico. conciofiacofa che non tanto nocumento
rechi l'crror, che fatà alle volte il medico, quanto dannofo fatia
l'af* fu c far fi a ttafgtediie il parer di colui, il qual come petito ha
da clTct guida, &capo, et fupcriote in fomma in quell'arte,
della I I qual fi tratta. Et a quello potremo aggi ugner, ch'il cercar
d'clTer più prudente, più petito, Se più faggio delle leggi lteilc,è
quello, che più ch'altta cofa principalmente dalle communementc Ioli?
date, òVappfouatc leggi, Ci prohibifee. Quanto alle leggi adunque, che fon la
prima pruoua inartifìciale, lìa per hora determiio nato nella maniera, chabbiam
veduto. Quanto poi a i Telamoni, di due forti, o veto fpetie fi truouano elTcre.
alcuni fon'antichi> Se altri moderni o ver nuoui, Se di quelli alcuni fono,
che venJl Primo libro l et S>9 ^fgon nel teftimoniare a partecipar
del pencolo; Se altri liberi li ne fon fuota. Antichi teftimonij chiamo io
i famofi Poeti, Se tutti gli altri huomini, chiari, &illuftri, dei
quali lìan rimarti nella memoria de gli huomini, giuditij, Se fentcntie
celebri, et manili feftc. ficomc gli Athcniefiadduilero la teftimonianza
d'Home15 ro nella caufa lor dclTlfola di Salamine. Se quelli di Tcncdo poco
tempo fa allcgaron per teftimonio Pcriandro Corinthiano 14 nella caufa lor
contra de i Sigienfi: et Lcofronte parimente nella caufa, eh ebbe ad agitar
contra di Critia, lì valle d'alcuni verfi elegi di Solone ; dicendo che la
cala, Se fameglia di Critia era art ticamente ftata macchiata d'effeminata
lafciuia. percioche fc n5 fufte ftato coli, non harebbe Solone ne i fuoi
poetici verfi, parlando d'vno di quella fimeglia, detto, Fammi grana di dir a
Cri1 j ria biondo, et crefpo, eh' a fuo padre obbedifea. Coli fatti
fon dunque i teftimoni antichi intorno alle cofe, che fon già
patiate. 16 Delle cofe future poi fono ancora antichi teftìmonii gli
oracoli, &gli interpretatori di quelli: come ( per eflempio)
interpretò Themiftocle, quando volendo perfuader, che fi combattere
coti pugna nauale, dille che quello lignificauanoi muri di legno,
che 17 nella rilpoftadell'oracol fi conteneuano. Mcdcfimamentei
Pro 15 ueibii fon tetti monii della fteiTa forte, che noi habbiam detto. come
fc ( per cflèmpio ) fuilc chi volelTe perfuaderc ad alcuno, che non cercafie di
riceuer nella fuaamicitia la talperfona d'età fenile; potrebbe in
reftimonianza addurre quel prouerbio 19 trito, che dice non eflèr da
collocar beneficij in Vecchi. et chi volelTe perfuadere ad alcuno, ch'egli
douefle leuarfi dinanzi, Se far capitar male i figli di quei padri,
ch'egli hauefie già prima vecifi, potrebbe addurre in teftimonianza il
prouerbio, che dice, ftolto è colui, che lafcia in piedi i figli, hauedo lor
prima .mito in azzato i padri. 1 nuoui,ouer i moderni teftimoni fon poi quelli,
i quali cllendo di celebre, Se chiara faina, Se noti al mondb per faggi,
hanno in alcuni cafi, ouer caufe datoinditio del lor parere, Se dellor
giuditio : percioche così fatti giuditij, Se pareri polTon parimente
elfcr'vti li a coloro, i quali hanno in altre caufe ji
fimihaquelle,vnamedefimaquaficontrouerfia. fi come Euboloingiuditio contra di
Charcte, fi feruì di quello, che poco innanzi haueua Platone detto contra
d'Archebio, cioè che per caufa, Se colpa di lui haueua già nella Città
prefo forza, et vigoN ij re il joo ^ ^Del/a ^R^torica djirìUotett^ re
il non vergognarti p iù le perfone di cónfellar defler vitiofe,& 51
inique. Nuoui, et moderni teftimonij fono ancor quelli, i quali Tempre che fi
trouaflcr fallì nella teftimonianza loro, farebber tj partecipi nel
pericol della punitione. et così fatti teftimonij nó lon'addottia
reftimoniar,fc nóquado fi dubita del fatto, cioè /eia 34 cofa tìa ftara
fatta, o no fiaftata fatta, et sella iìa,onó fia. maquàto alla qualità del
fatto, no fono eglino ammeifiper teftimonij,co m'a direa teftimoniar fc la
cofa fia giufta, o nó giufta, vtdc,o da1 5 nofa,& fimilc.Maquci
teftimoni,che nófon partecipi nel pcncol ma fono liberi, et lontani da
quello, fono intorno alle dette qualità del fatto,idonci, et legitimi
teftimoni, et grandemete di fede degni. Et fopra tutti, aurtorità» et fede
recan le teftimoniaze de i teftimoni antichi, come di quelli, che a
fofpetto alcuno di corrotrionenon fon fottopofti, et dall'autorità de i
teftimoni ha da jtf depender molto la fede delle pruoue. Se noi dunque,non
harem teftimonij, doueremo in tal cafo allegare, et dire,che il
giudicar habbia da cfTcr fondato principalmctc nei vcrifimili, et negli
argomenti : et che quefto è propriamente giudicar con fententia J7 ottima,
8c ragioncuolilTì ma, alla qual fon tenuti i giudici. 3c che 1 veri (imi
li non fon fottopofti a pericol d'eller corrotti con danari» ne pollo no
eflcr giàmai conuenti di falfa teftimonianza, 38 come i teftimonij.
Dall'altra parte fc ci trotteremo hauer teftimonij vtili allacaufanoftra,
potremo contra di colui, che non gli hà, trà l'altre cofe dire, ch i
verifimili, et gli argomenti non fon fottopofti, et tenuti a pericolo di
fupplitio alcuno. et che nó faceuadi meftieri d'introdur ne i guiditi) 1
vfo de i teftimonij, fclc ragioni, et gli argomenti fodero ftati baftati
alla no ri tia della verità. Sono li teftimonij,o intorno a noi
ftc(Tì,& a cofa,che tocchi, et riguardi noi : ouero intorno a cofa, che
tocchi lauuerfario noftro : et così ncllvno, come nell'altro modo, o riguardano 41
il fatto fteilo, o la vita,& i coftumi. Per laqual cofa è
manifcfto, che mai farà per mancarci qualche forte di teftimonij,
chefler portano vtili alla parte noftra. pèrciòchc fe intorno allo nello
fatto ci mancherà teftimonianza, la quale o confenta, et conuenga in aiuto
noftro con quello, che diciam noi, ouer fia contraria, et difcrepantedaqucl,
che dice l'auuerfario; almcn non cidouerà mancar teftimonianza intorno
alla qualità della vita, et de i coftumi, laqual faccia fede della bontà, et dell
equità noftra, ouer dcll*iniJL Trìmo libro \ iot 41 dell'iniquità, Se
malitia dcH'auucrfario • L'altre cofe poi, che polfono occorrer di
ponderarli, Se di conliderarlì intorno alle f erfone dei tcltimonij,
com'adir fc lon'amici, o nemici, o nè vn, ne l'altro ; fc fon pedone di
buona fama, o di mala fama, o tra l'vn, et l'altro, Se tnttelaltre in
fomma così fatte dirTcrentie di condirioni, et di qualità, da quelli
fteffi luoghi fipotran trarre, et di inoltrare, da i quali lì poilbn gli
Enthimcmi intorno al43 le medcfimc qualità, trar fuora. Quanto alle fcritture
poi, doue lì contengon conuentioni, Se patri, intanto può hauer luogo
in eiYc 1 vfo deli'oratione,inquanto lì cerchi,o d'ingrandir il lor
valore, o di deprimerlo, et d'annullarlo : et oltra ciò di farlo apEarire o
credibile, Se di fede degno, o per il córrano di poca credi ilità, Se di
poca fede, peròche fe vedremo, che le pollano cfler>evtili a fauor noftro,
alhor c'ingegneremo di procacciar loro autorità, Se credibilità* &c il
contrario faremo fcle conofeeremo 4J in aiuto dell'auuerlario. Et quanto
prima all'aggiugnere, o al toglier loro autorità, credito, Se fede, non e
differente il far quello, dal trattamento, che s'habbia da far'intorno ai
teftimonij. conciolìacofachc quali faranno i coltrimi, le conditioni, Se
qualità di coloro, c'habbian diftele, o fofcrittte ledette fcritture,
o lehabbiano apprelTo di lor cóferuate, Se faluate,talc ancora riabbia da
effer la fede, l'autorità, Se la credibilità d'elfe fcritture. Cafo
adunque cheli truouino, o lì pruouino autentiche corali fcritture, Se tali
in fomma, che confclTar fi debbi, o negar non Ci 47 polla, che le lìano
fiate fatte; alhora fc i patti, che vi fi contengono, conofeeremo, che facciano
a proprio fauor noltro, doueremo ingrandir 1 autorità, et la validezza,
c'han da portar leco i patti, et le prillate conuentioni humane: dicendo non
cllere altro il patto, che propria, et prillata legge, trai particolari in
priuato 48 fatta. Se che i patti, Se le fcritture, che gli contengono, non
dano validezza, forza, Se corroboratone alle leggi, ma ben le leg4$ gi la danno
a' loro. Et che in fomma la legge non e altro ancora ella, ch'vn certo
patto, di maniera che qualunque cerca di tor forza ai patti di mandar'a
terra il valor di quelli, viene a cercar jo parimente di deltrugger le
fteire leggi. Poucmo ancora oltra ciò dire, che per la maggior parte i
negotij, Se le facende, che trà di lor conuerfando, Se contrahendo fanno
fpontancamentc, Se volontariamente gli huomini, fi fanno col raezo di con
tratti, patti; Se fcritture, / o j Della Tintorìe* d
'driftotelcj Se fcritturc, Se in quelle fi contengono. La onde tolta via,
o fatta inualida la forza, Se i'vfo de' patti, et delle fcritturc,
verrebbe parimente a mancare, Se a cadere a terra ogni cambieuol coiti5 1
mertio d huomo, Se ogni trattamento di negotij Immani. Altre cole ancora
fi potrebber dir* accommodatc a ingrandir l'vfo, Se l auttorita de' patti
: le quali aliai facilmente pollono clTer comf i prefe, Se confideratc per lor
medefime. Ma fc dall'altra parte vedremo, ch'i patti, Se le fcritturc fien
contrarie alla caufa noftra, Se in fauore, et commodo deirauuerfario, ci
potrà primicramete in lor deprelììon feruire, Se cfleraccommodato tutto
quello, ch'allegare alcun potesse per impugnare, et ofeurar
lauttorità j j della legge, quando gli fulfe contraria, perciochc molto
fuor di ragion (aria le ftimanflo noi non douerlì dar fede, ne
preftar'obbedientia alle leggi, ogni volta che iiano non drittamente
porte, Se che il Lcgi/lator habbia vfato inganno in porle jhaueiTero
i priuati patti a ritener inuiolabil neceflìtà nell'olTcruantia
loro. 54 Potremo ancor dire non clTerc altro il giudice, che difpcnfatore,
Se amminiftratordel giufto : Se per quello non ha egli da tener confidcratione,
Se cura di quel, che importin le fcritture, Se li patti; ma fol di furto
quel, che contenga maggior giuftitia. 55 Potrcm parimente dire, ch'il giù ilo
non può cflergià mai piegare, Se dillorro dalla fua drittezza : ne ita
fottopoilo a inganno, o a forza, Se violentia alcuna, hauendo egli l'cilcr
fuo dalla natura fteira. doue che i pani, Se le conuentioni, che fanno
glihuomini, nafeer polTon da inganni, o da forza, che gli induca a farle. t 6
Olrra di quello fi dee por cura fc le fcritturc, et li parti, che
il producono, fon contrari] ad alcuna delle leggi ferine, o ad alcuna
delle communi, Se fes'oppongon a cofe comunemente renu57 tegiufte, Se honelìc.
Si deeveder ancora, fe fon diucrlì, Se repugnanti ad altre fcritturc, Se
conuentioni, chedoppo,o innanzi di quelli, fiano nate fattcpcrciòche o le
fcritture fatte poi fon valide, Se per confegucntele precedenti han del
falfo,o non han valore, oucr per il contrario le fatte prima valide fi
truouano, Se nelle fatte poi, fi conticn fraude, o altro cosi fatto
errore. Se di queiti duccafidouerem cercar di far parer vero quello, che
più 58 conofeeremo vtilc alla caufa noftra. Potremo andar con la
confideratione inueiligando ancora intorno all'vtilità, feda qualche Cofa,
che fi contenga in quei patti, che fi producono, o fe dalla fede, che fi predi
a i patti, può feguir'occauone dcfidcrofi di vederle. Contcngon
dunque le dette righe quelle parole. Ju 5 *iynv fri Cvk «WaM»0hW/
Caffdurot •Tofà.oìyaf rtpoì, £ A/flo'Jtpfjioh ù ttut 4^«T ( «vite ìuvajoì,
"flua/ert tyK rt rat t ivttyt&f* il j Jh A5Ì, ^ Ìu*MjC»7f ■vfo 70
v TctV Àva.yxct.i /A7k etw^/ ' X«t7*0et/:/fei/Vir, ù'vAV&t ir/roV ìk
(Sardi'oif. Legnai parole m no firn lingua pòtrebberò effer quefìe^j. Mala
di meftier di dire, che le torture non cótengon fecura, Se certa verità,
conciofiacofa che molti fi truouino, li quali hauendo le carni, et la
pelle quafi di fallo, Se l'animo forte, Se a Sopportar potente, vincon con
lalor coftantia, Se con la lor'oflinatione ogni neceflìtà, che porti la
pena, ci dolore. Se altri per il contrario fi truouano, che vili d'animo, Se
delicati, Se molli del corpo loro, prima che fi veggano a pena dinanzi a i
tormenti, reftan fu perati daquelli. Perla qualcola none da preftar fede a
quella tcllimonianza delle torture. Qnefie fon dunque, in fiftantia
le parole, che eorrejpondono alle greche già dette^j. tJHa ritorniamo hormai al
legittimo teli fio nostro, fegue adunque ^sfrittotele così. 6 $ Quanto
apparrien poi al giuramento, in quattro modi può occorrer, ches'habbia da
trattare, Se da confiderare. perrioche t» noi lo concediamo, et concedutoci
l'accettiam di fare,o noi non facciamo ne l'vna, nè l'altra di quelle
cofe,o noi ficciam Tvna, et non l'altra. Se quello in due modi, peroche o noi
concediamo il giuramento, ma non accettiam di farlo, oucro accet66 tiam di
farlo,ma non lo concediamo. Se tutto quello altrimenti s'ha da confiderai
quando fi fi a altra volta giurato, et altrimenti quando non fi fia giurato. Se
quando fi fia giurato, altra confidcration s'hà d'hauer fe harem fatto il
giuramento noi, et altra 6j Ce l'harà fatta l'auuerfario. Se offerire
adunque Se conceder non gliel vogliamo, douerem dire non voler metter'il
giuramento in man fua, perche conofciamo,che facilmente faria egli per
giura6% rcilfaliò. Se potrem foggiugner' jchcrauucrlario
rcftarebbcgiu rando afibluro dei danari, ch'egli ci dee, doue che s'egli
non giura, teniam certa confidentia, ch'egli habbia in giuditio da cf6$
ier condennato a pagarccgli. Potrem parimente dire, c hauendo noi pura depcnder
da pericol di giuramento, vogliam più tolto; Se molto più ragioncuol cofa
è, depender da quello de gli Jl Primo libro. 1 oj fteffi giudici,
pcrciòche nella bontà, et rcligion loro tcniam fe0 de, Se non in quella
ddl'auuerfario. Male non ci verrà bene d'accettar Toner ta, che ci fa
l'auuerfario di voler egli ftarc al noftro giuramento ; doucrem dire, che
per cagione di danari, cagion così friuola, Se così leggiera, non ci par
cola honefta ii 1 giurare, foggiugnendo, che fé noi fulfimo impij, Se
nemici del giulto, non recuferemo di farlo : percioche lapedo noi, che
giurando ricupereremo, Se confeguiremo quello, che ci fi dee, Se non
giurando, nò, certa colà è, che meglio faria 1'efTer'ìniquo per cagion di
qualch'vtilità, che per cagion di nulla. Ci che per quello appare, che fol
percaufa d'honeilà rccufiam di giurare, i Se non per tema di cómetter
fpergiuro in giurare il falfo. Et in quello propolito potrà parimente
quadrarci conuenir quello, che foleua dir Senofane, non elìer pari la
prouocatione,ch'a giurar faccia vn'impio, ad vno altro che tema Dio : ma effer
limile alla prouocation, che facente vn'huom gagliardo, et robufto della
perfona, in prouocarc a dare, Se riceucr pcrcofle, Se pugna, 3 vn'altro,
che debole, Se infermo fu Uè. In calo poi, che ci venga commodo d accettar
di giurare, ellendoci il giuramento offerto dall'auiicrfario, potremo
primieramente dire, che ciò facciamo ; perche vogliam piutofto credere,
alnoftro giuramento, et ftar* alle fede di noi medefimi, cllendo in noi
confapeuoli della men\ te noftra, ch'alia fede dell auuerfario. et potremo
parimente ri» uolgerc, &accómodar'amodo noftro ilmedelìmo detto
diSenofane, diccdo,andar la cofa vguale, ouer'cfler la cola pari, quado vno
impio prouoca a giurar'vn, che tema Dio, e egli accetta c l'offerta, Se
giura. Aggiugnereino ancora parerci cofa indegna, Se fuor d'ogni ragioneuolezza
il recufar noi di giurare in quella (Iella cauta, nellaquale
riccrchiamo,& afpcttiamo,ch 'i giudici fecondo il giuramento da elfi fatto,
proferifean la fententia loro. C Mafe finalmente ci tornerà bene d'offerire, Se
concedere il giuramento all'aiiuerfario, potremo dire, che ci paia cofa pia,
Se rcligiofa il voler commetter tutta la caula in man de gli Dij,
Se 7 alla cura loro : Se che non vogliamo, che all'auuerfario
noftro faccia di bifogno di ricercarla decilìone di quella caufa da
altri giudici, che da fe nello, dandogli noi arbitrio, Se autorità
di deciderla, et giudicarla col luo giuramento da fe medelimo. 8 cV
che cofa aito rda, Se fuor di ragion farebbe egli, s'eirecufafO fc di 7 o
6 Isella r R(torìca d*^4riBotelc^ fc di giurare in quella (tciTz cofa,
nella quale egli filini eflcr do7^ ucre, che gli altri, cioè i giudici llcllì
giurino. Hor'hauendo noi ad vn per vno patitamente dichiarato, come
fihabbian da trattar tutti li quatro modi divfar' il giuraramento,
potrà da quello effer raanifcfto ancora, come s'habbian da trattare, et da
vfare,fe più di vno di tai modi, fé prcndon congiunti 80 infieme. com a
dir fé noi accetteremo l'offerta del giuramento, ma non già l offeriremo, o lo
concederemo, ouer fc ci piacerà di concederlo, et offerirlo, ma non
d'accettarlo, o fe vorremo et accettarlo, 8c concederlo, oucro offerirlo
infieme, ofe finalmente non ci contenteremo di far nèlvnacofa,
ncl'altia. 81 conciofiacofa chceflendo così fatti congiunti
necelTàriamente comporti de i già detti, et affegnati modi ; parimente
farà neceffario, cheli trattamenti, et le ragioni di tai congiunti, fian
compone de i trattamenti, et delle ragioni, che già fi fon partitaméSi te
dichiarate, &c inoltrate ad vn per vno ne i detti modi. Ma fe gli
accafeherà, che già riabbiamo per innanzi altra volta giurato cofa, che fia
contraria a quello, ch'ai prefente diciamo, et ci offeriamo, oucraccettiam di
giurare ; doneremo dire, che non dee per quefio il precedente giuramento
(limarti fpergiuro. Sj perciòchc cllendo lo fpergiurare vna fpetic di fare
ingiuria, et non potcndofi chiamate ingiuria quella, che nó fi fa
Ipontancamenre, Se volontariamente, ne feguc, che non ellendo fpontanco, Se
volontario quello, che l'huom fa, o neceflìtatoda forza, 0 indotto da
qualch'inganno, come e accaduto a noi nel giuramento per innanzi fatto; non dee
per confeguentc fpergiu84 ro nominarli. Et qui farà ben di inoltrare in che la
toltantia dello ("pergiuro confida : affermando, che dalla mente dependa, 85
8c non dalla lingua, di colui, che giura. E r fc dall'altra parte 1
auuerfarion olirò farà (lato quello, che per innanzi altra volta riabbia
giurato cofa, che ila contraria a quello, ch'ai prefente dice; potremo in tal
cafo dire, che il voler* egli non tener valido, et non Ilare a quello, c'habbia
vna volta giurato, non è altro, ch'vn %6 confondere ogni cofa, et fouuertere
ogni ragione h umana, percioche non per altra cagione, fenon per quella, cioè
perhauer per fermo, et Ilare a quello, che fi fia giurato, non ofano i
giudici di fcruirfi delle llelTc leggi nelle fententic loro, fe non
fan giuramento prima. et riuolgendoci a i medefimi giudici foggiugneremo.
Noi dunque ricercherem da voi, Se flimaremo, che vificonuenga di fhr
collanti, et haucr per fermi i giuramenti noftri, et noi tituberemo, et per
validi non haremo i noftri ì 88 Altre cofe ancor potremo aggiugnere, cioè
tutte quelle, che fiano habili ad amplificare ampliando la bruttezza delio
fpergiuS 9 tradotta in lingua volgare da M. tsrfejfandro Ticcolomini.
DELLA RETORICA D’ARISTOTELE à Theodetto, TRADOTTA IN LINGVA
VOLGARE Da P. c Del bifògno> eba l'Oratore della cognttton de gli
affetti, (ef pafìoni humanc^. Qva 1 cofe fàccia di bifogno
d'haucre l'occhio in fuaderc, in di (Fu ad ere, in biak mare, in
lodare, in accufare,& in difendere, et quali opinioni, et propofitioni
elTer pongano vtili a far fede i n tutte quelle opcrationi,può ellcr
manifcfto per quello,che fin qui li e detto, percioche di quelle cofe, et a
quelle cofe, c'habbiam noi allignate, deon dedurli, &deon hauer
riguardo gliEuthimemi, che (cparatamente in ciafehedun gcncr d orationi,
addurre, Se vlar fi O ij deono. ioS ^Della Ttgtprìca d[c_j 5
cleono. Hor perche qucft'arte della Retorica ha da terminar Tempre in
qualche adcnlo, o giudi tio, che ne faccia chi ode ; per cagion del qual
giuditio fi pone in vfo, pofeiache lcilcde confultationi ancora, nò padan
Icnza'l giuditio di color, ch'odono, Se il Tentennare dello nelle caufe
forenfi, non è altro, che giudi4 tio; è neceflano pcrqueito, che non folo fi
procuri, che la orauon fia tale, che pofla con pruoue, Se con argomcti far
fede, ma che s'ingegni ancor colui che parla, di far parer fé ftedo
della tale, Se della tal qualità formato, Se renda colui ch'ode, et giudica,
in qualche maniera qualificato a modo, et commodo fuo. 5 conciofiacofa che
alla perfuatìone, Se alla fede, che s'hà da fare, grandemente importi,
principalmente nelle confultc, et dipoi nelle caufe giudiciali ancora,
l'apparir più d'vna qualità, che d'vn'altra qualificato, et difpolìo
colui, che parla, Se l'ederappreflb di color, ch'odono in opinion
d'affettionato, Se ben verfo di lor difpofto, Se 1 edere oltra ciò più ad
vna difpofition, che ad 6 vn'altra inclinati, et volti color,
ch'afcoltano. Et quanto primamente all'apparir colui, eh e parla, della tale, o
della tal qualità difpofto, prcualc, Se e vtil quefta cofà principalmente
nelle de7Iibcrationi, &cófultationi. ficome dall'altra partel'cflernella tale,
onella tal maniera inclinato, comroodò, Se alterato l'afcoltatore; preuale
fpetialmentc nelle caufe giudiciali: pofeiache nonlemedcfime cofe paiono
da edere approuateacolor, cheamano, Se a color, ch'odiano, ne le medefime a
color, che fono accelì d'ira, Se a quclli,chc d'animo mite,& placato fono :
ma paion loro o in fe diuerfe,o totalméte appofte, o almen'in
quatità,cVgradezza differcti aliai, imperciòcheacolui ch'ama,parrà
fa cilmcte,checolui,dcllacui caula hà egli da fai giuditio, o no
hab bia fatto ingiuria,oleggieriiÌjmarhabbia fatta: Se a colui,che
l'ha f in odio>tutto'l còtrario pare.Parimcte colui,che fuole
auidaméte defidcrare, Se cófidctemctc fperarc ; fe cola futura fe gli
offenfee l'ani nio,ch' egli pcfi,che lìa per recargli diletto,facilméte
s'indu-r rà a creder, che fia per fucccdcre, Se a ftimarla, per cofa
honefta. doue che tutto'l contrario farà per parer a colui, chela diio (pregi,
o non l'appetifca, o la ftimi difficile a fucceder mai. Hor quanto
all'cffer tenuti degnidi fede color, che parlano, Se all'cfler lor creduto ;
tre cofe poflbno efTcr di ciò cagione, pofaachc ultre turile fon le cofe, mediami
le quali, ultra le pruoue, Se Jl ne, &r gli argomenti, ci
induciamo a dar credenza all'altrui paro11 le. et quefte fono la prudentia>
la bontà, et la beneuolentia, che 11 s'habbia in opinion trouarlì in
colui, che parla, cócioliacofa che per caufa della mancanza di quefte tre
cofe dette, o d'alcuna d'effe, polli accader, che s'ingannino, Se quel, che non
conuenga diI) cano color che parlano, o dan configlio. peroche o per
imprudentia,& poco faper, non bene (limano, o intendon la cofa, dclla qual
parlano, o le pur non s'ingannan nella Iti ma, et nell opinion che n'hanno;
nondimeno per malitia, Se per iniquità non voglion dire, o far manifefto
quello, che veramente conofeono. 0 ver finalmente fé prudenti, Se non
iniqui Tono, fon nicntedimanco poco amici, o beneuoli, Se per tal cagion
s'aftengon da'l dir nei configli loro quello, che veramente conofeono,
cirereil meglio, Se potere ellcrc vti le. Quelle tre dunque fon
lecaufe, Se non altra fuor di quefte, per vna, o più delle quali,può chi
par la non dir quel, che conuenga. Onde è necelTario che colui,
che farà ftimato hauere inlìemcmenre tutte quefte cofe
habbiada trouar'apprellb di chi l'afcolta, credito, et fede alle fue
parole. Hor donde, cV: in quii modo lìen per poter fare appari re
altrui color, che parlano, d eller prudenti, Se virtuoil ; fi può
facilmcn te trar da qucllo,chintorno alle virtù diltinto,& dichiarato
riabbiamo : pofeiachei medelìmi luoghi ci polfon feruirea fare, Se 1 8 gli
altri, Se noi apparir per honefti, Se per virtuofi. Della beneuolentia, et dell'amici
tia poi, potrà quanto appartenga a quella, renderli manifefto in quello,
che verremo al prefentc a dire de 15 gli affetti, Se palli oni humane. Et
quelli intendo io efler gli Immani affetti, liquali commouendo, et alterando
l'huomo,fon potenti a variare,& diuerlìficare in lui li pareri, Se i
giuditij fuoi. a i quali affetti, due di lor feguon dietro, cioè la
moleftia, e'1 piacere. Et gli affetti fono, come a dir, 1 ira, la compalfione,
i l ri— 10 more, Se tutti gli altri coli fatti, Se li lor contrarij.
Inciafchcdun de i quali fa di bifogno, ch'in tre parti andiamo nel trattar
d'effi diftinguendo le cofe, che s'hanno in quelli da confidcrare.
com'a dir(per efTcmpio)ncirira, in che maniera (ìan dilpofti quelli, che fi
fogliono accender d ira ; et con tra di qual forte di perfonc foglia Thuomo
adirarfì j Se per cagion di qnai cofe foglia finalmente quello auucnire.
conciolìacofa chefenoi harem notitia d'vna di quefte cofe, o di due, Se non di
tutte a tre, impoflìbil ci fia dimuoucno *DelU ^Retorica d*
Aristotele di muouere, o eccitar ad ira. Et il medefimo s'ha da
intender negli altri affetti. Nella maniera adunque,che nelle già di
fopra trattate materie habbiam fatto in diltinguere, et allignare
appro priate propofitioni ; parimente in trattar di quefri affetti faremo
diltmguendo, Se allegrando in ciafeheduno affetto fpetiali propofitioni
fecondo 1 già detto modo. Dell' affètto dell 'Jra. Ntendasi per hora adunque
effer l ira vn pungitiuo, Se atfliggiriuo defiderio di vendetta, che fu a
chi la riceuc manifcfla ; nato in noi da apparente vilipendio, che ci paia
fatto fuor del douerc contraili noi, o di pedona a noi congiunta, et apparte x
nente. Hor elfendo tale l ira, quale l'habbiam deferitta ; ne fcgue di
ncceflità, che colui, che s'adira; s'adiri fempre contradi perfona
particolare, o ver fingolarc, o indiuidua, che la vcgliam dire, com a dir
coatta di Cleone, Se non contra dell huomoin genere : Se che colui contra
del qual'ci s'adira, habbia o contra di lui, o contra d'alcun dei fuoi fatto
qualche cola di maleo moa Itrato euiden temente animo preparato a volerla fare.
Etèparimentc neccflàrio, che ad ogni ira fempre fi congiunga, Se fegua vn
certo piacere, et vna certa voluttà, che nafee dalla fperaza
del vendicarli : elfendo cofafoauc, et gioconda il penfarc,&
hauere opinion di confeguir le cofe, che ìì dclìderano ; ne alcun e,
che defideri quelle cole,ch'cgli Itimi cllere a lui imponibile il
confeguirlc : Se colui, che è prefo dal'ira ; defidcra cofe, ch'egli
lutila 4 clfcra lui polli bili. Onde accommodatamente, et con gran ragione
fu in proposto dell ira detto, che l'ira più dolce del ben } purgato mele,
cade ltillando ne i perti de gli huomin forti. Seguita dunque, Se Ci congiugne
vn cofi fatto piacere, Se diletto alFira, olerà la ragion detta, per quelì
altra ragion'ancora,• perche ftàdi continuo l'irato in vna certa forte
immaginatone, Se cogitatione,& difeorfo d'animo intorno alla vendetta,
ch'ei penla € fare, laqual vehemente, Se gagliarda immaginationc, &:
ruminatone viene a caular voluttà nel modo, che la cagionan
quelle immaginationi di cofa, che piaccia, lequali dormendo ne i
fogni 7 accafeano. Hor perche il vilipendio non e altro, eh' vna certa
eC pprefl!one,& attuale inditio d'opinion, che s'habbia d'alcuna
cofa 8 come fe di nefliin conto,& di ni un pregio fia : pcrciochc le
cote, che fon da noi giudicate o buone o rce,o almen tali, che a cofi
fac te conducano, Óc rifpetto tengano, fon parimenieda noi tenute, in
qualche confidcrationcodi bene, odi male,* doue che quella, che noi
giudichiamo, come fé niente fulIero,o almen come che o nel bene, o nel
male di piccolifllmo momento fiano, vilipendiamo, et non ne facciamo ftima,n£
le tcniam degne di coniide} tarli in elle; nefegue che habbia per quefto da
(apere,che tre forti, o vero fpctic fi truouan di vilipendio ; chef«no il puro
dilpre gio, il difpctto, et la contumelia, o ver oltraggio, o onta che
le 10 vogliamdire. Percioche quanto primieramente al puro difpregio>
colui che difpregia, non e dubio, che non vilipenda : pofeia che
difpregiando noi quelle cofe, che di ncllun conto degne teniamo ; 6c {'olendoli
vilipender cofi fatte cole, ch'in nitìna ili ma fi tengono; ne fegue, che
il difpregio fiafpetie di vilipendio, i x Parimente colui, che fa
dispetto, moftra anche egli di vilipendere : conciofiacofa che il di/petto non
fia altro, ch'vn cercar d impedire, interrompere, et d opporfi in fomma a t
voleri, et a i dilegni altrui : non perche a noi di ciò qualche commodo, o
vtil 11 venga; ma perche noni habbian gli altri. Facendo noi
dunque quello, non a fine> che cofa alcuna ce ne venga, veniamo
confcguentemente a farlo per vilipendio quali che coli a vile tcniam quel
tale, che vilipendiamo, come s'ei non valellè nulla, ne in 1 5 ben, nè in
male: ellèndo chiara colà, che noi miniamo, eh egli in cola alcuna non ci
polfa nuocere : pofeia che quando ciò non illi mallimo, temeremo del
danno, ch'ei ci potette fare, ik per confeguentenon lo vilipenderemo. parimente
(limiamo, che in co* fa alcuna, eh importi nulla, giouar non ci polla :
pofciachequani do cofi ili ma filmo, procurammo, &c porremo fiudio di
farlo be14 ncuolo, cV amico noflro. Medcfimamenre colui, che fa onta,
o ver contumelia, vicn ancora egli a vilipendere; confiftendo
la contumelia in cagionare in chi fi fia qualche nocumento, o moleftia in
cofe ch'imporrino ignominia,& vergogna in chi le riceue. et ciò non per che
colui, che lo fa, penfi che habbia a refilltargli per quello altra cofa, che
quello Hello fatto, o perche altra fimil cofa na Hata fatta alni ; ma Coi
per cagione di quel piacere, j j et diletto, che gli ha di farlo. percioche
di coloniche ccrcan di render il
male, a chi male habbia fatto a loto, non diremo, che in ciò
contumelia facciano, ma vendetta. Et la camion del piacere, et del diletto di
coloro, che fan contumelia conliftc nel parer loriche con fare oltraggio, et mal
trattamento ad altri, ne rifiliti maggiorracrc ad cflì vna certa fuperiorità
d'eccedere y Se per que Ao auuicn, ch'i gioueni, 5c i ricchi lìan per
natura oltraggiofi,& contumcliofi : come quelii,che con far contumelia
prendono in 1 8 loro fteffi opinion d'eccedere. Vilipende dunque chi fa
contumelia per eilcr proprio della contumelia il non tenere in alcun pregio,
et in alcana ftima, cV chi non (urna, ne tien in pregio,nó e dubio, che
non vilipenda; pofeiache la cofa eh e tenuta a vile,o per dir meglio, e
tenuta in nulla, neilun pregio, o ftima ritiene, ne in mal, ne in bene. La
onde Achille tutto adirato dice,Non ha gli fatto conto,o ftima di me:
perochc hauendolo a me tolto, gode egli, et poflìede quello, ch'i Greci
tutti in han dato in dono. et altroue dice, Egli non altrimenti mi tien in
cóto,che s'vn vii difeacciato ribello io fulfe. Le quai cofe dice Achille,
come 20 chequefte fu (Ter folo le cagioni, che l infiammauan d'ira. Et
ci pare, ch'a color mafllmamente conuenga il far grande ftima di noi,
liquali ci fiano inferiori di nobiltà, di potcntia, di virtù, et di quelle cofe
in fomma,nelle quali di gran lunga ftimiam d'eccc % 1 dcrgli, et auanzargli
; come nelle ricchezze(per clfcmpio) dal rie co è ecceduto il pouero :
nella facilità del dire, dal facundo è futi 3 perato colui, che non può a pena
la lingua feiogliere ; nell'autori tàdal principe è fuperato il fiiddito 9
et da chi fia degno di comadare,& di dominarc,colui che fi a degno
d'obbedirc,cV d eller 13 dominato.Etperò fu ben detto,potcntiflìma è l'ira
de i Rè, quali che nutriti dal fommo Gioue. &c quell'altro detto
ancora : EeH ferba per doppo l'ira, per fatiarfi co lavendctta.&
qucfto accade, perche grandiftimofdegno concepifeono i potenti per il
lorocc14 cedere. Color'ancora ftimiam noi, che conuenga,
&ragioncuol (ìa, che ci habbiam d'hauer rifpetto, et da tenere in
conto, da i quali ci pardi poter con ragione afpettar di riceucr bene. et tali fon
quelli, a cui noihabbiam già altra volta fatto benefitio, o fac ciamo al
prefente, o noi fteflì, o alcun noftro congiunto, o perfo na, che ci
appartenga, o altra perfona perordin noliro : o vero 16 habbiam pronta
volontà di farlo,* o Ihabbiamo hauuta. Da quelle cofe adunque, che fi fon dette
fin qui, potrà hora agcuolmcntc renJl Secondo libro • / ; j te render fi
manifcfto,in che maniera difpofti, et qualificati fiati quelli, che adirar
fi fogliono: Se conerà di quali, et per cagion di quai cofiòs'acccndon di
tararTetto.Perciochequanto primierame te a quelli,chc s'adirano,
facilmente a ciò s'inducon le pedone, quado in qualche molcma, o dolor fi
truouano. cóciofiacofa che tempre in color, che fon punti, et afflitti da
dolorc,bifogna che fi 1 8 truoui desiderio di qualche cofa.onde qualuquc,o
direttaméte al confeguimento di qualche defiderio loro fi contraponc,
come faria (e ardendo effi di fete, non gli lafcialfc bere, o ver te non
direttamente, al meno in quaì fi voglia modo non adherifca loro, mafia
loro di ri tardati za,o d'impedimento ; nel mcdelìmo modo tp para loro di
Tettarne oftclì. Ers'alcun s'adopra incontra per impedirgli, o s'alcun'altro
non s'adopra per compiacergli, et per louuenirgli, o ver Te in qual fi
voglia altra cofa, mentre che (tanno in qucll eiTere ; alcun fia, che punto dia
lor diiturbo ; contra tutti quelli s'accendon d'ira. Laonde quelli, che fon
molcftati da innrmità,quelli,che fono opprelTì da pouertà ; quelli, che
fon grandemente innamorati; quelli, che (cntono ardente fete,
&c tutti in fomma quelli, che gran cupidità tengon d'alcuna
co(a,£\: quella non confeguifeono ; fon'iracondi, ella %lortca
dXriftotck^ fecondo ch'egli dclìdera, maggior piacere, Se diletto fente,
Ce 3 € quella fuor d'opinion Tua, et da lui non afpcttata,adiuienc. Onde
può da quefto apparir manifefto quali occalìoni, quai tempi, quai
difpohtiom, quali età Han più facili, et più accommodar a dar cau(a,&
fomento all'ira ; Se quando, doue ciò più aeeuol 3S teaccaichi: Se che
quate più di cosifatte condì rioni, et circonftantic accommodatc all'ira, in
chi lì Zìa concorreranno; lanto più verrà egli atto et facile, ad cflèr
con ci tato, Se mollo da questo 09 77*2; f «n dunque,* nella manicra,chc
detto habbiam, dilpoitifoglionoeircr coloro, che fon facilmente mobili
all'ita! 40 condia. Contra quei poi fuolqucft'ah Whauerluoeo, li
quali o prendono a rifo, o beffeggiano, o fchernifcono,o có acuti motti
pungono : concionacela che tutti quelli tali vcgan'in fir q uc41 Ito a dar
fegno di cÓtumelia. Parimen te contra di quelli s'accende 1 huomo in ira, i
quali nuocono, o Ci moftran Contratti in cole, chcilcr pollano inditij, Se
legni di contumelia, Se di vilipen41 dio. Se così fatte par, che necetfanamete
lì pollano ftimar quelV? i ncI,CqU 11 nuoce, non perche filia nccuuta
qualche pitela, Se nocumcto prima, ne perchcqualch'vtile, o comodo
di ciò ne venga: et per quefto può parer, che ciò Ci faccia per
fola contumelia. Contra di color ancora fuole l'huomo
aeeuolraétc adirargli quali lo biafmano, Se con parole fegli oppongono,
Se moftran di no tener di lui ftima intorno a quelle cole, ncllcqua44 liei
[faccia pnncipalmcic profcflioncor ftudio. come (pcrellempio) le cercando alcun
d'eùer tenutoin pregio nella filofofla,fuf4/ le chi moftrairc di rcneilo in
ella in pochiftìma ftima. o fc ftimandofi egli dotato di bellezza, Se di quella
s inuaghilfc, fune chi come poco bello moftraife di giudicarlo, c i lìmil
fi dee dir 4* difeorrcndo nell altre cole. Et molto più ci Cuoi quefto
ancor auucmr quado detro in noi folpichiamo,o opinione habbiamo, cnc
quelle cofc,ncllequaii ci gloriamo Se reputation cerchiamo, o totalmcte
non fiano in noi,o almcn non ci nano in quella perfettone, che vogliara che le
fian tenute, o che fe pur v. fono, fo47 lpichiamo,che non paia nondimen agii
altroché le vi fiano. ma iemoltolalda, et certa farà l'opinione, Se la
certezza no ftra, che tai cofe fcnzaalcun dubio veramete fiano in noi, nò
ci farà tato a cuorc,nc terrem molto in cótoil bialmo, o il difpregio, eli
alcun 4» ne faccia. Appretto di quefto cótra di coloro, che noi
reportagi P amici, molto più,fc ci ofFendono,ci accediamo in ira che
cótra Jl Secondo libto. / rj di quei, che no ci fon amici: peroche da
eli] ftimiam concnir più torto d'haiicrc a riceucr bene,c'hauer p il
córrano a rice uer male. Mcdefimamcte color, che fon (oliti d'honorarci,
Se d ilanerei m còro, Se in cófideracioiiCjfcgli accafea poi, che non fegu
in di far più qucfto, ci cóciran facilmente ad ira. cóciofiacofa clic
agcuolnicrc potiam da qucfto cóicrtnrare, che ci deprezzino, Ov a vii
ci tégano.pofciache fe quello no fulTe, fegiiircbber di far quel,
che faccuan pi ima. Color parimcte eccitar foglion córra di le 1
nano ftra,i quali hauédo nceuuto benefitio da noi,nódimeno nelle
no ftre oc coi rene nó ne fanno a noi, ne fi curan di renderne il
córracablo. Se quelli ancora, i quali nelle lor'arrioni (on conrrari]
alle ji noftre,eirendo etì] nódimen inferiori a noi. Se quello
ciauuicn perche tutti queftì, cioè gli virimi, c'habbiamdcrri, &li
precedétedino indino di poco apprezzarci, Se di nó renerei in còro,
que 111 come ch'inferiori loi lìamo,& quelli, come che da inferiori
be 54 netìrio riccuuio riabbiano. Oltra di quello maggiormente
ancor prouocan conrradi (e 1 ira nolrra quelli, eh eilcndo huomini
di niun .òro, Se di niun valore.cV: tenuti in nulla, moftran nódimenodi
deprezzarci, Se di vilipéderci.pofciachegià habbiam deferi uédo l ira
luppolto nafeere ella,c\: cagionarli dal viIipcdio,chc có 55 tra di chi nó
cóucnga, fuor di ragione, et del douer li faccia : ne è dubio,ch'a gli
inferiori nó cóucga nó vilipedcr i lor fupeiiori,ma 56 più torto
honorargli,& tenergli in cóto. Color parimctc,chc noi teniam per
amici, le non dico ben di noi,&: có parolc,o con opre non lì moltrano
in fauore, &: in aiuto nollro, (oglion facilmente 57 prouocarci ad
ira: et molro ancor p.ù fe il cótrario fanno. Et ancor fe cadendo noi in
mamfelto biiogno d'alcuna cola, eglino nó 58 rauuerti(cono,& nó vi
volgo l'animo. lì come da Antifonte è introdotto Pleirippo, che per tal cauia
s'adira còntradi Melcagro. rp Se quello auuicne perche quel nó auucrtire
Se nó por cura, è manifeltofegno di ditprczzamcto,& di tenere altri in
nulla : potei a che le cole,che premono, èv lon'a cuore, nó (oglion
pallar'ignote 60 Se nó atterrite, òentiam medelimamcte inliamarci d ira
córra di quellljchene noftri infortuni) gioi(cono,& fi rallegra no. Se
córra di quelli 1 foni ma, che p quali li voghan noftre mi(cric,cel/a
^Retorica d y jérìttotelt^ 6} moleftia, o difpiacer ne venga. Et di qui è,
clic facilmente ci adiriamo contra di quelli, che ci portan qualche mala
nouclla,ella Storica d'Arinotela mieramentc adunque altro non etter la
placabilirà, clic vn cer| co quieramento, pofamenro, et ccllàtion dall'ira. Hora
clfendo, che gli huomini ( come già Ci e detto ) s'adiran principalmente contra
di coloro, che gli difpreggiano, et vilipendono; &: ellendo il
difprezzamcnto, ci vilipendio cola (pontanea, o ver volontaria ; è mani fedo
per quello, che verfo di coloro > 1 quali o non faran cola, eh cllcr polla a
dilptegio, o vilipendio nollro ; o contra del lor voler la faranno, o almen ci
paria, che coli la facciano; manfueti, cV placati ci renderemo. 4 Et verfo
di quelli ancora, i quali vorrebber volontieri haucre 5 fatto il contrario
di quello, che conerà di noi han fatto. Verfo di quei parimente dineniam
manfueti, et placati, i q tuli quello dello c'han fatto contra di noi, han
fatto parimente vcrlo di loro fleffi : non parendo vcrilimil, che alcuno
vii difprezzamcnto » vilipendio,& Icherno verfo di le medefimo. E
quello dello ci auuien verfo di quelli altri ancora, i quali confcllano il
fatto, et infiememente modran pentimento di quanto contra di noi riabbiano
operato, percioche accettando noi quel lor dolerli, et pentirti, in luogo quali
di lor gadigo, et di lor punitionc ; viene in vn cerco modo a fatiarf\, óc per
confeguente a mitigarli 1 ira già conerà di lor concepura. di che ci può clfere
inditio quel, che li vede tu frenire nelgalbgare, et punirci ferii i :
pofeiache quanto più opinati danno in negare il fallo, et in opporli
contradicendo ; tanto più feueramentc, et con più irato animo gli
gattigliamo, doue che per il contrario le confettando cflì Perrorloru. «Se
di efler per tal'errorc a ragion galligati, feniiamo in noi (ubilo
in gran parte mitigarli 1 ira. Et la ragion di quedo li dee dimar, che
fu, che il negare odinaramente le cofe apertamente manifede, fa inditio, et argomento
di sfacciata impudentia, et di mancanza di verecondia : tk l'impudcntia,
et l'inuerecondia, par che liano vna forre di difprezzamcnto, et di
vilipendio. Se che ciò da il vero, alla prefenna di coloro, che noi nulla
filmiamo, et reniam grandemente a vile; verecondia giamai aleuto na non
fogliamo hauere. Manfueti, et placati ci lodiamo rendere ancora verfo di
quelli» i quali ci li modran o humili, fegue che noi moftriamo :
difHniendo prima,chc cola Iia l'amici tia,& fa t£ mare ftclTo. Intendali
dunque per hora, altro non cfler l'amare, ch'il delìdera re all'amato
cofe, che noi (limiamo ellèrgli beni : Se ciò non percaufa nollra
propria, ma per caufa dell'amato (ietto : con procurar con ogni
diligenti* 3 fecondo le forze noftre, ch'egli le conleguifca. L'Amico poi
s'hà 4 da fumare elfcr quello, il quale amando lìa ancor riamato.
Onde color fi Iti meranno,& reputeranno d'elfer tra di loro amici,i
qua liharanno opinione, et credenza d'elfer cambicuolmcntc l
vn verfol altro nella maniera, c'habbiam diftìniro l'amare, Se l'ami5 co.
Siippoiìodunqucpcr vero tutto quello c habbiam detto,ne fegue
nccclfariaraentc, che amico d vno farà quello, il quale infiemeancora elfo lì
rallegrarà delle prol perita di quello, et li con dolcrà delle cofcauuerfc,
Se delle infelici, Se non ad altro fine, 6 ne per altra cagione, che per
cagion di lui. percioche rallegrandoli, Se fentendo diletto tutti gli huomini
generalmente in vede re effettuar le cofe fecondo ! volere, Se defidcrio
loro, Se rattrilìadoli, Se fèntcndo dolore quando per il contrario accafeano;
ne fc gue, chele tnftczze>ò\: fc voluttà lìen grandinami inditi) delle
vo 8 lontà de eli huomini. Color mcdclìmamentc fon tra di loro amici,
a i quali le medcfime cofe fono, o ver paion buon e, et le mededmecattiue.
et quelli parimente, ch'alle mededme perfonc fono amici, Sfalle medeìime fon
nemici : percioche in cai cad vengon nccedàriamente a rincontrar con le
volontà nelle medefimecofe : onde volendo, Se delìderando ciafchcdtin de
(fi » le cofe mededme a Ce dello, chei vuole, Se dclìdera ali altro,
vien 1 1 per quello a potere elfergli (limato amico. Quanto a
color.che Sogliono edere amati, fon primieramente da noi amati quelli,
da i quali habbiam riceuuto benefiti;, o noi ftedì, o alcun di
quelli, che ci fon (ommamente cati, o che fon lotto la protettionc > et
cu ra nodra : et madì inamente fé grandi fono dati li benefìrij, o
fé prontamente fatti, o fe nella tale,& nella tale occa(lone,&
oppor tunità di tempo, o fe non ad altro tìnc,chc per fola cagion di
noi. ti Et parimente lon da noi amati, fe quantunque non habbian fatto per
il pallato benefici j, com'habbiam detto, conofeiamo non.dimeno, c'han
difpofta, Se pronta volontà di farne. Sogliamo mcdefimamcnte amare gli
amici degli amici nodri,& coloro' che amano quelli iteflì, che (on da noi
amati : ne manco quegli ij altri, che fono amati da quei, che noi amiamo.
Et ol tra ciò fogliamo amar coloro, che fon nemici di quei m edelì mi, de i q
ualt damo nemici noi ; Se color parimente, che portano odio a
quelli (ledi, che fon da noi odiati ; ne manco ancor quegli altri, che
fo16 no odiati da quelli, che noi parimente odiamo, percioche a rutti quefti,
c'habbiam raccontati, vengono a parer beni quelle deffc cofe, che paiono a noi
; Se per confeguente veniamo a volere, Se desiderar cod fatti beni in loro
: il chegià habbiam detto eder 17 proprio degli amici. Amiamo medefimamen
te coloro,che fon foli ti, Se atti abenificarc, tk giouare altrui, Se
madìmameute in danari, Se in cofe, ch'importano alla faluezza della vita,
Se della 18 fallite noftra. Onde auuien, ch'i liberali, e forti fian ben
voluti, et honorati generalmente da tutti. Amate fon patimcntc da noi le
pedone amiche del giù Ilo, 6e tali (limiamo eder quelli, che nò afpiran,
ne cercan di viuer di quel de gli altri, o con pregiuditio 10 di chi Ci
voglia. Se cod fatti fon quelli, che ftan contenti in procurar di foftentard
con le propriefodantic,& fatighc loro:quali fi dcono dimare eder
mammamentc quei, che fono amarori dell'agricoltura, &: dalla cultiuation
della terra viuono : Se quelli mededmarnente, che con 1 induftria, Se
opera delle proprie ma. 11 ni, pi oueggono alla vita loro. Appredo di
quello fogliamo ama r Q_ ij quelle perfone, che in tutte le loro arcioni
foglion inoltrar t'em* perantia Se moderna : conciofiacola che da coli
fatte perfonc,co11 me da non ingiufte, non fi foglia temei • d'ingiultitia
alcuna. Et per la mcdefima ragione amiamo ancoi coloro, i quali non
curiofi > et tra negotij, et liti Tempre inquieti ; ma tranquilli
nella *3 lor quiete viuono. Son da noi parimente amati coloro, a i quali
defideriamo di diuenireamici, feconolciamo, cheflì il mede2^ fimo defiderio
tengano. &: tali fon quei, ch'in qualche nobil virtù preuagliono, et rifplendonotcv
quelli parimente,chc fono in gran reputatone, et ltima, o appreHo
communementedi tutti, oapprellbdci migliori, oappreilbdi quei,chcnoi
habbiaraoin ammiratione, o appretto finalmente di quelli, che (limano, et t$
ammiran noi. Sogliamo oltra di quello amar coloro, che fon per natura
dolci, et giocondi nella conuerfatione,& tali, che con diletto fi
foglia con cflì confumare il tempo. Se cofi fatti lon quel U> che di
benigna, et fàcil natura fono,& non de eli errori alttui curiofi
oflfcruatori, o minuti riprenfori ; ne fono altercatiui,o có16 tcntiofi, o
amatori di liti. pofeiache tutte quefte perfone cofi fat te fono amiche di
contrariare, di pugnare, et d opporli fempre in ogni cofaagli altri :
nèèdubio, che quei, che fan queft,o,non moltrino in ciò di non conuenir
nella volontà, ma di volere il 17 contrario, che gli altri vogliono. Soglion
renderli amabili ancor coloro, li quali fon molto deftri, Se atti, cofi nel
mordere, Se punger giocofamentc, et fcheizcuolmcnte, come ancor nel
fop-, fumare, Se riceuer con patiente, «Se amorcuolc animo i morii,
Se e punture, che fian date loro, conciolìacofa che gli vni, Se gli
al* tri, cioè quei, che pungono,&: quei, che puti fono, vn medefimo fin
della càbietiol dilettation riguardino;métre che co lieta patié tia
riceuono in fc fteflì i morfi,8c co accomodata deprezza inorai dono. Amiamo
medefimaméte quelli, da i quali fentii lodar quel la forte di beni, che
fono in noi : Se tra quelli beni, ptincipalmc te quelli, del portello dei
quali, noi non ben fecuri, fofpichiamo alquanto, che veramente non fiano in noi.
Ci fi rendon parimente amabili quei, che moftran fempre alla viltà altrui
vna certa delicata nettezza, Se politezza, così nella faccia, Se nell’aspetto,
come ne i vcftimenti, Se in tutta finalmente la vita loro. 5 x Non fiamo alieni
ancor da amar quella fortedi perfone, che no han per coflumc di
rammemorare, Se gittarc al vifo altrui, o gli errori Jl Secondo libro.
/ isj* errori da altri commeflTi, e i benefitij da lor già fatti :
pofeiache l'vna, Se l'altra di quelle cofe, fa argomento, et inditio,
che limoni fia auido,& diletto prenda d'eller reprenfiuo,&
redarguì 31 tiuo. Se quell'ai tra forte d huomini ancora amiamo, i quali
non foglion tenere imprende molto nella memoria 1 ingiurie, e i danni, che
fon lor farti: nècurioli indagatori, oofleruatori fon delle colpe, Se
dell'ortelc altrui ; ma fon facilmente riconciliatiui, Se 3 3 amici del
pacificarli, pcrciòche quali noi gli filmiamo eller vcrfo degli altri, tali
ancora ci diamo a credere c'habbian da eller 3 4 verfo di noi. Ci li
rendono amabili ancor coloro, che non li di* lettan di dire, o di penfar
mal d'altrui, ne cercano, o braman di faper gli altrui o i noftri falli,ma
folo il bene ; cilendo il far que3j fio veramente ofHtio dell'huom da bene.
Soglion parimente effere amati quelli, li quali non fi dilettan, ne han
percoftumc di contrapporli, o d'attraucrfarlì a color, che lì truouano
accefi d'ira; o a quelli, che con grande atrentione fono fedamente, et fui graue
occupati in qualche cofa: perciochc quelli, che fan quello 3 6 non pollono
eller, fe non perfone altercati u e, Se contcntiofc.Facilmente ancora ci
induciamo ad amar quelli, che tali ci lì moftran verfo di noi difpolti, come
chi ci riabbiano in ammiranone, Se ci repurin virtuofi, Se da bene, et della
conuerfation no37 ftra diletto prendine Se malli mamen te le cosi fatte lor di
moArationi, Se opinioni c'habbian di noi, fono intorno a quelle cofe,
ncllcquali principalmente delideriamo d'ellerc ammirati, Se di parere
altrui virtuofi, Se habili a dar diletto có la noftra cóuer 3 8 fatione.
Sogliamo olrra di quello amare gli vguali, Se i limili a noi,&: quei,
che fan la medeiìma profelfion di noi; Se ne i medefimi Itndij,
&arti,elTcrcitio, et diligentia pongono : fegia no ac cadclTe, che per
tal caufa l'vn fulTe d'impedimcto all'altro ; o che tutti hau eller
dafoflentar la vira da vna arte, ouer profeflione 3£ ftefla. perochein tal
cafo fi verificherebbe il prouerbio, chedice, IlVafaro odia il vafaro.
Etmedefimamcnte ci fi rendono' amabili quelle, che delle mcdefime cofe ci
fi moftran defiderofi, che noi parimente defideriamo : quando le cofe fon
tali, che pof fono iniiememcnte eflerda loro,& danoiconfeguite,eV
pollèdute. altrimenti quando quello accader non poteilejharcbbe luogo il
medefimo prouerbio pur'hora addotto. Olirà di quello color parimente
amiamo, co i quali così fatta difpofition teniamo, cFic ci fa non vergognarci
apprclfo di loro di quelle cofe* che più rodo in apparenti*, et in
opinionc > che in verità tengono in fe bruttezza : fegià qucfto non
vergognarcene non na(ccf45 feda poca, o nulla rama, che noi di lor faceflìmo.
Eramiamo ancor quelli dall'altra parte, appretto dei quali teniamo
rofloc di vergogna di quelle cofe, che più torto fecondo la verità,
che 44 fecondo l'opinione, habbiano in fe del brutro. Son
parimente da noi amati quelli, dai quali habbiam caro d'efler tenuti
in 45 buon concetto et in conto d honorc, et di (lima. Et quelli
medclimamcte o amiamo, o defideriamo haucr per amici, da i quali delìderiamo
eflcr tolti, et fcelti per oggetti dcmnlatfonc, Se 46 d'imitatione, ma non
d inuidia. Siamo ancor pronti ad amar quelli, inficmc, co i quali per
acquifto, et confeguimcto di qual che bene, ci fiamo operati : fe già per
quello non fi vedeile poi, che fulle per venirne a noi mcnteamati. Et in
fomma l'elìer grandemente amator de Riamici, et il non abbandonagli, et reftar
d'amargli per qual iì vojo glia cafo> è cofa, che rende molto amabile I h
uomo. peroche fe ogni forte di bontà, cV di virtù, far fuol le perfonc
amabili, maf fimamence lo fa l'haucr bontà, et virtù nell'amare.
Sogliamo oltradi quello amar quelli, che nel lor conuerfar non
procedon con elTb noi con fintioni, et diflìmulationi de gli animi loro,
et tali fon coloro, i quali i falli loro non fi vergognan di confeilarc,
cVmanifeftare; hauendo noi già detto, che con gli amici non ci vergogniamo
di far lor palefi quelle cole, che fon più fecódo l'o%\ pinione, che fecódo la
verità colpabile. Onde fe colui, che di ciò lì vergogna, non ama,vcrrà
confeguentementc colui, che no j4 prendcdi ciò vergogna a moftrar d amare.
Siamo ancor pronti ad amar coloro, che formidabili, o tremendi non ci fi
moftrano, et ne i quali fecurezza, et confidentia habbiamo, percioche neffuno è
ch'arai chi fia da lui temuto. Spctie dell'amici tia fono, lamicitia trà i
compagni, ofotictà chclavogliam chiamare, lamicitia trà i domeftici, et familiari
; l amicitia trà i propinqui,©* f€ congiunti in (àngue, et altre fpctic
parimente così fatte. Trà le Jfi [Secondo libro. Ì27 cofe poi) che
producano, &: generano l'amici tia fon primierame* te li benefìci), Se
il fargli iponcaneamence fenza afpeccar la forza dei prieghi. Se olerà di
quello il no predicargli colui, che gli fì; conciofiacofa che nel
predicargli, et nell'often targli farebbe egli parer d'haucrgli facci per
caufa fua propria, Se non per cauta del" J7 l'alero,chegli riccuc.
Quan co apparti en poi airinimiciua,& aU Thaucr in odio, è co fa
manifefla che da i luoghi con era ri j a quelli, che noi riabbiamo adeguaci
dell'amicicia, Se dcll'amare,pocrà tS chi fi voglia per le ileiTo
difcorrere Se cófiderare. Prodocc.ici,óc generatici cagioni dell'inimicicia
fono l'ira ; il concrapporfi, o jS> conrrapponimenco, chevogliam dire,
Se la maladicencia. Ma l'ira non fi
fuolc ccciccarc in noi, fe non per cofe» che riguardici noi tlellì : doue
che l'inimicicia può in noi nafeer conerà d alcuno, fenza c habbia egli facco
cofa, che cocchi, o riguardi noi.pcrciochc fc della rale,& calcodiofa quali
cà lo fumeremo, fenza dubio alcuno, fenza altra caufa gli porremo odio.
Apprcilb di quefio no s'eccita, ne ha luogo lira mai, fenon conerà di
pedono parcicolari, come a dir con era di Callia, o di Socrace. ma
l'odio può hauer luogo conerà d'alcuna force d'huomini in vniucrTale,
confideraca nel gencr fuo : conciofiacoia che nciTun fia, chenonhabbia
inodio il ladro, et il calunniatore in genere» A quello s'aggiugne, che
l'ira lì vede elìcr mecficabilcol cépo, ma l'odio non riceue medicina da
quello» L'ira olerà ciò fpinge a dcfiderare di cagionar dolore, et molellia
ncirauueriario : doi ue che l'odio hà fol la mira al male, &al dàno
delia perfona odia ca. pcroche l'iraeo vorrebbe, che fullè da chi lo
riceue fencico, et fapuco donde gli viene il male, ÒV a colui» cheodia, purché
t l'odiaco habbia il male, poco alerà cofa importa. Ec fono i mali, che
doglia, Se molellia apporcano, in namralor fenfibili,&: dallo ilciTo fenfo
percettibili. ma quei maliche principalmente filmar fideono, manco di cucci fi
ftnfencire: et quelli fono l'Ingiufìicia, Se Mmprudeneia, o ScoIticia,chela
vogliam dire, pofeiache neiTun dolore, o molellia la prefentia del vicione
fafen*4 eirc. Olerà di quello l'vno dei decer affecti ila icmpre accompagnato
con afTlicrionc, Se molellia di animo : doue che l'altro ne» hà fempre
fcco cotal molellia: conciofiacoia che l huomo nell'ef fere irato (enea
fempre dolore, Se nel portare odio non fempre 6 r il fenca. S'aggiugne
ancora a quello, che l'irato nel veder grandemente moltiplicare infortunij, et calamità
nel fuo auuerfario, fuol finalmente muouerli a compaflìone: ma chi odia,
non ferire pietà già mai. Et la ragion di quello e, che 1 irato altro non
cerca, Se non defidera, fé non che colui, contra del quale ha ira,
fen tacon dolore,& moleUiaellcr fatta contra di lui ricompera
del la comincila orfefa. ma colui, che odia, brama, et vorrebbe
l'vltimaannullanonc,& deftruttionc, Se lo Hello non cller della pcr46 fona
odiata. Hor per le cofe, che li lon dette, può eifer manifefto come lì polla
fare altrui, conolccre cllere amici, o nemici cuci, che veramente (bno :
Se come quando tali non fieno, lì pofùn fax diuenir tali : Se come parimente q
uando per amici, o per nemici fon porti innanzi ; fi polla difcioglier
quella apparcntia, 4y Se far conoicer, clic tai non fiano : et oltra di
quedo in che maniera, venendo in controuerfia s alcuna cola lìa fatta o per
ira, o per inimici tia,s riabbiada far parere, o 1 vna cofa,o l'ai tra,
lecon i 8 do che ci verrà ben d'eleggere. Quali fiano hor quelle cofe,
per cagion delle quali nafee timor ne gli huomini : Se quai (orti di
perfone fogliano cfTer temute, Se qualmente difpofti ficn [liei, che
temono, per quel, ch'ai prefente diremo, potrà citi manifcfto, / (apo j.
*Del Timor e, et della Conjìdentia. ?3TH Ohi amo adunque per hora, ch'altro non
fia il Timore, ch'vn con tri /lamento, Se vna pcrtnrbation dell'animo,
nata da imninginatione, Se opinione Kì. di detlrueeitiuo, oafìlittiuo
futuro male, concior — 32 ha cola che non tutti ì mali han tcrauu.comc a
die | ledere in giù Ilo, o tardo di mente, o fi mi le. ma folamen te
quelli» i quali o intentinomi dolori, Se molcftic, o l 'ideilo dellruggimc4
to, Se la (Iella morte, recar ne polfono. Et quelli ancor non tempre fon
temuti, ma folamentealhota, che non per molto fpatio di tempo, lungi da
noi fi moftrano, ma come vicini, cV quali che adhora inhora fian per
venire, già già pendenti appaiono : po(ciache i mali, che molto tempo flimiamo,
che fian per tardare j a venire, temer non fi fogliono. Se che ciò fia il
vero, nell'uno è, che non fappiaper cofa certa d'hauerca morire, Se
nondimeno perche c immaginiam la morte molto da lunga, non par,che pensiero,
o timor ci mettale vicina non la vediamo. Effondo adunque il nmor tale, quale
habbiam delcritto, è uccellano che tutte quelle cole ci liano da clfcr temute,
le quali ci paia, che habbian gran forza, Se facilità di recar la dcitruttiohc,
Se. la perditione, o almen così graui danni, che molto acerbo dolorcóY pù>
i 7 gente arili ttione ne partorì fcano. La onde li legni ancoia,&
gl'indi rij di cosi-fatti mali fon da clfcr temuti; come quelli,che ci fanno
apparire, 6c Itamar, ch'i mali, di cui fon legni, ci llcn già vicH ni : ne
altro che quello è il pencolo : cioè apprellamento di graue, et tremendo male.
Et così fatti legni fon primieramente l'inumana, et l'ira di quelli, c'han
potere, Se facilità di nuocerci, Se di firci qualche importante male:
perochceilcndo per quello manifefto, eh elfi polìbno, et voglion farlo, ne
fegue che molto 9 vicino, Se propinquo (la, che lo facciano. Da temere
ancor come indino di propinquo male lì dee ftimar, che fia l'ingiuftitia
in man di color, che potendo affai, han facultà d'eseguirla :
conciofiacota che liacon ella congiunto ancora il volere ; non edendò ingiufto
colui eh e ingiufto, fc non perche clfcr vuole, Se Telo legge, il valore
ancora, et la virtù dell'huoino, s'ella vicn difp rezza t i, et fchemita, Se fe
forza, et poter non le manca; dee Teri(imilmcnte clfcr temuta: clfendo
inanifefto, ch'ogni volta che la Ila dilprezzara, quel difprezzamcnto fa,
ch'ella elegga, Se voglia nuocere, Se la forza,e'l poter che poi le le
aggiugne,fa che 1 1 la polla farlo. La paura medelìruamcre, che fia di noi
hauuta da pedone potenti, et habili a farci male, dee eller da noi temuta
: perche clfendo elle tali, nccellàriamenre laran fempre difpofle, li
et pirite a offenderci pcrfecurarlì. Oltra di queltu perche gli huomini
per la maggior parte fon più tolto cattiui, che buoni, Se non potenti a
refìlterc ali auara cupidità d hauere, Se timidi oltra cuS, Se vili ne 1
pericoli ; di qui è, ch'il più delle volte e cola da temer come pericolofa
il por la propria (ahi re io potcre,& in arbitrio d'altri. Onde vengono a
douerc elfer temuti da noi coloro, li quali fon confapeuoli di qualche nollro
importate delitto, o (celeraro fatto, o fon compagni in elio : potendo
elìì agcuolmcreo palefar quel, che fanno, o inqual lì voglia altro modo
tra 14 dirci. Medclìmamente tutti color, che lon potenti, Se habili
a fare ingiuria, deono elfer femprc temuti da quelli, che tono nobili, Òe
facilmente cfpofli àdellcrc ingiuriati : po.ci.iche perii R p.ù^li ij
più gli huomini, quando polfono, fan volonticri ingiuria. Do» ucranno
aacora elici da noi lemuri quelli, i quali o han riceuuto da noi qualche
offcla, o almen fi credon d haucrJa riceuuta : conciofiacola che femore
quefti rali ftieno olferuado leoccalìoil ni, ci rempo per vendicarli.
Dall'altra parre fondaeflcr tenuti ancora coloro, c han fatto ingiuria, fe
forza,& poter fi tritona in erti, come quelli, che temono,che non
fialorrenduto con la vedetta il cambio, hauendo noi già pofto quello tri le
cofe, che temerli deono. Apprclfo di quefto quelli, che per lacquifto, fc poifelfo
d'vna ftefla. cofa quau a gara tra di lorcontendono-, dcon temerli gli vni
gli altri, ogni volta che la cofa fia talc,chil luo acquifto non polla negli
vni, et negli altri hauere iniiemenicnre luogo: pcrochegli auuien fempre
che quelli tali fi oppongano, &c li nemichino inlìeme per impedirli in
tutto quel, che pollono. I 8 Coloro ancora, i quali fono atti a dar timore
a quei, che lon più. poteri ti di noi, dcon parimente elfer da noi remuti
; come quelli, che più atti, et potenti farebbero a fare offefa, et nocumento 15?
a noi, eh aquelli. Et per la mcdelima ragione temer debbiam quelli, che
noi vediamo ellcre effettualmente temuti da alcuni, che fian di maggior
potere, et valor di noi. Et quelli parimcnre, c hanno orlclo, o vecifo perfona
più potente, et più atta a diII fenderli, che non fata noi. et non manco ancor
quelli,c hanno airalito, et fatto fopr'vfo a pcrfone,ancor che di minor
forze, Se 11 di minor conto di noi. perochc eglino, o fon già habili a
tentar quello ftelìb contradi noi, c\r perconleguente da elfer da noi
temuti ; o fon per pigliar da quel fitto accrefeimenro di forze, 6c 15
d'animo da doucrc elfer da noi lemuri. Oltra di quefto trà tutti quelli,
che pcrelfcrc ilari ingiuriati da.noi, o per elfer nemici, èc auuerfahj no
il ri, ci dan caufa di temer di loro, fon principalmente da elfer remuti, non
quelli, eh à curi, et i ubici nell'ira fono, et molto nel parlar liberi,• ma
quelli per il contrario, che co di Hi mula rione, aftu ria, cV calidità,
placati di fuora appaiono. 14 conciofiacofa che di quefti tali non ci
polla mai elfer manifefto, ic il male, e il pericolo ci lia dapprclfo ;
&c perconleguente non ci potiamo aliccurar, ch'il mal, c habbiamda
temer,lia lontano. if Hor tutte le cofe, che ci polfbn cagionar timore,
alhor di maggior* fpauento, òVpiù da elfer temutefono, quando al difordine, et al
danno, che con erte venga, mal li può dar medicina, o recar remedio, ma o in
tutto correggere, Se rimediar non fi può, over (e remedio alcun ci fia,
non e egli in min noftra, Se in poter noftro, ma in man più rollo degli
auuerfanj, et nemici notò ftri. Et medeiìmamen terrà le cofe, cheli deon
tcmcre,qucllefon maggiormente da temere, per la cui ncompenfa, et reltauro,
o non da da trouarfi da alcuna parte aiuto, oaìmen molto difficile »7
fiail trouarlo. Et per dire in lomma in vna parola, fon da elfer temute
tutte quelle cofe, le quali vedendoli accadute inalrn,o già già pendenti
per accadere, fono atte a generare affetto di có18 paflione. Queftc, che noi
habbiam dette adunque, fon ((i può dir) tutte quelle cole, che fon da
elTcr temute, Se che per il più, foglion temere gli huomini. fegue hora
che noi diciamo, qual forre d'huomini, et in che maniera difpofti, Se
qualificati lien quelli, che temer fogliono. Ellendo dunque il timor
cógiunto femprecon immaginationc, Se quafi afpettanon d'hauerea riceucr
qualche lefione, o patimento corrottiuo, Se dcltruggitiuo ; chiara cofa è,
che timor non farà per cadere in coloro, i quali habbiano opinione, et credenza
di non hauere a patir male alio cuno, oalmen temenza non haran di quelle cofe,
le quali eflì nò 3 1 minino, ch'accafcarlor debbiano, ne di quelle perfone
pan mere, dalle quali non habbiano opinione, che mal ne debba lor ve51 nire:
oalmen non ne temerannoin quel tempo, nel quale male alcun non n'afpcttino.
Onde neceffariamenre fegue, che in quelli farà timore, i quali haran
credenza, Se opinione di potere elfer da qualchegraue malcaflaliti, Se in
quelli parimente, che da quefte, o da quelle perfone, Se da quefte, o da
quelle cofe, Se in quefto, o in quel tempo, (ofpicheranno, Se (limeranno,
ch'il male, et il pcricol venga. Tra quelli, che non ftiman d
hauere ad eflerc aflali ti da grane male alcuno, fon primieramente coloro,
che fi truouan pofti in gran profperità di fortuna : Se per ouefto vengon
quefti tali ad ellcr contumcliofi, infoienti, Se dispregiatori d'ognuno, Se
ripieni, 6V gonfiati fempre d audacia, $$ Se di confidentia. et così fatti
gli foglion render le ricchezze, }6 la gagliardia,la copia degli amia,
l'autorità, Se Ja potcntia. Coloro ancora non penfàn, che graue male habbia da
venir loro, li quali fumandoli, che già fien venuti loro addofTo tutti i
più graui, Se più atroci mali ; fenrono agghiacciara, et quali cilinta
in elfi ogni fpcranza, ch'il futuro riguardar polla: come auuiert R
ij (per cileni/ Ideila lirica dj4rìttotc(z^> (per clTcmpioJin quelli,
che all' vi rimo ftippìitio condénari, all'èlecution di quello menaci (ono. mailumoic
ha Infogno itmpre per l'elferè, Óc mantenimento (no di qualche Iperanza di
fallite, 3c di (campo in quel pericolo, et in quel m u, clic u u me, 3S o
pare. Di che chiaro indiiio ci può ellere il veder, eh il rimor reo del
huomo conlulratiuo, et nellunoc, che coniiglio cerchi in quelle cole, in
cui non lì in nmafte reliquie di fperanza alcu35? na. Pier laqual cofa quando
noi corniceremo, o ltunercmo ciìcr comodo alla caufa noftra, che qualche
timor ha negli alcol tarorij farà di mcftieri, che procuriamo di
preparargli in modo con la noftra orationc, che li dicno a creder d'clfer
tali, ch 'ancora erti polHin patire, 6c riceucr male, come faria dicendo,
che patito 40 habbiano altri maggiori, et più potenti di loro: 3c facendo
lor vedere, ch'alrri limili, òc pari loro habbiano il medetimo
patito, o patano,& da tali, che mai (limato nò l'harebbero; et cai
cofe,& 41 in tal tcpo,che non harebber creduto, calettato mai. Hor
perche già intorno al timor dichiarato habbiamo,chc cofa egli ha, genera
parimente confidentia. Oltra di quello contìdentia fentirem venire in noi,
fe, o in più numero, o di maggior valore,o in maggior nu mero, Se valore
infieme,fari quel li, a cui tocchi il medeiimo interellc noltro, che non
faran dalla parte di quelli, da cui ci fia per venire il male. Le
perfonepoi, nel le quali ha d'hauer luogo la confidenti!, nella gin la,
che fiora diremo, difpofte fogliono eflerc. Se primieramente fon'cllc
tali, quando par loro, che la maggior parte de i fatti et delle ini
prete loro, lìan lor (uccedute profperamente:& che ninna cofa attucrjo
fa, o pericolo fia lor venuto addotto. Et quelli d uTaltra parte fo gliono
eirer confidenti ancora, i quali fpelle voltein graui pericoli fi fon trouati,
Se fempre nondimeno ne fon riufciti liberi, Se fcampati falui.
conciofiacofa che in due modi, o ver perduceaufe fogliano gli rinomini non
fentire, o temere i pericolilo per che prouati altre volte non gli hanno,
ovcramenre perche ltimano di potere hauercin pronto aiuti da liberartene,
come fi vede (per eirempio) auuenir ne i pericoli del mare : doue
coloro,chccomc inefperti del nauigare,non han prouaro alerà volta le
tempere marittime, ci ftan con animo confidente, Se fecirro di
qucllo,chc ila pendente per accafeare. ma color parimente liberi, da
timor quiui fi ti u ouano. ì n aiuto de i quali ila polla, Se parata l
cfpericntia,che tengono in tai pericoli. Soglion medelimamente in qualche
pericolo elTcr conridenti gli huomini, quando conofeon no haucr dato coli
fatti pericoli terrore a perfone fimili, o vguali a loro, o a manco
potenti, eli cili non lono, o a tali, di cui eliì più potenti, Se maggiori
fi {ramino. Et alhora filmiamo d clTer più potenti d'alcuni altri, quando
o quelli Iteflì, o altri maggiori, Se più potenti di loro, o almcn fimili,
Se vguali ad elTì,* vinti, f pcrati riabbiamo. Diuengono ancor cófidenti
gli huomini quado ilimano, Se fi perfuadon di polTcderein maggior numero,
Se in maggior perfezione quelle cole, nelle quali color, ch'ecccdono
foglion dare di fe timore. Se cofi fitte cole (ono copia di ricchezze,
gagliardia della pcrfona,larghezza di dominio, Se di poffcffionij / 'Della
r B^torica d % Aristotele fclììoni, abbondamia d amici, copia d in
ftromenti, &mtinition da guerra, o d ogni torce, o almcn delie
maggiori, et delle più importanti. Co nhden eia ancor fi fuol trouarein coloro,
i quali no han mai orfeio, o ingiuriato alcuno, o almcn non molti, ÓV
fpctialmcntc nelfun di quelli, chetali fieno, che debbiano elfere a j8
ragion temuti. Et topra tutto grandemente diuengon le perfone confidenti,
quando par loro, che quelle co fé, dalle quali fi pof fa conietturar la
mente, c'1 voler di Dio, fi inoltrino in lor fauore, come frà più altre
cole fon gl'indi ti) degli aulpicij, le rifpofte de gli oracoli et limili
: conciofiacofa che l'ira fia pe r Tua natura atta a recar confidenza.
Ondefolendo, non dal fare ingiuria, ma dal riceuerlanafcere, et generarli
l ira : et douendofi ftimar,che Dio habbia da elfere in aiuto de gli
ingiuriati, viene a poter conictturarfidai fegni del fauor diuino, d'hauer
riceuuto ingiuria» éo onde l ira nafee, che rende I h uom confidente. Suol
parimente diuenir confidente l'huomo, quando egli elfcndo quel, che primo
aliale, viene a preuenir nel pericolo. perochc andandoui in vn certo modo
già preparato, Òc non improuifto,ii da a credere,chc la cola habbia da
nule ire a modo Tuo, o che le pur non riefee, no habbia egli ne nel fatto
ne doppo'l fatto da lenti rne lelione,o dan il no. Et tanto baiti hauer
detto delle cofe, che fono habih a dar timorc>& di quelle
parimente, che confidenza recar nepofTono. Della Verecondia, £f del• l
Jnuerecondia. rSJpSTSa Vali fieno hor quelle cofe, intorno alle quali foglion
diuenir verecondi, o Inucrecondi gli rinomini, o vero sfacciati, 6c al
conlpetto di quai pedone foglia quello auucnire, et qualmente difpolti
lìen quelli, che facilmente fon tocchi da quelli affetti, a da quello,
c hora diremo, potrà renderfi manifcfto. Poniamo adunque che la verecondia
fia vna certa mitezza, et perturbatoti dcll animo per cagion di quella
forte di mali, che dishonore, et infamia riguardano, o prclcnti, o paffati, o
futuri, che li dimoI ftrino. et 1 Inucrecondia per il conttario viene ad elfere
vn certo difprezzamento, óc vn non curarfi,& quali vn non fentir cofi
fai ti maH, che ( come ho detto ) ignominia importano. ElTendo dunque
la verecondia tale nella Tua divininone, quale cfplicata 1 riabbiamo ; per
quella forte di mali verrà neceflanamentc a cau farli in noi vcreco ndia,
li quali ci pofla parer, che redondino in bruttezza, et macchia di biafmo,
o di noi (tedi, o di perfone,che ci lì.mo a cuore, Se ch'alia noltra cura
appartengano. Et coli farti mah fon tutte quelle opere, et quelle actioni, che
dal vitio de / riuano : come farebbe (per ciicmpio ) nella maggior
caldezza di vn fatto d'arme, ilgittarea terrai armi, o il fuggire,
&abbandonar la pugna, il che dal vitio della timidità derma: o il negar
di rendere, o ver d'hauer riceuuto vn depofito, il che dal vitio
dcll'ingiufhtia nafee : o il mefcolarlì in commertio venereo con per fone,
che non conuengano, o ver in luogo, o in tempo, che non 8 ila lecito ; il
che dcriua dal vitio dcH intcmpcrantia : o il cercare ingordamenrc di
guadagnar d'ogni minutezza, over da cole no lccitc,cV poco honefte,o da
cofe finalraente,onde fi a quali impof libile il cauar nulla, come fon le
perfone molto poucre,& gli lielf li morti. come fi (noi dire in piouerbio,
fin da i morti voler riportar guadagno, il che rutto nafee dal brutto vitio del
fordido i o guadagno, et dell'anal i eia. Medelimamcnte e cofa da poter
generarein noi verecódiail non fouuenir di danari ne i bifogni,hau e ndo il
potere, et la commodità di farlo: o fouuenir molto ma zi co di quel, che
il polla, et che faccia di mcllicri. Et parimente l'eflèr noi fouucnuti da
chi habbia manco il modo,chc no n habix biam noi. Et il cercar di tor danari in
preftanza, cV con vfura ancora, quando ftimiam ch'alcun ne voglia
domandare a noi. E il domandar di nuouo in pretto da colui,che noi
penlìam,che voglia domandai ci, che gli relhtuiamo quel che ci habbia già
pre (iato prima. Et il domandar ch'egli ci redituifea quello, che
gli habbiam prelbro innanzi, preuedendo noi, che ci voglia in prefto
domandar di nuouo. Et il metterci oltraquefto a lodar qual che cola in vna
certa coral maniera, che polla apertamente parer, che il far quello Ha più
tolto vn domandar, che la ci fiaonerta in dono. Et il tornar di nuouo a
domandar da coloro, dai quali hauendo domandati dell'altre volte, habbiam
femprcrepulfahaumo. Tutte quelle cole, dico, fono atte a cagionarci roffor di
verecondia, per clfer tutte induij del vitio dellauaritia : 18 come ancor
cagionar ce la fuolc il lodar molto alla feoperta alcuno ij cimo in
prefentia fua : elfcndo il far quello vno indino del virio 19 dell'adii
Licione. Medefimamente il roiierchiamente lodare, et fino al Cielo innalzare in
alcuno quelle qualità, che punto,in pu to buone lì truouano in lui, et (cancellar
con le parole,& far co me incognite difparir quelle, che grandemente
degne fono in lui di bialmo : et il inoltrargli, fc punto lo vediamo
afflino, di fentir molto maggior dolor del mal Tuo, che non lente egli ftelfo,
3c altre cole in lumina lomiglianti a quelle, fon tutte habili a
cagio nar verecondia in noi, come quelle, che lono inditi), et fegnidel li
vitiodclladiilatione. Può parimente caufare in noi rolTor di verecondia il non
potere, o non voler loltcner quelle fatighc, che foltener vediamo a
perfone più vecchie, o educate, ck ailuefatte in maggior delitic di noi, o
vero a pcrfone,che fiano in maggior licentia, de habilità di comandare,
che noi non fiamo, o che fieno in lomma, men potenti,& men'atte a folìencr
fatighe,che nó fiam noi : percioche tutti quelli fon legni d'effeminata
molline. 1 1 Pare olirà quello, che ila caufa di verecondia 1 elìcr lempre
quel, che riceua benditi), et cortelie : et il ricorrer molte volte
a vn medelimo per aiuto, Se per benefitio : et il rinfacciare, et rimprouerare
i fauori, i benetitij,& gli aiuti fatti ; pofeiache tutte quelle cole fono
inditi), et legni di pulillanimita, ded animo 23 abbietto,& vile. Reca
medelimamenre verecondia ri parlare in lode di fc medelimo,& il
predicarci promerrcr di fc gran cole, cV l'artnbuirea fe ftelfo, et quali
vfurparli iclodcuoli opere degli altri : elfendo rutti quelli non altro,
ch'inditi) di quella Ione 14 di vino, che vantamenro li domanda. Et cofi
decorrendo nella mcdelima guifa per ciafeheduno de gli altri vitij, limili
a 1 lor vi. ti) debbiam dite elTef l'opre, de glinditij loro, et per
confeguente pieni di bruttezza, et atti a cagionar verecondia, Iti mar fi deotj
no. Oltra di quello ci luol recar verecondia il vederci mancare alcuna di
quelle cole, delle quali non han mancanza o gli altri tutti, o almen
tutti, o la maggior parte di quelli, che lon ùmili a 16 noi, overovguali,
et pari noltri. Et per limili, o vguali unendo io coloro, che fono od'vna
ItclTa nationc,od vna lidia citrà>o dk vna Itella età, o d'vno lìclfo
fangue, o vogliam dir d vna parentela, èV fameglia llclTa, o in qualcun fomma,
fi voglia conditione,; X7 &r piopinqmtà fon limili, o vero vgn ali. et
quello, chchodcc~ io, auuien per parer cofa indegna, Se che porci
imperferuone,& macchia il non vederli partecipe di quello, in che
tutti gli altri noftri vguali hano partc.come laria(per cflèmpio)s'alcu li
vedefle priuodi tanta alracn parte d cruditionc,& difciplina>quanta
comunemente fogliono imparare, Se apprender ruttigli altri della 18 città
Tua. et il medefimo li dee dire dell'altre cofe. Et alhor tue co quello
fuol maggiormente dar caufadi vergognarli, quando quella mancanza delle
dette cole, che ogià già fi fia villa, o al prefence fi vegga, o lìa per
vederli in noi ; nafea per no lira colpa, di maniera che noi la propria
cagion ne damo. Apprettò di que fto il forieri re, &: patire, o
l'hauer fonerto,Sc patito, o il vedere di hauerc a forferirc, et patire
cofe, che portin feco infamia, et brutta dishonoranza, Se vitupcrofo obbrobrio,
fon veramétecaufadi no piccola verecondia, Se coli fatte cofe fon
principalmcnre quel le, nelle quali lì (ottoponela propria perfonaa brutto
vfo,& a foz zo leruitio,o ad opre Se attioni in fomma,chc cótumcIia,eV
brut 3 o tamacchia d'ignominia imporrano. Et di coli fatte cofe,
quelle ch'importano ofeena, Se lalciua intemperantia,o
volontariamen te, o inuolontatiamente,che fe li fonerifcano,& fi
riccuano,bruc tezza, Se verecondia recano. doue che l'altre orfefe, che
folo da violentia, Se da forza nalcono, alhor folamente dishonorano,
Se ignominia portano, qnando fuor del proprio volere, violentemente fi
riceuono, et lì fofferilcono: pcrochc da vile ignauia, Se timidità par,
che nafcail parire,& fopportar tali ingiurie, et non 3 1 cercare di
fcancellarle con la vendetta. Quelle dunque c'habbiamoairegnatc, Se tutte 1
altre coli fatte, fon quelle cofe, per lequa 31 li fogliondiuenir verecódi
gli huomini. Hor perche la verecondia importa in fua natura immaginationc, Se
fofpition di mala opinion, che fia hauutadi noi> Se ciò folamente per
cagione, Se tema di tale opinione, Se non per qual fi voglia altra caufa,
che 3 3 da quella accidentalmente feguir ne polla ; Se nell'uno è, che
dell'altrui opinione tenga conto, fenon in quanto ticn conto di coloro,
nell'animo de i quali,quclla opinion fi truoui, ne fegue ne ccflariaméte
da tutto quello che folo appretto di quelle perfone, lcquali Himiamo J et teniamo
in conto, lentiremo toccarci da ve34 recondia. Et ltima,& conto fogliam
tener primieramente di co lor»da i quali llimiamo d eilerc hauuti in
ammiratione,& di quel li parimente, che noi ammiriamo, o che
defideriamo, ch'ammirino,& Himin noi; Se di quelli altri non manco ancora,
co i quali S in emulation d'honore contendiamo, et di tutti coloro in somma,
l'opinione, et il giuditio de i quali non difprczziamo, nè re5 niamo in nulla.
Et quanto all'ammiratione, da coloro foglramo delìderar d'elTere ammirati,
Se color parimente fogliamo noi am mirare, i quali fon dotati d'alcun di
quei beni, che foglion render reputati, cV: rifpettati gli huomini, o veramente
qualche cola pofleggono, della quale bifognolì, Se grandemente
deli«ècroÌj, ci ritrouiamo, come fi vede( per cflcmpio) accadere a gli
amanti. 6 Quanto poi alla contentiofa cmulation d honore, tra color
communemente ha ella luogo, trà i quali fi truoua parità, et equalità. 7
Quelli poi finalmente, lacui opinion e, óc giuditio, che di noi fac ciano
non deprezziamo, ma teniamo in còro, fon principalméte coloro,che ellcndo da
noi giudicati prudcti,lì può lìimar, che veraci,& degni di fedc.lìeno
ne i lor giuditii, Se ne i lor pareri.& cofi fatti fono quelli,che già
lì truouano d'età fenile,& maturi di anni: «Se quelli parimétcche fon
bene educati, et di ragioneuolc 8 eruditionc ornati. Le cofe
mcdelìmamctc,che fon habili a dar ve recondia, Se le perlone parimente,
ver lo delle quali diueniam ve recondi, maggiormére ci meneranno a quello,
fe in pai ci e, o ver fu gli occhi, et in prcicntiafi troueranno. Onde è
nato il prop uerbio, che dice»che la verecondia ne gli occhi alloggia. Et
da quello nafee, che molto più diueniamo verecondi apprcllb di co 0
loro, che fempre ci hanno da llar prefenti: Se appretto di quelli, che
atten tamen te pongono alle cofe,che facciamo,o diciamo diligente auuertcntia,
Se cura : pofeiachecofi gli vni, come gli al1 tri di quelli, par che ci ilien
iu gli occhi. Ci genera parimente/ verecondia il ri ! petto, Se la
prelentia di coloro, che non fon roac chiati di quel ma! e (imo errore,
del qua] ci accafea di vergognarci in qualche no lira attionctcflèndo per qu
cito cofa man ì fella do ucre ad elfi parere in torno a tale anione, il
contrario» che pare a i noi. A pprello di coloro ancora ci accade di di
ucnir verecondi, i quali poco inclinati fono a feufare, Se a perdonar gii
errori di quei, che peccano. peroche fi fuoi dire, che l'huom
facilmente quel, ch'egli Hello fa non riprende, ncavirio attribuifee in
altri. Onde può per il contrario elfcr chiaro,ch'ei lìa agevolmente
per riprendere, Se ftimar vitio in altri, quel, che conofee di non
fare egli. Diueniamo oltra quello verecondi apprelfo di quelli,
che fon volótieri diuulgatori,& diirorainatori di tutto quel, che
fanno Jl Secondo lìhro. / $p 4f no. Concioflacofa che niente importi, et diffèrentia
aterina non fia tra'l non apparire ad alcun l crror noftro, Se il non
e/Icrgli re46 ferito. Et coli fatti diuulgatori, et diffamatori fogliono efTer
due forti di perfbne; cioè quclli,che hanno da noi riceuuto ingiuria>
et per quefto foglion Tempre ollcruar tutti li nomi errori per palefargli
; et quelli, che Con maligni, et malcdi ci per natura: co me quelli, che
(olendo per la lor malcdiccntia infamar quci,che non errano, 8e
attribuirlor quegli errori, che non fanno,* molto più fi dee credere,
chefaran quefto con tra di quelli, che verame47 te peccano. Medeiimamenre
apprcllo di color fogliamo eller ve recondi, i quali foglion, come per lor
profeffionc confumare il tempo in riprender, notare, Se mordere i difetti,
Se gli errori altrui: come fono i Poeti Comici, et quella forre d'htiomini,
che pare, che profeflìon facciano di muouerc, Se cattar motteggiando, et pungcndo,rifo
co i deferti d'altri : pofeiache cofi gli vni co megli nitri fi pollbn
connumerar tra i maledici, 8cdiuulgatori;, l 48 Oltra di qucfto rifpetta
di quelli,! quali cofa alcuna, che mai do mandato habbiam loroidincgato
non ci hanno mai, ci fuol vere condi rendere : potendofìper qucfto parere,
che cofi fatte perfo49 ne ci habbiano in conro,& in aramirarione. Etpcr la
medefima ragione diueniam verecondi con quelli, i quali per la prima volta
domandan con prieghi da noi qualche cofa. pcroche non efc fendo ftara fino
alhor punto macchiata la buona opinione,cV cofldcnza c'hanno in noi j andiam
con rifpetto per non macchiarla 50 in'quclla prima volta. Et tali s'han da
ftimare cflcr primamente quelli, che da principio cercan d'hauer l'amici tia
no/tra: peroche danno inquefta guifainditiodinon hauer conofeiutoin noi 51
fe non quelle qualità che migliori habbiamo. Ondea ragione e giudicata
buona la rifpofta, che fece Euripide a i Siracufani. 52 Et quelli
parrimentc fon tali, i quali cflendo antichi domeftici nofrri, non han per
anco mai conofeiuto in noi cofa, che come degna di biafmo habbia diminuito
in lor la ftima,che di noi fanJ3 no. Sogliono ancora gli huomini, non folo
hauer verecondia delle cole già dette di fopra, ma ancor degl'inditij, Se
fegni di quelle : come a dir ( per elfempio) non fol delPvfo venereo
nello ftefTo fatto, ma di tutte quelle cofe ancora, che dar poflbno
inditio di cofi fatta inconrinentia, Se lafciuia noftra. ne
(blamente prendiam vergogna nel far quelle cose, che cagionar la
pollono, S ij ma ijLfiy "Della Teorica d'Arinotela SS
maancornon manco nel dirle. Similmente ancora non folo appreso delle già di
(opra aHegnatc Torti d'riuamini, ci iiiol verecóndia artàlire, ma ancora
apprelfo di chi polla facilmente riferire, òcdarraguaglio a quelli, come
fono i lenii loro, cV gli amici loro. Quanto poi a quelli, la prefenria,
e'irifperto deiquali non ci cagiona verecondia, cofi fatti totalmente lon
quelli, il parere, e'1 giuditio dei quali (limiamo cfler communemente
difprezzato, ne eflcre habilcadarpunto di momento alla perfualion del vero
: peroche nell'uno è, che perla prefen ria d'animali irrationali,o di piccioli
fanciulli fenta accenderli il volto di vereco ndia. Oltradiqucftonon per
vna medcfima ragione, né intorno alle raedclìmc cofe rende verecondi la
prefentia di quelli, che fon familiarmente conofeiuti da noi,& di quelli,
che ci fono ftranierr, et dalla noftra familiarità remoti, conciofiacofa che
appre/Io di quelli, che domeftici,& noti ci fono, fentiam verecondia
di quel le cofe, ch'il vero fteflb fcuopran delle noftrc attioni.douc che
ap predo di quei, che lontani, et flranieri ci fono, ci fa
verecondi quello, che la fteilà legge,& per confeguente folo l opinion,
che shabbia di noi, riguarda. Ma quelli, ch ailaliti fogliono
cifer da verecondia, fatti, &c difpofti fogliono erter nella maniera,
che noi diremo. Et primieramente tali fogli on diucnir le
perfone auando fi truouano appretto haucrc alcuni di quelli, il
lifpctto 60 de iqualihabbiam già detto folcr caufar verecondia. Et
quefti fono ( comeveduto habbiamo) tutti quelli, i quali, o fon da
noi ammirati, oammiran noi, o dcfideriamo,checi riabbiano in
co to,& in ammiratione ; et quelli parimente del cui aiuto
bifogno riabbiamo in cofa,chc noi no fperafllmo di confeguire, feperdef€1
fimo appreflb d'elfi di ftima, et di opinione. Il nfpctro eli quelli adunque
fuol render verecondo l'huomo : et ciò fpetial mente in due cafi. L vno è fe
quefti tali con gli occhi loro itcflì,prclenti la cofa (certa veggono, fi come
ben difleCidia in quella oraoone ch'ei fece fopra ladiftribution, che fi
trattaua di fare in Athcne,de 1 campi,& delle poflcflloni dei Samij. peroche
pre gauagh Athcniefi,che volcfler nell'animo immaginarli, eh e
tutti 1 popoli della Grecia fuflèrquiui prefenti in corona, loro intorno :
di maniera che non folo hauefler per relation d'altri a faper quello,
chequiui con fuffragij, cV decretili determinane; ma 9) eglino ftcflìlo vedetìcr
co ilorproprij occhi. L'altra cofa è fe quefti fi Jl Secondo
libro. quelli tali, quando pur non fian per veder prefenti cflì ftcffi,
fon nondimeno cofi propinqui, che facilmente, et commodamentc polla
elfernc fatta lor relatione, et venirne notitia ali orecchie Io f 4 ro. Et
da quello che fi e detto nafce, che quelli, che fi truouan caduti in
milcro, et calamitofo (lato, non vorrebbero in modo alcuno edere in tale
(lato veduti da coloro, ch'in altro tempo già cmulatione hauuta verfo di
loro haucllero : emendo proprio 6f dell'emulare lhauereinammiratione, el
tenere in conto. Oltra di quclìo ad cller verecondi faremo difpofti ancora,
quando conolceremohaucr cola, ch'argomentar polla qualche anione, o fatto,
che fia habilc a caufar verecondia, o commcllb che Ila da noi fteflìjO da
i nollri progenitori, o da altri, che ci fiano in qual fi voglia
propinquità congiunti, odaperfonain fomma,lacui infamia polla in noi
ridondare, et farci partecipi di verecondia. 66 Et tali fono, oltra
quelli, che pur hora habbiam detti, quelli altri ancora, i quali nelle loro
attioni, paia che da noi dependano, et origin prendano, per efler noi o
precettori,© ver configlicri lo 6j ro. Sogliono elTerc ancor verecondi
quelli, che hanno altri lor limili, overo vguali, coi quali tengono
honeftecontefe, cVemulation d'honore. concioliacofa che molte cofe per fola
caufa de gli emuli, Ila tirato dalla verecondia a fare, o non fare l'huomo.
Suole ancor crefeer la verecondia in quelli, i quali veggon d'avere ad elfer
fempre fu gli occhi, et a ri crollarli fpelTo prefenti in 69 nanzi a
coloro, a cui già fian noti, et palcfi i falli loro. La onde Antifonte il
poeta,cflendo per comandamento di Dionifio mena to all' vltimo fupplitio ;
6c vcdcndo,che gli altri fuoi compagni, chedoueuan parimente, morir con
lui; nell'vfcir della porta del carcere, s'haueuan, quali che fi
vcrgognallcro, co l lembo della verte coperto il capo, dille, A che
cercate, o compagni,d'afcon dere, òc coprirei! volto ? fc domane nellun di
quelli, che fon 70 qui prefenti, vi potran vedere. Della verecondia
adunque fia a ba llanza quanto fin qui fi è detto, dell
Inucrecondia poi, o sfacciataggine, o impudentia, che la vogliam
chiamare; è cola mani fella, che dalle cofe, alle già
dette contrarie, fi potrà commodamentc notitia haucrc.. Capo 14.2
fDeSa Teorica d' (apo 7. 'Della gratta. Erso diquai perfonc, Se inquai
cofe foglionoeffcreratificatiuigli huomini, Se qualmente difpofti (ogliono
eiTer tali; potrà facilmente farli manifefto, ciiffinita prima, che fi farà la
Giada. Poniamo dunque la Gratia eflerquclla, per laqual fogliarti dire,
ch'alcuno, ch'habbia facultà di farla, faccia gratia a perfona, che ne fia
bifognoia : et ciò non per render ricompenfa di qualche cofa riccuuta
prima; ne perche ad elfo, che la fi ila per venirne giouamcnto,o rilieuo
alcuno ; ma folo perche chi la \ riceue l'habbia. Grande poi fi dirà la
gratia,quando,o colui che la riceue ne farà grandemente bifognofo ; o la
confiderà in cofe di grande imporrantia, Se difficili molto, o farà fatta
nelle tali, Se tali opportune occalìoni, Se tempi, o colui che la fa, farà
dato o folo, o il ptimo a farla, ofe al tri faranno frati ancorargli ha4 rà nel
farla maggior diligen ria, et fariga de gli altri vfato. Et per bifogni
debbiamo intender noi principalmente i defiderij, che fon quelli, che
mifurano li bifogni : et maiTìmamente quei defìdcrij, coi quali ftà congiunto
dolore, et molellia in non confcj guir|c cofe, die fi defiderano. Et così fatti
fon quelli ch'inchiu dono in fe qualche vehemente cupidità : comeauuien nell
ardéte amor de gl'innamorati; Se nelle intenfe nftlitrioni, et dolor corporei,
Se ne i graui pericoli, che ne fopraitino : pofeiache in coloro, che fon
polii in pericolo, cupidità fi rnioua ; lì come parjmentein quelli, che fon da
corporeo dolore afflitti. La onde a color, che da poucrtà oppreiTì fono, o
in mifero*filio fcacciati ^ ritruouano, ogni quantunque minimo
fooaenimento, che ri«jcuono, tari la grandezza del lor bifogno, Se la grande
opporrànità dell'occafion parere, che noa piccola gratia fi fia fotta loro, 7
fi comeauucnne a quel, chediede con vnacefta aiuro a colui, 8 ch'era in LICEO
LIZIO. Fidi meftieri adunque che i benefi tij, et le grane, che fi fanno, a
voler chegrandi appaiano, ficn principalmctefattc con tali, quali habbiara
dette, occafioni, Se circonftantic : et fele medcfimeapunto non occorrono,
fieno almen simili, o ancor maggiori. Per laqual cofà cffendolì già per quel,
che fi e detto fatto chiaro, quando, Se a chi fi debba intender la grada
fàrfi, Jl Secondo libro. %fi, S: qualmente fien difpofti colof, che le
Tanno, porrà da quello farli manifefto, che volendo noi moftrar che lì ila
fatta grada, fa di mcftieri,che con quelle auu erteti e, et luoghi,c'habSiamo
allignaci, fi faccia veder, che coloro, che la riceuono, o l'hanno
riceutita, fi truouino, o fi trouaifero in quella forte di bifogno, o in
quella forte d'afHitdonc, et di dolore, che detto habbi amo, Se coloro,
che l'hanno fatta, habbian fouucnuto in quella opportunità, iSc n cecili
tà, &: di quella forte di fouuenimé co, c'habbiam inoltrato,
cVdifegnato di fopra. Etparimétepuò eirer da quel, che fi e detto
manifefto, come 11polla ofeurare, Se far quafi difparir quella grada, che
11 fulle fatta ad alcuno, Se far si, ch'il fatto non parclle grada ;
nc.gradficatiui, ogratìofi coloro, chel'haueller fatto, percioche dir potremo o
ch'eglino Io fouuengano, o Thabbian fouuenuto per cagion (blamente di
le 1 1 llclfi, il che già fi c veduto, che non conuienc alla gratia,o
che quello, c'han tatto, fia venuto lor fatto acafo, o che concia
lor voglia fiano (iati quali forzati alarlo, o che
finalrncntejhauendo eglino altra volta riccuuto benefido,fia (lato quefto
più tofto vn ricompenfarlo, Se pagarlo, ch'vn far veramentegratia, o noto,
o non noto,che fufle loro, l'efier debitori di ricompenfa.
peroche nell'vno, et nell'altro modo llvien veramente a
ricompenfare vnacofa per l'altra, Se per confeguentc non può, ne ancora
in 1 r quello modo fti mar fi grada. Doucrcmo medefimamente voien do
ofeurar, Se annullar la grada, che ci habbia fatto alcuno, andar
difeorrendofotto a tutti quei fommi generi, Se capi vniucrfali delle cofe, che
predicamend fi domandano, cóciouacola che gratiala cofa dir fi debba,
quando lafia della tal foftan da, della tal quantità, della tal qualità,
nel tal tempo, Se nel tal luogo fatta j dellequali conditioni, Ce alcuna gliene
manca, viene a no ef6 fer grada. Et indino oltra ciò, ch'il tal fatto, Se il
tal fouuenimento ftimar non fi debba grada, fi dee (limar, che fia, fc
coloro, c'han fatto quefto a noi»clTendo loro occorfo altra volta
di fouucnirci in vn fimil bifogno con fouuenimento aflai minor di 7
quefto, non l'hanno voluto fare. Se Ce a i nemici loro ftctTi hano dato
altra volta vn medefimo, o vero vgual fouuenimento, o ancor maggiore, perciòche
elTcndo quefto, chiara cofa c, che non 8 l'han per cagione, Se rifpctto
noftro dato quella volta a noi. Se Ce finalmente il fouuenimento, che
cihan dato>é fiato di cofa vile, et di nulla ftima, tk di niun rilicuo,
et per tale erti pariméIf te lo ftimauano,& lo conofccuano. Et tanto baftt
haucr detto della eratia, così per far parer, che la fia fatta,comc che la
non fia 2 o fatta. Quai fieno hot quelle cocche generiti compattone, et verfo
di quai perfone generar fi foglia ; et come dilpoftì, et Qualificati fian
quelli, eh a compafllon h muouano, fegue al prelente, che noi diciamo. (apo S.
T>ella compapont^. iIciamo adunque, chela compafllon fia vn
pungitiuo dolore, che fentiamo di qualche apparente gran ma e, ch'o
dcftruttion della vita,o grande affli mone,*: calamità fia per recare in
perfonadi talcofa indegna, a cui fia eia tal male, o prefente, o appaia
già già vicino ; et fia da noi ftimatotalcchc poiraanoi parimente
accafcare,o almeno a pera fona, che ci appartenga, peroche gli è manifcfto
erter neceflario, che colui,chc s'ha da muouere a copafllone fia tale, eh
egli b itimi, et fi conofea atto,& fottopofto a poter patire, o egli
itello, o altra perfona delle fuc, che gli fono a cuore, vn cosi fatto
male, quale habbiamo nella detta diffinitionc efpofto,o almen
fimile,o 3 propinquo ad elfo. Et per quella ragione nó fogliono efler
tocchi da cópafllonc,nc quelli,chc in eftrema mifcria iono,corae che
pa 4 ialoro,ch'altro mal nórcfti lorda patire; nè quelli parimente
1 quali fi reputan di ritrouarfi in ccceflluo grado di felicità, tk
per qucfto più tofto contnmcliofi, che cornpaflloneuoli lono : etfendo
manifcfto, che parendo loro di pofleder tutto quello, che fi puòtrouar di
bene, parimente par loro, che male alcuno venir non porta loro addotto :
pofciac he ancor quefta fecurezzafi 5 dee connumcrar trai beni.
Horquelli,chc ftimar fogliono d effer tali, che patire, et incorrer portano
gl'infortuni), et i mah, che in altri veggono ; fon primieramente quelli,
i quali han per innanzi altra volta foffeni, tk prouati i mali, tk ne lon
poi fcara4 pati, tk rimafti liberi, de quelli parimente, che fon già perucnuti
all'età fenile ; fi perla prudentia, ch e conucrKuole a quella età i tk fi
ancor per lifpcrientia, che porta la vecchiezza fcco. I deboli ancora di
forze, et d'animo, fon medefimamente tali : &c et molto più fc fon per
natura timidi,& vili, nè maco ancor quelli, * che di dottrina, et
dcrudirion fon ripieni ; come quelli, che le 5 cofe con ragion difeorrono.
Della medefima difpoiìtion di Armar di poter ne i mali incorrere, fon coloro
ancora, i quali hanno o genitori, o figliuoli, o mogli : conciofiacofa che
quelle forti di pedone, iìan come cofe loro, Se membri loro, Se atte, Se
(ottopode tutte per le ragion già dette, a incorrer ne i già detti mali.
Soglion medcfimamente (limar d efferc habili a patire, Se riceuer mal coloro, i
quali non fi truouano in affetto d animo, che riguardi la virtù della
fortezza,comc fon l'affetto dell'ira, Se delt la confidenza : pofeiache
così fatte paflìoni non lafcian difeorrerc, Se confiderai, che cofa habbia da
fuccedere, Se da venire. 1 1 et color parimente, ne i quali non fi truoua
natura, o difpofitione, che gli faccia contumcliofi : folendocosi fatte perfonc
contumcliolenon penfar, ne cò ragion difeorrcred'hauer mai a fofii ferire, o a
patir male alcuno : ma color perii contrario lo fanno clic nel mezo tra
cofloro fi truouano, come remoti dalla difpoiiij tiondcgli vni, Se degli altri.
Oltra di queflo poco foglion fentir compafllon coloro, che per qualche lor gran
pericolo fi rruouan da ri more op predi, come quelli, che modi dallo
fpauento del mal proprio, mal poifono efler commoflì dal mal'altrui, dando
occupati con tutto l'animo nel male, che fon per patire elfi. Ma ben fogliano
ad haucr compaflìonc efferc inclinati quelli, che non han per opinione, che
neffun fi truoui,che fia giufto, Se da bene; ma ftiman pur, che ne fieno
alcuni : perciòchc colui, che nclfun ne flimafle tale, llimarcbbe per
confcguctc elfcr tutti ij degni d'haucre il male. Et perbreuemenredire,
alhoi finalmctc fuoldar luogo 1 huomo alla compaflìonc, quando tal
lìritruoua, che ricordar fi poira,che tali accidenti di mali, che in altri
vede, fieno in altri tempi accaduti,o a lui (ledo, o ad alcun de i fuoi 1
6 o veramente teme, ch'accader poflan nellauucnire. Habbiamo dichiarato
adunque qualmente dilpofti fien quelli, che fono atti 17 a muouerfi a
compaflìonc. Quali fien poi quelle cofe, per cagion delle quali foglia nafeerc
in noi quello affetto, può facilmctc apparir manifefto dalla diffinition, che
fi e data della compaffione. conciofiacofa che trà le cofe afHittiue, Se
dolorofc, tutte quelle, fi deono fumar mifcrabili, Se arte a generar
pietà,le quali fono habili a recar corrottione ; Se quelle parimente che
fon 1$ dcflruggi triti della vita (leda: et tutti quei mali ancora,
de T i quali j^. 6 T>ella lìgtprica d* Ariti otclt-j jquali
la fortuna è cagione ; quando molto in gradezza, Se graio uczza fi vedrano
eccedere. 1 mali, che dir fi poìlbn doloroii, Se corrotriui,
oucrdcftruggitiui fon, le morti, le battiture, le afHittioni del corpo,
l'aggrauata vecchiezza, le infirmiti, la mancanza del ncceflario vitto. I mali
poi, di cui la fortuna e cagione, 12 fono la total mancanza d amici, et il
rimaner con pochi : onde auuien, che il fc parar lì, Se quali per
dipartenza luellcrfi dagli amici, Se da gli altri cogitimi cari,ha molto
del miferabile Se del t j degno di cópaflìone. fono ancor tai mali,la
móltruofa bruttezza, la debilitatone delle corporee forzc,lo
ftroppiamento, ouer tró14 camentodi qualche membro. E v cola ancor degna di
compaffionc il veder, che donde fi fperaua, &: s'afpettaua, che
douelle venir qualche bene, quindi perii contrario fia qualche
danno,o %j qualche calamità venuta. Fa nafeer ne gli animi altrui
compaffione ancora l'ellcre fpelTc volte da quello ftellb male allalito,
Se z6 ilfrequenteincorrcrein cafiauuetlì. E' cola parimele compaffioncuole
il veder, che qualche aiuto, o fcampo > oucr qualche cofa di bene venga
a punto alhora, quando non ci fia più remedio, cllcndofi già partito, Se
riccuuto il male, ne più a tempo lì rrnouaquei benea fàrgiouamento
alcunocome (per ellerapio) accadde a Diopitho ; ilquale, eilendogli
mandato dal I no Re a* iuto, Se fouuenimento, fù trouaro, che già poco
prima era morto. Parimente a pietà d'alcuno fuol muoucre il non haucre cgli
quali conofeiuto mai profperità, ne hauutobcncj Se fe pur cofa di buono
qualche volta gli fia venuta innanzi, non hauer t$ potuto goderla mai.
Quelle dunque, et al rre così fatte cofe fon quelle, che ageuol méte
pofionorhuomo muoucre a compaflìone. Vcrfo quelli li fuolc egli muouer poi,
chegli fon d'amore, Se di famigliarità, o cófanguinità cógiunti, fegià
molto nó fia la concimi non propinqua : pcròche in tal calo viene egli
adeller vedo di loro intere ila to, òv il il pollo, come verfodi fe
medefimo. Et per quella cagione A mafe vedendo vn fuo figlio elfèr
menato alla money nomando (per quel, che s'intede) lagrima alcuna
da gli occhi fuora t Se venédogli innanzi vnoamico fuo, per pouertà a
mendicar condotto ; non potè ritener le lagrime, il che d'altronde non nacque,
fenon perche il calo dell amico gli cracópaf fioneuole, Se il calò del
figlio gli era più tolto atroce, grane, Se 3 r acerbo, che miferabile :
cllcndo l'atrocitàcofa diuerfa dalla miicrabiltà> Jl Secondo librò. 14.7 fcrabiltà,
Se atta a fcacciarc, 6V a fuperar la itefTà compaflìone,& vtile
fpeirc volte aindurrc il contrario di quella. E' ben vero che coloro, che
così fatti mali atroci, Se terribili non hanno ancor prefenti, ma in pericolo
fon d hauergli, diucngon perque ftoattiadarcompalIìondi loro. Soglion
medelìmaméce muouer cerei, ne ilor mali a compadionefpctialmente quelli,
che fimili, Se pari ci fono, o d'età, o di coftumi, o d habiti d'animo, o
di 3 c grado di degniti, o di nobiltà, o fi in i 1 i : conciofiacofa che
per tutte quelle parità, Se cqualità maggiormente ci venga a parer d
edere efpofti ancor noi a i medclimi mali, Se ch'a noi ancora }6 polTan
parimente accalcare, peroche come vna verità vniuerfale lì dee tener per certo,
che tutte quelle cofe, che nel dubitar, che lìan per cadere in noi,
cagionano in noi timore, vedendole J7 noi accalcare in altri, fono atte
amuouerci a cópaflìone. Et perche le aftlittioni, e i mali alhor muouer
fogliono a pietà, quando già propinqui fono; di maniera che quelli, che
fono (lati molti anni prima, o fon per tardare ad eder molti anni poi ;
dato ben, che lì lufpichi, che vcnii debbbiano, o che memoria
s'habbia, che lìcn venuti, nondimeno o totalmente non ci muouono a
cópaflìonc, o non in quella maniera, che farebbero, fé prefenti fo(fero;
nefegue da tutto quello necellariamen te, che Impigliando aiuto dall attione,
Se dalla pronuntia, rapprefenreremo, Se efprclfion faremo d alcuno, co i
getti, con la voce, co i veltimenti> Se con altre in fomma rapprelentatiue
attioni, più milcrabili, et degni di maggior pietà gli renderemo, peroche
veniamo in quella guilaa far più vicina, Se propinqua apparir la
cofa,ponendoaltrui il mal quali dinanzi a gli occhi, come che o poco doppo
debba accafeare, o poco prima accaduto fia. Per la medclima ragione ancora, i
mali, Se gl'infortunij,ch o di frefeo poco innanzi fono auuenuti,o molto in
breue fono per accafeare, più mifcrabili appaiono, et maggior pietà
muouono. Grancópaflìone ancora aggiungon gl'inditij, e i fatti, Se 1 opere, che
rimangono : com a dir (per euempio) gli (ledi vellimenti di coloro, ch'hanno i
mali, et le calamità forterto, Se altri cosi fatti inditij, legni, Se memorie d
edì ; Se le parole delle da loro, mentre che patinano il male,vfate : come
a dir mentre, ch'erano in ellremo per finir la vita loro. Se madìmamentc ancora
vien'aaccrefeer la compadrone l'haucrc ed) nel tempo, che nell'acerbità
del T ìj mal fi / 4et ^Della c R^tprica d*~> mal Ci
trouauano, dimoftrato animo forte, et cortame nel fop44 portarla, pcrcioche
quelle cofe, che mentre che vengono a far parer più propinquo, Se a
moitrar quafi prcfcntetl male, vcngon per conleguente a renderlo più
compalfioneuolc : ó> inlicmcmente a fuparer più indegni di quello, color,
che fofferto l'habbiano : et lì viene infieme a inoltrar quali dinanzi a gli
occhi. (apo 9. \Deli 1 Jndegnationz^. Ll'hàver compaflione soppone
principalmcnte come contrario quell'effetto, che domandano Inde^nationc :
conciofiacola chea! dolerli, Se al fcntirdifpiacer delle cole infelici,
che indegnametc in alcun (i veggono, ltia oppoito in vn certo modo, Se da vna
medelima qualità dt collii me nafea, 1 hauer difpiacerc, Se dolor dell'altrui
profpcrità, le indegnamente, accadano. Et fono ambidue quelli affetti congiunti
colcolìumc ho} nelìo, Se con difpofition lodeuolc : elfendo cofa all'hiiom
conueneuolcil conciolerfi, Se fentir difpiacere del mal di quelli,
che indegni ne fono, Se contrai meriti lorlopatono : et l'elfcr punto da
indegnation della profpcrità di coloro, eh indegni nefo4 no: peroche alla
giuftitia s'oppone ciò che indegnamente, Se f fuor de i fuoi meriti
accafcaali'huomo. Et per quello a gli fteffi Dij ancora fogliam noi
attribuir l'elfcr tocchi da indegnationc. f Ma può forfè parer, che l'Inuidia
ancora s'opponga nel medefimo modo alla compaflione, come che molto propinqua
fia, Se 7 quali vna cofa ftefla con l indegnatione. Ma molto c ella
da quella diuerfa: pcrcioche fe ben l'inuidia è ancora ella vn dolore, che
conturba, Se affligge l'anima per 1 altrui cofe profpere ; tuttavia non è ella
tale, ne fà ella quello, per clfer colui che le profpcrità polfiede, di
quelle indegno, ma per elfer'cgli t pari, fimilc, o vero vgualc. Bene è
vero che il rattriftarli del bene altrui, non a fin, che da quel bene, non
n'habbiaa venirqualchedannoa noi, ma percaufa, et rcfpctto fol di colui, c ha
quel bene, s'hà da Ihmar conditione, Se proprietà commune a tutti }
due qucfti affetti, cioè* all'inuidia,& alrindegnatronc : cócioliacola che
fe ad altro fine non tendelfc così fatto dolore, Se difpiaccre,fc non perche a
colui, che s'attuila del ben d'alcuno fuffcper Jl Secondo libro. I fe
per venir facilmente qualche nocumento, o miferia per i felici auuenimenti
di quello, non farebbe quello alhora affetto d indegnationc, nè ancor d'inni
dia ; ma farebbe paflìon di timore. 10 Appreflb di quefto, manifcfta cofa
è, ch'aquefti due affetti fcguono, Se vengon dietro paffioni,& affetti
contrari) frà di loro. pcrcioche colui, ch e prclo da indignationc, fe fi
rattrifta dei profperi fucccfTì di color ch'indegnamente gli poflcggono ;
fi rallegrerà parimente, o almcn non (enrirà dolore, odifpiacer
degli infortuni;, Se calamità delle perfone contrarie a quelle,
cioèdi 1 1 quclle,che fon degne di cotai mali. come a dir (per
eflempio) che nell'uno huomo giufto, Se da bene fi rattriftarebbe in
veder menare all'vltimo fupplicio,& punire vn parricida, o vn
fanguinario aflTaiìino : elfendo verametecofa conueneuoleil fentir pia il
cere di cosi fatte punitioni : fi come ancora conuicn fentir diletto della
felicità di coloro, che ne fon degni, perochecofi queftc,comc quelle, fon cofe
ragioneuoli, &giuftc, Se che deono a i 3 vn'huom da bene allegrezza
portare : potédo egli necclfariamétc fperarejch'ad effo pari mete pollàn venir
quei beni, ch'ei vede nei buonifìmilialui. Nafcon dunque tutti quelli già
detri affetti da vna ftefTa forte di cofìumc,cioc da buon coflumc ; fi
come 1 6 gli afletti lor contrarij, da contrario coftume nafeono. pcrcioche
quella ftefTa perfona, che fi rallegra del mal de gli altri, non pct altra
cagionc,fe non perche gli hanno male, quella della hà ancora inuidia, cioè
fi rattrifta del ben de gli altri, non per altra cagionc,fc non per che
eli hanno bene : pofeiache colui, che fen te noia, et dolore dell'eli
ftcntia, Se prefentia d'alcuna cofa, verrà neceirariamcnte a fentir
diletto della priuatione,&:deftruttion di quella. La onde cofì fatte
paflìoni fon tutte impeditiue,& auucr urie della compaffione : Se fc
ben trà di loro differifeono, per le ragioni, che habbiam dette;
tuttauiafon tutte vgualmente vtili \$ a far, che le cofe non appaiano
miferabili, Se di pietà degne. Primieramente adunque diremo dell'haucre
indegnatione : moftra do verfo di quai perfone, Se per cagion di quai cofe
fi foglia haue re : Se come fatti, et difpofti fian coloro, che l'hanno.
et detto c'harem di quella, diremo di quegli altri afferri, che le vanno
appreso. Hor per quel che lì è detto, potrà facilmente quel, che fe 10 guc
farli raanifefto. percioche confiftendo l'indegnatione in dolerli Se fentir
raoleftia, ch'ad. alcuno accafcjiin cofe profperc> il qual non ne paia degno
; può primieramente per quello efìcr chiaro che non intorno a tutte le
forti de i beni, e poflìbil, che l'indcgnationc habbia luogo, non effondo
alcun, che d'indegnation s'accenda in veder, che alcun fia giu/ìo, o forte, o
altra virtù i 1 poiregga: pofciache i contrarij di quelle viriù,nó fono
atti a muo 1 3 nere affetto di cópaflìonc. ma intorno alle ricchezze ha
ella luogo, et intorno alla potcntia, et ad altri cofi fatti beni, de i
quali (per dir lìnccramcntc il vero) fon (blamente degne le perfonc
vir 14 tnofe, cVda bene. Et parimente fono attiamuoucre indegnation color,
che pofleggono beni di natura ; come a dir nobiltà, ì y bellezza, altri
beni cofi fatti. Et perche quelle cofe, che fono antiche danno apparcntia
d'effer propinque, &: fimili all'eller na turali, nefegue necellà ria
mente, che fra coloro, chepolTeggono vno llcflb, o vero vn fimil bene,
colui, che nuouamente l'habbia di frefeo acqui flato, et per tal caufa
felice fi (timi,* fia maggiormente per muouerc in altri ftoraaco, et indegnationc.
conciofiacofa che maggior dilpiacere, cV conturbamento d'animo dieno altrui
coloro, che di nuouo, et quafi di fubito fon diuenuti ricchi, che non fan
quelli, che antiche ricchezze pofleggono, et 17 da i lor maggiori per
fucccfllon venute. Et il fimil dir fi dee di quelli, che nei mngiftrati,
de nelle degnità fi truouano, o diuenuti potenti fono, o l amicitia, et la
gratia di molti tengono, o di molti, et ben qualificati figli dotati fono,
o altre cofi fatte prò 18 fperità pofleggono. Et il medefimo
parimenteadiuienc,fcad cffì per il mezo di quelli raccontati beni, qualche
altro bene accaip fchi di confeguirc. concioliacofache in q netti beni ancora
adiuienCj che maggiormente ci rattrillinoA' ci offendan l'animo co loro,
che per il mezo di ricchezze nuouamente acquiftate, fon faliti a qualche
magiflrato,o principato,che fea tai degnità venu *i foiTer con eflerc
anticamente ricchi. et quel, ch'io dico delle degnità, et dei principati,
parimente fi dee ne gli altri profpcri 30 fucceflì intendere. Et la cagion
di qucfto è, che gli vni, cioè gli antichi poflèflori pare in vn certo
modo, che pofleggano quello, che veramente fia loro. doue chcgli altri,
cioè Ji nuoui pofTcflb ri, par per il contrario, che non il loro, ma
l'altrui pofleggano : polciache le cofe, che mottran di flar fempre in vna
guifa mede* iima,&: in vno flato (letto, par,che vero, giudo, et naturale
habbianoreflerloro,& per cófeguentc in quegli altri la lor
nouitàfa parer, Jl Secondo libro. t y t 3 i parer: che non
potfeggan veramente il loro. Oltra di quefto perche qual fi voglia bene non può
attamente conuenire a qual li vo glia perfbnaind (tintamente ; ma vna
certa proportionc,& conuenientia fi dee trouar trà i potfeduti, &c
color che gli poligono: comcadir(perellempio) vnafecura, 3c ben temperata
arma dura no propriamente conuiene,^ s'adatta all'huomgiulto, ma ji
fi bene al Ih uo m forte j et vn nobilillìmo, ik eccellenti (lìmo partito di
futura moglie, nona perfoni di nuouo arricchita» conuic 15 ne, mi a
perfona molto nobdc, ite d'illultre l'angle nata. di qui è, che quando fi
vedc.ch'vna pcrlon.i,quamunque virruola polfegga, et riabbia qualche forte di
beni, a lei non propornon itamente conuenicnti ; genera per qucflo negli altrui
animi inde34 gnatione. Parimente la genera ancor colui, che ellendo ad
vno altro inferiore» 8c di minor valore, fi mette nondimeno a con r cu dere,
et a voler controuerlìacon elib, quanrunque fuperiorc, de miglior di lui:
et madlmamente auuerrà l'indegnatione, le l'inferiorità, et la fupcriorità loro
fàran fondate in vno dello (Indio, 3 j et in vna ftelìa cola. Onde non
fenza ragione e detto, egli s'afteneua, Se fchiuaua di venire in pugna a fronte
con Aiace figlio di Telamone; però che Gioucera prefo da indegnarione
contra di lui, ch'egli haueflè da venire in con tefa, 6c parragon di
duello $6 con huom più forte, et più valorofo di lui » Ma le l'inferiorità, 6c
la fupcriorità non faran fondate in vna ftellà cola, et in vno ftcllb
ftudio, in ogni modo, come Ci voglia che l inferior fi metta a contendere, et ad
hauer controuerfia con chi fia di maggior valor di lui, viene a procacciar
contra di fc l'indegnatione : come auuerrebbe (per elfempio) Ce vn, che valclle
in ma fica, fiponelfe a controuedare, Se contender con vpo, che poiredelìe a
pie no l habito della giullitia: non cucendo ak .in dubio, chela giuftitianon
ecceda di preggio, 8c di degnità la mufica : Già può ef. Ter dunque
manifcfto verfo di qual forte d'huomini fi foglia eccitare indegnatione,cV per
cagion ancor di quai cofe fi ecciti, eltèn Sc di manco valor di loro.
Et per dire in breuc, tutti coloro, che ftiman fc ftcflì degni di quei
beni, de i quali (limano altre perfone indegne, daran luogo contra di quelle,
Se per cagion di quei tai beni, alPindcgnationc. Et da qucfto nafee, clic
quelli che fon di coftuine, Se d'animo feruile, o perfone di viiiofa, Se
poco honclta vita, o tali, che l'honor tengano in poco conto, non
foglio no etfer punto indegnatiui : pofeiache neiìuna cofa di pregio
apprellbdi loro è tale, cheiTi fc ne ftimin degni. Et per quel, che fi e
detto dell'indcgnatione, potrà ancora apparir manifefto di quai perfone
conuenga rallegrarli, o al men non fentir dolore, chabbian la fortuna
auuerfa, Se infelicemente trattin le cofe loro, et cofa alcuna, che defiderino,
non confeguifeano : perochc dalle cofe dette, potran parimente diuenir
noti li contrari; loro. Perla qinlcofafc l'oration noftradifporrà, Se farà
diuenir tali i giudici, quali habbiam detto elfer quelli, che fon molli
daindegnarione : Se dall'altra parte moftraremo, che quelli, che
doman dano, che fia hauuta lor compaflìone ; Se quei mali elpongono onde
confeguir la debbiano, non fiano indegni di quei mali> Se per
confeguentc degni fian di non confeguir la compalfion, che cercano ;
impodìbil cofa farà che compallìone fia hauuta loro. (apo io. c Dell y Jnuìdìa.
Otra' elTere ancora ageuolmente manifefto intorno aquai cofe fi foglia
nell'huomo eccitar l'inuidia, Se verfo di quai perfone, Se qualmente difpofti
fien quelli, che facilmente dan luogo a quefto af fetto : ellèndofi già
veduto eiTèr l'inuidia vn certo contriftamento del profperarc, che
incucila forte di bcnj,c"habbiam Jl Secondo libro. / j j biam
raccontati di Copra, ci paia, che faccia alcun di coloro, die fono in
qualche parità limili, et vguali a noi, et ciò non perche ne venga qualche
vtile, o cOmmodo a noi, ma folo perche ci dit fptacc,chc gli habbian bene.
Quelli dunque a inuidia fi foglion muouerc, liquali hanno, o par lor
d'haucre perfone in qualche | parità fimili a loro, per fimili, et pan
intendo io di natione, di (angue, d'età, di profeflìone, di reputatione, o
ver'auroiirà, di 4 ricchezze, Se beni di fortuna. Medefimamente inuidiofi
logliono cflerquclli, a cui pare d'haucr confeguito poco meno «Fottìi |
forte di bene, tal che pochi ne manchin loro. Onde nafee che coloro, che
grandi imprefe trattano, et in clic fi nuouano h.iuer la fortunaamica,fon
molto dediti a inuidiarealtrui:come quelli, acuì par, che ciò, che tutti
gli altri han di bene, l'vfurpino, Se 0 tolganoad efli. Sono iuuidioli
parimente quelli, ch'in qualche cola fon fopra gli altri ecceflìuamctc
honorari, et (limati ; 8c maf /imamente fequefto loro accafea per ca ti fa
di gran fapientia, o di somma felicità, che fi credano elfer di lor
creduta. Gliambitiofi ancora, &auidi d'honore,più habili fono a
cócepire inuidia, che 5 quelli,che tal ambinone, Scauidità non hanno. Et
quelli parimcnte,che fono, o fi credon deflcre in opinion difaggi :
perochc vegono in queftaguifa ad efler cupidi d honore pcrc^to-di qucl?
lafapientia: et tutti color finalmente, i qualiintornoa qual fi voglia
cofa fon'auidi deflcr tenuti in grande opinione, fono ancora habili intorno
alla medefima a conciperc inuidia. Color medefimamentc, i quali
pufillanimi fono, de non punto alti di penfieri, 6c di fpirito, fogliono
efler facilmente inuidiofi : come 1 1 quelli, a cui tutte le cofe paion
grandi. Di quai forti di beni fien poi quelli, che foglion pungere altrui
d'inuidia, viene ad cflèrfi 1 1 parimente detto, percioche tutri quei
fatti, quelle opcrc,cV quel leattioni, intorno alle quali, auidi di
confeguirc gloria, et reputatione, Se nell'animo noftro ambitiofi, Se cupidi in
fomma di gloria,& di nome fiamo,& tutte ancorquelle profferirà, Se
quei beni, che da buona fortuna vengono, tutti (fi può dir) fon materie e
oggetti dell'inuidia. Et maflimamentcquelli,i quali noi fommamentc
defideriamo, o ver pretendiamo, Se (limiamo ch'a 1 4 noi ftia bene ; et apparrenga
di confeguirgli ; o veramente tali, che nella pofleflìon di quelli, odi
poco eccediamo, o di poco I j manchiamo, Se diminuti fiamo. Può
medefimamentc etfergià V manifcfto /JY T>ella r R^torica
d'Arinotele^ manifelìo verfo di quali perfonc fogliano elTere in u idioti
gli huorainiiciTendoii in quel, che fi e dctto,accennato
inlìememcn \6 te di queiìoancora. conciofiacofa che color primieramente
ci fogliano eccitare inuidia, i quali propinqui ci fono, o per
fpatio di tempo, o per diflantia di luogo, o per età, o per reputatone, 17
Se gloria, onde quali in prouerbio li fuol dirc,Trà quei, che fon
d'apprctTo cade l'inuidia fpclfo. Ci foglion prouocarc ancora a inuidia quelli,
co i quali teniamo competenza d honore : pofeiache così fatta competentia, de
contefa fogliamo hauer co 1 limili, de pari a noi. percioche con quelli, che
già mille anni fono (lati, o doppo mille anni fon per elTere, o con quelli, che
già priuidi vita fono; nelmno è, chedhonor contenda, né parimente con
quelli, che habitano alle Colonne d'Hercole. 1 1 nè con coloro ancora d'honor
contendiamo, a i quali (limiamo d'elfcre fecondo ! parer noftro, o ver
fecondo'l giuditio d'altri, o di gran lunga inferiori, odi gran lunga
fupcriori. Et quel, che delle pedone quanto all'eccedere, de mancare
habbiam detto, Ci t$ dee fimilmcntc intender delle cofe ancora. Et perche
con quelli, che nell'acquido di qualche cofa, auuerfari], o duali ci fono » cV
con tutti quelli in fomma, che le medefime cofe defiderano, et cercanil
poiTederc,chc cerchiarli noi; par,c'habbianio fempre vna certa contefa, de
compctCntia, de quali gareggiamento; è necelTario per quello, che verfo di
tutti quelli tali, foglia eccitarli 14 hi noi ma(fi inamente inuidia. Onde
è nato il prouerbio, Il Vaij laro porta inuidia al Vafaro » Apprcllb di quello
tutti quelli,chc con gran fatiga hanno a pena confeguito qualche cofa
defidcrata da loro, over confeguir finalmente non 1 han potuta;
fogliano portare inuidia a chi fenza fatiga alcuna con facilità
conleguita *f l'habbia » Parimente fe conofeeremo, che fe riefee ad alcuno
il confeguire et felicemente mandare a fin qualche cofa, o qualche
imprefa, fia ciò per tornare in obbrobrio, de ignominia noftra,non e dubio che
ageuol mente non riamo per portar loro inuidia. percioche ancor quelli vengono
ad clfer con qualche parità rimili a noi : de per confeguente può parer cofa
chiara, che il non confeguir noi quello, che ilan per confeguire effi, non
poffa da altro procedere, che da notìra colpa. Onde veniamo a fentir di ciò di
(piacere, et con ti i (lamento ; il quale inuidia finalmente douenca.
Medcfiraaraentc foglion cifer da noi inuidiati quelli, Jl Secondo
libro. quelli,liquali confeguifcono, ogiàpolfeggono quelle cofelequa li a
noi paia che per ragion conuengano, o che già prima, come 50 noflre
polfcdute riabbiamo. Et per quella ragione i Vecchi foglion portare inuidia a
igioueni. Color parimente, i quali han confumaro, Se fpefogran fomma di
danari per madare a fin qual che cofa, fenton pungerli d'inuidia conrra di
quelli, che c5 mot to maggior vantaggio dì fpefa, la medesima, o lìmil
cofa hanno ji mandato a fine. Può ancor da quel, c'habbiam detto renderli
ma nifcflo verfo di quali perfone, Se in che forte di cofe Tentano
alle grezza, Se piacer quelli tali inuidiofi, di cui ragioniamo :&
qual méte fian qualificati, &difpoiri per dar luogo alla detta
allegrezza, cóciofiacofa che nella contraria maniera di quella, nella
qual trouandofi satrrillano, vengono a trouarfi, quando fi rallegrano
delle cofe contrarie a quelle di cui fi dolgono. Per la qual cofa ic tali
prepareremo, Se difporremo coloro, nelle cui mani Uà po Ila l'autorità del
giudicare,quali habbiam detto eller coloro,che inuidiano ; Se tali dall'altra
parte, quali fono flati da noi difegna ti color,che inuidiati
fono,moftreremo efièr quelli,chc (limano, Se cercan, che fia hauuto lor
compaflìonc, o che qualche cofa di bene ila lor conceduta; certa cofa e,
chenècompafIìonc,nèqucl bene, ch'ottener defidcrano, faran per confeguir giamai fopo
ir. T^eWSmulattonc^. I qual maniera fian color poi, i quali atti fi t mollano
ad emulare, Se in quai cofe, Se verfo di quai per fone foglia hauer forza
Pemulatione,da quello che al prefen te diremo, potrà farfi manifcllo. perciochc
efiendo l'emulatione vn con tri (lamento, che nafeein noi dal parerci,
ch'in perfone limili, Se pari a noi, fi truo ui prelente qualche forte di
bene, ch'importi honore, Se polla in noi parimente cadere; il qual
contrilìamcnto non è, perche in quelle perfone fi truoui quel bene,ma
folamcnte perche ne fiam j priui noi: ne fegue da quello, che l'emulatione
fia affetto honcflo, eclodeuole, Se a perfone della virtù, Se dcll'honelìo
amiche, non difdiceuole. Si come per il contrario 1 hauere inuidia è
aA fetto brutto, Se biafmeuole, Se a perfone amiche de i vitij pro4
portionato. pcrciochc con l'emulatione ci eccitiamo a preparar V ij
noi ijó Isella ^Rgtprìca dj4riBotelc~> noi fceflì a confcguir quei
beni, che vediamo in altri : douc che Ti nuiiiia ad altro non ci muoue,
oci prepara, fé non a defidera5 re, Se cercare, che eli alcriquei beni non
habbiano. E' neccllario adunque, chad emulare fian primieramcnreinclinaci
quelli, liqualidi quei beni, ch'in effi nonhanno,& in altri veggono,
fti6 man fc ftellì degni :pcroche nell'uno è, che fi itimi degno di
cofa, 7 che gli paiaimpollibildi confegune. Et di qui è > ch'i
gioueni,. S et li magnanimi fogliono effere inclinati ad emulare. Sono
emù latori ancor coloro, che poifeggon quella forte di beni, che
par che propriamente ftien bene, Se conuenganoagli huomini honorati, Se di
valore. Se cofi fatti beni fono le ricchezze » la copia degli amici, o ver
la graria dimoici, li magiftrati,o ver principali ti, Se tutti gli altri beni
cofi fatti. pcrciochc conofeendo eflì con ucnirfi, Se dòucrfi cotai beni a
color, che fon virtuofi, Se meriteuoli, vengono ad ertere emulatori per cofi
fatti beni, come cheper ch'ere ancora erti virtuofi, a lor parimente
conuengano, Se co ro ragion fi debbiano-Sogliono elferc ancora indotti a
emulatió coi i loro,chefon dagli altri (limati degni de i detti beni.&
color pari mctc,i quali hanno hauuto i lor progenitori,© quei del fanguc
lo ro, o i domeftici loro, o quei della lor natione, o quei della
iceila patria,in qualche forte di beni, repucaci, et honorati; fogliono
in turno a tai beni ellcrecmularoriicome quelli, che par
loro,checo me cofa lor propria, meri camere lor cóucngano, Se appartegano
• n Oltradiqucfto elìendoacca maceria deH emulacionc quella force di
benijch imporcano honore,& repucacione, verrà perqueftoad 13 efler le
virtù ancora eiTe materie, Se caufe di cale affecco. Ec cucce quelle cofe
parimcnce, che polfono ellèrc vcili>& recar commodo, Se bendi rio*
altrui ; folendo cilcr da cucci apprezza cc,& hono race le perfonc benefiche^
agiouare arte, et parimele levirtuo T4 fe. Et tutti quei beni finalmente
eccitar pollono emulatione,! vfo, il godimento, et lafruirionedciquali, olcracolui,chegli
pof iiede, negli altri redundar fuole : come fon (per eiTcmpio) le ricxj
chezze, et la bellezza più che lafanità. Potrà cllcrc ancor per quel, che
fi e detto, facilmente manifeilo quai forti di perfone fogliano altrui
prouocaread' emulatione. concrodacofache tali ftimar Ci debbian quelli, ch
i beni,c habbiam già decco,oalcri foif miglian ti poiTeggono. et cofi facci
beni fono la fortezza, la fapic ua x 1 magjftrati, 0 vero i principati :
potendo quei, ch'in tal grado di JL Secondo libro. / j ? do di
principato fono, giouarc, Se far bcncfitio a molti. Se oltr* di queito gl
Imperatori degli eUcrciti, gli Oratori eloquenti, Se tutti quelli iu
(omnia, c han potere, et autorità di quel, clic pu17 rchor fi e detto, del
fargiouamenro altrui. Son medefi mani ente atti ad efTerc emulati quelli, i
quali han molti, che detiderano,. 1 8 cV cerca d'alTbmigliarfi loro. Se
quelli ancora,c'han molti, 1 qua li fon defiderofi d'cllcr da lor
famitiar. mciuexonofciuti,o cTefirre 1 9 amici loro, Se quelli parimente,
che ibn da molti ammirati : fi co me quelli ancora, i quali ammirati fon
da quei, che s'inducono 10 ad emulargli. Prouocaxe ad emulation fogliono
ancor coloro, in lode, Se celcbration de i quali hanno o Poeti, o Oratori,
o altri fcrittori fcritro% Coli fatti lonoadunque gli oggetti dcll'emux x
latione. Se i contrari) lor fon quelli,chc non emulare, ma più io ilo
difprczzar fogliamo^ elTendo all'emula tion contrario il di11 fprezzamento, Se
l'emulare al difprezzare>&: tenere in nulla. Perlaqualcofa c
neccfIario-,che coloro, i quali nella maniera già detta difpoiti, 8c atti fi
truouano ad emulale alcuno, o vero ad eflcic emulati, fian confeguerrtcmcntc
difprczzatori di coloro, nei quali fi truoui quella fottedi mali, che iìan
contrarij a quella for 13 tedi beni, che fono atti a generare emulatione.
Onde fpefic volte foglion diftfregiarc, Se tenere a vii coloro, che fortunati
fono, quando fenza alcun di quei beni, c honore, et reputatione im14
portano, fi truoua quella buona fortuna loro. Habóiam duribitte fin qui di
quelle cole, Se di quei modi detto, onde eccitare, Se ammorzar fi poflbno
quelli affetti, &paflìoni humane, e han. 1 y da. feruire a perfuadere,
Se far fede. Segue che doppo qucfto diciamo al prefentequai cornami
foglion fecondo gli affetti, Se fecondo gli habiti dell'animo, Se fecondo
lediuerfeetà, et fortune de gli huomini diuer fa mente accalcare Capo ///
1 *DeHa 'Retorica d % (apo 12. 'Della Giouinezza, et condìfiorii di
quella. Ntendo io per paflìoni, Se alfcrti dell'animo l'ira f la cupidità,
ìk gli altri limili a qucfti, de i quali già di (opra ragionato riabbiamo.
Per habiti incendo poi le virtù, Se li viti; ; Se di cotali habiri fi è
pari3 r"^ i iT^ 'i mente trattato prima, 6c iniieracmcnte fi è dichiarato
quai cofe fecondo cialchcdun di detti habiti, fogliano gli 4 huomini
eleggere operare. L'età poi s in tencion principale $ mcn te eflcr la giovinezza,
la Virilità, Se la vecchiezza. Fortu« ne chiamo io poi la nobiltà, le
ricchezze, lapotcntia,& i lor con crarij : Se la profpcrità finalmente
della fortuna, Se l'auuerfirà di 4 quella. Son dunque i Gioueni, quanto ai
cottumi appartiene, molto vehementi nelle lor cupidità, Se come che paia
lor d'eli e7 re a ciò potenti, fi mettono a fare ogni opra per confeguirle. Et irà
tinte le cupidità corporee, o ver leniuali, di quelle malli inamente fon
volontier feguaci, che son compagne di lafciua venc5 re, nelle quali fon fuor
di modo incontinenti. Son parimente nelle lor voglie, et cupidità
facilmente fottopofti alla mutanone* Se torto diuengon fatij, Se faftidiofi di
quel,che prima apperiuano. Sono i lor defiderij molto intenfi, ma poco
durabili, Se i o pretto partano : eflèndo i lor voleri, Se li loro
appetiti, acuti ma non tenaci, o potenti, nella guifa che fi veggono eflèr
ne gli infec li mi la ietc,& la fame. Sono oltra di qucfto i gioueni
iracondi per natura, et acuta, sfottile e Tiraloro, &fenza molto
penfarui fopra, fon pronti a seguir l'impeto di quella : come quelli,
che ftar non potendo incontra all'ira, vinti lempre da quella rimangono. conciofiacofa
che per la grande (lima, che fanno deiTer reputati, Se dellhonor loro, non
pollano in modo alcun foppor tar d'erter difprczzati,o tenuti a vile ; ma
grandemente fi fdegnano ogni volta, che punto s'accorpano, che fia fatta loro
ingiuria. 13 Sono ancor per querto arabitiofi, &auidi d'honorei
gioueni, o vogliam dir più torto contcntiofi, Se auidi di vincere : emendo
la giouinczza molto cupida d eccedere, ne altro e il vincer, ch'vn 1
4 certo eccedere • Onde d'ambedue quefte cofe, cioè dell
honore, &dcl Jl Secondo lìhro. Q? / / > \ et del vinccrc,fono
eglino molto più amatorijchc non fono ama tori de i danari, dal dcfiderio
de i quali molto poco fon mol diati, per non hauere ancor prouato,6V
efpcrimeniato la potiertà,e'I i j bilogno: fi come ben mollra Se accennala
breue, et acuta rifpofta 16 diPutacoad Amfiarao. Sono oltra di quello i
gioueni non ma» litiofi,doppij, o maligni, ma più torto fcmpljcj, aperti,
cV liberi > come q,uclli, che non hanno ancor conofciute,& prouate
le fraudi, et l'aftiuicdcl mondo. Et parimente Tacili fono a credere, et a dar
fedea quello, che lui detto loro ; non elTcndo flati per la lor xS breue
età molte volte ingannati. Sogliono appretto di quello i gioueni clfer
facili a fpcrar bene. pcrciochc non altrimenti eglin fon caldi per caufa
della natura loro (Iella, che fi licn caldi colali ro, che s'empion di
fouerchio vino. Oltra ch'aiuta ancor la loro fperanza il non hauere ancora in
molte cofe prouato,& veduto to riufeir lor vani i difcgni,& Jc fpcranze
loro, Etoltra ciò i gioueni per il più viuono a fperanza, Se dietro a quella
menano i lor anni : conciofiacpfa che la fperanza riguardi il futuro, fi
come la memoria il pallàto :& ne i gioueni il tempo, c hàda venìre,c
lugo aliai, et quel, ch e in lor già panato è breue,potendo nel prin eipio
della fua età l huomo ricordarfi quafi di nulla,&: fpcrarqua ai fi il
tutto. Et quello ancor parimentec caufa, ch'i gioueni han fempre efpoflia
facilmente eflere ingannati, per clfer (com'hò detto) a pigliare fperanza
facili. Più forti ancora, cV più animoli fono gli huomini nella giouinezza, che
nell'altre età : come quelli, ch'ageuolmentc s acccndon d ira, 8c fempre
bene fperano : delle quai due cofe la prima fa non temere, et l'alrra
confida re: conciofiacofache niun, chefiaaflalito dall'ira, tema; et Io aj
fpcrar qualche cofa di bene, generi confidentia. Sono medefimamentc i gioveni
dediti naturalmente alla verecondia. 8c quello nafcedal non avere eglino ancora
hanuto cognition d'altra forte di cose honeste e lodeuoli, che di quelle solamente,
di cui A4 fon dalle leggi inftrutti. Sono oltra di quello li gioveni,
magnanimi, come quelli, che non fono ftati ancora abballati, de humiliati
d'animo dalle miserie, e necdfirà, che porta la vita umana.01tra che la
magnanimità fa,chc l'huomo fi (limi degno di co fegrandijil che è* proprio
di coloro, che pieni di fperaze fono, co 16 me fono i gioueni. Anrepor
fogliono appretto di quello nelle lor attionirhoncftoaU'vule, come quelli,
che viuó più fecondo l'iniìitution ftfo \ € DeUa r Retorica d *
(litution ne i collii mi fatta, che fecondo'l calcili o della
fuppurttione: ne è dubio,che il difcorrere,& fupputar non riguardi 1
vti *7 le,& linflitution della virtù non riguardi l honefto.
Mcdefìmamentc fo^lion ghhuomini in quella più, thcinqual fi voglia altra
età,elfer vaghi d'haiierc amici, et compagni : come quelli, che molto
godono, et diletto predono del cómun cóuitto, &del la conuerfarione. Oltraehe
non hauendo cominciato a«coraa mifurar le cole con l 'inrereifo
dcll'viile, parimente non mifuran iS con quello gli amici, ma col diletto
(olo. Sogliono ancora in tutti gli errori, ch'occorra lor mai di fare,
errar più tolto nel pjù, che nel meno, Se più nel molto, che nel poco : Se
contra la len tenda di Chilone ogni cofa fan col troppo : come quelli,che
ami troppo, odian troppo, Se fomigliantc in tutte l'altre cole. Ol tra
che fi perfuadono in vn certotnodo di fapere ogni cofa, Se c6 vna cerca
refoluta certezza affermano, Se afTerifcono rutto quel, che dicono, il che
anchora e caufa, che gli aiuta a traboccar nel troppo. Le ingiurie, Se 1
offefe, che fanno i g{rìucni,fon più pre (lo in contumelia, et di 1
pregio, che con iniquità, Se malitia far-* £X te. Sono oltra quello i
gioueni inclinati ad hauere altrui corti-' patti on e; pcroche tutte le
perfonc (limano eglino virtnofe, Se migliori di quel, che le fono, come
quelli, che con h lor femplicità, Se poca malitia mifurano i coftumi, 6c le
attion de gli gli altri : cVper confeguentc gli (limano indegni dei mali,
che 31 yeggan lor patire. Scnton per natura diletto ancor di (lare in
rifoj Se per quello fon faceti, vrbani, et fcflcuoli, Se amici del
motteggiare : emendo l'vrbanità vna certa delira, honefta, Se ben
moderata fpetie di contumelia. Coli fatti adunque (come
habbiam detto) fono i coftumi, che porta feco
la giouinezza**4| Capo \ Jl Secondo libro. j 6 1 fi*po
ij. Della VecchieXzL,a y et delle pròprieta dt quella. Vecchi poi, Se gli
hormai grani, Se carchi danni, han quali per la maggior parcc cortami, a i
già dee-! ci contrariamente opporli, perciochc hauendo vif il peggio.
pcrciochc fon di contraria di fpofition di fangue, che non fono i gioucni,
clTcndo eflì agghiacciati, et quelli caldi : onde par, che la vecchiezza venga
in vn certo modo a dare adito, et a far quali la ftrada alla timidità; non
ellcndo altro il timore,chc vn certo agghiacciamento. Delideroli ancor
grandemente, Se auidi della vitafono x Se maflìmamente quando s'apprettano
a i giorni e ftremi: (olendo elTere il dcfidcrio propriamente delle cole,
che mancano, Se fono allenti ; Se di quello,di che l'huomomaggionnente
edefettuofo, Se hàbifogno, maggiormcntc ancora è defidcrofa. Coltume è ancor de
i Vecchi i cilèr Tempre queruli, Se lamenteuoli, et Tempre et ogni cola
rammaricarli, quali che non polFan contentarli mai. il che naTce
dall'clìer quella vna l$ lpetiedi pufillanimità. Viuono olerà di quello
più fecondo l'vtile, che fecondo l honefto> molto più che non conuiene, per
ef16 Ter molto amatori di Te medefimi: nè e dubio, che l'vtil non fia bene
in refpctto di fe Hello, Se l honeftonon lìa bene in Tua natu17 ra, et allblutamente.
Coftumcmedefimamcntecdiquci, che fon nell'età fenile, l'eller più prefto
inuerecondi, che verecondi, concioliacofa che non tenendo effi il medefimo
conto dell'hone ito, che dell vtile,tengon per conTcguenre poca (Urna
dell'opimo 1 8 che s'habbiadi loro Poca Tperanza Togliono ancor nelle coTe
ha uere ; parte per reTperientia, che gli hanno, rrouandofi per il
più nelle coTe Tempre più il mal, eli il bene ; Se accadendo per confci$
gucntcgliauuenimcnri dell'humaneattioni in peggio : Se parte ancor per causa
della timidità, c'habbiam detto elfer lor familiaxo re. Danno mcdeilmamentc
maggior parte della vita Ioroalla me moria, ch
allafperanzarconcioliacoiachc riguardando la fperàza il fu turo,. et la memoria
il pallàto, picciola parte della lor vita % 1 è quella» che Ila futura,
&: grande quella v eh è già palla ta.Ec quello parimente e la caufa, che
gli rende loquaci, et gli fa fenza miCura pigliar diletto di raggionare. peroche
nonrellan mai di raccontare, &c rirare in lungo le cofencllor tempo
accadute, o ch'eglino habbian perii pallato fatte : come quelli, che nel
rinnouel Xt larfel e nella memoria, gran diletto,. et gran gu Ito
prendono. Gli Tdegni, i crucci» et l'ire dei vecchi fono acute, Se
fubite,mafner «5 uate, &: fiacche. Se li defiderij, Se le cupidità lot
o, parte fon man care, Se diuenutevanein tutto ; et parte fon fatte
languide Se de M biluatcLa onde non fon molto moleitati dalle fcnfualità
delle cu pidità Jl Secondo libro. pldità,nc indirizzan le loro
attioni,o guidano la lor vira dietro i tj quelle, ma più tofto dietro ali
vtilc, et al guadagno. Onde vengon lcpcrfoncdi quella grauc età a dare
apparentia di Temperate : pofeiache lecupidità non fi veggon più in loro
dominarcela ucndoeflì totalmente l'animo applicato, et comeferuo fottopox6
fto ali vtile, et all'affetto del danaro. Et da quefto nafce, chegui danlalor
vita più torto con calculato, Se fupputatiuo difcorlo, ch'à modo dhabito,
et di coltume : cllcndo vn cofi fatto fupputare, et difeorrerc appartenente
aU'vtile, et l'operar come per coftumc, più alla virtù propornonato. Onde
le ingiurie, cV: Tof fefe loro, portan (eco più prcfto ingiù ftitia, et mahtia,
che con*. 28 tumelia. Son pari mente i vecchi inclinati ancora etti alla
compaf (ione ; ma non già perla caufamedeuma, che fono i
gioueni.pcr ciochenei gioueni nafee quefto da vna certa Immanità, o
voglia dir benigno affetto verfo gli huomini : doue che nei vecchi nafcc
da imbecillità, facendo ella lot patete, et in vn certo modo dubitare, che
tutti i mali poifono ellcr loro cofi vicini, che ageuolmente poftonlor ventre
addoifo : ti che giàhabbiam detto 2 cócorrerealle caufe della cópaffione.
Et da quefto ancor viene, -che li vecchi fian queruli, et duri, et amari
nel conuerfare,&: no punto atti alla vrbanità,& poco amici del
follazzo,&: del rifo: effendo cofetrà di lor contrarie l'elfer fefteuolc, et
1 elfcr lamenteuole. Cofi fatti adunque fono i coftumi, et dei gioueni, et dei 3
1 vecchi. Perlaqual cola folendo communemente tutti volentieri abbracciare, et hauerc
accette quelle otationi, che conofeono accommodate, et conformi ai coftumi
loro, et affettionarfi a coloro, da cui le vengono, come che a lor firn
ih; non potrà per quel, che fi è detto, efler nafeofto, in che
maniera pollan color, che parlano, ^ parlare in modo, che et elfi, et l'orationi,&
parlamenti loro, poffan parer cofi fatti, cioè limili a color, che
gli alcol tano. t x ij fa / Della llgtprica d %
l^j /^Oi Virilità, ^ condttioni di quella. Vahto poi a color, che fon
nell'età virile, et vigoro fa, può ellèr manifelìo, ch i lor coftumi lìan
pofH nel mezo trà quelli (ielle due età già dette: tollendo via da
quei deli'vna, et da quei dell'altra l'eccedo, de la ioprabbondantia. Non
fon dunque effi tali, che troppo trabocchin nella confidenza, il che è
proprio dcll'au dacia, ne troppo parimente temino : ma neH'vna,&
nell'altra di | quelle cofe, fon difpofti fecondo che fi conuienc. Non fon
creduli, et facili a preftare ad ogn'vno vgualmcntc fede : ne dall'altra parte
han coli fofpetta la veracità d ogn'vno, che cofa alcuna non credan veTa:
ma dalla verità delle cole ftclfe pendono, et fo4 no i guiditi), et gli allenii
loro. Medelìmamcnte quelli di quella età non fon ferui dell auaiitia ; ne ancor
fon prodighi, &c diffipatori : ma tra quel mezo caminano, feconefo che le
cofe ricer$ cano. Et nella medefi ma maniera parimente con mediocrità difpofli
incorno all'ira, et intorno alle cupidità fi truouano. Son tcmperati, fcnza
che manchi lor la fortezza, Se fono forti senza che lor manchi la
temperanza. Le quali due virtù, i gioueni, et i vecchi s hanno l vna
dall'altra separatamentc trà di lor partite, cf /èndoi gioveni forti, ma
intemperati, ed i vecchi per il contrario temperati e timidi. Et per
raccogliere il rotto in poche parole, tutte quelle cole, che di buono, et d'vtilc
s hanno lagiouinezza, et la vecchiezza trà di lor fcparatarnente dillribuitc,
tutte 5 fi truouano infieme nella virilità congiunte. Et tutte quelle
altre cofe poi, leqiraii per fouerchio eccello, o defetto traboccan nel
troppo, o nel poco nelle due ellreme età già-dettc,tuttc ridot te al
mediocre, et al comieneuole, lì truouano in quella età di 5 mezo. Ritien
le fue forze nel Ino vigore quella età virile, et le fi confidcrano in
quanto al corpo,• daU anno uigefimo fino al trige fimo quinto : ma
confidcratcquanro al vigor dell'animo, intorlo no al quadragclìmo
nont>,maflimamctcnorifcono.Et tonto badi hauer detto de i coflumi,&
conditioni del la giouinczza,& della vecchiezza, et dell'età vigorofa,
che nel ruezo di quelle è poda. Jl Secondo libro. ì6j fapo if. Della
nobiltà, condizioni, proprietà di quella. V^ug^ Ecve al prefente, che
noi diciamo intorno aTij^È^!^^ della fortuna, quali, et quanti di quelli
fiano atti a variare i coltami de gli huomini, Se quali cofi
fatti coilumiaccafchino. Etcominciandodalla nobiltà, coitumc primieramente
è di quella l eder chi la poifiede dedito molto ali ambinone, Se a tenere
in ogni cola c&S | to dellhonore. pcrciochc pare, che ordinariamente
tutte le perfone » quando conofeono di polXeder qualche cofa, che piaccia
loro, fogliari tempre porre ftudio d'accrefcerla, et d'accumularle fopra : ne
altro e in chi 11 lìa la nobiltà, che honoranza, Se c 4 fplcndor d'honore
de i fuoi maggiori. Sogliono i nobili ellcr diIprczzatori d'ogn'vno; Se maiTì
inamente di quei, che fon fimi li a i lor maggiori. conciofiacofa che li
medefimi honori fogliano apparir più fplendidi, Se più gloriofì, quando Ci
truouan per lungo fpatio di tépo già fatti da noi lontani, che fe vicini in
tempo, o 5 prefenti fono.Cófilte l'elfcr nobile nella virtù principalmente
del 6 la (tirpe, Se della fameglia : ma la generofità condite in non vfei7
re, o tralignar dalla natura, et virtù dei fuoi maggiori, il che il 5 più
delle volte non fi vcdeaccafcar ne i nobili ; tremandoli fpeflb S mol ti
di loro vili, h umili, Se abbietti d'ani mo. Et pare in vero» che eli
adiuega nelle ftirpi, et fameglic dc'gli huomini vna certa fertilità, Se
abbondanza di ricolto per qualche tempo, fi come fuole auuenirca i
lauoratiui campi della terra alle volte ne i frut ti loro. perche fe la
ftirpe et fchiattad'vna fameglia farà buona, fi vedran per qualche campo
vfeir di lei perfone in virtù eccellenti. et di poi all'incontro parrà, che
come (tanca, Se quali sfruttata 5 di tai perfone, rem" per qualche
tempo di parturirne. Et in coti fatti tralignamcnti di fangui, Se di
ftirpi, loglion le fa m eglie d'acuto intelletto, Se di fottile fpiriro,&
fottile ingegno, degenerare, Se tralignare in perfone di coftumi adulti,
melancholici> Se fu riofi-, come fi vede elTer quelli, che fon difeefi
da Alcibiade; et io quei parimente, che dal primo Dioniùo per fangue deriuano. Et le
fameghe dall'altra parte, che fon di quieti, manfucti, Se graui co (lumi
« / ^Detta r R^torica
d*Arittotek^> co ftu mi, tralignar foglion finalmente in perfone
inerti, digroffo intelletto, et quali ftolide, Se infenfate, come fi veggono
elfer quelli, chedaCimonc, da Pericle, et da Socrate difeeh
fono, (aj?o 16. De i cofiumi, et proprietà de i 'Ricchi. Vai maniere
poi di cottumi foglian feguitare, Se ac compagnar le ricchezze ftando
etti, aperto può ciafchedun facilmente conolcere. pcrochc foglion
pri mieramentc 1 ricchi elfer contumeliofi, Se oltraggiofi, et oltra ciò
fattoli, et fupetbi : facendo in effi coli fatte difpofitioni, il polfelfo,
et l abbondantia delle lor ric3 chezze. conciofiacofa che clfendo le ricchezze
la ricompenfa, Se quafi il prezzo della ttima,& del valore di tutte
l'altre cole, in mo do, che chi polTìcde le ricchezze, pare che tutte le
cofe comprando cófcgnir polla -, vengon per quello i ricchi a difporfi
d'animo, 4 non altrimenti, che fe tuttel'altre cofe polTèdano.
Sonoparimentei ricchi macchiati d'vna certa effeminata molline, et delicatuta,
et molto fattoli,& arroganti di fe medefimi. molli de delicati fono
per l educationc delicata nata da i commodi, che portan le ricchezze. arroganti,
Se faftofi oftentatori fono, fi perche foglionocommunementegli huomini
volontieri occuparli, Se confumarc il tempo intorno a quello, ch'elfi amano,
Se che ammirano, et fi ancora per che lì danno a credere, che
tutti gli altri tengano altrui felice per cagion di quelle ftclfc cofe,
che 8 tengonloro. Nè forfè di ragion par, che in lor
nafcaqueftaprefuntione, vedendo elfi, che molti fono, che di coloro,che
polleg gon ricchezze hanno di bi fogno. Il che fu efprclTo
daSimonide Poeta in quel detto, eh egli in proposto de i iapicnti, «Sedei
ricchi vsòrvipondendo alla domanda fattagli dalla tnogliedi Hiero ne. concioliacofa
che domandato da lei qual delle due cofe fi douelfe come migliore anreporre o
l'elfcrricco, o l'clTer fapiente; rifpofe, cheei vedeua 1 lapiditi
raggirarli tutto'1 giorno, Se (lare 10 allettando alle porte dei ricchi. S
aggiugncancoraa confermar Tarrogantia de i ricchi, il parer loro, che lor
fi debba, Se quafi per ragione appartenga vna certa maggioranza, Se
imperio (opta degli Dig Jl Secondo libro. degli altri : {limando
lord'hauer quelle cofc,Ie quali chi poflìede, (la degno di dominare,& di
comandare a gli altri. Er per dir breuemete fono le maniere, Se li coitami
de i ricchi quei medesimi, che farebber d'vno, chefuflefortunatOjCV
infiemementc ftolto.E^ ben vero,che no poca difFeren ria fi truoua tra i
coftumi, che feguon le ricchezze di nuouo acquillate, Se quelli,
chaccompagnan Ieanticamcntc poffedute. peroche tutte le cattiue,c\:
biaf. mcuoli conditioni, Se proprietà, che ne i ricchi fi
truouano,mol to peggiori fi fan conolccre in coloro, che fon fatti di
nuouo riechi. conciofiacofa chela nouità delle ricchezze fia quali vna ini14
peritia del poflederle, et vna ignorantia dell' vfo loro. Apprello di
quello le ingiurie, Se le orlefe, che £mno i ricchi, non (ò{;lion nafeer
da pura ingiuftitia,& malignità, mapiù tolta o da Scherno, Se da
contumelia, o vero da inconrinentia, Se da inremperatia : come faria (per
eflempio) il dar delle battiture, Se il far forza con violentati adulterij. fapo.
De i coftumi di coloro, che h ari grande autt onta > £f potentia Jopra de
gli altri* de i ben fortunati * Edesimamente li coftumi, che feguon
la potentia, l'autorità, Se grandezza di flato fon quah per la maggior
parte man ifelli. conciofiacofa che parte d'efli fian quei medefimi ne i
potenti, che fon ne i ricchi ; Se parte fian migliori, Se più
comportabili, perciochc le pedone potenti, Se di grande (laro tengon ne i
coftu milorpiù conto dell honor, et han più del virile, Se del
grande, che non auuicn nei ricchi. perche dando lor la potentia che
gli hanno facilità di poter far cofe preclare, applicano a quelle l'animo,
et fon cupidi di condurle a fine. Sono ancor più diligenti, et manco otiofi,
pofeiache il pender di conferuar faluo il loro fta to, gli sforza a dar
vigilanti, Se a tener cura Se ftudio intorno alle cofe, che appartengono
alla potentia loro. Mcdefimamentc quel la grauità, che fi truoua in loro,
ha più tofto del venerabile, che del molcfto, Se fempliceracntc graue
peroche tendendogli quel la de\ T>eHa Ttgtoried d'
sfrittotele^ la degnità, et autorità loro riguardcuoli, vengon per quello
a j moderare, et a temperare i modi, Se le maniere loro : non eflendo
altro in vero quella venerabili tà, ch'vna mitigata, et ben comporta grauità.
Et fc pure eglino inclinano alle volte a fare ingiuria, fon leoffelc, Se le
ingiurie loro, non di cofe leggieri, et di 7 poca importanza, ma di cofe
grandi, Se d'aliai mométo. Quan to alla profperità poi della fortuna,
ritiene ella inlieme quei coS (lumi, che noi leparatamente riabbiamo clplicati.
peroche tutte quelle, che fon communemente giudicate felicità di fortuna,
pa re, che tendano, Se inclinino, cornea puncipaliflìme parti loro,
a quelli tre (lati d'huomini,ch" vi timamen te habbiam
detti.quan tunque a colmar coli fatta felicità concorrer foglia ancor l
hauer buon numero di ben qualificati figli, Se 1 hauer la pedona dota10 ta
di quei beni, che beni dei corpo fi domandano.Sogliono adun que i ben
fortunati più che tutti gli altri, traboccare ecce Ili uame 11 te in
fuperbia ; Se elfcr molto feonlìderati, Se poco configliatiui> o
difcoriìui nelle loro anioni : colpa della confidenza, che recali lor la
profperità della lor fortuna. In vna proprietà nondimeno, Se in vn coftumc
degno di lode, che feguc alla buona fortuna a canto, vengono ad eccedere i
fortunati, Se qucfto è, che.fon pij, Se deuori cultori, Se veneratori di
Dio, et ripieni di ben copollo affetto verfo la bontà di quello. conciollacofa
che veggendofi cfll profperar ne i beni, che dalla fortuna fon dati loro,
facilmente lì danno a credere, Se fi perfuadono, che ciò adiuenga loij ro per
hauere Dio amico, et bcneuolo. Et fin qui badi naucr detto de i coftumi,
Se proprietà, che feguono alle diuerfe età del i'huomo ; Se di quelli, che
portan feco i varij tlati della fortuna. 1 \ peroche i coflumi, che feguono a
quelli itati, che fon contraria quelli, c'habbiamo elpofti, cornea dire alla
poucrtà, all'auuerfa fortuna, Se ali impotenza, Se poca autorità, potranno
renderli manifefti con volger ne i y.r;i.»..* f contrari; loro i luoghi,
Se le conditioni, che alfegnate riabbiamo • C*po jfl
Secondo libro. / 6 p (apo ìS. Continitafion delle cofe dette con quelle,
che shan da dtre nel rejlante di quejìo fecondo Libro. Erta co /c e, che l' vfo
d'ogni perfuafiuo parlare riguar g Ha finalmente qualche giuditio, o
parer, che nalca in B colui che ode. peroche per cagion di quelle cofc,
che alcun fappia eiTcr da noi conoiciute, et giudicare fecondo l'animo
Tuo, non fa di bifogno, ch'egli ce ne parli. et qucfto C'habbiam detto
auuicne parimente fc alcuno apprettò d'vn folo,o fuadendo, o diifiiademlo via
le fue parole; come auuicne in color,ch'ammonifcono, o ccrcan di fare ad
alcun fede di qualche cola : non douendo punto manco (li mar fi colui, a chi fi
par4 la, giudice di tai parole per eiTere vno. perche colui in fiamma li può
conucneuolmenre (limar giudice dell'altrui parlare, nel qual fi cerca di
far parlando nafeere perfuafionc, o aiìcnfo, j o vno o più, che cofi fatti
fiano. Il medefimo auuicne ancora, così ncll'opporfi, col parlar nortroa
chio litigando,o in altro modo ci fia auuerfario ; come ancora in parlar
fopra qualche 6 prò polla carila, conciofiacofa che ancora in far quello
facciadi Difogno d'vfar la forza delle noftrc parole, et cercar di
difeio^lier le cofc, che ci ficn contra, òc contra quelle, come qua7 li contri
d va© auuerfario, opporci col parlar noftro. Similmente fi può quello medefimo
dire, ch'adiuenga neli'orationi dimofrratiuc venendo noi in quel genere
ancora a contìituir, come quafi giudici coloro, cha modo di fpcttarori, fi
pongono ad ascoltarci. Ma pigliando al tutto quella parola
giudice femplicemente, fi dee per giudice propriamente intender quello,
che nelle controuerfie, et caule ciuili, le cofe che fi dubitano, et fi
propongono, determina con la fua (èli tenda. conciofiacofa che de nelle
caufc,che fi trattan nel foro giudicialc, Se in quelle, che fi maneggian
nelle confulte, fi cerca in che maio nicra le (licno,& qual detcrmination
fi conuenga loro. Ma de i collumr a ciafeheduna forte di republica
accommodari, habbiam già a ballanza detto pr ima, nel trattar del ncncr
dclibcratiuo : di maniera che può parer c homai fia fatto chiaro in che Y
maniera, Se con L'aiuto di quai cofe, damo per poter far le noftre
orationi coturnate. E t perche trouandou in ciafehedun gencr d'oraiioni
difhnto, Se appropriato fine, riabbiamo per tutti i generi,. Se per tutti
i finiailegnato loro, proprie, Se accomodate opinioni, propofitioni, Se luoghi,
onde fi polla perfuadere,& *3 ^ ar fede confultando, demoftrando. Se
litigando: &: habbiamo oltra ciò inoltrato de detcrminato donde, et come
formar fi debbian le orationi, et li parlari coftumati ; reità ch'ai
prefen te diciamo di quelle cofe, che communi fono a tutti li generi
di *S caufe, Se tutti i modi di far fede abbracciano. Commune adunque a
tutti cnecclfario, chefiail feruirfi del poflì bile, &deH impoflìbilc, Se
il tentar di mofhar nell'oratione tal'lior che la cofa 1 6 habbia ad
elfere, Se tal hor che la (la fiata t Se oltra di quefto comune è ancora a
tutti i generi, delPoratione, il confìderare, Se moftrar la grandezza
della cofa : conciolìacofa che tutti fuadendo, o difTuadcndo nelle
confultationi, Se lodando» o vituperando, Se acculando, o defendendo^vfino, Se
tentino di cftenuarco d'ampliar le cofe, o vogliam dir d'impicciolirle, o
ingrandirle. tS Determinato charem poi quefte cofe, faremo pruoua di
dirqual che cofa degli Enthimemi, Se de gli eflempi confederati
ancora 1$ effi come communi a tutti i generi, accioche-aggiugnendo
poi doppo quefto fé cofa alcuna ne renerà da dirli, poriam por finalio
mente fine a quanto da principio fu da noi propoiìo. Et è da fapere, che delle
cofe, c'habbiara già propone come communi, I amplificar, ch'appartiene
alla grandezza, è alquanto più domenica, Se accommodata alle orationi
demoftratiuc, come già in alir tro luogo fi è detto prima. La nn tura poi dell'
elTer fiato, allegiudiciali è* alquanto più familiare:
riguardando lcfententie dei giudici, maflìmamente le cofe fatte. Il
poflìbil poi, et l haueread elicle, alle confultatiue caufe principalmente
s'accommodano,. Se fi fan domeftici. Jl Secondo Ulto. ìyj {apo t p.
'Della natura del pofòbile, dell' ejjère fiato, et dell' hauere ad ejfere,
et de i luoghi loro£t della grandeX^a,^ piccolél^a confiderate m natura
loro. I ry»MK?| Omi sciando adunque dal potàbile, òV dall'impof1 y2^gS£I fibile
diremo primieramente, che fé l'vn de' contraèo^Sjtì rij farà poffibile ad e il
ere, o a farli, parimente l'altro contrario potrà parer poffibile. cornea
dir (per cileni pio) che fé gli è poffibile all huom farfi fano, gli farà
ancor poffi| bilcildiuenhe infermo: conciolìacofa che vna medeiìma forza, et potentia
fia quella di due contrarij, confiderà» come con4 trarij. Parimente fe l vna di
più cofe trà di lor fimili faràpoffibi5 le,faranno ancor poffi bili quelle
altre fimili. Etfc poffibil farà vna cofa, che fia più difficile, farà
poffibil quella, che farà più fa4 cile. Et ancora teglie poffibile a fard una-cofa
in modo,chc la fia ornata, bella, et perfetta ; potràmedefimamente farli
femplicc» mente fenza quelle conditioni : perochepiù difficile (per essempio)
a farfi, e vna caia ornata, et bella, eh* vna cafa, che fia femplieemente cafa.
Oltra di qucfto di quella cofa, il cui principio fia poffibile a farfi,
farà poffibile il fine ancora : pofeiache ninna cofa di quelle, che fono
imponìbili, può mai farfi, o cominciare 5 a farfi : come (per essempio)
diremo, che mai non potrà farfi, ne cominciarti a fare il diametro del
quadrato al lato, ouero a la cofta di quello, con vna fteifamifura
commenfurabilc. Dall'altra parte ancora di quella cofa il cui fine fia
poffibile, farà poffibile il principio ancora : hauendo tutte le cofe, che
fi fanno, origine dal principio loro. Oltradi qucfto fc di due cofe,
quella che in foftantia, et in natura fua, oucr per via di gencrationc fia
pofteriore, farà poffibile ad efler fatta, poffibil parimente farà quella, che
e anteriore, et preceder dee. come a dir (per ellempio) che potendo venire
alcuno all'età virile, puòancor venire alla fan1 1 ciullezza; douendo per
natura quefta età preceder quella.Et me» defimamentc per il contrario, fc
gli e poffibil diuenir fanciullo, poffibile ancor farà venire all'età
matura, elTcndo quella età prin 15 cipio di quefta. Quelle cofe ancora fi
deono ftimar poffibili» Y ij delle ìyf, *Della c Retorica d
'drìftotele^ delle quali fi truoua per natura amore, Se cupidità ncH'huomo
: peroche perii più nó e chi nmi, o appetilca le cofe, che fono
impotàbili. Appretto di quello quelle cofe, pollbno et cllere, Se I j
farli, delle quali fi truouano in piedi le feien tic, et le arti, quelle cofe
medclìmamente pollon da noi ellcr fatte, il principio del cui edere, et del
cui nafeimento dà porto in cole, che o con forza, o con permasone in poter
noftro (ia di valercene. Se tali fono fc o più potenti d'elle, oucr padroni,o
amici di quelle damo. 17 Parimente le le parti d alcune cole laran
potàbili, faranno ancor potàbili li tutti loro. Se all'incontta fevn tutto
farà potàbile, faranno ancor per il più potàbili le parti fue. concioliacofa
che fe far (per esempio) lì pollon le fuola, Se le tomara, parimente Ci pollon
far Te (carpe : Se all'incontra fe lefcarpe far lì polfono, faranno ancor
pombilt a farfi le tomara, et le luola. Mede/imamente fe tutto infamemente il
gencr farà cofa podi bile, farà poflibile ancora qual lì voglia delle fise
fpctic. Se all'incontra fe pofII lìbil farà la fpetie, farà ancor potàbile il
gcner tuo. come adir (per cileni pio) che fe potran farli legni da
naiiigafrc, potrà f.irfi la galera ancora j Se potendoli far la g ilcra,
potrà ancor farli vn lezi gno da nauigare.Ohra di quello le di due cofe, c
riabbiano in lor natura relatione, Se rifpetto di riferimento 1 vna
all'airi a, farà pof libile l'vna,potàbil farà parimente l'altra, come a
dir (pcrclieanpio) ctiesVna cofa porrà eller, che fia il doppio d vn'altra,
porrà ancor quella eirer la metà, oucroil mezo di quella. 6c all'incontra
porendo ciTer quefta la metà di quella ; potrà ancor quella cC *5 fer di
quella il doppio. Parimente fepotàbil farà di farfi vna cofa fenza aiuto
d'arte, Se lenza diligano*, o preparatione alcuna, maggiormenre farà
potàbile a farli fe vi s aggiugne l'induftria dclfarte, Se la oMigentia.
Onde ben fu detto da Agathone, che moire cofe li fanno alle voi te a calo;
male medefimc facciam noi a j con l'arte, e con l'induftria, che la
nccetàtà ne mollra. Mcdefimamente s'vna cofa può cfl'cr fatta da quei, che fono
di mcn valore, et di forza, o di potentia inferiori; mageiormen re
potrà x6 eiler fatta da perfone contrarie alle già dette, li come dille
lfocrate, parergli cofa graue, fc quello, c haucua imparato Euthimo, non fulle
egli badante a poter trouare, Se a poter fapere. Quanto poi alle cofe
impotàbili, chiara cofa è, che da i contrari j luoghi di quelli chabbiarao
adeguaci lì potran comprendere. Per Jl Secondo libro. i ?j Per
conofeer poi fc le cofe fiano fiate fatte, o non fiano fiate tacce, potiam
difcorrere, et eonfiderare, nel modo, eh al prcfente diremo. Pnmieramence
adunque (e quella cola, che manco in Tua natura è atta a farfi> nondimeno è
fiata fatta, farà ancora Itara fatta quella, che maggiormente in fua natura
afarfi è habile. Et Ce quello, fi vede fatto, che fuol farli doppo, viene
ad elfere ancor fatto quello, che far fi fuol prima,
cornea dir(perellèmpio) che Ce alcun lì làrà (cordato di qualche
cola, 30 l'harà ancora in qualche tempo imparata, ouer faputa. Medefimamentc
s alcuno è,chabbia potuto, et voluto fate vnacofà, flimar lì dee, chei
habbia fatta : conciohacofachc tutti quando potendo fare qualche cofa,
voglion parimente farla, lenza alcun dubio la fanno, per non hauere in tal
cafo cofa, che gli impedifca. Il medefimo fi dee dire ancora di chi habbia
hauuto la volo tà di farla, 6c nelfuna cofa eftrinfcca dalla partedi fuora
impedi31 tol'habbia. Parimente s*alcuno harà potuto far qualche cofa,5c in
quello Hello tempo farà flato accelo d'ira, ch a farla incitato l'habbia ;
fi può affermare, che l'habbia fatta. Et il medefimo s'ha da dire di chi
habbia potuto far qualche Cofa, et habbia infiememéte hauuto qualche cupidi ù,
di in fligato velhabbia. perciochc per il più coloro, c 'han poter di far
cofa,della qual fiano defiderofi, et cupidi, la foglion fare, a ciò
induccndogli,fe cattiui, &vitiofi fono, la loro incontinentia, et le
fon virtuofi» J5 l honcllà, et bontà dei defiderij loro. Oltra di quello s
alcuno era in vltima preparatone totalmente in punto, 8c in ordin
per fare alcuna cofa, fi dee filmare, che l'habbia finalmente
fatta: 36 efTendo verifimil, che colui, che Ila già del tutto parato a
fare vna cofa, in modo, che nulla gli manchi per efeguirla, laefeguifca, 3c la
faccia per ogni modo. Mcdcfimamctefe fi veggon fatte tutte quelle cofe, che
foglion per natura precedere, &c andare innanzi a qualch'alrra cofa,
ouer per caufa di quella fono, fi può 3 8 (limar, che quella tal cofa fia
fatta ancora, com a dire, che Ce farà balenato, fi potrà dir parimente,
che fia tonato. cVs'alcunoharàaifalito, o fatto forza, o attentato di far la
cofa, potremo ereder, che l'habbia fatta. 8c dall'altra parte ancora Ce lì
veggon fatte tutte quelle cofe, che foglion per natura feguire, &c andar
dietro a qualch altra cofa, o per caufa delle quali quella tal cofa
fia; fi dee (limar, che fia ancor fatta quella tal cofa, che di natura
và loro innanzi, o per caufadi quelle ha l'elfcrfuo. come a dir,
che 41 fc gli e tonato, bifogna, che ha balenato : Se s'alcu no harà
dato effetto al tal delitto, o alla tale ingiuria; fi potrà ancor
credere c'habbia prima attentato, alTalito, Se fatto forza di farla. Et
di tutti quelli, che come luoghi habbiamo allignati, alcuni
fon ncceilarij, Se ch'infcrifeono, &" concludono di neceflìtà ;
Se alcuni fon più rollo verifimiii; Se han la forza loro per il più,cVper
la maggior parte. Quanto poi al poter inoltrar non effer la cola Hata
fatta, potrà ciò clfer noto dai luoghi contrari; a quelli, ch'a moftrar
chelafia Hata fatta, alfcgnati habbiamo. Et da quelli medefimamente potrà
diuenir manifefto quanto occorre intor46 no al moftrar, c'habbia la cofa ad
clTère. percioche quelle cofe, che fono in poter di chi voglia farle, fi
douerà ftimar, c'habbiam 47 da ellerc in ogni modo. Mcdelìmamente fe con
ira,o con in tenia cupidità, o con rifoluco difeorfo di ragione, ch'in ftighi a
fare vna cofa, farà congiunto il potere ancora ; fi douerà crcder,ch'el48
lafia per elici e, ouer per farli. Et perla medefima quali ragione, le
vedremo, ch'vna cofa ftiagiàgià in procinto, et inordin per fai fi, o per
clfcre, potiamo affermar ch'ella fia per haucre effetto : pofeiache per
il più fogliono effettuar/i più tolto quelle cofe,che fon parate, et polle
in punto, Se inordin perfarfi, che quelle, che co tal preparation non
hanno. Olerà di quello fe fi veggon già in cf fer quelle cofe, che foglion
per natura precedere, et venire innanzi a qualch'altra cola, debbimi credetene
quella ancora hab biada cllcre. come a dir, che fe il Cielo farà coperto
di nuuole, 51 potrà verilìmilmenteafpettarlì, che la pioggia venga.
Parimente fe fatta farà quella cola,laqual per cagion d'vnaltra fi fuole
ordinariamente fare, vcrilìmil ria, che quell'altra ancora habbia
da effettuarli come a dir, che fe fatti fatano i fondamenti d'vna caj 1
fa, verifimilmc te ancor fi fat à la cala. Quan to poi alla grandezza, Se alla
piccolezza dellccofc, Se aU'efler quelle, o maggiori, o minori, o
finalmente grandi,0 picciolc, può quello renderli 53 manifcfto per le
cofe, che già habbiam dette innanzi. peroche nel trattar noi dilopra delle
cofe appartenenti alle confufte, Se al gencr dcliberatiuo, fu da noi
trartaro della grandezza dei beni; Se infienie dcll'cirer maggiore, Se
dell'efièr minore, fcmpliccmc54 te in fe confiderati. Per laqual cofa elfendo
in ciafehedun gencr di caule propoli o per fin qualche bene, come a dir l'
vtile, 1 bonetto, e'1 Jl Secondo libro. / 7 j $ $ do, c'1 giudo, può
efTer manifedo, ch'a tutti li detti generi, per l'araplincatione, che lor
bifogni fare, pollon fcruir lccofe, che j6 quiuida noi furori dctte.Onde
tutto quello, choltra a quel,ch'ap partiene a i detti generi, di più fi
confideradc, 6c diceflè della gra dezza, de dell'eccedere, confiderati in
fefempliccmente, fareb57 befouerchiamente, et fenza bilògno detto. conciolìacofa
che nelle facultà,chan da eder porte ncll'vfb,& nell'attioni,più
pròprie fieno le confiderationi applicate alle cofe particolari,
che quelle, che fi fanno fernpliccrnentc intorno alla natura dcll'vni|S
ucrfalc. Quanto apparticneadunque a veder, fe le cofe fon po£ fibili, o
imponìbili, et fc le fon fatte, o non fatte, Se le l'hanno da edere, o non
han da edere, Se quanto parimente appartiene alla grandezza, et piccolezza
delle cole, può badar, quanto ha qui li è detto * (apo 20* Dell'
Jffimpio, 0 vero Induritoti retorica> et delle Jpetie Jue, lor condit ioni,
et del modo dyjarle^ collocarle nell'oratione. Està che diciamo di quelle
pruouc, Se vie di far fede, che fon communi a tutti li generi di
caufe; pofeiache già detto habbiam di quelle, che fono, o all'vno, o
all'altro genere appropriate. Sono le communi pruouc* et vie di far fede,
generalmente due, l'edcmpio, &r Entimema. percioche quanto alla
fenten4 tias'hadadimar, che la fia parte dell'Enthimema. Direm dunque
primieramente dcirElIempio : edendo l'edcmpio fimilc alj l'induttionc, la quale
ha ragion di principio,. et di precedentia 6 nell'argomentare* Di due
fpetie adunque fi foglion trouar gli 7 edempi. l'vna fpetie s'intende
elfer,quando fi predono, &c sadducon neli'edèmpio cofe, che veramente
fonafbtc, 8c li domanda propriamente edempio. L'alrra fpetie s'intende poi
eller quando noi dedì fìngiamo, Se neHimmaginauon trouiamo le 9 cofe,
che neiredempio addur vegliarne* Et cotale fpetie hà due parti, o vero è
di due maniere, l'vna fi domanda parabola, oucr 10 Similitudine : et l'altra
fi chiama Apologo, ovogliam noi dir fauola : come fon (per edempio) quelle
d Efopo, et quelle, che fi foglion, / ? DelIa Tlgtortca d'
Àrìftotelc^> li fi foglion chiamar le fauolc AtFricane. L
elfcmpioadunqucche propriamente fi domanda esempio, farebbe vn cosi fatto,
come te noi diceflUmo eller ben di far prouifionc, et apparato per opporfi
contra'l Rè de i Pcrfi, et non lafciare in modo alcuno, il ch'egli occupi,
de Ci faccia padron dell Egitto, percioche Dario non prima limette apalTar
con reilercito in Grecia, ch'egli hauclTe occupato 1 Egitto ; il che fatto, fi
motte fubito ad ailàlir la Grecia, parimente di nuouo Serfe non prima fece
il medefimo palleggio, che quella fìeilà Prouincia hauefl'e foggiogato, et
foggiogara che l'hebbe pafsò ancora egli con le fue forze in Grecia onde
al prefente ancora fe a quclìo Rè vien fatto aimpadronirfi dell Egitto,
fubito poi artalirà la Grecia: et per quello non fi dee 14 permettere, eh*
egli fenimpadronifea. Le fimilitudini poi, le quali per la frequentia, che
tencua Socrate neH'vfod'cfie, Solò cratichc fi foglion dire, farebber, come fe
(per efiempio) alcun dicefle non eilcr ben fatto l'clcggere,o crearci magi
(Irati a forte. conciofiacofa che il far quello farebbe limile a punto,
come fe alcun volendo elegger giocatori di pugna, o di lotta, non
prendeilc quelli, che più robufti, et più atti, et potenti fusero a tai 18
contefc,ma quelli, che ne delTe la pura forte : ofe tra tutti quei, che fi
trouaflcro in vna nane, fi ponetfc in forte l elcttion del Nocchiero, o
Gouernator di quella : come ch'a gouernar PhaueiTe, non chi meglio hauefiè di
ciò la peritia, Se l'arte, ma chi dalla cafual forte prò pollo fulle.
Apologo, et fauolapoi s'hà da inrendere elTer qual fu quella, ch'vsò già
Stcfichoro con tra di Falare, et quella parimente, di cui fi fcruì Efopo
nella difenlìon xo il' vn concitai or del popolo. Stefichoro adunque
vedendo che gl'Imerenlì haucuano eletto Falare per Capitan generale con
fujjtcraa potcftà, 8c confultauano oltra ciò, di concedergli guardia di
foldari per la fua pedona, fra l'altre cole, ch'egli a diilliadcr qucfto
dille, vsò ancora il prefenre apologo, o ver fauola, dicendoloro, eli
'vnCauallo fi trouaua già in vno ampio prato, de io? 10 tutto lo godcua,&
lo polledeua.mil foprauenendo vn Ceruio, et cu 1 aneto, difhirbando, et imbruttando
tutto quel pafcolo, 11 Cai ilio defidcrofo di vendicarti contra del
ceruio, domandò configli o da vn huomo, s'egli ordine con ofccllc alcuno
da potere egli con lui infieme galligarc, et punir quel ceruio. A che rifpoic
l'huomo, ch'a ciò gli baftarebbe ianimo, quando elio caJl Secondo libro.
777 «allo prendclTe nella bocca vn freno, o vero vn morfo, Se
egli fopra di lui falilfe, de con nafta, over lancia in mano, conerà del ccruio
andante. Piacque il difegno al cauallo, Se accettato ilmorfo,& fotopoftofi
al caualcar deirhuomo,in cambio di vendicarli : contradel ccruio, rimafe
foctopofto, Se in potere Se fcruitù dcl* 2.1 rhuomo. Così voi Imerenlì (dicea
Stclìchoro) guardate, che mentre che volete, Se cercate di vendicarui
contra dei voftri nemici, non veniate a patire, Se a prouar quel, che patì
quel Cauallo.concioliacofachegia vi r toniate hauereil morfo in
bocca, hauendo fatto Palare con tanta autorità Capitano, Se Imperator voltro
: onde fe concedendogli ancor la guardia della fua perfona, ve lolafciarete in
quella guifa falire addollb, nonèdubio»' che perduta la libertà volìra, da
recargli lerui, óc l'oggetti non i. riabbiate. Efopo parimente hauendo
prefo a difendere in Samo vn potente Cittadino, vfurpator delle loftantie
publiche, Se per t tal caul'a acculato, Se polio in pcricol d'cllcr
condonato a morte; 14 dirte trai altre cole in difenfion di lui, che vna
Volpe gia,volcn« do paflare vn fiume, era caduta in vn follo, Se non
potendo per la cupezza di quello vfeirne, era (lata quiui tutta afflitta
affai buon tempo con grande incomodo, et difàgio fuo. Se trà gli altri
mali fc le eran col morfo appiccati addollb molti tafanelli, o \cfpe
canine, che glivogliam chiamare. Eceflcndo ftata acafo villa da vn Riccio,
o ver da vno Hiftrice, che quiui errando andaua j com mollo a pietà di lei, la
domandò s'ella lì contentaua, ch'egli le leiiallc da dolio quei tafanelli,
il che elTendogli da lei negato,& domandandola egli per qual cagione
la non lene coni£ tentalTe, ella così gli nfpofc. Quelli animaletti hormai
fon quali pieni, et fatij dellanguc mio, Se poco più horamai nefugono.
Qfr doue che fe tu cacciandogli mi libererai da quelli, verran
(libito degli altri tutti affamati, Se finiran di fucchiar tutto lauanzo
del 15 fanguechc mi èrimafto. In quello raedefimo modo o Cittadini di Samo
(diceua Efopo) collusene voi cercate di gal^gar', frollandoli già fatto ricco,
non vi fa quafipiù danno alcuno, ina fe voi condennandolo a morte, ve lo
leuaretc via dinanzi, non machcran di fucceder de gli altri in luogo
fuo,poueri, Se bifognoli, li quali vfurpando, Se furando, non refteran di
confumar quel, t6 ch'ancora reità delle follantie publiche. Mora così
farri apologi, ouerfauolc, fon molto accommodatc aquella forte d'orationi, Z
che jyg 'Della Teorica d 'ÀrìUotelt^ che fi Tanno alla moltitudine.
et han quello di bene, chedoue chegliè cola difficile il trouar cali, et fatti
veramente accaduti, clic fien limili a quello, che inoltrar vogliamo j il
trouar così far28 te fauole, non c difficile : eiTendo in poter noftro il
fingerle, et formarle ad immaginatiooe, fi come le parabole, ouer
lefimilitudini ancora : purchel'huomo fiahabile a fapercauuertire, et conofeer
la fomiglianza, che fi truoua tra le cofe. Il che potrà rendere in gran
parte facile, l'aiuto della Filologìa. Son dunque affai facili a poterne
diuenir copiofe, le fauole. ma nelle confulte fon più vtili gli eflempi, che
proecdon conlecofc dette, 32 veramente accadute: pofeiache per il più lecofe,
che vengon poi, fon fimili a quelle, che nel paflato fono auucnute prima
Quantoallvlo dcircifempio poi,a!hor farà bifogno all Orarore d vfargli clTcmpi
in luogo di demoftrationi,& d'Enthimemi, quado nó harà Enthimemi. ma
quado nó gli raacarano Enthimemi douerà vfar gli efTcmpi,quafi in luogo di
tcmmonij,ponc« dogli peraggiuta,& cófermationedoppo gli Enthimemi.
Perciochegli elfcmpi porti innanzi a gli Enthimemi diuengon fimili a vna
induttione: ne è dubio, che linduttione all'orati oni oratorie non fia punto
propria, et vrile fenon molto dr rado, ma fe fi pofpongono, vengono a
renderli fimili a temmonij, li quali inoqni luoj;o,che fi truouino, fono vtili,
et badanti a far fede. Et per quello ènecellàrio a colui, eh antepone gli
clldnpi agli Enthimemi, il porne, et 1 acidume molti : douc che a chi gli
pofpone, et pon doppo, balla, fenon più, daddur3 ne,& di porne vn folo :
pcrochc vn fol te (limoniodegno di fede è badante, 6V vrile a prouare* 40
Quante fperic adunque d'eikmpi licno,& in che maniera Se
quando s'habbian da trat ta r e, et da porre in vfo, riabbiamo a ba
danza fin qui veduto. Jl Secondo libro. j 2)^& Sententie
oratorie, f^*// ///tf* / et per falute della propria patria : over s'vno
altro volendo dare animo di combattere a quelli, eh in minornumero dei 45
nemici fulleio> dicefle, che Marrec cpmmune. o fe parimente qualch'aluo
fulTe, che volendoci efortarca cor la vita a i figl^chc iien reftati d
vno, che fia (lato vccifo da noi ; per inoltrai ci, che tal cola non fia
per eilereingiuflamente fatta, dicelle> lìolco,& lenza intelletto e
colui, c'hauendo vccifo il padre, lafcia i figli re44 ftareinvita. Appretto di
quelìo alcuni prouerbij (ono, che fenten tic (limar fi deono,* cornee quel
trito prouerbio, Foreftiero 45 in Athenc. Conuieneancora alle volte, Se e
lecito dir 'fen. lentie pppofte, et contrarie a quelle, che già per
innanzi diuulgate, et fa mofe fieno. et per famofe, et diuulgate le
intendo io, come è (pei efìempio) quella, Cognolcc teflello> et quell'altra,
Nell'una 46 cola vuole eller troppa. Étalhora (penalmente fi dee, et Ci
pup far quefto, quando (i vien con quefto a porcr dare apparcntia
di maggior virtù, et di miglior coftumc, o ver quando
trouandofi colui, che parla grandemente conturbato, manda fuor le
parole 48 concitare da qualche grauc affetto. In calo di pertuibation
d'affetto farebbe (per eifempio) s alcuno frollandoli tutto infiamma to
d'ira, dicelle cfler fallò, et non ragioneuolmcntc detto, che biibgni
conofeer fe medefimo : percioche fccoftui hauclfc ben conofeiuto fe Hello,
non fi farebbe giambi llimato degno d'efler 49 Conduttiero, et Imperaror
di quello cirprcuo. In cafo poi di dareapparentia di miglior collume,
farebbe ( per eifempio) s alcun diccire, che non con ui erre aruar, fecondo che
dicono, come fes'hauefle doppo ad odiare ; ma più rollo per il contralio
conuicne odiare,come fe a qualche terupo dappoi s haiieUe ad ama che in
neiftina cola (ha bene il troppo, Jl Secondo libro. ifj po,cociofiacofachegli
fruomini federati fi dcbbian fuor di moJ5 eia odiare, Recan veramente le
fenreniic molte vii] tra non pic$6 ciolc all'oratione. L'vna prende occafionc,
et fomento dali'miJ7 petfettione, Se \ anità de gli afcoltatori. percioche
quando fencon, ch'alcuno in dir cjualchecofa in vniuerfale,li rincontri
apu to con la (leda opinione, ch'elfi n haueuan prima in
particolare, jS godono, et guftano in ciòdilctto. ma meglio quel, eh io
dico potrà capirli, Se renderli manifefto, quclto modo : et io fieni emete
potrà farli chiaro in che maniera s'habbian da crollare, et da }9
procacciar le fententic Già fu da noi neldimnir di (opra la (crftentia detto,
eller quella vn proferimento,© alic i i mento, o cn m ciationc, chela
vogliam chiamare, fatta di qualche cofi in genero rale r ondccoloro, che hanno
prima generato nell'animoopinion di qualche cofa in particolare, quando poi
Icnton conformarli con quella tale loro opinione, quel, cheli proferi fcc in
vniuersale ; prendono in ciò piacere, cornea dir (pei elìèmpio) che salcun
farà, c habbia incomporrabiIi,& pcllìmi Vicini appretto; o vero
fcelerari, Se viriofi figli ; accerrerà, et approuerà per ragioneuolmente
detto, s'ad alain fentirà dire in vniuerfale, non eltcr la più moietta, et
noiofa cofa, chel'haiier vicini : o ver che non può 1 huom far cofa più
(tolta, che cercar d hauer figliuoli. 61 La onde fa di meitieri di procurar di
conofecre, Se far conicttura prima, &: fàper in fornma, quali fieno i
pareri, et le opinion de gli afcoltatori, et di poi con la fentenria
adherire a quelle, com6$ prendendolcin vniuerlale. Et quella» c'habbiam detta è
vna del6+ Letalità, che reca l'vfo delle fen renne. Vnalrraven'è' poi, Se
di maggior momento, et è, chele feruono a firl oration coltnnn6$ ta. tic
alhor fi dee dire, chel oratione habbia collii mc,quando in> 66 elfi
appari elettione, c'1 voler di colui, che parla, il chetimele fenrentic
fnno ; comequelle nellequali, colui,chcrvfa Se le prò ferifee, altèrifcein
vniuerfale quel, ch'egli ftima intorno aqual6j che cofa theibile. Laondefe
buone, Se honeftefiiran le fentcnciefaran confeguenremente buono, et virtuofo
apparir colui, *S chele proferifee Della fententia adunque per
conofeer che cola ella fia, Se quante fpeiie di quella fiano, Se
in quale occalione, Se tempo fi debbiano vfare, Se quali vulirà
finalmente rechino, può ballar quanto fin qui fi è detto / S 4. TteRa
'Retorica d* Arìttotdc^ (apo 22. TV gli Gnthimemiì et de i
precetti necejfarij all'vfi di quelli. Et quali fi ano gli ènthimemi
puri prouatiui, £f quali gli redarguitimi et reprobami. I leieciie loro. concionacela
che queite due conli3 derationi fiano tra di lor diuerfe. Che l'entimema
adunque fia vna certa forte di ullogifmo, già habbiam noi detto prima, de
pa 4 rimente di che maniera fiafillogifmo, et in che cola dai iiliogif5 mi
dialettici differifea. Pcrcioche in quefto da eflì è diuerfo, che non
bifogna nell Enthimema raccoglier le conclusioni da premei fc molto con la
lor vniuerfalità remote : nè manco bifogna prcn6 der tutte le cofe, a
raccoglier con concluiìonc. pofeiache la prima di quefte due cofe con la troppa
diftantia renderebbe la pruo 7 ua ofeura : et l'altra darebbe apparentia
di fuperrìuità, et di garrulità, raccogliendo, et fillogizando cofe totalmente
manifelte» 8 ¬e. Et quefta fi dee iti mare cAcr la cagione, che con
maggior facilità, perfuadono alla moltitudine coloro, che fon poco periti,
et di pocaerudirione ; che non fan gli eruditi, c i periti. $ come ben moftran
di conofeere i Poeti, facendo appreflb la moltitudine parlare gl'imperiti, et poco
eruditi, più gratiofamentc, 10 et più attrahibilracntc. concioiìacofa che
i dotti, et gli erudiri nelle pruoue loro procedano con caufe communi, et per
vniuerI I falità remore : douechc gl'imperiti procedon con le cole,
ch'in particolar fon lor note, &c che più propinque, Seal fenfo
(kclTo 11 più pronte fono. Per laqual cofa non li deon formare,
«Scdedur gli Enrhimemi da tutte le propolìtioni, ch'in qual fi voglia modo
pollono a qualunque fi lia parer vere •> ma da quelle, che pof1 * fono a
determinate perfone parer tali ; come a dire a gli afcoltatori, c hanno da
giudicare, o vero a tutti, o alla maggior parte di quelli, il giuditio dei
quali fiaapprouato, &c (limato da gli ftefli, } giudici^ Ji Secondo
lihró. igy l $ giudici, o dalla maggior parte d'elfi. Parimente non fi dee
raccogliere, 3c concluderne gli Enthimcmi (blamente da premefle necclFane,
ma ancor da quelle, che fon vere per il più, over per : la maggior parte.
Horquanto alle communi auuertcntic, che s'han d'hauere intorno
aìl'cnthimema vniucrlàlmentc confideràto, primieramente s'hadauuertire, che di
qual fi voglia colà, di cui s'habbia da dire, de da fillogizare, o con
lillogifmo di materia ciuilc, o con qual fi voglia altro, fa neccllariamenre di
meftieri,chc fi pofl'eggan per note, o tutte, o almeno alcune di quel x 8
le cofe, ch'in efiTa li truoiiino, et d'cllà ii verifichino. pcroche
fé nota alcuna di quelle cofe non ti tìa, non barai
confeguentemert te donde tu polla di quella tal cola raccogliere, Oc
dedurre con* 19 clulioneaLuna. Voglio dir (per eficmpio) come potrem noi
dar confìglioagli A theniefi fc dcbbiam pigliare,0 non pigliare a
far la tal guerra, non hauendo noi prima notitia delle forze loro,
6c delle militie loro ? come a dir (e le fon marittime, o ver
fcrreftri, ol'vno, et l'altro, et quante fiano in numero, quai fian
l'entra-ic, quanti i danari, et quali, et quanti fiano o gli amici, o i nemici
loro. Et oltr.i di quello quali fiano fiate per l adierro le guerre, che
gli hanno hauute, et in che manicra,& con quai fuc a 1 celli le
habbian maneggiate, et altre cofe tali. Medefimamcnre come potrem noi
parlare in lode,& gloria loro, fe non ci farà mi fintamente nota la
battaglia nauale fatta appretto di Salamina, o il fatto d'arme di
Marathone, o l'opre egregie fatte per la faluezzadc idefeen denti dHcrcole,
oaltre lor cofi fatte gloriofe imai prefe? pcroche tu ti i coloro, che han da
dar lode ad alcuno, Ihan da cauarc dalle cole lodeuoli, che o fiano, o
appaia che fiano iti \ elfo. Et perla medefima cagione dalle contrarie
han da dedurre il bial mo : confiderando (e alcuna di quelle fi truoui
veramente in colui, che biafmar vogltofro, o almeno appaia, che vi fi
truo«i. coroefe in biaùnar ( perch'empio ) gli A theniefi fidiccfle, che
eglino Aggiogarono, cVa fc fcccr fuddita, ck fcrtu tuttala preda: et che
clfcndo Itati gli Egincti, et li Potideatiin aiuto, 8c ki cópagnialoro
contra 1 barbari lor nemici ;-6c ellendofi in cjò portati
cgregiaméte,& có gran valore, erano Ilari nódimcn da loro in fcruitù
ridottile*: fe finalmcntein altre coli ratte co/e, hauef Icr cómelTo gli A
theniefi errore; onde venir loro ne porcile biafi; rao.Nó altrimcci ancora
coloro, clic nelle caufegitidiciali accufaA a no,o / 8 slla r R^6rtca d
'Jrìftotelzj no,o difendono,altróde nó traggon le nccufationi,&
ledifenfioni, che dalle cofc,che fi truouano,o fi verificano nella cola, del
la 16 quale eflì trattano. Ne importa punto, o fa dirferentia alcuna, per
far quanto habbiam detto chela caufa di cui fi tratta, riguar di gli
Athenicfi, oi Laccdemonij, oqualchc huomo, o qualche Dio,oqual fi voglia
cofa. pcrciochc le (per ellcmpio) voleffimo dar qualche conliglioad
Achille, o veramete voleilìmo lodarlo, o bialiraarlo, o accufarlo, o
difenderlo, farebbe bifogno, che procacciaci mo, Se come note pofiedeflìmo
le cofe, che in Achil le fi truouano, Se che di lui verificar fi poflbno,
o ch'almcn fi eie &S dc,chc vi fi truouino, Se fc ne verifichino :
acciochc tra quelle prcndclltmo in lodarlo,o in biafimario fe alcune ve ne
fufler dell’onefte, o delle brutte, Se in accufarlo, odi fenderlo, fc
alcune jo vi fu (Ter delle gi urte, o dell'i ngi urte :Se in dargli
finalmente configlio, prendemmo quelle, che vi lì
trouafleroodannofe,ovtili. 51 Ilfimil parimente in tutte l'altre cofe
intender fi dee, fecondo c'habbiamoin quella d'Achille detto : come a dir,
chefes'hada trattare, Se cercar fe la giuftitia fia bene, o non bene,
dalle cofe, chc # nella giuftitia, o nel ben fi truouano, o di lor fi
verificano, 31 harem da prender le parole, et le pruoue noftre. pofeiache
in qucftaguilafi vede, che procedon nelle loro argométationi
tutti coloro, che fillogizano, o più efquifitamente, o più grollàmcntc,
che qucfto facciano, peroche non tutte le cofe,che vengon lo ro innanzi,
fen za di ftintione alcuna prendon per dedurne le loro argo mentati oni, ma
quelle (penalmente cleggono,c han qualche ìnherentia. Se verifica tion nella
cofa,chc particolarméte han da provare. Et che così fi debba fàrcoltra
rcfperiétia(come habbiam detto) ci s'aggi tigne la ragione ancora: per erter
manifefto, ch'impofllbil cofa fia di provare, Se di moftrarc altrimenti,
che nel modo, Se con 1 auucrtenria detta. Onde è mani fcfto, che
fi come fi dice nella topica, auuenir ne i fillogifmi dialettici,
è uccell ino d'hauer prima, che s'argomenti, la fcelta di quelle cose,
ch'intorno a qual fi voglia foggetto, pollbn d ello verificarti, 0 per
qual fi voglia occafion venir per caufa di quello in vfo. Et in quelle
cofe medefimamenre, le quali di prefente, Se quali allimprouiftaci fon pofte
innanzi, fa di mcfticr di farla medefima preparation e, Se viaria
medefima auuertentia, d'hauer l'occhio a elegger, non tutt c quelle cofe,
che come indifUnce, Se communi diJl Secondo libro. j oi dinanzi vengono;
ma quelle, chadherenti fiano, &habbia« no in fomma a far con quelle,
di cui s'han da diffonder le pruoue, et le argomentationi : procurando
nnalmcnted haucrne in maggior numero, che fi polla, Se quanto più fi polla
vicine Se appropriate alla cofa (Iella, concioiìacofa che quanto maggior numero
haremo di cole c*'habbiano inhercntia, et verifìcation ne i (oggetti, ch'a
trattar s'habbiano, tanto più facil fia per elfere il trattargli, Se il
far fopra quelli le pruouc noftrc. et quanto dall'altra parte più faran vicine,
Se congiunte con quei tai foggerei, tanto più appropriate, et mcn communi,
verranno ad ellcre. per comuni intendo io,comc farebbe fé per lodare
Achille lì dicefie, ch'egli era huomo, ch'egli era heroe, ofemideo, che vogliam
dire j Se ch'egli militò prefente nella guerra di Troia, tutte quelle cofefi
poflbn dir communi ; come quelle, che in molti altri ancora conuengono, Se
fi verificano : Se per confeguente chi in quella gitila lodalfè Achille,
niente più verrebbe a lodar lui, che Diomede ancora. Per appropriate poi
intendo io quelle cole, che in nell'uno altro (oggetto fi truouano, Se fi
veriricano, che in qucllodi cui trattiamo, comeadire in Achille l'hauer lui
data la morte a Hettorc fortiflìmo fopra tutti gli altri Tro iani ;
l'hauere vcciCo Cigno, ilquale, hauendo da i fatti di non potere ellcr
ferito, impediua ai Greci lvfcir delle nani peraccàparfi in tcrra^'elfere
andato all'imprefadi Troia di più renerà età, ch'alcun degli altri principi
della Grecia, Se l'cllèrui andato di fua volontà lpontanca,fcnza elfere a
quello a(lrctto,come tuc43 ti gli altri, da giuramene et altre cofe così fatte.
Qucfta, c'habbiam detta, c dunque vna auuertentia, ch'intorno agli Enthimemi
s'ha d'hauere, Se confitte nell'elettione, et fcelta delle cofe verificabili Se
inherenti a quel, che s'ha da trattare,come habbiam veduto, Se è in così fatte
auucrtentie, come primo luogo. Segueal prefente, che noi diciamo degli elementi
degli Enthimemi, Se per elemento intendo io il medefimo, che luogo del4;
l'Enthimcma. Ma prima che facciam quefto, e ben fatto di dir 46 quello,
che neceflariamente fi dee dire innanzi, Se quello c,chc due fono le
fpctie degli Enthimemi : alcuni fono, che fi domadano aucrtiui,o ver prouatiui,
che direttamente molliano,& pruouan la cofa edere, o non elfere. et alcuni
altri fi domandano redarguitiui, o vero reprouatiui. Se differifeon quelle
due fpeA a ij tic i 8 8 T>ella ^tprìca d'Aritiotele^> tic frà
di loro nella maniera, che dillet ilcono appreflo de i diale> tiri
l'Elcncho, et il (illogilmo. Lcnthimema adunque allertiuo, et puro pi (iii.it ;
no è cj nello, che conclude di rettamente col mezo di premcllc confette,
et conce iute per vere. et il redargmtiuo è quello, che conclude cola
repugnanre alle già concedo dute. Hor noi già riabbiamo intornoa cialchedun
gener di cau(e allignati tutti lì può di*,quafi i luoghi, ch'ad elfi generi
polfa51 no eilere vtili, cV necellatij : hauendo con diligente (celta allignato
a ciafehedun di loro, appropriate propolitioni, dalle qua* li,
comedaptopnj luoghi portoti dedurli, (k formarli cnthimemi dell'vtile, 6c del
nociuo, dell nonetto, et del brutro, del giuji fto, et dell ingiù fto. Parimente
intorno a 1 coftumi, cV intorno agl’affetti, Se a gli habiti Immani, lì
truouano eletti, &de/ j terminati da noi già prima appropriati luoghi. Onde
al prefentc refta, che con altro nuouo modo, di tutti i luoghi in commune, et non
più d vn genere, che d vno altro, tra vniucilalmentc J4 confederati,
ragioniamo, et didimamente in far quello auucrtiamo, et inoltriamo, quali
feruir debbiano a gli enthimemi rcprouaciui, o ver redarguirmi, et quali a gli
a(1èrtiui,& piouae j uni. et medefimamente quali fieno vtili a quelli
enthimemi, che apparenti, et non veri enthimemi lono, come quelli, che né
anj6 cor veri fillogiimi (limar li deono. Et dichiarate c'harcrno
turre quelle cole, difeorreremo, cV determinai emo delle folunoni,0 verdifcioglimenn,&
dell'inllantico vero obbicrioni, ch'occorron farli contra de gli enthimemi, per
annullargli, et mandargli a terra. (apo 23. T^e i luoghi communi, et quali
tra gli Enthimemi fien quelli, che di nobiltà, £f di perfezione
eccedino. N luogo dunque appartenente a gli Enthimemi affcrtiui, o ver
prouatnu, dircmo,chc (iaquello,che dai contrari) li domanda. perochefì
deeeon elfo confiderà re, s vn contrario (ì verifica d'vno
altro contrario, o negatiuamente, fevorrem deftruggetc, et concluder con
necatione, oaficrmatiuameote le coniti iute, et m Jl Secondo Ithro. iSjr f
rr, Ce concluder con arici mation vorremo. comc(pcr eflempio) diremo eli
eccola ville il vuier temperatamente, perche il viucre 4
jnrcmpcratamentc.ccata.dannofa,.,comc fc ne tede «(Tempio nell
orationMetTcniaca, douedicc, Sclagucrraè caufadi quefti prelcnii mal», con la
pace fi porri por remedio, et trouare cine j daadcllì. vno altio cirempio
può eller quello ; Senon è cofa ragioneuole accenderli d ira conerà di quelli,
di i quali lì fia. conerà lor voglia riccuuto male, parimente non lì dee co
ragione hauerc obligo, o render gratieachi contra fua voglia lia llaco
nccef 6 fttato a far giouamenco alcuno. Et in quello, altro ch'empio
ancora, Se lì vede (peno accader fra gli huominì, che molte cole fi rcndon
credibili, lequali fon veramente falle, lì dee parimente perii contrario
Iti mar moire cofe folercauuenircagli huomini 7 ch'eirendo vere,
incredibili appaian loro. Vno altro luogo è r che fi domanda da i cali o
ver cadimenti limili. conciofiacola che fi-, mi I mente faccia di
mc(tieri,che tai cali o ver cadimenti fi truouino cllerc, ononcifere. come (per
cucio pio) diremo, che non tigni cofigiuftafia bene, o ver cofa buona :
pcroche fc quello fuile farebbe ancor ben rutto quello, che nauuicn
guidamente. et nondimeno non e cofa, come bene ad alcuno cligibile 1
ellèe 5 tolto di vita «nuftamente. Vn altro luogo è poi, ilqual
confitte in quelle cofe, che l vnc all'altre fi riferirono, et vn certo
cam• bicnol rifpet:o tengono, perciochc fc (perch'empio) il farla tal, cola,c
honclto,ò\:giulìoa colutene la fa,farà ancora aira!tro,che la riceuc.cV la
pate,honefto,& giudo il patirla, e'I riceuerla. et fc farà giù Ito
^ll'vno il comandare, che la tal cofa fi faccia, firà ancoc 10 guitto ali
altro l'obbedire in farla » come parlando de i Public.™ i, ( cioè di coloro,checóprauano,&
negotiaua fopral entrate publi che) foleua dir Diomcdon te, ch'era vnodi
quelli, diceua adùque, fea voi non e cofa brutta,o infame il vender le
publichc entrare» 11 ne ancoi dee eflcreanoi cola brutra.il comprarle. puoflìdire ancora,
che fc ad vno farà cofa honefta,& gioita il riceuere,& pa tire il
tal danno,farà ancora all'altro Cofa guitta, et honefta il farlo. et all'incontra
fc farà nonetto il farlo, farà parimente honcnello il panilo. Ma e d'auucnire,
che ncll vfo del prefente luogo può alle volte accader fallacia, et fallo
lillogifmo: pofeiache s'aleno meritando la morte, perdette guittamente la
vita, none dubio, che guittamente non patine, et riceucttc tal danno,
ma non / p o T>eHa Storica eUdrìHotelcj non per quello forfc
patc egli tal danno giullamenrc da te, pollo 13 che giurtamentc non habbia
ta fatto ad vcqdcrlo. Et per quello fa di mellieri di conliderar
teparatamentc colui, che patc,s ci me ritamente, et guittamente pare, et colui,
che fa, fc meritamente, et grullamente fi, et fatto quello, feruirfi dellvna,
et dell'altra delle dette cofe, fecondo che più vedremo accommodarfi
alla cofa $ che moftrar vogliamo, concipfiacofa che alle volte fia
quan toal giullo, Se nongiulìo, tra'l patire,^: fare,qualchc difcrepanxj
ria ; ne ci e caufa, che prohibifea, che la non vi fia. come lì vede (
perch'empio) apprcilb diTheodettc nella Tragedia intitolata Alcmeonc. dice
dunque Alfcfibca ad Alcmeone ; Chi è quel trà rutti gli huoraini,chc nó
odiane tua madre? a che egli rifpondcdodilfc,chcfaccadi mellieri, che quelle
cofe,(cioc la mortc,cY li demeriti della madre) fi cótideralfcro
feparatamcrc, et diftintame te.cV domàdandolo Alfefibcn, in che modo, foggiunfeegli,
degna veramente di morte quei giudici la giudicauano -, ma non
giaap partenerfi giuftamentea me lvcciderla. Ma tornando agli
ellcm del prefente luogo, vn tale è quello,che fu vfato nella
caufa,& giuditiodi Dcmofthene, et di coloro, c’aveuano vecifo Nicanore.
percioche hauendo i giudici fententiato hauer grullamente fatto coloro in vccidcrlo>
fu parimente (limato da ratti cflerfi implicitamente giudicato in quella
fenrentia, hauer lui giutta18 mente riceuuta quella morte. Mcdelìmamentc
cflèndo ftaro ammazzato vno in Thcbe, nel trattarfi in giuditio quella
caula, tutta la forza detta pofero i giudici in difeutere fe l'vccifo era
(lato degno di quella morte : quali che per quello moftralTcr di (limare i
giudici, non edèr cola ingiuda IVccider chi fia degno, Se ts>
guittamente meriti d'etfere veci lo. Vn altro luogo è chiamato ao dal
maggiore, et dal minore, come adir (per eliempio)chc fe gli Dij no fan
tutte le cole, non le fapranno in modo alcuno gli huo mi. percioche quello
modo di dire imporra quello, che s'vna co fa non li ritruoua, nò fi
verifica in quella, doue più trouare, et verificar 11 douerebbe, è cofa chiara,
che manco fi rroucrà, olì a i verificherà in quella, doue manco douerebbe.
Ma il dir, che colui,che batte il padre,batterà ancora li vicini, &c
congiunti fuoi, prede forza da quello, cioè che s'vna cofa e vera in
quello, doue manco douerebbe, farà ancor vera in quel, doue più
donerebbe. a i di maniera che può cflerc vtil quello luogo all'vna cofa,
et all'altra econdo libro. i f / tra : cioè a moftrar, che la cofa
fia, et a montar, clic la non ila, tj Parimente può feruirea inoltrar,
clic non più, ne ancor mene vna cofa, che l'altra, ma vgualmente, Se
parimente ambedue li verifichino de i lor foggeti. Onde ha forza quel
detto, Tuo padre dùque dir lì dee milerabile per hauergli tolto la morte i
(noi figli, et Oeneo non lì donerà due anch'egli infelice,hauendo
per tj dutoil fuo figlio, ch'era lo fplendor di tuttala Grecia? Et
ancor fé lì dicelle, che feThefco non fece cola ingiù Ita in rapire Elena,
ne ancor l'ha fitta Alell'andro. Et fc il fatto dei figli di Tindaro, non
fùingiulto, ne quel d Alessandro dee eller tenuto ta»7 le. Et fc Hettore in
vccidei Patroclo, non macchiò la giuftitia, 15 ne Paride ancor la macchiò
in ammazzare Achille. Et fc gli altri artefici, &. periti d altre facultà
rton fon degni di bialmo,li Ftij> lofofì parimente non ne dcono cller degni.
Et fc a 1 Capitani de gli filerei ti, non dee recar biafmo,o macchia, alla
lor repu rattone il reftarealle volte vinti, Se fuperati,mcdelìmameute non
dee 30 queltorccarbiafmo ai Sofifti. Parimente s vlarebbe il medefìmo
luogo, fc in Senato coli (ì dicelle, Se gli è conucncuole, che ciafehedun
priuato procuri, et habbia a cuore la publica reputatione, et la publica gloria
voltra, e cofa ancor con uencuole, che 51 voi a cuore habbiate quella di
tucta la Gre eia. Vn'altro luogo 3 1 Ci truoua,óc che n'auucrnfcc, cheli
cófiderino li tempi. del qual li feruìlfìcrate nclL'oration, eh ei fece in
fauor d Harmodio.q nardo dice ; Certamente fc egli prima, ch'ei fitccilH opera,
c'ha. farlo, vi hauefle domandaro, che quando ei faccllè.vn tal latro,
voi gli concedente l'crertion della lhttua, non è dubioalcuno.che
voi promelTb,& conceduto non glie l'haueltc, hora hauendo egli
tfeguico il farro, non glielo concederere ? non vogliarc
dunque comportare, che quel premio, che gli barelle promelfo nel tempo,
che voi hauellcafpetrato il beneririo come futuro, hora in te po, che
nceuuto l'hauetc, gli fìa da voi quafi ritolto. Fu pariméte porto in vfo quello
luogo da chi perfuadcr volena a i Thebani chedouendo paffar Filippo per il
dominio loro a i danni de gli jj Athenicfì,gU co needellero il palio, eh'
ei domandaua. dkeua adunque, che fe prima che Filippo delfe loro aiuto con
tra i Foccnlijhauellc egli domandato quclto paltò cglir» certamente
glie i'harebber promelfo. onde è cofa fuora d ogni comtencuolezza» c'hauendo
lui in aiutargli proceduto con elfi con tanta gencrofiU, lenza / Ttella
Teorica cT ArìftotciLj tà, fenza domandar conditionc alcuna, per la
confidenza, ch'in elfi teneua, non gli concedino al prefente il palio.
Vn'altro luogo e ancora, la forza del qual confitte in ritorcer le ftefle
cole dette, contra di chi le dice. et fi può trouar qualche
differcntia nel modod'vfailo : fi come in vn modo fi vede vlato nella
Tragedia di Teucro. et parimente l'vsò 1 liei .ne conerà d' Ariftofontc.
pcrochc elFcndo domandato A ri fio fonte da I fiera te, s'egli per danari
li fu Ile indotto a tradir lenaui, et hauendo rifpofto, che non,*
foggiunfc Ificrate, Tu dunque edèndo Ariftofontc non le $2 tradire Iti, Se
le harò tradite io ellendo Ificrate ? Ma in quello modo d vfar quello
luogo, fa di bifogno,chc colui, cótta del qua le s'ha da vlare,fia
communcmcnrc tcnuro più di(pofio,& inclinato a far cofe ingiufte, che
colui, che 1 vfa: alrriroeoti chi 1 v fasica ppanrebbe ridicolo,comc auuerrebbe
a chi acculato da Ai iAide, nella detta maniera gli nfpondefle. In vno altro
modo fi può viar e] licito luogo con cercar di tor fede all'acculato re,
mo Orandolo lottopofto al medeiìmo delitto. percioche ordinariamente pare, che
fi ricerchi, Se sai petti, che color, ch'acculano, -& riprendono,
fieno migliori degli accufaci, Se de i riprefi. Può eflcr dunque
vtiliflìmo quello luogo vniuerfalmente a contradire a qualunque fi mette a ri
prenci ere altri di quello ch'egli itefiò fa, o farebbe, o veramente ii
mette ad eforrar,che fi Ceciati quelle cofe, ch'egli non fa, o non farebbe mai.
Vn'alrro luogo li truoua chiamato luogo dalla dimni:ionc:come le
diccflìmo,i De moni non elfere altro, che o>gli ftcflì Di
j,oopcre>& fatture de (fi dij. onde qualunque (limai a cllcr 1 opra
de gli Di j> verrà uccella riamente a fti mar, elicgli Di) lìano. Se
come parimente d' vno» ches'infuperbiua pcreiferdel
fangued'Harmodio,.& d'Ari ftogi ione, difie Ificrate, genero filli mo
eflcr colui, che ila ottimo, et valorofiflìmo: conciofiacofa che in Harmodio»
et in Ariftogitonenon ha 11 elle luogo cofagcnerofa alcuna, prima ch'operaro
no haticlTcr quel gcncrofo farto. et che più congiunto, et prollìmp era
egli loro, percioche le mie anioni (diceua egli) et li mici gc4ti» fon più
propinqui, &: più congiunti a quelli d Harmodio, Se d
A"(logitonc,che non fono i tuoi. Parimente in quella orazione, che/u fatta
in fauord'Aleflàndro, fi legge folci li da tutti có/cilarc, eh i lafciui, Se
poco in amare nonetti fon queili, che non fi contentano, ne filàtiandi
fruire, et godere vn corpo lolo. Socrate Jl Secondo librò. Si i
$3 Socrate ancora rendendo la ragione perch' egli non voleua andare a
crouarc Archclao,diceua douerfì ftimare efler contumelia, Se vergogna il
non poter rare in vn certo modo vendetta, et ricompcnià, cofmci benefitij, che
lì riccuono,corac nciroffefe. Tutti quelli adunque ne i già porti cifcmpi,
hanno primamente con difrinir la cofa, che vogliono, moftrato quel,
ch'ella fia,& di poi con la forza di tal diflinitione, han proceduto a
prouarc l'info tento loro. Vnaltro luogo e ancora, il qual prende vigore
dalla moltiplicata fignificatione dvna medefima parola, fi come
nei libri della Topica fen'c addotto eilcmpio dell'aiiuerbiogrcco
hor thos, (che lignifica appreso di noi, rettamente, et appretto de
i 5 1 Greci è parola moltiplice, cioè di più lignificati) Vnaltro
luogo fi truoua poi fondato nella diuifionc : come fc noi diceflìmo,
le tutt» quelli, che fanno ingiuria, per vna delle tre caufe la fanno, o
per quella, o per quella, o per quell'altra,* per le prime due chiaramente
è imponìbile, che coftui l'habbia fatta ; Se quanto alla terza, gli
accufatori (tedi non l'adducono, né 1 han per vera, 51 Vnaltro luogo è
poi, chedepcnde dall'indù ttionc ; come fc ne 5$ ycdecirempioin quella
lite, ch'accadde ncll'Ifola di Peparethia. douc cercando vnodi prouarc, eh al
giuditio delle ftefle madri in ogni luogo fi fuol rimetter la
detetminationc di chi fieno i Égli 54 loro,* diceua che in Athene
dubitando Manthia oratore, fe vno era veramente fu o figliuolo, fu decifa
la caufa fecondo la de55 termination, che ne lece la propria madre, quclìo
medefimo auucne in Thebe: douc efiendo controuerfìa tri Ifmcnia,&
Stilbone di chi loro filile figliuolo ThcfiTalifco, Dodone fua madre fu
quella, che col fuo parer dichiarò, che gli era figlio dlfmcnia; Se per
quello fù poi fempre minato, Se chiamato Thefialifco d'If $6 menia.
Theoclcttc ancora vsò quello luogo in quella fua oratió 57 della legge, douc
dice,fe a coloro, che trafeurati, eUa T{etprica d* Ariti otelz^ quando per
prouar, clic eia nitri fono honorati gli huomini fa61 pienti, come lì voglia
che nel relìo fiano, dice clic quelli dell'Itala di Parohebber grandemente in
honore Archilocho, nò ofta re che fu Ile mordaciflìmo mnldiccnrc. quei
dell'Itala di Chio, hebbero in honorc, et in venerationc Homero,
quantunque Cic tadin lor non fufTe. Saffo ancora, non olìante che Tulle
Donna, fu fopramodo celebrata, Se tenuta cara da quei dell'Itala di Mi€1
tilenc. I Lacedemonij parimente, ben che per l'ordinario non fian molto
amatori de gli ftudij delle buone lettere > per honorar tfj
nondimcnChilone, l'accettaron nel lor Senato. In Italia ancora fu
Pithagora tammamentc reputato, ancora ch'egli forclìicro in ^4 auclla
prouincia fulVc. fi come forelticro, et peregrino era Anaf (agora a i
Lamfaceni,& non di manco lhonorarono d'ornatillìhio fepolcro, Se aheora
hoggi duran di celebrarlo, Se d'hauerlo in pregio. V farebbe ancor quello
ftelfo luogo dell'induttione chi volendo prouar, che le Città, che lì
goucrnan col con figlio di huomini fàpienti, viuon taliccinenic, dicefie,
che gli Athcnicfi mentre che vfarona, Se olìerwaron le leggi di Solonc, furon
Tempre felici : de il medefimo fi puòd'irde gli Spartani, mentre,
che vifTer con le leggi di Licurgo: Sé in Thebe parimente, come
pri^ ma in man d huomini fapieriti, pieni di hlofoha, venne la
po> renria,& l'autorità, cominciò quella Città a poter parer
felice. 66 Vn'ahroluogo fi truoua ancora, ilqual depende dal
giuditio,che altra volta lilla fatto, o della fìeUa cofa,o d Vna-fimUeo
d'vnftOó traria. Se miiflìmamente fc diluii iti^^fcroprè farà flato
cengia dicato: Se tatton da tutti gli huomini, almen dalla aggior parte, o
ver da tutti li fapicnti, o almen da ì;più, o da i migliori. et parimente fe farà (tato fatto altra volta
tal giuditio da quelli Aedi giudici, dinanzi a i quali è la cauta ; o ver
da pcrlonc, i cui pareri fian da loro apprezzati, o da perlonc
finalmente,al cui giù ditionon fia lor lecito opporli, come lana fe lor
(ignorilo padro ni tallero, o vertali, che non fu ile cola honctìa d efler
lor contrari) nel giudicare, quali ( per ellèmpio) fon gli Dij, i padri,
li precettori, Se fimili. fi come Autocle vundo il prefentc
luogo ditfc, contradi Miflìdemidc, le l'Eumenide, che fon Dee no
recufarono, ma fi compiacquero d agitare, Se tartopor la caula loro fieli
Ariopago,recufcràMiiIìdemide,o non fi contenterà di farlo? over come
diflè Sarto eirere infelice, et mala cofa il morire, Jl fecondo libro. j
pj rire, poi che gli Di; coli giudicano : perche fe con" non
haueficro ilimato.non edubio ch'ancora em* nó haueiler voluto poter
morire. Arithppo ancor lì valfc di quello luogo centra di Platone: concioiìacofachchauendo
detto Platone non io che alquanto troppo azeramente, et ouinatamente per
quello, eh ad Ariftippo pareua, fc gli oppofe con dire, eh vna coli fatta cofa
non ap74 prouaua l amico loro, intendendo egli di Sociarc.
Hegelippo parimente nel domandar con àglio dalloracol d Apollo in
Delti, li feruì della ri (polk fattagli daiYOracol di Giouc in Oiimpo ;
domandando Apollo, fcil medefimo pareua ad elfo, che era al padre fuo paruto:
come che lì itimilfoch ad Apollo haueueda parer poco bonetto l'oppor li al
padre, liberate ancora per confermar che Helena full!virtuola fiata, dille che
coli l'haueua «iu76 dicataThefeo. Se per confermare il valor d Alcllàndro,
allegò che per tale le ftellc Dee giudicato Ihauetiano. Il medelimo llocratc
ancora per mourar,ch'Euagora fuiìc huom d egregia virtù, addulTe il
parere, cV giudi tio di Cononc : il qtial nt gli auuerfi, et calamitoii cali
fuoi, pofpofti turti gli altri potenti Principi, cjcucdi rifuggirli ad
Euagora, Se di confidare alla v irt ù, Se alla 7* feded elio la ialine
fua. Vn altro luogo c poi, il qual li può domandar luogo dalle parti, fi come
nella Topica 11 è porto in cflempio, qual ione di mouimcntofia quello dell
anima: perche «ella fi muouc, bifogna che o di quello, o di quel moui
mento li 7) muoua. Se ne vede ancora edèmpio nella difen/ionc, che di
Socrate fece Th codette, quando egli dice, Qual Tempio, o altra t* cofa
facramottrò mai Socrate di non hauere in honore, odi dtfprczzarc? qual di tutti
quelli, che la Città fua appruoua.cc ticn • So per Iddij, non ri ueiK Se
venerò egli tempre > Vn'altro luogo fi truouapoi, che fi può chiamar da
i confcgucnti,ilquale, perche nella maggior patte delle cole accade, che
fegua, et vada dietro lor qualche cola di bene, Se qualche cofa di male ;
c infegna, Se c inrtruifcc a confiderai quella cofa, che fegue, Se col
mezo di quella fuadere, o dilTuadere, acenfare, o difendere, et lodare,
o *i vituperare, lecondocheci torna bene. come(percircmpio)all enuluionc,
Se di(ciplina delle buone lettcre.feguc di male l'Ulcrc inuidiato,
7 54 cafchi : come fc ne vede effe m pio in vna argomentation di fiorare. percioche
hauendo egli vn figlio d'era molto renero, «5c quafi fanciullo, ilqual per
erfer di flaturadi corpo, alto adii più, che l'età non comportaua, era
ricerco dal magiilratoa fopportare i carichi, Se le fatighe publiche ; dille in
difcnlìon di Un Ifìcra te, clic fc llimauano, che i fanciulli alti,&
lunghi della perfona fuilèro huomini maturi, doueuano ancor
ragioneuolmentc ftim.irc, Se giudicare, che gli huomini maturi piccioli, et bafli
dcl$6 la perfona, fu itero fanciulli. Theodettc parimente fi feruì
dique fio luogo nella fua oration, che fece delle leggi, dicendo, Se
voi hauetc donata la città dinanzi a quelli de i nollri loldati
mcrcennarii, ch'egregiamente fono fati vtili a quella Città, fi come hauetc
fatto a Strabace,& a Charideno, non faretevoi efuli,& fcac darete
dalla Città quelli, che le fono Itati con la loro infolcntia, 57 et infame
viltà dannofi ì Vn altro luogo è quello, che confitte in voler, che fc vn
mede fimo accidente nafee da più cofe, fian parij8 mente vna ftelTa cofa quelle
cofe, donde egli nafec. come (per effempio) argomcntaua Senofane, dicendo, che
nonaltrimenti fi dimoftrano impii, Se poco religiofi coloro, che pongon la
nafcitadcgli Dii, che quelli, ch'affermano, e riabbiano ancora elfi a
morire : conciofiacofa che all' vna, &: ali altra di quelle pofitio #
ni fegua, ch'in qualche tempo gli Dii non lìano. Et fi può in fom ma vfar
quello luogo in pigliar nella conclulìone quelle cole vna per l'altra,
come s'vna (Iella cofa fiano, dalle quali vno Hello acxoe cidentenafec. come
faria (per essempio) dicendo, Ilgiuditio, chefete per fare in quella
caufa, et la fentenria, che fetc per dare, non riguardarà veramente Socrate, ma
lo (Indio, cheshabbia a porre intorno a la filosofia, fe fi debba più
lìlofofarc, onò. et in quello altro elfempio, ch'il dare acqua, Se rerra, non
lìa altro, che darfi in feruitù. Se in quello altro, che il volere accettare,
Se entrare in quella pace commune, non fia altro,ch obligarlì 103
d'obbedire alle volontà de gli altri. Sidee dunque con la virtù di quello
luogo, delle due cofe, dalle quali vnollelTb accidente nafee, pigliar
l'vna per l'altra, fecondo che ci larà più vtile. 104 Vn'altro luogo prende
forza poi dal diuerfo volere, c hanno in ti inerii tempi gli huomini, in
non clcggcrco volere vna ftellà cofa in vn tempo prima, o in vn tempo poi, ma
IpeiTc volteil contrario. come ne può eilete elfempio qucll Endnmcma; Se
quan per il quale deb biamo auuertir, fencl fatto sinchiudon cole,
ch'in elio f acciari contradittionc, o repugnantia alcuna. fi come
l'vsòScnofanc re fpondendo a 1 Cittadini Eleati ; li quali domandato
haueuan da lui conliglio s'eglino doueuano vfar di pianger quando
facufìca uano a Lcucothea, (o Matura, che la vogliam chiamare )
rilpofe lord unqiie Senofane, che s'eglino haueuano opinione,
ch'ella fu ile veramente immortale Dea, non doueuan piangere : óc
fe per Donna mortale la reputauano, non le doueuan facrifìcarc, 14 j
Vn'altro luogo riabbiamo ancora, la cui forza è porta in confiderai
qnalch'crror di difauuertentia, &con laconfcflion di quello accufatc, o
difenderli, come ( per elTèmpio ) nella Medea di Cai ci no, gli accufatori
di Medea le imputauano, de l'incolpauano, ch'ella hauclle vccilì i figli, poi
che elfi in alcun luogo non compariuano. Laqual accula haucua prelo
occafione dall'crror, c'haueua fatto Medea d'hauer fegrctamente fatto
allontanarci figli per faluargli. ÓVellainfua difenfion diceua, c hauendo
da fare vecifione, non i figli, ma Io fttlTb Iafone harebbe vecifo.
Ór che quello era flato veramente l'error fuo, il non hauerlo vecifo: et ch'in
vero harebbe ella peccato a non far tal cofa, fe quella al149 tra haueilc fatto.
Da quefto luogo, et da quello modo, et forma di dedurre Enthimcmi, è comprefa
tutta la prima parte, o ve i/o ro il primo Libro dell arre di Theodoro.
Vn'aUro luogo è ancora, ilqual prende forza da 1 nome della colà, o ver dall’etimologià: ^ i
J i già : qual luojjo vsò Sofocle, quando parlando d'vna Donna
cru dele.chiamara Sidira,chc ridotta in lingua noitra lì può
chiamar Ferreria, dille, che conuenctiolmcntc portati^ ella quel nome. i
Ji vfato ancor lì vede nell'Odi, Se ne i Canti, che lì fanno in lode de 1
Si g M Dei. Conone ancora folcita dir,chcThtalibulo,cra veramétcThrafibulo
(cioè remcrario,&: precipitofo ne i configli fuoi. ) i J4
Medcfimamentc Herodico diceua, a Thralìmacho, che femprc farebbe
Thralìmacho (nome chea noi luona litigiofo, cV audace i/f in contender
femprc.) Et a Polo foleua dire il medefimo Herodico, che femprc era Polo (nome,
cha noi importa, di fanciullc\$6 fca lafciuia macchiato. ) Di Dracone
legiflarorc ancora era detto, che le leggi fuc, non cran d'ini omo, ma di
dracone, cllèndo i $7 in vero molto afpre, rigorofe, 6V difficili ad
ollèruaru". Appretto d'Euripide ancora dice Hccuba conrra di Venere,
Non lenza ragione ri domandi tu Afrodi te,elfendo tu la Dea della ftoltitia,
Se il rifugio de gli (tolti (che cofi fuona nppreflo de i Greci quel noi
j8 me.) Chcrcmon parimente dille, che Pcnthco fu cofi chiamato, quali che
con quel nome s'indouinallcr le future calamitofc miferie fue. Trà gl’entimemi
poi li redarguitiui, o ver reprouatiui eccedon di gratta, Se di forza gli
allertili :, et puri, Se direttalo mente prouatiui . perochc raccogliendoti in
vn ccrro modo in 161 riftretto i contrari; infiemencll Enthimema
redarguitiuo, vengon porti in quello modo in parragonc a farfi più nianifcfti a
gli 161 afcoltatori . Ma di tutti poi gli Enthimcmi, et liilogi imi, coli
redarguitiui, comcaHertiui,quclli maflimamcnte fono atti a commoucrc,&: a
fare imprcifion ne gli animi degli auditori, Se con maggior quali applanfo
fono acccttarì, liquali non ptima a proferirti fon cominciati, che chi gli ode,
coniettura, Se comprende i *3 il resto pcrfemcdelìmo. Se ciò,non perche
caufa ne fia la troppo 164 fu per fi ci al facilità, Se chiarezza loro ;
ma perche fon formati in modo, che gli auditori poflbn con 1 ingegno loro
preuenire l'in16 f tclligentia d'elfi, Se fentir di ciò gran diletto . Son
doppo quelli Eni h irne mi in fecondo grado d'cccellentia quel li, a
i quali tanto oltra a punto feguon dietro con l'apprcnnon quei, che gli
odono, quanto che Cubito, che fon finiti di proferirli, fon da
quelli fenza fatiga imeli . ìf C a P° Jl Secondo libro. 2 o
j 24.. Che fitruouino Snthimemi apparen ti, et quali epftano
h&dei luoghi communi, che pojfon lor Jerutrc^j . Onciosi acosa che
poflìbil Ha, che fi rruoui vna for. tcdilillogifrai, che veramente fon
fjllogifmi, Se vna fortedaltri, chefillogifmi veramente non fono,
mano paion dellere; nè feeue necctfariamente.ch'eircndo afi entimemi
ancora etti lillogilm., Ciccia di mcfhcri, che di loro ancora alcuni lian
veramenteenthimemi, et alrn non cllendo ve i ri enthimcmi, habbian
nondimeno apparentia d'effi . I luoghi adunque degli Enthimcmi, che non
veri, maapparenti fono! faran quelli, che qui feguono. Et vno primieramente è
quello, / che pende dalla locutione, più che dalla cofa . nel quale
comprendendoci più parti, vna di quelle shà da intendere efler, c (
fi comeauuicncancor nella Dialettica, ) quando non ellendofi veramente
ullogizato, fi proferire nondimeno nel finc,& fi termina a conclufione con
tal modo, &con talcallèucratione, co me fillogizato, et veramente
conclufo fi fufie. come farebbe a dire, adunque non è la tale, et la tal
cofa, ncceirariamen€ te e adunque la tal cofa, Se la tale. Et tanto più fi può
faro ucfto ne gl, enthimcmi, che nei fillogifmi, auanto,chc negli entimemi
.1 dir, che fi fa implicato, Se inuolto, Se ripieno d'oppofitioni, può
facilmente parere enthimema : poi che vn colf fatto proceder non dillefamcnte
ordinato, come nel fillocifmo, elfo 10 dee la regione, et il fito dell’entimema.
Et puòqucllo modo, ? 1 ? a ? n °' C ! a biam derro ' P"er fimile a quella
fallacia, chap prello de 1 Dialettici prende il nome dalla figura della
locuzione. E a quefto modo di dir fillog.iìicamente più tolto per virtù di
lo cutione che di cofe è vtile ancora il raccoglimelo d, più
capi conclufi con altrifillogifmi . ilqual raccoglimento fatto con
ari 11 de efficacia,^ apparentia di nuouo argomento, come fe (per efle
™P»o) diceffimo, A molti ha egli recato falute, ha vendicatole U voftre
ingiurie ha ridotto nella fu a libertà la Greca. Gafcun aunquedi quelli
capi con altro appartato argomento è flato con cjulo: ma raccolti, et porti
tutti iniìcmefanno apparentia, clic Ce ij da lo2 o *Della 'Retorica
d'j4riHotelc_j doloro, quafida nuouo argomento, fi cócluda qualchal tra
colà. 1 4 Quella dunque, c'habbiam dcrta, è vna parre del primo
iopradet to luogo. L'altra parte poi Uà polla ncli'equiuocatione, ovo15
gliam dire ambiguità, et varia lignification dclleparole; come auuerrebbe
in dire, che mis, (cioè il Sorcio) fulle molto Ignorabile, 6c degno di
lodceflendo da quello denuato il nome di cola tra tutte le cofe facre,
degni (Ti ma, «Se venerabiliflìma. pcroche quelle cofe facrc,che fi
domanda milleria, tutte 1 altre di degnirà, 16 de di venerationc auanzano.
Il medesìmo auuerrebbe ancora, s'alcun volendo con lodi innalzare, et celebrare
il Cane, comprendere in tai lodi quelledellc llelle del cane in Ciclo, et quelle del
Dio Pane,clfcndo egli da Pindaro chiamato cane,quando di ce, O veramente
beato, poi che da gli Dij immortali lei chiama1 8 to vago, et delitiofo c ine
della gran Madre, et grande Dea. o ver fe periodar parimente il cane, li
di cefle, che rcltando prillato di molte cofe degne di lode, chi non ila
in alcun modo cane, nefe1 s> gue, ch'ornamento, et pregio rechi lcller cane
. Mcdefima mente vfarebbe il prefente luogo dell’equivoco EQUIVOCO GRICE, chi
periodar Mercu rio, diceire, ch'egli fulle, cenonico, ( cioè cornili
unicati 110 di bendi tij, o benefico, che vogliam dire) più che turti gli altri
Dij, pofeiache Colo egli frà tutti gli altri fi chiama, cenos, ( cioè
conilo mune). Parimente Ivfarebbe, chi diccllè, che logos, (cioè il parlare, o
veri oratione) Alile cofafopra tutte 1 altre pregiati (lì ma, pcroche gli
huomini di gran virtù, non fogliamo per ingrandirgli dire, che lian degni di
ricchezze, ma che fian degni di logos, (cioè di Ai ma, e di pregio) di
maniera che quello, eh e di eia nm, affion logu, (o ver degno di logos)
contiene non vn folo fignificaro, ma più, (cioè degno d oratione, et degno di
pregio). Vn'al tro luogo per gli E ut hi memi apparenti fi truoua ancora,
la cut virtù conulte in prendere, et dir per modo di cópofitione, quello,
che diuifo intendere, et prender fi dee, o ver per il contrario per modo
di diuifione quel, che lolamente compollo li truoua ti vero, pevoche
potendo fpeilc volrc parer, ch'il medefimo impor ti, 6V la mcdefima verità
contenga il dir la cola ncll' vno, et nell’altro de i detti modi, quello d'elfi
fi donerà pigliare, che tome». 13 rà maggiormente a commodo. Et in cofi
fatto luogo è fondata quella argomctatione vfata da Euthidcmo a prouaread
vno, che fapelTe egli in Pireo efler 1 armata, o ver le galere : pcrcioche
l'vJl Secondo libro . 2 of na, Se l'altra delle dette due cofe
fcparatamentc fapeua, cioè fapcuaeircnn Pireo, et fapeua le galere. Il fimile
auuerrcbbe sai enn volefVe prouare, che alcun (aperte il tal verfo, per
che egli hà notitia delle lettere, et charatteri di cui gli e comporto nò
cllcndo ij altro quel verfo, che quelle lettere, che Iorio in elfo.
Medclimamente può ch'ere elfcmpio del detto luogo il dire, che (e il doppio
della tal cola e nociua ad vno infermo, non gli potrà etfer tana, et gioueuolc
Li metà di qucllajcrtendo cola all'orda, Se fuora di ragione, cheduc cole
buone, Se gioueuoli, facciano, Se com1.6 pongano vna cola dannofa,& mala.
Se in querta maniera vicn de dotto quefto argomento per modo redarguiti
uo,& reprobatiuo. 17 douechepcr modo d argomento prouatiuo, Se
moftratiuo, fi de duria fe dicefìimo, nó potere eflerc vtile, et fanala
metàdi quel, eh e dannofo,pcrchc due cofe male, non po don congiunte
inlìemc fare vna buona. Se come fi voglia in (omma, che fi deduca, iS
riman per vigor di quefto luogo fallace l'argomento, fi come parimente e
fallace quello, ch'vsò Policrate, quando volca prouare,cheThrafibulo
haueuaeftinro trenta Tiranni. Nel qual'argomento peccaua egli per via di
compolìtione, volendo, che fi veri 19 ficafie comporto, quello, cheli
venficaua fcparato, et diuifo . fi come per il contrario per via di
diuifione pecca quello, ch'vfa 30 Theoderte nella Tragedia fuad Orcftc:
doue dice, Giufta cofa è, che qualunque Donna vecide il marito, fia
priuata di vita . cofa honeftaancorè, ch'il figlio vendichila morte del
padre fuo,il fat to dunque d'Orcfte fi dee ftimar giurto, Se honefto,
conrenendo31 fi in elio ambedue le dettegiufte cofe. nel quale argomento
rtà porto inganno, perche nei comporli, Se congiugnerli infieme
le dette due cofe diuifamentegiufte, non confcruan più forfè il
giù 31 fto, c'haueuan prima. Può ancor la fallacia di quefta
medefima difefad Oreftc depcnderda vn'altro luogo, che li chiama luogo dal
difetto, o ver mancanza : pcroche nell'argomento viene a lafciarfi
indietro, da chi doueua elì'er p mira, de priuata colei di | 3 vita .
Vn'altro luogo condite poi in vna vehememe, Se di caldezza, Se d'efficacia
piena efaggeratione, che o conferii! imlo,o confutando li faccia a ingrandir la
bruttezza,& 1 enormità del fatto . j4 Et quello accade quando lenza
haucr dimoftraro,o prouaro.chc la cofa fia ftata fatta, o non fia ftua
fatta, s'ingrandi 'ce con vchcmcnua, Se con rtomaco Tingiurtitia, Se lindegnuà
di quella, pcroche 2 o 6 ^eUa Tintorìe* d^rtttotelcs joche cotale
ampli fi catione, et ingrandimento, fa fenza altro,pa rcr,ch'il reo non
l'habbia fatta 'eghèquchcncrcfaggera, ©^ 1 in grandifee, o ver ch'egli
l'habbia fatta, fc l'amplificatore, et lcfag$ r getatorcè colui, ch'accula.
Quello modo dunque di procedere, non è veramente enthimema : concioiìacofachc
vengan per elio a cader da fé (ledi ne i lacciuoli dell'inganno gli
afcoltatori, con lafciarfi in quella guifa tirare a creder, che la cofa
(la fatta, o 3 6 non da fatta, fenza che ciò fia veramente prouato loro .
Vn'altro luogo è poi, chiamato luogo dal fegno : Se egli ancor non conticn
concludente ragione, Se forma di lillogifmo . come(pcreflempio) farebbe, s
alcun diceile, che nelle Città fullcro vrili gli amori lafciui, o ver
gl'innamoramenti trà vn'huomo, Se l'altro ; perche vn cofi fatto amore,
che fu trà Harmodio, et Ariltogirone, fù cagione, che fi mandalìc a terra la
tirannide d'Hipparcho . veramente s 'alcun volelfc dall'elici Dionifio huom vi
nolo, inferire, Se prouar, ch'ei fulTe ladro . ilqual modo
d'argomentare ancora egli non conclude nulla, per nó elfere ogni vitiofo
ladro, ma più torto per il contrario ogni ladro vitiofo . Vn'altro
luogq è ancora, domandato luogo dall'accidente •> come, per
ch'empio, è quello, ch'vsò Policrate, quando parlando de i Sorci, diede
lor lode, c'hauellèro anch'elfi recato aiuto all'efferato amiepj hauc41 do
rolo, Se mangiato lechordede gli archi dei nemici . vn limile elTempio farebbe
ancora s'alcun di celle elTercofadi grande honore, &da tenere in grande
llima, 1 elfere inuitato, o chiamato a cena : conciolìacofa che Achille
per non eflcrc ftaro chiamato a cena in Tenedo li (degnali grandemerc
conrradc i Gtcci, Se s'ac cendclle d'ira . ma l'ira, Se lo fdegno fu,
ch'egli per quello indino di non elfer chiamato con gli altri a quella cena,
fece coniettura, ch'eglino lo tencllero in poco còro: il che rifpetto ali
ellere inuitato a cena era cofa congiunta per accidente. Vn'altro
lungo 44 parimente fi cruoua,chiamato luogo dal confeguente: come s
verebbe, per edempio, quando volclTe alcun inoltrar, eh Aieffa miro fu ile
flato magnanimo, perche di fp rezza co il commertio, &; laconucrfation
di molti, fi rinrò nella fohrudin del monte Ida ballandogli di conuerlar
con fe fh-ffo. lì quale argomento daque, Ho prende apparcntia, che per
folcrc cllerc i magnanimi coli fatti, può in apparcntia parere, eh egli ancora
per elfer coli fatto, fuflè magnanimo . Il mcdclìnioauucrrcbbcin dire,
ch'il tal fia adulJl Secondo libro . adultero, perche egli fi diletta
d'andare tutto della perdona ornato, et culto di delicata attillatura, folendo
gli adulteri andare in queftaguifa. Il fimile accaderebbe ancora in dir,
ch'i poucrcrri mendicanti, che logliono (lare alle porte de i Tempi) a
doman4S dare clcmofina, fi debbiano (limar felici, et parimente
coloro, che (banditi dalla lor patria, efulando per il mondo vanno .
pofeiache quelli fi veggon fempre ftar cantando, et ballando,^: que (li
pollono vfare vna certa libertà d'habi tare, Se goder che parte del mondo
vogliono, conciofiacola che vedendo noi, ch'in quei, che moftran di menar
felice vi ta,fi foglion tronar coli fatti accidenti di voluntier ballare, et cantare,
Se di potei e a libera voglia loro viuer, douc più lor per il mondo piace,
viene all'incontra a parer,chequclli,in cui tali accidenti il truouano,fi
debbian con4P feguenremente ancora cflì (limar felici .
nicntcdimancodirTcrifcon trà di lor nel modo,& nella caufa di trouarfi tali
accidenti in 50 elfi . Onde viene a poter conuenire in vn certo modo la
fallacia di quello luogo, con quella del difetto, o ver della mancanza
• ji Vn'altroluogoc poi, il quale con fide in aflegnar la non caufa
in j t vece di caufa : come auuien quando come caufa d'vna cofa, s'adduce,
quello, che o inficine con eflà, o feguendo doppo elfo, accafea, prendendo il
doppo quello, in luogo del, percagiondi f 5 quello . et maflimamente
foglion quello far coloro, che maneggian Io flato e'1 goucrno della Città, et trattan
le cofe publiche . J4 fi come folcua dire Demade, che il reggimento, et l'amminiitration
della Republica, che tenne Dcmofthenc nel fuo magiftrato, 55 era fiata la
cagione di tutti quei prefenti mali, della Cittàrpofciache doppo'l fuo goucrno,
era fubito nata, et feguita quella rerribil guerra . Vn'altro luogo fi truoua
ancora, ilquale e pollo in far l'argomento defettuofo per la mancanza del
quando, et del come. fi comeaccafchcrebbe, perellempio, quando a
prouar,chc AleiTandro giù riamente tolta hauefiè Hclena, s'alIcgafTe per
ragion di quello, ch'il padre di lei le haucua data libertà d cleggerfi quel
marito, che più le fulTe piaciuto . nel quale argomento fi commetterebbe
fallacia per cagió di defetto del tempo non le ha uendo fuo padre dato
forfè quella libertà da vfarfi fempre, et per ogni tempo, ma lolamcnrc da
vfarfi prima, che mai irata fullè: 55? polciachcfol fino a quel tempo era
ella in poteftà del padrc.ll me defimo auucrrebbc, fe
airolutamentediccillmo, che nel battere vna 2 o 8 Della 'Retorica d '
Arìttotclt\j Tna perfona libera, fi commettefle ingiuria,o contumelia:
perciò che non Tempre e il far quello, allblutamemc ingiulto, ma folamente
quando altri fia il primo a battere, et a prouocar l'ingiuéo ria. A pptclTb di
quello fi come nelle contcntiofe difputationi occorre ili farfi fpclfb
apparcnre,& fallace lillogifmo percaufadi prender le cofe, o come
femplieemente tali, o come cofi taIi,o 6 1 vogliam dir, per aggiùta tali;
nel modo che fra i Dialettici iì fuol tentar di prouar, che la cofa che
non c, fia per eflcr vero, che la Ci cofa che non è, fia la cola che non è,
Se che feientia fi pota hauer delle cofe, che faper non fi polTbno,pcr etfer
vero, che faper 6} lì polla, non li poter faper la cola, che faper non iì
può, cofi parimente nelle cole retoricali, et caufe oratorie fi può trouare
appa rentc,&: non vero euthimema per caufadi prender per veramente, Se
femplieemente verifimil quello, clic fia condirionatamente, o vogliam dir con
aggiunta limitato verifimilc. Il qual coli fatto verilimile non è
puramente, Se vniuerfalmente verifimile, ma limitato, conditionato, Se
rilìrctto . quale c quello, ch'intende Agathone, quando dice, che non fi
pattirebbe forfè dal ver co lui, ch'arTermalTè cflTer verifimilc, che mohe
cofe accalchino in quella humana vita, fuora del verifimilc . Nè fi parte
egli dal vero in quello, accadendo fenza dubio alle volte cofe lungi dal
veri fimilc : et per confeguentc farà verifimilc ancor quello, ch'è fuora
del verilimile . et elTendo cofi, par che fi polla concluderete 6% quel,
che non è verifimile, fia verifimilc . ma in vero gliè verifimilc, non
femplieemente, ma limitato, o vero in qualche patte . 6p perciochc fi come
nelle altercatine difputationi dal mancare, o ver dal lafciar d'aggiugner,
fecondo qual parte, o vero, in rifpctto di qual parte, in che luogo, et limili,
fi viene a commettere in 70 ganno,& fallacia nell'argomcntare; cofi
parimente in quella arte della Retorica auuicn, che commetter fi polla fallacia
in prenderfi per verifimilc, quello, che non c legittimamente, Se
fcmpli cernente verifimilc, ma è verifimil limitato, Se riftretto da' qiul71
che aggi unta. Et di quello prefen te luogo del difetro, ècorapo Ha, Se
depcndel arte, che feri lìc Cora ce. Impeiciochc feil ieo non firà
lofpetto, nè parrà habile al delitto oppollogli, come auuertia fe alcun di
deboli, Se inferme forze fulfe acculato d'haucr battuto vn più di lui
gagliardo, in tal cafo potrà difenderlo > Se fargli fchiuar la colpa il
non clfcr veramente vn tal fatto verisimile Jl S econdo libro . r 2 finite • ma
Ce il reo porrà parer fofpcrto, 8c riabile a! delirro, come auuerrebbe s'egli
nel calo dcrro, robulto, cV gagliardo fiì iTc porrà fchiuar la colpa con
dire efe veri limi I, ch'egli non riabbia fiuto quello, che hilìe domito
veramente parer verilimi le. óVil 74 fimi! li può dir negli altri cali, et
delitti importi . concioliacofa che in qual li voglia caufa lia forzaglie
il rco,o fia fottopoflo alla 75 on del delitto importagli, over
fortopofto non le fia • et ali'vno,* all'altro di quelli cai] può ferirne il
verilnmlc,apparcn do venlimili ambedue le forti del verHÌmile, clfendo
nondimcn l vno (emplicemente, Se legittimamente venlimile, et I alno no semplicemcnte
tale, ma nel modo, che detto riabbiamo. Egramente altro in foftantia, che la
fallacia di quello luogo non è quella arrogante offerta, eh alcuni
fuperbamentc fanno di voler con le lor parole qual Ci voglia caufa render
1 upcriorc, et fòr vittoriosa rcrtar di fopra. Laonde non fenzagiufta ragione
con era de indegnarione, et ftomaco era abborrita dalle pedone l
arro 7S gantepromella.&profertlondi Protagora, conciò fu Uè
cofa,chc fai acc Alliccerai proraclfa, &in fclfità fondata, et da non
vero et legittimo venlimile, ma da apparente, et poco folido, depen79 e i modi
d'opporfi ali 'Auuerfario* (f di dife toglier le Jue ragioni . £f che
cofa fia Jnfiantia, o -vero Obbiezione oratoria* et in quanti modi fi
faccia . jN due modi può occorrer, che d.fcioglier Ci
poflan leargomcntationi : cioè o con fare argomento, et lillogifmo
incontra, o con addurre obbiezioni, 5c opporre inlranrie. Quanro al
proceder con fare opdelimi luoghi che fono vali a filJog.zare impugnando,
feruir D d pollbno,2/0 Teorica d % Ariftotelc^> "J poflbno ad
argomentar difciogliendo, o verconfutando. Peroche componendoli 1 lillogifmi
oratorij di propolìtioni probabili non è dubio che probabili non fogliano
Ipeifo parer molte cofe, quantunque contrarie fian fra di loro . Quanto
alle obbicttioni, éc alle in lime poi, fi pollbn porrare,o vero addurre,
lì come anco ra appreflb de i Dialettici nella Topica, in quatro modi, o
ver da quatro luoghi, cioè o dai medefimo,o dal limile, o dal
contrario o da cofe giudicate . Dal medefimo intendo io elfer l'in Itanria, come
(per clfcmpio) fc fi fufle con cnthimema cóclufo ch'Amor fuire cola buona,
in due maniere fi potrebbe a degnare inftantia. impcrcioche fi potrebbe, o
vniuerlalmente dire, ch'ogni bifogno, o ver mancanza fia cofa mala ; o
particolarmente allegar che non fi vfarebbe di dire, il tale amore eller
ottimo, et il tale ef fcr peUimo, fi come fu quel di Cauno, fe non fi
trouafiero ancor 9 dei non buoni amori. Dal contrario poi fi portan le
obbietioni et lcinftautie,come fc (per cllempio ) contcnendofi neil'enthimema,
che limoni virtuofo a tutti gli amici fabenefino, &giouaméto, s'allcgalle,
che l'huom cattiuo,o ver vitiofo non fa danno, 6c male a tutti gli amici . Nel
limile s'adducon le indinne, come (e (pcrcflèmpio),ftando cóprefo
neU'enrhiraema, che quei v C han riccu u tu of$clà,odÌ in Tempre col oro,
clic l'han loi fatta,s al lcgallc, che q udii, c li .in ri cernito
bendino, non tempre amano 11 chi l*hà fatto loro. Quanto alle inftantic
poi .% lcquali, fi portano, cos'adducono da cofe giudicate, over da giuditij
fatti, s'intendono dfer quelle, che dal giuditio,& parer dependon di
perfone d illu lire nome, et di chiara rama . come fe ( per eflempio
) contcnendofi in vnoenthimema, ch agl imbriachi fi deon perdo narei
loro errori, come aqueHi> che per ignorantiapeccano, fi può recare in
ftantia cucendo, che fc quello iulTe, nondoucrebbe ellèr commendato
Pittaco>hauendo egli poflo trà lefueleggi,effer di maggior pena degno colui,
che commollb, Se fpintoda IX imbriachezza pecca. Horquattro fon le cofe,
nelle qualififondano,& hanno luogo le retoriche argomentarioni : et quelle fono
il vcrifimile, l'ellcmpio, il Tcmmirio,(o vero inditio certo) i 5 ci legno
. delle quali argomcntationi, quelle, che fi compongono di cofe, che perii più,
o ver per la maggior parte fono, o appaiond ellere, fono argomentarioni fondate
nei vèrinmili . et quelle poi pei via d esempio procedono > lcquali
raccogliendo per Jl Secondo libro . j/g per via dinduttione da
vna, o da più cofe rrà di Ior rimili, alcuna cofaìn vniuerfalc,da quella
poi fillogizando concludon qualche t $ cofain particolare. Et quelle
argomen radon i poi, lcquali da co i£ Ce necellàric nafeono, fon fondate
in Tcmmirij . Etquellefinalmenteinfegnifondate fono, lcquali proecdon dacofa,
che,o come pul vniuei fale, o come (ingoiare, o ha ella in etfere, o nó
fia, viene ad eflerfegno della coliche fi conclude. Hora ftando
la cofain qacfto modo,in tutte le già dette forti dargomentationi, fi
pollano addurre in ftantic. Se prima quanto a quelle, che fon fondate nel
verifimile, -perche il verifmiile non c fempre,& vni1 8 .uerfahncnte vero,
ma per il più, o ver per la maggior parte; è cofa manifeita, che a coli fatti
enthimemi, et argomentano ni fondatene i vcrifìmili,fcmprc fi porrà recar
difcioglimento con addurre ìnftantie. Bene è vero, che cotal difcioglimento ri
11 feirà Ipcilc volte apparente, Se non tempre vero', conciofiacofa
che colai, che centra del verifmiile adduce inftantia, non
difciolga feropfcla verifomigliarrza, ma la neceflìràdellacofa,
inoltrando non cllcre ella necellària, ma non già inoltra cller non verisimile
. La onde per cagion di quello apparente, Se non vero difcioglimento
dcrverifimilc, colui, che nelle caufe tien luogo di difen forc, harà
fempre nel fuo prouar, più vantaggio, che non harà colui, che tien luogo
daccufatorc. perciochedouedo colui, che accufa proceder con legittimi
verifimili,& non clfcndo vna fletta cofail moitrarnel difcioglimento,
ch'vna cofa non fia verifimile, et il inoltrar, che la non fia ncceflariamente
vera, Se oltra ciò nó mancando mai inftantia contta di quello, che non
fempre, ma fol per il più c vero, pofeiache fe inftantia non haucllè, non
farebbe vcrifimileAvero perla maggior parte, ma fempre, et ne11 ceijariameme
vero; ne fegne da tutto queftojCh'i giùdici nel fen tire addurre qual fi
vogliamitantia conrra'd vna propofition verifimile, il dienoa credere, © che la
propofition verifmiile prima addotta, totalmente non fia verifimile, oche
fe pur qualche par te di verilomiglianza le reità, non fia tale, ch'eglino
polìàn fècon 13 doquclla giudicarci dar la fententia loro. In che
vengonocfll 14 ( c o«ie hò già detto) a ingannarfi quali per Ior medefimr:
come quelli, che non ben cólideiano, che non folo è Ior lecito ci fondarle
lorfentcnne, et il giuditio loro nella nccclTìtà delle cofe, ma nella
verilomiglianza ancorasse che que-aoc veramente gi»». Ce ij dicar 2 1 2,
T>ella r B^torica d'Jriflotelella Ustorie* d' JrìBotelc^ nalmenre paia
loro, che (Tori ragioni, con argomenti fi fia pro7 nato, Se lì lìa moftrato il
vero . Habbiamo medclimaracnteairegnato donde, come da luoghi poflfa
l'oratordiuenire abbondate, et copiofo denthimemi. dei quai luoghi alcuni fi
domandano fpctie,& forme d'enrhimemi, et altri, come communi, propriaS
mente fon detti luoghi. Refta al pi d'ente, che feguendo l'ordine incomincialo
diciamo, et trattiamo della locutione : conciofiacofache non bafti l'h;iuer
trouato,& tener nel concetto leco9 fé, ches han da dire, ma e ncccilano
ancora d'cfpnmcrlc fuor 10 con paiole, nel modo che fi ricerca, Se che lor
conuienc . il che feca importante giouamento a far parer l'oratione nel
rale,& nel 11 ul modo qualificata. Primieramente adunque fu fecondo
la natura cercato, Se inueftigato quello, che fecódo lordin di
quel la fi conueniua,cioHe colerteli, donde trarre, et canaria credili
bilità, et la pcrlìiafibilità fi potciVe. Secondariamente fu cercato, Se
trattato poi in qual maniera le già ritrouatc, et concepute cofe, s'hauelfeioad
efplicarc, Se a difporfe con l'aiuto i 3 della locutione . Nel terzo luogo
poi doppo le due cole dette re fta vna altra confidcratione, che l'opra
tinte 1 altre hà forza, et pof fanza, la quale all'anione, Se alla
pronuntia appartiene : nè è fta1 4 ta per anco dachiunque fia, rcnraia, o
trattata . perei oche ancor nella fletta tragica, Se epica poefia affai
tardi fu ritrouata, tx vi I j ottenne luogo : concionile cola che li Poeti
mcdefimi da prima, 1 6 le Tragedie, Se le fauole lor recitaiìcro, et rapprefenraflero.
E' co fa mamfefta adunque, che nell'arte della retorica ancora può hauer
luogo qualcheartifìtio, all'anione^ alla pronuntilapparte 17 nente, Yimilc
a quello, che nell'arte della poclia fi ritruona ; del quale alcuni han
diligentemente franato, et fra gli altri Glauco 15 Tcio. Horcofi fatta
anione,& pronuntiatione oratoria, Ibpriu cipalmcte collocata nella
ftctfa voce, in veder, come s habbia da fare, Se da reggere
neircfprcflìone di ciafeheduno arTetto,ò\: concctto d'animo, come adir quando
habbia da vfarfi grandc,quando piccola, Acquando mediocre. Et intorno pan min
re .ti tuono^ ver fuonodi quella, comes habbian da vfar coli fatti
tuoni, cornea dir lacuto, il graue, et quel, che partecipa di quelli
due. &-medefimamentc con qual rithmo, o ver numero s habbia dcJU ao
l cfprelTion di ciafeheduno affetto, o concetto a procedere, concionacela che
tre cole confiderar logliano intorno alla voce nel i Jl TirZiO libro .
pronuncia coloro, che ne trattano, cioè fa grandezza, l’armonia, e'irithmo,
over numero. Le quai cofe coloro, che fan ben nella pronuntia reggere, Se
moderare, fon quelli, che Tempre ( Ci può dire) ottengono i premi/, Se la
palina nelle lorcontrouerlìe, Se contefe oratorie. Et lì come nella poelia
par, che nei tempi d'oggi più vagliano, et maggior forza tengan coloro,chc
con artione hiftrionica recitano, Se rapprefentano, ch'i poeti detti
; coli parimente il medefimoauuienc nelle ciuili contentioni,
Se caufe oratorie : colpa dei già corrotti, &deprauati coftumi delle Republiche.
Ma non c fiata per anco ridotta, Se comporta in arte coli fatta attione,
&ptonunciatione oratoria, ne raarauiglia è di ciò: pofeia che intorno
alla ftellà oratoria locutione ancora, alfai tardi fu inueftigato, et trouato
rartifitio,«5c lo ftudiod'adornarla, Se di coltiuarla . Et in vero,(e noi
vogliamo ben dentro al vino confidcrare, potrà veramente parer quella cofa
della locuzione, Se pronuntiatione, cola più tofto poco honefta, che punici to
conucneuole . nientedimanco douendo ogni trattamento, Se Audio di quella
arte della retorica hauere vn certo riguardo d'ac commodarfì alla communc
opinion di tutti, fa di meitieri di porre parimente in tal cofa, Ce non come in
veramente honefta, aU mcn come in neceflaria, qualche ftudio, Se qualche
diligcntia . conciofìacofa che fecondo la veri tà,gi urta, Se ragioneuol
cofa farebbe, che cola alcuna non Ci doucllecon più Audio cercare incorno
all'oratoria orat ione, che non far nalcerc o tri ftezza, o diletto in color,
che odono : eflendo cofa conucneuole, Se giuda di contender folo nelle
caufe oratorie con le cofe ftelìc, cioè con le ftelTe pruoue: di maniera
che tutte le altre cofe, laluo che l'argomentare, Se prouare, s'han da (limar
fuperflue; come che fuor della caufa fìano . Ma elle nondimeno fon di gran
forza, et di gran momento, percagion (come habbiam detto)
dellimperfcrtionc, et corrottion di coftumi de gli alcol tatori . Bene è
vcro,& negar noli può, che la forza,& l'efficacia della locutione
in ogni dottrina, Se feientia, ches'habbiaa infegnare, o trattare,
non 31 tenga in Ce qualche poca d vtilità neceflaria : clìendo fenza
alcun dubioqualche dirfercntia, quanto aH'efpreffione, Se dimoftration de
i concetti, tra 1 parlare in vn modo, Se in vn'altro. ma non però ne
tiencaltroue tanta, quanta in cjucrta arte del dire: douc tutte le cofe,
che fi cercano > Se Ci trattano, all'opinione» E e «Se imzi
Si &c immaginatione altrui, &allo ftcilbafcoltatorcin fomma,
han 3 j rifpctro . Et però vediamo, che nella Geometria, o in altra
coi! fatta feicntia, ninno c, che con anifitio di locutione infegni
. É Quando dunque atiuerrà, chequeftaattione, 6c pronunciatione oratoria
apparifea fuora ridotta fotto arti fi rio, il medefimo effetto farà ella in
quella aite della retorica, che far veggiamo l'ar37 tifitiodella
rapprefenratione hiftrionica nella poefia. Et hanno " cominciato già
alcuni a tentar di dir qualche cofa d'ella, ma pochi flì mi han proceduto
innanzi, come fra gli altri hà fitto Thrafimacho ne i libri, ch'egli hà Icritto
delle cole compaflìoneuoli. |S Et e quella hiftrionica anione l'oratoria
molto congiunta con la natura, 6V per confeguentc poco depcndenre
dall'arre. Ma la forza dell'oratoria locutione e capace più d'arteficio,
cVallaftef. 39 fa arte concede luogo . Onde nafee, che quelli Oratori,
che nell'arti fi rio di qucftilocution fon potenti, riportan
facilmente ipremij, et la palma delle lor contentioni oratorie ; fi come
fan parimente quelli, che molto nell'attione, et nella pronuntia vagliono.
Perciochcgià vediamo, clic quelle orationi, che compor fi foglion, perche
habbian da rimanere fcrittc, più vaglion per cagion della locutione, che
per cagion della fen tenda, et del 41 foggetto dello. Et il dee ftimar,
ch'i poeti follerò i primi ainucftigare, et à porre innanzi lo ftudio,&
l'artefitio della locutione per quel, che pare, chela natura voglia :
conciofiacofachcli no 43 mi, et le parole altro non fiano, ch'imitationi :
ne parte alcuna trà tutte le parti del noftro corpo humano è più
atta,& più habi44 le ad imitare, chelaftella voce, da che vennero a
comporli, et a nafeere, et haucre 1 clic re, più fpctie dell'arre della
poefia, come 4j adirei Epica, le Rapprcfcntatiuc, Se altre. Et perche
quantunquei poeti molte volte diceuercofe, quanto alla fentenria,
infipide,inette, Se di ncilun fucco, nondimeno per caufa dell artifitiofa, et ornata
lor locutione, parcua, che reputationc, et gloria ne riporraflero . da
quello nacque, che quella poetica locutione cominciale ad efler da prima
accettata, et raccolta da gli Orato46 ri : fi come trà l'altre era quella di
Gorgia. Et fino ad oggi ancora non mancan molti imperiti, et poco
gìadiriofi,iqualiappruouano cofi fatta locutione, et fon d'opinione,che quelli
oratori, che l'vfano, ottimamente parlino. Il che nondimeno no c cofi, ne
per vero approuar fi dee > eflendo in natura loro molto diverse la locuzione
oratoria, et la poetica locutione . Et ci conferma quefto l'efito della cofa,
et 1 auucni mento fteflb, che n'è feguito . conciofiacofa che li Poeti
medefimi nel compor delle lor Tragedie, non feguano d'vfar più quello
fteflb modo di locu 4$ tionc, cn'vfaron prima : ma fi come qnanco alla
mifura dei vcrfi, hanno lafciato i vcrfi di quatro mi fu re, o ver d otto
piedi, che Tetrametri fi domandano, Se in vece d'elfi han riccuuto i
Iambi ci, per eflcrqucfta forte di vcrfi più di tutte le altre forti, accom modata,
Se limile al commune,cV ordinano parlare fciolto; jo cofi parimente han
difmellb, Se tralafciato tutte quelle parole, et modi di locutione,chepofian
parer fuora del cófucto parlare, ji che communementc fi molcvfare. Et
tutti quelli efquifiti ripulimenti di dire, han ributtato, Se ricufato, co i
quali (bieuano eglin prima adornare le lor Tragedie, Se co i quali
adornano anj 1 cora oggi gli Epici Poeti gli diametri verfi loro . La onde è
cofa ftolta,& degna di rifo il volere in quella maniera di locutionc imitar
coloro, i quali non Tvfan più, ma abbandonata, Se traj$lafciatal'hanno. Pcrlaqual
cofa può ciìcr manifefto, ch'ànoi in trattar di queftarte, non fa di
bifogno d'andar con minuta,^ efquifitadiligentia ritrouando. cV trattando
tutte quelle cofe, ch'intorno all'artificio della locutione fi potrebber
dire, ma quel le cofe fole, ch'à quefto retorico negotio,c'habbiam per le
mani, /4 poflàno appartenere, eirendofi, per quel, che alla locution
dei Poeti appartiene, detto a baftanza nei libri, c'habbiamo fcritti della
Poetica. Suppongali adunque al prefente per manifefto quanto quiui fi e
fpeculato, Se detcrminato . (apo 2. T^ella virtù della locutione oratoria
5 et delle condizioni, che le conuengono : ^ quai forti di parole fi
ricerchino per tuli condizioni . della Metafora, et de gli 6t>itheti, 0 vero
aggiunti . I i^V Vanto allanoftra retorica locutione, intendali diffiniio
al y 'prfffrrtr^ che la perfettione, et la virtù di quella, confi1 ftain
dlèr primieramente lucida, o vero aperta, di che quefto ci E e ij può eder
buono indino, che fc Toratione non mariifcfla, Se non rende chiari li
concetti noftri, non viene a fare l ottino, &. I effet3 to Tuo. Se di poi
confitte in eder non troppo luimile, abbietta, &vilc,nè troppo ancora
alta, et gonfiata : ma di conueneuol 4 mediocrità tra l bado, Se l alto .
concioliacofà che la poetica locucione fi polla forfè (limar non humile; ma
alla fciolta, Se dtdej fa noftra oratione non è ella cóucncuole,o accommodata.
Quanto dunque a far la locution chiara, et aperta, quei uomi,&
quei verbi fono atti, Se vtili principalmente a quefto, li quali
proprij, o vero appropriati fi domandano. Quanto poi al renderla, no
hu mile, et bada, ma ornata, Se magnifica, quelle altre forti di
paro le, lo podbn fare, lequali fi fono aifcgnarc^cV: dichiarate ne i
libri € della poetica : perciochc il difcoftarli dal trito, Se commune
vfo 7 del parlare, fa parere il parlar più grande, Se più grane .
perche quel medefimo par, ch'in vn certo modo accalcar foglia a gli
huo mini intorno alla locutione,o ornata, o comune, ch'auemr
luoL loro verfo di quei, che forefticri, Se nuoui vengon nella lor
città, t Se de i lor Cittadini fteflì . Et per quello fi di bifogno di
fare apparire il no (Irò parlare, con vna certa nouità foreilicro : polciache
lccofe,chc dal commune vfoappaion lonrane,maggiore am miratione apportano;
Se dilctteuolc, Se giocondo par quel, che f s'ammira. Ne i verfi de i
poeti adunque a molte cole luogo, Se ricetto fi concede, le quali poflon
cagionar la detta ammiratioi o ne, et diletto ; Se ad elfi parer podbno
accommodate,come che le cofe, Se le perfonc, intorno allcquali, la metrica
orarion fi rai x uuolge,eccedino,cV rrapaffinol'vlirato,c l cómunc.ma nelle
prò fc,& ne i parlari fciolri,nó fi da luogo a gran pezza a tante ;
eden Il do qui ui i foggetti di minor grauità,& di minor grandezza .
Impercioche quiui ancora, appredo de i poeti (ledi, fe dalla bocca d'vn
feruo,o d'vna perfona di molto tenera età, fi fenti ranno
vfeir parolc,& locutioni.c'habbianoadai dell ornato,& del grade; par ràfenza
dubio cofa molto difdiceuolc,& fproportionata,& il me defimo
ancora auuerrà, s'alcun farà da loro introdotto a parlar con la
medefìmapolitezza,& fplendordicofcfriuole, balìe, et vi 1 1 li.Ma in
quefto (ledo parlare fciolto ancora,non (là fempre dentro ai medefi mi termini,
immutabilc,& fermo vno dello decoro; ma può ancora egli có
maggiore,& có minore ornanicto,& gradezza riftringerc,& dilatare
fecondo le occafioni, i confini (uoi . Ma fa Jl Ter&o libro. Ma
fa di mefticri, che ciò fi faccia in modo, che non appaia, Se alcollo rale
artifìcio (fra; di maniera «ehe il parlar paia nó hnro,nè da Itudio, Se da
diligcntia nato, ma paia per il contrario fcmpltcc,& puro,& fecondo che
la natura lo forma,& Io manda fuora. percioche in quella guifa credibil
diuiene,& fede truoua : doue che in quella al tra maniera adiuien
tutto'l contrario, concioliacofa che coloro,che d'vn cofi facto parlar
saccorgono,fubico come inlìdiarore, et come che mefehiando il falfo col vero
ingànargli voglin,rabborrilcon nó altrimenti, ch'abborrir fi fogliano i
vi ni có altro liquor mcfchiaii > et falfificati.Ec auuic crà quelli,
ch'o nell'vno,o nell altro de i detri modi parlano,quel
medelìmo,chc fi vede auucnir tra la voce,& pronùcia di Thcodoro,&
quella degl’ltri hiftrioni, percioche la pronuciatió di Theodoro, pare,no d'Iiiftrionc,o
di perlona,che rapprcfencijma della propria perfona Iccifa rapprclencara
doucchcle voci, Se le pronutie de gli altri hillrioni,comed hiicrioni,cioè di
perfone aliene, Se rappresentati, fi fan conofeere. Etalhora potrà venir
comodamente facto il già detto nafcódimenro,quado il parlarli formi, «Se
fi cóponga co la fcelca,che dallo (ielTo parlar cómun fi faccia di quello,
che mi11 gliorcinelfolicruoui.il che bene olferua di fare Euripide, Se
è li egli llaco il primo,chà quello auuercico,&
moftraco.Efscdoadu que i nomi,& li verbi quelli,di cui 1
oracione,& il parlar lì cópone,& rrouadofi càce fpeciedi nomi,quà^c fi
fono afferriate, et cofideracc ne i Libri della Poecica.di quelle fpecie,&
oornijli ilranie • ri, i doppij,& li di nuouo fatci,molco di rado, Se
in pochi luoghi vfar fi deono.in quai luoghi, ÓVin quali occalìoni ciò fi
polfafare, »3 dire più di focco.& la ragió di quello già di (opra
toccato habbia mo;& e che có l'vfo di cai nomi, vien croppo vedo la
parce della gràdezza a trapalTàre il parlare i termini del comune, Se
dcll'vlìta 24 to.Ma li nomi e le parole proprie, le appropriate e le mecafori che, o ver crafporcace, fon
folamccc quelle,chc fono rtili,& accomodate alla locució del parlar sciolto.
Et di quello ci puòelTer in dirio il vcdcr,chc quelle forci fole di parole
fon da tucci nel lor co mun parlar frequaate,& polle 1 vfo: pofeiache
alcu nó c,chc par Udo nó vii le metafore, et le parole appropriatele le
jppncancox6 ra.Pcrlaqual cofa può clfer manifefto che s'alcù laprà bc fare,
qua toauuertico habbiamo.in vn medefimo ccpoil parlar fuo,col
ino ftrarfi alquanto forellic/o, fchiueràl humil baiTczza, nafcódcrà l’artifìtio
della Tua grandezza, Se farà finalmente lucido, &aperco : nelle quali condicioni
già habbiam detto confifter la virtù a 8 della retorica locutione. Sono
trà le parole, quelle, ch'equiuoche fi domandano, a iSofifti vtili, Se
accommodate, come a quel li, che grandemente fi feruon d'elle nelle lor
fallacie, Se ne i loro inganni. A i Poeti poi vtili, Se domeftichefono
quelle,ch'vgualmente lignificando vna ftcflà cofa, finonime fi domandano.
Se intendo io parole proprie, Se finonime, come farebber ( per cffempio)
andare, et caminare, eflendo ambidue quelli verbi proprij, Se finonimi
fràdiloro. Hor che cofa s'habbia da intendere oflcr ciafeheduna delle dette
forti di parole, Se quante fperic di trafportamcnti, o verdi metafore li
ritruouino ; Se che effe metafore fiano di fom ma efficacia, et forza,&
ne i poemi,& nelle orationi,fi e dichiarato (come già di fopra habbiam
dctto)nc i 51 Libri dell'arte poetica. Et tanto maggior fa di meftier che
fia nell'oratore la diligentia, Se lo ftudio intorno all'vfo delle
metafore, quanto che di minor copia d'aiuti, Se rimedij da ili u
(trarli ha l'oratione, e'1 parlar fuo, chcnonhàlalocution metrica
dei Poeti. Oltra che la metafora mafllmamente ha in fe del lucido, o
ver'aperto,hà del giocondo, Se hà del forcm'cro, Se del nuouo, Se è tale
in natura fua, ch'vfata elfer non dee, come tolta da altri, }) ma come
nata dall'ingegno rtcfio di colui, che l'vfa. Horci fa di bifogno che gli
Epitheti, o ver'aggiunti, Se le metafore fi prcn ' dano, Se fi dicano in
modo, che quadrino, Se conuenientia tcngano. Se quello auuerrà facilmente
alhora,chc da proportion dependano. Il che quando altrimenti fufle,vcrrcbbe
maggiormcte adifcopritfi ladifconueneuolezza, Se ladifcrepantia, pofeiachc le
cofe, c'han qualche oppofition trà di loro,alhora fi fan maflimamente
conofeerc, quando l'vna appretto l'altra fi pongo no in parragone. Bifogna
dunqueauucrtire,& confiderar,chc fi come a vn giouinctto, Se fanciullo
ftà bene il veftir di color di 3 j porpora j cofi a chi fi truoua nell'età
fenile, conuiene,& quadra qualch'altro colore, non eflendo ali vna, et
all'altra età diceuole, Se conueneuoleil vcftir d'vn colore (tettò.
Medcfimamente fi dee notare, che s alcun vorrà dar lode, Se recare
ornamento coi parlar fuo, douerà prendere, Se trar le metafore da quelle
cofe, che (otto di qualche genere, faran le migliori, Se le più
nobili, che in quel fi comprendano : Se dalle peggiori per il contrario, Jl
Terzj) libro. Se più vili, s'egli infamia, et biafmo vorrà recare •
vogliodir (per eflcmpio)ch'cflcndocomprefe folto d vno ftedu genere, come
cofe in maggiore, o minore honcltà oppofte, il dir, che colui, che và
mendicando fi raccomandi, Se il dir, chc colui, che fi raccomanda, vada
mcndicandojeilendo cofi il mendicare, come il raccomandarfi, fpetie
contenute fotto'l chiedere* o ver domadare, fi potrà col pigliar l'vna per
l'altra, fare agcuolmente quanto habbiam detto. Si come fece Ificratc in
chiamar Callia Metra girte (ch'importa appretta di noi, mendicante, o ver
Limofinario) in vece di Daducho ( cioè ceroferario, o vogliam dir, porta45 tor
di face, o verdi torchio) . Madicca Callia,ch'Ificratecofidi cendo,
moftraua di non ch'ere inftrutto nelle cerimonie di quei (aeriti ri; :
perche fe inftruto ne futfe, non lo chiamarebbe Metra girte, ma Daducho,
emendo ambidue qucfti nomi contenuti ìotto'l nome d ofiitio, Se di
minifterio nel sacrificio della gran madre Dea, ma 1 vno honorato, Se
honefto, Se 1 altro vile, Se in45 fame. Mcdcfimamcnte coloro, che da gli altri
cran chiamati adulatori di Dionifio, chiaraauan fe ftcflì per ricoprir la
bruttcz zadell'adulationc, artefìci,o ver macftri di quello .li quali
nomi fon ambidue metaforici, ma l'vn trafportato da cofa fordida, et brutta,
Se l'altro per il contrario da cofa honefta . I Ladroni ancora, Se predatori,
per ricoprire in parte l'ignominia del lorocffercitio, foglion nominar fe ftcìE
bufeatorùo per dir meglio, prò 47 cacciatori, oguadagnatori, che vogliam
dire . La onde per U medefima ragione fi può chiamare il peccato per malitia,
peccato 4.2 per errore, Se il peccato per errore, peccato per malitia . Et
di colui, c'habbia veramente furato, fi può dire, Se c'habbia
prefo, 4^ Se c'habbia rapito. Ma quello, che Tclcfo apprciìo
d'Euripide dice di coloro, i quali remauano, o ver vogauano, ch'efiì
fignoreggiauano,& imperauano a i remi, per delccndcr torto nella
Mi ila, ha del difdiceuole, Se dello fproportionaro, pofeia ch'il
dominare, Se vfar regio imperio, eccede di troppo più, che non cóuiene, il vile
ellcrcitio del remare, o vogare, che vogliam dire, 0 Onde non può pallàr
nafeo fio l'arti fi tio di tal metaforica locuzione. Può ancor cadere oltra di
quefto nelle metafore errore intorno alle ftclfe (illabe^uando nelle
parole, douefi truouano, l non dieno inditio di dolce, Se di foauc voce,
nel quale error cad de (per ch'empio ) Dionifio, per cognome Chalcco,
chiamando nei 2 24tDel/a Hgtortca d* Arìttotelcj ne i fuoi clcgi
verfi la poefia, ftridor di Calliope, cflendo ambedue quelle cofe voci, come
che comprefe dalla voce fiano, come 5$ da genere. Laqual metafora fi vede
eller di ferrilo la, non contenendo ledetreduc voci, cioè la pocfia, e lo
ftridore, ne i lor significati, fomigl»anza,o con uenientia alcuna. Appretto di
quello nd conuicn nelle metafore trasportar le parole molto da tòtano,
ma da cose, c’abbian congiugnimene, Se quali parentela con la cosa che significar
vogliamo, Se fian quafi d'vno (letto genere, o di vna ftella fpctie con
quella, nominando le cose in modo chefubi to, che la cosa vien proferita,
appaia a chi ode manifesta la sua conuenietia e fomiglianza come fe ne vede
ettempioin quel famoso, et tanto approuato Enigma, che dice, Io hò veduto
huomo, il qual con fuoco incollaua fopra d'vn'altro huomo il rame,
nel quale enigma s'efprimel appiccamene, che fi fa delle venrofe, iI qual
non ha proprio nome, chiama dunque incollamento lappiccamene delle ventole,
ettendo coli l'vna, come l'altra di quefte cofe, accodamene. Ec in fomma dai
ben formati enigmi fi polTbnp rendei e, Se trarre eccellenti, Se lodate
metafore: pofeiache cflendo le metafore quelle, donde fi forman quelle
oleine proposte, ch'enigmi si domàdano, appar manifetto, che ne i
buo io ni enigmi con lodate metafore fi fia tralportato. Oltra di q
netto fa di meftieri, che le metafore fi prendano, cV fi portino da cofe, che
habbianoin fedeli bonetto, Se non contengano in fc bruttez fi za. Et la
bellezza, Se bontà delle parole, fi come ancor la bruttezza, confitte
primieramente nelle due cofe, ch'aflegna loro LiCi cimo, cioè nel ! non della
voce, Se nel significato . ma vna terza cosa di più è loro ancor necessaria
a questo, con la quale si può di feioghere, et render nulla quella
argomentarion fallace, che fogliono i Sofifti fare, conciofiacofa che vero, et ben
cóclufo non fia, secondo che Brifon voleua, che bruttezza nò fia nelle
parole, uè fia alcuno, eh e fozzam ente parli, lignificandoti, Se dinotadofi o
con quefta, o con quella parola vno ttcflb foggetro, et vna 64 fletta
cofa. Ma quella ragione ha infedcl fallo: pcrciocherrà due parole
lignificanti vn fogge te ftcttb, l'vna più appropriata farà, Se più
fomigliantea quel foggetto,che l'altra nó c,& più ac cómodara, Se habile
a rapprefentarlo, et a porlo quafi dinanzi a gli occhi. Oltra che fe ben
lignificano, Se dinotano vn medeiirao foggetto, nicntedimanco nó cofi l'vna
parola, come l'altra Io fieni fica significa nel medcfimo, o ver
fomiglianre modo, di maniera che perquefta cagione ancora l'vna parola più
honesta, o più brutta, che 1 altra li può (rimare . peroche qualunque
amhedue le parole (lenifichino vna ftellacofa honclh, o vna (Iella cofa
brutta; tuttauia nó ambedue la lignificano in quanto honcfta,o in qtuto bruc 68
ta,ofepur tal bruttezza, o tale honeftà denotano, non fan ciò 6p
vgualmentc, ma l'vna lo fa più, et 1 altra manco . Le metafore adunque han
da elfer picfe, o ver dedotte da cole, c'habbian del70 l'honeftojdel vago, et del
bello ; o quanto al fuon della voce, o quanto alla virtù, cV potcntia loro,
o quanto al fenfo del vede71 re, o ad alrro qual lì voglia fenfo :
concioliacofa che non piccola ditfciéiia li a dal didurla più nell'vno,
che nell'altro de i detti modi, come, perellempio, meglio fi dirà, l'Aurora
rododattila, (cioè che ticn le dita di rofe) che non fi dirà, l'Aurora
Fenicodactila,'cioè che tien le dita di porpora) &c peggio ancor fi
direbbe, 71 l'Aurora erithrodattila (cioè,che tiene le dita rotte) . Negli
Epitheti ancora, o vero aggiunti, fi può trafportar quello aggmgni7 5 mento, nó
folo da cole poco honefte, et da cofe fozze ; come fari 1 (perellempio )
l'epithetodi matricida; ma ancor da cofe mi74 gliori; come (aria l'epirheto di
vendicator del padre.Et Simoni de parimente, mentre che vidde, che colui,
c'haueua conlcguito con le fue mule vittoria, gli offeriuanon degna
merccde,ncequiualenre prezzo, non volfc co i verfi fuoi celebrarle : allegando, ch'indegna
cofa gli faria paruro di fare, in fpcnder fuoi vedi in lo 75 de di quelle
mezalìnc. ma come prima gli parue,che colui gli offertile conueneuol
prczzo,poetizò in lode di quelle, cominciando in quella guifa. j6 'Ben
trattate* et pafeiutes Siate molti, et molti anni, Di veloci Caualli
inclite fi$lic_j; Ec non dimeno eran figlie 78 parimente d'aline.
Puom" ancor fare ilmedefimo effetto d honeliare,& imbruttir le cofe,
col diminuir de i nomi, qual diminuitone è quella, cheftenua, 6c fa parer
minore il male, e l bene; come mordendo, &cauillando via di fare
Ariltofane in quella Coinedia, eh egli domanda li Babilonij : quando in
vece d oro, dice, oretto, o vero oruccio ; in vece di ve Ite, verticali
ola ; in vece di reprenfione, reprenlìoncella ; in vece di malattia, malat80
tiuccia. Bene e vero che fa di meilierid'auuercire, et d haucr F f diligente 22
6 'Della ^Retorica d'^friftotelcj diligente cura, che nell'vfo d'ambedue
quefte cofe,cioc cofi dcU le parole aggiunte, come delle diminutiiic,
conuencuol mediocrità s'offerui. £aj?o 3. c Della fredderà,,
overoìnetteT^a* et defetto della locutione oratoria : et quante* &. quali
fìan le oc cafoni, onde e Ha najea. I UyJ=^Q Vatro fon principalmente le
cofe, che poflbn come cau fc render fredda et inetta, lalocutione Vna
caufa conlifte nelle parole doppie, o per meglio dir, compofte; fi come fc ne
veggono cilempi in Licofrone, quando dice il molti/òrme, o vero il
moltiuolto Ciclo; la grandimon te terra langufticallc, 4 o vero
ftretticalle litto . Gorgia LEONZIO (si veda) ancora
chiamauajmendicimufi, gli adulatori, et vfaua quefte parole falfigiurante,
et vcrigiu5 rante. Se Alcidamantc dice, egli con l'animo colmo d'ira, et con la
faccia colorifuoca . dice ancora, ei fi penfaua, che quella ior così gran
prontezza d'animo hauclie da elTer fruttiportante. medclimamente la permasone
dell oratorie orationi,foleuacgli chiamar rerminifera, ovogliamdir finifera:
&la pianura del mare, coloricerula. Tutte le addotte parole
adunque fonoaccommadare alla poefia, perlacópofitione, et doppiezza, che
fi truouain elle. Et quella e la prima caufa della freddez6 za della lodinone.
Vnaltra caufa e poi, laqual confitte nell'vfo 7 delle parole ltranierc,
ouer peregrine, fi come l'vsò Licofrone chiamando Serie, huom pelorio
(parola, che ftraniera in Athcne figniricaua huom di 1 midi rata gtadezza)
Scironc ancora chiamò egli,huoma finmo, (cioè adognvn molefto, parola pur quiui
lira mera.) A lcidaman te parimente chiamò la poefi*,athirma (cioè
giocofa,) dille ancota I Arallhaliadclla natura (riocil peccato della, natura)
&c volendo dire d'vn, c'haucua l'animo da vn mero furor d*ira punto,
per efprimeret il participio, punto, vsò la parola, tethegmenon (parola,
lì come 1 altre due precedenti ftraniera in Attiene). Laterza caula della
fopradetta freddeza ftà porta ne gli Epitheti, quando, o come troppo lunghi,
et troppo da lunga piefi, o come fuor di tempo, et (enza bifogno porti, o
final. i 3 Jl Tcrzj) libro . finalmen re come troppo frà di lor
frequenti, Se inculcati, s'v10 fano. conciofiacofa che apprcllb de i Poeti nò
difeiica il dir (per crfempio (il biàco latte, ma nelle oratorie
orationi,alcuni di così 11 fatti epitheti fon, come vani, difdiccuoli, et alcuni
fe confatieuol foprabbondantia s'inculcherano, diucrran rcprenfibili, come
che troppo fcuoprano,& manifcftino, ch'alia poefia cóuc gano.
Perciòche fe ben conuiene all orationc l'vfo deflì epitheti (pofeiache vengono
a dare vna certa apparenria cTafpctto forcftiero alla locutione,& a trarla
alquàto fuora del cómune,& dcll'vfitaco.) nientedimeno biiogna tentar di
fir quefto co medio1 4 crità, 6c mifura. conciolìacoia che maggiore error fi
farebbe in traboccare in ciò fuor della douuta mifura, che non Ci
farebbe, fe (conlìderatamentc fidicclfe quel, che prima a cafo veni ile
in bocca: perche la cafual locutione non ha il bene,che le conuiene, ma la
troppo ornata ha il male, che le difeonuicne . Et per qnefta ragion gli
ferirti d'Alcidamanteappaion freddi, et inetri» pofeiache ci non lì
feruede gli Epitheti, ouer'aggiunri, come dì condimento delle folidc
viuande ; ma gli vfa come viuande fteffe, così frequenti, et inculcati, così
lunghi, et così aperti, et per confeguente vani, gli pone in vfo.
Perciòche (per ciìempio) no dice egli,i 1 fudore, ma l'humido, o vero il
molle (udore; nedice, agi 1 ! fth mij, ma alla pompa, &folennità de gl'I
fthmij; ne diio ce le legej, ma le leggi regine delle Città, parimente non
dice, li il corfo dell'animo, ma il corrente impeto dell'animo, ne manco
dice fera pi i cernente, ilMufeo(per fignificare quel luogo in Athene
dedicato alle Mu(e,& alle lcicntie)madiceilMufcodel11 lanatura. medefimamentc
non dice, le cure dell'animo, ma le pungenti, et trifte cure dell'animo,
nè dice il largitor delle gratic, ma il d'ogni gcncr di gratie vniuerial
largitore, diccancora 15 ildifpenfator del diletto degli afcoltatoii. de
in vece di dtrc,l a16 feofe trai rami, dice Tafcofe tra i rami della lelua. e
in cambio di dire,gli coperfe il corpo, dice, eli coperfe le vergogne del
corpo. et in vece di dir, la concupifeentia, dice la contrarintiua, o uer
la contra imitatrice dell'animo concupifeentia, in che concorre infieme,
l'elfer parola doppia, con 1 ellerc epiteto, oucr iS parola aggiunta, onde
poetica locution diuiene. Inqucita maniera adunque c'habbiam veduta, veniuan
coloro a trouare, ouer cagionare eccello di vitio nell'orationc. Onde pai Lindo
più % Ff ij tolto torto comodo poetico, venerper mancanza di decoro,
et di con11 cneuolczza, a render ridicola, et fredda la locutione, et in
vno lì elfo tempo a cagionar con quel moltiplicar di ciancic,& di paip
rolevane, oicurczza prù torto, che lucidezza., perche intefa che gli hà la
cola ch'ode, colui, eh alcol ta, ciò che per più manifellarglielaglis'aggiugne,
deftruggc ofctiiando,& ditóni ba in erto 30 quel, che già prima, di
manifelto, et dinoto vi truoua. Ne/i dee negar,che gli huomini nel lor
parlare ordinario nò vrtno alle volte le parole doppie, ouer comporte, ma ciò
fanno, quando la cola, che voglion lignificare, non habbia nome
fempliccjche fia fuo, &oltraciò le parole, eh iniieme Ci congiungono,
fiano atte a far facile,& comoda compofitionc : come adiuien (per essempio)
in quella parola, chronotribin, che significa, coniumare il tempo, ma è ben
vero, che fe ciò troppo frequentemente li facelle, farebbe al tutto
diuenir la locuione poetica. Et da quello nafee che le parole doppie, &:
compoftelono vtiliflìme ai poc ti Dithirambici, com'a quelli, a cui non
difdicc di procedere alti, et gonfiati ne i verlì loro. Le parole ftranierc poi
quadrano, et fono vtili principalmente a i Poeti heroici, feguaci
dell'Epica poesia, per haucr tai verfi in fe del grande,& del
magnifico. La metafora finalmente fi vede clfer più, eh ad altri verfi, a
i Iambici accomodata: cllendo nei tempi nolìri quella forte di verli
accettata,cV porta in vfo, come di lopra fi e detto. La quarta causa
dell'inettezza e freddezza della locutione, depende dall'uso delle
metafore: polciache ancor tra erte fogliono alle volte trovarsi di quelle, che senza
conucneuol decoro fono, alcune per cagion d'vn non sò che di ridicolo, et di
vile, che le contengono ; folendo i Cornici poeti leni irli aneli erti delle
metafore nelle lor comedie. et alcune per il contrario per cagion d'vna
certa gon fiat» altezza, et grau ita tragica. Pollonoancora elfcr
defettuofe,& cagionar freddezza le metafore, per troppa o (cu rezza
:& 3$ alhora adiuien, quando troppo da lontan liprendooo.
come (per ertempio) la prefe Gorgia, chiamando alle volte li
negorij pallidi, Se alle volte fanguinolcnri : et altra volta dicendo,
Tu bruttamente feminafti quelli tuoi negotij, et bruttamente gli gli
hai poi mietuti. Le quai metafore non è dubbio, che troppo 41 del poetico
in fe non ritengano, li come auuiene ancora in quelle, eh' via Alcidamante,
quando chiama la Filolbfia, propugnacolo, Jl lerZjO libro. 22 941
co!o,&: baftion delle leggi ; e l'Odilsea lucido fpecchio dell'hu 4$
mana vira. Se quando dice, Nellun coli fatto giuoco apporta al44 la poefia;
nominando giuoco il diletto . Tutte quelle metafo re adunque fono atte a
render la locution poco habile a perfuadc4 j re, per le ragioni, diedi fopra
alìegnatc riabbiamo . La metafora ancora, laq itale vsò Gorgia conerà
d'vna Rondine, che nel volar gli haueua fopra la tetta iafciaro cadere
ilerco ; farebbe ftata eccellcntiilìma per vn Poeta tragico, perciochc le
dille, ah Filomena, quelto è ftato vno atto a te poco nonetto, il quale atto cttendo
fatto da vno vccello, non li può domandar brutto,o poco bonetto ; ma farro da
vna Vergine, poco nonetto fenza dubio fi dee (limare. Buona adunque, et ragioneuol
diuenne la riprenfion di Gorgia LEONZIO (si veda), nominando quello
vccello per quello, ch'era già ftato, &non per quel,
ch'eraalhora. (apo 4.. 'Dell'immagine, 0 'ver Comparatane : (f della
dtffèr enfia j et conuenientia, ciò ella tiene con la Metafora
. 'Immagine, o ver comparatone, è ancora ella non altro in fottantia
fua, che metafora ; poco effendo differente da quella. Imperciochc
quando alcun parlando d'Achille diccflcegli impetuofo veniua comevn
Leone, farebbe vn coli fatto dire, Immagine : 6c fc fi dicette, impetuofo venia
quel Leone, faria metafora . peroche ellcndo coli in Achille, come nel
Leone, furore, 6c iraconda forrezza,fì vien trafportando a chiamar col nome di
Leone Achille.PolTbn le immagini accommodarfi,& efferc vtili al parlare
oratorio ancora : maalquanro più di radecome quelle, c hanno aliai del poerico
. et nella medefìma maniera s'hannoda trafportare, et dedurre, chele
fteiìe metafore; non ellcndo elle altro in vero, che metafore 1,
differenti da quelle nel modo detto . Sono adunquele immagini ( per
ch'empio ) come quella, ch'vsò Androtione contra d'Idrico, dicendo ch'egli
era li milea quei cani, ch'elìcndo ftati buon tempo in catena, fciolti
fi nalmcnte ne fono, percioche fi comcquelli, fciolti che fono
mor don qualunque perfona venga loro innanzi, cofi Idrico vlcito
di carcere,2 30 Della Hgtorica d!Arittotelcj 7 carcere, e diuenuto
infoiente, et molcfto a tutti. Et come quella ancora, laqualc vsò Theodamantc
alìomigliando Archidamo 8 a Eulfcno, ignudo, &c privo di Geometria. Et
fi può parimente con cambieuol proportione vfare, chiamando Euifcno
Archida£ moin Geometria perito . Coli fatte metafore ancora fi
veggono nella Republica di Platone: douc egli aifomiglia coloro, che
fpo gliono i corpi morti, a quei cani, che mordono i laflì,chc/on rito
rati loro,& a color, che gli tirano non fan danno alcuno . Vn altra vene,
douc parlando egli della popolar moltitudine, dice effer quella fi mile advn
gouernaroroi naue, chefiarobufto di for il ze, ma mezo fordo .& quella
altra ancor,quando in propofito de i verfi de i Poeti, dice, che fon
fimili a quei giouinetti,che fen za hauerfolida, et foftantial bellezza
hanno folamente, vn nò fo che di fiorita vaghezza, che porta quella età .
percioche come pri ma perdon qucfti quel primo fiore, «Se quelli reftano
dalla loro harmonia, et mifura fciolti, nonappaion più ne gli vni, ne il
gli altri, i medefimi, chappariuan prima . Mcdelìmamcnte Pericle parlando de
gli habitatoii detllfola diSamo,gli alTomigiiauaai bambini, ì quali non ricufan
di prendere il cibo, eh è i 3 porto loro in bocca, &: mentre che lo
prendon piangono, diceua ancora eflere i Beotij limili a i Lem :
conciofiacofa che i Leui da fe tteflì co i rami loro fi perqtiotano, et fpezzino
; et i popoli di Beotia nó celli n di contrattare, et combattere 1 vn con
tra l'altro 14 fempre . Demofthene parimenteaifomiglia il popolo, o ver
la moltitudine della Città a coloro, che nauigando paton continua naufta.
Et Dcmocrate diceua eflcrfimih gli Oratori alle nutrici, lequali
fucchiano,& inghiottifeon per compagnia con elio mi parti), nelle
quai parole fi vede, che più particelle s'interpongono prima, ch'ai fin fi
renda quello, che vi safpetta. 2 $2 'D> s'afpctra. et Te
cofi fatra i nrcrpofitione fi ftcndclfc molto in lungo, prima che fi rendefle
il verbo (mi par ri;)fcnza alcun dubio 11 ofeura ncdiucrrcbbc. Quello è
dunque lapri ma cofa nccellària alla purità della locutionc, polla nelle
particelle congiuntiue, o li congiuntioni, che le voglia in dire. La
feconda conlille poi in nominare, et lignificar lecofe con gli fteflì
fcroplici, Se ignudi nomi loro, et non per modo di circonfcrittioni, et di
delcnttioni. La terza ricerca apprendo, che nella locuiozne fi fugga l'ambiguità.
et le dettecole han da ellèr fempre oflèruate ; fe già le colf trarie di quelle
con detcrminato conligho non fi eleegelfero. il che far fogliono alcuni,
quando non J unendo cofa che dire, voglion pur parere, et inoltrar di dir
qualche cofa. Et co fioro in far ciò vengono a far parer la lor locu non
poetica : &c tra 1 poeti fa quello malli inamente Empedocle,
conciolìacofa che quel circuito, et giro di parole, che troppo abbraccia,
agevolmente inganni : accafeando in quello a gli afcoltatori quel, che fuole
accalcare a molti, quado in odiie gl'Involtini, et pronofticatoti
del futuro,fenton dir le cofe ambigue,& dubbio(e,& in
anfibologia raccolte: che fc bc nó le intédono,dàno nondimen loro alfenlo. j
9 vna così fatta locution fu quella, Ci clo pallàio il fiume Hai 1, a
vn 20 regno opulcnriflìmo da ri fine. et acciochc manco polli
apparir l'errore,& la falfità delle lor predizioni, per quella ragione
han per co fin me quelli, che predicono, et pronolticano
ilfuturo,di 2 1 dir le cofe fempre più in genere,& in vniuerfal,che
pollone pofciachencl giocare al paro, et imparo, o verdilparo, o caffo
che vogliam dire, puòfacilmente pi 11 indouinar colui, che pronuntia paro,
oche pronuntia imparo, chequell altro,che più al parli ticolar venendo, a
fpecifico numero voglia determinarli. 6c più farà parimente per indouinar
colui, che dirà la tal colà hauere ad ellère, che chi fpecificando il
tempo,dirà quando la fia per ef (ère. et di qui è, che gli oracoli, et gli
indonnii, non determina* 13 no nelle lor predittioni il quando. Tutte
querce locuhoniadun 14 que vna fomigliantc ambiguità coregono, et per
quella cau la (chinar li dcono, fc già per qualche fine a iòmmo ftudio non
lì 2j eleggcllcro. La quarta cofa vtilc alla purità della locutione
ftà pofta in dillinguere i generi de i nomi, fi come Protagora gli 1
iibn^ucua in mafcolini,feminini,& neutri: pofciache cobi lacti ge %6
Ben ancora, fa di bilogno, che quella conucncuolczza nel parlar lar fi
rendano, Sz s'allignino, che fi dee loro : come (per essempio) dicendo, ella
venuta chetò, Se fatia di confabular, lì par1$ ti. La quinta cola finalmente
(là collocata in bene efpnmere nelle paro!e,la pluiitàja pochezza (cioè la
dualità) et la (ingoiami, o per meglio dire vnità delle cofe. come (per
ch'empio) dicendo, eflì amuati, dicderdclle battiture. Hora vniucrlaimente
parlando q uelle cofe, che fi dicono^o lì fcriuono,fa di mcllieri, che fiano
ben legibili, Se ben proferibili, che l'vna di quelle 3 t cofe, non
puòftar lenza l'altra, et mal potrà quello auuenire in quella locutione,
doue molte congiuntioni, o vogliam dir congiuntine particelle, implicate e moltiplicate (i troueranno: 5 1 ne ancora
in quelle, doue diffidimele lì potran conolcerc le ÌQr tcrpuntioni, Se
dillintioni trà parole, Se parole, per meglio intender' li (entimemi, li come
fi vede auucnir nelle co(c,che fcrif Ce Eraclito: concioliacofa che fatica
lia di puntare, A: diftingue re gli feri tri fuoi, per non li poter chiaro
vedere in clTì con qual parte, o con quella che fegue, o con quella, che
precede, fi deb» 34 ha comporre, o adattare qual fi voglia parte, come
(perclTèmpio) li vede nello Hello principio dell'opera, doue ci dice,
Della diuina mente,chc nel fuoeficr li con ferii a e li lìen te (empre
incapaci, et incomprenfiui fono gli rinomini. Nellequai parole non li vede
ben chiaro con qual parola s'habbia nel puntare a congiu gnere la
particella femprc, cioè ocon efiftente, o con incapaci. 35 Olrra di quello
fi cornette nella location foleci Imo, o vogliam dire, incongrua, et imperfetra
politura di parole,ogni volta eh a due, opiù cole, che rcfpondentia d
altre cofe ricercano, non (ì rende aciafeheduna la(ua correfpon dente : le
già non Ce n'andalle loro vna, ch'ad ambedue comunemente s accomoda Ile,
Se $6 quadralle. come per elfempical mono, Se al colore 1 cllcr
vedu ti non cconimune, ma l'eller lentiti, ad ambedue cómunemente quadra.
Apprcllo di quelìo ofeura, Se poco manifclladiuicn Ja locutione, quando
occorrendo d hauere a congiugner molte parole pervn fentimento principale,
non fi pon verlo l principio la parte, c ha da chiuder quel fenrimento, ma
tutte quelle 38 parole s'interpongono nel mezo tra'l principio, eh
abbia io. Ce del brutto, Se dellabomineuole, fcciò farà pcrapparir maggiormente
con fa divininone, farà bendvfareil nome Se fc per il conciario farà per
apparir pio 6 la bruttezza col nome, doucrà prenderli la diffinitione .
Vtileè ancora all'ampiezza della locutione, il rcderla lucida, Se
manifellacon le mcrafore, &con gli aggiunti, pur che s'auuertifca, et fi
guardi di non entrare in hi quello dentro ai confini della poeila. Giona
parimente alla medehma ampiezza, et grandezza, il nominare vna cofa, come
fé la fulfe non vna,ina mo!te,come fo8 gliono fpefloi poeti fare; dicendo per cflcmp!o
y gli' Achaici ? porti, intendendo nondimcnovn porto folo. Et quell'altro
Poeta dice, in tendendo d vna fola lei ttra, ot;cro epi (loia, quelìc Ict10
tcre piene di lamenti, Se di pianto . Reca oltra quefto alla già detta
ampiezza giouamento ancoraci feparare alle volte co qual che particella vn
nome da vn'altro nome Tuo aggiunto: come 1 1 auuerria dicendo,la conforte
la no (tra. dotte che fc vorremo hatier più alla brcuità,ch'all'ampiezza
rifpctto, diremo, la conferii te noftra.. Giona oltra ciò alla detta grandezza
il ligare alle volte le parole con la particella copulatiua: li come per il
contrario rio alla breuità e vtilc il dir fcnza così fatte eopulationi,
pur che i j non redi la locution dilciolta, Se dilfoluta in tutto, diremo
adunque per ch'empio, a ingrandirla, Se vi andai, et t>arlai con elfo.
Se pcrcagion di breuità diremo, Andatoui parlai conef. 14 fo. Vtihilìmo
ancora alla medefima ampiezza della locutione, fi dee ftimare l artifitio,
ch'vfaua Antimacho inalTegnare alle cofe, per mancanza ch'elle habbian
d'accidenti, le priuationi di quelli, che le non hanno, il che fa egli
quando parla del colle 1; Tcumelfo in quei verfi, che cosi cominciano, S
ergequiuivn itf certo picciol ventofo colle, Se quel, chefegue. Et fi può
con quello artifitio ingrandir la locutione, quali ch'in infinito.
Se ciò non folo nelle cofe buone, Se che lodar fi vogliono ; ma ancor
nelle cattiue, che a biafmar s'habbiano : alfegnando loro, cofi alPvne,
come ali altre, le priuationi delle qualità, che non fono in elle, fecondo
ch'il far più l'vna cofa, che l'altra ci farà 15 vtile. Et daquefta
maniera d'aitifitio hanno prefo occafionc i Poeti di dedurre, Se formar di
nuouo parole priuatiuc: come pcrelfcmpio, chiamando il canto vocale, con
cento accordo,cioc lenza corde, Se aliro, cioè fenza lira, formando le
parole col mezzo della privazione. Et è atta quella cofa a portar lode, et vaghezza
a quella forte di metafore, che diproportion fidoman» dano: come farebbe
in dire, che il fuon della TróbafuiTe vn fuo* no, o vero vn canto aliro,
ciò fcnza lira • (apo 7. Del deecoro della locuzione oratoria, et quante,
£tf quali fiano le conditioni, le avvertenzie che per Jua cagione fi
ricercano . qual fìa la locution proport tonata > quale la cottumafa 5
et qual la Pathetica, 0 vero affettuofa . » ] m»L 1 S*j^^3EcoRO fi
potrà dire, c habbia la locutione oratoria, j j^ )quana 0 la farà
pathetica, (o voglia dire,bcne efprcfliua gj^^B d'affetti) quando la farà
coltumata, Se quando alle cofe 1 loggette, delle quai li tratti, farà
cóformc,&: proportionata. ProG g ij portionata 2$fT>eIIa r Retorka
d'Arttlotelz^ portionara primicrameic farà ella,quando delle cofe
ampie,gran di> et magnifiche, non fi parlaràcon Itile, Se maniera
humile, àc vile : riè delle balTe, picciolc,& vili, co maniera graue,
fplcdida, | cVgrade. Et quando parimele ad vna parola d'abbietto,
humil fignificato, non fi darà ornamento, Se compagnia di parola,
che maieltà habbia, Se grandezza . peroche quando quello fi
facefie, 4 verrebbe ad apparir comica locutionej come era folitodi
far Cleofone,il qual moire cofe diceua fimili a chi dicerie li vencran$ di
fichi . Pathctica, o vero cfprelTìua d'affetti la locution farà,
fe hauendo ella a moftrar,chc fi lìa riceuuta contumeIia,farà
efpref 4 fina, &e piena d'iracondia : Se fe hauendofi a far mcniion di
cofe, c'habbian dell'impio, Se del brutto, lì diranno con vna certa
indegnationc, stomaco e nausea e qua(ì sforzatamente, Se có ve recondia.
Scper il contrario con vna certa apparente lctiria d a8 nimo, fe di cofe
honorate, Se lodcuoli fi donerà parlare . Se le co femiferabili, Se
calamitofc, con vna cena liumiltà, Se iommiflìó d'animo fi proferiranno.
Se il medeiimo intender fi dee dilcorré9 do per gli altri affetti . Et ha in
vero gran forza vna cofi propriamente efpreflìualocutionc a procacciar
pcrfuafibilità, credenza,óc fede alle cofe. peroche elfendo notoagli
afcoltatori, che per il più le perfonc, che ii ritruouano nel tale
affetto, foglio parlare in quella maniera, che fenton parlar roratore,concludon
có falfo fillogifmo nell'animo loro,chc tale affetto lìacò verità
parimente in lui . di maniera che fe ben non è veramente la cola nel modo,
the l'orator la moltra, o la dice, cglin nondimeno fi danii no a credere, che
cofi fia . Et pare che foglia fempre chi ode fentirfi in vn certo modo
commuouerc, implicarli, Se diuenir partecipe di quello ftelfo affètto, ch'egli
(limi elitre in colui, che patheticamenre parla, ancor che veramente non vi
fia,& non fia ve 13 ro quel, ch'egli dice. Onde molti oratori foglion
cofi commuoucre, Se perturbar d'affetti color, che gli odono, che ftupidi,
Se 14 quafifuordi fe fpauen tati gli fan reftare. Coftumata
locution domanderem poi quella, la qual come con inditio, Se con
fègno i coftumi moftra, folendo feguire a ciafenn genere, òv a
ciafeuno ij habito, locutione ad elfo appropriata, Se accommodata. Et
per genere intendo io, fecondo l'età, come a dir fanciullo, d'età
virile,5c vccchio-,fccondo'l fedo, come a dire donna, o h 11 omo; fecódo la
nationc, come a dire Laccdcmonio, o Thcllalo . Per habiti intendo io poi
quelli, Hai quali può chi fi Ha denominarti nel cale, onel tal modo
qualificato nel viuer Tuo : pofeiache nò tutti gli habiti pollbn la vita
dell huomo da qualche qualità denomi17 nate, et determinare. Ogni volta adunque
che le parole s'accomoderanno, et s'approprieranno a quello, o a quello habito,
fi troucrà coftumc nella locutionc : conciofiacofa che non le
mede lime cofe, et nel medefimo modo dette farà per vlare
vn'huomo rozo, et nutrito in villa, che Tfcrcbbc vnohuom perito, &:
clip uilmcntcdiiciplinato . Suol fai e ancora impresone, Se
effetto nell'animo de gliafcolratori quel, che fuole eiler da coloro,
che cópongono orationi principalmente per lafciarle fcrittc, con falò
tieuolfrequcntia, et abbondantia vfato : quando dicono, Chi e quello, che
quello non fappia? a tutti è nota quella cola . perciòche colui, che ode dir
coli, ancora egli nell'animo Tuo vi allenti fcc,comc quello,ch'in vn certo
modo fi vergogna di no elTer parli tecipe di quello, che tutti gli altri fanno.
Ma l'vlare vn'artifitio tcmpeltiuamentc, o intempefliuamenre è commune,
non folo a quella auuertcntia detta, ma a tutte l'altre, ch'appartengono
al decoro. Bene e vero, ch'ad ogni trabocco, che nuoca al detto
de coro, può recare alquanto di remedio, de di medicina quel, che
{ 14 fuoleeifer trito, et commune in bocca d'ognuno.
Etèchcfàdi mellteri, chel huom nel dir l'errore riprenda, 6c corregga fe
ilcf* ij fo? perciochc vedendoli, cha colui, che parla, non iia nafeoflo
quel, ch'egli fa, poi che egli con la correttion lo dimoftra; vie per
quelto ad edere (limato vero quel, ch'egli dice . Oltra di quello e ben fatto
di non vfare inficme, &in vno lidio tempo tutte quelle cofe, che
poflon giouare a far la locution proportionata : Ferciochc con quella auuertcntia
verrà meglio a natconderfi alafcoltator l'artificio . voglio dir, per elle m
pio, che fe le parole faran dure, afpre, et terribili, farà bene, che
terrore, Se durezza non appaia ancor nella voce, et nel volto,& in
altre cofe, che pa rimente fian conformi . altrimenti fi verranno a
difeoprire, et a paleiar cucii gli artifirij, come gli Hanno. Ma fe delle
cofe propoitionatc le vnc fi prenderanno, et l'altre nò, fi nafeonderà l'ar30
tifino, vfandofi nondimen maggiormente quello. Bcncèvcro chele le cofe
piaccuoli, et priuedi durezza, éc di turbulenria.làran dette có parlare, alpro,
horrido, et duro, o ver per il córrali© co parlar mice, et quietone dure,
noiofe, et afpcre j priua diucrrà . Della c R(tprica d'Ariti otelts 1
1 ucrra la locutione di pcrfuafibilità, Se di fede . Frà le parole
poi, Ieaggiunte,o ver gli cpitheti, le doppie di più compoite,& le
(ha niere, a colui maffimamentc quadrano, clic pathecicamcntc, 8c 3 1
có efprcflìon d'affetti parla, percioche ad vn grandemente irato, farà
dato perdono, fé tirato dal furor dell'ira, per ingrandire vn male, lo
chiamerà con parola doppia, Empiecielo, o con parola ftranicra, pclorio,
cioè vailo, 3c immenfo, ch'c parola (tramerà in Athcne . Polfon quadrar
coli fatte parole in vn'altro caio an» cora, 6c e quando colui, che parla
conofeerà di po(Tedcrc,& d'ha uer già tirati a le gli animi degli
afcoltatori,& d hauergli in Comma qua(i rapiti fuora di loro ftefll, o con
lodi, o con biafmi,o có ira, o con amore, o con quafaltro mezo fi voglia
: fi come fa Ifocratenel fuo Panegirico verfo'i flne,& {penalmente in
quella par te, che comincia, La fama,& la memoria. et in quell'altra
parte, 3 5 Quelli che loftennero,6c quel che fegue . percioche coli fatte
impctuole, et vehementi parole foglion mandar fuora coloro, che cómoflì,
et alienati quafi di mente per qualche potente affetto fo no : et per
queflo non è raarauiglia le coloro, che odono,cómo£fi ancora elfi da vna limile
alienacion di fc ftelfi, le accettan per vere, et le appruouan col loro
aifenfo . Onde corali locu tioni alla poefia grandemente cóucngono, hauendo in
fe la poefia vn no 17 fòchedi fpirito, et furordiuino . Incofi fatti cafi
adunque può hauer luogo appreflb dell'oratore vna cotal maniera di loamone
et in altri nò : fegiànó facellcegli ciò códiflimularione, tk con ironia,
nel modo, che Gorgia foleua fare, &c come li vede nel Fedro parimente
vfato. {apo S. Del numero, et ritmo oratorio : et in che fia
differente dal metrico de i Poeti : et d'altre co/e appartenenti al ritmo a
gli Accenti . [SS A forma, Se la figura del parlare oratorio ricerca
de (fere, nè cofi miiuratamentc numerofa, come fefullc metrica,nèfenza
numero, et ritmo in tutto. percioche l'elTcr metrica tolle
Yialaperfuafibilità, et la fede, apparendo in tal Jl Terz^o libro .
2 5 tal guila finta, et piena d'arrifitio. Er inficine olrra ciò viene a
diftrarre,& a diftoglicr gli auditori daU'atrcnrió delie co fe,che fi
dicono; mentre che falor por l'animo ad attederete afpettar,che ù, 4 mil
mifura di nuouo torni. di maniera che in preuedcrc&afpcttarquel fine,
auuicn Ioro,quel, che fi vede accalcare a i fanciulli, quàdo nelle parole
del bàditore, antiueggono, et preoccupano il nome di colui, eh e eletto
per aduocato da chi fia alla libertà dona . $ to,come a dir,per
effèrapio,il nome di Cleonc-L'elfer poi la loca tionepriua,& lcioltain
tutto di rituio,cV: numero, porta fcco vna ; certa infinità fenza termine
; il che a coi! fatto parlar difcóuiene, douédo egli per ragione haucre i
fuoi fini,*& i iuoi termini, ma no giàmctrici:pofciachepoco foaue,&
pocomanifeito,& noto è l'in 6 finito ; ne con altra cofa prendon fine,
de termin le cofe, che con lo Hello numero ; ne altra cola è il numero
della figura della lottinone oratoria, che ritmo, di cui li metri ancora, et li
verfi Con 7 parti . Dee dunque l'oratione hauer ritmo ; ma nó già quella
fpe rie di ritmo, che fi domanda metro : pofeiache quando quella
ha neire, diticrrta poema. et il ritmo, ch'ella hà d haucre, fa di
meftier, che fia, nó grandemente cfquifito, et efatto, ma fino ad vn 8
certo ragioneuol termine. Hor frà i rithmi 1 heroico primicramente hà in fc del
grande, et no molto è atto al parlar, che fia fcioltoda metro, et pare,
c'harmonia in fua compagnia ricerchi. i o 11 Iambo poi è tanro domelrico
all'vlitato parlar della moltitudine, eh e quafi vna ItelTa colà con cito . Et
da quello nafee, che irà tutte le forti, et fpetiedi verfi, maflfìmamente
più d'ogni altra, fuol cader frequente nel trito parlar comune, quella de
i verfi iaII bici. Dal qual parlar comune della raoltitudine,dec l'oratoria
locutionedifcoftarfialquàto : douendo hauerein fe qualche granii dezza,
cVgrauità più, che nó hà quello . Il trocheo poi par, che per la fua
celerità fia più atto, et accomodato adaccompagnarfi ij con le laltationr,
che alla locutione, della qual parliamo. &di ciò nefainditio l'elTere
ilverfo tetrametro fopra tutti gli altri . ritmi per natura fua fai ta
torio ; ilqual di trochei principalmcn14 te abbonda. Retta dunque il Peane,
ilqual molti, fenza auucrtirlo, ne dargli nome, han feguitod'vfare* cominciando
a far ciò daThialìmncho, che fu il primo : quantunque co chaobiam detti,
continuato concili nel terzo luogo 10 li 240 "Della
Ugo/tea d'Jrittotek 1 6 luoeo, come quel, che contiene in fc la
proportione, o per mec l,o dir la ragione di tre a due. conciofiacolachc 1 vno
di quelli di l'opra dctti,cioc l'heroico, contenga la ragion, che tiene
vno ad vno, Se l'altro cioè il Iambo, o 1 Trocheo (eh vguali nella mifura
fono) contenga la ragione di due ad vno . alle quali due raCioni feguea canto
per ordine, come terza la (cfquialtera, et que,8 ftantlPeane fi contiene. Gli
altri ritmi, et m. Iure dette adunque, repudiar da noi, Se laiciar li dcono,fi
per le cagioni di (opra io aWate, Se fi ancora per ciVer metrici, Se atti
al vedo. Et il Peane dcbbiam riccuerc ; come quello, elicalo fra tutti 1
ri tmi, c habbiam nominati,non fuolc entrar nel vcrfo:&: per conlcgucntc
po trà inaflimamente nafeonderu loueruantia d'elfo . Hor nell vlo, eh
al prefentc fi fadcl Peane, non è pofta in vfo, fc non vna (ola fpetie. Se
quella folamente nel principio del periodo : douendo nondimeno elTer
differente il fin dal principio . S. miouan dunque due fpctic di Peancoppolte
in vn certo modo fra di orotdcl le quali 1 vna conuiene, Se quadraa i
principi), u come al prelcnx 1 te l'vfano: Se è quella, la cui prima f.llaba è
lunga, Se le tre altre, che (V R uon breui . come fi vede, per elTempio,
in quelle greche parole, Dalogenes ite Licic, (ch'in noftra lingua (uonan,
nato m Delo, over di Licia) et inquefte altre, Chrifeocoma e caete
pc dios ( eh in lincrna noftra fuonano, Ornato di chiome d oro, rial
eliuoldiGioue). L'altra fpetie di Peane è quella, per il contrario di cui le
tre prime lillabc fon breui, £v 1 vltima lunga j come, per eirempio,in
quelle greche parole, Meta de gan h.data t oceanon iphanife nix, ch'in noftr,
lingua importano, (opra la terra, et l'acqua, bloccano precipitò la notte. Et
col» fatta (pene di Peane quadra accommodatamente a chiudere, Se
terminare. * c concofiacofa che non cllcndo la (ìllaba breue d integra,*
perfee tam.fura, venga in vn certo modo a render tronca >*C
mutilala % 6 la locutionc,felaf.poncìn fine. Se per quello fa di b.logno
di . 7 farla pofarc,* terminare con lafillaba lunga,accioch* l'altra
raccolta, £5* in fi ritorta, et periodica . £cf che co fa Jia periodo,
£c? de i membri, che fin parti • di quello . et di più maniere qualità
di periodi . I tO^tttì ttf tX't t ' ' i 1 IO Zi lì Itili *
'Ij'ùtlltlf * Uìl»f»f'««J} ? tìyM 'Vna di due forti è neceflariamente
forza, che fi rruoui la locutione : cioè o pendente, Se dirtela, in
guifa che con l'aiuto delle congiuntine particelle habbia la continuità, et l'vnitàTua,
nella maniera che fi veggono cller le Anabale tra le dithirambi che
Cantilene : o veramente in fe ritorta, &l quali raccolta in giro, a
quell'altra forte di dithirambiche cantilene fomigliante, le x quali
Antiftrofe fi domandano • Di quelle due locutioni, la pendente è molto più
antica, e d’Erodoto Thurio vlata, come fi vede, quando dice, Quella farà 1
efplicatxó dell'hirtoria, et quel, 3 chefeguc. Et da tutti in quei tempi
erada prima approuara, Se porta in vfo . ma ne i tempi d'oggi non molti
fon rettati più, che 4 l'vfino. Hor quella diftefa, et pendente locutione
intendo io etVer quella,che termine,o fine alcuno per fe (Iella non reca
mai, fin che la cofa, che fi cfplica,& che s'efpone non termini nel
fenj timentoCuo. Et è veramente poco per fe gioconda, per l'infinità) et intcrmination,
che tiene: defiderando per natura tutti 6 di conofeere, et preueder dalla
lunga il fin delle cofe. Et da quello nafte, che coloro, che per arriuarea
qualche termine > et a qualche meta corrono, Cubito, ch'arriuano alle Cuoltc
delle ftrade, fi fenton rifoluer gli fpiriii, &quafi auuiliti lafcian
di ritener più il fiato: come quelli, a cui prima parendo loro
di vedere il fine, c i tei min del corfo, non parca per conCcguente
di 7 Cernir fatiga* Tale adunquequale habbiam detto s'hà da Iti
mar, 8 che fia la locution pendente. La in le ritorta, et raccolta poi
è $ quella, che in periodi Uà collocata, et di periodi fi compone,
tic per periodo intédo io vna locutione, che in fe rtclla raccolta,
pof H h legga 2^-2 ^ez^> 10 feggavn fuo proprio principio, Se
vn fuo proprio fine, &fiadt grandezza tale, che facilmente tutta inficmc
comprender con 1 1 Fintelleteo, Se con l'apprénfion fi porta. Quella
periodica locutionc adunque ha in le del foaue, Se del giocondo, Se è
infierae11 mente bene apprenfibile, o percettibil, che vogliam dire . Soauc, Se
gioconda è ella primieramente, fi perche elfcndo ella in Ce finita, viene
ad effer contraria al non finito, Se non detcrmina1 3 to, ch'è per fé
noiofo;& fi ancora perche airafcohator' odendola^ par fempre>di
pofTeder di nuouo con l'appenfion qualche cofa, per caula che Tempre
periodo per periodo viene a (coprirti qualche termine : doue che perii
contrario il non preuedere inditio di fine alcuno, Se il non terminarti,
Se fpcdirfi nulla,hà in fedel14 l'infoaue, Se del difpiaceuolc
Beneapprcnfibile,cv ben percettibile e ella poi, per poterfi fino al fin luo
con facilità ritener nella memoria. Et quello le adiuicne per haucr ne i tuoi
periodi mi fura, Se numero, ch e la cofa, che fra tutte l'altre e atta a
dar bc1$ ne imprefla nella memoria. E da quello viene,che ciafehedun molto
meglio conlerua nella memoria i verfi, che la profa, Se il parlare
fciolto, per haucr' i verfi più efatto numcro,chegli mifura. Hor'ei fa di
bifogno, che il periodo fi diffonda. Se s incorpo ri con la fentcntia in
modo,chc con ella proceda faluo,& fini Ica infieme, ne in modo alcun
la fpczzi, o la rompa, o la laici lenza feguirla, andare: come fi vede auuenir
ne i Iambici verfi 17 di Sofocle, Calidonia certamente la terra che già fu
habitata daPclope. perciòchc può per la diuilion fofpicai fi il
contrario di quel, che fi drcan, come a dir nel detto eifempio, chcCalidoI
j nia fia terra del Peloponneflo. De i periodi poi, alcuni fon comporti di
membri, Se alcuni altri fon femplici, o vgnoli, che volo gliam dirgli, di
membri cópollo s intede cfler quello periodo il quale elfcndo perfetto, Se
finito in fc fldfo, Se dilli nto nelle parti fue, viene ad elfcr con commodo,
Se nonratigofo o impedito fpirito proferibile. et ciò. nelle diuife, Se
inrenotte parti fue, fi come adiuien nel periodo pure hora per eifempio
addotto, ma nell'intiero giro fuo . Et di cofi fatto periodo le parti Con
quelle> che fi domandan membri. Semplice, et vgnol periodo intcdo io poi
erter quello, che Ila raccolto in vn membro folo. Quato alla grandezza poi,
deono clfer i membri, Se li periodi non cosi corti, che parer pollali
monchi, Se troncati, ne troppo pa rimente Jl 7crzL,o Ithro . . 3 if
rimente lunghi, conciofiacofa che i troppo corti, fogliari fare in li vn
certo modo virare, Se inciampato 1 ascoltatore in odirgli. per cioche
quando procedendo, Se difeorredo egli con l apprenfion dell'animo in
lungo, verfo la mi fura di quel termine, alqual già nella mente,
s'haconceputo, che debba feguir colui, che parla, fe in tal cafo dà
d'intoppo nella cedanone et «ci finir di quello, prima ch'ei non
s'afpctta, e uccellino, che come ributtato da ta le odacolo, in vn certo
modo quali inciampi, Se arredi. Dall'altra parte i periodi troppo lunghi
vengono a lafciare,& a far rima nere l'auditore a dietro, nella
maniera che tra q uei, che infieme paleggiano Se fpatij finno trapalando
alle volte l'vno d'elfi più olrra del rcrmin (olito, prima che in dierro
torni, vienea Ialciar, et abbandonar quali gli altri, che palleggiano, Se fanno
fpatijfcco. Mcdelimamente hanno i periodi troppo lunghi, quello d
imperfcttione,chc finno apparentia più tolto di fermoni interi, che di periodi,
che fon pam d'elfi, Se iì polìbn perquedo assomigliarc a quella forte di poema,
che fi chiama Ànabole. onde fi può a coli Tatti periodi accommodar quel mordace
detto, ch'vsò Democriro Chio contra di Melanippide; il quale in
vece d'Antiftrofi s'affarigaua in comporre AnabolcdilfcdunqucCoftui, che
noia, et fatica fabrica ad altri ; fariga, Se noia fabricaa fe medefimo .
Se in vero le lunghe anabolepeflìme fono al Poeta, che le fa. Qitcdo medefimo
può co ragione ancora adattarli, de dirli contra di quelli, che troppo
lunghi membri dicendo fanno. Dall'altra parte i periodi, che troppo brcui
i Ior membri tengono, non meritan d'elTer domandati veramente periodi, cioè
giri, &circuiri, mandando pertrauerfo precipiti gl’ascoltatori. Hor di così
fatte locutioni, che fon compofte di mcbri, Se per quello fi podbn membruti
periodi domandare, alcune fono fcioltejibcre, Se difobligatej Se altre
fottopofte a oppo3 3 da contrapolìtione. Sciolte, Se libere farien, come a dir
(per ef. fempio) queda, Spelte volte hò io hauuto in ammirarione coloro,
Che quede ibléni adunanzepanagiriche hanno ordinato, Secolor parimente, che
quedi eiTercitanui giuochi, Se conrefe han no inftimito. D'oppodapoi
contrapofmon fon quelle, negli vni, Se ne gli altri membri de le quali, o fi
fan corrifpondef gli vni contrari] a gli altri, o vna delia cola fi fa
corrifpondere ad am3 5 biduc i contrarij. come (per elfempio) l'aria dicendo, A
gli vni,effa borica d'Arinotela Capo io. DeltVrbanita della locutione
oratoria, che co/a la fia^tn che confijla ; quante coje pojfon concorrere
a rendere il parlare orbano . Avendo noi già detcrminato di quelle
cofea bastanza, fegue, che inoltriamo al prefente, onde procacciar
quelle fi poffanoje quali fono atte a rcdereil parlare vrbano,& a farlo
apparir vago,&gra tiofo, perciochel yfare, &porreinarto I
vrbanità del dire, e cofa dahuomo, che fia, o dalla natura bene
inftrutto, Se accommodato a quejlo,o dalla lunga confuetudine aciò
artue fatto, cVerterci tato, mail inoltrare li precetti, et le vie, che
fi han da tenere in farlo, a quella prefente arte, et methodica via J
appartiene. Direm dunque di quello al prefente, et affineremo, et raccoglieremo
quelle colè, che poffono a ciò effere vtili, 4 pigliando alquanto da alto
il principio in quella maniera. E cola per natura a tutti gli h uomini grata,
de gioconda il facilmenteimpararc: et e/Tendo le parole inditij fignificatiui
di qualche cofa ; ne fegue, che giocódiflìme ci fatan tutte quelle parole,
che * cauferan lo imparare, cioè nuouanotitia in noi. Kor le
parole uranierc mal polìon far quelìo, come quelle, che ci fono
ignote: 7 et le proprie ci fon già prima note . ma le parole metaforiche,
o 8 ver trafponate, fopra tutte l'altre lopoffon fare, peroche
s'alcun ( per cllempio^ chiama la vecchiezza ftoppia, o ver biadegià
fcc che, viene a fare, a chi ode,imparare, et gullar nuoua
notitiaper cagion di quella cofa comune, che comè genere Ila lor di
fopra: efrendoambeducxio ècofila vecchiezza^comc la ftoppia,o ver tal
biade, cofefattearidc, &giasfioritc. Fannoancorqucfto me defimo
effetto Jc immagini, o ver comparationi de i Poeti,: per quella cagion,
quando fon ben formate, po/Tbn fare apparire il parlare vi bano; come
quelle, che fecondo c'nabbiam già detto prima ; fono in foftantia metafore,
differenti folo da elle, per 11 quella poca d'aggiunta, che le ricercano.
Onde viene a parer l'immagine manco gioconda, per la Iunghezza,nella qual
lì (rende j Jl Terzj) libro . iz de; n è dice breuemenre quella cofa
eller quella: onde non ha 1 3 occalìon l'incelicelo di chi ode di cercare,
et apprenderci quafi guadagnarli la cofa egli ftellb . Neceflàriamentc adunque
quei modi di locurioni, et quelli Enthimemi fi deono Itimare vrbani, i
quali co facil prefiezza ci pollon fare imparare, &c qualche 1 j nuoua
notitia acquilìarc.Et per quella ragione nè quelli enthime mi, che fon
troppo fuperficiali, et patemi, polFono vrbani,cV'gra tiofi apparire: ( òe
per iupcrliciali intendo io l'elferea tutti apertamente noti, Se leder di cola,
che nó punto importi il faperla, o l'inucltigarla ) ne parimente quelli, 1
quali proferiti che lono, 1 6 ofeuri nondimeno,& non manifefti reftano
: ma folamentequel li, li quali mentre che fi proferifeono Tono
infiememente apprefi, quantunque prima non le nhaueirc notitia alcuna:
oalmen poco doppo, che proferiti lìano, fon dall'intelletto di chi ode,
Se 17 có l'apprcnfion gli fegue, arriuati. Da qucfti enthimemi adunque li
viene a guadagnare, o inficme, o poco doppo,qualche notizia di cosa, che prima
non fi fappia . doue che da quegli altri, che poco fa diceuamo, nè
nell'vno, nè nell'altro modo li può tal 18 guadagnofarc. Quanto dunque
appartiene alla fentcntia,& feti timento della locutione, quelli c
habbiam detti fono gli cnthi12 memi, che fi pollbno (limare vrbani. Quanto poi
allaltellalocutione, rifpetto prima alla figura, Se forma di quella ; alhora
vrbanità vi fi trouerà, quando vi faràinfcrta cótrapofition di conio trarij :
come, per ch'empio, dicendo, Quella, che da tutti in pu blico è (limata
per pace, da colloro in prillato e giudicata per guerra : doue fi vede la
cótentione, o ver còtrapofitione,cirendo 2 1 la guerra cetraria alla pace.
Rispetto alle parole vi fi tremerà primieramente, fe vi fi conterrà metafora,
et tal metafora, che la nonhabbia, nè dell alieno, Se del remoto,
pofeiache cofi verrebbe ad elfer quando la fi profenfee, difficilmente intefa :
nè parimente habbia troppo dell'aperto, Se del luperficiale ;
pofeia che cofi non darebbe ella occafion di diletto alcuno a chi
l'ode, a 3 Et vi fi trouerà ancora, fe fi porrà la cofa in vn certo modo
dinanzi a gli occhi, come ch'in atto quali operante : peroche
per l'impreiììon, c habbian le cofe a far nell'animo di chi ode, fa
di mefticri, che più torto li mollrino, o vero appaiano, come inatto
prefente operanti, che come quiete, et atte a operare in 14 futuro.Fà di bifogno
adunque,ch'a quelle tre cofe,fi tenga l'occhio, alla metafora, alla
contcntione,ouerc6trapofirion dei contrariaci all'efficace euidenria nel por la
cofa dinanzi a gli occhi, i f et emendo le metafore di quattro fpctie,
quelle di degniti, et di grada fopra tutte le altre ccccdonoje quali
confiftono in propor i6 tione: ficomc (per eilempio) fu quella, eh vsò
Pericle, quando parlàdo di quei gioueni, cheran morti nella guerra diccua,
che costerà (tata quella giouentù, dalla città tolta via,
comes'alcun 27 togliclìe via dall'anno la primaucra. et Letine parlando
dei Lacedemoni) di ire, non douerh* cóportare, &c tener poca cura, che la
Grecia hauefle da reftar priua d'vno de duoi occhi fuoi.Cefifo doto
ancora,vedédo,chc Charcte ccrcaua,& facca diligétia di re der delle
cole publichc da lui amminiftratc, conto, et ragione a punto in quel
tempo, che la Città ftaua occupata nella guerra Òlinthiaca,indegnato di
quefto fatto, dille cheCharcre aJhor, che gli pareua d hauer quel popolo
in vn forno,tentaua,& faccia ua forza di rendere i conti,& le ragioni
fue . et il medefimoCefìfodoto ellbrtando già gli Atheniclì a mandar gente nell
lfola d'Euboca,per trar di lì frumento, per maggiormente
infumargli diire loro,e(Tèrdi bifogno,ch a quella imprela vfcille fuorail
de 50 creto di Milciade. Ificrate ancora, trattando, Se confutando
gli Atheniclì di far pace,& amicitia con quei di £pidauro,& di
tue ta quella riuiera,hauendo egli quefto a male,perditHiadergli
dif fe loro,ch'cglin cercauan di priuarfi del viatico delle lor guerre. Pitholao
parimente foleua chiamar li (ola di Salamine,la fruita, 3 2 ouer la sferza
del popolo Atheniefe. et la città di Scilo foleua e3 3 gli chiamar l'arca, o
vogliam dire il granaro di Pireo. Pericle me defimamentecfortando,che fi
rogliclTc via la città d Egina, diccua che gli era da tot via quel fiocco da
gli occhi dal porto di Pireo. Mirocle ancora elfendo con non so chi venuto in
mentioned'vnatal pedona, tenuta giufta, et da bene, dille non
parerli elfer punto peggiore huom di quello : perochc quello
(diceua egli) pone in atto la fua malitia con terzi tochi (cioè con
vfure, ch imporran quatro per ccnto,che fon maggiori delle decimali, eh
importan manco di due per cento) et io la pongo in atro con decimali tochi
(cioè con dicci figli, lignificando appretto de i greci, la parola, tocos, co
si rvfura,come i figliuoli.) Alclfandro parimente in vn de i fuoi verfi
Iambici, parlàdo delle figliuole fue, chaucuan già trapalfato l'età
conuencuole a maritarli, dille, Le mievergini hanlafciato fpi rare il tempo
di coparirein giuditio $6 dinazi al tribunale delle Nozze.
MedelimamcntcPolicuto cétra di Speufippo, il qual'cra grandemente
molcltato d apoplcflìa, di ccua,che quello nó potcua trouar mai fermezza,
ancor chela for tuna l'hauefle raccluufo in quella infirmiti penteiiringa
(cioè limile a quello inltromcnto da carcere, che in cinque parti
tcneiu 57 la pedona ftretta, Se perciò pctelìringi li domàdaua.)
Ccfifodoto |8 ancora foleua chiamar le galere, o ver le naui, molini ornati
. Il Cinico chiamaua le tauernein Athene,le Fiditiede gli Athcniefi ;
(elfendo le fiditic quelle femplici, Se modelle publiche cene 39 de i
Laccdemonij.) Elione parimece dille, che gli Athcniell ha40 ucuan verfata la
Città lopra la Sicilia. Se in quelle parolc,nó lo-, lo lì cótica metafora,
ma fi pone ancora in ella la cola dinàzi a gli occhi. come li pone ancora
in quella, Onde la Grecia cfclaroaua, Se vocifcraua. doue fi vede in vn
certo modo la mtafora, &: il poni meco della cofa dinazi a gli occhi, come
lì vede ancora in querelle già dille Cefifodoto,douerfi hauer cura,che le
publichc adunaze,nó parelfer più torto incurlioni militari, che ciuili
raccogliraéti.óc il mcdclimo modo di dire vsò Kocratc cótra di quelli,
che a modo di tutbuléte,& inordinate incorfioni,in quelle
cómunif 44 fune adunaze panagiriche lì raccoglie u a no. Et ancora in
quella funebre oratione domàdata rEpitafHo,fi legge, che gi ulta cofa
fa rebbe,che fopraa quei fepulchro,doueeran fepolti quelli, ch'eran morti
nel fatto d'arme appretto di Salaminc,lileualTe i capcgli la Grecia, poi
ch'infiemc có la virtù loro, era fepolta la libertà 45 di quella, doue fc
fi fulfe detto, chegiufta cofa farebbe, che la Grecia piangere, Se facelfe
fopraquel lepolcro lamenti per elTer quiui lepolta la virtù di coloro,
farebbe Hata metafora, Se inliememente ponimcto della cola dinazi a gli occhi,
ma 1 hauere aggiùto elici có la virtù fepolta inlieme la libertà, vi ha fitto
elici e ancor di più la contentione, Se contrapolition de i contranj.
lucrate ancora dille, il camino della mia orationeattrauerlerà perii mezo
de i fatti, et delle attioni di Charete.doue li vede primieraméte la metafora
di proportione,& in quel dir poi, per il mezo, 48 fi viene a por la
cofa dinazi agli occhi. Se parimente in dire, douerlì chiamare alle volte i
pericoli in aiutodc i pericoli, li cótien 4 tal metafora,chc dinazi a gli
occhi la cofa pone. Licoleone ancora difendedo Chabrio dille, Nó haretc voi
alquàto di rtfpetto (o ^ li giudici). Se di verecundia a quella ftatua di
bronzo, che fupplica a 50 voi per lui. Le quai parole,nó Tempre, ma per
quel répo, cV per quella occalionealhor prefente, contengono in le
metafora, ma ben fonoattea por Tempre la cofa dinanzi agli occhi, perochc
in quello flato di pericolo,in che Ti trouaua alhor Chabria,puòqua drar,che
la (tatua Tupplichi,dàdo(ì alle coTe inanimate,qucl, che conuiene
all'animate,come ch'altro non fiano e(Ic fiatile, che có5 i menrarij,&
memonedelle coTe,che Ti fanno per la republica.Co fìmil metafora di
proportion Ti dircbbe,crTalcuni co ogni manie ra di diligctia (Indiano, Se
s'affatigano per Taper poco, Se per hauer l'animo vile.cóciolìacoTa che
l'attribuir cura,ÓVdiligctia, propriamente s'accomodi al cercar
d'accreTcere,& di migliorare, Se 51 nodi palfàr nel male. Simile ancor
METAFORA Taria diccdo.haueic Iddio nel darci 1 intelletto, acccTo nell'anima
noftra vn lume, poTcil&i e aro beatole qu erte co(e,intelletto, et lumc,
conuengono 5$ in queftacótmwvc anione di far manifefto,& recar
chiarezza. Simile ancora è quella, con quefta pace non difciogliamo la guer54
ra, mala proroghiamo : peroche ambedue quefrecofe, (cioè
la prorogarione,& vna così fatta pace) conuengono in guardar co55 fa,
c'hahbiaa venire . Simile ancora èquclla altra, che dice, Le paci
vantaggiofe elìer più egregij Trofei* che non fon quelli, che j6 ti
rizzano nelle battaglie, et ne i fatti d'arme . conciofiacofa che quelli
lì Togliono Tpeìlb Tir percoli*, ch'all'importantia di tutta la guerra non
Ton di molto momento, doue che quelle Ti pógoi» 57 per il felice fine,che
Ga porto a tutta la guerra . ambedue queftecofe adunque (cioè corali paci,&
li Trofei) conuengon nel58 ladetta metafora, in elFcr fegni, et indi ti j, di
vittoria. Se cosi fatta metafora è quella ancora, Le città fono ancora
elle grandemente fottopofteàcondciiation di pagar la pena degli error
loro,laqual pena è il vitupcrio,nel quale apprello de gli huomini errando
incorrono : non eilendo altro il pagar la pena, che lettone, Se danno
guidamente riceuuto. Habbiamo già veduto adunque, che la metafora, et il
ponimento della cofa dinanzi a gli occhi, Terne, Se gioitamenro reca alla
cotnpofition del parlar vrbano. aji (ajtoir. *Di quella locuzione }
che pon la cofa dinanXi^ a gli occhi : come le metafore* et le immagini pojfon
fruire a rendere il parlare : priue d'anima,per virtù delle metafore. In tutti
i quai lucghi, quell attribuiteli ei fa energia d'atto, Se dopcrationealle
cofe>reca gratia,& dilcuo,come(per eiTcmpio) in quel luogo. Di nuouo
il fallo sfacciato, et lenza volto di vergogna,daua voi ta in dietro, Se
rotolando tornaua al piano. Si in quell'altro luoli ij go. Il 2 j 2 *Del/a
r B^torlca come nell liola di Carpatilo, il Jl Terzj) libro . e già
detto incom modo é Quai cofc adunque rechin fo r za allalocurionc vrbana,* et onde
lìa che talcffecro facciano, già pienamé S 6 te ( :i può dire) la cagione
allegata riabbiamo . Frale hiperboli ancora, quelle che (on più lodate, 6V
ingegnofe, fono ancora clic 87 metafore; co me (per elfcmpio)quelta,chc fu
vfara conerà d'vno, c haueua la faccia tutta
punta, Kk Capo 2jS ' T>effa c B^tortca d %
Àrittotek_j (apo 12. ^Deìla diuerjìtà delle locutioni oratorie, fecondo la
dtHintion de t tre generi di cau/e$£f fecondo che differenti fino le
Orazioni, che han da rnoHrar la firz^a nel r e citar fi h da quelle, che
principalmente, accioche habbtano da effer lette, £f da reflarcj (critte,
fi compongono . A di meftieri di fnpere, Se che nó ad ogni gcner couicne,
Se quadra vna ftc Ila forre di locutione, ma cialcun defli ne ricerca vna,
che (ia propria Tua. conciofiacola che altra locutione habbia da
efler quella, che hà da poter leggerli, Se reftarc fcrirta, et altra
quella, e hà da vfar principalmente la forza fua nella contenderne, Se
recitationc : fi come parimente diuerfa ha da elfer la 1 locution
dclibcratiua dalla giudiciale . Et ambedue nondimeno 3 fa di meftieri di
conofeere, et di fiipcrc . Pcrcioche la prima, ricerca, clic fi fappia
puramente, Se lenza errore parlar nella legir4 cima lingua greca, Se di quello
Ci contentarci 1 altra è ncceifario di fapere,acciochc 1 huomo non habbia
da cfler forzaro di tacer con la penna, ogniuolta che defiderio gli venga
di far partecipi gli altri dei concetti fuoi: il che fuole auuenirea
color, che fcri5 ucr non fanno. Hor la locutione, c'hà da poter rimanere feri
tta, Se per quello fctittibil fi può domandare > ha da ellere cfquifmfllma :
Se la contentiofa grandemente, anione, &rpronunv 6 tia ricerca* Della
quale due fpetie li rruouano, 1 vna pathciica, Se cfpreulua d'affetti, et l'altra
coturnata, Se di cofhime efprcf7 (ìua . Et da quello nafee che gli Hillnom van
dietro voluntieri a rappxcfentar quelle fauole, che fon nella delta guifa
di 8 affetti, et di coflumi cfpreflute . Se li Poeri dall'altra pai te vo
luniicri dan ricetto a cosi fatta forte d'hiftrioni, che ben lìano 5 atti
a tale efprelfionc. Sogliono ancor de i poeti elfer lodati quelli > che
nei lor poemi non tanto l'attione, quanto la lctùon riguardano* de i quali (per
elfempio) è vno Chcremone : co me quello, che non altrimenti è
efquifito,& diligente in quello, ch'egli fcriue, che fé orationi, che
feritre hauelTer da reftare com ponellc. Se il medemo fi può dir di
Licinnio trà i poeti dithirabi 10 bici, o lirici, che gli vogliam dire .
Et Ce Ci pógono in comparacionc, Se paragone l'vna, Se l'altra forte di
orationi, fi vede chiaro, che quellcchc perche habbian da efler lette fi fanno,
pofte in atto di recitarfi nelle contefe delle concioni ; fneruate,
riftrette, Se angurie appaiono.òV quelle dall'altra parte,lcquali nel
recitarfi, Se contenderfi, fon parure efficaci, Se potenti, venute poi in mano,
Se lcrtc; languide, et roze, Se (per dir cofi) plebee Con riti 11 feitc.
Di che altra cola non e cagione, Ce non ch'a quelle at doni, il Se
contentioni, accommodate, et proportionare fono . Perla qua! cola quelle
orationi, che ali amone, c\: alla pronuntia fon deftinatc-, feda loro fi
tollc via quella atrionc,c\: quella pronuntia, non potendo poi far
lvfficio,& l'effetto loro, in fi pide, fredde, Se inette appaiono: come
(per eflempioj accaderebbe nel proferir quelle parole,chedifgiunrealle
volte fi pògono, Se fciol 13 tcdaligatura,& da copula. Mcdefimamentc
il repcter più volte in foftantia vna fteilà cofa ; nelle orationi
fcrittibili (per dir cofi,) che fi fanno acciò fian lette ; non fenza
caufa è reprouato, et poco lodato : douc che nelle contentiofe, Se
pronuntiabili oratio14 ni, fi vede a^ai dagl’oratori vfato : eflendo così fatte
repetite locutioni, molto bifognofe,di pronuntia,ó\r dattionc.
MaèneceiTario che in così fatte rcpetitioni,faccia colui, che le
proferifee qualche agitatone Se mutatione nel proferirle,pcr inoltrar di
dire con vna cofa,diuerfe cofe. la qual mutatione dàadito, Se ("piana in
vn certo modo la via all'hiftrionica attionc oratoria : come 16 fper
ellcmpioj dicendo, Coftui e quello, c hi vfurpato, Se furato le cofe vofìre,
coftui e quello, che vi hà ingannati, cortili è quello, c'hà finalmente
tentato di tradirui. fi come Filemone hiftrionc parimente faceua nel rapprefen
tare, Se recitar la fattola d'AnalIandridc, nominata la Gerontomania, o
pazzia dei vecchi, che la vogliam dire, Se fpetialmente doue parlano
inficine 18 Radaraantho, Se Palimede. &nelprologo ancor di
quell'altra fauola, che i Religiofi, ouero i Pij n domanda, Se fpenalmétc
in quel luogo, doue più volte fi repctifee, Se Ci replica la parolaio. Quelle
forti di locutioni adunque a chi non le aiuralfe con l'attionc,Óc
conlapronuntiajdiuerrebbero^om'in prouerbio fi diKk ij ce,^ 10 ce, colui,
che la trine porrà. Se il medesimo fi dee fouerchie,c\: inutili fono, Se
più torto imperferrione, cheperJi fettione apportano. Ma lcgiudiciali orationi
han di memeri di maggior politezza, et di piuefquifno Audio ; Se
maggiormente fc dinanzi ad vn giudice folo accalca, ches'habbia da narrar
la causa, eiTendo quella la minima dillantia, che nell'arte del
dire 3 3 accafehi trà chi odc>& chi parla, pofeiache in elfo vien
maggiormente JlTerzjo libro. 261 mente veduto, et auuértiro quello,
che fia proprio, 6V appartenere alla cau fa; et quello, che fiaalicno, &c
remoto da quella, nò ha luogo quiui laconcenrio(a,& cócitata attione :
et per cófegucuee reità in chi ode ilgiuditio fchietto, ite
incontaminato. 14 Perlaqual cola non tutti gl’oratori, ch'eccellono in vn
di quelli generi di locutione, eccellon parimente in tutti,
percioche donerà matfìmamente ditneftien dell anione^ fa manco
perii 3; contrario d'cfquilita diligenti.! bi fogno. et quefto accade
douc è neccllària la voce, de mallimamcnte douegrande,alra, ÒV refo}6
nantc fi ricerca. La locutione dimollratiua adunque viene ad cf » fcr la
più habile a tettare feruta, et la più fcrittibil (per dir coti) eflendo
quello quali l'viUcio fuo, periiqual principalmcnre Ci compone. Nel
fecondo luogo poi larà attaaquelk> la giudicia37 le. Il voler poi aggi ngner
nuouc dioilioni della locutione, con dire, che biiogna>ch'eiia (la
foaue, &gioconda,& che la fia ma3 8 gnifica, c cofa vana,&
fupcrtìua. perochc perche più torto ha ci la da ellercosì, che non ha da
clfcr temperata, ex: liberale,!?»: d al 35? tra virtù, et coftumc tale ?
Quanto adunque alla foauità,lc conditioni, che fin qui fi fono alla locutione
allignate, la faranno ^ tale, feda noi è fiata rettamente determinata, de
diffìnira la virtù diquella. percioche a che fine s'hà da credere, che ha
flato detto clìer necelìatio, che la lìa aperta, Se lucida, Se non haimia
del vile, Se dcll'humile, ma fia conucneuolmente temperata in quel 41
naczo ? pofeiache così dal troppo ella abbondare nel fupertiuo delle
parole; come dalla troppo fuccinta brcuità, puòdiuenirc ofeura, Se poco
mani fella : et per confeguentc nó può eller du41 bio, che mediocrità in tal
cofa non le conuenga. Et alla giocon dita, et dolcezza d'ella, le
conditioni et qualità già dette potran feruire bafìantemente, Ce ben
tcmpcrate,Cv mifchiate, (arano inficine quelle parole,che nó fon lungi dal
parlare vfirato; et quelle, che tengono alquanto del nuouo,6V del forefticro :
et le conueneuole oratorio ritmo, o numero, che vogliam dire, non
le mancarà ; ne parimente il decoro,in modo,che credibile, cv per43
fuafibile, la poflà rendere. Della locuzione aduque habbiamo
a baflanzadctto,sì per quel, che tocca a tutti li generi di caufe
comunemente; et sì per quello, eh a ciafehedun d'eflj era lacualmente
ncccllano. Rellachc dellordin delle parti integrali dell Oiation
ragioniamo . (apofj. 'Delle farti integrali dell'orazione ì del
numero-, et Jufficientia di quelle . Et come diuerfamente errajfer diuerfi
altri Scrittori della Retorica, nella diutjìone dell'orazione, (f nel numero
delle farti d'ejfa . Ve fon le parti dell'oratione oratoria .
percioche gli e ncccilàrio, che Ci proponga la cofa, che s hà da
prouare, et che fi proui la cofa, che ila proponga. Onde il non prouare, et non
dimoftrarclaco1IW fa,che fi efpone, et propon nella caufa, o il
voler duiiofìrarc,& prosare, (e cola alcuna non lì fia cfpofta,&:
propo 4 ila prima, fon cofc in natura lor non potàbili : polciachc cohri, diepruoua,
et dimoitra, e forza che qualche cofa dimoftri : &c all'incontra
colui, che propone qualche cofa, percagion d haj uerla poi a prouare, et inoltrar
la propone. Delle quai due cofe quella vi ti ma non e altro, che Propo fi ti on
e, o proponimento o propofta che vogliam dire, 6c quella non e altro, che
pruoua a 6 far fede : nella maniera, che s'alcun diuideflc le fciennc in
pròblemi, o ver propofti quefiti,&: in dimoftrationi. Ma a i tempi noitri
hoggi vanaméte, et quafi ridicolofamentcdiuidono:conciofucofa che la
Narratione, folamentc nel gcner giudicialealle $ volte habbia luogo, ma
nel dimoftratiuo, &c neldeliberatiuo, come eflerpuò chcfitruoui
narratione, &c fpctialmente tale, quale eglino la intendono? o come vi
fi può parimente trottar quella parte, nella quale fi procede contra dell
auuerfario ì ol Epilogo ancora delle cofe già prima dimonrate ?
Mcdefimamente il proemio, e il porre in parragone, 6c comparatone
le proprie ragioni con quelle deU'auuerfario, et il
recapitularcj alhor nelle delibciationi,cx: nelle codoni truouan folamctc
luogo;qufulo tra i cófiglieri, che dicon la lor fenrentia, cade per caio
qualche oppugnatione, et qualche controuerfia -, folcdo nel ocncr
deliberati uo accafcarc ancor molte volte accufationc, &; difenlìone ;
ma non in quanto è egli delibcratiuo, ouer conful14 tatiuo. Ma ne ancor
l'Epilogo e tempre necellario ad ogni giùdiciale orationc; come a dir
quando, o ella molro breue ila ; o le cofe, ch'ella contiene, fiano per
loro fterte atre a reftar faciimé* \6 te nella memoria, di maniera che
quando vi Ci truova, accadeciò per la lunghezza dell'orarione, che Io comporta.
Son dunque neceflaric la Propostone, o proponimento che vogliam di. re,
&la pruoua a far fede : et quelle due fon veramente effentiali, 5c proprie
parti dell'oratione. Qyellcpoi le quali al più accader può, che trouar vi Ci
pollano, Con quattro, il Proemio, la 19 Propolìtionc,la pruoua a far
fcdc,& l'Epilogo-condoila cofàche l'opporiì, et il contradire alle
volte ali auucrfario, altro veramexo te non riguardi fé non lo ftelio prouarc,
Se procacciar fede. Il porre ancora in comparatone, et parragone le
proprie ragioni con quelle dcll'attucriano, (chccollationc da alcuni è
detta) non e altro in ibftantia, eh 'ampliflcation delle proprie ragioni ;
Se per conferente vien tal cofa a inchiuderfi, et ad hauer
parte nella fterfo far fede, perche colui, che con quello
parragonarc amplifica, qualche cofa di più vicnecgli adimoftrare, cVaproI
I ilare in far quello . Ma non già quello medefimo auuiene del proemio, et
deli Epilogo; eflendo l vno, et l'altro indrizzato a imprimer meglio nella
memoria le cofe, che fi fon dette, o che 11 s'handadirc. Mas'alcun vorrà
far la diuilìon di tarparti nel mo do, chcfolcuan fare li feguaci di Theodoro
; altra parte farà la narratone, altra lafopranarratione, altra
l'antenarratione, altra laredarguirionc, et la fopra redarguì don e. Ma alhor
fa di bisogno di trouarc, 6c impor nuoui nomi,quado s'han da cfprimerenuoue
parimente nature, et differente nnouc. altrimenti il volere imporre, et formar
nuoui no14 mi, è cofa vana,fuperrlua,cVnugaforia : fi ^ come fece Licinnio
nei libri che fcrif fc di queft arre; nominando al* cune parti
Corrobot ationi, altre digreflìoni, Se al tre
chiamando, rami* è 64. T>eUa ^Retorcia d* ArìHotele^j (apolli
T)i quella parte dell'orazione > ch'i chiamata Proemio 5 et quali auuer
tentici y, £g precetti sfacciati di b [fogno per la buona fir maison
di quello in ciafihedun gener di caufe ; £f de gli "vfficij^ che
conuengono a cotal parler L Proemio oratorio adunque non e a!rro,che
prin cipiotieirorarione; fi come nei Poemi il prologo, et appreflb de i
fonatori di tibie, o di Hauti, quella prima lonata, che fanno di fantafia .
conciofiacola che tutti quelli fianoin vn certo modo princi P»j,c habbian
quali come a {pianar la ftrada a quelli, chan da paf 3 iar per cita. Bene
c vero, che così fatta prepara rione, che dal principia fanno li fonatori,
s'aflòmiglia Ire rial mente al proemio i i 4 Jicl gener dimoftranuo.
perochc i detti fonatori, (è in qualche forte di fonata fi fenton
particolarmente valere, quella prendon per lor principio, et in quella
vagando vanno ; et finalmente có t x buon congiugnimcnto l adattano con la
fonata,che principalmc j te incedono. Questo medefimo nelle dimolìratiue orationi
ciecito, 6c s'appariico di fare, percioche pigliando lorator da
prin cipioadir di quella cofa,& di quel ioggerto,che più gli
aggrada, èv in quello eiUndo proceduto alquanto, dee dappoi con deliro, et
ingegnofo appiccamene congiugnerlo con fa cauti fua ; co7 ine fi vede* che
molti fanno. et n riabbiamo i c Ikmpio dlfo#ra^ x te neirorationcjch'ci
fece in lode d Helcna. cócioliacofa che neffuna conuenientiapaia, che fi
tritoni tra l'i rigane noi e, cV conrenS tiofa profefllon dei boli ih A I ' v
lena, oc inficine ne viene ancor quello di bene, ch'injcosi fatto
digredirei allontanarli dal foggerto parincipale, pare, che il corpo di turca
l'orarionenediucnp ga vario, et nó tutto d'vna ftefla forma. Hora i proemi)
delle dimoilratiue orarioni fi poiIono,comeda lor luoghi trarre dalla
lo 10 deprimieramcce, o dal vituperio: come fece Gorgia nella Tua
ora rione Olimpiaca co quello principio,DigniiTìmi di
amniiratione (Nobilitimi Greci) fon giudicati da molti coloro,& quel
fegue. t perciòfi TerZjO Uro . 2 eSa 'Retorica d'LIZIO ti ditirambici,
o lirici, che gli vogliam dire, fon limili a quei 14 delgener di inoltra
ti uo . come (per eflempio) quello, Per cagió tua, et delle cofe tue, et de
i tuoi doni, et gran benefitij, et per 1 $ cagion de i tuoi trofei, vengo
io a te, o (acro Baccho . Nelle fattole adunque de i poeti, et parimente ne gli
Epici poemi loro, hà d'apparir dal principio vno indino, Se vna inoltra di
tutta 1 o16 pera, che feguir dee : acciochc fi polla preuedere in vn certo
mo do innazi quello, che nel poema, et nell'opera fi contenga,^:
no habbiachiodeda ftarcin tutto fofpcfo, et pendente d'ani mo,co17 me
dubiofo di qucllo,che s'habbia a dire : ellcndo la indetcrmiqation delle cole
atta per fu a natura a fare errando, et vagando aS andare. Se fi darà
dunque a chi ode, vn principio, come che quali in mano, fi farà in quella
gui fa, ch'egli a quello attenendofi, polla andar feguendo con Tapprenfion le
cofe, che fi diranno . Et per quella ragione fù fatto quel principio
. (anta Dea l ira : Se que Ilo . Di (jHcU'buom dimmi 0 Afufa : Se
quell'altro. 3 o Siami Duce a narrar con nuouo carme, • j La guerra,
che d'Europa in Afta fiefej, 3 I I Tragici poeti ancora danno da principio
qualche indino, Se lume di quello, che nella fauola fi contenga : fe non (ubico
da prin 31 cipio, come fà Euripide, almcn nó mancan di farlo in
qualche parte dentro allo Hello prologo, come fa Sofocle, quando dice, 3
3 Polibo fu il mio padre. et quel che fegue . Et nella Comedia pi 34
rimentefifa il medefimo. L'importantiflìmo, et necellàrifumo adunque orrido, c
hà da fare il proemio,& che ptopriamente gli fi con ni cnc, s'hà da (limar,
che fia l'indicare, et aprire i'in3J tentione, e'1 fine, per cagion del quale
fia fatta l'oratione. conciofiacofa che correndo, che la caufa, et la cofa
Itelfa, di cui s'hà da trattare, fia all'ai chiaramente nota, o di
brcuiflìma oratione j 6 Labbia bifogoo, fi può in tal calo foprafeder dal
proemio. Tutti gli altri effetti, et offitij poi, eh e loglio no vfar di farei
proemi;» fon quaficome medicamenti, cV remedij : ne fon propri; fuoi, 37
ma communi all'altre parti dclloratione . Erquem fi pollon prc derc, o
dalla perfona di colui, clic parln,o da quella dellafcoltatore, o dalla ìtetfà
cofa, doue Uà la caufa, o ver dalla perfona del38 l'auuerfario. Da colui, che
parla, Se cWlaunerfario, fi polfon prender tutte quelle cofe,
ch'appartenere, Se leruii poilbnoadi fciogtiere,&a impor calnmnic : ma non
già nella medefima maniera, Se nello rtellb luogo . pcrciochc l'auuerfario, che
fi difende, fe calumnia gli è rtara importa, hi da cercar la prima cofa
da principio di purgarfene, Se di liberarfcne. doue che l'accu fa
rorc 40 volendo impor calumnia, nell'epilogo hà ciò da fare . Et la ca41
gion di querto non è ofeura, ma Ila quafi in pronto, pcrcioche colui, che
s'hà da difendere, fe vuol farli adito, Se rtrada ad edere odito, actefo, Se
creduto, fi di meftieri, eh egli cerchi di i imuouerc,&: tor via ogni
impedimento : Se per confeguenre hà da procurar di difeioglierfi, Se
liberarli prima dalle calamuie. 41 Ma colui dall'altra parte, chàintcntion
di riprenderci di calumniarc, hà da far ciò nell'epilogo, a fin, che gli
afcolratori rac45 glio ciò riferbin nella memoria . Quanto poi a quel, che
riguarda la perfona deH'afcoltatorc,ftà primieramente ciò porto in cercar di
renderlo amico, Se bcneuolo a noi, Se irato, Se male ant44 mato verfo
deU\iuucrfario . Et alle volte ci hà luògo il procurar di renderlo
attento, o ver per il contrario dirtorlo dall attentio4j ne: conciofiacofa che
non fempre fia vtile, Se profltteuole alla causa, l'haucrlo attento . Onde
molti per tal ragione s'ingegnano, Se pongono ftudio di prouocardertramentea
rifogli afcoltatori. A render poi l'auditor docile, Se habile a intender
quel, che s'hà da dire, pollono eflTer vtili, Se condurne tutte l'altre
cofe dette fc ciò ci piace, Se torna ben di fare : Se oltra ciò il procurar
colui che parla, d'apparire huom da bene, Se della giurtitia amico :
pofeiache a coli fatti huomini fi fuole ageuolmentc prertare attcntione, Se
credito. Attcntionc foglion predare gli afeoitatori allccofe grandi, Se di gran
momento, alle cofe lor proprie, &ch'a loro particolarmente tocchino,
Se a cofe,chc rechino ammiratione, Se a cofe finalmente gioconde,& atte a
portar diletto. Se per quefto fa di meftieri d'accennare, Se prometter d
haucrea ji dir cofe tali.& per il c5trario,fe verrà commodo,&
vtilealla cau fa, che gli afcolratori poco attenti fiano, bifognerà
dcftramcnrc far credere, che le cofe, ches han da dire, fiano di poco
momento, che le fiano poco, o nulla attinenti, Se toccanti ad erti, Se
che ci finalmente noiofe, Se odiofe fiano. Ma dee ben non ci etfer
nafeofto, che querte coli fitte cofe, fon tutte fa ora de i meriti della caufa,
Se della foftantia dell'oratione : come quelle, c'han loia mente luogo
apprelTo d'afcoltatori non incorroui,0 non finccii, L l ij Separati in
fommaa dar volonticri orecchio, tk ricetto ancora alle cofe, che fuor
della caufa lono. peroche s'eglino coG farti non fuilèto, non farebbe
vtilc, o necelfario il proemio, fe non quanto con elfo saccennallero, «Se
s'aprirò i capi, tk la fommadell'oratione,& della cofa, eh à trattar
s'haucllc: accioche a guifa di ben formato corpo, haueli'e ancor ella il
fuo capo, tk non rcftalTc come corpo tronco . Apprcllb di quello il cercar
di procacciare attentione e cofa commune a tutte le parti delloratione,quando
ve ne bifogno. concioliacola che in ogni altro luo go dell'oratione può
più ageuolmentc accalcare, che gli animi degli afcolta tori iiano fianchi,
et rimeflì, che nel principio di f6 quella. Onde par, che fia cofa fuor di
ragione, tk degna quali di rifo il volere, ch'alhora lì procacci
attentione, quando foglion J7 tutti mafiìmamente con attentione odirc. Per
laqual cofa ogni volta che loccafion fi porga, o 1 bifogno lo ricerchi,
farà ben di 58 dire, Attendete di gratis, et volgete la mente alle mie
paiole: peroche la cofa di cui vi parlo, non apparrien niente più a
me, 59 che s'appartenga a voi . Io fon per dirui cola tale,chc mai nò
hauere ventala più atroce, et la p.ù marauigliofa . Et quello
era quello>chc intcndeua Prodico, quando diccua, che come
egli vedeua fare a color, chcl'odiuano, fegno d addormcn tarlagli eccitaua
con dir loro, che direbbe, et proporrebbe loro innanzi, €1 cofa, che
valeua cinquanta dramme. Non e dubio alcuno adunque che li proemi) non
riguardino gli alcoltatori, non in quanto 61 afcoltatori, tk propofii folo
ad afcolrar la caufa . percioche tutti quelli, che gli via no, cercano, o
di dare in elfi qualche caluronia altrui, o con difcolpar fe ftcflì,
liberarli con feguen rem ente dal timor, che pollano hauer di chi gli debba odi
re. come fece colui ; che dille» Io dirò,o (acro Rè, non come, ne con quanto
Audio» 64 cV quel, che fegue. et quel! altro dille, A che cerchi tu d
vlar proemio? a che vai tu proemizando 2 Color parimente, che
li truouano hauere il peggio nella cola, che voglion dire, o
nella caufa, che trattar vogliono, o almeno firmano, tk dubitan,
che coli li creda, fogliono vfar proemio : conciolìacofa che in ogni
al tra cofa, che nella caufa ftctfa, ftimao,chc (ia lorpiù
vantaggio 66 di far dimora. Onde vediamo, eh 1 noftri ferui, non nlpondono
alle cofe, chclor fon domandate, ma van diucrtendo, tk circuendo d'ogn 'intorno
con le lor parole, tk lunghi proemij fannoJl Ter&o librò. 2 6$ 67 ho.
Onde, et come, scabbia poi da cercar di render l'auditore amico, et bencuolo,
Se di tatti gli altri cofi fatti atFctti,già di fo68 praal luogo Tuo a baftanza
fi è trattato. Et perche molto a ragione, et con buon giuditio dilfe Ho mero -,
Goncedemi benigna Dea, chedouendo ioarriuarca i Feaci, vi venga creduto da
loro, 69 o per lor'amico, o per degno di compatitone ; ci vien con tali
pa rolcainfegnarc, eh à queftiduc affetti bifogna
principalmente hauer l occhio, per cercare, et cattar dall'auditor
bcneuolentia. Et nel prœmio del gcnc-F demoftratiuo fa di bifogno per
cagione della detta bcneuolentia di procurar, che gli afcoltatori fi
Itimino, che con le lodi, che a chi* hàda lodare fi danno, fian congiunte in vn
certo modo le lodi parimente, o d'\ loro fteili, o della ftirpc, et fameglia
loro, o de i loro ftudij, o delle lor profefc 7 1 fioni, o in qual li
voglia altro modo riguardin loro . Perciochc quello, che nel Dialogo
intitolato l'Epitaffio dille Socrate, non elTer cosa difficile il lodar
perfone Athpnicfi, dinanzi ad afcoltatori Athcniciì, ina lì bene alla prefentia
de i Lacedemoni, s'hà da ftrmar per giudiriofamente, et veramente detto. Quanto
a i Prœmij poi del gcner deliberanno, fa di mcftien,che quando bifogno ne
viene, egli dal gcner giudicial gli tolga, come quello, che per natura fua
manco di tutti glialtii generi ha neceffità di proemio, conciolìacofa
chegià prima fiano informati gli afcoltatori di che cofa s'habbia a trattare,
et parlare, &c nó habbia nel retto la caufa bifogno alcun di proemio,
fegià non accadente coral bifogno per cofa, che guardante o la
perfona di chi parla, o quella dcll'auucrfario : ouer quando l'orator
ve* delle, che gli afcoltatori non ftimallcr la cofa di quella grandezza,
ch'egli vorrebbe,mao maggiore, o minore. Per laqual cofa gli fj di
meftieri in tai cali, o di calunniar', et riprendere, o di 76 purgarli, et
liberarli dalle calunnie impofte, od'amplificar la cofa con ampliarla, o
con eftenuarla, et diminuirla. Per cagion di quelle cofe adunque può
occorrere alle deliberatine orationi bifogno di premio, o per cagion
finalmente d'vn certo ornaméto, òc compimento dell'oratione : acciochc non
habbiaella, reftandone fenza, da parere in vn certo modo tronca, e quasi senza
capo: come così fatta pare quella oratione, che fece Gorgia LEONZIO (si
veda) in lode de gli Elicnfi : pcrciòchc fenza altra prepararionc,^
feri za induio alcuno d incominciamento, entrando fubito nella materia, 0DellaHgtprìcad!driftotelcj teria,quafi
ali'improuifta dice, Elide è vna Città felice, Se quel che
firguc. £af?o ij. Del d'tfi'toglimento delle Calunnie^, le quali
Juole alle volte imporre l >e vna parte auuerfaria alt altra : et de t
luoghi njtilia far cosi fatto dtfeioglìmento . i l^^-^i^J Ntorno alle
Calunnie adunque vn luogo dadiNVJ| tHB . | L, ci • 10 fri 1 nt 3Fi«« r*i\
i» 1 ^, iv «ìLj'i j», et dell' aff&ttuofo> che può occorrer di far
fi in ejfa . ?5?25| A narratione nell’orazioni demostrative dee fàrfi, non
tutta inficine diilefamente continuata: ma dee parte per parte cfler
djlcontinuamenic pofta N £prciòche fa di mcftieri di dimoftrare, et fare
apparire, che fi racconci la lode, o il biafmo, che Ci truoui in tuuc
quelle anioni, et quei Tatti, che fi conM m tengono 2 ?4 T>eSa
'Retorica d y LIZIOl^j 3 tengo n ncll'orarione . conciofia cofa che di due
cofcl'orarion fia cópofta. lvna non ha bifogno d'arre, nó cllendo altro,
che le 4 ftelFc attioni, che fi narrano, delle quali colui, che parla non
è $ caula, et dallo Hello fattole prende. L'altra poi darti tino
hà bifogno : Se quella altro non c, ch'il moftrare, et far
conofeerc, o che la cola veramente Ha, quando la fi conofea incredibile,
o difficile a crederi!, o che la lia della tale, o della tal q uali ù,
o ver che Ha di tanta, o di tanta quantità, Se grandezza ; o final8 mente
tutte quefte cole inficine. Per quella ragione adunque è ben fatto, che
tutre le cofe, che s'han da narrarc,non fi narrin fempre continuatamente
l'vna doppo l'altra: concionacene diffidi fi renda il ricordarli della pruoua,
Se conflrmatione, che cófi fatta continuationc fi faccia poi : come farebbe
dicendo, Da quefte cofe adunque, che lì fon dette,!! può conofccr,chc
coltili fia forte, da quefte, ch'egli fia prudente, Se da quefte,
ch'egli Ila guitto. Et in vero con vn coli fatto modo di narrare,
diuien l oration più fempliee, Se vniforme . doue che l'altro modo
dif continuato, la rende più varia, Se più vaga, Se per confeguente 1
1 manco humilc, et manco vile. Quelle attioni, Se quelle cofe poi, lequali
fon molto note, Se dalla fama aliai diuolgate, fa di meftieri fol di
toccare alquanto, Se con poche parole accennare, il tanto a punto, che
baftia ridurle in memoria altrui. Et per quefto fon molti, che non han
bifogno, che nel trattar con orazione i Ior futi, s'vlì la narratione : come
auuerrebbe ( per essempio) a chi voledc lodare Achille, pofeia che i fuoi fatti,
Se le fuc attioni nori Ili me fono a tutti . Ondcfolofadi bifogno
di prenderle come note, Se fcruirfene, Se porle in vfo nella confcrI $
matione.doue che fedi Criria,& de i farri fuoi s'hà da parlare,fa rà
neccllaria la narratione : nó ellèndo i fuoi fatti, et le fueattioni molto
note. Quanto a la duration della narratione parmi, che facciano oggi cofa
degna di rifo coloro, che dicon douer la 17 narratione elTer breuc. A i
quali fi potria rifpondere nel modo chevno rifpofead vn fcruo fuo; il
quale nel rimenar Ja parta per fare il pane, lo domandaua le o dina, o
tenera hauclTè egli da far quella palla, rifpofcegli dunque, hor non fi
può ella far, che ftia bene, Se nella fua perfettione ? Et il medelìmo lì
potria x 8 dire nel calo noftro a coftoro: conciofiacofa che non bifogni
nel narrare elTer lungo, fi come nel proemio ancora > ne
parimente nei Jl Ter zj> libro. 27 j f rie! prouare, Si far
fede con la conferminone, perciochein coli fatta lunghezza non confitte il
bene edere, Se la perfettion di rai cofe, fi come ancor non confitte
ncllefter breue, Se concifo,ma 0 foloin vna mediocrità conuencuole.
quefta, quanto alla narratione, in altro non è pofta, ch'in dite, Se narrare a
punto tutte quelle cofe, che poftbno etter baftanti a inoltrare, et aprir
bene 1 la caufa (Iella, Se la cofa, che s'hà da trattare, che poiron far
nafccrc in chi ode opinione, o che la cofa fia ftata fatta, o che fi
fia nociuto, o fotta ingiuria con etta,o che il dano, et l'ingiuria
fia di quella importantia, Se grandezza, che noi vogliamo, che fi 1
creda . et all'auuerlario poflbn per il contrario ballare a moftrate tutto il
contrario di quanto è detto . Appretto di qucfto ti fa di biibgno
d'interporre, Seinferir nella narratione tutto quello, che polla importare
a dare opinione, Se coniatura della bontà tua . come faria (per ettempio)
dicendo, Io non mancai di configliarlo, Se cfortarlo fempre a quello, che
ricercaua il douerc, c'igiufto per pervadergli, che non volefte
abbandonare, ÓVtra1 j dire li proprij figli . O ver tutto quello, che polla,
fare apparir l'iniquità, Se malignità deH'auucriario, come faria dicendo,
Et egli tempre mi rifpondeua, ch'in qualunque luogo fi ritrouaftè, 16
nonfarienper mancargli de gli altri figli. La qual rifpofta fu parimente
fatta, fecondo che fcriue Hcrodoto, già da gli Egitti) 17 al lor Rè,
cirendo da lui liberati, oucr finalmente tutto quello vi bifogna inferire,
che polla piacere, Se parer giocondo all'orecchic dei giudici, Se eie
glialcoltatori. Oltra di quefto di minor narratione ha di bi fogno il
difenfore, o vero il reo, chel'acip cufatorcnon hà : Se li punti delle
controuerfie, ch'a lui di far narrando apparire appartengono, fon qucfti,
cioè la negation del fatro, o vogliam dire, che la cofa non fia ftata fatta,
o che no habbia recato danno, oche la non fia cofa ingiutta, oche
l'ingiuftitia, e'1 danno non fia così grande, come l'accufatorc afferma. La
onde intorno a quelle cofe, che come note non può cgli negare, o non
confcfTare, non ha da confumar con parole il 31 tempo: faluo quando tirar
le potette agiouamento d'alcuna delle controuerfie dette, come faria
confettando d'hauer fatta la cofa, over commetto il fatto, ma non già d
hauere per qucfto 31 fatto cofa ingiufta. Dee parimente il difenfore olrra
dùbbiamente confettar d haucr fatto quelle cofe, le quali operandoli M m
ij non fono 2 7 6 T>eUa Hgtorica d J AriBotelc^> non fono atte
a muoucrc, o compalììone, o indegnatione nell'animo di chi l alcolca. diche
cipuòellerc eifcilfpio l'apologo, et ragionamento facto in commendation di (e
da Villi e ad Alcinoo, cheabbreuiato, Se nltrcrto l'elilinea vedi, fìj poi
da lui fatto a Penelope. Ce ne può ellere ancora elìcmpio
qucllo,chc diceFaillo in quel fuo Poema, eh egli domanda Circolo. Se
il prologo parimente della Tragedia, intitolata Ocneo. Dee medegnamente
lanarratione ell'er collumara: Se quello non ci farà difficile di
confeguire, fc non ci farà nafco{lo,che cofa faccianafecre, Se apparir coftumc
nel parlar no Uro. Et vna delle cofe, che polfbn far quello, conlilìe nel dar
parlando inditio, Se (ìgmfìcacion della noftra elcttione : pigliando il
coftume codinone, Se qtialicàdaqucfta, lì come quella prende qualità dal fine,
che nell'action s'attende. Et da quello nafee, che le ragioni, Se li difcorfi
machemacicali non han coftume,pcroche elettionc alcuna non lignificano, ne
manifeitano : come quelli, fine, percagion delqual s'operi, non
contengono . Ma ben lo contengono, et per confeguentc coilumaci chiamar li
pollbno li ragionamenti, Se difcorfi, cheli leggon di Socrate : come quelli,
ch'intorno fono a così fatte cofe, ch'clctcion dernoflra40 no. Verrà no
parimente a far la narration coftumaca quelle cofe, che per il più feguono, Se
van dietro aciafehedun collumc. come (per ch'empio) fe noi d'alcun diremo»
coftui, menti e che rifpondeua, in vn medefimo tempo feguiua di caminarc ;
verremo a moilrare vna cerca al fierezza, Se rullichezza del fuo ani41 mo,Sc
del fuo coflume. Parimente rende lanarratione colìumata il narrare, Se parlar,
non fecondo l'cfprcflìon folamente del concecto, come vun quelli, che parlano
hoggi ; ma più torto conindicio d'intcntion dell'animo, Se d'elemonc.
come 42 (ària dicendo, Io veramente voleua far quello : perche quantunque
ciò non fulle per giouarmi punto ; tuttauia elcggeua di farlo, come che
più honclìo fufle : pofeiache l vna di quelle cofe e cofa da huom
diligente conferuator del fuo, et 1 altra e cofa da huom da bene, conciona
che ali huom lagace, ÓV: prudente conferuator del fuo, foglia ellcr proprio il
feguir 1 vtile,& dell'huomo amico della virtù > fu proprio 1
abbracciar 4J l'honello. Ma fel'elcttione, che nel narrar li difcuoprc, Se
Ci moftra, fufle di cosa, che parer potelTe incredibile;in tal
cafo (idi Jl fa di mcltierid'airegnarfcnefubito la cagione: fi come
cilcmpio lene vede nell'Antigona di Sofocle, la qual nel fuo
parlar molti*.! di tener più cura, Se maggior penfiero del fratello, che del
marito, Se de i figli, allega adunque ella di ciò la cagion dicendo, che morti
i figli, c'1 marito era pollimi di nuouo procacciar degl’altri: ma elllndole
già eltinti di vita la madre, e'I padre,& menando la vita lor nell
inferno; non era più pollìbil, eh altri fratelli hauclfe. Ma le in pronto
cagione alcuna d'allegnar non hai, dei confeilare, Se dire in tal calo, che ben
non ti è nafcolta la incredibilità di tal cola -, madie non hai potuto
far di non feguire in quello la natura tua. et quello dei dire, perche non
lì fuol communemente credere, ch'alcuno di fua fpontanea volontà cerchi di far
altro mai, checofa, che gli fia vri48 le. Deefioltra di quello formar la
narratione in modo, ch'af49 fertuofa.o vero el'prelliua d'affetti appaia. Se
perche meglio appaia tale, lì deono cipri mere per inditi) d'affetti quelli
accidenti, chefeguon loro: Se non folamcnte quelli, il cui confeguimento al
tutto èmanifclto; ma quelli ancora, che propriamente, Se peculiarmente, o a
quel, che narra, o all'auuerfario, o vero a quella, o a quell altra
perfona feguono. come auuerria51 dicendo, coltui nel partirfi di là, doue io
era, non reflò per gran pezza di volgerli in dietro, per pormi gli occhi
addotto. fi Eccome ancor córra di Cratilo dille Elchinc, ch'egli daua
altrui có bocca il fifehio, o (per dir così) la filchiara,& battedo
vna ma J3 con 1 altra, faccua Itrepito . Son dunque quelli modi di parlare molto
atti a rendere a gli afcoltatori credibile, Se perfualibil la narratione:
pcrcioche quelle cotai cofe,ch'cglin fanno foler feguire a i tali,& a i
tali affetti; vegonoadar loro inditio, che tali affetti (iano,doucelfi nó
fapeuano,o nó credeuano che fu itero. 54 Et molte di così fatte
narrationi, Se locutioni fi pollon prender da Homero : come (per eflempio)
quando dice, CosìdilTe ella aduque,& la vecchia Nutrice li mellefubito
le mani a gli occhi. 55 percioche coloro, che cominciano a fentit venir fuor
lclagrime, fogliono a gli occhi por le mani. Có li fatte narrationi
aduquecfpieHiue di coftumi, Se d'affetti, dei procurar fubito dal fmnei
pio del tuo narrare,di fàreapparir te ftcllb d'honelte quaità dorato, Se di
contrarie lauuerlario, acciochegli afcoltatori có fi fatta
imprelGonc,& cócctto di tc,& di lui, t afcoltin poi
in fattoi 2? S Della Retorica d!AriBotelt*j tucto'I corto ctela
tua orationc. Ma bene auueritr dei di far quefto occultamente, in modo che
non fia conofeiuto taleartiritio. Et che non (la ciò diffìcile a fare, fi può
comprender da quel, che vediam fare a coloro, che qualche ambaiciata ci
fanno, o qualche nuoua ci danno . percioche quantunque di loro notitia
prima non habbiamo alcuna, nientedimeno l'ubito che cominciano a parlare,
veniamo a formare vn certo concetto, &vna certa opinion nell'animo noftro
della qualità loro, e del coftume, et natura loro • Fà oltra quefto di
bifogno d'vfar lanarrationc, noninvn luogo folo determinato, ma in 6
1 molti ancora, et alle volte non è ben di narrar nel principio . Quanto
al gencr deliberatiuo, manco, che in altro genere e neccllario in eflo il
narrare : cóciofiacofa che nellun foglia far nar61 ratione, et ragguaglio delle
cofe future, chedeon venire. Effe pure occorre nelle confulte bifogno
alcun di narrare, tal narratone farà di cofe paifate, per cagion, che con la
ricordanza, et con la notitia di quelle, fi venga meglio a poter prender
conicttura, et cófiglio nelle cofe, che han da farli, ÒV da feguir poi. 6j
over per cagion di lodarle, o di biafimarle a giouamento di 64 quello, che
s ha da rifoluer nelle coi u 1 te . di maniera che il far quefto in così
fatti cafi, non è propriamente vfficio, et opera di 6 j chi delibera, o di
chi confuka, ma per accidente. Et s'occorre alle volte, che la cofii, che
fi narra, polla parere a color, che 1 afcoltano, molto difficile ad efTer
creduta j fa di meftieri di prometter loro, che fubito fi farà lor conofeere,
et toccar con mano la cagion di quella: offerendo di volerlcne in ciò ftare al
giuditio, et al parere fteifo di chi più piaccia loro : fi come nella
Tragedia di Carcino intitolata Edipode, falocafta, in prometter femprc di
fodisfare alla domanda di colui,chc quel,che fullè del fuo figliuolo la
domandaua.il medefimo parimente appreifo di Sofocle fà Emone. Jl
Terzjo libro \ J7/ Qipo 77. 2)/ quella parte dell'orattorie, che
Jl domanda Pruoua a far fede 5 laqual parte abbraccia la Confer
mattone, et la Confuta tionc_j. ^ come tal parte sh abbia da firmare : et quali
auncrtentie in ejfa fi debbia no bauere in ciajcbedun gener di caufLj
. E pruouc, che s'han da far per far fede, fa di medie ^/J>CL£*5|
ri j che nafeanoda dimoftrarione, et argomentali tione. Et perche quatrro
fogliono cller nelle caufe 5 p IgkgM giudiciali le controuerfie, douc
conliftono i punti ' " * delle caule, fa di bi fogno d'indirizzar le
pruoue, et le argomentationi a quella controuerfia, nella quale farà porto il
punto della caufa . cornea dir che fe lo ftato della controuerfia farà del
fatto,in negar cioè, che la cofa fia ftata fatta,fi douerà nel trattar la caufa
in giudi tio, indirizzar principalmente a quefto punto gli argomenti, e le
pruoue. et il medclimo fi dee fare, fe la controuerfia confiderà in negar
d haucr con tal fatto nociuto, e recaro danno : o vero in moftrar, ch'il
nocumento, e'1 danno non lìa ftato di tanta importanza, di quanta
l'acculatore afferma: o veramente che la cofa fia ftata giudeamente
fatta. Et nella medefima maniera fi dee procedere per la parte
afferma tiua della controuerfia, in affermar, che la cosa da stata
fatta. Ne efTer ci dee nafeofto, che in quefta fola controucrfia,che
con fìftc nel fatto, è neceflario, che 1 vno de gli auucrfarij,o
l'accufatore,o il reo, fia veramente mentitore, o iniquo .
conciofiacofa che non pofla in ciò eflerTignorantia caufa della
contentione e diferepantia loro,in modo, che feu far gli polla, come potrebbe
auuenire nell'altre controuet lìe : come faria s alcuni d'elfere il fatto
giufto non giufto contendellero, et diferepanti foftero . La onde nel
punto di quella fola controuerfia, in cui condite la caufa, fa di bi fogno
d'in lì iterc, et di confumar nelle puiouc il tempo: et non nell'altre
controuerfie, Se ftati di caule, doue ella non confiile . Nelle caule
dimoftratiuc poi la lomma del prò uare 2 S o ^Della 'Retorica d'
Arinotelo aare hà da eflcr l'amplificar rhoneflà,& l'vtilità dei
fatti, &: delio le amoni, che fi narrano, percioche quanto all'eller loro,
già i i per vere fi deon prendcre,& fi deon credere: come che rare
voi te accafehi, che ricerchinpruona, et dimolìratione del lor'elicii re :
come a di re in cafo, che le fulfer per parere increbili, o che 13 fufl'c
opinione, che fi doueflero attribuire ad altri . Nellecaufc deliberatine
final mete potrà la cótrouerfia accalcare, o in negar fi, che la cola
dairauuerfario conictturata, habbia da ellèrc, o ver fc confettando, che
fi a per elfere, fi niega, che la fia gl'urta, o vrile, o di tanta vtihtà,
et giuftitia, quanta l'auuerfano arferij ma. Deefi parimente auuertirc, fe 1
auuerfario fuor del punto della controuerfia, Se fuor della cola lìclla,
che fi nella caufa, diccllc qualche cofa euidentemente falfa. percioche
quando quello ila, cofi fatte cole falfamcntc dette, verrebbeno ad
etfèr chiari inditij, ch'egli nell'altre cofe ancora, che fan nella cauli, non
fulle veridico . Debbiamo appretto di quello fapcrc,che trà lepruoue, et modi
d'argomentare, gli Eilempi fon molto ac commodati, Se proportionati al
gencr deliberatalo: li come gli Enthimemi fi van più accommodando, Se
conuenendo al gener gindiciale, ch a gli altri generi conciolìacofa che
riguardando il deliberanno il tempo auuenirc, faccia di bisogno, che
dalle cofegià panate s'alleghino, et sadduchino eflempi per inrtruttione,
Se conlìglio dellcfuturc dove che ilgiudicial genere le cose riguarda,
cheo già pallate, o già prefenti sono: le quali portando feco necellìtà (non
potendo ellcr, che quello, eh è già Ila to, o prefente è, non fia) vengono
a ftar fottopoftealle deduttioni necessarie degl’entimemi, Se delle
demollrarioni. Nó deo no oltraquefto gli enthimemi, che $ han d addurre,
ellcr 1 vn doppo l'altro fenza interpofition d'altra cofa,
continuatamente porti : ma fa di incineri d'interporre, Se tramezare tra
cllì o^uaU che altra colà, altrimenti con inculcarli, Se quali premerli
inai fieme, verranno a impedirli, Se a dannificarhTvno 1 altro : pofeiache
ancor nello Hello numero, Se nella della quanrirà delle cole, fi dee
trouar conucncuol termine, Se fcruar modo» Se mifura come bene accenna Homero,
quando dice, Poi che nel ruo parlar (caro amico) tante cofe a piito hai
dettequanteogni huomo faggio, Se prudente harebbe detto, Se quel che
leguc. dice dunque tante, Se non tali . Appretto di quello non lì
deon cercare fi ler&o li ho . 2 g 1 ij cercare. et formare
enthimemi a prouar qual fi voglia cola : altrimenti fata pericolo, che tu
non incorra in quel raedefimo inconucnicntc, nel quale incorrer fogliono
alcuni di coloro, che fan profeffion di tìlofofirc. liquali (illogizano
alle volte, Se concludono alcune cofe, che fon più note, Se più atte ad
cffcr credute di quelle, dalle quali, comeda premette le deducono,& le
concludono. Et oltra ciò quando tu vorrai muouer qualche arTetto,o
paflìone,nó dei inficmemente vfar l'cnthime ma.pcrochc quando quefto fi
facctte, faria pericolo, cheol'en thimema non (cacciatte,&: fa.cc(Tc
quafi difparir l'affetto ; o che l'addotto cnthimema,comcnó attefo, et nóauuertito,
reftaù fc vano, et formato indarno: pofeiachei diuerfi
mouimenti dell'animo, quando fi fanno inheme, vengono a ributtarli,
Se impcdiifil'vno l'altro, in maniera cheo totalmente tutti fparifeono, Se
diuengon vani, o almeno indeboliti, 6cfneruati,cV: i fenza quafi alcuna
forza Tettano . Nè parimente quando vogliam rendere il nottro parlare coturnato,
debbiam cercar di vfar Ten thimema in quello fletto tempo: conciofiacofa
che le argomentationi non dicno per lor natura inditio di
coftume,o di elettione alcuna . Quanto alle Sententie poi, fi p jtfbno
vfare, Se nella narratione, Se nel pruouare,& far fede, come quelle, ch'in
efprimere i cottumi grandemente vagliono. fi come auuerrian dicendo, Io
veramente confidai quelle cofe in man di cottili, quantunque io fapcttc
molto bene, che l'huom non 3 3 doueria credere, Se hauer fede in alcuno a
cafo . Et fc cfpreffion d'affetto, et commouimento d'animo vorrem
dimoftrare, potremo aggiugner cosi, Et non ho d'haucr fatto quefto,
pentimento alcuno, quantunque ottefo, Se ingiuriato ne fia rimallo : peroche a
lui Tetterà il guadagno, Se l'vtile, et a me il giufto, Se I nonetto. Sono
oltra di quefto le caufe deliberatine più difficili a trattare, che quelle
del gener giudiciale. Se ciò non fenza conuenienti ragioni . peroche
primieramente le cófulte riguardano il tempo auuenirc, et delle cofe future
fono: 37 0cli.giudi:.ij delle già pattate: Lcquali a quelli fteffi, che
fan profeflìonc d'indouinare, Se palefar le cofe occulte, fon più fa38
cilia diuenir note, come affi, ima ua Epimenidc Cretcnlc . Peroche egli
ucll'indouuiare, aprire, Se palefar le cofe occulte, N n non 2 $2
'Della 'Retorica d LIZIO^> non
s'intrometteua nelle cofe, che deon venire, ma in quelle fole, ch'elfendo
già pafiate, cran nondimeno occulte, ignote et d'ofeurezza piene A quefto
s'aggiugne, che nelle caufe, et controuerfic giudiciali, han da fuupor,lc leggi
come fondamenti (labili, et principi) ferrai : ne èdubio, che coloro,
che nelle loro argomcntationi, han fermi, et noti principi),
non poflan piùagcuolmcte rrouarc, et formarcargomenti,&: prno 41
ue. Et ci s'aggiugne ancora, che il gcncrdeliDeratiuo non hà molti refugij
diuerticuli, doue 1 orator porta l oration riuolgcre: come a dir volgerfi
contrala perfona dcH'aiuicrfario, o ver dir cofe, che tocchino la fua
propria perfona ftelìajO vera mente cercar di muouere affetti nella
perfona dclTafcolrato4$ re. ma meno d'ogni altro genere hà egli cotai refugii,
^: co tali ftradc, fe già non vfciflfcinfar quefto dei confini propri; ma
quefto dee far Porator folamente quando mancandogli gli aiuti proprij di
quel genere, fi vedeneceffitato a ricorrer per aiuto altroue : come fon
foli ti di fare gli Oratori Atheniefi, &Ifocrate fpctialmente, il
quale mentre che con le fuc deliberatine orationi configlia, fi diftende
nell'accufarione, et riprenfion di qualchuno : fi come fa nelloration fua
panegirica riprendendo i Lacedemonij : Se nell oration, Sociale domandata,
incolpando >& mordendo Charete. Nelle orationi, èc caufe del gcner
dcmoftiatiuo poi, per non lafciarfi mancar ma tcria,fa di bifogno di
fupplirc accumulando,& riempiendo l'o ratione a gui(a d'Epifodij,
delle lodi di quefta cofa, o di qnel4 S la t fi come via di fare liberare .
pcrciochcfempre nelle fue demoftratiue orationi prende, de introduce di fuora
qualche altra perfona. nèin altroché in quefto confi Itcua in
foftantia quello, di che Gorgia fi vantaua : cioè che mai non gli
farebbe mancara materia da diftender, quanto egli haueffe
volutola fua oratione. percioche s'egli haueflè (per essempio) tolto
a celebrare Achille, harebbe lodaro Pclco, 8c di poi Eaco, Se quindi
Gione. Er nella medefima man cia prendendo egli a lodar lavinù della
fortezza, liarchbc racconterò et cfalrarole atrioni forti di quefto, o di
quello . il c\it far non c alno, che ji quello, che pur'hora derro
habbiamo. Quando ti trouarai adunque non defcttuolo di pruouc,& di
demoftrationi per far fede nella caufa tua, alhora harai da vfare, non folo
l'oration coftumata, ma lcdimoltrationi, Se argomcntationi an55 cora,
interponendo trà clfe il coftumc. ma fe mancar ti vedrai gli enthimemi, et le
dimofhationi, alhora harai da riuolgerti maggiorméte, et con ogni ftudio
all'aiuto del parlar coftumato : percioche a coloro, che fono ftimati huomin da
bene, pare che più quadri, &: ftia bene, òVgioui a far fede, l'apparenza,
Se l'opinion della bontà loro, cheì la forza cfquuica delle lor ragioni .
Tri gli enthimemi poi li redarguinui,o ver conuincitiui, o reprouatiui,
elicgli vogliamdire, par che fiati di maggiore ftima, et maggiormente
approuati, che non fono gli aiterei ni ( per dir coli) Se puri moftratiui, Se
prouariui conciofiacofii che douc fi
truoua redargui rione, Se refuranonc, maggiormente fi rendcaltrui manifefta la
forza della concisione dell'argomento : pofeia che li contrari) porti l'vno
appreso all'altro, quali ch'in parragone, più euidente$6 mente fi fan conofecre
. Quanto a quelle cole poi, lequali shabbian d'addurre in confutatione
delle ragioni, Se delle pruouc dell auuerfario, non fi deono (cimare altra
fpetiediuerfa da quella della confermatione, che cófifte nello Hello
far fede: il che fa ancor colui, che confuta; parte con
difeioglier con inftantia, Se parte con addurre, Se formare in contrario
fuoi proprij, Se nuoui fillogifmi . ApprelTbdi quello dee colui, che è il
primo a parlare, così nel gener deliberatalo, come nel giudiciale,efporrc,&
addurda prima gli argomenti, Se le pruoue, che fan per lui, cV di poi
opporli, Se con tradire a quelle cofe, che pollbno elTergli in contrario,
difciogliendolc, jS Se con nuoui argomenti cftenuandole, et confutandole .
Ma le fi vedrà, che molte, Se varie cofe fian quelle, che in contrario fi
polfon dire, douerà in tal cafo da prima opporre, et contradire a quelle: fi
come fece Calligrafo in quella oratione, ch ei fece al popol Meffeniaco,
in gran frequentia adunato, perciochc hauendo egli da prima ripruouato, Se
confutato tutte quelle cofe, ch'egli fapcua, che incontra fi diccuano, o
li faricn potute dire di poi fatto quello, lefuc proprie pruoue, fo
Se ragioni adduiTe, Ma quando l'orator lari il fecondo a parlare, douerà da
prima rilpondere alle ragioni, ck alle obbictN n ij doni 2 S y Tfella
Ttgprkd d'Arinotela rioni fatte dall'ali ucrfarioj cercando di
difeiogliere i detti Tuoi, Q\ et d'argomentare ; et fillogizare incontra:
Òc mafll inamente fc le cole da quel dette, poflbn parer di momento, óc
habili a fi fàrcimpreflìone, et fede, pcrcioche fi come vn'huomo hauuto
per infame, et granato di delitti, non fuolc ellcr nò caro, nè accetto all'animo
noftro, cofi parimente non farà accetta, et con buono animo riceuuta la noftra
oratione, fe partito farà, c'habbia ben detto, et ben prouato rauuerfario
noftro. £3 Fidi meftieri adunque di far dar luogo, et procacciar nell'a64
nimo dell'afcoltatorc adito, et palio alla futura oratione. Et quefto
ageuolmentc ti auuerrà di fare, fc da prima le cofe, che 6f ti fon
contrarie, confutarai, et annullami. Ter la qual cofa. fc prima harai
fatto ftudio, et diligentia d impugnarle, o tutte, o le più importanti, o
quelle, che polTbn più parere atte ad clferc appruouate dagli afcoltatori,
o quelle finalmente, che almen fon più habili ad clTer confutate, 6c
mandate a ter66 ra; potrai in quella guifa poi più fecuramente produrre,
fic credibili render le proprie tue ragioni . come fa colei, che di47 ce,
Prima m'opporrò f 8c prenderò la pugna in fàuor de gli Dei, Iofempre nò
tenuto in gran veneration Giunone, 6c C% quel, che fegue . nelle quai
parole fi vede che nel far rifpofta, &oppolitione, fa principio da quella cofa,
ch'era più fà60 cile a confurarfi. Et tanto può baftared'hauerne detto
delle pruove, che s'han da far per far fede . Quanto all'vfar l'oration
morata poi, perche il parlare, et predicare apertamente lodi di fe ftellb, pare,
che facilmente polla, o prouocare inuidia, o parer cofa lunga, Se
tediofa,o trouar facilmente obbiettione, et contradittione, 8c il parlare in
poca lode d'altri hà in fe, o deicontumcliolb, o dell agrefte, et del rozo,
fa di meftieri per quefto, ch'à far ciò s'introduca qualche altra perfona, come
che da lei tai cofe fi dicano, come vfa di fare Ifocratc ncll'orarione chiamata
Filippo, et in quella, che Antidofc fi domanda : Et come parimente fuole
Archilocho biafraare, et mordere . pcrochc introduce, 8c fìnge che il
padre ftcflb parli contra della propria figlia, 7j in quei Iambici verfi,
the cominciano, Neftuna cofa immaginar fi può, che non fi polfa afpettare, et credere,
che per danari habbiad'hauere effetto, c* che giurar {ipoteche non
fia mai per eflèrc . Et il medefirao Archilocho introduce parimente
Charonte fabro, et lo fa parlare in quei Iambici verfi, che cominciano,
Non lo farei, fc ben le ricchezze di Giec, Se quel che feguc . Sofocle
medefimamente fa, che Emone nel parlare a Tuo padre, in fauor d'Antigona dica quel
ch'ei dice, non come da (e, ma come ch'odito da altrilhabbia. là di bisogno
parimente di trasmutare e trasformare alle volte gli Ènthimemiin forma di sentenze;
come fat ia dicendo per esempio Dcono color, che fon di prudente intelletto
fargli accordi e le paci loro coi nemici, quando veggon, come superiori
andar le cose profperc, pofeiache in quefta guifa le fanno con miglior
conditioni e con più vantaggiofi patti, la qual sentcntia raccolta in
forma d'Enthimcma farebbe in quello modo, Perche le paci, i patti, et
le conuentioni alhor s'haa da far coi nemici, quando fi potlbn
fare vtihflìme, et vantaggiofiflìme, per qucfto adunque alhora
maf (imamente far fi deono> quando le cofe paflàn
felicernen•!*^f * l te. ::
...Della ^tprìca del LIZIO (apo Del modo di domandarti >
di rifondere yche occorre alle 'volte di farà a gli Orafort nel
prouara, £tf argomentar, che fanno. et quante fiano le opportune occajioni di
far fai domanda, riJJtofie 5 £f quali le auuertentie, che shan d'hauere tn
ejfa . et alcune cofe de i C R^ dtcoiiy £f dell'Ironia, £f della
Scurrilità . Vanto appartiene alle domande, che cogliono occorrer di
fard trà gl’oatori, buoniflima occhione alhor malli inamente, et primieramente,
harem noi di domandare, quando di due cole, che ci farien di bifogno per
concluder contra dcll auuerfariOihaucndoncegli per fc iteiTb detta vna,
domandandolo noi dell'altra, potiamo con ella condurlo a qualche alTordo, Se
inconuemcncc : li come auuenne nella domanda, che fece Pericle a Lampone,
peroche hauendol ricerco, che gli manifeiìafle la qualità dei legreti
mifterij dei sacrificij, che li faceuano a Cerer falutarc Dea, Se
elicendogli da Lampon ciò negato, con dire, che non conveniva saper tai cose
a chi non fulfe a cai sacrifitij già confagraco ; lo domandò
Pericle, s'egli le (aperta, Se riipondendo Lampone, che sì ; fubito
foggimi fé Pericle, Se come gli fai tu dunque, non clTcndo ancor iù confagraco?
Vn'alcra opporcuna occaiion di domandare fccondariamenre farà, quando di due
propoficioni, che ci fan di bisogno, 1" vna farà cuidencemence
manifefta, Se dcl1 alerà non haremo dubio,che l'auuerfario non ila per
concederla, (e gliela domanderemo, fichauuto c'haremo la domandata detta
propofirionc, non è ben di domandarlo dell'altra, che è manifefta ; ma fnbico
fa di meftieri d inferirla conci ufione, Se chiudere il fillogifmo: fi
come fece Socrace peroche incolpando! Mclito, ch'egli, non crccfcfle, che
fuficr gli Di), lo domandò Socrate s'ei ftimaua, ch'egli hauellc opinionc,
che fufic falche diurno (pino, che Demone lì domandale, il die ojfcrmando
Melito, lo domandò Socrate, s'egli ftimaua, chei Demoni fussero, o figli degli
Dij, o partecipi della lordiuinirà. e confeirandogh ciò Melito,
foggiunlc, Se concluse Socrate, Adunque fi truoua a!cuno,che
crcda,che fiano li figliuoli degli Dij, e no lìen gli Dij ?
Walrraoccalìon di domandare, s'hà da ftimar, chefia parimente quando fi
può far coniettura di poter moltra re, che ì'auucrfario dica, o
cofe contrarie a fé ftcuo, o fuor dell'opinion comunemente
d'ogni vno. Vn'altra opportuna occafione (Se quella lari la
quarta) fi dee ftimar, che fia quando l auuet Cario altrimenti non
può fodisfare alla domanda noftra,fenon rifpondendo fofifticamente.
percioche s'egli in quefta maniera lifpondcrà dicendo, che la colli (ìa, Se che
la non fia, o che parte fia, Se parre non fia, o veramente che in vn certo
modo fia, Se in vn certo modo non (latenza dubio gli afcoltatori verranno
a reftar nella loro apprenfion confuta, Se dubiofi per tai
rifpofte. Fuor delle dette opportunità, Se occafioni adunque non
è cofafecura il tentat I auuedario con cotai domande, conciofiacofa che s
egli con la Tua rifpolta facclfe reftare abbattuta,c^ fopita, Se finalmente
vana la domanda nostra, parrebbe agcuolmente, che fulTemo remarti vinti,
perciochenó fi può riparar quello con domandar di nuouo più altre cofe
: non comportando ciò la debolezza, Se la poca capacità
degli afcoltatori. Se per quefta ragione e ancor benfatto, che gli
cu thimemi fi raccolgano in forma più ftretta, che fia
poHibile. Quanto al rifponderc alle domande poi, fa primieramente
di meftieri, cheallcdomandc fatte con doppiezza, et con ambiguità, si risponda
con diftmtionc, Se allegation di ragioni, Se non conciìamente, Se con
breue, Se (empiite affirmazione o negazione. Et a quelle domande, che poflòn
concedendoli parer contrarie, Se dannole a noi, fi di bilogno (libito, che
rifpondendo lì concedono, alfegnar nella (iella rilposta il difeioghmento di
quella apparente contrarietà, prima chel'auuerfario fegua di domandar quel,
the gli reità d haute 2 88 Della Retorica £ frittotelo 1 6 ucr bisogno,
et cerchi di chiudere il fillogifmo ; peroche dif: ficil cofa non c di
vedere &c di conictturare douc fticn porte lefue infidie, et la
ragione, e il punto, eh' ci vuol concludere. Ma ci ti poilon render tai co fé
manifcfte, fi quanto a cofi fatte domande, cV sì quanto alle folutioni
ancora, pcrquello, che fi e detto nella Topica. Oltra di quefto,fc potendo
già per le rifporte noùre concluder con tra di noi l'auucrfario,
ci farà nondimcn domanda della ftefla conclufionc, che vuol fare,
laqual già più non potiam non concedere, ci fà di meftieri d'aflegnar lubito
nella rifpofta, la cagion, che ci muoip ue a quella: come accadde trà Sofocle,
et Pifandro. pcròche domandato Sofocle da Pifandro, s'egli haueua
concorfocon gli altri configlicri, fuoi Colleglli reformatori dello ftato
a dare, et a rtabilire col fuo fuffragio, et con la fua fententia, in
mano di quei quattrocento Cittadini l'integro, et allofuto goucrno della Città:
8c affermando che sì, feguì Pifandro, Hor non giudicarti tu cifere vn tal
fitto cofa iniqua, et pernitiofa ? a che rispose Sofocle che sì, e foggiugnendo
Pifandro, con domandar la conclusione Non faccfti ancor tu dunque cola federata
e ingiusta? La feci certamente, rispose egli, e: foggiunfc subito la cagion,
dicendo, perche non fu pofao fibil di fare altra cosa, che miglior fulfc. Nella
medefima maniera un cittadino spartano, essendo stato del magistrato degl’efori
e dovendo rendere anch'egli ragion di non so che decreto fatto in quel
magistrato, è domandato fc gli patcua, che gli altri suoi colleghi fufter
guittamente stati puniti e condennati a morte e rispondendo egli che sì, seguì
colui che lo domanda, Hor non concorrerti tu ancor có essì a
quel medesimo ingiusto decreto? a che parimente rispofe egli che sì e
foggiugnendo colui con domandar la conclusione, No meriti tu adunque
defletè ancor tu condennato alla medesima pena? No, rispose egli, tic foggiunfc
fu biro la cagion di ceialo, perche gli altri mici colleghi feccr tai
cofe, indotti e corrotti da i danari, dove ch'io non da questo sono mosso, ma
dal parermi che così ricercane, èll’ comportane il giuii rto. Per laqual cosa
non fi dee mai far domanda, doppo la conclusione e doppo che si è concluso
t ne la conclusione stessa domandar fi dee, Te già non conosciamo esser
molto aper il tamenre, Se fccur.imcnte la verità dalla banda nostra.
Quanto appartien poi a i ridicoli, e a quelle cose in fomma ch'esser pollbnoactca
muover nfo, perche pare, che portano conueneuolmente avere luogo, Se vfo irà gl’oratori,
Se spetialmcn 15 te nelle contese loro, Se Gorgia da LEONZIO (si veda) stetsso
dice, se certamente con ragione, che le cose che su'l serio e fui grave
dice l'aver, fario { debbiarti cercar d'ofeu rare, Se far disparire col riso
: 6c il riso di lui perii contrario, con la gravità delle cose serie
: 14 per quello si è di tal materia trattato nella Poetica : dove si son
inoltrate, Se dipinte, quante specie, Se forti fìa t; no di ridicoli . Dei
quali alcuni sono che convengono se stan bene a perfonc libere, ingenue,
de ben nate. Se alcuni altri sono che non fhn lor bene. Onde ciafehedun dee
procurar di fare elettion di quelli che più gli quadrino, Se gli 16 convengano.
Se ("penalmente l’ironia, o dissìmul.iuon, chela vogliam dire, più
pare che ma bene a uomo ingenuo, e ho nclhmcnre educato, che non fa la scurrilità,
conciofia cosa che chi dillìoiula, e usa ironia, ha per fine il diletto di
se stesso, se per cagion di fe (te fio fc ne fcrue dove che lo Scurra, o
buffone, che lo vogliam chiamare, ha nell"uso della Scurrilità per fine il
diletto, se il piacer degl’altri . (apo ip. Della parte dell’orazione,
chiamata epilogo 5 e quanti siano gl’ufìcij, o 'ver le parti di
quello e quali avvertentìe in ciajcheduna d'ejfe si debbiano avere
£c? penalmente quanti modi di replicare, o recapi t filarlo rammemorare,
che vogliam dire, pojfano avere luogo in eJJL. Della parte dell’orazione,
eh' epilogo si domanda, è composta di IV parti, le quali confìttone, in bene
animare, Se bene edificare verso di noi stessi coloro, ch'odono e male verO o
fo del2$ o i 'Della Tintorìe d ' LIZIO ^j 3 (b dcli'autieriano ; In
ampliare e in eftenuare, o ver etimi4 nuir le cole; in commuoucte e eccitare
arìetti passioni dell’anima nelle menti tic gli alcol cuori, e
rinalmen- xe in ridurre compcndiofunente in memoria di chi ode, le 6
cose dette. Conciolìacola che paia, che l'ordin della natura mostri che
primieramente, doppo c harem provato, de inoltrato elfer la ragione e la
verità dalla parte nostra e il falso, el torto dalia parte dell avversario,
iia alhora il tempo di poter dir qualche cosa in lode nostra, e in biaimo
dcl- 7 lauueilario, de di potere in fomma dar qualche perfettior r 8
ne alla caufa,& qualche ripolimento alle cofe dette. Etv- na di due cose
per conseguir quanto è detto, ci fa di raemeri di riguardare, de di
procurare cioè che gl’ascoltatori ci reputino, o per persone giùste, de amabili
aloro, o per persone giuitc e amabili ailblutamcnte, de medesimamente reputino
l'avverfario nostro, o per pei Iona iniqua, de odiabile a lo- } ro, o
iniqua, de odiabile aholutamcnte . Hor le cose che poilon scrvire a fare
apparir le persone tali, quali habbiam detto, si podono avere da quei
luoghi, che già di sopra riabbiamo allignati a poter da ed! trarre, quanto
faccia di bisogno per poter formare, de far parer le persone, o virtuose, 10
o dei vitij amiche. Fatto questo, pare che poi sia tempo di amplificare
con ampliatione, p con eftenuatione le cose, che già si son provate, de
dimostrate perciochc a voler, che il pofTa mostrar l’importanza, de
grandezza delle cose, fa di mestieri che prima si conofea, de si conceda
che le fiano, o 1 2 che le fiano stare: si come si vede, che l'augumento
che fi fa ne i corpi si fà in eflr doppo, che già fono in eflere . Donde
poi s 'riabbia d’avere aiuto per ampliare, o per efrenuare, già sono stati
prima da noi posti di sopra, de affegnati i luoghi. Doppo questo, fatto
che si farà hormai manifesto non solo la qualità, ma la quantità, de
grandezza ancor delle cose, che Ci son trattare; alhor pare che sia tempo di
commuoucrc con afTcìti gl’animi de gl’ascoltatori . Et tali affètti
maiTìmamentc sono, la compadrone, lo sdegno, l'ira, 1 16 l'odio, l’invidia,
l’emulazione, Tinimicitia. de di corali affetri e passioni, già si son prima alsegnati
di sopra i luoghi. Per la qual cosa nieme altro resta, se non l’ultima patte
de|- lepù Jl Terz^o librò. 2$i •l'epilogo, che confitte in
ricapitul.ire, de ridurre nella memoria degl’ascoltatori le cose dette nell’orarzone.
Il modo di far questo fi dee stimare aliai accommodato eifer quelli lo che
alcuni infunano per collocarlo nel prœmio. E tal luogo in vero gli danno
fuor di ragione; come quelli, i quali, accioche le cose fian meglio apprese,
de ritenute dagl’ascoltatori, vogliono, de dan precetto che non vna falò la
volta y ma molte, si replichino nell’orazione. Ma in verità nel proemio basta solamcncc,
e si riccoca di toccare e accennare alquanto la cosa di cui s'ha da trattare,
acciochc poira a gl’auditori non eilerc nafeotto in fortantia
quello, li ("opra di che han da allentire e da giudicare, dove
chcncl- L’epilogo si deon rcpetere, de replicare brevementc per capi le cose,
donde le pruove, de gli argomenti si sono formari. Il principio di cosi fatta
replicatone, de ramracmoratione, potrà conveneuolmcnte farsi con dire, che già si fia
eseguito, de mandato ad effetto tutto quello si è prometto. De subito si dee
repcter quai fian le cose, che il fon 13 dette, de con quai ragioni si
fian provate. PuofTì ancor far la detta recapitulazione e reperitone, con
fare ali incontra parragone delle ragioni proprie, con quelle dell'avversario.
E questa comparatone, de parragonc fi può fare in più modi, o ponendo, de
rcpetendo semplicemente le cose Tterrcda noi, - de le dette dall'avversario,
come che porte a ij fronte l'une incontra dell'altre, come faria dicendo,
Hor colmi intorno alla tal cofa, de fopra del tal Cupo ha detto le tai
co ' Cede noi habbiam detto le tali, e n'habbiamo alsegnato le
tali, 16 Scie tai ragioni: o ver repetendole con dissìmulazione, e
con ironia, come faria dicendo, Cottui certamente hà detto e provaro le
tai cose, de noi le tali de ancor dicendo, Che fa egli Ce le tali, e le tai
cofe hauette dimostrato, e non le 18 tali, fiele tali ? over per mo Ho di
domanda, de dintcrrogatione; come faria dicendo, che cosa è reftata, che provata,
de dimostrata non fi lìa da noi ? e che cosa hà finalmente dimostrato e
prouaro cottui ? Nelle dette maniere adunque fi può far la reperitone,
ponendo a fronte in comparazone, de in parragone le proprie ragioni, e quelle
dell’avversario. Ed ancor si può far con via, e ha più del NATURALE, de men
dell'art- 2 p 2 'Della Retorica del LIZIO. l'artifizioso, ripigliando
e repetendo Iccofc semplicemente 3 i con quel modo, e con quell'ordine,
che si sono dette . E di poi fatto quefto, se ti parrà, potrai, da altro
quafi capo facendoti, feparatamcnte, Se appartatamente repetcr le cole
dette $x dall auucrlario. Nell’ultima estremità finalmente dell’epilogo, e
per conseguente dell’orazione, quadra, e conuiene aliai quella forte di
locuzione, che senza aiuto divnitiuc particelle, che la coniungano,
difeongiunta si proferifee e quello acciò che epilogo appaia in quello estremo
de non orarion dirtela. come faria dicendo, Ho detto, haucte vdito,
già pollcdctc la cofa, giudicate, detcrminate . ]l fine del Terreo et
vltimo Véro della 1{etorica d x slr'iHotclcs a Tbcodetrzs : tradotta in LINGUA
VOLGARE, da P.. VENEZIA oAppreJfi Francefco de Franceschi
SancfL. Piccolomini. Letterato (Siena 1508 - ivi
1578). Ammesso giovanissimo nell'Accademia degli Intronati, intorno al 1540 fu
a Padova, dove tenne un corso di filosofia morale da cui trasse argomento per
il trattato Della istituzione di tutta la vita dell'uomo nato nobile e in città
libera (1542). Dopo soggiorni a Bologna e a Roma tornò a Siena, dove ricevette
nel 1555 gli ordini sacri; nel 1574 fu nominato arcivescovo di Patrasso e
coadiutore dell'arcivescovo di Siena. Autore di due commedie (L'amor costante,
1536; Alessandro, 1544) e di sonetti, per lo più d'ispirazione petrarchesca
(Cento sonetti, 1549), pubblicò nel 1539 il vivace Dialogo della bella creanza
delle donne, noto anche come La Raffaella. Tradusse Virgilio, Senofonte, Ovidio
e Aristotele; le sue Annotazioni nel libro della Poetica d'Aristotele (1575)
ebbero una certa influenza sui trattatisti successivi. Dei suoi vasti interessi
scientifici e filosofici testimoniano, oltre ad alcuni trattati divulgativi
(L'instrumento della filosofia, 1551; La prima parte della filosofia naturale,
1551, seguita nel 1560 da una Seconda parte), le sue opere di astronomia; una
di esse, Delle stelle fisse, pubblicata nel 1540 insieme con il trattato Della
sfera del mondo, contiene carte celesti e una classificazione alfabetica delle
stelle secondo le lettere latine.Alessandro Piccolomini.
Luigi Speranza -- Grice e Piccolomini: la ragione
conversazionale dell’implicatura conversazionale del Lizio – filosofia toscana
-- filosofia italiana – Luigi Speranza (Siena). Filosofo italiano. Siena, Toscana. Grice: “What
Piccolomini is trying to do, but knowing, is providing what I do in from the
bizarre to the banal – a good functionalist interpretation of the rather poor
functionalist explanation by Aristotle of what the Italians call the ‘anima,’
because it ‘animates’ the body (corpore). Insegna
a Macerata, Perugia, e Padova. Analizza il III libro del “Sull’anima” di
Aristotele del Lizio. Saggio: “Peripateticarum de anima disputationum”; “Academicarum
contemplationum”. Tutore di TASSO (si vieda), ricordato in “Il Costante; overo,
dela clemenza”. Formula una teoria
sincretica tra l’accademia e il lizio. ‘Unico’
dei Filomati. Altre saggi: “Universa philosophia de moribus” (Venezia,
Franceschi); “Comes politicus, pro recta ordinis ratione propugnator” (Venezia,
Franceschi); “Libri ad scientiam de natura attinentes” (Venezia, Franceschi); “Librorum
Aristotelis de ortu et interitu lucidissima exposition” (Venezia, Franceschi);
“In III libros de anima lucidissima expositione” (Venezia, Franceschi); “Instituzione
del principe”; “Compendio della scienza civile”; “VIII libri naturalium
auscultationum perspicua interpretatione” (Venezia, Franceschi); “In libros de
coelo lucidissima expositio” (Venezia, Franceschi). Treccani Dizionario Biografico
degl’italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia. Garin, “Storia della filosofia”
(Torino, Einaudi); Malmignati, “Tasso a Padova” (Firenze, Riccardiana); Roma, Pieralisi
(Firenze, Biblioteca nazionale, Conv. Soppr. (S. Maria degli Angeli, Roma, Pieralisi,
P., Cavalli, La scienza politica in Italia (Venezia). PICCOLOMINI,
Francesco PICCOLOMINI, Francesco. –
Nacque a Siena il 25 gennaio 1523, da Niccolò, dottore in diritto civile e
canonico, ed Emilia Saracini. Laureatosi nello Studio senese in arti e medicina
il 12 luglio 1546, il giovane Piccolomini iniziò precocemente la sua lunga e
brillante carriera accademica: dopo aver insegnato a Siena per tre anni, fu a
Macerata per un anno e, dal 1550 al 1560, a Perugia. Fu un periodo proficuo,
durante il quale egli strinse una fitta rete di relazioni con personaggi di
primo piano: intorno al 1549 entrò a far parte dell’Accademia degli Intronati,
con il nome di Malinconico, e a Perugia divenne amico del cardinale Sarnano, al
quale, a testimonianza di un legame duraturo, dedicò molti anni dopo, nel 1594,
il testo Comes politicus, pro recta ordinis ratione propugnator, edito a
Venezia per i tipi di Francesco De Franceschi. Di dubbia affidabilità è la
notizia di una sua possibile partecipazione, in questo periodo, alla difesa di
Siena, sotto assedio da parte delle truppe medicee. Nel 1560 si trasferì a Padova, polo
universitario agognato dall’élite intellettuale dell’epoca, dove gli fu
assegnata la prima cattedra straordinaria di filosofia naturale. Nel 1564
ottenne la seconda cattedra ordinaria della stessa materia e nel 1565, infine,
la prima cattedra ordinaria, in concorrenza con Federico Pendasio. Tra il 1568
e il 1570, i due professori si scontrarono in una violentissima disputa, che si
concluse soltanto nel 1571, con il trasferimento di Pendasio a Bologna: fulcro
dello scontro era l’interpretazione del terzo libro del De anima aristotelico,
del quale Pendasio forniva un’esegesi improntata a quella di Alessandro
d’Afrodisia, mentre Piccolomini dava una lettura tesa a conciliare
aristotelismo e platonismo. Con l’uscita di scena del suo diretto concorrente,
l’ascesa di Piccolomini fu ancor più rapida ed eclatante: unico titolare della
prima cattedra ordinaria di filosofia naturale, non ebbe più concorrenti
diretti e giunse a ottenere, nel 1589, uno stipendio mai raggiunto prima dai
suoi colleghi, di ben 1400 fiorini annui. Ad affiancarlo, ricoprendo però la
seconda cattedra di filosofia naturale, furono intellettuali di spicco, quali
Arcangelo Mercenario, dal 1578 al 1585, Iacopo Zabarella, dal 1585 al 1589, e
Cesare Cremonini, dal 1591 al 1600.
Piccolomini divenne presto un professore assai famoso nell’ambiente
patavino, in grado di richiamare moltissimi giovani, spesso giunti a Padova
proprio per assistere alle sue lezioni. Particolarmente ambite erano le sue
lezioni private: egli infatti, per accrescere ulteriormente il suo prestigio
stringendo legami forti con la nobiltà veneta, era solito selezionare una
ristretta cerchia dei suoi numerosi studenti, prediligendo rampolli di famiglie
altolocate, che seguiva con particolare attenzione e invitava alla stesura di
opere, giungendo persino a vergare di proprio pugno scritti che i suoi alunni
prediletti potessero poi pubblicare a loro nome. È il caso dei Peripateticarum
de anima disputationum libri septem di Pietro Duodo, che videro la luce nel
1575 a Venezia per i tipi di Domenico e Giovanni Battista Guerra, e degli
Academicarum contemplationum libri decem di Stefano Tiepolo, editi l’anno
successivo, anch’essi a Venezia, nella stamperia di Pietro Deuchino, testi che
Eugenio Garin (1961) non ha esitato ad attribuire integralmente a Piccolomini.
A ricordare con slancio le lezioni padovane del filosofo senese fu poi uno
studente d’eccezione, Torquato Tasso, nel dialogo del 1589 Il Costante overo de
la clemenza; ci è inoltre pervenuta una copia della prima opera a stampa di
Piccolomini, l’Universa philosophia de moribus, del 1583, appartenuta al poeta
sorrentino e da lui accuratamente postillata (Biblioteca apostolica Vaticana,
Stamp. Barb. Cred. Tass. 39). Nel 1572
Piccolomini sposò la nobile senese Fulvia Placidi, dalla quale ebbe almeno
quattro figli: Niccolò, Alessandro, Caterina e Aurelia. Nei mesi di settembre e
ottobre del 1579, poi, fu priore a Siena del ‘terzo’ di S. Martino, in
rappresentanza del ‘monte’ dei Gentiluomini.
Malgrado le sue lezioni, dottissimi e approfonditi commentari ai testi
aristotelici di filosofia naturale, circolassero ormai da anni manoscritte,
Piccolomini affidò interamente all’attività di insegnante la sua carriera nello
Studio patavino, esordendo con un’opera a stampa – la già ricordata Universa
philosophia de moribus, edita a Venezia presso Francesco De Franceschi –
soltanto nel 1583, quasi vent’anni dopo l’ottenimento della prima cattedra
ordinaria. Il testo, che Piccolomini afferma di aver iniziato a scrivere nel
biennio 1576-77, ebbe effettivamente una gestazione lunga e complessa, come
testimonia il ritrovamento di una prima stesura, scartafaccio di quella
definitiva: si tratta del manoscritto Francisci Piccolominei praelectiones
Ethicae sive in lib. De moribus (Milano, Biblioteca Ambrosiana, cod.
D.413.inf., 84 cc.), che si arresta al capitolo ottavo del primo libro e che,
nelle sezioni trattate, segue un andamento teorico più confuso e frammentario.
-ALT Obiettivo dell’autore è tentare una
conciliazione tra Aristotele e Platone in ambito etico-politico, inserendo temi
platonici e neoplatonici in un’impalcatura speculativa basata sull’Ethica
nicomachea e sulla Politica dello Stagirita. Fondamento teorico dell’indagine
sul governo civile è un’analisi della morale e in particolare della virtù della
prudenza, che non deve essere confusa con l’astuzia, come hanno erroneamente
fatto Niccolò Machiavelli e i suoi seguaci, scindendo il campo della politica
dalla morale. Soltanto un’educazione retta e proba, eticamente valida, può,
infatti, condurre a una cittadinanza consapevole: per questo il miglior
principe è, per Piccolomini, colui che, nato in una famiglia principesca, è
stato educato alla virtù e può dunque sottrarre i suoi sudditi all’imperio
della sfera sensibile dell’esistenza, guidandoli e governandoli. Oltre a
fornire la più compiuta esposizione dell’ideale politico del filosofo,
quest’opera è particolarmente rilevante perché, nella seconda parte
dell’introduzione, contiene una durissima presa di posizione dell’autore contro
la logica tecnico-strumentale di Iacopo Zabarella, speculum di astiose tensioni
che contrapponevano i due filosofi.
Negli ultimi anni di insegnamento – Piccolomini abbandonò l’attività di
professore nel luglio 1598 –, egli diede alle stampe, oltre al già ricordato
scritto dedicato al cardinale Sarnano, un altro testo, nel 1596, ancora una
volta per i tipi di Francesco De Franceschi: i Libri ad scientiam de natura
attinentes, una summa delle sue lezioni di commento alle opere aristoteliche di
filosofia naturale, da cui emerge con chiarezza, ancora una volta, la tensione
sincretica tra aristotelismo e platonismo che anima il pensiero
dell’autore. Nell’ambito della
trattazione della gnoseologia umana e animale, per esempio, egli mostra,
citando a suo sostegno anche Giamblico, come la fantasia, livello conoscitivo
proprio sia degli uomini sia delle bestie, costituisca un grado inferiore della
sfera spirituale, facendo uso, in modo creativo e volto alla rielaborazione,
della categoria di subnotio ideata da un altro intellettuale che era stato
legato all’ambiente patavino: Girolamo Fracastoro. Mostrando di conoscere le
linee teoriche di fondo del dialogo fracastoriano Turrius, sive de
intellectione, uscito postumo nel 1555, Piccolomini rileva infatti come i dati
sensibili, prima di pervenire all’intelletto, siano ordinati per somiglianza in
gruppi, detti appunto subnotiones.
Tornato a Siena, dopo aver ricoperto nei mesi di settembre e ottobre del
1599 la carica di capitano del popolo per il ‘terzo’ di Camollìa, Piccolomini
si dedicò alla pubblicazione di ben cinque testi: il De rerum definitionibus
liber unus – uscito nel 1600 a Venezia, ancora una volta presso Francesco De
Franceschi, e strutturato in 120 definizioni, tramite le quali l’autore tenta
di costruire una griglia concettuale attraverso la quale il lettore possa
interpretare i concetti chiave dell’intera tradizione filosofica – e vari
commenti a opere aristoteliche, editi a Venezia nella stamperia De Franceschi,
ovvero la Librorum Aristotelis de ortu et interitu lucidissima expositio e la
In tres libros de anima lucidissima expositio, del 1602, la Octavi libri
naturalium auscultationum perspicua interpretatio, del 1606, e la In libros de
coelo lucidissima expositio, che vide la luce postuma, nel 1607, a cura del
figlio Alessandro. I frutti più originali di questa stagione creativa, però,
sono due testi rimasti manoscritti: l’Instituzione del principe (Firenze,
Biblioteca Riccardiana, cod. 2589, cc. n.n.), risalente al 1602, che Piccolomini
scrisse su richiesta di Cristina di Lorena, moglie del granduca di Toscana
Ferdinando I, che desiderava avere uno scritto del famoso professore da
utilizzare come guida per l’educazione del figlio Cosimo, e il Compendio della
scienza civile (Firenze, Biblioteca nazionale centrale, Conv. Soppr. (S. Maria
degli Angeli), cod. E.5.867, cc. n.n.), scritto intorno al 1603, sunto in
volgare dell’Universa philosophia de moribus dedicato alla granduchessa, nel
quale, tenendo acutamente conto del cambiamento di destinatario, l’autore
sottolineò maggiormente le tematiche platonizzanti e individuò il modello di
governo esemplare non più nella Repubblica di Venezia, ma nel Granducato di
Toscana. Piccolomini divenne, inoltre,
membro dell’Accademia dei Filomati, con il nome di Unico, ricevendo, il 26
gennaio del 1605, un premio per l’attività svolta l’anno precedente. Morì a Siena il 22 aprile 1607, all’età di 84
anni, e fu sepolto nella chiesa di S. Francesco, dove, il 13 luglio, si tenne
il suo funerale. Opere. L’Instituzione
del principe e il Compendio della scienza civile sono editi a cura di S.
Pieralisi, Roma 1858. Fonti e Bibl.:
Siena, Archivio arcivescovile, ms. 6438, cc. 56v-57v; Archivio di Stato di
Firenze, Mediceo, 1319, cc. 139r, 124v, 116r-117r; Archivio di Stato di Siena,
Biccherna, Battezzati, 1135, c. 37r; Concistoro, 2339, c. 59r; Belluno,
Biblioteca civica, cod. 505: Francisci Piccolominei, Iacobique Zabarellae
praestantium nostrorum temporum philosophorum vitae, in L. Lollino, In
Patavinorum professorum decadem, cc. 31r-49r.
F. Cavalli, La scienza politica in Italia, II, Venezia 1873, pp. 40-48;
P. Ragnisco, La polemica tra F. P. e Giacomo Zabarella nell’università di
Padova, in Atti del R. Istituto veneto di scienze lettere ed arti, s. 6, IV
(1885-1886), pp. 3-5; A. Malmignati, Il Tasso a Padova, Padova 1889, pp. 84-88;
A. Solerti, Vita di T. Tasso, I, Torino 1895, pp. 57, 94, 202; M. Battistini,
F. P. e un suo scritto educativo per il Gran principe di Toscana, in Bullettino
senese di storia patria, XXII (1915), pp. 334-338; L. Barbagli, I tabellioni
degli Intronati, ibid., s. 3, I (1942), p. 192; E. Garin, Il «De perfectione
rerum» di Niccolò Contarini, in Giornale critico della filosofia italiana, XL
(1961), p. 135; A.M. Carini, I postillati «Barberiniani» del Tasso, in Studi
tassiani, XII (1962), p. 107; E. Garin, Storia della filosofia italiana, Torino
1966, pp. 656-661; C. Vasoli, Studi sulla cultura del Rinascimento, Manduria
1968, p. 338; A. Poppi, La dottrina della scienza in Giacomo Zabarella, Padova
1972, pp. 164 s.; Id., Il problema della filosofia morale nella scuola padovana
del Rinascimento: platonismo e aristotelismo nella definizione del metodo
dell’etica, in Platon et Aristote à la Reinassance. Actes du XVIe colloque
international de Tours, Paris 1976, pp. 133 s.; G. Santinello, Il «De priscorum
sapientium placitis» di Luigi Pesaro, in Medioevo e rinascimento veneto con
altri studi in onore di Lino Lazzarini, II, Padova 1979, pp. 182-202; A.E.
Baldini, La politica «etica» di F. P., in Il pensiero politico, XIII (1980),
pp. 161-185; Id., Per la biografia di F. P., in Rinascimento, XX (1980), pp.
389-420; F. Piro, Il retore interno: immaginazione e passioni all’alba dell’età
moderna, Napoli 1999, pp. 151-152.Francesco Piccolomini. Piccolomini. Keywords:
apollo lizio, lizio, licio, liceo, lizeo, statua di apollo lizio, in riposo
dopo la palestra, il lizio, Aristotele lizio, i lizij, i lizii,
gl’aristotelici, i peripatetici – gl’accademici e i lizii, gl’accademicij e i
lizij. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Piccolomini” – The Swimming-Pool
Library.
Luigi Speranza -- Grice e Pico: la ragione
conversazionale di Beniveni, o l’implicatura dell’accademia di Cicerone -- io priego Dio Girolamo che’n pace così in
ciel sia il tuo Pico congiunto come’n terra eri, et come’l tuo defunto corpo
hor con le sacr’ossa sue qui iace – filosofia emiliana -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Mirandola).
Filosofo
italiano. Mirandola, Modena, Emilia Romagna. Grice: “I liked to say: some like
Pico, but Pico’s my man! Since I always preferred his cousin to the uncle!” – Cf.
clavis universalis – Rossi, cita P. -- philosopher who wrote a series of 900
theses which he hoped to dispute publicly in Rome. Thirteen of these theses are
criticized by a papal commission. When Pico defends himself in his “Apologia,” the
pope condemns all CM theses. P. flees to France, but is imprisoned. On his
escape, he returns to Florence and devotes himself to private study at the
swimming-pool at his villa. He hoped to write a Concord of Plato and Aristotle,
but the only part he was able to complete was “On Being and the One,”“Blame it
on the Toscana!” -- in which he uses Aquinas and Christianity to reconcile
Plato’s and Aristotle’s views about God’s being and unity. Mirandola is often
described as a syncretist, but in fact he made it clear that the truth of
Christianity has priority over the prisca theologia or ancient wisdom found in
the hermetic corpus and the cabala. Though he was interested in magic and
astrology, Mirandola adopts a guarded attitude toward them in his “Heptaplus,” which
contains a mystical interpretation of Genesis; and in his Disputations Against
Astrology, he rejects them both. The treatise is largely technical, and the
question of human freedom is set aside as not directly relevant. This fact
casts some doubt on the popular thesis that Pico’s philosophy is a celebration
of man’s freedom and dignity. Great weight has been placed on Pico’s “On the
Dignity of Man.” This is a short oration intended as an introduction to the
disputation of his 900 thesesall condemned by the evil pope --, and the title
was suggested by his wife (“She actually suggested, “On the dignity of woman,”
but I found that otiose.””). Mirandola has been interpreted as saying that man
(or woman) is set apart from the rest of creation, and is completely free to
form his (or her) own nature. In fact, as The Heptaplus shows, P. sees man as a
microcosm containing elements of the angelic, celestial, and elemental worlds.
Man (if not woman) is thus firmly within the hierarchy of nature, and is a bond
and link between the worlds. In the oration, the emphasis on freedom is a moral
one: man is free to choose between good and evil. Grice: “This irritated
Nietzsche so much that he wrote ‘beyond good and evil.’ Refs.: H. P. Grice,
“Goodwill and illwillmust we have both?” L'esponente
più conosciuto della dinastia dei Pico, signori di Mirandola. L'infanzia
di P., di Delaroche, Museo delle belle arti di Nantes (Francia). Nacque a
Mirandola, presso Modena, il figlio più giovane di Gianfrancesco I, signore di
Mirandola e conte della Concordia e sua
moglie Giulia, figlia di Boiardo, conte di Scandiano. La famiglia ha a lungo
abitato il castello di Mirandola, città che si era resa indipendente e riceve da
Sigismondo il feudo di Concordia. Pur essendo Mirandola uno stato molto
piccolo, i Pico governano come sovrani indipendenti piuttosto che come nobili
vassalli. I Pico della Mirandola sono strettamente imparentati agli Sforza, ai
Gonzaga e agli Este, e i fratelli di Giovanni sposarono gli eredi al trono di
Corsica, Ferrara, Bologna e Forlì. Soggiorna in molte dimore. Tra queste,
quando vive a Ferrara, il palazzo in via del Turco gli permette di essere
vicino agli Strozzi ed ai Boiardo. P. compì i suoi studi fra Bologna,
Pavia, Ferrara, Padova e Firenze. Mostra grandi doti nel campo della matematica
e impara molte lingue, tra cui perfettamente il latino, il greco, l'ebraico,
l'aramaico, l'arabo e il francese. Ha anche modo di stringere rapporti di
amicizia con numerose personalità dell'epoca come Savonarola, Ficino, Lorenzo
il Magnifico, Poliziano, Egidio, Benivieni, Balbi, Alemanno, ed Elia. Entra a
far parte dei Idealisti Fiorentini. Si reca a Parigi, ospite della Sorbona,
allora centro di studii, dove conosce alcuni uomini di cultura come Étaples,
Gaguin e Hermonyme. Ben presto divenne celebre e si dice che ha una memoria
talmente fuori dal comune che conosce l'intera Divina Commedia a memoria. e
a Roma dove prepara CM tesi in vista di un congresso filosofico -- per la cui
apertura compose il “De hominis dignitate” -- che tuttavia non ha mai luogo.
Sube infatti alcune accuse di eresia, in seguito alle quali fugge in Francia
dove venne anche arrestato da Filippo II presso Grenoble e condotto a
Vincennes, per essere tuttavia subito scarcerato. Con l'assoluzione d’Alessandro
VI, il quale vede di buon occhio la sua volontà di dimostrare la divinità
attraverso la magia e la cabala, nonché godendo della rete di protezioni dei
Medici, dei Gonzaga e degli Sforza, si stabile quindi definitivamente a
Firenze, continuando a frequentare l'Accademia di Ficino. MUORE PER
AVVELENAMENTO D’ARSENICO mentre Firenze è occupata dalle truppe francesi di
Carlo VIII. Sepolto nel cimitero dei domenicani dentro il convento di S. Marco.
Le sue ossa saranno rinvenute da Chiaroni accanto a quelle di Poliziano e dell'amico
Benivieni. Siamo vissuti celebri, o Ermolao, e tali vivremo in futuro,
non nella scuola dei grammatici, non là dove si insegna ai ragazzi, ma nelle
accolte dei filosofi e nei circoli dei sapienti, dove non si tratta né si
discute sulla madre di Andromaca, sui figli di Niobe e su fatuità del genere,
ma sui principî delle cose umane e divine. Uno studio coordinato del
dipartimento di Biologia dell'Pisa, del Reparto Investigazioni Scientifiche
dell'Arma dei Carabinieri di Parma dimostra che e avvelenato con l'arsenico. Il
volto di P. ricostruito con le moderne tecniche forensi Di P. è rimasta
letteralmente proverbiale la prodigiosa memoria. Si dice conosce a mente
numerose opere su cui si fonda la sua vasta cultura enciclopedica, e che
sapesse recitare la “Divina Commedia” *al contrario*, partendo dall'ultimo
verso, impresa che pare gli riuscisse con qualunque poema appena terminato di
leggere. Tutt'oggi è ancora in uso attribuire l'appellativo “P” a
chiunque sia dotato di ottima memoria. Secondo una popolare diceria, ha
una amante o una concubina segreta. Tuttavia ha un rapporto amoroso con
l'umanista Benivieni, sulla base di alcuni scritti, tra cui sonetti, che
quest'ultimo dedica a Pico, e di alcune allusioni poco chiare di Savonarola. E comunque
un seguace dell'ideale dell'amor platonico, privo cioè di contenuti erotici e
passionali. Anche la figura femminile ricorrente nei suoi versi viene celebrata
su un piano prevalentemente filosofico. La sua filosofia si riallaccia all’idealismo
di Ficino, senza però occuparsi della polemica anti-aristotelica. Al contrario,
cerca di riconciliare aristotelismo e platonismo in una sintesi superiore,
fondendovi anche altri elementi culturali, come per esempio la tradizione
misterica di Ermete Trismegisto e della cabala. All'interno del testo
delle Conclusiones si scaglia duramente contro Ficino, considerando inefficace
la sua magia naturale perché carente di un legame con le forze superiori nonché
di un'adeguata conoscenza cabalistica. Il suo proposito, esplicitamente
dichiarato ad esempio nel “De ente et uno”, consiste infatti nel ricostruire i
lineamenti di una filosofia universale, che nasca dalla concordia fra tutte le
diverse correnti di pensiero sorte sin dagl’antichi, accomunate
dall'aspirazione al divino e alla Sapienza. In questo suo ecumenismo filosofico
vengono accolti non solo i filosofi esoterici insieme all’accademia e il lizio,
e tutta la filosofia gnostica ed ermetica, anche mistica. Il congresso da lui
organizzato a Roma in vista di una tale pace filosofica inserirsi proprio in
questo progetto culturale basato su una concezione della verità come princìpio
eterno ed universale, al quale ogni epoca della storia ha saputo attingere in misura
in più o meno diversa. In seguito tuttavia ai vari contrasti che gli si
presentarono, sorti a causa della difficoltà di una tale conciliazione. Si
accorse che il suo ideale e difficilmente perseguibile. Ad esso, a poco a poco,
si sostitusce nella sua mente il proposito riformatore di Savonarola, rivolto
al rinnovamento morale, più che culturale, della città di Firenze. L'armonia
universale da lui ricercata in ambito filosofico si trasforma così
nell'aspirazione ad una moralità meno
generica. A differenza di Ficino, emerge un maggiore senso di irrequietezza e
una visione più cupa ed esistenziale della vita. Al centro del suo ideale
di concordia universale risalta fortemente il tema della dignità e della
libertà umana. L'uomo infatti è l'unica creatura che non ha una natura predeterminata,
poiché. Già il Sommo Padre, Dio Creatore, ha foggiato, questa dimora del mondo quale ci appare. Ma,
ultimata l'opera, l'artefice desidera che ci fosse qualcuno capace di afferrare
la ragione di un'opera così grande, di amarne la bellezza, di ammirarne la
vastità. Ma degli archetipi non ne restava alcuno su cui foggiare la nuova
creatura, né dei tesori né dei posti di tutto il mondo. Tutti erano ormai
pieni, tutti erano stati distribuiti nei sommi, nei medi, negli infimi gradi. Dunque
l'uomo non ha affatto una natura determinata in un qualche grado (alto o
basso), bensì. Stabilì finalmente l'Ottimo Artefice che a colui cui nulla
poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato
agli altri. Perciò accolse l'uomo come opera di natura indefinita e, postolo
nel cuore del mondo, così gli parla. Nn ti ho dato, o Adamo, né un posto
determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché tutto
secondo il tuo desiderio e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura
limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la
determinerai senza essere costretto da nessuna barriera, secondo il tuo
arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Afferma, in sostanza, che Dio ha posto
nell'uomo non una natura determinata, ma una indeterminatezza che è dunque la
sua propria natura, e che si regola in base alla volontà, cioè all'arbitrio
dell'uomo, che conduce tale indeterminatezza dove vuole. Non ti ho fatto
né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi
libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti
prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti. Tu
potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono
divine. Nell'uomo nascente il Padre ripose semi d'ogni specie e germi d'ogni
vita. E a seconda di come ciascuno li avrà coltivati, quelli cresceranno e daranno
in lui i loro frutti. se sensibili, sarà bruto, se razionali, diventerà anima
celeste, se intellettuali, sarà angelo, e si raccoglierà nel centro della sua
unità, fatto uno spirito solo con Dio.Quindi, sostiene che è l'uomo a forgiare
il proprio destino secondo la propria volontà, e la sua libertà è massima,
poiché non è né animale né angelo, ma può essere l'uno o l'altro secondo la
coltivazione di alcuni tra i semi d'ogni sorta che vi sono in lui. L'uomo non è
né «angelo né bestia. La sua propria posizione nel mondo è un punto mediano tra
questi due estremi; tale punto mediano, però,
non è una mediocrità (in parte angelo e in parte bruto) ma è la volontà
(o l'arbitrio) che ci consente di scegliere la nostra posizione. Dunque l'uomo è
la più dignitosa fra tutte le creature, anche più degli angeli, poiché può
scegliere che creatura essere. Il suo secondo grande interesse è rivolto
alla cabala, che viene da lui spiegata come una fonte di sapienza a cui
attingere per decifrare il mistero del mondo, e nella quale Dio appare oscuro,
in quanto apparentemente irraggiungibile dalla ragione; ma l'uomo può ricavare
la massima luce da tale oscurità. Non esiste alcuna scienza che possa attestare
meglio la divinità che la magia. Connessa alla sapienza cabbalistica è la magia.
In fatti, il mago opera attraverso simboli e metafore di una realtà assoluta e dunque, partendo dalla natura, può giungere
a conoscere tale sfera metafisica attraverso la conoscenza della struttura
matematica che è il fondamento simbolico-metaforico della natura stessa.
Se la magia è giudicata positivamente per quanto riguarda invece l'astrologia
egli ebbe un atteggiamento diverso, che lo porta a distinguere nettamente tra
astrologia matematica o speculativa, cioè l'astronomia, e l'astrologia
giudiziale o divinatrice. Mentre la astrologica speculative ci consente di
conoscere la realtà armonica dell'universo, e dunque è giusta, la astrologia
prattica crede di poter sottomettere l'avvenire degli uomini alle congiunture
astrali. Partendo dall'affermazione della piena dignità e libertà dell'uomo,
che può scegliere cosa essere, muove una forte critica a questo secondo tipo di
credenze e di pratiche astrologiche, che costituirebbero una negazione proprio
della dignità e della libertà umane. L’astrologica prattica (o giudiziale)
attribuisce erroneamente a un corpo celeste il potere di influire sulla una vicenda
umana (fisiche e spirituali), sottraendo tale potere alla Provvidenza divina e
togliendo agl’uomini la libertà di scegliere. Non nega che un certo influsso vi
possa essere, ma mette in guardia contro il pericolo insito nell'astrologia giudiziale
di subordinare il superiore (cioè l'uomo) all'inferiore (ossia la forza
astrale). La vicenda dell'esistenza umana e tanto intrecciata e complessa che
non se ne può spiegare la ragione se non attraverso la piena libertà d'arbitrio
dell'uomo. Tuttavia, alcuni concetti base furono ripresi e rielaborati da Savonarola nel suo Trattato contra li
astrologi. Altri saggi: “Lettera a Barbaro sul modo di parlare dei filosofi”
– cf. Grice: “Full of implicatures – of the worst misleading type!” ; “Commento
sopra una canzone d'amore di BENIVIENI” – amore accademico -- “Discorso sulla
dignità dell'uomo”; “Tesi su tutte le cose conoscibili”; “CM conclusioni
filosofiche”; “cabalistiche e teologiche in ogni genere di scienze”; “Apologia”;
“Heptaplus: della settemplice interpretazione dei VI giorni della Genesi”; “Expositiones
in Psalmos, “L'essere e l'uno”; “Dispute
contro l'astrologia divinatrice”; “Carmi”; Auree Epistole. Sonetti, “Le XII
regole”; “Le XII armi della battaglia spirituale”; “Le XII condizioni d’un amante”
“Preghiera a Dio”; “Tutte le cose e alcune alter”. A lui si attribusce anche la
paternità dell’ “Amoroso combattimento onirico di Polifilo”. Sebbene egli
preferisse farsi chiamare Conte della Concordia. È in particolare Grazias, dopo
essere intervenuto presso i reali Isabella e Ferdinando, ad essere incaricato
da Innocenzo VIII di confutarne l'Apologia.
Avvelenato -- caso risolto, in Gazzetta di Modena, Gallello et al. Già
all'epoca della sua morte si vociferò che e avvelenato (cfr. S. Critchley, Il
libro dei filosofi morti, Garzanti).
Recenti indagini condotte a Ravenna dall'équipe di Gruppioni di Bologna riscontra elevati livelli di arsenico nei
campioni di tessuti e di ossa pre-levati dalle spoglie del filosofo, che
avvalorerebbero la tesi dell'avvelenamento per la sua morte (cfr. Delitti e
misteri del passato, Garofano, Vinceti, Gruppioni (Rizzoli, Milano). L’avvelenamento,
la cui morte finora si ritene fosse stata causata dalla sifilide, e ad opera
della stessa mano che due mesi prima avrebbe uccide Poliziano, legato a P. da
grande amicizia. Risolto il giallo della sua morte, Pisa, La sua memoria straordinaria.
enivieni fa porre anche una lapide sulle spoglie tumulate nella chiesa di S. Marco
a Firenze. Sul fronte della tomba è tuttora inciso. Qui giace Giovanni
Mirandola, il resto lo sanno anche il Tago e il Gange e forse perfino gli
Antipodi. BENIVIENI, affinché dopo la
morte la separazione di luoghi non disgiunga le ossa di coloro i cui animi in
vita congiunse Amore, dispone d'essere sepolto nella terra qui sotto. Sul retro
invece, in posizione poco visibile, è riportato l'epitaffio, “Girolamo BENIVIENI
per lui e se stesso pose nell'anno. Io priego Dio Girolamo che 'n pace così in
ciel sia il tuo Pico congiunto come 'n terra eri, et come 'l tuo defunto corpo
hor con le sacr'ossa sue qui iace”. GARIN, Vita e dottrina (Monnier); Zeller, L’aristolelismo
del LIIO rinascimentale, Luria, Yates, BRUNO e la tradizione ermetica Laterza; Perone,
Ciancio, Storia del pensiero filosofico,
SEI, Torino, Garin, Vallecchi, Sul richiamo di Pascal a P., cfr. B. Pascal,
Colloquio con il Signore di Saci su Epitteto e Montagne in Pascal, Pensieri,
Serini, Einaudi, Torino, Secret, I cabbalisti, Roma, Conclusiones nongentae. Le
CM tesi. Biondi, Studi pichiani (Firenze Olschki). Conclusiones Magicae numero
XXVI, secundum opinione propria”. Fra le tesi redatte in vista del congresso
filosofico di Roma, Non vi è scienza che ci dia maggiori certezze sulla
divinità della magia (cit. da Secret,
ibidem, e in Zenit studi. P. e la cabala). La natura è una correlazione
misteriosa di forze occulte che l'uomo può conoscere tramite l'astrologia speculative
e controllare tramite la magia. Distingue due tipi di astrologia: matematica e
divinatrice. Nega il valore della seconda (Granata, Filosofia, Alpha Test,
Milano). Lo stesso Savonarola sostenne di aver scritto il suo trattato in
corroborazione delle refutazione astrologice di P. -- cit. in Romeo De Maio,
Riforme e miti (Guida, Napoli). Indizi e prove: e Alberto Pio da Carpi nella
genesi dell’Hypnerotomachia Poliphili.
Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del progetto La scienza
in Italia, opera del Museo GALILEI. Istituto Museo di Storia della Scienza di
Firenze, pubblicata sotto licenza Creative Commone, Mazzali, Basileae, per Sebastianum
Henricpetri, Basileae, per Sebastianum Henricpetri, Doctissimi Viri P.,
Concordiae comitis, Exactissima expositio in orationem dominicam, Bernardini, Apologia.
L'autodifesa di P. di fronte al tribunale dell'inquisizione, Fornaciari,
Società per lo studio del medio-evo, Galluzzo, Firenze); Barone, Antologia, Virgilio,
Milano, Studi Dario Bellini, La profezia, Oltre la C porta, Sometti, Busi, Vera
relazione sulla vita e i fatti, P., Aragno; Cassirer, “Individuo e cosmo nella
filosofia del rinascimento” (Nuova Italia, Firenze); Lubac, L'alba incompiuta
del rinascimento” (Jaca, Milano); Giovanni, La filosofia (Palermo, Boccone del
Povero); Frigerio, "Il commento alla Canzona d'Amore di BENIVIENI; Conoscenza
Religiosa, Firenze, Fumagalli Beonio Brocchieri, Casale Monferrato, Piemme, Garin,
L'Umanesimo (Laterza, Bari); Puledda, Interpretazioni dell'Umanesimo,
Associazione Multimage, Quaquarelli, Zanardi, Pichiana. delle edizioni e degli
studi, in "Studi pichiani" (Olschki, Firenze); Sartori,Filosofia,
teologia, concordia, Messaggero Padova, Zambelli,
L’APPRENDISTA STREGONE SODOMITA DELL’ACCADEMIA Astrologia, cabala e arte
lulliana in P. e seguaci” (Marsilio, Venezia); “Le fonti cabalistiche”; Busi,
"Chi non ammirerà il nostro camaleonte?" La bibliotica cabbalistica, Busi,
L'enigma dell'ebraico nel Rinascimento, Aragno Torino Campanini, Moncada -- Mitridate -- traduttore di opere
cabbalistiche, Perani, Moncada alias Mitridate: un ebreo converso siciliano,
Officina di studi medievali, Palermo, Jurgan e Campanini, con un testo di Busi,
Nino Aragno, Torino Saverio Campanini Fondazione Palazzo Bondoni Pastorio,
Castiglione delle Stiviere; cabala; Ficino Filosofia rinascimentale Mirandola
Umanesimo Prisca theologia.Treccani Dizionario biografico degl’italiani,
Istituto dell'Enciclopedia; Il Centro P., L’Umanesimo, la cabala cristiana,
Discorso sulla dignità dell'uomo, P., Orazione sulla dignità dell'essere umano,
prima parte, su panarchy.org. I
"Carmina" e l'"Oratio de hominis dignitate", su the latin library
The Kabbalistic Library of P., su pico-kabbalah.eu. Giovanni Pico della
Mirandola Tesa in un breve arco di tempo, la vicenda di Pico sembra
innervata sullo scarto tra l’originaria esaltazione della libertà umana e la
tensione religiosa che anima gli scritti più maturi, e che la biografia curata
dal nipote irrigidisce in radicale rigetto degli ideali passati. Marginali
tanto nella lode di una libertà che rende l’uomo mediatore tra cielo e terra,
quanto nella critica di un sapere mondano chiuso all’eterno, gli ideali civili
a ben vedere vibrano nel fuoco di una riflessione che insiste sui tratti
radicali della vicenda umana e configura originalmente temi consueti
dell’Umanesimo fiorentino: dalla concordia tra ragione e scritture al rapporto
tra provvidenza e destino. La vita Giovanni Pico della Mirandola nacque a
Mirandola il 24 febbraio 1463. La sua formazione si sviluppò precocemente sul
duplice fronte della letteratura e della filosofia: tra il 1477 e il 1478
studiò diritto canonico; nel 1479, a Ferrara, fu avviato agli studi umanistici
da Battista Guarini. Un orizzonte di ricerca, questo, che Pico approfondì negli
anni successivi a Firenze, dove conobbe Angelo Poliziano, Girolamo Benivieni e,
probabilmente, Marsilio Ficino: una lettera composta in questi anni rivela del
resto l’interesse di Pico per le tesi che il filosofo fiorentino si accingeva a
illustrare nella Theologia platonica. Il richiamo all’antica sapienza
platonica confluì tuttavia in una esperienza di studi e ricerche aperta
costantemente a tesi e tradizioni diverse: tra il 1480 e il 1482, guidato da
Nicoletto Vernia, approfondì lo studio della filosofia a Padova; qui conobbe
anche Girolamo Donà, traduttore di Alessandro di Afrodisia, e l’ebreo cretese
Elia del Medigo, che lo avviarono alle dottrine dei commentatori medievali di
Aristotele. L’interesse per l’aristotelismo scolastico lo spinse a un breve
soggiorno a Parigi e animò, nel 1485, l’epistola indirizzata all’umanista
Ermolao Barbaro e tesa in una serrata difesa della filosofia medievale.
Rientrato in Italia, approfondì lo studio dell’ebraico sotto la guida di Flavio
Mitridate; a Firenze, rinsaldò i legami con Poliziano. La drammatica
conclusione dell’avventura con Margherita de’ Medici – gentildonna sposata con
cui Pico aveva tentato una fuga d’amore, a seguito della quale era stato
arrestato – lo costrinse a ritirarsi tra Perugia e Fratta. Qui non solo iniziò
a lavorare alle novecento tesi che intendeva discutere a Roma di fronte al
collegio dei cardinali, ma, prendendo spunto da una Canzona composta dall’amico
Benivieni, redasse il Commento alla Canzona d’amore di Girolamo Benivieni. Nel
1486 terminò le Conclusiones nonagintae e compose, come introduzione allo
scritto, l’Oratio de hominis dignitate; nel dicembre del medesimo anno si recò
a Roma per avviare quel congresso di filosofi e teologi che, secondo i suoi
progetti, si sarebbe dovuto svolgere nel gennaio dell’anno successivo. Alcune
delle tesi vennero però giudicate eretiche: Innocenzo VIII ne vietò la
discussione pubblica e nominò una commissione di teologi per vagliarne l’ortodossia.
La strategia difensiva subito avviata da Pico, che nel 1487 stese un’articolata
Apologia, non fu sufficiente a evitare la condanna, sancita dal breve papale
comminato il 5 agosto 1487. Pico lasciò l’Italia per rifugiarsi in Francia,
dove venne però arrestato e trattenuto per breve tempo nel castello di
Vincennes. L’intervento di Lorenzo de’ Medici presso Carlo VIII consentì al
filosofo di rientrare in Italia. Tornato a Firenze nel 1488, riprese le fila di
un programma culturale che intendeva indagare a fondo e illustrare il rapporto
di continuità sotteso a tradizioni filosofiche diverse. Assistito da una
cerchia di traduttori ebrei approfondì lo studio della cabala e intrecciò
relazioni feconde con il filosofo ebreo Yōḥānān Alemanno, sul filo di una
riflessione densa di suggestioni millenaristiche e profetiche e animata dalle
discussioni con il medico Pierleone da Spoleto, anche lui acuto studioso della
tradizione cabalistica e lettore appassionato di testi gioachimiti. Pur con
cautela maggiore, Pico si confrontò di nuovo con i nodi teorici presentati
nelle Conclusiones: nel 1489 pubblicò l’Heptaplus, commento allegorico al
Genesi, dedicato a Lorenzo il Magnifico e teso a segnare la consonanza tra il
testo mosaico e il pensiero di Platone e di Aristotele. A partire dal
1490, la predicazione di Girolamo Savonarola andò a incidere sull’orizzonte di
lavoro che Pico aveva definito attraverso studi lunghi e articolati: nel 1491
Pico pubblicò infatti il De ente et uno, nel quale la metafisica del Parmenide
è asse di un ragionamento volto a illustrare il nesso che congiunge Platone e
Aristotele, ma lavorò anche a un commento dei Salmi, in cui risaltano i
caratteri radicali di un’esperienza interiore che trasfigura nel fuoco della
tensione ascetica gli ideali di renovatio filosofica e che si riverbera con
pari intensità nelle lettere scritte al nipote Giovan Francesco Pico della
Mirandola. Da questa crisi discese altresì il progetto delle Disputationes
adversus astrologiam divinatricem: un trattato ampio e articolato nel quale la
persuasione di un nucleo originario di verità in cui convergevano la
rivelazione cristiana e la sapienza ebraica e pagana si risolveva nella
polemica intransigente contro il sapere corrotto degli astrologi, nelle cui
previsioni Pico coglieva la più radicale negazione della libertà connaturata
all’uomo. La morte, sopraggiunta prematuramente il 17 novembre 1494, gli impedì
di concludere l’opera, che Giovan Francesco Pico riuscì tuttavia a pubblicare
nel 1496, dopo un arduo lavoro sui manoscritti. Libertà dell’uomo,
libertà della filosofia Nella Oratio de hominis dignitate Dio si rivolge ad
Adamo con queste parole: Non ti ho fatto né celeste né terreno, né
mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti
plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai
degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo
volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine (De hominis dignitate,
Heptaplus, De ente et uno e scritti vari, a cura di E. Garin, 2004, p.
107). In questo testo straordinario, destinato a grandissima fortuna,
Pico propone un modello di eccellenza che implicitamente rigetta le tesi
ficiniane, e la dottrina secondo cui la posizione intermedia dell’anima fonda
l’indipendenza dell’uomo dai ritmi immutabili della natura e innerva l’ascesa
destinata a culminare nella trasformazione in dio. A Pico, infatti, preme
mostrare come la grandezza dell’uomo discenda da una radicale estraneità
rispetto alla gerarchia ordinata di enti che scandisce il mondo naturale e
definisce una volta per tutte il rapporto di ciascun individuo con l’immutabile
essenza divina. Per questo si serve del suggestivo apologo di apertura per
argomentare la natura incondizionata dell’uomo, che Dio affida, unico tra gli
esseri creati, alla libertà di un arbitrio capace di plasmarne l’essenza.
Nell’uomo, «opera di natura indeterminata», Pico coglie così il «grande
miracolo» celebrato da Ermete Trismegisto: non solo perché estraneo ai limiti
che ontologicamente circoscrivono l’esistenza e le operazioni degli altri enti,
ma soprattutto perché nei molteplici destini aperti all’arbitrio umano è
contenuta ugualmente la possibilità di farsi ‘vincolo’ e conciliatore del
mondo. Ma questo, come segnala esplicitamente l’Oratio, significa che la
vicenda dell’uomo si definisce nel rapporto con il mutamento: Chi dunque
non ammirerà l’uomo? Che non a torto nell’antico e nel nuovo Testamento vien
chiamato ora col nome di ogni essere di carne, ora con quello di ogni creatura,
poiché foggia, plasma e trasforma la sua persona secondo l’aspetto di ogni
essere, il suo ingegno secondo quello di ogni creatura. Perciò il persiano
Evante, là dove spiega la teologia Caldea, dice che l’uomo non ha una propria
immagine nativa, ma molte estranee ed avventizie. Di qui il detto Caldeo, che
l’uomo è animale di natura varia, multiforme e cangiante (p. 109).
Introdotti da potenti immagini che assimilano l’uomo al «camaleonte» cangiante
e che evocano, a poca distanza, la virtù metamorfica di Proteo e delle divinità
acquatiche, i richiami al variare e al trascorrere delle immagini sono
tutt’altro che originali: sostengono infatti, da Plotino in poi, il lessico
stesso dell’esistenza sensibile. Pico li fa però risuonare in toni nuovi nel
vivo di un discorso che proprio nelle molteplici «immagini avventizie» cui
l’uomo liberamente si espone radica la metamorfosi decisiva, nella quale
convergono, risolvendosi l’una nell’altra, riforma di sé e riforma del mondo.
Quasi rovesciando i precisi rapporti insiti nell’ordine di natura, Pico rileva
come le esperienze umane esprimano in forme meno compiute le forme superiori,
mentre attribuiscono alle forme inferiori dignità e valore: nel ciclo delle
metamorfosi avviate dalla libertà, alto e basso, perfetto e imperfetto si
congiungono così e si intrecciano, in un equilibrio delicato e mutevole. Il
cambiamento non è un perenne trascorrere di perfezione in perfezione, né si
dissipa in vanitas indifferente: identifica, all’opposto, la dimensione in cui
si dissolvono gerarchie consolidate, unificando, nel processo che indirizza
l’uomo a farsi bruto, pianta, «puro contemplante» e «spirito più augusto»,
livelli dissimili dell’essere. Solo nella vicissitudine delle forme si annida
così, per l’uomo, la possibilità di accedere a forme più alte di perfezione e
di felicità. Su questo punto, l’Oratio e le Conclusiones sono in perfetta
sintonia: il primato dell’uomo si impone nella stretta relazione tra mutamento
e libertà, quando l’uomo – come Pico sottolinea nel richiamo congiunto alla
sapienza nel libro di Giobbe e al motto eracliteo – comprende come la pace
scaturisca sempre dalla discordia e stringe così facoltà e passioni
contrastanti con vincoli sempre più stretti, fino a farsi angelo e simile a
Dio. Sul piano filosofico, la concordia del pensiero impone ugualmente di
comprendere, e valorizzare, il nesso inscindibile tra sapienza e mutamento: la
natura infinita della verità impone infatti, e legittima, una pluralità di vie
e di linguaggi. Dipanando questa linea di riflessione, le Conclusiones
accordano posizioni e tradizioni distanti, mostrando come i singoli autori
abbiano volta per volta curvato in forme particolarissime l’unica, originaria
verità. Su questi temi Pico scava a fondo, e dissolve l’antitesi tradizionale
tra Platone e Aristotele, Avicenna e Averroè, Tommaso d’Aquino e Giovanni Duns
Scoto per rivelare l’unità sottesa alle differenze: in questa rassegna
rigorosa, cade tuttavia la persuasione di una catena unica e ininterrotta di
poeti, teologi e filosofi destinati a custodire e trasmettere il vero in forme
sostanzialmente omogenee. A questa immagine, cui le opere di Ficino davano
ampio risalto, ma che inevitabilmente irrigidiva la vicenda del pensiero nel
contrasto insanabile tra pia philosophia e vani cavilli, docta religio e
superstizione, Pico contrappone invece il corso tumultuoso di una ricerca
fluida, percorsa da tensioni mai perfettamente risolte, ma sorretta, alla
radice, da un’ispirazione unitaria. Filosofi e barbari Incardinando nella
libertà dell’uomo il movimento che rovescia una sorte finita nell’immagine
della sapienza divina, il ragionamento di Pico tende inevitabilmente a porre in
risalto i tratti radicali di una scelta che spinge oltre l’orizzonte mondano:
questi temi, che certo l’Oratio modula in un contesto teorico saldo e organico,
sono tuttavia presenti dall’inizio alla fine e accomunano testi diversi per
natura e ispirazione. Risuonano infatti nei toni di maniera con cui si snodano
i sonetti composti da Pico in gioventù e successivamente gettati alle fiamme
per zelo religioso (G.F. Pico della Mirandola, Ioannis Pici Mirandulae viri
omni disciplinarum genere consumatissimi vita [1496], a cura di T. Sorbelli,
1963, p. 42); in particolare, si definiscono in forme icastiche nel sonetto
XIII, quando una meditazione poco originale sugli inganni della Fortuna e sulla
mutevolezza che regna «sotto la luna» si schiude a commenti fulminei:
felice è chi de vita è spento in cuna. / O almanco, mentre el celo è amico a
noi, / compire alora la giornata nostra / è meglio che aspetare in sin a sera
(Sonetti, a cura di G. Dilemmi, 1994, pp. 27-28). Scivolando rapido sulla
quieta indifferenza di chi ‘attende la sera’, lo sguardo di Pico è attratto,
con ogni evidenza, dall’irripetibilità di un momento in cui sembra concentrarsi
il destino dell’individuo. Non è dunque sul ritmo eterno della ruota di Fortuna
che insiste il sonetto: Pico, piuttosto, appare affascinato dalla possibilità
di infrangerne il ritmo, identificando in un unico, decisivo istante, trionfo e
morte. Ma una persuasione non diversa vibra a ben vedere nella lettera che Pico
indirizza a Ermolao Barbaro, e nella quale la figura autorevole di un sapiente
medievale è evocata per confutare la vana pretesa di far coincidere filosofia e
retorica: perché la filosofia, a giudizio di Pico, non si valuta dal
linguaggio, ed è possibile – come è già accaduto in passato – che nello stile
trascurato di testi scabri e incomprensibili sia celato un sapere fecondo. Sono
tesi celebri: ma vale la pena di segnalare che la dissimmetria tra ‘forma’ e
‘contenuti’, così come l’insistere su immagini di rozza ineleganza, si iscrive
in un ragionamento attento a segnalare come la scarsa attenzione per lo stile
dipenda, al fondo, dalla radicalità di una scelta che vincola completamente
l’uomo alla verità. Estranee ai codici che regolano la comunicazione e i
rapporti sociali, le esperienze dei grandi filosofi si definiscono così in una
tensione inesauribile che travolge gli equilibri comuni, e si spinge a esiti
radicali: Se Pitagora avesse potuto vivere senza mangiare, si sarebbe
astenuto anche dai legumi; se avesse potuto esprimere i suoi pensieri con
l’atteggiamento del volto, o almeno con una fatica minore della parola, non
avrebbe parlato affatto, tanto era lungi dalle ricercatezze e dalle eleganze
del linguaggio (Epistole, in Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E.
Garin, 1977, p. 811). Rifiutando il compromesso, esasperando la
contraddizione e rigettando ogni mediazione ispirata a considerazioni di
opportunità e buon senso, i filosofi barbari del Medioevo definiscono però,
secondo Pico, il corretto rapporto tra civiltà e barbarie e smascherano le
insidie di una vita culturale e politica alimentata dall’apparenza. Le armi
della retorica sono naturalmente volte all’insidia, trasformano infatti «il
nero in bianco, il bianco in nero» senza alcun rispetto per la realtà, e il
retore tende a «ingannare, a circuire, a insidiare»: «potete – conclude il
filosofo –, con la vostra parola, alzare, abbattere, ingrandire, annullare tutto
quel che volete» (p. 809). Fondato sul teatro dell’immaginazione, l’incanto del
ben parlare si rivela ben presto il frutto di una società corrotta, percorsa
dalla frattura insanabile che contrappone la consumata abilità del retore, da
un lato, alla semplice ingenuità dei cittadini, dall’altro. A chi insiste
sull’efficacia pedagogica dell’eloquenza, che «dissimula» l’austerità della
filosofia, così come «il miele» rende gradevole la medicina «per ingannare
l’improvvida fanciullezza», il filosofo barbaro reagisce scavando nelle pieghe
della similitudine, e facendo affiorare l’immagine tragica di un «volgo»
infante, e del tutto estraneo alla ragione: Questo forse conveniva che
tu, o Lucrezio, facessi, se scrivevi per i bambini, se scrivevi per il volgo; e
lo dovevi fare in ogni modo, tu che propinavi non solo assenzio, ma purissimi
veleni (p. 815). All’alleanza perversa che si stringe tra il retore e il
volgo, tra «quanti si occupano delle faccende politiche» e la «bilancia» del
giudizio popolare si contrappone così il vincolo virtuoso che la filosofia
intreccia tra verbo interiore e verbo esteriore, tra ragione e orazione, tra
l’orecchio e l’anima: O uomo di gusti delicati, quando vai dai flautisti
e dai citaredi, stai pur tutto orecchi; ma quando vai dai filosofi, ritorna in
te, nei penetrali dell’anima, nei recessi della mente (p. 815). I
filosofi medievali disegnati da Pico rifiutano gli strumenti perniciosi che
agiscono solo dove si contrappongono su due estremi senza comunicazione «istrioni»
e «volgo»; non cercano «grazia dalla mollezza» ma «maestà dalla rudezza», e
illuminano dunque la fragilità di una cultura senza presa sulla realtà, che
sopravvive soltanto con le «forze quasi magiche dell’eloquenza» (p. 809).
Nello scarto tra barbari e moderni non si gioca dunque la semplice antitesi tra
rinascita e decadenza, vita e morte: nella filigrana del testo, la lettera di
Pico propone anche un diverso modello di civiltà, una comunità di sapienti
sottratta alla cultura dell’apparenza in cui restano invischiati i
filosofi-retori. Spunti precisi, questi, ma che si impongono di scorcio e
successivamente si attenuano in un contesto teorico che la crisi religiosa di
Pico segna in forme sempre più marcate: nell’Heptaplus, in particolare, le
forme in cui erano stati modulati i temi del sapere civile sono travolte da una
riflessione in cui la felicità razionale garantita dalla filosofia appare
funzionale alla perfezione che discende dal rapporto, diretto e immediato, con
Dio. Ma un simile modello di perfezione riposa, come suggerisce il serrato
ragionamento di Pico, sull’intervento insondabile della grazia. Senza il
beneplacito divino, all’uomo non è dato di ricongiungersi a Dio: il
ragionamento svolto nell’Oratio si torce dunque in un contesto mutato, che
adesso individua in Cristo il solo, reale mediatore tra Dio e il creato.
L’incarnazione del Verbo diviene il presupposto perché l’uomo possa a sua volta
farsi medio e mediatore tra cielo e terra: circoscrivendo così in forme nette
lo spazio riservato all’arbitrio umano, Pico finisce però per definire un
modello di perfezione che ancora si risolve in forme aspre e non conciliate.
Sono, del resto, le stesse forme che animano le epistole scritte al nipote
Giovanni Francesco, nelle quali il richiamo alla riforma religiosa e alla
renovatio interiore si svolge attraverso un lessico di ascendenza militare,
ugualmente intessuto di rimandi alla lotta: a testimoniare, ancora una volta,
il carattere travagliato di una dignitas indisgiungibile dal conflitto.
Cieli e camaleonti Nelle Disputationes la critica all’astrologia ha un
obiettivo teorico ben preciso, e saldamente definito fin dall’inizio.
Attestando l’inconsistenza del sapere astrologico, Pico intende tracciare un
discrimine netto fra arti umane e capacità profetiche, mostrando come nessun
artificio umano possa dischiudere l’intuizione del futuro. Proiettato su questo
sfondo, il discorso di Pico tocca temi cari a Ficino, che proprio nel
vaticinium e nel fuoco di un rapporto privilegiato con le grandi forze del
cosmo incardinava la civilis sapientia. Ma se Ficino resta persuaso che il
sapiente possa comunque inserirsi nel ritmo di una comunicazione che
naturalmente si tende tra dei, demoni e uomini, Pico batte invece sul mistero
di un dono divino, su cui l’uomo non può esercitare alcun controllo. Non
sorprende, dunque, che nel quadro di una violenta critica contro l’astrologia,
le Disputationes istituiscano un discrimine netto tra prudenza civile e
vaticinio, con un ragionamento che va a colpire il cuore stesso del grandioso
modello cosmologico illustrato da Ficino. In Ficino, destino dell’uomo,
vicende della società e condizione dei cieli si rispecchiano l’uno negli altri,
secondo un corso regolare che può essere colto e seguito; a dottrine simili,
Pico reagisce contrapponendo frontalmente cielo e terra. Una spia lessicale è,
a questo riguardo, illuminante: Quale è mai questo così vario
cangiamento, questa incostanza a mo’ di camaleonte, per cui anche in un breve
lasso di tempo quei divinissimi corpi non si trovano mai simili a sé, e
provvisti delle medesime doti? [...] Tutto questo abbiamo
dimostrato in base alla perpetua e stabile condizione dei cieli, che sempre
eguali a sé non mutano, come costoro credono, a guisa di camaleonti per
l’influenza dei luoghi e delle distanze (Disputationes, a cura di E. Garin, 2°
vol., 2004, rispett. pp. 19 e 357). Nel discutere l’errore degli
astrologi, che pretendono di ricondurre gli eventi terreni entro l’ordine dei
cieli, e innervano dunque mutamento e varietà nelle regioni più alte del cosmo,
Pico utilizza due volte la metafora del camaleonte, sviluppandola, nell’uno e
nell’altro caso, con connotazioni fortemente negative. È una scelta che
colpisce, se si pensa al peso che l’immagine aveva assunto nell’Oratio, e che
proprio per questo illumina un nodo teorico centrale. A giudizio di Pico,
camaleonte è un termine che appartiene al lessico dell’uomo, non a quello del
sapere astronomico; esprime la grandezza e la perfezione dell’individuo, non
quella del cielo che non è, né può essere, assimilato a un «camaleonte». E
questo, a sua volta, significa che la natura non è specchio dell’uomo, né del
mondo che germina dalle azioni umane: quando l’astrologia mostra da lungi
il cielo e i pianeti, sì che facilmente si crede alla possibilità di prevedere
tutto con assoluta certezza in uno specchio tanto limpido ed elevato. Ma, se si
osserva con più cura, si vede tosto che lo specchio è troppo alto perché le
immagini delle cose terrene possano arrivare fin lassù, troppo splendente
perché il suo fulgore non accechi la nostra debolezza (Disputationes, cit., 1°
vol., p. 43). Incapaci di cogliere le differenze, gli astrologi
confondono i piani dell’essere, senza riconoscere le peculiarità di ciascun
livello: è la frode più pericolosa di tutte, perché è lei […] a
indebolire la religione, a generare e rafforzare le superstizioni, a tener viva
l’idolatria, a distruggere la prudenza, a insozzare i costumi, a infamare il
cielo, a rendere gli uomini meschini, tormentati, inquieti, a farli di liberi
servi e a dare esito sfortunato a quasi tutte le loro azioni (p. 45).
-ALT Su questa base, Pico riduce il rapporto tra cieli e mondo sublunare
a quello tra cause generali e cause prossime, esaltando il ruolo giocato dalla
materia nei processi naturali. È infatti dalla varietà del sostrato materiale –
e non da una presunta influenza degli astri – che discendono, da un lato, la
varietas che segna il mondo naturale con mutamenti, irregolarità imperfezioni
e, dall’altro, il dramma di un universo apparentemente governato da una
fatalità cieca. Di nuovo, il ragionamento si definisce in voluta tensione con
le dottrine diffuse dal neoplatonismo ficiniano. Pico, infatti, è fin
dall’inizio consapevole che il fascino delle dottrine astrologiche è
inscindibilmente congiunto alle questioni su cui Ficino si era più volte
pronunciato, per giustificare, attraverso l’analogia tra il cerchio grande del
cielo e il cerchio ristretto delle vicende umane, l’alternarsi delle sorti e
delle fortune. A questo, l’astrologia offre una spiegazione in apparenza
persuasiva: Infine è il corso stesso degli eventi umani, su cui
soprattutto si esercita la divinazione astrologica, quello che sembra
convincere da ogni parte anche i riottosi del potere del cielo e del fato. In
esso infatti la varietà stessa è familiare e frequentissima; in esso vediamo
accadere molte cose oltre le capacità della nostra natura mortale, molte cose
oltre la ragione e il merito, molte oltre l’ordine e gli istituti della
condizione umana […]. Questi nasce alla filosofia, quello alla poesia […]. Di
dove scaturisce questa varietà d’ingegni? L’uno non conta nulla le ricchezze,
l’altro vende l’animo per danaro […]: donde tanta differenza? (p. 187).
Al fondo, l’inganno degli astrologi si radica sulle medesime considerazioni che
Ficino aveva declinato ragionando della fortuna; si tratta, in entrambi i casi,
di spiegare l’opacità di un mondo in cui non si dà rapporto tra merito e
destino: Chi non attribuirà ancora una volta al fortuito corso degli
astri la condanna dell’innocente, il premio del malvagio; la miseria dei molti
attivi, solerti, acuti, dotti; la ricchezza degli ignari e dei perfidi? (p.
187). Rifiutando di percorrere la via di Ficino e degli astrologi, Pico
sposta il ragionamento in un’altra direzione: non cerca principi di ordine
generale, non tesse vincoli di analogia tra cielo, terra e società, ma si
concentra sui gradi più bassi della scala, valorizzando l’originalità
irriducibile dei composti. Osserva infatti: «la differenza dell’influsso
occulto non dipende dalla stella da cui emana, come crede l’astrologo, ma dalla
diversità della materia che lo accoglie» (p. 399). E ancora: Né sarebbe
regola fissa che il sesto giorno uccide con tirannica crudeltà e il settimo
guarisce con regia benignità […]. E, se il caso talora si verifica non deve
derivarsi dal cielo, dove è situata la causa di quello che avviene con ordine e
costantemente, ma piuttosto dalla materia e da qualche peculiarità del malato
(p. 349). «Materia», «peculiarità del malato»: il lessico di Pico
concentra il fuoco della riflessione sulla varietas connaturata al mondo
terreno, contestando così il metodo sterile degli astrologi, protesi a scrutare
i corpi celesti e ciechi di fronte alla vita che pulsa mutevole nei gradi più
bassi della scala, nei corpi e nelle materie. Il cielo, infatti, individua
l’unità in cui si risolve ogni differenza: non soltanto dunque è incapace di
spiegare i problemi connessi alla molteplicità e al variare, ma addirittura,
nota Pico, li annulla alla radice: Non sembra che si possa spiegare la
natura del cielo più chiaramente e più brevemente che dicendo che il cielo è
l’unità di tutti i corpi; non v’è alcuna molteplicità che non dipenda dalla
unità, niente nell’universo che non derivi dall’uno quasi dal suo fonte. E a
quel modo che nell’esercito ogni legione si volge al proprio comandante e tutto
l’esercito ad un sol capo, così ogni serie di cose che consentono fra loro per
l’uguaglianza del genere, ha un proprio principio da cui è dedotta, da cui è
sostenuta, guidata, contenuta. Ora essendo molti questi principi, tale quasi
molteplice unità viene ricondotta infine alla semplicissima unità del primo
principio; a quel modo che ogni numero è in certa guisa nell’unità, tutto lo
stato nel re, tutto l’esercito nel capo, così nel proprio principio è contenuta
ogni virtù e perfezione del proprio gregge. […] il cielo sarà l’unità di tutti
i corpi; di esso possono negarsi tutte le caratteristiche degli altri corpi, e
tutte insieme possono affermarsi (p. 393). Il cielo ha a un tempo tutte le
forme e nessuna; non ha senso incardinare su questa unità indifferente le
peculiarità di una forma e di un destino. Pico lo conferma energicamente,
articolando il ragionamento su due livelli. Insiste infatti sulla sproporzione
tra i due estremi: Ma come in un nero formicaio vi sono alcune formiche
superiori alle altre per forza e per grandezza; e vi sono vittorie, guerre,
paci, doveri, fatiche, miseria e ricchezza, tutte cose che a noi che guardiamo
appaiono esigue e senza differenza, un nulla; così questi nostri corpiccioli,
le nostre vicende, i nostri re, le nostre province, le guerre, i patti, le
nozze, sono un nulla dinanzi al cielo al cui confronto tutta la terra, di cui
gli uomini si contendono una particella col ferro e col fuoco, è un sol punto
(pp. 417-19). «Esigue», «senza differenza», «nulla»: richiamata in un
orizzonte teorico simile, la vicenda esemplare di Alessandro Magno risalta così
in termini radicalmente mutati rispetto all’uso che ne aveva fatto Ficino.
Nelle lettere del canonico fiorentino, Alessandro e Filippo II di Macedonia
segnalano il riverberarsi dell’ordine celeste nelle sorti individuali e
testimoniano così del vincolo che congiunge vicissitudine mondana e vita
dell’uomo; adesso, lo sguardo disincantato di Pico le trasforma in momenti
«troppo insignificanti» perché possano trovare riscontro nei cieli.
Concentrandosi sul limite – e sulla sproporzione tra l’omogeneità celeste e la
varietas mondana – Pico trae dunque strumenti teorici potenti per dimostrare
che le vicende umane non possono in alcun modo risolversi entro l’ordine della
vicissitudine celeste: Non è perciò tale la grandezza delle cose terrene
da non poter avere altra causa oltre il cielo. Del quale se non sono degne le
cose che tra noi son degne, quanto più ne saranno indegne quelle che
indegnamente son fatte anche da noi, come l’essere i furfanti innalzati agli
onori e Socrate che muore per la condanna di un calunniatore e enormità del
genere che in gran numero vediamo e soffriamo ogni giorno (p. 417). Anche
per Pico, al fondo, si tratta dunque di dar conto di un mondo estraneo alla
giustizia, nel quale si rovescia il corretto rapporto tra degni e indegni, tra
virtù e ricompensa. Sono gli stessi temi – e gli stessi lemmi – presenti in
Ficino: disposti però sul filo di una riflessione profondamente mutata.
Principi e retori A Pico, prima di tutto, interessa ribadire come i concetti
stessi di degno e indegno perdano senso quando ben si considera lo scarto fra i
grandi corpi del cielo e i piccoli corpi dell’uomo. Ma non solo: dall’inizio
alla fine, Pico intende mostrare come beni e mali discendano dalla specificità
di ciascun individuo, pullulando dalle profondità di un animo che resta, al
fondo, indecifrabile. Non stupisce, in questo senso, la violenta polemica con
cui le Disputationes attaccano la sterile presunzione degli astrologi che
pretendono di circoscrivere le pulsioni molteplici della volontà entro l’ordine
delle vicissitudini celesti, e nel flusso speculare degli umori: È
affermazione anche troppo ridicola che, siccome le stelle possono produrre il
freddo, il caldo e le altre qualità, possono produrre anche le guerre, le
rivoluzioni, possono rovinare le città e mutare gli imperi. […] Infatti dicono
che venendo eccitata la bile in corpo ai re ed ai principi, gli animi bollenti
diventano più bramosi di recare o restituire le offese. O felice Italia,
fiorente di eterna pace, se tu potessi avere dei principi flemmatici! Questo
bene sì grande e divino costerebbe ben poco: una piccola oncia di un farmaco
ben scelto per sedare la bile, saggiamente distribuita fra i signori più
bellicosi, ci renderebbe pacifico tutto il mondo! (Disputationes, cit., 1°
vol., pp. 379-81). A differenza di Ficino, Pico non crede affatto che il
destino del tiranno germini dal corpo, nella crescita incontrollata degli
umori, e la critica all’astrologia conferma così, a distanza di anni, un dato
originario della riflessione di Pico. Nucleo di libertà assoluta, la vicenda
dell’uomo non è mai schiacciata e risolta entro i cicli immutabili della natura:
Come se questa fosse la causa prima delle guerre, e non piuttosto l’avidità,
l’ira, e non la cupidigia e l’occasione o la speranza di conquista. […]
quasichè non suscitasse le guerre e i tumulti talora l’amore stesso della
giustizia; quasichè molto spesso a sospingere i re non sia, invece della bile,
Dio, che ora prova i buoni nella virtù, ora punisce i malvagi per mezzo dei
malvagi che nel mondo Egli tiene come carnefici e quasi demoni visibili (p.
381). Rivelando l’inconsistenza delle distinzioni generiche cui si
attengono gli astrologi, Pico disegna così in toni mossi e drammatici il
volgere di una storia in cui violenza e conflitto si danno, a seconda dei casi,
come totale dissoluzione del vincolo civile o come strumento di giustizia.
Priva di rapporti con la realtà, la scienza astrologica diviene vano esercizio
retorico: decostruendone abilmente il lessico, Pico scorge nei precetti
dell’arte la maschera della stoltezza umana, e lo strumento privilegiato delle
mistificazioni. Quegli uomini eccellenti, – scrive Pico, ragionando degli
astrologi – affannandosi giorno e notte a misurare i movimenti e la grandezza
degli astri, non ne ricevevano alcun guadagno dai principi, a cui non importava
niente della grandezza degli astri o della velocità con cui si volgevano per il
cielo. Accorgendosi di questo, per non trovarsi poveri delle cose di questa
terra mentre scrutavano il cielo, escogitavano un gustoso trucco per
conquistare gli animi dei principi e renderli amanti della loro arte. […] Si
legge in Firmico Materno che i principi, molto ignoranti e curiosi,
desiderosissimi delle cose che gli astrologi promettevano, erano tratti
facilmente a crederci, a sostenere chi esercitava quegli studi e promuovere
sempre più intensamente i medesimi con premi (p. 63). Agiscono qui le
strategie teoriche già dispiegate nella lettera a Ermolao Barbaro, per
suggerire come l’alleanza perversa tra retori e volgo si riverberi ugualmente
nella benevolenza con cui i principi ignoranti accolgono le lusinghe degli
astrologi: aggiungi i desideri dei principi, pronti a creder tutto per
ignoranza, e a sperare tutto per brama soverchia. Quando ad essi veniva
preannunciata la felicità del cielo (e sempre veniva annunciata felicità),
volevano così poco che venisse distrutta l’astrologia quanto quella medesima
fortuna (Disputationes, cit., 2° vol., p. 521). Al pari della retorica
anche l’astrologia corrompe dunque il vivere civile; ma la crisi introdotta
dagli astrologi appare ben più radicale, poiché sovverte alle radici i principi
della vita morale: E quando fosse penetrato profondo nelle vene, avrebbe
prima tolto fiducia nella religione, bene sommo per gli uomini, quasi che dal
cielo pendesse sugli uomini una fatale necessità, quasi fossero nulli i
miracoli, quasi non sussistesse alcuna divina profezia del futuro, ma tutto
derivasse dalla forza delle stelle; ai vizi in noi discendenti dal cielo, fu
trovato quasi un celeste patrocinio, laddove son buone tutte le cose che
vengono da natura (p. 523). La forza delle stelle diviene quindi pretesto
per giustificare comportamenti aberranti, accusando il cielo per gli errori
umani: E proprio in esse, secondo Firmico Materno, si mostrerebbe
specialmente il fato e la necessità del decreto del cielo. Ma io vorrei
domandare a lui e agli altri astrologi, perché siano così bramosi di attribuire
alle stelle i nostri errori, e di accusare il cielo delle nostre colpe. Come se
fosse strano che noi, sempre bassi e malvagi, pecchiamo; come se fosse
possibile che possano qualche volta sbagliare quei corpi celesti che sempre
obbediscono al volere di un Dio di bontà con immutabile ordine. Ma – essi
rispondono – si condannano gli innocenti, si premiano i furfanti. Ora io
domando, sono i principi giusti o quelli ingiusti che fanno ciò? Se sono i
giusti, non basta il cielo a spiegare un fatto simile; se gli ingiusti, che
bisogno c’è del cielo, quando la malvagità è abbastanza spregiatrice del cielo?
(Disputationes, cit., 1° vol., pp. 417-19). Leggi, mutamenti, profezie La
società diventa così campo di forze in cui si dispiegano i multiformi effetti
di volontà imprevedibili: per questo, le Disputationes insistono sulla trama di
rapporti che vincola i singoli individui all’interno della civitas, accomunando
i singoli destini in una rete di relazioni e vicende impossibili da ricondurre
entro un ordine rigoroso: Così, pur non essendovi nulla di male, gli
uomini dipendono vicendevolmente gli uni dagli altri in modo tale che è
impossibile che la fortuna dell’uno non giovi e non danneggi l’altro. Un figlio
felice avrà, per l’infelicità del padre, una sorte infelice, ed una felice
invece per il felice fato paterno. Il servo sfortunato nella sua nascita,
dividerà la felicità del padrone fortunato; la sorte del soldato dipende da
quella del generale; la fortuna del malato dal medico e, a sua volta, quella
del medico dal malato, e così via in vari modi (Disputationes, cit., 1° vol.,
p. 139). L’astrologia pretende dunque di isolare e ricondurre ad
archetipi astratti una vicenda umana che fin dall’inizio è molteplice e varia:
incalzato dalla necessità, l’uomo si confronta infatti con individui e
circostanze cangianti, aprendo in questo modo, nel continuo incrociarsi di
affetti e passioni, itinerari dissimili. Le disuguaglianze di sorti, scelte,
esiti non discendono da un’astratta fortuna, ma si radicano nell’infinita
libertà dell’uomo, dalla cui potenza scaturiscono, in pari misura, virtù e
vizi: Ha una grande influenza nella scelta delle arti e delle professioni
il tipo del paese in cui ci si trovi a nascere, sì che si darà alla mercatura o
alla navigazione chi si trovi in un paese marittimo, alle lettere se è vicina
un’accademia, alla milizia se i vicini sono pericolosi, o se vi siano lotte
intestine. Vi sono quelli che la fertilità e l’abbondanza rendon pigri e dediti
al piacere, ed invece laboriosi, industriosi e diligenti la povertà e la
sterilità (p. 293). Il grande tema dell’Oratio si curva così in una
prospettiva civile: nel cuore delle Disputationes, alla potenza del saggio che
plasma se stesso fa da contrappunto la potenza della legge che trasforma e
modella il popolo: restano le leggi civili, cioè le norme e i giudizi dei
Cesari e dei saggi, il cui fine più alto è di provvedere a quelle istituzioni
per cui la vita umana si svolge buona e gradevole [«bene beateque transigatur»]
(p. 97). I tempi lunghi della legge plasmano i popoli, liberandoli dai
caratteri imposti da clima, natura e temperamento: Si aggiungano le leggi
che sui caratteri del genere hanno una grande importanza, tanto che possono con
somma facilità, se sono osservate, rendere estremamente miti popoli feroci, e,
se sono cattive, sfibrare e corrompere genti fortissime; di qui anzi si
dimostra con piena evidenza contro ogni necessità naturale il libero arbitrio.
I Galli erano una volta infami per gli amori dei giovinetti, se dobbiamo
credere a Tolomeo e ad Aristotele, ed ora, per i benefici della legge cristiana
e del santo re Luigi, hanno in tale orrore quel delitto, che non v’è popolo che
più lo aborra sulla faccia della terra (p. 293). Ficino, si è visto,
costruisce una trama di analogie che va dal cielo alla terra e trasforma la
vicissitudine degli astri e degli elementi nello specchio in cui l’uomo può
spiare i ritmi dei mutamenti nelle vicende degli individui e delle società.
Pico istituisce di contro una cesura netta fra i due piani, impedendo che
possano rispecchiarsi l’uno nell’altro. Diventa pertanto impossibile intendere
il corso delle vicende umane nei termini di una cieca vicissitudine governata
dalla fortuna: Infatti, benché in molte cose molto possa la fortuna e
moltissimo, anzi tutto in tutto, la determinazione della volontà divina, è
necessario tuttavia che una retta guisa di vita abbia in queste cose una
grande importanza, se non vorremo ammettere che Dio ci abbia dato
inutilmente questo compito. Onde giustamente fu detto che dove è saggezza,
nessun nume è lontano, mentre siamo noi che facciamo della fortuna una dea e la
collochiamo nel cielo. Perciò Platone nella lettera ai Siracusani, avendo
ricordato il detto omerico – gli Dei gli tolsero la mente – dice che furono
piuttosto gli uomini a togliersi la mente loro affidata; il che conferma colla
sentenza di Euripide, che disse la sorte figlia dell’anima. Saggiamente dunque
ordinando la nostra vita secondo la ragione naturale, procacciandoci la divina
benevolenza con pia religiosità, evitiamo ogni vana superstizione (p.
457). Nel testo di Pico è incastonata la stessa citazione di Marco
Manilio con cui Ficino aveva voluto definire l’opera maligna della fortuna in
un mondo abbandonato dalla sapienza. Uno spunto noto, su cui i due autori
gettano luce diversa, in vista di obiettivi teorici diversi. In Ficino i versi
definiscono l’esilio dell’anima nell’orizzonte della vicissitudine. In Pico la
citazione è criptica, depotenziata: senza richiamarsi ad alcuna auctoritas
serve a definire la crisi che nasce quando l’uomo cede agli artifici magici
della retorica, facendosi schiavo delle proprie illusioni. La civitas umana non
è più, dunque, il luogo in cui fortuna e provvidenza si confrontano
costantemente spogliando la vicenda umana di ogni senso e valore: all’opposto,
è la dimensione in cui agiscono, e si impongono, la specifica natura e le
scelte di ogni singolo individuo. Allo stesso modo, il processo che porta a
ripristinare la serenità e la pace non è dono indifferente del fato astrale
sulla base di semplici corrispondenze e scansioni temporali, ma nasce
dall’intreccio fecondo delle azioni umane, e germina da una libertà che nessuna
previsione può, al fondo, decifrare. Bene e male, guerra e pace, giusto e ingiusto
si rivelano così inscindibilmente congiunti, e si generano gli uni dagli
altri: Un re dichiara guerra ai confinanti; forse ne è causa in parte la
natura del re, bellicosa, cupida, inquieta; forse non viene trascinato tanto
dalla passione quanto dalla ragione o dal diritto di rivendicare ciò che è suo
o di rispondere a un’offesa o da altri motivi (p. 441). I destini
molteplici discendono dal segreto pulsare delle passioni, secondo un movimento
che non assume mai termini fissi: nella lettura di Pico, guerra e pace
scaturiscono, indifferentemente, dall’avidità o dalla sete di giustizia, così
come dal calcolo avveduto di chi si propone di vendicare le offese ricevute, o
rivendicare i propri diritti. Ma accanto al continuo e inesauribile incrociarsi
di fati e destini, Pico, al pari di Ficino, pone altresì l’opera insondabile
della provvidenza: «molto spesso a sospingere i re», rileva Pico, si pone
l’azione di un «Dio, che ora prova i buoni nella virtù, ora punisce i malvagi
per mezzo dei malvagi che nel mondo Egli tiene come carnefici e quasi demoni
visibili» (p. 381). E, ancora: Può, oltre tutto questo, intervenire uno
speciale decreto di Dio, sempre giusto, sempre ragionevole, benché non sempre
sia chiara a tutti la sua giustizia o la sua ragione (p. 441). È la
stessa convinzione di Ficino: posta però in toni più tragici. Nel mondo
contingente della natura Pico innesta dunque l’intervento divino: accanto alle
leggi, strumenti naturali che definiscono le strutture del consorzio umano e
fondano una vita «buona» e «beata», si esplica infatti l’azione di Dio, che
modella il cuore dei sovrani, indirizza la storia e risolve nel dispiegarsi del
suo potere le illusioni stesse degli astrologi, cui talvolta consente di
cogliere una verità altrimenti inattingibile. Di una simile azione il sapiente
non può tuttavia cogliere le tracce, e il male che appare radicato nella
società e che Dio tollera rimane al fondo senza spiegazione. Vibrano così nelle
Disputationes i toni drammatici del libro di Giobbe, che segnano il limite
insuperabile di una sapienza mondana inevitabilmente estranea alla verità
profetica: Né ci turbi il fatto che ci sembra talora che operino cose
indegne e ingiuste, sì da farci ricorrere perciò più volentieri a cause agenti,
non per disegno ma per necessità naturale; sarebbero infatti ben ridicoli i più
vili schiavi di una città se presumessero di giudicare le decisioni dei
principi. […] Noi omunculi, anzi pipistrelli, talpe, asini, bovi, piegati a
terra, giudicheremo tutto ciò, chiamando in esame Dio stesso? […] Invece tutte
le volte che vedrai sorger guerre e stragi e saccheggi di città e distruzioni
di regni, non penserai con codesti ciarlatani che ne è causa l’incontro di due
raggi o la luce interrotta nel suo corso naturale fra il Sole e la Luna, ma il
disegno di Dio che punisce i malvagi e mette alla prova i buoni (pp.
445-47). Opere Opera omnia, Basileae 1557 (rist. anast. Hildesheim
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conte della Mirandola e della Concordia. Giovanni Pico della Mirandola. Pico.
Keywords: amore platonico, amore socratico, Pico e Girolamo – l’epitafio –
amore platonico Ficino – la dignita dell’uomo, la concordia degl’antichi, la
magia, il platonismo di Pico. Pico e Pico, i apprendisti stragoni sodomiti, o
dell’amore accademico. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Pico: the dignity of
man," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice,
Liguria, Italia.
Luigi Speranza -- Grice e Pico: la
ragione conversazionale e l’implicatura conversazionale dello stregone sodomita
– filosofia emiliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Mirandola). Filosofo italiano. Mirandola, Modena, Emilia Romagna. Grice:
“It is very likely that Cartesio took the idea of the malignant daemon from
Pico, who was obsessed with him – with the daemon, I mean! “Demonio!”” Grice:
“I like Pico. Ackrill suggested that I should translate happiness as taking
‘daemon’ seriously. Pico does: He allows Alberti’s use of ‘demonio’ as a direct
translation of Roman ‘daemone,’ which is Grecian in nature.”Grice: “A daemon is
always ‘maschile,’ succubus, or incubus – and stregus is gender-neutral, too,
as Pico was very well aware when he allowed the burning of a few male witches
at Mirandola. On the other hand, he uses Sextus Empiricus and Phyrro against
Aristotle!” Grice: “Like Gentile, and Rosselli, two other Italian philosophers,
he was murdered – by his successor to the county!” “A very sad thing is that he
was murdered along with his son Alberto.” Grice: “The murderer, a Pico,
succeeded him without much of a revolt – That’s the Renaissance forya!” --- Important if unjustly neglected, murdered,
Italian philosopher. Italian nobile e
filosofo, nipote di Pico. Grice: “He was murdered by his ‘successore
definitivo’ – along with his ultragenito figlio – Descendants of NERONE would
be surprised to learn that his primogenito did not seek revenge – perhaps he
couldn’t care less – MIRANDOLA ain’t ROMA!” Figlio di Galeotto I Pico, signore
di Mirandola. Come lo zio, Pico, P. si dedica principalmente alla filosofia, ma
ha reso soggetto alla bibbia, anche se nei suoi trattati, De monolocale divinae
et humanæ sapientiæ e in particolare nei VI libri intitolati examen doctrinæ vanitatis
gentium, si deprezza l'autorità dei filosofi, al di sopra tutti l’Aristotele
del LIZIO. Scrive una biografia dettagliata di suo zio (“Ioannis Pici
Mirandulae Vita”) e un altro di SAVONAROLA (si veda), di cui è un seguace. Avendo
osservato i pericoli a cui la società è esposta, lancia un avvertimento in
occasione del concilio lateranense: Oratio ad Leonem X et concilium Lateranense
de reformandis Ecclesiæ Moribus (Hagenau, dedicato a Pirckheimer). Muore a
Mirandola, assassinato dal nipote Galeotto, insieme a suo figlio. Mentre spesso
sostene che la filosofia raggiunta una parte della verità, dice in effetti, che
la filosofia da soli è una semplice raccolta di falsità confusi e internamente
incoerenti. In possesso di un tale punto di vista, si schiera non solo con SAVONAROLA,
ma con alcuni dei padri e con i riformatori pure. Su questo punto, è
insistente. Il cristianesimo è una realtà auto-sussistente e che ha poco o
nulla da guadagnare dalla filosofia, le scienze o le arti. Questa tesi centrale
si diffonde attraverso quasi la sua intera produzione filosofica. Scrive di non
lodare o estendere il regno della filosofia, ma di demolirlo. Saggi: “De
studio di divinae et humanae philosophiae,” “De imaginatione” – Grice: “This is
interesting. Pico starts by noting how Cicero mistranslated imaginatio from
‘phantasma.’ Vitters would not have agreed!” – “De pro-videntia dei,” “De rerum
prae-notione,” “Quaestio de falsitate astrologiae,” “Examen vanitatis gentium
doctrinae et veritatis Christianae
disciplinae, “”Strix, sive de ludificatione daemonum”; Libro detto strega o delle
illusioni del demonio,” – Grice: Pico is using ‘demonio’ literally; Descartes
isn’t!” – “Opera Omnia,” – C. Herbermann. Burke, "Stregoneria e magia: P.
e il suo stragone," di SAnglod, The
Damned Art: Saggi in letteratura di Magia, Londra. Herzig, "La reazione dei demoni
alla sodomia: magia e omosessualità nel stregone di P." Kors e Peters. La stregoneria in Europa, Una storia
Documentario. Estratti dal P. Lo stregone, Schmitt, P. e la sua critica al
Lizio (The Hague, Nijhoff); Pappalardo, “Fede, immaginazione e la scessi"
(Nutrix), Turnhout: Brepols. Centro di Cultura; Springer. Nobile, filosofo e
letterato italiano. Signore di Mirandola e conte di Concordia. Assassinato dal
nipote Galeotto II Pico, suo successore. Succede al padre nel governo dei
feudi, ricevendo conferma dell'investitura dall'imperatore Massimiliano I
d'Asburgo. I fratelli, non contenti, assediano e bombardano la Mirandola e gli imprigionano.
Rilasciato solo con la promessa di cessione dei domini. Si ritira a Roma. Critica
il paganismo classico. Scrive una biografia dello zio Pico, intitolata Vita, anteposta a un volume
che ne raccoglieva l'Opera omnia, e riprese alcune sue dottrine, come la lotta
contro l'astrologia. Seguace di SAVONAROLA, si batte inutilmente per la sua
assoluzione, e ne scrive una bio-grafia e tanato-grafia: la vita e morte di
SAVONAROLA. Sostenne da un lato la necessità di un rinnovamento della
disciplina ecclesiastica e dall'altro i problemi della filosofia. Scrive il “De
reformandis moribus,” che invia a Leone X, l'”Examen vanitatis doctrinae
gentium et veritatis christianae disciplinae,” nel quale attacca la filosofia
arcaica; e, non ultimo, “Libro detto strega o delle illusioni del demonio,” sulle
possessioni demoniache. L'”Examen” non
attacca soltanto la filosofia arcaica, ma si scaglia ugualmente contro
Aristotele del Lizio ed AQUINO. Dei due filosofi, contesta la fiducia nella
conoscenza e nella ragione, che permetterebbero con la forza dell'intelletto di
intuire la verità ultima. Al contrario, al pari della dottrina esposta dal Cusano
nel De docta ignorantia, nutre una profonda sfiducia nelle capacità umane,
riconoscendo alla ragione solo la possibilità di giungere a una conclusioni arbitraria.
Riprendendo alcune tesi tipiche della SCESSI di Pirrone e Sesto Empirico, nega
la validità dei sillogismi e dell'induttivismo, svaluta l'idea della causalità.
Nulla è conoscibile, mentre la fede può fondarsi solo su una rivelazione. Muore
assassinato dal nipote Galeotto II assieme a suo figlio. Altri saggi: “De
studio divinae et humanae philosophiae”; “Dialogus de adoratione”; “Quaestio de falsitate astrologiae”. Pompeo, Famiglie
celebri di Italia. Torino, Delumeau, “Il
peccato e la paura” (Bologna, Mulino); Pappalardo, "Fede, immaginazione e la
scessi" (Turnhout: Brepols). Assedio della Mirandola, Assedio della
Mirandola di Giulio II, Caccia alle streghe nella Signoria della Mirandola, Sovrani
di Mirandola e Concordia. Schizzo biografico a cura de Il Centro P.. Treccani
Dizionario di filosofia, Roma, Istituto dell'Enciclopedia. Giovanni Francesco
Pico della Mirandola. Giovanni Francesco II Pico della Mirandola. Gianfrancesco
Pico della Mirandola. Gianfranco Pico della Mirandola. Pico. Keywords. Refs: Luigi
Speranza: Pico. Keywords: demonio, demonologia – read excerpts of Stryx in the
Italian volgare under entry for translator. Refs.: “Grice, Acrkill, Pico and Alberti, on ‘demonio’,” Luigi
Speranza, "Grice e Pico," per Il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia -- Gianfranco Pico della
Mirandola.
Luigi Speranza -- Grice e Pieralisi:
la ragione conversazionale o la teoria del segno – la scuola di Jesi -- filosofia
marchese -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Jesi). Filosofo italiano. Jesi, Ancona,
Marche. Esalta il valore della pace fra i romani e fra tutte le creature. L’anima
è presente non solo negl’esseri umani, ma anche negl’altri animali, ai quali
appunto l'anima conferisce come agl’uomini un'esistenza eterna al di là della
morte. Per tali motivi sottolinea la necessità etica di trattare gl’animali con
rispetto ed amore. De anima belluarum: sopravvivenza? Una domanda, Rocco,
Venezia. “Della filosofia razionale speculativa parte soggettiva ossia la
logica” (Pace, Roma); “La filosofia razionale pratica; ovvero, dei doveri
naturali” (Pace, Roma); “Sui vizi capitali dell'insegnamento scientifico:
riflessioni” (Pesar). Segno chiamo una cosa qualunque che colla manifestazione
di se indica una qualche altre cosa. Col vedere che e quell oche dico “segno”
si viene a sapere che sia anche l’altro di cui e segno. Segno ARBITRARIO chiamo
quell oche per libera disposizione degl’uomini e stato destinato ad indicar la
cosa che significa. Nel segno naturale
l’eistenza sua coll’esistenza di quell ova naturalmente congiunta. Il segno è rappresentativo
si sta in lugo della cosa che significa, la rappresenta, ne tiene le veci. Come
l’immagine de un uomo si pone in lugo dell’uomo. Ci sono V massime della
conversazione. I la parola si adopre ad esprimere ci oche l’uso stablito vi
esprime. II si deve evitare la ambiguità: una parola che e equivoca non si
adopria almeno nei contribuzioni alla stessa conversazione, ora cosi, or cosa. Ora
nell’uno ora nell’altro dei suo significanti – o signati. Seppure la diversità
loro non è tale che togliesse ogni pericolo di equivocare. III Adoprando un
vocabolo oscuro, che non è di uso e non e di quell’uso che se nuo vuol fare, si
fefnisca il senso nel quale se adopra, onde far nota che s’intende signare con
esso. IV nell’esporre le cosa o dimostrare la verità, la parola è usata nel senso
suo priprio, evitando tropi, figure, ed altre eleganze, che, se giovano al
bello, pregiudicano spesso al vero; essendoche eccitano l’immaginazione a
figurarise le cosa, anziche chiamo l’attenzione a vederle nell’esser loro ad a
conoscerle quali son. V se per la scrazesa dei termini è necessario usare una
stessa parola in un senso alquanto diverso, non si tracuri, per amore di brevità,
di aggiugere ad essa quant’altre parole sieno necessario perche il senso che si
vuole che abbia, riesca caro e preciso. Sezioni: ‘Sopra-sezione: il segno
dell’idea. Segno. Segno naturale, segno arbitrario. Segno manifestativo e
suppositivo o rappresentativo. Segno dell’idea, segno del pensiero. Il gesto –
segno del pensiero. Parola è un segno articolato. La parola ha un aspetto
fisico e un aspetto logico. Quanto considerate semplicemente nell’esere
materialmente è un segno fisico. Se viene considerate in quate e segno di
un’idea od esprime un pensiero, è presa formalmente – logicamente. Le parole
sono comune o propri, di uno o piu eseri, la parola ‘pietro’ e semplice, un
termine complesso e ‘uomo eminentemente virtuoso’, o semplicemente, un santo.
Termine categorematico e sincategorematico. Una parola che DA SE SOLA NULLA
SIGNIFICA (“He implies that and”), ma solamente se si aggiune ad altra, della
quale modifica la significazione specialemente in qualte all’estensione
dell’idea de cui e segno. Essempli de segno sincategorematico sono ‘ogni’ e
‘qualche’. ‘Leone’ permette una figura. Si usa ad indicare una spezie di
animale, una costellazione in forma di leone, o un uomo che si comporta come un
leone. Un termino analogo e ‘saludabile’ che si applica al cibo, al scremento, ed
al stilo di vita. Quando il segno è segno manfestativo d’una idea o segno
suppositivo della cosa rappresentata da esse. Il segno dunque tiene nella
conversazione il luogo della cosa della quali si parla, falle le loro veci, la
rappresentato. Questo loro officio chiamo la loro supposizione, lo stare cio
per le cose, il sustituirise, o, meglio, l’essere sostituiti ad essa. La
supposizione è materiale se il segno sta per se stesso materialmente preso. La
supposizone è formale se il segno e adoprato secondo il suo esser logico, se
sta per quello che chi parla ha destignato a segnare. ‘uomo’, dotato di
ragione. La supposizione formale puo essere semplice o logica reale. La
supposizione formale è logica si il segno sta per l’idea di cui è segno, e ch’è
la cosa da lui immediatamene espresso. ‘L’uomo e una specie’. La supposizione e
reale quando sta per la cosa stessa esistente nella natura sotto quella forma,
in cui l’essere è rappresentato dall’idea, di cui il segno è segno – L’uomo
vive. La supposizione puo esser reale, colletiva e distributiva. La
supposizione formale reale d’una parola puo essere colletiva o distributive. È
colletiva se la parola sta nel discorso per TUTTI e ciasccuno CUPULATIVAmente
gl’individuo di quell nome, ossia gl’essere che sonno nell’estensione dell’idea
dal segno espresso. Come se si dicesse, le parti equagliano il tutto. La
supposizione e distributiva se il termine sta per tutti e ciascuno
DISGIUNTIVAmente gl’esseri prappresentati dall’idea, di cui e segno, sta per
uno di esso, o queso o quell oche sia, e cosi sta per ognuno, ossia vale per
ognuno chi o che è detto delle cose rappresentate dalla idea significate al
segno. Le parti sono inferiori al tutto. Gl’uomini hanno forza minore di quella
d’un cavallo. C’è la possibilità intriseca dell’origine naturale dei segni. Non
pottrebe mai dimostrare dell’impossibilità in cui gl’uomini si arebero trovati
di costituirse un linguaggio per comuniare fra loro e manifestare
recipricamente i proppi pensiere. Sebeene molto e rilento e non senza gravi
difficoltà hanno tuttavia posti nella necessità di farlo putoto elevera a segni
delle cosa e costituirli cosi termini logici. Quelle che per una combinazione o
relazione e coll’aiuto d’un gesto hanno puotuo associare alle idea della cosa.
Nessuna ripugnanza in cio si vede, e finche ripugnanza non si vede, la
possibilità d’una cosa non puo essere a buon diritto negata. La parola serve
all’uomo mirabilmente per TRASFONDERE negl’altri le sue conosence, per mostrare
le ragione nelle quali egli ha scoperto l’essere di tante cosa, che
immediatamente non apparisicono e non si possoni in loro stesse vedere e
perceptire, per guidare in somma per sentiteri gia battuti alla conoscenza di
cose alle quali tutte ciascune da se solo sensa l’aiuto dell’altrui
intelligenza I cui acquisti gl imanifesta la praola non avvrebe trovato la via
di pervenire. Per intedere il discorso si tiene in cota tre fattori. I al senso
che colla definizione il parlante ha dichiarato di voler dare alla sua parola. II
a quello que aparisce DAL CONTESTO avvervi volute significare. III al CONCETTO
che si sa ch’egli puo avere delle cose di cui parla, perche nessuno puo volere
esprimere quell che non sa. Pieralisi. Keywords: segnare, segnato, segnante.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Pieralisi.”
Luigi
Speranza -- Grice e Pieri: ragione convversazionale ed implicatura
convversazionale – filosofia lazia -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Roma,
Lazio. or — Lan più profondo, e ben più atto a dissipare ogni cattiva opinione
delle matematiche, il pensiero del nostro (+. Leopardi, che qui ripeto con le
sue stesse parole. LEOPARDI (si veda) dice. È certo che il grande poeta può
essere anche gran matematico, e viceversa. Se non è, se il suo spirito si
determina ad un solo genere (che non sempre accade) ciò è puro effetto delle
circostanze. Ed altrove. Si può dir che da una stessa sorgente, da una stessa
qualità dell’animo, diversamente applicata e diversamente modificata e
determinata da diverse circostanze e abitudini, vennero i poemi di ALIGHIERI e
i Principi matematici della filosofia naturale di Newton. Si o Signori; anche la
matematica è in non piccola parte poesia! Anche il matematico guarda dall’ alto
la realtà delle cose. E, astraendo da ciò che hanno di greggio e di mutabile o
caduco, ne ravvisa le parti perfette e immanenti, ne rileva le mutue relazioni
con linguaggio espressivo ed universale. Anche il matematico trasforma certe
impressioni da pochi avvertite in mirabili edifizi speculativi, come per sola
virtù di fantasia. Al matematico tocca similmente il travaglio di costringer l’idea
nella formula, di cimentare il pensiero alla stregua di lunghi e penosissimi
calcoli ! E (dico con Exkico D’ Ovipio) il sentimento dell’eleganza nel
concetto e della venustà nella forma non spiccano forse nei veri matematici
come nei poeti. Così che spesso una dimostrazione è bella quasi allo stesso
modo di un so- [Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura ’ INT, . 10
TT CRM ne ezzo dei cerchi attribuiti ad Zulero; e già segnalata ]a m falda i
FAIR transitività di certe ca simili — oltre quelle significate comune-
relazioni — come l’esser legato insieme con », © anne mente per le frasi è
contenuto IN,, “è maggiore di”; “è uguale a”, eco. Ma non di meno resta sempre
a Leibniz il merito di aver visto prima d’ogni altro la possibilità d’una
logica matematica, come oggi 8’ inten- de. e di averne tentato la costruzione.
Sentio — Egli _ dior — Logicam quæ habetur in scholis tantum abesse a Logica
illa utili in dirigenda mente circa veritatum
variarum inquisitionem, quantum differt arithmetica puerilis ab algebra
praestantis mathematici. Con tutto ciò nulla Ei dette alle stampe di queste Sue
profonde ricerche: i cui mirabili frutti vengono oggi alla luce per la
pubblicazione dei Suoi manoscritti inediti della Biblioteca Reale di Hannover.
I successori, sopra tutti lo svizzero LAMBERT; ed el’ inglesi Boole, De Morgan
e MacColl, l’americano Peirce e i tedeschi Scimoner e Frege, sapendo che
Leibniz è giunto comporre un algoritmo logico fondato sulle proprietà dei segni
d’inclusione (si p, q), di congiunzione (p e q) e disgiunzione (p o q), di negazione
(non p), di eguaglianza e di assurdo, riuscirono per vie n Verse ricostituirlo
in un tutto organico e a svolgerlo sistematicamente Der altro senz’aggiungervi
gran che di nuovo, come di poi 8'è visto. — Ka è importante [L. Coutunat,
Opusenles x dar st 20 Paro DE i = Uh ba, >. dr La (3 © a 5 = Mu i al 4 n Se
I P #. +9 è i facfiacua di A eredi indamenti delle varie disciplino
matomatiche, tn codesto ricerche, dove l’errore si cla spesso in malintesi o in
particolari di poca o niuna apparenza. molto giova uno strumento per osservare
le minime dit ferenze ideali (differenze che, tra le frange e le piezte del COMUNE
LINGUAGGIO [H. P. GRICE, The informalist’s and the neo-traditionalist’s
language] e senza una Jente che le ineraadisca, passano troppo sovente
inavvertite); uno strumento che ci costringa a pesare e vagliare
scrupolosamente ogni idee; che notomizzi ogni ragionamento, e ne palesi l’intima
struttura e lo scheletro. Non è forse eccessiso pa ragonare la logica
matematica ad una microscopia del pensiero. E tutto l’indirizzo logistico ad
una spere di positivismo della ragion deduttiva. Chi non sente, ad es., il
pregio di aver sott'occhio in brevissimo spazio, così da poterle abbracciar con
lo sguardo, tutte quante l’ipotesi che è d'uopo non perder di vista nel corso
d’ una dimostrazione un po’ complicat. Come l’occhio umano è in sè tutt'altro
che un docile e sicuro strumento degli atti a cui si direbbe ordinato, così la
parola, non sorretta dal metodo, è bene spesso argomento di gravi ‘llusioni ed
errori. E però, l'andare coi piè di piombo è savio proposito in chi muove per
gli ardui sentieri. dell’induzione sperimentale o storica, non ia! consiglio meno
opportuno a chi voglia percorrere con | —’sicurezza Je vie della deduzione
logica, în apparenza tanto - *® N tica circonda una dimostrazione rigorosa,
sembrano n «| più facili e piane. Le cautele, di cui la logica matema- messa
Inavvertita: e che hanno bene un volgersi a cose di poco è niun alle inezie. Se
non che la c SPesso appar Conto, e dj a e AR) LA Uura anche delle I piccole e
delle mezie si Potrebbe, Ml di 8811 1 SELE siii sh ) "4 VCCOrrenz; ben contortare
e giustificare OSBervando, con ( L na siate vi. enza di dar COrpo (TOSCO
TOPARDI, € Non altrimenti il filosofo AFTIVa alle “ rità che sviluppando,
indagando, svelando ; (10 « do, notando le menome cose;grandi ve- consideran- ‘
grandi nelle loro menome ME piloni E mi soccorre qui un fatto narrato da
Maurizio Cax- ror nella sua Storia delle Matematiche. Prima dell’invenzione del
calcolo infinitesimale -- dovuta principalmente al genio di Leibniz --
sopperivano in parte agli uffici di questo i varî metodi così detti d’
esaustione, degli indi- visibili, delle tangenti, dei massimi e minimi, ecc:
tutti, per altro, così artifiziosi e manchevoli, che a bene usarli richiedevasi
poco meno che il genio dei loro grandi scopritori. Un illustre matematico
olandese, l’ Hurcess, che tutti Ji dominava nella vastità del suo ingegno,
mosse all’ incirca quest’ objezione al Leibniz: Dove Voi giungete col vostro
algoritmo degli infinitamente piooali, 20 giungo del pari co” miei artifizì
geometrici; © non © * problema da Vtrattato, ch’ io non sappia risatvei “A gli
altri processi a me noti. Rispose I Laine Li 5 milmente per designare la
potenza mo di @ nol "i \ono ancora A 400 dl m Volte di seguito, ISS (*)
Loc. cit., III, 79. PIE = ut ste lo studio delle relazioni d’inelusione è di
pri * . licazione fra concetti generali ed astratti | i è, non ostante i
tentativi ignorati DS fortunati) di Jungins 6 Leibniz, e dei I i @ ; loro
discepoli, nulla poteva far presagire una sua rina- scenza, 0 um suo sviluppo
ulteriore. Dal canto loro le matematiche formavano una collezione di scienze
speciali d’ indole tecnica — scienza del numero, della quantità. dell’
estensione, del moto — collegate fra Joro sopra tutto dalla comunanza del
metodo. Ma come Pascal secnalava a’ suoi tempi (e molti di noi constatammo, non
senza stupore, all’ inizio dei nostri studî) codesto metodo deduttivo proprio
delle matematiche era quasi straniero alla Logica formale, che nondimeno
presumeva studiare ogni foggia di raziocinio. Esisteva dunque implicitamente,
sino ab antiquo, una logica matematica al tutto indipen- ente e remota dalla
Logica classica 0 sillogistica, pale- satasi da gran tempo incapace di render
conto dei razio- cinii matematici: e i filosofi non sapevano altrimenti spie-
gare codesta dualità, che appellandosi ad una cotal di- stinzione fra Jogica di
qualità ‘e logica di quantità ; ma senza troppo indagare il come © il perchè
d'un così deplorevole contrasto. Siffatta condizione di cose cambiò sostanzi A
1850 in poi. Da un Jato | matematici furon
DreSt sa scrupoli logici ignoti fino £ quel tempo i * Re e Ve ee
sostanzialmente dal 7 [Couturat, Les principes des mathémaliques, PAIS o (i.
Cixror ed altre menti di eletta indole critica, essi si dettero ad analizzare i
loro processi dimostrativi, a rive- der la catena dei loro teoremi, a indagare
e notare tutte le ipotesi che s’ eran di nascosto insinuate nei loro ra-
ziocini: in somma a scalcinar le pareti e a scoprire i fon- damenti dei loro
edifizî speculativi, per costatarne la mag- ciore o minor solidità e
resistenza. L'analisi infinitesimale, i cui principî serbavano ancora qualcosa
di misterioso e di paradossale, fu definitivamente stabilita sulla dottrina
ricorosa dei limiti; la teoria delle funzioni fu approfon- dita e liberata da
molti pregiudizi d’ origine intuitiva : onde il maraviglioso e proteiforme
sistema dell’ analisi matematica astratta si palesò capace di reggersi tutto
sul concetto di numero intero e sugli assiomi aritme- tici; e potè constatarsi
in modo non dubbio la in- sufficienza dell’ intuizione, come principio e fonte
delle nostre conoscenze intorno al numero e alla quantità. La (ieometria e la
Dinamica, spogliate a poco per volta d'o- eni elemento intuitivo, divennero
infine veri sistemi 2p0- tetico-deduttivi: dove — premesso un certo numero
d’as- siomi e postulati (che possono anche dissimularsi, sotto veste di
definizioni) — tutto il resto procede per sola virtù del DISCORSO RAZIONALE.
Nacquero e si organizzarono la geometria di posizione, la dottrina degli
aggregati e dei gruppi di trasformazio- ni (tre colonne della odierna
matematica pura): da cui si manifestò che Je scienze del numero e della
grandezza non erano giù primordiali — come si stimò lungo tem- po — ma che anzi
riposavano sopra dottrine di carat- [4 I, : PIRA, todi. À Po se i nn i == ir!
te; ti = = a tere piuttos ESS piuttosto logico che malematico, e sopra nozioni
che nulla. avevano di quantitativo (*) |? I | . Dall’ altro canto Ja Logica,
specialmente per opera di matematici, usciva proprio in quel tempo dal suo
torpo- re secolare (**). Dapprima, accorgendosi di non aver nem- meno esplorato
e dissodato l’intero campo, dove Aristo- tile l’avea circoscritta, scopriva nel
ristretto dominio delle relazioni d’inclusione fra concetti ben altre forme di
de- duzione, che i troppi famosi modi del sillogismo ; IV deì quali su XIX — e
cioè le forme in Darapti, Bramantip, Fesapo e Felapton — si trovaron FALLACI,
ove non si congiunga alle due premesse una certa PROPOSIZIONE ESISTENZIALE. Appresso,
ispirandosi ai metodi e al simbolismo dell’algebra, la logica formale si
costituiva, per la prima volta dopo Leibniz, sotto il duplice aspetto d’un calcolo
delle classî e d’un calcolo delle proposizioni: due indirizzi paralleli, dove
spuntano analogie mirabili; il primo dei quali è più elementare e si scosta
meno dalla logica classica, dove l’altro, che oggi tende a prevalere, è più
generale e va più lontano. Di più, considerando che la mente nostra — così
nella vita quotidiana, come nell’ investigazione scien- tifica — ha da operare
con ben altre relazioni, che non (*) Primo ad osser consapevole di codesta
verità è Boole (uno tra i fondatori del calcolo logico) che afforma «non
appartenere all'essenza delle matematiche l'idea di numero e di quantità (Laws of Thought, Profaziono. Couturat. V. p.
os. Mac Cont. La' Logique symbolique et ses applications’, Congrès intern. de
Phylos., Paris, free UE 1200.) a o di predicazione fra concerti, 1a notomizzare
classificare ogni atudiarno quelle proprietà formati, | vol di deduzione: 0
AMHumevk pertanto | { (° il carattere universale di Logica delle rebazioni nel
quale ; DE A gi va confermando ogni giorno, Mo gtiamo ni più prgn. Mae” do” i
lavori di Sonmonpen, Ponnskt, Wurwrenap, Rue 4 gle tri, E poichò le relazioni
più semplici è più suggestive | is sono appunto quelle, che intercedono fra gli
oggetti. pr A contorni ben definiti delle discipline matematiche, gi ape
Di 7 i ng pa dep) as a fia ali pf fg pù
pri pei rt | si, ff. ppt sie 4 = LIE, E mn. 1 lf La dt eo” proget È * td xa *%
carattere di per nossologion; fatti Geometrie indipendenti da. gempré d'accordo
con l'intuizione (Geometrie, dove sol per appross Ls non troppo den era LIEZE
eg ei deh an so 30 forze dipenda da tutto il movimento passato (ipotesi
suggerìta specialmente dai fenomeni d’isteresi)—oppure una ipotesi di
solidartetà, per la quale il campo di forze, lungi dall’essere indipendente dal
punto isolato che gi muove, subirebbe nel moto una variazione locale
progressiva, come se fosse occupato da un mezzo partecipe del movimento
generato da quello (ipotesi che appunto si affaccia nella muova dinamica degli
elettroni). * dx * Se nel considerare il lato puramente formale delle
discipline matematiche sl perde di vista — o addirittura si esclude —ogni
materia reale o possibile delle loro implicazioni, sì cade in quel difetto che
chiaman nominalismo: la cuì forma genuina consisterebbe nel credere o supporre
di aver dinanzi un complesso di simboli e di convenzioni arbitrarie, vuote di
contenuto e senza alcun valore oggettivo. Questa è infatti la taccia, nella
quale incorrono più di frequente i matematici, con la tendenza a foggiar da sè
stessi il loro mondo, a riguardare le idee matematiche come pure creazioni
della mente. La formazione dei concetti matematici è un atto pienamente libero,
dice Cantor, salve soltanto la compatibilità d'ogni concetto coi rimanenti. Se
non che i matematici non sempre si curarono di rispettare questa condizione
alla lettera, la qual cosa avrebbe fornito loro senz’al- troalcun che di
esistente nella sfera di quei concetti. Pur sarebbe ingiusto il tacere, che un
tal peccato non [Grundl. e. alla. Mannichfaltigheitslehre, Loipzig] potò mai
partorire effettivamente alcun danno alla pratica, hd alla dottrina: in grazia
forse di quella certa armonia, che (secondo SPINOZA) fa sì che le operazioni
del nostro intelletto siano a priori intonate coi fenomeni dell'universo. Per
es. quegl’enti, che poi si chiamaron quantità immaginarie, non eran dapprima
che meri simbolì dì mon eststenza; e pretto nominalismo fu l’ostinagione dei
matematici nel conferire ai medesimi certe proprietà formali è nell’operar su
di essi, come se celassero qualche substrato reale. Or bene, in oggi le interpetrazioni
tangibili e le applicazioni positive di que’ ‘ giuo chi dì parole non si
contano più! Che cosa di più arbitrario e convenzionale delle regole d’un
giuoco, d’onde sì traggono spesso deduzioni su deduzioni, prive d’ ogni senso
reale? Eppure il calcolo delle probabilità [KNEALE, citato da GRICE], così
largo di aiuti all’esperienza e fondamento del metodo statistico dei grandi
numeri, ha origine da questioni relative a dadi e a giuochi di carte. È fuor di
dubbio che i matematici vanno assumendo, di giorno in giorno atteggiamenti
sempre più nominalistici. Ma non è più tempo oramai di quel nominalismo
grossolano ed empirico, che dall’ Hobbes sì concepìva presso a poco nei termini
che ho detto sopra; bensì del trattare e maneggiar come simboli gli oggetti
dell’investigazione matematica, ragionando in questa maniera. Se nell’ universo
fisico o mentale esiste un quid, ce i so disfaccia alle condizioni da me
imposte a que’ pinta per esso dovranno verificarsi i tali e tali altri fatti da
me dimostrati. Oppure. Le mie premesse C) di iP » Pi bai Di Ce e ì tie free ì
Lai © * #, > #.. Pi e = dei ci RI A n RA Osono da 1 co per compatibili, sino
a prova in sensanio. Ora è chiaro, che altro è negare e disconoscere aì simboli
qualsivoglia contenuto reale o possibile, altro è — come quì—trascurare ogni
loro interpetrazione speciale; e operar su di essi prima ancora di conoscerne
il senso reale, e senza inquietarsi perchè non pajano aver corpo oggi, e non
trovin per ora alcun riscontro positivo nei fatti. Il peggio che possa
accadergli —dice Voi, o Signori— è di perdere il tempo. Ma il nominalista
risponde, non senza ragione, che il mondo immaginario in cui vive è pieno
d’attrattive per lui; ch'egli fa l’arte per l’arte, e che la soddisfazione e
l’onore dell’ ingegno umano son fini più che bastanti a giustificare qualunque
ricerca scientifica. Nè io saprei dargli torto. Voi fate la scienza del reale —
egli dice—noi moviamo a ricercare il possibile. A voi basta acconciarvi alle
cose che esistono, così da cavarne il miglior partito pei vostri bisogni; la
vostra sapienza mira sopra tutto a prevedere ciò che sarà per succedere, a
somiglianza di quanto è accaduto in addietro o che suole accadere al presente:
noi per di più ci occupiamo di quel che accadrebbe, se certe condizioni si
avverassero, se tale o tal altra parte della realtà si mo- dificasse. Negherete
di darci ascolto, proprio ora che da più parti si cerca di ridere a spese di
quelle tali objettività e realtà, che sapete? Meditiamo insieme, piuttosto, al ‘tu
solo, o ideal, sei vero’ del sommo poeta. Pig Ogni dottrina deduttiva ripete l’esser
suo, la sua vita da quel processo intellettuale che va sotto il nome generico
di SILLOGISMO (in senso lato) dot. o IMPLICAZIONE CONVERSAZIONALE (what an
utterer implies in conversation), ; renza; e che permette di trarre plicazione,
infe- due 0 più promesse. Or che big necessarie da conclusioni necessarie?
lovrà intendersi per «Adlo mitica presente della critica, non par che si po
rispondere in modo assoluto. Le varie tendenze sui che circa il modo di
concepir la natura e gl’uffici del x; ragione potranno dar forse qualche }lume
in proposito. Il matematico sospende il giudizio. Pago, se il paragone e
l’analisi dei vari tipi di raziocinio, sanzionati dall’uso, gli consentono di
riconoscere un certo numero di fatti generali e costanti come norme della
ragion deduttiva. E se può coordinarli in un tutto coerente ed armonico. Così è
che i logici-matematici — da Boole sino a Peirce, a Schroder, a PEANO (si veda),
a Russell — riuscirono dapprima a compilare un elenco, indi » formare un corpo
di nozioni e principî, da cui par che dipenda ogni efficacia e virtù di
ragionamento. I frutti migliori da lo studio delle varie fogge di
argomentazione e d'’illazione familiari alle scienze matematiche. Nè vi sono
ormai discrepanze fra i risultati, benchè l’opera non possa dirsi anche
perfetta. i È, credenza generale è ben fondata, che la matematica ipeta Ja sua
certezza dall’intima comunione con le leggi -omutabili della logica, ossin coi
principî costitutivi ne son sarebbe forse men Vero il s0g> po fe __
viceversa — la stabilità e permanenza di i ei a fl lungo tempo cimentati ©
tempra 9° SO: 0% 3 veli ira e FAZIONE Non si tratterebbe, se mai, d’ circolo
vizioso: e d’un intreccio di eventi capaci di determinarsi a vicenda; nel quale
parve anzi ad alcuno di ravvisare come un saggio eloquente e nativo di quel
processo, che i matematici chiamano per
approssimazioni successive. Non vediamo noi l’esperienza modificar senza tregua
i nostri concetti fisici. E questi, così modificati, condurre man mano a nuove
previsioni e e a nuove esperienze. E così, per via di approssimazioni
successive, i concetti divenir sempre più maneggervoli e le esperienze più
conclusive? Tutto sta che il processo sia convergente: e qui si può creder che
sia, per ragioni induttive e storiche. E chi sa che in modo simile a questo non
siasi costituito, afforzato ed affinato in noi stessi il poter deduttivo? Se
così fosse, anche gli assiomi logici avrebber carattere strumentale, e Ja loro
vantata necessità diverrebbe illusoria. Si adduce in proposito, che non di rado
anche uomini insigni, persino fra i matematici, dissentirono circa il valore o l’esattezza
di qualche ragionamento; e che certe fogge d’argomentare, avute un tempo per
buone, non appagano più le esigenze moderne. Per es., il grand’uso che si fa
una volta dell’intuizione geometrica e meccanica nel ricavar conseguenze, che
non si stimaron per questo meno apodittiche, o men necessarie delle altre. Se
non che il dissenso par che volgesse non tanto sulla bontà e verità dei principî,
quanto sull’ uso non sempre di- [Bòcuer,
The foundam. conceptions ele] sciplinato e legittimo — che potò farsi di
quelli. Così se oggi escludiamo che l’intuizione possa giustificare una
deduzione rigorosa, gli è solo perchè vogliamo, che il ragionamento proceda
secondo norme precise e leggi ben definite; dove l'intuizione è sempre ribelle
a codesta disciplina, rifuggendo per sua natura da qualunque determinazione.
Che delle successive conquiste della matematica nessuna ha distrutto le
precedenti; che nel progressivo sviluppo delle discipline matematiche nulla vi
è stato da rinnegare, nulla da mutare sostanzialmente; che il trionfo di
concetti nuovi non ha mai propriamente infirmato le verità ciù acquisite. Questi
fatti trovan la lor ragione nella cura costante, che i matematici posero a non
discostarsi mai da quei pochi processi logici, che sono stati seguiti
spontaneamente, naturalmente, senza discussione e senza eccezione, da tutti gl’uomini,
in tutti i tempi, in tutti i luoghi. Ma con tutto ciò, si osserva, non è tolto
assolutamente il pericolo, che i modi e le forme di raziocinio, da noi ricevuti
e adoperati con tanta fiducia, ci facciano urtare un bel giorno in qualche
contradizione: onde per lo meno avverrebbe che certi assiomi logici, i quali
ora stimiamo validi universalmente, in realtà sarebber soggetti a qualche
restrizione. Un tal dubbio non è logicamente impugnabile; non avendosi pur
troppo alcun mezzo di escludere a priori (ossin con la stessa certezza di un
teorema logico) la possibilità d’ un evento [E. D' Ovipio, * Uno sguardo alle
origini oto.]= — | = OTT î dk così sgradevole. Non si può avere una certezza
apoditica della compatibilità o consistenza di tutte indice le premesse
inerenti nl discorso; in quanto per condude che gli assiomi logici A, B, €,...
sono immuni da ogg germe di contradizione, bisogni esser certi che i prineigg
A', BI, C,.. su cui poggia In dimostrazione sono es stessi compatibili. In qual
cosa richiede a sua volta ssa nuova dimostrazione; e così via senza speranza di
veci ta, come il cane che insegue la propria coda. A dar credito all’objezione
suddetta molto ha contri buito la recente scoperta di alcune antinomie e contradizioni
nella teoria degl’aggregati e dei numeri trasfiniti. Sono argomento di valorose
discussioni i paradossi di BURALI-FORTI, di Richard, di Zermelo-Kéonig. Ilustri
matematici e filosofi prendono parte alla disputa: e e qualcuno ne trasse
motivo a dichiarare il fallimento delle nuove tendenze logistiche. Se non che
bisogna guardarsi dall’ esagerar l'importanza d’un fatto tutt’ altro che nuovo
alla storia delle scienze. Antinomie occorsero in matematica più d’ una volta,
e tutte ricevvero prima © poi soluzione adeguata; in tutte si trovò, prima o
por, qualche errore di raziocinio. È celebre tra i filosofi greei la
contradizione di Zenone di VELIA d’Achille e della testuggine, dipendente dalla
relazione 1=/ +! ++... in infinito; dove )’ unità è posta eguale ad un numero,
che varia restando sempre minore di 1, È grande oggetto di controversia Ja
serie 1-1+t1-—1 +41. infinito, la cui somma vale .1, 0, !|» 0 non ha valore
plate» determinato, secondo il criterio che si adotta nel definire il
limite È î | vt ta? . in generale e la
somma d' infiniti numeri. In ambo gli esempì disparve ogni contradizione,
quando fu nota una esatta definizione del limite: ond' è verosimile, che la
presenza d'idee non ancora ben definite sia la sola cagione, che ci permette
talvolta di spinger qualche dottrina poco matura a conseguenze non conciliabili
fra loro. Tutte l’antinomie derivano, per un verso o per l’altro, dal
considerar l’infinito; che per ciò appunto alcuni (i finitisti, come Renouvier)
vorrebbero escluder senz’altro dal dominio della ragione. Consiglio prudente,
ma vano. Atteso che l'infinito è nella natura di troppe quistioni, e “ naturam
expellas furca, tamen usque recurret. Concetti d’ una sfera così vasta, che
parve giù sogno il presumere di segnarne con precisione i confini, son oggi
divenuti logicamente maneegevoli, e prestano ottimi servigi alla ragion
deduttiva. Certi altri — come tutto il pensabile, tutto ciò che non è numero, e
simili — par che abbiano ‘n sè veramente alcun che di vago e d’ indefinito. E
non è meraviglia, se partoriscono equivoci. Le concezioni ed operazioni
matematiche si estendono ad ogni classe finita d’enti, e a certe classi
infinite, che si posson chiamar transfinite. Ma è fuor di dubbio che esistono
ancora innumerevoli classi, a cui non sono applicabili. — rr” [PEANO, Supor
theorima do Cantor- Bernstein, Rev. do Math.] l pn h miglior nce) quasi tutti |
risultati del Caswrog: ma, quando anche non si giungesse ad escluder da queste
al foggo OENÌ traccia di contradizione,e ci convenise sfron- daro una parte
della dottrina dei numeri transfiniti, © rocidere qualche altro giovane
rampollo del grande 40 hero matematico, la Critica ci ha da gran tempo as-
vozzi a bon altri pontimenti 6 1 ben altre rinunzie! Ep- pure ci fu chi non
dubitò di ascrivere a demerito dei logici-matematici l’ aver concorso mettere
in luce co- deste difficoltà e ad agitarle; quasi che a loro fosse Im putabile l’esistenza
di così fatte antinomie. xMk Tutti sanno che ogni teorema di matematica è
subor- dinato a certe condizioni od ipotesi, — esplicite o no — che ne
definiscono il campo di validità. Un teorema è vero, qualunque volta ne sian
verificate le ipotesi: il che fa già intravedere il carattere logico, o
formale, delle verità matematiche, e il genere di valore che queste pos-
siedono — valore, che si potrebbe anche qualificare come una necessitd
ipotetica. Gli studi logico-matematici intorno alle varie discipline deduttive
cercano appunto di dar risalto a questo carattere © di scoprirlo dove non è
palese, organizzando ciascuna di quelle (fin dove è pos- sibile) secondo uno 0
più sistemi ipotetico-deduttivi. Un ordine di proposizioni, la verità delle
quali riposi unicamente SU certi postulati od ipotesi peculiari a cia- ©)
Couturat,* Lea prino pino. des Mathém *, (loc. cit.) pag. 4. È pd fel 6 r, i i
he » Ù x "Te o Pg di L) LL 24 PARTI PUNTALI da Pe fi.“ è : n e: ‘cuna
disciplina © sugli assiomi logici ; di Guisa che | ; de tutto si svolga per
virtù propria da questi soli va combinati algebricamente fra loro a tenor delle
dei canoni che informano il calcolo logico: ‘ sistema ipotetico-deduttivo ’,
ncipii, C88Ì e tale,, “ dipresso, ll Il processo algoritmico porta non solo a
distinen organicamente i giudizi a priori, o primitivi, da i derivati, o
dedotti — insomma gli assiomi e POstulati dai teoremi — ma così anche e nella
stessa misura (fra le nozioni intorno a cui versano questi giudizi) le jdee
primitive, o indecomposte, da quelle che ne sono ripro- duzioni e derivazioni
formali, e che insomma risultano effettivamente composte mediante le prime,
combinate fra loro e con le categorie della Logica. Le due distinzioni sono in
verità molto affini, e la seconda non è meno antica dell’ altra, nè par che le
spetti un valore molto diverso: ma con tutto ciò non l’è stata riconosciuta
’pra- ticamente un’ eguale importanza prima dei nostri tempi. Si cercava bensì
di ridurre al minor numero gli assiomi e i postulati, ma per lo più senza porre
studio di sorta nel definire tutti gli elementi che occorrono ad una trat-
tazione deduttiva col minor numero possibile d’ idee fon- damentali: onde il
vantaggio, che si acquistò per Ul lato, si perdè bene spesso dall’altro, atteso
il numero © la qualità delle idee primitive, a cui si volle raccomalt dato il sistema. (Così, per citare
un esempio, benchè ve fuor di dubbio oramai che gli oggetti della Geometri*
Cera Si posson comporre di due sole materie prime Ideali: per es. il punto e la
sfera, ovvero il punto i — “REI il moto: vedemmo pur non è molt DA simo ufficio
di “‘ Grundbegriffe der meno che le nozioni di Corpo rigido, Parte d'un coi
Spazio, Parte d’uno spazio, Occupare uno snai vg l pazio, Tem- po, Quiete,
Movimento). i do: Decorne ‘0gistiche da istituire intorno ni principii d’ una
disciplina deduttiva consiston pertanto in un du- plice lavoro di riduzione: e
cioè riduzione di tutti î con-- cetti a poche idee primitive per mezzo di
definizioni op- portune; e riduzione di tutte le proposizioni a un certo numero
di postulati o proposiz.' primitive attraverso il processo deduttivo. Lo studio
principale è sulla maggiore o minor
convenienza di questa o quella definizione, di tale o di tal altro postulato:
ed ha in sè tuttavia qualche cosa di soggettivo e d’ arbitrario, in quanto vi
sia sempre una certa libertà nella scelta delle nozioni e proposizioni da
assumere in officio di primitive. Se non che, giusta il nuovo modo di
considerare, non c’ è luogo a parlare d’ idee più semplici e di proposizioni
più evidenti’ che certe altre idee o proposizioni: non vi sono, in fin dei
conti, che idee non definite e prop. non dimostrate. È logici-matematici non
concepiscono la differenza fra altre che ne derivano at- come dovuta all’ esser
quelle 0) Proporre alm edo geometrie ’ niente le proposizioni prîmitive e le
traverso il processo deduttivo Li cf per sè stesse più evidenti, più credibili,
meno impugna bili: ma al contrario essi vedono nei postulati delle pro-
posizioni come tutte le altre; la cui scelta può, Saper di- versa, a tenor
degli scopi che Sl Ven raggiungere, ipa . to el paragone del vari aspetti anzi
tutto dal 1 lo il variar dell Mo | | M' (10) tl 0] ial4, » il trattato, 8600N e
Scelte, Ri — 1 i gu morelli i Na at rd IV wr si ndo an immagine nsgni felice di
(. VAILATI he, 00 i rapporti fra 1 postulati e Je proposi. diremo fis I int hà
‘ basarià a dipendono 8 potevano un tempo Daragona- zioni | ; v f lli che
intercedono fra il monarca ed i sudditi TU i (}l i : la NI, ? autocratico; ora
Invece 1 postulati, rinun- d'un governo ric fi A | siando a quella specie di
diritto divino, ba, cui pareva investirli la loro vantata evidenza, son
divenuti come | capi elettivi d'un regime democratico, Ja scelta dei quali sj
deve (0 Sì dovrebbe) alla riconosciuta capacità d’eser- citare per qualche
tempo una funzione nell’ interesse del pubblico. PASCA (si veda) dichiara che,
se la geometria vuol essere davvero una scienza deduttiva, bisogna che i suoi
schemi di raziocinio non dipendano dal significato degli enti geometrici — nel
modo stesso che non dipendono da questa o quella figura illustrativa — e che
soltanto le relazioni imposte a quegli enti dal postulati fondamentali abbian
peso e valore nella. dedu- ostia. Con ciò veniva Egli a dire in sostanza, che l’ente
primitivo di qualsivoglia sistema deduttivo. deve Wi da Mep 5. arbitrarie,
dentro certi col Neben, proposizioni primitive; in modo ché delle parole o dei SEGNI,
che RAPPRESENTANO quale i Malche soggetto primitivo, sia unicamente determinato
Voti Praa ui Fironzo, "EMI pi; Logica matem. ', nolla Rivista « Joonai* Vorles,
‘ is dif ok tina a Te I 43 dalle proposizioni che versano intorno n] DI . it il
: anche, prima, per influenza di Gr medesimo, E ‘ La ® 10 Pr.ttok r Î)
familiare ni Geometri 1° uso d’ intendere ’ i ta già . n] P | ta Pe 9, MI |
linea o superficie come aggregato di parola La ‘Pa j di elementi À 3 “eMenti,
di eni non occorre specificar la natura, purchè gi sappia che si pog- Sd valo.
nori. ao di Go I | te parametri variabili. Codesta facoltà di astrarre da ogni
senso speciale dei con- cetti primitivi consente di operare simbolicamente
sopra espressioni di contenuto instabile; e però di abbracciar col discorso in
una sola dottrina generale éd astratta parecchi ordini di oggetti particolari e
concreti: a quel modo che la risoluzione d’un solo problema algebrico contempla
- sempre più casi, non solo diversi numerica- mente fra loro, ma altresì
differenti per la qualità dei loro dati. Come già dissi, ln verità o
consistenza di tutto il st stema delle premesse logiche non è dimostrabile. Il
carattere universale delle dottrine logistiche appare anche in ciò che — mentre
il più de’ sistemi filosofici dispitano intorno al criterio dell’esistenza —
quelle a pre» sumon dirci che cosa sia il dato. Ma si uerpoan parlar
d’esistenza (o della sua negazione, i ; logici come di un quid non definito,
cui gli gg impongono certe condizioni: di guisa che, P-**- arguir stenza nota o
supposta di certi oggetti si Pes" più su V esistenza di altri oggetti;
eoc: Ort che, i DI 44 sagione tutti convengano fra loro; jo mi rag mbo qualche
contradizione latente, è un ‘atto, che non gi può confermare Def CeGUZIONe 1
non ia ate: ad alcuni principi rispetto mi altri, di cu orse (I riori la
consistenza); un fatto, dal quale che una certezza induttiva o storica)
accolgano IN gro gi conceda 4 ] non si può avere A} contrario non è dimostrato
ancora che in un domi- nio di pura logica (inteso con qualche larghezza) non si
possa trovare un’ immagine o interpretazione dei concetti primitivi poniamo dell’aritmetica per cui tutte quante le proposizioni di
questa scienza risultino verifi- cate. Allora — ove si conceda Ja compatibilità
delle pre- messe loriche—avrem’ottenuto senz'altro una vera e propria
dimostrazione della compatibilità di codesti assiomi aritmetici, sul fondamento
di soli principii logici. E una volta ammessa Ja consistenza degli assiomi
aritmetici e logici, resta poi molto agevole stabilir quella dei postulati
inerenti ad altri sistemi deduttivi. Molti stiman superflua, nella più parte
dei casi, una dimostrazione siffatta. Così, p. es., PEANO (si veda). La pro-
che i postulati dell’ Aritmetica o della Geometria non pz ie di a no 8 pr ma li
scegliamo di ui i ole n pts (sia pure implicitamente) e proposizioni, a QONERE
a di Geometria, La dui on Vrntinta | d: RE 0 Sia Sira analisi dei principi di
ques 0 P. i, «è Su Rev. de Métaphyg, la compatibilità des aziomes de l’ Ari | a
et de Morale, prio 19op- enni 45 scienze consiste nel ridurre Je afferm azioni
gratui Ina ivi CORO fogli it atutte al numero minore. possibile di giudizi
necessarii î © sufficienti. metrici ò Sod- p unto, Possiede Geometria. Noi
pensia- ino il numero, dunque il numero esiste, Una prova di consistenza sarà
per altro opportuna, ‘allorquando i po- stulati siano epoteticî e non
rispondenti a fatti reali (i Che la logica — e forse anche l’aritmetica — oc-
cupi un posto a parte fra le varie discipline Ceduliiza appare altresì dal
fatto, che per l' intelligenza d’un ni stema ipotetico-deduttivo non è
propriamente necessario il sapere di che cosa si parli, cioè conoscere un senso
dei varii concetti primitivi. (basta percepire il nesso lo- rico e la
concatenazione delle parti, il valore dedotti x di ognuna, ecc.) e il tutto può
1r0g9S) SARE per simboli logici: laddove, sotto pena di non . Sai conviene
esser tutti d’ accordo circa un us À “«.g 6 buire alle frasi come “ a e d sig È
pia gr Logi- non d,, e simili, che dinotano di o a incon- ca; e alle radici
stesse della Logica 3 o on vige che tra barriere insormontabili, oltre a ge io
credo, Il solo processo empirico. (Per re le prime nozioni il Russel
qualificava di costanti logie s irreducibili, di cui non Si apprende s l’uso;
cioè per mezzo d’ esempî ® °° guaggio comune). | 1 da è in +, (34 Super
theorema de Cantor-Bernstet ) Ora il sistema dei postulati aritmetici 0 geo
disfatto dall’ idea che del numero, o de] ogni scrittore d’ Aritmetica o di
loc. cit. i . ii ( Cai 40 Mae gta o til enni TARA: smog 0 compatibilità delle |
n consistenza © * ui Ile Dotegj | TO UL I i ‘distinguono ancora © dimostrano
lidi Dendoy, i (uso RAT TATE ‘ti 2 i za sioni primitive (il fatto, che Nessuna
gj sj esplicitamente a Spese delle Utre) et N Jativa dei postulati (cioè che
NesSUNO Agg" degli altri): cONdizioni ce dovrebbe iutte concorrere In Un
perfetto sintonia Ipotetico-deduti. ma che non sono però necessarie al rigore
geometri. so: in quanto dal trascurarle non viene infirmato il nesso ingico
delle varie proposizioni, nè si toglie al sistema di \oter essere un tutto
coerente e consequente a sè stesso, Accade talvolta, che fra due
interpretazioni quali che sjano de’ concetti primitivi si può dimostrar che.
inter- cede una corrispondenza perfetta, di guisa che per certi rispetti si
possan confondere in una le varie classi di enti capaci di verificare il
sistema: questo dicesi allora categorico, e nel caso opposto disgiuntivo. Ad un
siste- ma disgiuntivo è lecito sempre congiungere nuove pro posizioni primitive
(indipendenti dalle altre) così da re- stringerne il dominio: esso lascia
aperta una strada è diverse possibilità; Jaddove qualunque proposizione vera,
che si possa enunciare negli enti primitivi d’ un sistema Catega IC, ® È a % .
LI 44% di 271100, € Sempre deducibile dalle proposizioni primitive 1 ([Uesto,
pogisti va dello I* relati iu se di definil capa ipendenz® ri VO. Un piccol
humero di li escludere ide. lO perciò di sa POSSANO, 0 no paragoni permette di
constatare © “uivalenza ’ di due dati sistemi: bastal” Pere, se i concetti
primitivi dell’ uno si PA Pre Droposizioni primitive di ciascuno sian de- +=
—aemsre ug si n il v iva eee ne PTT, PESO quoibili, 0 1% da quelle dell’ altro,
Distinzioni ed osservazioni ignorate dalla Logica classica, e di cui la mo-
jorna doo saper grado Mm Matematici. Il nuovo concetto ai definizione possibile
ha messo in chiara luce, che privilegi attribuiti a certe proprietà così
dette essenziali hanno un valore al
tutto relativo, Le differenze tra proposizioni affermative e negative, fra
proposizioni. generali e particolari, categoriche e ipotetiche, ecc., sono
tutte assorbite da una sola e fondamental distinzione fra proposizioni, che
affermano la mutua dipendenza di due o più fatti; e proposizioni esistenziali,
che affermano la possibilità dell’avverarsi di due o più fatti ad un tempo.
Altre distinzioni trasmesse dalla logica scolastica alle moderne teorie della
conoscenza sono del pari sottoposte ad una critica più rigorosa, e ne uscirono
in certo modo trasfigurate, restaurate ed arricchite di nuovi e più importanti
significati — p. es. quella fra giudizî categorici e giudizi ipotetici. A
logici matematici si debbono alcuni miglioramenti li non dubbia importanza,
recati da poco tempo alla teoria della definizione. E prima di tutto lo schema
tradizionale, che fa consister la definizione nell’ assegnare il genere e le
differenze specifiche, — ossia nel “ercar delle classi, onde quella che si vuol
definire risulti per prodotto logico — venne allargato in maniera Mito se il
caso (molto più generale) lan A "" definire si possa avere in
funzione di classi (*) Q, | | n pat JE I Vattam, Il Pragmatismo e la Logica
matematica) pr Tr Beans" 48 £- i
pera cao b; a n i operazioni quali che sano, Durchè “i ( Pe" riori, 0 in
‘altro modo aequisite: Poi ago ‘ci si dilataron per. altri versi, pri
soddisfare 4 VIBOBR che subiamo 8PEANO (si veda) ofinire non UN termine siii ma
pile Di frage, ar quel termine comparisca in uno Speciale atteggia. mento:
onde, sotto forma digit: e dii ie 81 confor. mara il fatto (intravisto già da
ATO, che Je definizioni di parole isolate appartengono, in qualità di semplici
modificazioni o casì speciali, alla grande categoria delle DEFINIZIONE EMPLICITE;
e st legittimaron quelle, che PEANO chiama definizione per astrazione, la quale
tolge motivo a creare un nuovo concetto da ciò, che una qualche relazione
manifesta di possedere alcune proprietà cardtimali dell'eguaglianza (come p.
es. dal fatto, che due quantità di merce, atte a permutarsi con una stessa
quantità di altra merce, si scambiano anche fra loro, nasce i concetto di
valore A ecc.). eis vpi non solo ha posto in chiaro, “ovare della definibilità
d’ una data parola o di x Male concetto è cosa priva di senso, fin tanto che
bon 5 8appia con Precisione di quali E, le o con- ‘AM BI vuo) far Uso nella d A
ni età, to Una spiegazione del ui definizione; SA Inoltre ha da Dortanti di
scienza 6 fil ‘ he parecchi termini molto na Melli, di cui non g; Osofia si
trovano appunto ag “e una d “rebbe ragionevole il chiedere 0 = definizion #3 a
scolastico: ed ha pé noto, n ori an0osso * priori, Uri È I esi più elast i n |
QUIS © IN senso oo bregiudizio agnostico, che di 00° li ‘ontribuito 6 ni Aa 1A
De 4) tie La TR RI 1 0g I I no, e a PE cApnertt hoy dello com (1), #4 La
fusione progrensiva della Logien con Ja Matoma: rica — cho ni compieva
Implieltamente, 6 quasi Pronti sciamente, nei Invori di Boole, Behrbder 6 €,
Petroo da an Into, è di Wolorstrass, Cantor e PEANO (si veda) dall'altro —
costituisce senz’ alcun dubbio un fatto di somma impor: tanza per la filosofia
delle matematiche, Una riforma di così gran conseguenza domandava un’
esposizione siste matica, che fosse come una sintesi dei molti studi, che hanno
concorso a produrla, Questa sintesi è stata ten- tata di fresco e con esito
nssai promettente, da Russell nei principii delle matematiche -- Cambridge -- la
quale ricapitola, discute e coordina i risultati d'un gran numero di ricerche
critiche sui fondamenti delle matematiche, e Je nuove teorie che son nate da
queste ricerche. È insomma un tentativo di ricostruzio logica di tutta quanta
Ja matematica ‘ puri | 4 la ‘ “| ì » 00 vd =" n E n LO p pe re | da LI = e
| na ai | A: ‘ P È x 2 è sà i Yi, % sd ; n 4 . i fi Ù da ah matematica in una ‘
definizione nom: dottrir iitivi di quella; per ognuno di quad pun sconveniente
interpretazione nel vasto Pitt, cane” “sioni logiche. In grazia, a codesto
artificio Ra se np opportuno in un lavoro di in Po purea concludere, che tutte
quante le i > ù matematica ci AERITANO ia A nove COMCEtt »rreducibili
(costanti logiche) e riposan su dodici propocìzioni ‘ndimostrabili; che sono
appunto le idee prime e gl’assiomi della logica, 0 (come altri direbbe) j datj
a priori, o ì principî costitutivi della ragione. La matematica (così 1’ A. sin
dall’ inizio dell’ opera) è Vin “ sieme di tutte le proposizioni o giudizî
della forma “ + p implica 9g "» «dove p e gq son proposizioni che con- “
templano, sì }' una che l’ altra, le stesse variabili, e “ non includon costanti,
da quelle logiche in fuori,.Togliendo a materia, o soggetto, di codeste
inferenze logiche certi ordini di fatti naturali, si avrebber le matematiche
applicate. Benchè non appartenga alla matematica in sè il riconoscere, sin dove
que’ fatti si pieghino a Verificare i principî e le ipotesi d’ una teoria
matema- tica astratta. I Se non che fra quei canoni o postulati della ragion
deduttiva — i quali, secondo Russell, bastan da soli a I sca - att matematico —
non Agura Mr Stenziale; vale a dire nessun giudizio gingola, del concetti prim
fama 0 i f Rin > possibilità di ‘oggetti capaci di comportarsi nel | Ul
altro modo. Ipotesi di questa sorta occorronIn QUaAsi tutti è _» AMT ! tutti i
sistemi matematici, che da quelle mA*°ti 4 ® di 14 fl" i L E d 2 i A
"D per ) ro” Vidic E ditta ° Lo fe ii - 5a f 3553 è 3 € Ale ES — ci iciii
"5 ca ra 28288 Cn © >: = DR: ponti È poi - E CL. E = s È 3 É 5 E @ - ]
inca . te r. eo P de] con PIPMESINORO SLI pari). Sotto RI } to questa
restrizione pare n A è legittima la conclusio re a le matematiche non abbian d’
ne del R., che costituirsi,..—’ ‘Mobo di proprii assiomi ver OSURWITSI
deduttivamente; ma c) di pi; retierali n n Ia che bastino a ciò Je più BeNerali
premesse comuni e gi nuà a: i ° BI può dir necessarie ad ogni umano discorso
(ben g'intende. ove « | PROT, OA “He, Ove si congiungano a que- ste le
definizioni logiche dei vari; des egg sicchè, in fond “ anil concetti
matematici); co- tod I | °, Siano una sola e medesima cosa il meodo deduttivo
«€ ti Il uiiaià 0 logico e il metodo matematico. o discorso volge al suo
termine, e non ho che appena adombrato Je difficoltà che si elevano e i dubbi
che si muovono contro la concezione logica delle mate- matiche astratte; se non addirittura
contro tutto il nuovo indirizzo logistico, che vorrebbe escludere dal processo
dimostrativo qualunque elemento arbitrario ed autonomo, qualunque mezzo o
spediente anarchico; e bandire insomma ogni foggia di deduzione e ogni
strumento di analisi, che non siano debitamente censiti e qualificati. È sempre
in onore sino dai tempi del Kasr l’objezione
oggi rinfrescata dall’autorità d’un illustre scienziato che se la matematica
è veramente una disciplina formale; dunque obbligata a procedere da un piccol
numero d’idee fondamentali, operando con norme fisse e inviolabili, ben
numerate € distinte — se insom- #,% | Vatis i I tia- ma le sue verità fozsaro
analitiche in og I abi GT o jJorido no — come avrebbe potuto mai consesiure l fecondità di cui si vanta @ buon
drit- sieme dei numeri me ben fondat sviluppo e la e et l'hypothèse ®, p. 19.
(+) Poincare, È La sc eru î ; è Mo # : - 54 SR in dovrebbe piuttosto consistere
jin Derpet to? O ne I in affermazioni del tutto ovvie e ban Ue ri, ali, Con»
‘ntieitamente nelle premesse; e risolvergi tenute implie itamente ] Isolversi
Dertanto ‘n una vasta e infeconda tautologia ? Dunque. gj petizioni, Stima che
Mento la logica, senza riflettere che il metodo logico non può la matematica
null'altro sia che un prolung; andare che dal generale al particolare 0 dall’
eguale a l’eguale, e che la deduzione non può mai sollevargi dal particolare al generale?
D'onde verrebbero allora quelle stupende generalizzazioni, di cut si fa bello
ogni ramo della matematica? E un fatto, o Signori, che l’aritmetica, la geometria
e le altre discipline fin quì elaborate con norme rigorosamente logistiche,
contemplano le stesse cose, arrivano alle stesse conclusioni e riproducono in
somma gli stessi corpi di dottrine, di cui s'ebbe già cognizione per vie più
sollecite, con l’aiuto d’altri strumenti o di mezzi più gros: solani. E un
fatto si è, che persino la logica formale, com è istituita, ad es, nel formulario
mathematico di PEANO (si veda), è proprio tutt'altra cosa che una pura e
semplice TAUTOLOGIAt; chè anzi vi trovan posto parecchie gen® 5 n sta tutto
simili a quelle, che incontriamo Si ittiche (p, es. nell’algebra) e in nessun
M° Ss Via d’appelli all’intuizione 0 plt'etpatelo Rica n Diutttosto da vedere
come sia sorto Il ul le: + intanto Sterilità della Logica e del sù; ci "0
dialettico; e cercar di spiegare la maraviglio Bil fecondi : Ità della “ TRVero ben deona ai e a “degna di
meraviglia che’ — - SEZ SÒ discipline, dove l'intrecciarsi in Ogni senso e il
moltipli carsi all'mfinito di conseguenze ottenute per sola virtà di raziocimo
da poche proposizioiote ol ammesse per vers, costituisca un mezzo euristico
8pesso più efficace e più valido, che non l’esperienza e l'osservazione diretta
(sia pur diligente e assistita da buoni strumenti); e dove questo è anzi
l'unico mezzo che serve, non solo ad evocar cose vecchie o giù note, ma ben
anche a scoprir nuove leggi e nuove relazioni. E che questi rami di scienza,
lungi dal mostrarsi a noi stazionarii o non progressivi, sian proprio quelli,
dove il crescere delle conoscenze è più rapido e 1 frutti ne son più
sostanziosi! Si ha un bel dire, a proposito dei SILLOGISMI onde risulta una
scienza così fatta (poniamo la geometria) che tutto ciò che si afferma nelle
conclusioni è già IMPLICITAMENTE contenuto nelle premesse. Che è questo,
insomma, se non ri- conoscere — per via d’ una rozza e poco appropriata
metafora — che le proposizioni tolte in ufficio di fondamentali bastano da sè
sole a produrre tutte quante le conclusioni, senza ulteriore concorso dei
sensi? E però quella massima non sanziona un difetto, ma piuttosto un pregio e
un vantaggio del processo deduttivo sol 'inditto vo; nè può aversi per
objezione contro l’uso del sillogismo- chè tanto varrebbe n dispregio dell’arte
scultoria Il tatua è già tutta IMPLICITAMENTE nel togliendo il superfluo, la
estrae gine del Buonarroti. dire, che una bella $ masso, d’onde l'artista, —
giusta la poetica imma i e strumento di ricerca (VAILATI a tarsi di ripetere in perpetuo ‘ A è A”, ‘ A
non è BE n A presso a poco. Qual mera viglia, se così AES e s’ingra indi. Da: A
oltre misura Ja distinzione tra giudizii analitici e sint etici? È Costretti
gli uni (i giudizii analitici) a restar negli angt et | sti confini di cotali
insulse ripetizioni, avvinti. alle Dr rili tautologie, che gi avevano per
patrimonio della | Lo — 5164 pura, era ben Naturale, che a tutti gli altri si
cer n. Casse una | cai | se una base fuori della ragione; che i primi. si 8 È,
gi mein nti d spiegare il fees Sl: Il potere qj se ai giudizi sintetici. si i -
Duramente logic; ost le nontee cognizioni. A de az Sciute, hi n "70 sola
capacità di esporre. NIRKES 2a contro, ; to e. *dagogi SCR di dattic: SE de ve,
P° % iu; ca si; lb Si arl e sempre l'effetto e iaia 57 di operazioni
extralogiche, svolgentisi nelle profondità misteriose ed oscure dell’intuizione
| Se non che questo modo di vedere pare oggi oltre-passato, e di buon tratto.
Le indagini logistiche misero in sodo, che i pochi principii a eni alludevo
poc'anzi sono radicalmente inetti a giustificare da sè soli Ja massima parte
dei raziocinii, che tutti riconosciamo per ortodossi e legittimi. Il meccanismo
della ragion deduttiva apparisce oggi assai più ricco d’ingegni e di ruote,
assai più complicato e più vario, che non si credesse nn tempo. Se così è, se
l'albero logico sorge in realtà da più ceppi e si nutre da molte radici, ben
s'intende come parecchi e varii principii associati in una stessa deduzione
possano dar conseguenze non implicate da alcuno di essi in particolare: dunque
più generali di ognuno. Non senza ragione Leibniz designava col nome di
combinatoria l’arte d’inventare per mezzo del raziocinio. Un matematico,
avvezzo alla straordinaria fecondità e alle sorprese del calcolo combinatorio, non
fa gran caso di udire ad es., che un piccol numero di postulati sia capace di
generar conseguenze inesauribili. Qualsivoglia deduzione logica ne arreca,
generalmente parlando, un’ economia di lavoro; € ci porge, nelle sue
conclusioni, qualche nuovo fatto — che altrimenti non conosceremmo, senza
l’aiuto di particolari esperienze. Dunque ci spinge avanti d’ un passo sulla
via del sapere, non meno d’ un risultato, che emerga dai laboriosi pro- cessi
dell’ induzione. Si dovrà perciò dire che quella Com- binatorin è un metodo
sintetico? Dicasi, e non faremo Rae esdreiài quistiono ilipurchè 8° intendano
sintesi p parole; ut rogrich® iptellettuali, che nulla ripetano. dall’ in n. ©
ogieh® ita sonsibiile; © quando PUT gi voglia be; loro ET i sn Re: : qualche
intuizione, sia questa un’ eretwizio n. a dire una apercezione di fit.
consognionze, © null’ altro. non gi possa disconoscere alla I certo potere di
generalizzazione, ( maggiore nella Logica applicata; 0 pai discipline, dove
intervengono postwta es consistenza e vigore al discorso. Uno dei e don tico
consi una ale, vale princi" 0 —— e-@ ai sul”.59 ‘in Geom. Projettiva, i
principî di Hamzlton e di Herz ‘n Meccanica—si prestino a rappresentare,
abbracciare e compendiare un numero immenso di fatti. Per certo non chiederemo
alla logica quello che non può dare. Come sarebbe il charirci intorno al fatto
psicologico dell’ invenzione. Ma in che si distinguerà l’invenzione vera dalla
falsa, se non perchè l’una si può, prima o poi, dimostrare e giustificare
logicamente? L'invenzione non acquista valore di verità, finchè non è
dimostrata. Ed anche sotto l’aspetto psicologico, il suggetto a cui si conosce
l'invenzione vera non è già l' esser questa generata da un capriccio
d’immaginazione e da fantasie, come tante ne vengono ai bambini ed ai matti. Ma
sì da una certa logica istintiva e prudente, che per essere inconsapevole, non
è meno conforme alla logica cosciente e riflessa. Quella non fa che anticipare,
con un | vago presentimento — che è come il fiuto della ragione — I gli atti
della logica discorsiva. Dunque nessuna opposizione fra l’euristica e la
dialettica; le quali anzi vanno d'accordo, secondo una certa armonia
prestabilita Ck La scoperta diretta e immediata per intuizione geniale, la
divinazione artistica, avranno sempre grande stato € potere nel regno della
conoscenza: ma opporre il fatto dell'invenzione ai progressi della logica
dimostrativa sa- [Courunat, La Logique et la Phylos. er do Métaphys. et du
Morale} vr PIL! d ii rp, fede e valore al contrappunto i ino 60 negar rebbo
com® Sion musicale. Nelle objezioni di «qu Ù : si A ; distingue abbastanza, io
credo, Do im sorta non" | assetto statico © razionale d’una dige tes a) i
PRA. alita operative © dinamiche, Le | gole sue d ts: vistiche (conviene
riconoscerlo) mirano: iù a statico delle varie discipline deduttive e: AA po di
verità stabilite, che alla landa a, na gcientifici tendenze 10 I° equilibrio
scienza, come cor operativa della scoperta scientifica. du xè si creda, che i
progressi. nell’assetto logi 4 0 delle C | matematiche siano per nuocere allo
sviluppo delle £ A tx intuitive ed artistiche. Perchè, mentre si fo sa Mi
cresce il dominio della ragione positiva, cresce fo mt i tempo e Si allarga Ja
zona di confine fra “que est £ le altre regioni del sapere (che nuovi ‘e maggio
ori a pe: et sti compensano del terreno ceduto) :. e così. al | ul ne
dell’istinto intellettuale, V attiv ità SMI IE! nio — che appunto. sì
esercitano sj 11 scenza più ev oluta—ungi dall 7 vale; m ‘esciranno anzi
accresciute in dii Di > si "OTe. d'or VELA, CATA Adi # È Ber # però dia
i Îi officio, © o si to prrzci alle sue operazioni. Per es. che ina Esa. E 2°
ne, potrebbe scortare e dirigere la: noetra messinesi ©a81, dove riman tuttavia
dell’ in cede © dalai come È radiati È Rini % pins ai quasto piut osto. hei
soddisfare Hi Pera di ‘alti, Ig 2 Nel fa della conoscen: uit 20, £ =) EVS ne ì
1 L ' I ssi, i P | Il è Li dota lì ro Ò rn Ma; i I ba lia LI Ni la (a i di cdi
Ar Pe \ Mei E i a È; n w di il ni À il è 4 I n ha su : gu We ht + MP, Î LL,
"a i! UM è _ r À è LEO ) * LA p \ LI i è I Î IRA di % 4 AU UI LIS è,
" SN el i) 1] (01 Pi % \ "è x 62 I scolastica: on che questa, giù dl
e fine “Al mpi, pare oggi troppo insufficiente allo coni Critica della ragione
sarà tuttavia da istituin e nto d' una Logica meglio ui: allo o stat ge n zione
al suoi te e però Ta sul fondame attuale delle scienze. Me si dovrà esagerare 0
frintendere vo ui rg Nè per ciò ee della logica formale; che non si arroga già
d esser A as scienza dello spirito, nè presume occupare, 0 assoni ire tutta
quanta la filosofia speculativa. Qualsivoglia dottrina logica presuppone delle
nozioni e dei postulati a logica stessa non è in grado di giustificare: alla dr
Ètica toccherà il farne stima. Ma noi teniamo per fern no, © che la critica non
possa ‘intendere con efficacia «sd È st’ opera, se non quando la Logica. abbia
si ai in gran parte) il proprio “compito « denudare e circoscrivere i dati
primordiali della | da cui tutto il resto procede: e che, prima. di sui u piuta
l’enumerazione di tutti. i principii analitici, - 1 - fe abbia il diritto di
cercar fuori della. ragione w n SOS eeno a principii così detti sintetici? La
Logica for ì ale sar con per noi la necessaria i Sri, las pe dentic 7 sun’ ra
autorità ct, È lei. sola: spette # orà di se T \ vane trio. Voler filosofare
fuo © imporlî o. prestabilir RESA gione, è come prete 3: Boi. ragione, 0 © i
contro la © di saltar fuori q scia di volare più su del rtmosfer rt ell ombra
Le "Op si det 0) ISEE Aia CotruRar, Pira: * CovrunaT, i i a x; Z di ST INI
a 1a sola La' V23 UR LARLIINI cdl To ii i + 190° dia. 23] si Ji pasti pui IT È
Ui Cd È: + tai DI =“ i TAL by a = as Ma LA La") ASTRI Mi Tau 200 VRETRA \
RE URTI se Von 1 399, I > dr Pieri. Keywords: implicatura. Luigi Speranza,
“Grice e Pieri”. Pieri.
Luigi Speranza -- Grice e Pievani: la biologia
filosofica, e la ragione conversazionale d’Enea l’antenato, o l’implicature conversazionali
dei maschi – la scuola di Gazzaniga -- filosofia lombarda -- filosofia italiana
– Luigi Speranza (Gazzaniga).
Filosofo italiano. Gazzaniga, Bergamo, Lombardia. Grice: “Only in Italy,
Dietelmo becomes Telmo –“ Grice: “I like Pievani – he defends Darwin when
everyone attacks him! Talk about
rallying to the defense of the under-dogma!” Studia a Milano. Conduce ricerche in biologia evolutiva
e filosofia della biologia, sotto Eldredge e Tattersall presso l'American
Museum of Natural History, New York. Grice: “Some Italians would
not consider him an Italian philosopher seeing that he earned his maximal
degree without (i. e., not within) Italy!” – Insegna a Milano. Bologna, e Padova. Opere: “Il management dell'unicità
(Guerini, Milano); “Homo sapiens e altre catastrofi” (Meltemi, Roma); “Immagini
del tempo nel cinema d'oggi” (Meltemi, Roma); “Sotto il velo della normalità”
(Meltemi, Roma); “Il cappellano del diavolo, Scienza e idee, Milano, Cortina); “Introduzione
alla filosofia della biologia” (Laterza, Roma); La teoria dell'evoluzione.
Attualità di una rivoluzione scientifica (Mulino, Bologna); Chi ha paura di
Darwin?, IBIS, Como-Pavia, Creazione senza il divino, Einaudi, Torino; “In
difesa di Darwin. Piccolo bestiario dell'anti-evoluzionismo all'italiana” (Milano,
Bompiani); “Perdere la libertà per sante ragioni. Dal nascere al morire: la
mano della chiesa sulla vita dei luterani (Milano, Chiarelettere); Nati per
Credere (Codice, Torino); La vita inaspettata. Il fascino di un'evoluzione che
non ci aveva previsto, Cortina, Milano,
Introduzione a Darwin (Roma, Laterza); La fine del mondo. Guida per
apocalittici perplessi, Bologna, Mulino,
Homo sapiens. Il cammino dell'umanità, Atlante dell'Istituto geografico
Agostini, “Anatomia di una rivoluzione:
la logica della scoperta scientifica” (Mimesis); “Evoluti e abbandonati. Sesso,
politica, morale: Darwin spiega proprio tutto, Torino, Einaudi, Il maschio è inutile. Un saggio quasi
filosofico, Milano, Rizzoli, Libertà di
migrare. Perché ci spostiamo da sempre ed è bene così, Einaudi, Torino; Lectures,
Giappichelli, Come saremo. Storie di umanità, Codice, Torino, "Homo
Sapiens Le nuove storie dell'evoluzione umana", Geografica, Imperfezione. Una storia naturale, Milano, Cortina,
Perché siamo parenti delle galline? E tante altre domande sull’evoluzione,
Scienza, Trieste,; Sulle tracce degl’antenati. L’avventurosa storia
dell’umanità (Scienza, Trieste). Fanto è vero, ammette Darwin, che
"forse in nessun caso saprei dire con precisione perché una specie abbia
riportato la vittoria su un'altra nella viande battaglia per la vita" (p.
143). La distinzione epistemologica con le sienze fisico-matematiche tornerà in
altri esempi cari a Darwin. Ciò che conta. per il momento, è notare la forte
accentuazione ecologica della sua pauposta teorica, che da un lato smitizza
l'immagine di un Darwin asserto-te della guerra generalizzata tra i viventi e
dall'altro rivaluta l'ambivalen-ta tra competizione e dipendenza. tra lotta per
le risorse e cooperazione, in una rete intricata di relazioni tra fattori
biotici e abiotici. Dalla lotta per l'e-sistenza discende, in ultima istanza,
"un corollario della massima impor tanza" che riguarda anche i
singoli caratteri delle specie: La struttura di ogni essere organico è
correlata, nel modo più essenziale ma anche spesso difficile a scoprirsi, con
quella di tutti gli altri esseri viventi con i quali viene a trovarsi in
competizione o per il cibo o per la dimora, o con quella degli esseri da cui
deve difendersi o di quelli che sono sua preda. (p. 144)* È da questa
trama di relazioni ecologiche che nasce la celebre immagine della "ripa
lussureggiante" (tangled bank) della chiusa di OdS: È interessante contemplare
una ripa lussureggiante, rivestita da molte piante di vari tipi, con uccelli
che cantano nei cespugli, con vari insetti che ronzano intorno, e con vermi che
strisciano nel terreno umido, e pensare che tume queste forme costruite in modo
cosi elaborato, cosi differenti l'una dall'altra, e dipendenti l'una dall'altra
in maniera cosi complessa, sono state prodotte da leggi che agiscono intorno a
noi. (p. 553)* Il mondo di Darwin è un mondo di relazioni, concorrenziali
o di interdi-pendenza, plasmate dal tempo. Nell'artiglio di una tigre, come
nella zampa di un coleottero o in un seme alato, sono scritte storie
sedimentatesi per migliaia di generazioni. 6. Un sottotitolo
fuorviante In tale contesto, non è ben chiaro perché Darwin abbia allora
accettato il sottotitolo proposto in fase di revisione dall'editore Murray:
"la conservazione delle razze favorite nella lotta per la
sopravvivenza". Molti hanno cercato strumentalmente in questa espressione
il "lato oscuro" dell'evoluzione dar-winiana, la possibile
giustificazione storica e scientifica di atrocità su base razziale ed etnica.
In realtà la teoria discussa da Darwin in OdS è ben lontana da un'idea di
guerra tra "razze". La competizione è prevalentemente tra individui
singoli. non tra gruppi. Ancor meno essenziale è che questi gruppi siano
"razze" o non piuttosto tribù e famiglie. Circa le "razze
umane" in par-ticolare. Darwin ha parecchi dubbi persino sulla loro
oggettiva esistenza, dato che gli studiosi le hanno classificate nei modi più
diversi. e considera il termine troppo vago. A p. 108, paragona la razza al
"dialetto di una lingua". Per il resto. le razze umane in OdS
sono citate raramente e incidentalmente, come casi aggiuntivi. per esempio alla
fine del capitolo dodicesimo a proposito di gruppi umani molto isolati in zone
montuose (p. 458). Telmo Pievani Introduzione alla filoso dna dica GIF Editori
Laterza Biblioteca di Cultura Moderna 1179 Telmo Pievani Introduzione alla
filosofia della biologia ziwvilura ©©9 © 2005, Gius. Laterza & Figli
www.laterza.it Prima edizione marzo 2005 Edizione 67 8 9 10 11 Anno 2014 2015
2016 2017 2018 2019 PEN ( pe Proprietà letteraria riservata Gius. Laterza &
Figli Spa, Roma-Bari Questo libro è stampato su carta amica delle foreste
Stampato da Martano editrice srl - Lecce (Italy) per conto della Gius. Laterza
& Figli Spa ISBN 978-88-420-7566-0 a Niles Eldredge Introduzione
Frustrazioni di un collezionista di francobolli Che cos’era dunque la vita? Era
calore, prodotto calorifico di una inconsistenza che riceveva forma, febbre
della materia di cui era accompagnato il processo di continua decomposizione e
ricomposizione delle molecole d’albumina, di costituzione complicata e
meravigliosa... Non era materia e non era spirito. Era qualcosa fra i due, un
fenomeno, un portato della materia, simile all’arcobaleno sulla cascata, simile
alla fiamma. Ma quantunque non materiale era sensuale fino al piacere e alla
nausea, era la spudoratezza della materia diventata sensibile, era la forma
impudica dell’essere... Era lo svilupparsi e il costituirsi di un turgore fatto
di acqua, albumina, sale e grassi, che si chiamava carne e diventava forma,
nobile immagine, bellezza, ma che nello stesso tempo significava compendio
d’ogni sensibilità e desiderio. Thomas Mann La montagna incantata Thomas Mann
descrive il sentimento di impotenza dell’uomo e del- lo scienziato del primo
Novecento dinanzi al fenomeno della vita. Né materia bruta, né impulso vitale
trascendente, essa si sottrae a de- finizioni univoche e richiede lunghi
percorsi di apprendistato. Nei primi anni Venti Mann, per la stesura di questo
strano capitolo «bio- logico» (come lo definisce nei suoi diari) del suo
capolavoro, con- sulta testi di embriologia, di anatomia e di fisiologia del
suo tempo. In particolare, si lascia ispirare dal manuale di biologia generale
di fine Ottocento di Oscar Hertwig, darwiniano allievo di Ernst Haeckel e
anticipatore degli studi sul nucleo cellulare come porta- VII tore del
materiale genetico. Il risultato della rilettura è sorprenden- te. Lo scrittore
riesce in poche pagine a riassumere il nocciolo delle diatribe sull’essenza
della vita che hanno attraversato gli ultimi tre secoli e il senso delle
controversie che ancora oggi dividono la co- munità scientifica circa quel
ponte sull’abisso attraverso il quale la natura inorganica si coordina nel dare
forma al primo essere che de- finiamo «vivente». Le scienze biologiche ci hanno
ormai abituato a continue sor- prese. Dogmi inveterati, metodi e principi per
lungo tempo consi- derati inviolabili sono stati oggetto di critiche e di
confutazioni. Dai laboratori di tutto il mondo è emerso il carattere fortemente
plasti- co e autoregolativo della materia vivente. Ciò che sembrava la con-
clusione di un lungo programma di ricerca, il sequenziamento del genoma umano e
di altre forme viventi, si è rivelato soltanto l’inizio di un’avventura della
conoscenza ancor più avvincente. L'oggetto di studio della biologia è di per sé
peculiare, come già aveva intuito il fisico Erwin Schrédinger nelle sue
memorabili lezio- ni su Che cos'è la vita? tenute al Trinity College di Dublino
negli an- ni Quaranta del Novecento, qualche anno prima della scoperta del- la
struttura a doppia elica del Dna. La materia vivente non disobbe- disce ad
alcuna legge fisica, tuttavia rappresenta nell’universo fisico una presenza
inedita: essa si sottrae, provvisoriamente, al decadi- mento che conduce
irreversibilmente ogni sistema fisico all’equili- brio. È un tentativo,
disperato e a termine, di sottrarsi alla seconda legge della termodinamica, che
impone un aumento progressivo dell’entropia. Un pezzo di materia è «vivo»
quando scambia materia ed energia con l’ambiente e in questa incessante
attività metabolica e motoria produce ordine, strutture e forme cibandosi del
disordine circostante. La struttura della materia vivente, propone Schròdin-
ger, non è dunque completamente riducibile alle ordinarie leggi del- la
meccanica e non perché vi sia una forza nascosta che anima gli or- ganismi,
come sostenuto nelle molteplici versioni della filosofia «vi- talista», ma
perché la sua costruzione rappresenta una modalità par- ticolare di
organizzazione della materia fisica stessa. La difficoltà è poi accresciuta dal
fatto che i sistemi viventi ten- dono, pur rimanendo in gran parte ancora oggi
a uno stadio ele- mentare, a produrre strutture sempre più elaborate,
accumulando modificazioni, aggiungendo nuove parti o riorganizzando le loro
configurazioni precedenti. Ciò fa sì che la quantità di elementi, di in-
terrelazioni e di retroazioni all’interno di un sistema organico rag- VII
giunga livelli di articolazione elevatissimi. In termini meramente combinatori,
le connessioni potenziali di una rete genetica o di una rete neurale non hanno
nulla da invidiare al numero astronomico di combinazioni fra particelle
elementari nell’intero universo cono- sciuto. Ma non è tutto. I sistemi
biologici presentano queste caratteristi- che stupefacenti perché sono figli di
una lunga storia di eventi che li hanno trasformati nel corso del tempo. Le
scienze della vita hanno a che fare con sistemi evolutivi e devono calibrare le
loro modalità di indagine e di spiegazione rispetto al carattere irreversibile,
e sfug- gente, del loro oggetto di studio. Le cause che hanno prodotto una
struttura organica oggi funzionante sono racchiuse in un passato lontano anche
milioni e miliardi di anni, che possiamo studiare solo a partire da indizi
frammentari, da prove indirette sulla base delle quali ricostruire una storia
plausibile. Non è possibile ripetere in la- boratorio l'estinzione di un
dinosauro o la proliferazione degli orga- nismi pluricellulari. Le scienze del
vivente hanno dunque radicato nel loro statuto epistemologico, cioè nel loro
approccio cognitivo all'oggetto di stu- dio, una dimensione storica
irrinunciabile. Sono scienze che fin dal loro sorgere hanno raccontato storie:
nessuno di noi ha partecipato al Big Bang, ma non per questo mettiamo in dubbio
la relativa teo- ria. Nel caso della biologia ciò significa, però, rinunciare
ad alcune «comodità» alle quali le scienze sperimentali classiche avevano abi-
tuato i ricercatori: una scienza «storica» non permette sempre la ve- rifica
per mezzo della ripetizione dell’esperimento in laboratorio, fatta eccezione
forse per l'evoluzione accelerata dei microrganismi; rende spesso problematica
la separazione artificiale di un sett17g spe- rimentale, nonché
l’interpretazione di tale situazione sperimentale sulla base di leggi generali
o di invarianti numerici; inoltre, l’assun- zione della «prevedibilità» come
condizione necessaria di spiegazio- ne tende a essere sostituita dall’inferenza
storica. Mentre la spiegazione fisica si fonda sulle conseguenze dell’azio- ne
di leggi senza tempo, la spiegazione biologica ha a che fare con «funzioni»:
noi non diciamo che la Luna ha la funzione di sollevare le maree o che
l’esplosione delle supernove serve «per» produrre i materiali pesanti di cui è
costituita la vita. Invece, diciamo che gli oc- chi servono «per» vedere e le
orecchie «per» udire, che gli uni e le altre sono prodotti della selezione
naturale e che sono «costruiti», in un modo o nell’altro durante lo sviluppo di
ciascun individuo, a par- tire dall’«informazione» trasportata da geni
preposti. Dopo un lungo periodo nel quale biologi e genetisti hanno punta- to
all’«indurimento» epistemologico della loro pratica sperimentale, adottando come
modello proprio le scienze fisico-matematiche, sia- mo entrati in una fase in
cui le scienze del vivente possono rivendica- re«pari dignità» per il loro
metodo pluralista, in cui esperimento e ri- costruzione storica si completano a
vicenda. Anche se il ricorso a me- todi statistici, sistematici e quantitativi
è stato fondamentale per lo straordinario sviluppo della biologia molecolare
dai primi decenni del Novecento, l'applicazione di una prospettiva fisicista in
biologia è naufragata quando ha voluto sfidare l’irriducibilità della storia. È
proprio la teoria dell’evoluzione, estesa negli ultimi decenni a partire dal
nucleo darwiniano, ad aver offerto ai dati biologici una coerenza complessiva
estremamente potente. Il carattere storico del- le scienze del vivente non
implica, infatti, che siano discipline mera- mente «descrittive». Esse possono
oggi esibire teorie generali di grande portata esplicativa e in certi casi
anche predittiva. Un’ingen- te mole di prove empiriche, appartenenti a campi di
ricerca assai ete- rogenei, è stata unificata dentro la cornice di un’unica
teoria alla lu- ce della quale possiamo leggere la multiformità del vivente e
le sue trasformazioni. I naturalisti non hanno più bisogno di lamentare fru-
strazioni «da collezionisti di francobolli», come vennero spregiati- vamente
definiti secondo il celebre motto coniato da scienziati «hard», poiché la
teoria dell’evoluzione offre loro un fecondo stru- mento di indagine
comparativa. La capacità di coordinare in modo elegante risultati disparati a
partire da molteplici fonti, principio che William Whewell definì con- silience
of induction, sembra essere del resto la descrizione migliore della metodologia
di ricerca del fondatore Charles Darwin. Un aspet- to da non trascurare
dell’eredità darwiniana è proprio quello di ave- re offerto un esempio
straordinario di come vi possa essere «rigore» anche in una scienza storica.
Qui, il visibile complesso, nella sua irri- ducibile diversità, non può essere
ricondotto a un «invisibile sempli- ce», ma ciò non esclude che
l’intelligibilità dei sistemi studiati possa essere raggiunta per una via
diversa, attraverso l’individuazione di re- golarità storiche, di schemi
ricorrenti, di pattern evolutivi. Oggi addirittura siamo entrati in una fase in
cui proprio la gene- tica, grazie all’applicazione degli orologi molecolari,
permette di ri- costruire ampie porzioni della storia profonda della nostra
specie e delle sue relazioni con le nicchie ambientali che ha saputo coloniz-
zare. Applicando modelli evoluzionistici e comparativi avanzati, il genetista
di Stanford Luigi Luca Cavalli Sforza, insieme a colleghi di ogni parte del
mondo, è stato capace di delineare i grandi tracciati del popolamento umano
sulla Terra, costruendo un albero genealo- gico delle popolazioni umane che
mostra notevoli somiglianze con quello della diversificazione linguistica ed
etnica. Dunque, la biolo- gia non solo è una scienza storica di per sé, ma è
anche una discipli- na che, aggiungendosi all’archeologia e all’antropologia,
permette di scrivere e di indagare meglio la nostra stessa storia di specie,
inse- guendo le tracce delle ramificazioni dei percorsi evolutivi delle spe-
cie, dei geni, dei popoli e delle lingue. Nella centralità della spiegazione
evoluzionistica si situa il pre- sente lavoro di introduzione alla filosofia
della biologia. Vogliamo in tal modo rimarcarne, per correttezza, la
parzialità. Vi sarebbero, in- fatti, molti modi diversi per introdurre una
riflessione sui concetti e sui problemi filosofici emersi nelle scienze
biologiche. Una possibi- lità sarebbe quella di ripercorrere le tappe
principali della storia del- le idee biologiche, mostrando i cambiamenti
succedutisi nel pensie- ro biologico dalla modernità a oggi, come Ernst Mayr ha
magistral- mente insegnato a una generazione di storici della biologia.
Un’altra possibilità sarebbe quella di approfondire l’analisi della natura del-
le teorie scientifiche e di come cambiano nel tempo adottando la bio- logia
come terreno di studio: che cos'è una «legge» in biologia, che cos’è una causa
nelle scienze del vivente, come si costruisce la spie- gazione, che ruolo ha la
predizione, che differenze esistono fra le ri- costruzioni evoluzionistiche in
discipline diverse, e così via. La nostra scelta, per esigenze dettate dallo
spazio ridotto e dalla competenza, è caduta su un’introduzione sintetica alla
filosofia del- la biologia intesa come scienza evoluzionistica, ossia come
un’esplo- razione teorica, organizzata per temi chiave, dei problemi concet-
tuali, delle controversie e delle sfide empiriche emersi direttamente
dall’attuale agenda di laboratorio degli scienziati. Adottando l’utile
distinzione rimarcata da Giovanni Boniolo, lavoreremo su una filo- sofia della
biologia intesa non dal punto di vista della filosofia della scienza generale,
ma come filosofia di una scienza specifica. Le scien- ze del vivente sollevano,
infatti, questioni filosofiche da sempre al centro della riflessione teoretica.
Esiste un progresso nella storia na- turale? Possiamo parlare di un «progetto»
nell'evoluzione? Che rap- XI porto c'è fra forme e funzioni in natura? Che cosa
significa essere «adattati» all'ambiente? Che cos'è una specie? Qual è il ruolo
dei ge- ni, dell'ambiente, della microevoluzione e della macroevoluzione?
Quanto è importante la selezione naturale? Possono convivere com- petizione e
cooperazione, egoismo e altruismo? Come si connettono evoluzione delle specie e
sviluppo individuale? La parzialità è evidente perché si tratta di questioni
legate non al- la biologia in generale, ma allo specifico della biologia
evoluzionisti- ca. Non tratteremo quindi importanti questioni legate alla
biologia molecolare, alle biotecnologie, alla medicina, alla bioetica, alle
neu- roscienze. Siamo però confortati dal fatto che oggi nessuno di questi
ambiti di ricerca può essere compreso appieno se non alla luce della teoria
dell'evoluzione, come aveva previsto correttamente Theodo- sius Dobzhansky nel
1973. Il nostro filtro interpretativo sarà dunque di tipo evoluzionistico,
nella convinzione che proprio l'unicità della teoria dell’evoluzione
rappresenti oggi una sfida aperta e ricca di ri- sonanze filosofiche di grande
fascino, a dispetto di chi, anche in Ita- lia in tempi recenti, condivide la
tentazione di eliminare l’evoluzio- nismo dai programmi di insegnamento.
L’impossibilità di richiamare le tappe della storia del pensiero bio- logico
non esclude che vi siano molti richiami al passato della disci- plina, in
particolare alle differenti interpretazioni della teoria darwi- niana, nonché
al poliedrico paradigma evoluzionistico denominato Sintesi Moderna,
consolidatosi nella prima metà del Novecento e da cui tutti i dibattiti odierni
prendono in qualche modo le mosse. La no- stra ipotesi è che la Sintesi
Moderna, frutto della fusione fra le ricer- che di genetica delle popolazioni e
la teoria dell'evoluzione per sele- zione naturale, sia ben rappresentabile
come un «programma di ri- cerca» nel senso attribuito a questa espressione dal
filosofo della scienza Imre Lakatos nel 1970, con una «cintura protettiva»
costitui- ta da alcuni postulati circa la natura del processo evolutivo
(graduali- smo filetico e riduzionismo genetico) e un «nucleo metafisico» in-
centrato sul valore adattativo di tutti i caratteri degli organismi. In questa
prospettiva, ci sembra plausibile identificare nello scenario at- tuale della
filosofia della biologia una duplice demarcazione: a un pri- mo livello, fra
chi predilige una visione riduzionista delle unità di evo- luzione e chi una
concezione pluralista; a un secondo livello, forse più profondo, fra chi si
richiama a un approccio funzionalista al vivente e chi a un approccio
strutturalista. E lontano dalle nostre ambizioni proporre qui un’integrazione
XII fra le diverse tradizioni o una descrizione «neutrale» dei dibattiti in
corso. Proveremo quanto meno ad astenerci dal presentare in modo caricaturale
prospettive contrarie ai nostri orientamenti e dal mani- festare adesioni
acritiche a teorie di cui condividiamo i presupposti. Ci basterebbe pensare di
essere riusciti a delineare con chiarezza i termini di alcune questioni, per
diradare talune confusioni ricorren- ti e alimentare la nascita di nuove
interpretazioni che siano all’altez- za degli sviluppi delle scienze biologiche
contemporanee. Le principali fonti di ispirazione per la filosofia della
scienza nel secolo scorso sono state la fisica e la matematica, con alcune
ecce- zioni di filosofi che hanno richiamato l’importanza della biologia e
della teoria dell’evoluzione. Ora, invece, la filosofia della biologia di- venterà
una disciplina sempre più decisiva per imparare a ragionare su questioni
delicate come quelle sollevate dall’utilizzo delle tecno- logie di
modificazione del materiale ereditario. La biologia pone da almeno tre decenni
grandi sfide empiriche, ma anche concettuali. Lentamente stiamo affinando gli
strumenti teorici per affrontarle. Nessun orientamento «bio-etico» può
prescindere da una più ampia cornice teorica e da un rigoroso discernimento dei
concetti fonda- mentali emergenti dalle scienze biologiche e quindi da una
seria «bio-filosofia». La comprensione delle dinamiche ecosistemiche che hanno
por- tato la specie umana a diventare l'agente di una estinzione di massa della
biodiversità terrestre non può prescindere da una salda cono- scenza della
teoria dell’evoluzione e di cosa sia una specie biologica. Se e in che modo gli
organismi geneticamente modificati siano una minaccia per la biodiversità è una
questione evoluzionistica. Capire quale catena di ragionamenti, e talvolta di
interessi, si nasconda die- tro l'annuncio della scoperta del «gene
dell’aggressività» o del «ge- ne dell’omosessualità» è un compito di filosofia
della biologia. L’elenco potrebbe continuare. Vi sono poi intere discipline,
come la medicina, la psichiatria e più in generale le scienze della mente, che
cominciano a fare i conti con una dimensione evoluzionistica finora
sottovalutata, la quale spesso stravolge alcuni presupposti radicati nei loro
quadri esplicativi tradizionali. La filosofia della biologia in chiave
evoluzionistica è una giovane disciplina con una ricca agenda di lavoro dinanzi
a sé. Il compito è dunque molto delicato. «Leggi di natura» senza tem- po,
senza eccezioni, senza elementi accidentali non esistono in bio- XII logia.
Tuttavia, grandi evoluzionisti, come Mayr, rifiutano di pensa- re che la
biologia sia una disciplina ancillare, un particolare dominio applicativo delle
leggi della fisica e della chimica. Per alcuni evolu- zionisti il dominio dei
«pattern» di regolazione e il dominio dei «par- ticolari» contingenti, che
determinano a tutti gli effetti il percorso evolutivo, si integrano nel
procedere dell’evoluzione del sistema. Per altri, esistono invece «leggi o
meccanismi evolutivi» con estensione universale, per esempio la selezione
naturale che agisce sul corredo genetico, o i meccanismi di differenziazione
cellulare e di sviluppo, oppure le dinamiche di autorganizzazione valide in
ogni tempo e luogo indipendentemente dal supporto fisico. All’opposto rispetto
a questa «biologia universale», possiamo spingerci verso accezioni molto
pervasive di contingenza evolutiva, sostenendo che ogni det- taglio è in grado
di deviare il corso della storia naturale senza alcu- na regolarità
sottostante. Darwin, sollecitato dalle ansie di devozione religiosa del botani-
co Asa Gray, intuì questo punto centrale e scrisse che le leggi natu- rali sono
lo sfondo su cui si inserisce la ricchezza imprevedibile dei particolari:
l'evoluzione sancisce la distinzione fra un regno della contingenza storica e
un regno delle leggi naturali. L’argomentazio- ne di Gray si fondava sulla
teologia naturale: la scienza implica la spiegazione dei fenomeni naturali per
mezzo di poche leggi natura- li valide universalmente; queste leggi, fra le
quali anche quelle della selezione e dell’adattamento, non possono che essere
istituite da Dio per il governo e l’ordine sulla natura. La risposta del
materialista, e scienziato della storia, Darwin fu di particolare interesse:
certo la na- tura obbedisce ad alcune leggi fondamentali di sviluppo e di
inter- relazione; per quanto concerne una teoria scientifica dell’evoluzione
queste leggi possono anche avere o non avere un’origine divina, ma ciò esula
comunque dai compiti dello scienziato; tuttavia le leggi non hanno un valore
onnipervasivo: esse dirigono sì i meccanismi di fon- do dell’evoluzione, ma
qualcosa «che possiamo chiamare caso» re- gola «l’elaborazione dei
particolari», buoni o cattivi che essi siano (lettera ad Asa Gray del 22 maggio
1860). Il limitativo riferito al ruolo del caso significa che Darwin non si
riferisce qui alla separazione fra due domini indipendenti. Anche la
definizione di variazione «casuale» era per Darwin solo il frutto del- la
nostra provvisoria ignoranza circa le cause effettive della muta- zione.
Bisogna pensare piuttosto a una cospecificazione fra il domi- nio delle «leggi»
e il dominio degli «eventi singolari». Proprio la di- XIV stinzione fra schemi
ripetuti e singole traiettorie contingenti sarà la filigrana di questa
Introduzione alla filosofia della biologia intesa co- me disciplina storica.
Vedremo pattern molto diversi emergere nel- le opere di autori come Stephen J.
Gould, Richard Dawkins, Stuart Kauffman, Daniel Dennett, Niles Eldredge, John
Maynard Smith. E noteremo sensibilità diverse al tema della storia. La
collocazione più o meno alta del limite oltre cui il processo evolutivo è
«necessario», fino a comprendervi al minimo l’origine delle specie e al massimo
l’origine dell’intelligenza umana, dipende dalla cornice intellettuale
attraverso la quale interpretiamo la teoria dell’evoluzione, purché si accetti
l’idea che le dinamiche alla base del processo evolutivo (siano esse di tipo
genetico, organico, popolazio- nale o ecologico) rientrano completamente nella
sfera dei fenomeni naturali indagabili attraverso un’indagine scientifica e non
sono comparabili ad altre tipologie di spiegazione. É pertanto da consi- derare
un evidente errore, in filosofia della biologia, sostenere che un magistero
teologico sia diventato «compatibile» con la teoria dell’evoluzione in virtù di
una sua parziale accettazione delle moda- lità esplicative di tipo
evoluzionistico, ritenute valide per ampi do- mini della realtà naturale fatta
eccezione per uno di essi. La filosofia della biologia presuppone che sia
importante com- prendere a fondo la struttura argomentativa di una teoria del
viven- te prima di farla propria o di criticarla o di limitarne l’insegnamen-
to. La visione della vita di Darwin è quella del naturalista che vede
intrecciarsi nei fenomeni evolutivi un’irriducibile diversità di forme e di
adattamenti, insieme all’operato coerente di pochi pattern na- turali che non
hanno bisogno di alcuna causa «speciale» né di alcun intervento sovrannaturale,
e non ammettono singole eccezioni mira- colose. A suo avviso, una valida
spiegazione evoluzionistica non può prescindere da un principio di ubiquità
della variazione individuale e popolazionale come motore del cambiamento: È
interessante contemplare una plaga lussureggiante, rivestita da mol- te piante
di vari tipi, con uccelli che cantano nei cespugli, con vari insetti che
ronzano intorno, e con vermi che strisciano nel terreno umido, e pen- sare che
tutte queste forme così elaboratamente costruite, così differenti luna
dall’altra, e dipendenti l’una dall’altra in maniera così complessa, sono state
prodotte da leggi che agiscono intorno a noi (C. Darwin, L’ort- gine delle
specie [1872], Bollati Boringhieri, Torino 19675, p. 553). XV È l'irruzione
della storia nella natura, di cui Darwin si fa porta- voce, a sancire il
distacco di questa visione evolutiva da ogni impo- sizione dogmatica, da ogni
fondamentalismo, ma anche dalla conce- zione normativa di un universo fisico
retto dall’equilibrio di leggi im- mutabili. Anche l'evoluzione umana, da
alcuni anni a questa parte, ha ces- sato di essere per gli scienziati
un'eccezione a questa grandiosa vi- sione naturale della vita. La specie umana
si è riappropriata della sua dimensione evolutiva, del suo tempo profondo e ciò
non potrà che accrescere la sua consapevolezza di essere parte di una venerabile
storia e frammento di una lussureggiante biodiversità, ora minaccia- ta. La
vita, come l’«arcobaleno sulla cascata» di Mann, emerge dal- la materia
intessendo senza sosta le sue trame: Vi è qualcosa di grandioso in questa
concezione della vita [...] e nel fatto che, mentre il nostro pianeta ha
continuato a ruotare secondo l’im- mutabile legge della gravità, da un così
semplice inizio innumerevoli for- me, bellissime e meravigliose, si sono
evolute e continuano a evolversi (ivi, p. 554). Non esiste viatico migliore
ancora oggi, a un secolo e mezzo di distanza da quel 1859, per introdurre i
lineamenti generali di una fi- losofia della biologia evoluzionista.
Ringraziamenti La costruzione di questo scritto, senza nulla togliere alla
responsa- bilità dell'autore per i contenuti, è stata resa possibile dalla
condivi- sione di idee con un illustre biologo evoluzionista e paleontologo:
Niles Eldredge. Ben oltre l'insegnamento teorico, a lui devo un esempio di
stile di ricerca. È stato un privilegio essere letto e ricevere consigli,
soprattutto su come presentare i meccanismi fondamentali dell’evoluzione bio-
logica, da un altro autorevole scienziato, Luigi Luca Cavalli Sforza.
Nonostante i suoi dubbi scanzonati circa l’utilità generale della filo- sofia,
mi ha dato alcune ottime lezioni di filosofia della biologia. Un'altra preziosa
opportunità è stata quella di ricevere la lettura precisa e puntigliosa,
seguita da lunghe e piacevoli disquisizioni, da parte di Susan Oyama. L’attesa
impaziente dei suoi messaggi e-mail ha accompagnato la stesura. La ringrazio di
cuore per il tempo che mi ha dedicato e per i punti critici che mi ha aiutato a
comprendere. Un pensiero di gratitudine va a tutti coloro che mi hanno ac-
compagnato nella stesura leggendo parti del manoscritto e aiutan- domi in molti
altri modi, primo fra tutti Giulio Giorello. Ringrazio quindi sinceramente
Enrico Alleva, Patrick Bateson, Giovanni Bo- niolo, Fritjof Capra, Fulvio
Carmagnola, Paolo Coccia, Pietro Cor- si, Bruno D’Udine, Aldo Fasolo, Marco
Ferraguti, David Hull, Stuart Kauffman, Michele Luzzatto, Sergio Manghi, Simona
Mori- ni, Silvano Tagliagambe, Emanuele Vinassa de Regny, Elisabeth Vrba. Non
dimentico l’incoraggiamento e gli utili consigli dei gio- vani compagni di
avventura del Laboratorio di Filosofia della Biolo- gia dell’Università degli
studi di Milano Bicocca: Eloisa Cianci, Eli- sa Faravelli, Emanuele Serrelli,
Daniela Suman. Alla Facoltà di Scienze della Formazione e alla sua preside,
Susanna Mantovani, de- vo ben più di quanto non possa scrivere qui. A Vittorio
Bo e a tutto il gruppo eccezionale del Festival della XVII Scienza di Genova,
grazie per la condivisione dell'entusiasmo verso la scienza e per la sfida di
progettare insieme una politica culturale che rafforzi il sapere scientifico
nel nostro paese. E poi, ultimi ma in realtà in cima ai ringraziamenti, vi sono
colo- ro che hanno sopportato pazientemente il lato più faticoso della con-
vivenza con questo lavoro: i miei genitori Katia e Bruno, la mia com- pagna
Cinzia e la piccola Giulia, che ai piedi della scrivania mi chie- deva
perplessa perché mai passassi tutte quelle ore della sera e del fi- ne
settimana davanti a una tastiera. Introduzione alla filosofia della biologia
Capitolo primo Le scienze del vivente fra gradualismo e puntuazionismo Anche se
può capitare di leggere questa espressione, non esistono «teo- rie
dell’evoluzione» al plurale. La teoria dell’evoluzione possiede un corpus
teorico piuttosto coerente, pur con molte questioni aperte e con accese
controversie al proprio interno, come è normale che accada in ogni programma di
ricerca che abbia capacità euristica e che accetti l'evidenza empirica come
vincolo. In particolare, la teoria della sele- zione naturale, descritta da
Darwin nel 1859 e opportunamente rivista nei decenni seguenti, è solidamente
corroborata. Tuttavia, trattandosi della prima teoria scientifica in grado di
proporre una spiegazione completamente naturale e storica della natura umana e
animale, essa è continuamente sotto minaccia da diverse parti. La teoria
dell'evoluzione cerca di spiegare il cambiamento delle forme viventi attraverso
lo studio delle relazioni che intercorrono fra gli organismi fra loro e fra
questi e i contesti naturali in cui sono im- mersi. Vedremo che i meccanismi
alla base dell’evoluzione sono principalmente di tre tipi: meccanismi che
generano la diversità or- ganica, cioè mutazione e ricombinazione; meccanismi
attraverso i quali questa diversità viene modellata, cioè selezione naturale (e
ses- suale) e deriva genetica; meccanismi che modificano la struttura geo-
grafica delle popolazioni, cioè rzigrazione e altre forme di separazio- ne.
Notiamo subito che fra questi meccanismi di base non vi è l’adat- tamento, il
quale, in un rapporto ricorsivo con la selezione naturale, è causa e al
contempo effetto dell’evoluzione. 1. Il mondo naturale dopo Darwin La teoria
dell’evoluzione biologica è comprovata da milioni di fossili di specie estinte
o viventi raccolti nei musei di storia naturale di tutto il mondo; dai
tracciati di discendenza comune di tutte le forme vi- venti, come previsto da
Darwin, oggi raffinati dalla cladistica e dalla biologia sistematica;
dall’applicazione della selezione artificiale su specie animali e vegetali;
dall'evoluzione velocissima di organismi unicellulari osservata nel corso di
migliaia di generazioni riprodotte in laboratorio; dalle somiglianze e dalle
divergenze genetiche che 0g- gi ci permettono di datare il periodo di
separazione di tutti gli esseri viventi; dalle scoperte recenti sui meccanismi
di regolazione genetica; el’elenco potrebbe continuare. La teoria
dell'evoluzione è dunque lo sfondo condiviso per comprendere l’intera diversità
del vivente. La formulazione della teoria da parte di Charles Darwin (1809-
1882) rappresenta per il pensiero occidentale una svolta rivoluzio- natia.
Molti altri naturalisti, precedenti e contemporanei, avevano intuito che gli
esseri viventi potessero avere un’evoluzione, cioè una trasformazione dei
caratteri biologici e comportamentali nel corso del tempo. La maggior parte degli
scienziati si opponeva a questa ipotesi, preferendo rimanere fedele alla teoria
fissista, ma l’evoluzio- ne era presa in considerazione come una possibilità
concreta. Darwin, tuttavia, ebbe il merito ineguagliato di mostrare con siste-
maticità #/ fatto dell'evoluzione, grazie a un'enorme mole di prove empiriche
raccolte nell’arco dell’intera vita, e di costruire l’impian- to complessivo di
una teoria dell'evoluzione che rimane ancora oggi il pilastro fondamentale per
comprendere le trasformazioni degli or- ganismi viventi. La teoria fu resa
pubblica da Darwin soltanto nel 1859, a distan- za di ventuno anni dalla prima
elaborazione dopo il viaggio intorno al mondo come naturalista di bordo sul
brigantino Beagle, dal 1831 al 1836. Darwin cominciò, infatti, a pensare alla
sua teoria già nel 1838 e nel 1842 annotò i primi abbozzi del meccanismo di
selezione naturale, ma per motivi di prudenza preferì aspettare, dedicandosi
nel frattempo a una lunghissima monografia sui cirripedi (piccoli crostacei che
vivono fissati alle rocce), allo studio dei processi di for- mazione delle
barriere coralline e alla raccolta di nuove prove del fe- nomeno della
selezione naturale. Soltanto quando, nel 1859, il col- lega Alfred R. Wallace
lo informò di essere in procinto di pubblica- re un saggio analogo sulla
selezione naturale, fondato sullo studio degli uccelli e degli insetti delle
isole Molucche, Darwin decise di da- re rapidamente alle stampe il testo
contenente la struttura della sua teoria, che stava preparando da tre anni:
Su/l’origine delle specie per selezione naturale, ovvero la conservazione delle
razze più favorite nel- la lotta per l’esistenza. La teoria darwiniana comporta
tre acquisizioni fondamentali: a) evidenzia la «realtà» dell'evoluzione; le
specie biologiche non sono entità fisse inscritte nello scenario immobile della
creazione di- vina: esse sono, al contrario, soggette a una costante
trasformazione; b) propone ai biologi dell’epoca una «teoria» plausibile circa
i meccanismi, i tempi e le modalità di questa incessante evoluzione delle forme
organiche per divergenza da antenati comuni; c) tenta inoltre di determinare i
principi di ragionamento alla ba- se di una scienza storica della natura che,
nonostante la frammenta- ria disponibilità di «dati osservativi», abbia pari
dignità rispetto alle scienze sperimentali. Il tema di fondo dell’opera
darwiniana è la scoperta della diver- sità individuale, della straordinaria
ricchezza di forme che la natura ha elaborato nel corso dell'evoluzione. Le
monografie di Darwin, nell’ampio ventaglio di temi trattati, sono impregnate di
ammirazio- ne per la diversità individuale e sono costantemente guidate dalla
ri- cerca di una metodologia storico-evolutiva capace di spiegare le ori- gini
di tale stupefacente diversità: Darwin si occupò dei metodi di fe- condazione
delle orchidee da parte degli insetti, dei lombrichi e del loro ruolo in
agricoltura, della formazione degli atolli corallini, di piante rampicanti, di
allevamento, di biogeografia, di botanica spe- rimentale, di psicologia
animale. Darwin fu dunque un anticipatore in molti campi disparati, ma sarà la
sua seconda acquisizione fondamentale, la teoria dell’evolu- zione per
selezione naturale, a cambiare per sempre la visione della realtà naturale.
Essa si compone di due fatti comprovati e di una con- clusione che Darwin
definisce «inevitabile». 1. Gli organismi presentano come loro proprietà più
evidente la variabilità individuale; per una certa percentuale queste
variazioni sono ereditate dai discendenti: un fatto che Darwin ricavò dalla sua
conoscenza dei metodi di selezione artificiale negli allevamenti. 2. Gli
organismi mettono al mondo un numero di discendenti ge- neralmente superiore a
quello che l’ambiente può sostenere e non tutti potranno sopravvivere: fatto che
il grande naturalista inglese ri- cavò dalla lettura, nel 1838, del trattato
dell’economista Thomas Malthus sull’asimmetria fra la crescita aritmetica della
disponibilità di cibo e la crescita esponenziale delle popolazioni. 3.
Mediamente, i discendenti che sopravvivono e possono a loro volta riprodursi,
propagando così le proprie variazioni, sono quelli che presentano mutazioni
favorite dall'ambiente. L'effetto risultan- te sarà quello di un accumulo
graduale delle variazioni favorevoli in una popolazione per effetto della
selezione naturale. La distinzione fra la dimostrazione della realtà
dell’evoluzione e le ipotesi sulla selezione naturale come meccanismo primario
è molto importante per comprendere l’evoluzionismo darwiniano.
L’identificazione del termine astratto «darwinismo» con la prima as- serzione,
relativa alla realtà pura e semplice del fenomeno del cam- biamento
morfologico, è fuorviante per motivi storici: mettendo in luce la sua
trasparenza intellettuale, Darwin premise alla sesta edi- zione dell’Orzgine
delle specie (1872) un «compendio storico» in cui sono citati trentaquattro
autori che hanno anticipato l’idea di evolu- zione dei viventi (senza tuttavia
escogitare il meccanismo della sele- zione naturale, che Darwin «concede» solo
ad Alfred R. Wallace): fra questi spiccano Aristotele, Louis Leclerc de Buffon,
Jean-Baptiste Lamarck, Etienne Geoffroy Saint-Hilaire, William Charles Wells,
Patrick Matthew, Herbert Spencer. Anche una seconda identificazione, questa
volta fra darwinismo e teoria della selezione naturale, rischia di rivelarsi
impropria. La sele- zione naturale intesa nella sua accezione negativa, cioè
come criterio di vaglio dei non adatti, era ampiamente accettata anche dai
teologi na- turali, che vedevano in essa un utile meccanismo di salvaguardia
dei «tipi ideali» impressi alla natura dall’atto della creazione divina. La
sfi- da di Darwin fu quella di concepire l’azione della selezione sia in un’ac-
cezione negativa sia in un’accezione costruttiva: la selezione naturale, conservando
in modo differenziale nel corso delle generazioni gli or- ganismi meglio
adattati all’ambiente in virtù di una loro casuale varia- zione vantaggiosa,
doveva isolare gli organismi migliori e generare mo- dalità di sopravvivenza
sempre più efficaci. La variabilità individuale era la «materia prima» inerte
della trasformazione, mentre la selezio- ne era il motore del processo
evolutivo. La selezione, inoltre, agisce se- condo Darwin non soltanto sulle
strategie di reperimento delle risor- se, che poi influenzano i tassi di
riproduzione, ma anche direttamente sui meccanismi di accoppiamento. Il
fenomeno della selezione sessua- le, descritto in L'origine dell’uomo (1871),
permise a Darwin di spie- gare l’insorgere di caratteri bizzarri e onerosi
soprattutto nei maschi: essi non forniscono un vantaggio per la sopravvivenza,
ma diretta- mente per la riproduzione, attraendo le partner migliori. Il tema
della variazione individuale e della sua trasmissione eredi- taria è
particolarmente significativo per apprezzare la genialità di Darwin: non
dimentichiamo che gli studi di Gregor Mendel sull’ere- ditarietà saranno
riscoperti soltanto nel 1900, diciotto anni dopo la sua morte. Oggi per
variazione «casuale» si intende che la mutazione genetica è indipendente dall’effetto
adattativo che produce. Darwin intendevala variazione «casuale» secondo tre
significati: 1) doveva es- sere ridondante in quanto «riserva» del cambiamento;
2) senza con- seguenze dirette sul fenotipo della specie (cioè con un raggio di
inci- denza limitato: sarà poi la selezione a decidere quali variazioni fissa-
re); 3) non influenzabile, in senso inverso, dalle sollecitazioni am- bientali
esterne. Saltazionismo e neolamarckismo, le due principali correnti
antidarwiniane del Novecento (da posizioni opposte), corri- spondono
rispettivamente alla negazione del punto 2 e del punto 3. Ebbene, gli sviluppi
della genetica moderna hanno smentito entram- be le teorie antidarwiniane della
variazione genetica, che risulta esse- re effettivamente a raggio limitato e
non direzionata. L’impianto centrale della teoria darwiniana è in realtà ancor
più complesso. Secondo il biologo Ernst Mayr, la sua concezione si arti- cola
in cinque «teorie». 1. L'evoluzione è un dato di fatto: il mondo naturale è
governato da regole evolutive meccaniche che non hanno bisogno del ricorso a
forze sovrannaturali. 2. Le specie discendono da un unico ceppo ancestrale,
dividen- dosi poi nel corso del tempo attraverso un processo continuo di ra-
mificazioni: la vita può essere rappresentata da un grande albero, con pochi
rami principali in basso e tanti piccoli ramoscelli in alto. In questo grande
scenario di discendenze e di derivazioni da forme primitive, la posizione degli
esseri umani non doveva essere dissimi- le da quella di tutti gli altri
animali. 3. La nascita di nuove specie dipende dalla variazione degli indi-
vidui e delle popolazioni: le specie non sono entità immutabili in- scritte
nella natura, come dettava la concezione essenzialista delle forme viventi, ma
si trasformano incessantemente e si diversificano a partire dalle variazioni
individuali. 4. Il ritmo del cambiamento è graduale: l'evoluzione procede per
accumulo di piccole variazioni che lentamente si estendono su larga scala. 5.
Il motore dell’evoluzione è la selezione naturale, cioè il suc- cesso
differenziale degli organismi più adatti nella lotta per la so- pravvivenza, in
quanto portatori di mutazioni vantaggiose. L’impatto del pensiero evoluzionista
sui paradigmi dominanti nel- la seconda metà dell’Ottocento fu dirompente. Le
cinque teorie fu- rono variamente accolte o contestate per molti anni, anche
dopo la morte di Darwin. Furono accettate generalmente l’affermazione
dell’evoluzione come dato di fatto e la teoria della discendenza co- mune,
mentre ci vollero più di cinquant'anni per avere un’adesione convinta dei
biologi alla teoria della selezione naturale. A cavallo fra il 1899 e il 1900,
a diciotto anni dalla morte del maestro, i maggiori evoluzionisti darwiniani si
scontrarono sull’interpretazione dei mec- canismi di base del cambiamento
evolutivo. Nei circoli biologici lon- dinesi si fece a gara per chi potesse
legittimamente dirsi «darwinia- no». Da una parte George John Romanes riteneva
che la teoria darwi- niana lasciasse spazio per una molteplicità di fattori
evolutivi e che la selezione naturale fosse il più importante ma non il solo
principio cau- sale di determinazione del cambiamento naturale. Dall'altra,
August Weismann ed Ernst Haeckel concepivano la teoria della trasforma- zione
per selezione naturale come esclusiva e onnipervasiva. È importante peraltro
ricordare che Darwin non si stancò mai di allontanare risolutamente la sua
teoria da qualsiasi implicazione so- ciale e politica: la lotta per la
sopravvivenza, per lui, era uno scena- rio complesso di interrelazioni fra
organismi all’interno di un ecosi- stema e non aveva nulla a che vedere con la
metafora della «soprav- vivenza del più forte» che subirà funeste applicazioni
in campo so- ciale e razziale. Del resto, non è di Darwin neppure la paternità
dell’espressione «la sopravvivenza del più adatto», con cui solita- mente si
sintetizza l’intero messaggio della teoria: essa fu coniata da Herbert Spencer
negli anni Sessanta dell'Ottocento e fu adottata prima da Wallace e poi, con
qualche ritrosia, da Darwin nella sesta edizione dell’Origine delle specie
(1872). Piuttosto, la teoria della se- lezione naturale traspose nella natura
il principio liberale dell’eco- nomista Adam Smith, per cui l’ordine economico
si può realizzare se si permette agli individui di concorrere liberamente per
il profit- to personale. Tuttavia, la più accesa controversia scientifica si
ebbe a proposi- to dell’opzione gradualista di Darwin. Già l’amico Thomas Henry
Huxley nel 1859 aveva espresso le sue perplessità sulla questione. Ma
l’esperienza di Darwin nello studio della selezione artificiale, le
osservazioni sulle modificazioni graduali di alcune specie di uccelli e di
cirripedi, la sua formazione come geologo, ma soprattutto l’os- sequio per il
maestro Charles Lyell (fermamente convinto del- l'uniformità delle cause che
agiscono in natura) influenzeranno a tal punto la teoria darwiniana in chiave
gradualista da costringere Darwin a negare plausibilità a molte prove
paleontologiche che già attestavano l’esistenza, nella storia naturale, di
esplosioni improvvi- se di forme e di estinzioni di massa. Le reazioni più
forti si ebbero, tuttavia, all’esterno della comu- nità scientifica.
L’evoluzionismo darwiniano (e con esso la filosofia materialista che si
consolidò nel pensiero di Darwin dopo la pubbli- cazione nel 1871 dell’Origire
dell’uonzo) rompeva con alcuni princi- pi che appartenevano al senso comune e
alle convinzioni indiscusse di un’epoca. Darwin sfidò l’idea che il mondo fosse
immutabile; che la Terra avesse soltanto 4.000 anni di età e non invece i
milioni di an- ni necessari all’evoluzione; che la diversità del vivente fosse
imputa- bile a un atto di creazione da parte di un Dio benevolo; che l’uomo
avesse una collocazione privilegiata al centro del creato; che la men- te umana
avesse un’origine speciale; che nella natura fossero inscrit- te cause finali e
principi teleologici. Tutto ciò fu messo in discussio- ne dal «lungo
ragionamento» di un solo uomo, fermamente convin- to della propria concezione
della vita fondata sulla diversità, sull’e- voluzione che ne consegue e sul
primato della storia. Darwin fu anche uno straordinario anticipatore. Alcune
sue in- tuizioni, dalle correlazioni di crescita al pre-adattamento, dalla
poli- funzionalità organica al carattere meramente convenzionale della se-
parazione fra le «razze» umane, per non citare le innumerevoli ipo- tesi
evolutive specifiche, furono confermate molti decenni dopo la sua scomparsa con
una sorprendente precisione. Sarà poi la geneti- ca di popolazioni a mostrare,
attraverso modelli matematici, come è possibile che la distribuzione di un gene
cambi all’interno di una po- polazione di generazione in generazione in base
alla sua possibilità di influenzare le capacità degli organismi di sopravvivere
e di ripro- dursi. Mendel e Darwin alla fine si incontrarono. Eppure, la
defini- zione dell’esatto potere della selezione nel plasmare gli organismi at-
traverso la sopravvivenza differenziale dei loro geni fu oggetto di persistenti
discussioni. Così, la gara a chi possa legittimamente dirsi «darwiniano» con-
tinua ancora oggi e ciò testimonia della vitalità della teoria. Alcuni, come
George C. Williams e Richard Dawkins, interpretano il mec- canismo della
selezione naturale e sessuale come unico motore del- la trasformazione
organica: l’evoluzione sarebbe in sostanza una lot- ta fra «geni egoisti» che
competono per la massima diffusione di ge- nerazione in generazione usando gli
organismi e le specie come loro «veicoli» passivi. A questa corrente
«ultradarwinista» si contrappo- ne una visione pluralista dei fattori e dei
livelli evolutivi, propugna- ta da paleontologi come Niles Eldredge e Stephen
J. Gould. Questi ultimi non ritengono possibile estrapolare tutti i fenomeni
evolutivi su media e larga scala dalla semplice logica della competizione fra
geni e preferiscono immaginare una «trama estesa» dell’evoluzione nella quale
molteplici attori e molteplici fattori concorrono a gene- rare la «plaga
lussureggiante» delle forme viventi. Nel seguito del libro cercheremo di mostrare
come proprio que- ste differenti sensibilità, della corrente genetica
contrapposta a quel- la paleontologica, circa il modo corretto di dirsi
«darwiniani» rap- presentino oggi un terreno fecondo per la discussione dei
principa- li temi di filosofia della biologia. 2. Il gradualismo: un'immagine
influente dell'evoluzione Vi è un episodio particolarmente significativo nella
storia delle idee evoluzionistiche del Novecento che bene si presta a
un’analisi che tenga conto della relazione di complementarità spesso
instauratasi fra una teoria biologica e un’interpretazione delle modalità
attraver- so le quali la scienza biologica stessa evolve. Si tratta della
«teoria de- gli equilibri punteggiati» proposta in un saggio del 1972 da due
gio- vani paleontologi dell’ American Museum of Natural History di New York,
Eldredge e Gould, che smosse le acque dell’evoluzionismo ri- maste calme per
decenni sotto la pressione del programma di ricer- ca scientifico detto
«Sintesi Moderna», definito da due filosofi della biologia come la nostra
visione di sfondo (the received view) dell'evoluzione (Sterelny, Griffiths,
1999). È bene ricordare che nella metà degli anni Sessanta era in corso una
piccola rivoluzione nella paleontologia americana, che passava da un’attenzione
totale alle correlazioni biostratigrafiche al servizio della geologia e
dell’industria petrolifera a un’attenzione per i pro- blemi biologici
dell’evoluzione, cioè estinzioni, diversificazioni del- la vita, pattern di
speciazione. Norman D. Newell, tutor di Eldred- ge e Gould, condusse questa
rivoluzione, pur appartenendo alla «vecchia guardia». 10 Il saggio dei due
paleontologi americani (G% equilibri punteggia- ti: un'alternativa al
gradualismo filetico) si apriva con un breve para- grafo dal titolo L’impronta
del piede fesso della teoria, in cui era pre- sa di mira quella «immacolata
osservazione» che si è soliti ritenere caratteristica del lavoro compilativo
attribuito allo stereotipo dello scienziato naturale, il nostro «collezionista
di francobolli» citato nell’introduzione. L'osservazione, infatti, appare già
in partenza ca- librata sulla conferma o smentita di una determinata ipotesi o
di un grappolo di ipotesi, nel tentativo di saggiare la resistenza di una pre-
cedente congettura generale. «L'osservazione innocente e non ten- denziosa è un
mito», scriveva Peter Medawar nel 1969. La conside- razione non è di per sé
originale, se solo pensiamo all’insistenza con cui Karl Popper sottolineava
l’embricatura dei fatti e delle teorie. Lo scienziato, nell’atto di raccontarsi
«in azione», oscilla, scrivono i due paleontologi nel 1972, fra i due estremi
di chi confessa la priorità del- le proprie concezioni rispetto alla
registrazione passiva dei dati, e chi attribuisce alla propria metodologia le
caratteristiche della più meti- colosa «induzione baconiana». Così fa, per
esempio, lo stesso Darwin in occasioni differenti: ligio induttivista nella sua
Autobio- grafia ufficiale; critico severo dell’«immacolata osservazione» in una
lettera privata a Harry Fawcett del 1861. Dunque, nemmeno i fossili parlano da
soli, sono impregnati di teoria. Il dato empirico è «colorato» da aspettative
teoriche, da im- magini influenti. Per Eldredge e Gould, che l'evoluzione fosse
un lento accumulo di miglioramenti apparve come una «colorazione» teorica molto
accesa nella storia naturale. Essi videro nel graduali- smo un tema
organizzatore dei dati scientifici, un’iconografia in- fluente, un apparato
euristico che predice fatti nuovi e presuppone oggetti ipotetici.
L’accostamento di storia delle idee e storia naturale ci fa notare che gli
autori stanno operando una sovrapposizione epistemologica originale.
Esordiscono con una dissertazione sulla natura della cono- scenza, cioè sul
modo in cui funziona, a loro avviso, il progresso scientifico. Proseguono con
un’enunciazione (inadeguatezza del gradualismo e teoria degli equilibri
punteggiati) sulla conoscenza del- la natura, cioè su una nuova interpretazione
paleontologica e biolo- gica dell’evoluzione delle specie, in particolare sul
ritmo di tale evo- luzione. Come notò lo stesso Gould molti anni dopo, la
teoria degli equilibri punteggiati nacque dalla congiunzione di un interesse
per le teorie evoluzionistiche (non scontato nella paleontologia dell’epo- 11
ca) con un interesse per la filosofia della scienza di Thomas Kuhn e Paul
Feyerabend. Gli evoluzionisti erano allora profondamente influenzati da
un'immagine che rappresentava il processo evolutivo come una suc- cessione
lenta, uniforme e ininterrotta di stadi in progressione. L’evo- luzione doveva
essere graduale e procedere come un moto uniforme, a velocità costante. Biologi
e paleontologi erano convinti che questa rappresentazione dell’evoluzione fosse
«oggettiva», cioè corrispon- desse fedelmente alla realtà della natura. La
documentazione fossi- le, in rapida crescita e affinamento, non sembrava
tuttavia confer- mare una progressione graduale e lenta dei caratteri.
Attestava vice- versa la presenza di forti discontinuità morfologiche in specie
simili appartenenti a epoche non lontane l’una dall’altra, la maggior fre-
quenza di sequenze spezzate e irregolari. Pertanto, alla luce della
«colorazione» teorica gradualista, la documentazione fossile doveva essere
inadeguata. La paleontologia non poteva essere una scienza affidabile, perché
non garantiva un quadro probatorio sufficiente. Dovendo scegliere tra
l’immagine dominante e la «dignità» episte- mologica di un campo di ricerca lo
stesso Darwin non ebbe dubbi: a costo di forzare i dati osservativi per farli
rientrare nello schema empirico del gradualismo, scelse la prima. Nemmeno
l’«orribile mistero» della comparsa improvvisa di tut- te le più comuni piante
superiori dotate di fiori, all’inizio del Creta- ceo (circa 150 milioni di anni
fa), incrinò la gabbia concettuale del gradualismo. Si sospese il giudizio in
attesa di dati più favorevoli o si ricorse a ipotesi riguardanti in qualche
modo i motivi della scarsa e lacunosa base empirica paleontologica. La
subitanea comparsa di una selva di organismi pluricellulari nel Cambriano
sarebbe dipesa, se vista con l’occhiale gradualista, dal fatto che prima di
quell’epoca i pluricellulari non avevano conchiglie o altre parti dure
rilevabili. Darwin fu consapevole della centralità di questo problema e lo
ammise in L'origine delle specie: le stratificazioni geologiche non ri- portano
tutti gli anelli intermedi che un’evoluzione «per piccoli pas- si
impercettibili» richiederebbe. La soluzione del problema doveva risiedere nella
documentazione imperfetta e lacunosa. Darwin legò la svalutazione della documentazione
paleontologica alla sopravviven- za della teoria nel suo complesso, a suo
avviso inseparabile da una con- siderazione gradualista della storia della vita
pena il consegnarsi nuo- vamente alle visioni antievoluzioniste dei
catastrofisti o alla rivincita dei creazionisti, che sull’assenza delle forme
intermedie fonderanno 12 gran parte dei loro attacchi alla teoria anche in
seguito. Dimostrare la realtà di «sequenze di fossili con gradazioni
insensibili» sarà proprio il nocciolo della vulgata evoluzionistica nel
Novecento. La teoria darwiniana subì, nei trent'anni a cavallo fra Ottocento e
Novecento, un autentico «assedio» teorico e sperimentale. L’ade- sione di
Darwin alla teoria dell’eredità mista, secondo la quale i ca- ratteri dei
genitori si mescolerebbero in parti uguali nella prole, ac- centuò le
difficoltà e nel 1867 Fleeming Jenkin dimostrò che l’ere- dità mista era
incompatibile con la selezione naturale. Le ricerche di Mendel sulla
trasmissione ereditaria erano state presentate alla So- cietà Naturalistica di
Brunn nel 1865, ma caddero nel vuoto. La prima interpretazione del lavoro di
Mendel, riscoperto nel 1900 da Hugo De Vries, Erich von Tschermak e Carl
Correns, si orientò in senso discontinuista per influenza del maggior genetista
del periodo, William Bateson. La più importante formulazione anti- darwiniana
dei meccanismi ereditari fu la «teoria della mutazione» di De Vries, secondo
cui l'evoluzione procederebbe per «salti» do- vuti a macromutazioni genetiche
su larga scala. I fattori dell’evolu- zione sarebbero cioè interni
all'individuo biologico, soggetto attivo della propria «ortogenesi», e
concernenti i grandi piani di organiz- zazione biologica: le specie
sorgerebbero di colpo, grazie a improv- vise macromutazioni genetiche ben
«orientate». Anche i genetisti Thomas Hunt Morgan, Thomas Willis e Otto
Heinrich Schindewolf accettarono teorie macromutazioniste. L’idea che
l'evoluzione fosse un processo di modellamento degli individui per opera della
selezione naturale, nel contesto di una co- stante pressione ambientale e a
partire dalle variazioni genetiche ca- suali, riconquistò un certo credito
soltanto dopo il 1910, rafforzan- dosi ulteriormente negli anni Trenta
all’interno di una «teoria sinte- tica» dell’evoluzione, interpretazione darwiniana
della trasforma- zione biologica saldata alle innovative ricerche della
genetica di po- polazioni, cioè lo studio statistico e matematico delle
variazioni nel- le frequenze geniche all’interno di una popolazione, fondato
dal ge- netista delle popolazioni Theodosius Dobzhansky. I rapporti di for- za
fra antigradualismo e gradualismo si rovesciarono così di nuovo, a favore del
secondo. La Sintesi Moderna o reodarwinismo proponeva una nuova ver- sione, più
sofisticata scientificamente ma forse più rigida sul piano epistemologico,
della teoria darwiniana, uniformando i quadri espli- cativi di tutte le scienze
del vivente. Così definita programmatica- 13 mente da Julian Huxley, fu
sostenuta per la paleontologia da George Gaylord Simpson (1944, 1953), per la
genetica da Dobzhansky (1937), Ronald Fischer e Sewall Wright, per la
tassonomia da Ernst Mayr (1942), per la biologia dello sviluppo da Gavin de
Beer, per la citologia da Michael J. D. White e per la botanica sistematica da
George L. Stebbins (1950). L’idea forte della Sintesi Moderna era che tutti i
cambiamenti os- servabili a livello macroscopico (cioè le grandi differenze fra
specie, generi e famiglie diverse di organismi) fossero riconducibili a picco-
le innovazioni accumulatesi a livello microscopico, cioè nel corredo genetico,
sotto la pressione costante della selezione naturale. Lo slo- gan della grande
Sintesi fu che «la macroevoluzione è totalmente ri- conducibile alla
microevoluzione». I genetisti di popolazioni capirono che le macromutazioni invoca-
te dai loro predecessori antidarwiniani erano in gran parte dei casi (fatta
qualche eccezione per alcune specie di piante) deleterie per gli organismi
portatori, perché scardinavano i loro sistemi di sviluppo. Qualsiasi fenomeno
evolutivo doveva essere il frutto di lente modifi- cazioni del corredo
genetico, indotte e fissate dalla selezione natura- le. Di conseguenza, ogni
proprietà che si osserva nella morfologia e nel comportamento degli organismi
viventi doveva essere un adatta- mento ottenuto per selezione naturale
attraverso lenti cambiamenti nelle frequenze geniche delle rispettive linee di
discendenza. Negli anni Sessanta Williams coniò iltermine gradualismo
«filetico» per de- finire il cambiamento lento e costante di un’intera specie.
In realtà, le linee di ricerca della Sintesi Moderna non rappre- sentarono mai
un paradigma scientifico monolitico. Al suo interno convivevano correnti di
pensiero piuttosto eterogenee. Certo, il gra- dualismo filetico era un
principio fondamentale per ogni buon evo- luzionista. Tuttavia, fin dagli
inizi, i teorici della Sintesi Moderna mostrarono alcune incertezze sulla
possibilità di far derivare tutti gli aspetti macroevolutivi da quelli
microevolutivi. Se per genetisti co- me Fischer non vi erano dubbi sulla legittimità
dell’assunto meto- dologico riduzionista, a naturalisti come Mayr e Bernard
Rensch questa conclusione sembrava affrettata e, soprattutto, inefficace nel-
lo spiegare i meccanismi effettivi di separazione fra le specie. Lo stes- so
Dobzhansky, autore nel 1937 di un testo fondatore dal titolo Ge- netics and the
Origin of Species, essendo sia un genetista sia un natu- ralista ebbe la
sensibilità di avvertire alcuni punti deboli del pro- gramma di ricerca
«neodarwinista». 14 Ciò che maggiormente lasciava perplessi i naturalisti era
la diffi- coltà di spiegare, attraverso la griglia interpretativa del
gradualismo filetico, i frequenti episodi di discontinuità presenti nella
documen- tazione fossile. Già nel 1942, quindi agli albori della Sintesi, Mayr
ipotizzò che all’origine della separazione fra le specie vi fossero cau- se non
soltanto genetiche, ma anche ambientali e geografiche. Se per i genetisti
l'evoluzione corrispondeva alla trasmissione del cambia- mento «in verticale»,
dal livello microevolutivo a quello macroevo- lutivo in ogni linea di
discendenza, per i naturalisti l'evoluzione era influenzata anche da
spostamenti «in orizzontale», cioè eventi di na- tura geografica che portavano
alla separazione fra specie. Due anni più tardi, nell’opera Terzpo and Mode in
Evolution, il paleontologo George Gaylord Simpson notò che in molti alberi evo-
lutivi, in particolare in quello dei mammiferi, non era sempre possi- bile
riscontrare una sequenza di forme intermedie che giustificasse il graduale
passaggio dalle specie ancestrali alle specie attuali. Per esempio il lasso di
tempo intercorso fra l’inizio della grande diffu- sione dei mammiferi (avvenuta
dopo l’estinzione dei dinosauri, in- torno a 65 milioni di anni fa) e l’apice
di massima diversificazione era troppo breve per permettere un’evoluzione lenta
e graduale. Simpson preferì seguire una strada diversa da quella della svalu-
tazione dei dati paleontologici: se non si trovavano gli anelli inter- medi era
perché il ritmo di diversificazione non era stato uniforme nel corso
dell’evoluzione. In alcuni frangenti, l’evoluzione produce rapidamente una
grande quantità di forme anche assai diverse (un fenomeno oggi definito
«radiazione adattativa»). Simpson, in altri termini, fu il primo a sospettare
che le discontinuità presenti nella documentazione fossile corrispondessero a
lacune reali e non fosse- ro imputabili alla cattiva conservazione dei reperti.
Non era soltan- to un problema di tafonomia, la disciplina che studia i
processi di fossilizzazione. Ma per comprendere la ragione di questo fenomeno
era necessario spostare l’asse interpretativo al livello delle popola- zioni di
organismi. 3.I molti modi di definire una specie Il nodo cruciale attorno cui
si svilupperà un'immagine alternativa dei ritmi del cambiamento organico sarà
proprio la spiegazione evo- lutiva dei processi di speciazione, sottovalutati
nella prospettiva del gradualismo neodarwiniano. Come ha notato Steven Stanley,
«E pa- 15 radossale il fatto che Darwin intitoli il suo libro L’origire delle
spe- cie, mentre in effetti aveva ben poco da dire sul modo in cui, effetti-
vamente, le specie si moltiplicano» (Stanley, 1981, trad. it., p. 60). Il
tentativo di fornire una spiegazione realistica della documentazione
paleontologica passa, in altri termini, attraverso il riesame dell’effet- tiva
«origine delle specie». Nel saggio del 1972 Eldredge e Gould operano
un'inversione teorica rispetto alla direzione indicata dall’argomentazione neo-
darwiniana: se le forme intermedie non vengono scovate nei fossili non è colpa
dei paleontologi; se non le si trova è perché semplice- mente sono molto rare.
La paleontologia sta dicendo la verità e il neodarwinismo è male indirizzato.
Se infatti la ricostruzione della storia filogenetica non presenta grosse difficoltà
per il programma neodarwiniano, non è così per la spiegazione del meccanismo
con cui si forma una nuova specie. La stessa definizione di cosa sia una specie
risulta problematica. L'affermazione darwiniana secondo cui la specie è un
termine arbitrario deriva proprio da una lettura del processo evolutivo in cui
l'opzione gradualista è prioritaria: se ogni specie «sfuma» in una sottospecie
discendente, attraverso un lungo itinerario di modificazioni impercettibili,
non si potrà fissare se non convenzionalmente una linea di demarcazione fra le
due. Quello di «specie» è per Darwin, «un nome dato per convenien- za a un
insieme di individui che si assomigliano fra loro» (Darwin, 1872, trad. it., p.
120), come peraltro il termine di «varietà». Per Lin- neo la specie era invece
il gruppo di organismi (fax0r) meno inclu- sivo di una gerarchia tassonomica
(ancora in uso) che prevedeva, al di sopra della specie, il genere, la
famiglia, l'ordine, la classe, il phy- lum e il regno. Questa organizzazione
dei taxa verrà utilizzata dai biologi sistematici per dare ordine all’albero
filogenetico di tutti gli esseri viventi. Ma l’abitudine a considerare
l’oggetto biologico «spe- cie» come una semplice etichetta per tassonomisti
sarà coltivata an- che dai genetisti di popolazioni, secondo i quali la vera
unità evolu- tiva andava scovata a livello del corredo genetico, lasciando le
diffe- renze di specie sullo sfondo in quanto riflessi automatici dell’infor-
mazione genetica. Per queste specie în dissolvenza non era essenziale lo studio
tipo- logico e morfologico, che invece avrà dagli anni Cinquanta in avan- ti
interessanti sviluppi. L’evento della speciazione è interpretato da Darwin
secondo due modalità prevalenti: 4) Evoluzione filetica: un'intera popolazione
si trasforma da uno stato a un altro e non vi è 16 aumento del numero
complessivo delle unità tassonomiche; ma co- sì la vita si estinguerebbe a
causa della staticità delle linee di discen- denza; 5) Speciazione: una linea
di discendenza si divide dalla popo- lazione principale (specie madre) e vi è
una diversificazione delle specie per divergenza, con conseguente aumento delle
unità tasso- nomiche. Darwin, pur concependo con chiarezza questa distinzione
(e in- tuendo l’importanza dell’isolamento geografico), continuò a privile-
giare il primo meccanismo di origine delle specie, più consono all'immagine
continuista dell'evoluzione (Mayr, 1959, trad. it., pp. 221-30). Nei casi in
cui trattò la speciazione come divisione insistet- te sull’idea che tale
differenziazione, prevalentemente «simpatrica», cioè senza modificazione
ambientale e geografica, dovesse rispetta- re le stesse caratteristiche
dell’evoluzione filetica graduale. Anche nel caso di speciazione vera e propria
vi sarebbe quindi una diver- genza graduale, interpretata poi nella Sintesi
Moderna come un ac- cumulo di modificazioni graduali: la specie principale
subirebbe una modificazione locale tale che una sottopopolazione isolata sfumi
in una nuova specie. Il meccanismo «variazionale» dell'evoluzione si applica
per Darwin solo a livello dei singoli organismi. Il modello darwiniano della
divergenza progressiva prevedeva un processo divisibile per gradazioni
infinitesime e con alcune caratteristiche: lentezza (la ve- locità della
trasformazione era ritenuta tendenzialmente bassa), pro- gressione (la
divergenza fra le forme biologiche è spinta da una co- stante pressione
selettiva che garantisce un crescente grado di adat- tamento degli individui),
continuità e «pienezza» (da una forma alla successiva dovremmo poter sempre
riscontrare una gradazione fine, quasi insensibile e senza interruzioni o
lacune evolutive), larga scala (la speciazione avviene prevalentemente
coinvolgendo l’intera po- polazione e per tutto l’ambito di distribuzione
geografica). Secondo Eldredge e Gould questo è il motivo per cui la paleon-
tologia fu accolta come una scienza zoppicante, imperfetta, respon- sabile
delle lacune che sembravano sussistere fra tempi biologici contigui. La Sintesi
negli anni Trenta e Quaranta del Novecento consoliderà questa lettura
«verticale» (speciazioni su larga scala det- tate dall’accumulo lento di
modificazioni genetiche) del cambia- mento evolutivo, saldando in un corpo
teorico unitario l’immagine darwiniana dell’evoluzione graduale e i risultati
della genetica di po- polazione. L’ipotesi di un’azione diretta della selezione
naturale sui 17 geni, poi ereditata dalla corrente neodarwinista dell’etologo
britan- nico Dawkins, fu espressa per la prima volta compiutamente da Wil-
liams nel 1966. Il gradualismo ottiene negli anni Trenta la corroborazione
scien- tifica definitiva e diventa «paradigma» ufficiale della scienza evolu-
tiva. L'immagine del gradualismo ritroverà a cinquant'anni di di- stanza gli
stessi presupposti teorici che gli aveva attribuito Darwin. I grandi scenari
della paleontologia verranno lasciati sullo sfondo e la realtà delle specie
come entità autonome negata. John B. S. Hal- dane, fra i più autorevoli
esponenti della Sintesi, nel 1956 scrisse: «Il concetto di specie è una
concessione fatta alle nostre abitudini lin- guistiche e ai nostri meccanismi
neurologici». Attraverso l’estrapo- lazione sistematica dell’evoluzione su
larga scala delle specie e dei gruppi dalla selezione operante sulle frequenze
geniche si pensò di aver trovato la «soluzione finale» al «problema
evoluzione», nono- stante le resistenze dei paleontologi e dei naturalisti.
Eldredge e Gould notarono nel 1972 la contraddizione di fondo fra un approccio
paleontologico all’idea di specie, cioè secondo il continuum temporale a lungo termine
(«paleospecie» o «cronospe- cie»), e un approccio biologico, per cui la specie
è vista come un’en- tità discreta dotata di un confine definito. Il loro
maestro Mayr, in- fatti, aveva scritto, al proposito, di «specie non
dimensionali» con- trapposte alle specie biologiche intese come unità naturali
reali, og- gettive e discrete (Mayr, 1942). Un modo alternativo di utilizzare
l’idea di specie, suggerirono Eldredge e Gould, poteva essere allora quello di
applicare i corollari teorici che derivavano dallo sviluppo degli studi sui
meccanismi di speciazione. Si trattava, in sostanza, di approfittare dei punti
deboli del gra- dualismo filetico, facendosi scudo con i risultati, interni
alla tradi- zione neodarwiniana, della cosiddetta «nuova sistematica»: la cor-
rente di biologi neodarwiniani che a partire dagli anni Quaranta si rifiutò di
considerare «risolto» il problema dell’evoluzione sotto il peso di
un’interpretazione pervasiva della biologia molecolare e che approfondì lo
studio delle dinamiche di speciazione. Ereditando la tradizione dei
tassonomisti ottocenteschi, la nuova sistematica si of- frì di rappresentare in
modo nuovo le relazioni di parentela fra le specie in chiave evoluzionistica,
valutando le disparità fra organismi e i diversi gradi di cambiamento evolutivo
intercorso fra le specie. Era la visione dell’evoluzione «in grande», su larga
scala. Il maggior esponente della nuova sistematica e il padre degli studi 18
sulla definizione biologica di «specie» fu proprio Mayr, che nel 1942 pubblicò
il suo testo di riferimento, Systemzatics and the Origin of Spe- cies from the
Viewpoint of a Zoologist (cfr. anche Mayr, Provine, a cu- ra di, 1980). Anche
se l’idea che la speciazione fosse in qualche modo connessa a popolazioni
periferiche era già stata sfiorata da Darwin nella sua discussione delle
varietà geografiche di specie isolane alle Galapagos, e nonostante la questione
fosse ben presente anche a Dobzhansky, soltanto nella prima metà degli anni
Sessanta del Nove- cento il tema del ritmo evolutivo e il tema della
diversificazione fra specie cominciarono ad avvicinarsi. Mayr notò che in molti
episodi della storia naturale, in occasione della nascita di una nuova specie,
si riscontrava un fenomeno peculiare, di natura geografica o climatica. Egli
intuì per primo, grazie ai suoi studi sugli uccelli della Nuova Gui- nea e del
Pacifico, che la speciazione, il cambiamento di ritmo nella trasformazione
delle specie e i fattori geografici macroevolutivi erano tre fenomeni
strettamente interconnessi. La novità introdotta dalle teorie della speciazione
consiste in al- cune acquisizioni: si ritiene fondamentale studiare la storia
delle spe- cie su scala macroevolutiva, cioè a livello della loro struttura
popo- lazionale; la selezione naturale interessa direttamente i fenotipi, e so-
lo derivatamente i genotipi; l'evoluzione non può essere intesa come la
trascrizione informatica di «bit» o input genetici; la specie non è un «tipo»
ideale linneiano né solo l’espressione di un’affinità morfo- logica fra
individui, bensì una comunità riproduttiva di individui che si incrociano fra
loro (un sistema riproduttivamente chiuso). Al punto quarto troviamo formulata
la roziore biologica di specie che sostituì la definizione morfologica
essenzialista di Linneo e quel- la nominalistica di Darwin: essa è centrata
sull’insieme delle relazio- ni riproduttive fra gli individui di una
popolazione. La specie è un sistema chiuso dal punto di vista riproduttivo e
l'appartenenza a una specie sarà data dall'assenza di incrocio con individui di
altre specie. La definizione morfologica, per cui l'appartenenza a una specie è
da- ta dal grado di differenza nella forma e nella struttura, è superata:
possono esistere s/bling species, specie gemelle, senza differenze morfologiche
ma isolate riproduttivamente, o viceversa specse politi- piche con evidenti
differenze morfologiche fra varietà interne e tut- tavia appartenenti alla
medesima comunità riproduttiva. La nozione biologica di specie, emersa nel
cuore delle ricerche della Sintesi, ebbe il merito di introdurre una
definizione di specie di tipo processuale e di fissare uno strumento di
parziale verifica 19 dell’effettiva separazione, l'assenza di incrocio. Le
descrizioni adot- tate all’epoca erano invece di tipo «fenetico», cioè basate
su qualche forma di somiglianza fra gli organismi. La specie era intesa come un
gruppo di organismi simili per qualche aspetto, morfologico o com-
portamentale, soltanto per una questione di comodità operativa. Ma i criteri di
similarità erano i più diversi e regnava una certa confu- sione, prima e dopo
la formulazione della teoria dell’evoluzione. Inoltre gli individui di una
specie tendono a essere diversi fra loro, per lo stadio di sviluppo e per il
genere. Alcune specie sono politi- piche e i loro membri variano
considerevolmente. Identificando la specie con il processo oggettivo che la
produce, questi problemi ven- nero aggirati. La specie divenne così un’entità
reale, non più un’eti- chetta da riempire con somiglianze di vario genere. Non
si può nascondere, tuttavia, che anche la nozione biologica di specie comporti
alcune difficoltà, non di poco conto. Le possibilità di incrocio fra individui
diminuiscono con una certa continuità ed è spes- so arbitrario fissare un
momento preciso di «speciazione». Il concet- to di isolamento riproduttivo non
è esente da imprecisioni (O’Hara, 1994). In alcuni casi l’assenza di incrocio
non implica la separazione di specie e, viceversa, due specie separate possono
occasionalmente ibridarsi, fenomeno molto frequente nelle piante. Le «specie ad
anel- lo», come alcuni gabbiani artici, sono catene di popolazioni vicine che
si dispongono a cerchio in un’ampia regione: ciascuna popolazione si ibrida con
le due vicine, ma due popolazioni separate da un certo nu- mero di passaggi non
si incrociano più qualora si incontrino. I due estremi dell’anello fanno parte
di un’unica popolazione separata in va- rietà co-specifiche che fra di loro non
hanno barriere riproduttive, ep- purenonsiincrociano: appartengono alla stessa
specie oppure no? Un vero rompicapo per la nozione biologica, senza contare che
essa non è applicabile per gli esseri viventi a riproduzione asessuata e
include molto difficilmente gli organismi unicellulari, come i batteri, che
scambiano e ricombinano il loro Dna fra specie e specie. 4. La speciazione
allopatrica Comunque sia, l’attenzione si sposta dall’idea generale di specie
al- le possibili teorie sul fenomeno particolare della speciazione, d’ora in
poi intesa come la realizzazione di un «isolamento riproduttivo». In questo
senso l’ipotesi esplicativa che ha conquistato i maggiori consensi fra i
biologi a partire dalla metà degli anni Sessanta è /a teo- 20 ria della
speciazione allopatrica di Mayr: una specie può formarsi in un contesto
geografico e ambientale differente da quello della spe- cie madre, in
particolare quando una piccola popolazione locale ri- mane isolata al margine
dell’ambito di distribuzione geografica del- la specie genitrice, costituendo
quello che viene definito un isolato periferico e sviluppando meccanismi di
isolamento capaci di impe- dire la riapertura del «flusso genico» fra la
popolazione isolata e la popolazione madre ancora attigua. La deriva genetica e
la selezione naturale operanti nelle due popolazioni le fanno divergere l’una
dall’altra e fanno evolvere meccanismi di isolamento intrinseco tali per cui,
quando i membri delle due popolazioni dovessero incon- trarsi, non si
incrocerebbero più. Sono nate due specie nuove, di- verse dalla specie madre.
Una simile concezione si distingue pertanto dalla teoria «simpa- trica» della
speciazione, che presuppone la condivisione del mede- simo habitat fra specie
madre e specie discendente. Qui un fattore estrinseco separa le popolazioni e
impedisce la migrazione per un certo periodo. Al pari di quanto già fece Darwin
un secolo prima, la maggioranza dei paleontologi, pur condividendo la teoria
allopatri- ca, considerava il fenomeno della speciazione come una trasforma-
zione uniforme di due linee di discendenza separate, e quindi come due casi
(anziché uno solo) di gradualismo filetico. Il fenomeno dell’isolamento
geografico di una o più popolazioni alla «periferia della specie», benché già
intuito da biologi e zoologi come Moritz Wagner e George J. Romanes, fu
considerato un fatto marginale. Naturalmente solo una piccola parte delle
popolazioni periferi- che produce effettivamente una specie nuova, ma quando
avviene un cambiamento evolutivo è probabile che sia dovuto alla rapida di-
vergenza a partire da piccole popolazioni isolate. La velocità del pro- cesso
di separazione è inversamente proporzionale alle dimensioni della popolazione
coinvolta e questo potrebbe spiegare le accelera- zioni evolutive rimarcate da
Simpson: pur essendo un meccanismo fedelmente darwiniano di accumulo continuo
di mutazioni geneti- che sotto l’effetto della selezione naturale, la velocità
relativa dell’evento di speciazione può variare in base al numero di individui
coinvolti nella deriva. Mayr, insieme a Dobzhansky, capì che il con- tinuismo
di Darwin, a livello degli organismi, era compatibile con ra- pidi cambiamenti
a livello di popolazioni: l’azione della selezione è lenta e cumulativa, ma la
speciazione può essere brusca. Eldredge e Gould a loro volta intuirono che la
speciazione allo- 21 patrica poteva portare alla costruzione di un modello di
inquadra- mento più fedele dei dati paleontologici. In particolare: le colonne
locali di fossili in sequenza non erano più l’esempio preferibile di do-
cumentazione paleontologica: se le specie non si originano nel luo- go in cui
vivono i loro antenati, è difficile ricostruire una discenden- za soffermandosi
sui dati relativi a uno stesso luogo; la specie di- scendente presenterà tratti
morfologici differenziati rispetto alla specie madre con grande velocità,
poiché la piccola popolazione «al- la deriva» si adatta rapidamente alle nuove
condizioni ambientali; quando la speciazione è avvenuta e la specie discendente
si è acco- modata alle nuove condizioni locali, le differenziazioni ulteriori
sa- ranno, al contrario, di scarsa entità. Poiché la speciazione ha luogo
rapidamente in piccole popola- zioni su piccoli areali, il momento esatto della
speciazione sarà diffi- cilmente individuabile nelle testimonianze fossili, una
caratteristica che non mancherà di suscitare critiche negli oppositori di tale
im- postazione, ma che può giustificare la difficoltà di reperimento dei
fossili di transizione fra le specie. È tuttavia significativo che anche i
sostenitori dell’allopatria siano costretti a rifarsi all’incompletezza della
documentazione paleontologica per affermare che ancora po- co sappiamo di ciò
che avviene esattamente nei rapidi intervalli di mutamento. Inoltre, non è
chiaro se sia sufficiente la presenza delle barriere estrinseche per parlare di
speciazione (versione debole) o se sia necessario attendere che si siano
prodotti i meccanismi intrinse- ci di isolamento (versione forte). Il modello
suggerito da una teoria allopatrica della speciazione tende in generale a
privilegiare la geografia e le condizioni ecologi- che come fattori evolutivi.
Inoltre, introduce la possibilità di consi- derare la coesistenza di due ritmi
evolutivi differenti: il «ritmo blan- do» della stasi della specie genitrice e
il «ritmo accelerato» di ac- comodamento a un nuovo microambiente da parte
della specie di- scendente. Ma soprattutto, andando nella direzione opposta ri-
spetto al gradualismo, in base alla teoria della speciazione allopa- trica le
discontinuità di ritmo riscontrate nelle testimonianze fossi- li sono reali e
prevedibili; non sono più una fastidiosa anomalia di paradigma. La speciazione
è un processo ecologico, geografico e sporadico. La paleontologia, liberata dal
gravoso impegno cui era stata vincolata dal neodarwinismo, aveva l'occasione di
non essere più una scienza imperfetta: la sua «base empirica» rispecchia ciò 22
che effettivamente è accaduto nei contesti temporali e geografici esaminati.
Grazie al contributo di Mayr il ribaltamento della concezione dell’oggetto
«specie biologica» fu completo. Sia Jean-Baptiste La- marck che Darwin, pur essendo
catalogatori che hanno dato un no- me a centinaia di specie, diluirono il
concetto di specie nel flusso ininterrotto delle forme naturali, fino a negarne
una sostanza reale. Le teorie del meccanismo di speciazione consolidavano ora,
dopo decenni di controversie, l’idea secondo cui le specie sono unità rea- li
della natura, riconosciute peraltro da tutti i popoli della Terra. Il mondo
naturale appare effettivamente diviso in gruppi discreti di creature, con una
durata media nel tempo geologico che va dai cin- que ai dieci milioni di anni e
con una norma, la stabilità, «punteg- giata» da eccezioni, le filiazioni di
nuove specie. Gli esseri viventi so- no suddivisi in grappoli di specie,
distinte da confini in qualche mo- do definiti, eppure si evolvono l’una
nell’altra senza interruzioni dell’azione della selezione naturale: qui sta il
nocciolo della spiega- zione evoluzionistica. Quella di Mayr è un’idea
dell’evoluzione che non mette in di- scussione le basi biologiche della
selezione naturale, ma integra la spiegazione della speciazione nei suoi
aspetti costitutivamente eco- logici e geografici, la cui conseguenza diretta è
la presenza di più rit- mi evolutivi come possibilità effettiva di
ricostruzione delle sequen- ze fossili. In tal senso, la teoria della
speciazione allopatrica è una di- retta discendenza di quel persiero
popolazionale, centrato sulla di- versità all’interno delle popolazioni di
organismi, inaugurato da Darwin in contrapposizione all’essenzialismo
pre-evoluzionistico. In effetti, la fede nel gradualismo filetico mostrava sul
finire de- gli anni Sessanta alcuni segni di debolezza. In pochi anni l’approc-
cio gradualista vide emergere uno stile interpretativo alternativo, certo non
meno soggetto a un suo «filtro teorico» opposto, in taluni casi fuorviante. In
questo come in molti altri casi evoluzionistici, il ricorso a experimenta
crucis inappellabili non è sufficiente per sanci- re la superiorità di una
delle due immagini. Semplicemente, l’idea di un processo allopatrico non
graduale era in accordo con la spiega- zione dell’evento della speciazione
comunemente inteso dagli evo- luzionisti. La forza della loro argomentazione
sembrava risiedere in una strategia sofisticata di critica dall’interno: non si
trattava di con- trapporre dall’esterno al gradualismo filetico un'immagine
radical- mente alternativa dell'evoluzione, chiudendosi nel vicolo cieco di 23
una dialettica sterile fra continuismo e discontinuismo evolutivo (spesso
tratteggiata in questo modo nella letteratura divulgativa), bensì di estendere
coerentemente la teoria della speciazione allopa- trica accettata dalla
comunità scientifica all'evoluzione naturale nel suo insieme. La messa in
discussione della teoria rivale si giocò quin- di sulla diversa interpretazione
delle conseguenze dimostrative di una teoria accettata da entrambi i
«contendenti», di una terza teoria «di sfondo», a sua volta legata a un
paradigma scientifico suscettibi- le di modificazioni. La speciazione
allopatrica, presa nella sua formulazione condivi- sa dalla comunità
scientifica, si dimostrò convincente nell’interpreta- re l'evoluzione degli
esseri viventi. Ciò vale per casi noti come quello dei cavalli, la cui linea
evolutiva verso grandi denti e un solo dito sem- bra, grazie allo studio di
Simpson del 1951, più un cespuglio ramifi- cato che una scala, ma anche per
molte altre storie filogenetiche. Va- le anche per due casi sperimentali
presentati direttamente dai due pa- leontologi americani: la diversificazione
delle lumache delle Bermu- da studiate da Gould e l’analisi, centrata sullo
studio della morfologia oculare, della storia filogenetica di un trilobite del
Devoniano medio dell’ America Settentrionale ad opera di Eldredge. 5. La teoria
degli equilibri punteggiati Nell’ultima parte della loro memoria del 1972,
Eldredge e Gould pro- posero un'estensione delle due immagini dell’origine
delle specie al- la macroevoluzione, cioè all'analisi del processo evolutivo
della vita considerato su scala generale. Il sistema genealogico tradizionale
era rappresentato da un albero, in cui da un tronco principale si divido- no
gradualmente i rami principali, i rami secondari e poi alcune dira- mazioni
senza esito di contro ad altre dominanti, in un processo uniforme di
proliferazione per divergenza. L’estrapolazione dell’im- magine alternativa
introdusse un modello di macroevoluzione carat- terizzato invece da lunghi
periodi di stasi (calcolati mediamente dai cinque agli undici milioni di anni)
punteggiati da rapidi eventi di spe- ciazione in sottopopolazioni isolate (Eldredge,
Gould, 1972, trad. it., p. 254). Queste accelerazioni evolutive per separazione
allopatrica, dovuta a migrazione o frapposizione di una barriera riproduttiva,
hanno una durata media di cinquantamila-centodiecimila anni, pochi «attimi» su
scala geologica. Le specie sono dunque entità discrete non solo nello spazio,
come avevano intuito Dobzhansky e Mayr, ma an- 24 che nel tempo. Nasce qui
l’idea di «equilibrio punteggiato» come me- tafora per rappresentare la vita
delle specie biologiche. Non è un caso che i due paleontologi spostino la
trattazione in chiusura sulla «macroevoluzione». È proprio dalla distinzione
in- trodotta da Richard Goldschmidt nel 1940 fra «microevoluzione», il
cambiamento delle frequenze geniche nelle popolazioni, e «macroe- voluzione»
che nacque il filone di ricerca della nuova sistematica di Mayr, da cui
prendono le mosse i due paleontologi. La considera- zione dei fenomeni
macroevolutivi (speciazioni, estinzioni, vita dei phyla), parzialmente
disattesa nella tradizione neodarwiniana, ottie- ne qui il suo risarcimento: le
entità macroevolutive sono riconosciu- te come autonome e decisive per
l’evoluzione. Un'estrapolazione classica del gradualismo filetico alla macroe-
voluzione è data dal riscontro, all’interno di lunghe serie di rilievi
stratigrafici relativi a intere famiglie, delle cosiddette «tendenze» (trend),
ovvero lunghe sequenze di cambiamenti graduali e direzio- nati. Dall’escalation
delle conchiglie marine alla crescita delle di- mensioni del cervello nel
genere Horzo, tali tendenze sono diffuse in paleontologia e sembrano avvalorare
una lettura continuista della macroevoluzione. Di recente, il biologo Leigh Van
Valen ha mo- strato il rilievo sperimentale che le speciazioni graduali
mantengono in molte linee di discendenza. Se tuttavia si accetta di esse una
defi- nizione statistica (intendendole, come propone il paleontologo H.J.
MacGillavry, come direzioni prevalenti che coinvolgono la maggio- ranza delle
linee di discendenza imparentate) e si considera che gli adattamenti a
condizioni locali periferiche da parte di una sottopo- polazione sono un
fenomeno indipendente rispetto alla direzione complessiva a lungo termine, le
due nozioni di «tendenza» e di «spe- ciazione allopatrica» potrebbero non
essere più incompatibili. È sufficiente riferirsi alla «maggioranza» delle
linee evolutive, ma non a tutte, e accettare che alcune linee laterali si
sottraggano alla dire- zione complessiva e al suo ritmo graduale: anche in
questa situazione gli equilibri punteggiati si candidano a interpretare la
documentazione fossile, conciliando l’esistenza di fenomeni «punteggiati» con
quella di tendenze uniformi a lungo termine. In pratica, la sopravvivenza
diffe- renziale delle specie che si ramificano può dare l’effetto di uno
sposta- mento graduale del fenotipo in una certa direzione. Possiamo notare
quindi come Eldredge e Gould non escludano pregiudizialmente la possibilità che
in natura si verifichino processi evolutivi graduali, ma li spieghino in
termini popolazionali anziché filetici. Il punto sta nel ca- 25 pire quale peso
abbiano queste tendenze omogenee nella formazione della diversità e della
ricchezza del biota terrestre. Nei testi successivi i due paleontologi, con
l’aiuto della collega Elisabeth Vrba, individue- ranno nella «cernita di
specie» (specses sorting) la causa dei trends evo- lutivi, aprendo un
importante dibattito sulle unità di selezione. Speciazione allopatrica ed
equilibri punteggiati sono dunque fu- si in una visione coerente del processo
evolutivo. La speciazione al- lopatrica è rappresentabile come un insieme di
«sperimentazioni» o «esplorazioni», cioè invasioni di nuovi ambienti a opera di
isolati pe- riferici. In queste invasioni non vi è nulla di intrinsecamente
dire- zionale da un punto di vista adattativo, tuttavia, un sottoinsieme di
questi nuovi microambienti potrebbe, nel contesto della costituzio- ne genetica
ereditaria di una certa linea di discendenza, essere fonte di un'efficienza
biologica maggiore per la sottopopolazione «in esplorazione»; la singolarità
del corredo genetico dell’isolato perife- rico, sottratto al «magma» genetico
omogeneizzante della specie an- tenata, diventa allora determinante e si
verifica una biforcazione. La popolazione in questione si adatta alle nuove
condizioni e la specia- zione segue «rapidamente» (su scala temporale
geologica) il suo cor- so. Il quadro complessivo sarebbe dunque quello di un
cambiamen- to apparentemente direzionale, ma le cui variazioni iniziali sono in
realtà contingenti rispetto al cambiamento visto nella sua interezza. Da ciò si
evince chiaramente che nella teoria degli equilibri pun- teggiati non è
postulato alcun nuovo tipo di selezione naturale né è messo in discussione il
cuore della teoria dell'evoluzione darwinia- na. L’idea centrale è piuttosto che
la trasformazione morfologica possa originarsi da un cambiamento delle regole
ecologiche di so- pravvivenza. L'adattamento è concepito come un processo non
di- rezionale di accomodamento specifico a condizioni ecologiche loca- li. La
macroevoluzione non è completamente riducibile alla microe- voluzione, poiché
fattori genetici «verticali» si integrano a fattori ecologici e geografici
«orizzontali». 6. Il problema della stabilità In realtà, ciò che maggiormente
scosse la comunità scientifica non fu tanto l'assunzione che la speciazione
avvenisse in tempi rapidi, quan- to il corrispettivo della sostanziale
stabilità che caratterizzerebbe buona parte del resto della vita delle specie.
La stabilità, più che la speciazione improvvisa, divenne la pietra dello scandalo
per una vi- 26 sione gradualista dell'evoluzione. L'esistenza di momenti
cruciali di sviluppo accelerato è un problema minore per un approccio gra-
dualista: basta ipotizzare un aumento improvviso della pressione se- lettiva e
un’accelerazione del ritmo. Se i «tempi» dell’evoluzione po- tevano cambiare, i
«modi» restavano gli stessi: alla base vi era co- munque una trasformazione
continuativa di tipo verticale, dettata dalla pressione adattativa della
selezione naturale. Ben presto si comprese però che la supposta «selezione
norma- lizzante» non poteva essere la causa convenzionale di tutte le evi-
denze di stasi nella storia naturale, né lo poteva essere l’adattamen- to
ottimale a una nicchia, poiché spesso si notano specie che riman- gono stabili
pur al mutare dell'ambiente. Secondo la versione soste- nuta da Mayr nel 1963,
le ragioni della stabilità morfologica delle specie andavano invece ricercate
nell’intensa attività di scambio ge- nico che caratterizza una specie: il
flusso genico avrebbe una fun- zione di bilanciamento delle diversità
morfologiche dovute ad adat- tamenti locali. Solo la completa separazione
geografica spezzerebbe l'influenza di questo flusso rimescolatore, consentendo
alle diversità morfologiche progressive di sortire l’effetto dovuto, cioè
creare da una sottopopolazione periferica isolata una nuova specie autonoma
(biospecie). Dal 1969 si è tuttavia cominciato a dubitare della forza
livellante e stabilizzante del flusso genico: la coerenza di una specie non sa-
rebbe dovuta principalmente alle interazioni fra i membri dei grup- pi, bensì
all’origine storica della specie stessa. Durante il processo di speciazione la
nuova popolazione svilupperebbe alcune caratteristi- che comuni di resistenza
al cambiamento. Le specie, come gli indi- vidui, sarebbero cioè sistemi
omeostatici in grado di respingere e an- nullare gli effetti perturbatori
dell'ambiente. In questo caso la spe- ciazione allopatrica sarebbe efficace (e
rapidamente) in virtù della crescita improvvisa della pressione selettiva
dovuta a un ambiente estraneo e dell’isolamento di una popolazione piccola: la
concomi- tanza di queste due forze sarebbe capace di spezzare l’effetto rego-
latore dell’omeostasi, determinando la «rivoluzione genetica» del nuovo
«equilibrio punteggiato». Le specie avrebbero una stabilità intrinseca molto
più forte del previsto, dovuta non alle semplici interazioni fra individui, ma
ad al- cuni meccanismi specifici di autoregolazione, originatisi in conco-
mitanza con il processo stesso di speciazione. In definitiva, la specie sarebbe
un'entità storica autonoma: nasce, si stabilizza, resiste alle 27
perturbazioni, muore. Secondo i filosofi della biologia David Hull e Michael
Ghiselin una specie può essere equiparata a un individuo biologico di secondo livello,
a un sovrasistema integrato e in conti- nua evoluzione in virtù della
sostituzione di elementi a partire dalla periferia, come per le cellule del
corpo umano (Hull, 1978; Ghise- lin, 1969, 1974). Il valore di sopravvivenza
dell’«individuo-specie» sarà allora dato dalla sua coerenza autorganizzativa,
dalla sua stabi- lità all’interno di contesti in costante trasformazione. La
sua identità non risiede in proprietà né fenotipiche né genotipiche, ma
storiche e relazionali. Tale spiegazione, secondo Mayr, deriva da una visione
non ato- mistica ma sistemica del genoma (intuita da Richard Goldschmidt, ma
introdotta più precisamente da Sergei Chetverikov nel 1926), in cui i geni
funzionano per pool fortemente integrati. Solo così si può ipotizzare che
esistano forze epistatiche che stabilizzano il genoma attraverso interazioni
che fungono da vincolo a successivi cambia- menti. La coesione del genotipo è
dunque fondamentale per una spiegazione macroevolutiva delle speciazioni
centrata su periodi di stabilità e periodi di rapida riorganizzazione. Non vi
sarebbe alcuna contraddizione con il darwinismo in questa ipotesi, perché la
coe- sione genetica stessa può essere il frutto della selezione naturale. In
tale contesto trova i suoi limiti l'affermazione di Eldredge e Gould, che fece
scoppiare la polemica con John Maynard Smith nel 1987 su Nature, secondo cui
«per una specie, o più in generale per una comunità, la norma è la stabilità»
(Eldredge, Gould, 1972, trad. it., p. 260), e non un processo di sviluppo ininterrotto,
idea che ge- nererà molti fraintendimenti e anche l’accusa di voler prestare
argo- menti agli avversari della teoria dell’evoluzione. Le specie resistono al
cambiamento attraverso meccanismi di autoregolazione, e non so- lo per
adattamenti locali. La speciazione è un evento raro che pun- teggia un sistema
caratterizzato da un equilibrio omeostatico, è cioè un'innovazione episodica
che pure ha dato vita a una diversità straordinaria di forme di vita presenti
ed estinte. L’ammonimento di Huxley, riletto alla luce della teoria degli
equilibri punteggiati, si ri- vela corretto: i normali processi darwiniani,
grazie alla teoria della speciazione allopatrica, possono funzionare
perfettamente nel modo mostrato dalla documentazione fossile, a patto di
rinunciare all’as- sunto gradualista. I fattori che determinano la spiccata
stabilità delle specie riman- gono, a dire il vero, ancora parzialmente oscuri.
Mantiene un suo in- 28 teresse l’ipotesi dell’«equilibrio mobile» di Sewall
Wright, per cui la stasi sarebbe un effetto statistico delle fluttuazioni
casuali e dei bi- lanciamenti fra le popolazioni semi-isolate che compongono le
spe- cie. Oppure durante la speciazione le forze di coesione omeostatica del
genoma, che avevano garantito la lunga immobilità della specie, si allentano e
avviene una riorganizzazione genetica complessiva, probabilmente governata dai
geni regolatori e borzeobox (Mayr, 1970, 2001). Eldredge preferisce invece
attribuire la stabilità delle specie al più semplice meccanismo ecologico di spostamento
geo- grafico da un habitat all’altro (habitat tracking o «ipotesi dell’inse-
guimento dell’habitat»): le specie, anziché adattarsi a una nicchia ecologica
in trasformazione, rincorrono gli habitat a loro più conge- niali, evitando
così di modificare la loro morfologia. È pur vero che alcune specie potrebbero
mostrare una stasi solo apparente, al di sot- to della quale un cambiamento
genetico graduale si accumula senza esibire conseguenze fenotipiche e
morfologiche (questa era peraltro l’idea continuista di Hull e Ghiselin). Solo
la paleontologia può ri- spondere, ma conosce tutto sommato soltanto una
piccola percen- tuale degli organismi viventi. Inoltre, ha fatto notare Mayr
nel 1992, le caratteristiche di un organismo possono variare in modo spaiato e
con tassi di mutamento diversificati: alcune strutture possono esse- re
incredibilmente stabili, altre mutare gradualmente. Certamente, la stasi è il
dato più scomodo per la teoria convenzionale, perché si può sempre affermare
che dopo l’equilibrio punteggiato la natura ri- mane comunque immersa in un
flusso continuo di cambiamento e invece la stasi è molto evidente nella
documentazione fossile. Alcuni ritrovamenti hanno confermato l’esistenza di
equilibri punteggiati, nonostante l’oggettiva difficoltà di «centrare» un tale
evento nella stratigrafia. Ma la stasi è ben più documentata: oggi si conoscono
molti casi di «specie fossili» che all’inizio della loro vita sono uguali a
come saranno alla fine, milioni di anni dopo, o a come sono oggi. Alcuni taxa redivivi
(i cosiddetti Lazarus taxa), come il ce- lacanto dell'Oceano Indiano
considerato estinto dal Giurassico, so- no addirittura «riapparsi» nel loro
habitat naturale con una morfo- logia pressoché identica a quella fossile.
Secondo Gould, la stabiliz- zazione della selezione può avvenire fra organismi
selezionati, ma non su specie per milioni di anni. A volte l’ambiente cambia
profon- damente, ma le specie restano stabili. La stasi sembra davvero un fe-
nomeno generale, non limitato ad alcune linee di discendenza: una conclusione
accettata di recente anche da Maynard Smith. 29 Un'ipotesi è che la stabilità
non sia passiva, cioè il risultato della soppressione di una naturale
propensione al cambiamento che ri- mane latente, piuttosto una tendenza attiva
degli organismi, che pre- vengono così il cambiamento attraverso meccanismi di
coerenza ge- netica e di coerenza di sviluppo, fenomeni compatibili con la
teoria darwiniana ma in grado di limitare le capacità performative della se-
lezione. Oppure la stabilità potrebbe essere un effetto della struttu- ra
popolazionale della specie, un equilibrio mobile inteso come pro- prietà
emergente o «comportamento collettivo» a livello di specie. 7. Antidarwinismo,
neodarwinismo e darwinismi attuali La critica del gradualismo filetico e
l'irruzione nel pensiero evoluti- vo della difformità di ritmo sanciscono per
molti aspetti il compi- mento della rivoluzione darwiniana: l’estasiante «plaga
lussureg- giante» del grande naturalista inglese è l’espressione compiuta dei
meccanismi di speciazione e di codeterminazione fra fattori genetici e fattori
ecologici. Eppure questa operazione di revisione del gra- dualismo e di
estensione della teoria darwiniana venne spesso frain- tesa come un rifiuto
della teoria del fondatore. Eldredge e Gould do- vettero spendere molte energie
per dimostrare il contrario e per ri- gettare l'accusa di essere
«antidarwiniani». Essi ribadirono che in di- scussione erano alcuni
«indurimenti» del programma di ricerca neo- darwiniano. L'obiettivo polemico
era il gradualismo filetico della Sintesi, generalizzato impropriamente a
partire da una sola delle molteplici «teorie» contenute nell’opera di Darwin.
Non erano in di- scussione il «nucleo» del programma darwiniano e la sua logica
profonda, che gode attualmente di una «salute» scientifica propor- zionale alla
sua originaria flessibilità. Gould marcò sempre chiaramente la differenza fra
il suo «plura- lismo evolutivo», inteso come un’estensione del darwinismo e non
come una sua confutazione, e le teorie apertamente antidarwiniane come quelle
di Richard Goldschmidt e di D’Arcy Thompson, mae- stri «eretici» a cui Gould si
è pur tuttavia rivolto con gratitudine per le intuizioni che seppero seminare
nel dibattito evoluzionistico no- nostante il loro erroneo rifiuto della teoria
dell’evoluzione darwinia- na (Gould, 2002). L'atteggiamento di Gould fu sempre
quello di chi «non poteva non dirsi darwiniano». E bene pertanto precisare che
per antidarwinismo si intende oggi una posizione che rifiuta la logi- ca fondamentale
della teoria dell'evoluzione (mutazione e selezione 30 naturale, per
intenderci); per reodarwinismo si intende la vulgata della teoria
dell’evoluzione codificata nella prima metà del Nove- cento dalla Sintesi
Moderna, rispetto alla quale esistono oggi atteg- giamenti diversi di riforma
che vanno dal darwinismo selezionista di stampo riduzionista a varie forme di
darwinismo pluralista, fra le quali quella di Eldredge e Gould. Le
sfaccettature delle polemiche contemporanee, duelli comunque all’ombra di
Darwin e in gran par- te dei casi coerenti anche con le basi generali del
neodarwinismo, so- no talmente sottili da rendere inopportuni termini derivanti
da reci- proche caricature, come «ultradarwinismo» e «postdarwinismo». Il
nocciolo del dibattito è l’incidenza maggiore o minore del gra- dualismo e del
«puntuazionismo» nella spiegazione dell’attuale e passata diversità naturale,
non un problema di incompatibilità. La realtà degli equilibri punteggiati non è
messa in discussione, po- trebbe esserlo invece la sua effettiva incidenza
sulla creazione di va- rietà e novità in natura. Così pure, dal fronte opposto,
per il gra- dualismo filetico. Negli anni successivi alla memoria del 1972, si
cominciò a discu- tere non più di due modalità di speciazione ma di almeno
quattro, accomunate dalla rapidità del fenomeno e dal fatto di interessare po-
polazioni minuscole: allopatrica, simpatrica (nicchie ecologiche in una stessa
area), parapatrica (separazione geografica con aree di con- tatto e di
ibridazione), speciazione per ricombinazione strutturale del patrimonio
cromosomico (speciazione cromosomica). Nel 1978 Michael J. D. White, della
Australian National University, pubblicò una rassegna dei «modi delle
speciazione», affinando l’analisi dei di- versi meccanismi di speciazioni
allopatriche e simpatriche, miste o «semigeografiche», di speciazioni per
effetto specie-area, di specia- zione per poliploidia, di speciazione
asessuata. Oggi sappiamo che la speciazione peripatrica può avvenire non
soltanto in un isolato pe- riferico, ma anche in una popolazione che passa in
un collo di botti- glia (bottleneck): qualcosa di simile deve essere avvenuto
per esem- pio nelle popolazioni ominidi durante le glaciazioni del Pleistocene.
Anche la selezione sessuale in una popolazione isolata può creare differenze
genetiche sufficienti a separare una specie dall’altra. Se- condo Hugh
Paterson, è possibile rideclinare la nozione biologica di specie valorizzando
il ruolo speciativo dei sistemi di riconoscimento fra partner: se la struttura
popolazionale di una specie è frammenta- ta, è possibile che i sistemi
specifici di riconoscimento e di accoppia- mento di una popolazione comincino a
essere molto diversi da quelli 31 delle popolazioni vicine. La selezione
naturale tenderà a farli diver- gere per rinforzo fino al punto in cui
l'incapacità di accoppiarsi gene- rerà barriere riproduttive fra le popolazioni
(recognition concept of species). Dunque, i biologi evoluzionisti ora accettano
la possibilità di speciazioni, relative a popolazioni ben definite, anche
all’interno del- la zona abitata dal ceppo dominante e non è necessario
postulare la formazione di barriere riproduttive rigide perché si verifichi la
spe- ciazione. Come per un'improvvisa ricodificazione informatica, i capitoli, le
pagine, le righe scomparse dal grande volume della paleontologia (la metafora
più efficace scovata da Lyell e ripresa da Darwin per spie- gare le lacune
della documentazione paleontologica) furono resti- tuite alla lettura. Non era
più necessario considerare misteri inson- dabili la comparsa delle angiosperme
nel Cretaceo o l'esplosione dei pluricellulari. Come aveva previsto la filosofa
della biologia Marjo- rie Grene, grazie al pattern degli equilibri punteggiati
queste grandi soglie di innovazione evolutiva potevano essere ricostruite più
fe- delmente, offrendo alla teoria dell’evoluzione un grado maggiore di
«realismo» e restituendo alla paleontologia piena dignità nella co- munità
scientifica evoluzionista. Ma l’affermazione della teoria non fu accolta
unanimemente. Una lunga fase di accese discussioni era appena cominciata. COSA
LEGGERE... La migliore introduzione alla filosofia della biologia è a nostro
avviso K. STERELNY, P.E. GRIFFITHS, Sex and Death. An Introduction to Philosophy of Biology, University
of Chicago Press, Chicago 1999. Di eguale rilievo è la dettagliata ed
equilibrata ricostruzione del darwinismo proposta da D.J.DEPEW, B.H. WEBER,
Darwinism Evolving: System Dynamics and the Genealogy of Natural Selection, MIT
Press, Cambridge (Mass.) 1997. Punti di riferimento fondamentali per la
disciplina sono M. RUSE, Fi/o- sofia della biologia, Il Mulino, Bologna 1976
(ed. or. 1973) ed E. SOBER, Philosophy of Biology, Westview Press, Boulder
(Col.) 1993, ma anche una serie di raccolte: E. SOBER (a cura di), Corceptual
Issues in Evolution- ary Biology, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1984; E.
Fox-KELLER, E.A. LLOYD (a cura di), Keywords in Evolutionary Biology, Harvard
University Press, Cambridge (Mass.) 1992; M. RuSE (a cura di), Philosophy of
Biol- 0gy; Prometheus Books, New York 1998; e soprattutto D.L. HuLL, M. 32 RusE
(a cura di), The Philosophy of Biology, Oxford University Press, Oxford-New
York 1998. Nel nostro paese un buon saggio introduttivo alla filosofia della
bio- logia pubblicato di recente è G. BonIoLo, Filosofia della biologia: che
cos’è?, in L. FLORIDI (a cura di), Linee di ricerca, “SWIF-Sito web italia- no
per la filosofia”, 2003, pp. 350-93 (http://www.swif.it/biblioteca/pu-
blic/lr/boniolo-1.0.pdf). Nella letteratura di settore italiana, fra gli altri,
segnaliamo: M. BUIATTI, Lo stato vivente della materia, UTET, Torino 2000; B.
CONTINENZA, E. GAGLIASSO, Giochi aperti in biologia, Franco Angeli, Milano
1996; G. CORBELLINI, Le grarzzzatiche del vivente, Later- za, Roma-Bari 1998;
E. GAGLIASSO, Verso un’epistemologia del mondo vi- vente, Guerini, Milano 2001.
Un’introduzione esemplare alla teoria dell'evoluzione darwiniana e alla
rivoluzione concettuale che ne è seguita è E. MAYR, Ur lungo ra- gionamento.
Genesi e sviluppo del pensiero darwiniano, Bollati Borin- ghieri, Torino 1994
(ed. or. 1991). Più recente, dello stesso autore e al- trettanto efficace: What
Evolution Is, Basic Books, New York 2001. Dif- ficilmente è possibile trovare
un’esposizione dell’intero corpus teorico dell’evoluzionismo più completa di
quella proposta da MARK RIDLEY, Evolution, Blackwell Scientific, Cambridge
(Mass.) 1993. «Cento anni senza Darwin sono abbastanza» è lo slogan di un’altra
fondamentale opera di introduzione al darwinismo: GEORGE GAYLORD SIMPSON, Una
visione del mondo, Sansoni, Firenze 1972 (ed. or. 1960-1964); da legge- re
insieme a M. GHISELIN, I/ trionfo del metodo darwiniano, Il Mulino, Bologna 1981
(ed. or. 1969); S. JONES, A/zz0st Like a Whale, Random House, London 1999; P.
TORT, Darwin et la science de l’évolution, Gal- limard, Paris 2000. Per una
visione d’insieme della storia del pensiero biologico, con par- ticolare
attenzione agli sviluppi epistemologici: E. MAYR, Storia del pen- siero
biologico. Diversità, evoluzione, eredità, Bollati Boringhieri, Torino 1990
(ed. or. 1982), nonché la prima parte del monumentale volume di S.J. GOULD, La
struttura della teoria dell'evoluzione, Codice Edizioni, To- rino 2003 (ed. or.
2002). Per un lettore alle prime armi che voglia cimen- tarsi con i dibattiti
evoluzionistici può essere utile il testo divulgativo di M. Ruse, The Evolution
Wars. A Guide to the Debates, Rutgers Univer-
sity Press, New Brunswick (NJ) 2000. L’opera di Charles
Darwin merita di essere visitata con attenzione da studenti e ricercatori
ancora oggi, per il suo enorme valore scientifico ma anche per lo stile
espositivo e per l'esempio di metodo che essa rappre- senta. Oltre ai due testi
fondamentali L'origine delle specie, Bollati Bo- ringhieri, Torino 1967° (ed.
or. 1872) e L'origine dell’uomo, Editori Riu- niti, Roma 1966 (ed. or. 1871),
meritano una lettura il Viaggio di un na- turalista intorno al mondo, Einaudi,
Torino 1989 (ed. or. 1909) e le Ler- 33 tere 1825-1859, Cortina, Milano 1999
(ed. or. 1996), con suggestiva pre- fazione di S.J. GOULD. La raccolta C.
DARWIN, L'evoluzione, Newton Compton, Roma 1994, contiene la traduzione delle
edizioni integrali an- che dei Fondamenti dell'origine delle specie (abbozzo
del 1842 e Saggio del 1844) e dell’ Autobiografia, entrambi a cura del figlio
Francis. Un’an- tologia delle opere geologiche di Darwin è stata da poco
pubblicata in ita- liano, grazie alla cura di G. CHIESURA: Opere geologiche,
Hevelius Edi- zioni, Benevento 2004. Testi indispensabili per comprendere le
sfumatu- re delle diverse interpretazioni della teoria darwiniana alla fine
dell’Ot- tocento si trovano in G.J. ROMANES (a cura di), Darwin, and after
Darwin, 3 voll., Open Court, Chicago 1896. Per un manifesto della Sintesi
Moderna: J. HUXLEY, Evoluzione. La sintesi moderna, Astrolabio, Roma 1966 (ed.
or. 1942). Fra i testi fonda- tivi del neodarwinismo
ricordiamo: J.B.S. HALDANE, The Causes of Evo- lution, Longmans, Green &
Co., London 1932; T. DOBZHANSKY, Geret ics and the Origin of Species, Columbia
University Press, New York 1937; E. MAYR, Systematics and the Origin of Species
from the Viewpoint of a Zoologist, Columbia University Press, New York 1942;
G.G. SIMPSON, Tempo and Mode in Evolution, Columbia University Press, New York
1944; Ip., The Major Features of Evolution, Columbia University Press, New York
1953; G.L. STEBBINS, Variation and Evolution in Plants, Co- lumbia University
Press, New York 1950. Un aggiornamento importan- te rispetto a questi testi è
E. MavR, W.B. PROVINE (a cura di), The Evo- lutionary Synthesis: Perspectives
on the Unification of Biology, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)
1980. Il ruolo dell’isolamento geografico e la teoria della speciazione allo-
patrica vengono spiegati da E. MAYR, «Isolation as an Evolutionary Fac- tor»,
in Proceedings of the American Philosophical Society, 103, 1959, trad. it.,
L'evoluzione delle specie animali, Einaudi, Torino 1970; ID., Popula- tions,
Species and Evolution, Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1970. Le
difficoltà della nozione biologica di specie sono state de- scritte in R.J.
O’HARA, «Evolutionary History and the Species Problem», in American Zoologist,
XXXIV, 1994, 1, pp. 12-22. La memoria del 1972 da cui prese le mosse la teoria
degli equilibri punteggiati è N. ELDREDGE, S.J. GOULD, Gl equilibri
punteggiati: un’al- ternativa al gradualismo filetico, in N. ELDREDGE,
Strutture del tempo, Hopefulmonster, Firenze 1991, pp. 221-60, (ed. or. 1972).
Un’ampia e documentata difesa della teoria si trova in S.M. STANLEY,
L'evoluzione dell'evoluzione, Mondadori, Milano 1982 (ed. or. 1981). L’idea di specie come individuo biologico su larga
scala fu esposta in D.L. HULL, «Are Species Really Individuals?», in
Systerzatic Zoology, XXV, 1976, pp. 174- 91; ID., «A Matter of Individuality»,
in Philosophy of Science, XLV, 1978, pp. 335-60; M.T. GHISELIN, A «Radical
Solution to the Species Pro- 34 blem», in Systezzatic Zoology, XXIII, 1974, pp.
536-44. La prima rasse- gna delle diverse modalità di speciazione è M.J.D.
WHITE, Modes of Spe- ciation, Freeman, San Francisco 1978. Un importante
approfondimento del concetto di equilibrio punteggiato venne poi nel 1977: S.J.
GOULD, N. ELDREDGE, «Punctuated Equilibria: the Tempo and Mode of Evolu- tion
Reconsidered», in Paleobiology, III, 1977, pp. 115-51. Capitolo secondo Micro e
macroevoluzione: l’eredità contesa della Sintesi Moderna La biologia evolutiva
ha il compito di spiegare alcuni fenomeni po- tenzialmente contraddittori: le
forme viventi sono separate in specie discrete, ma evolvono le une nelle altre
senza soluzioni di continuità; la vita è ricca di piani anatomici, ma sembrano
esistere alcune limi- tazioni a questa ricchezza; gli organismi non sono solo
diversi, sono anche variabilmente adattati al loro contesto ambientale; ogni
orga- nismo appartiene a una specie in evoluzione, ma i suoi figli cresco- no
secondo modelli di sviluppo ripetibili e affidabili, e non sempre la
correlazione fra queste due dimensioni (l'evoluzione filogenetica e lo sviluppo
ontogenetico) è chiara. L’approccio popolazionale e speciazionale pone una
prima as- sunzione generale: non può esserci innovazione adattativa in natura
senza concomitanti processi ecologici di isolamento di popolazioni. Le specie
non sono sottoprodotti dell’accumulo di cambiamenti in- dividuali su larga
scala. Mutazione e selezione hanno bisogno di altri due fattori: la r27grazione
e la deriva di popolazioni. 1. La nozione filogenetica di specie Per la teoria
degli equilibri punteggiati si pose presto un problema di approfondimento dal
«fatto» della speciazione ai «meccanismi» della speciazione. Le critiche alla
teoria sono state sinteticamente tre. La prima, legata a un fraintendimento poi
superato, fu che gli equi- libri punteggiati dovevano essere falsi o
inconsistenti per principio, poiché presupponevano una rottura della continuità
biologica. I proponenti fecero però notare che il cambiamento «punteggiato» non
avviene attraverso discontinuità immediate: la continuità dell’evoluzione,
generazione per generazione, non è in discussione. Alla scala temporale
ristretta degli individui che si riproducono, la 36 gradualità dell'accumulo di
variazioni vale sempre e la selezione na- turale rimane ovviamente il motore
che fissa il cambiamento. Tutta- via, su scala ecologica e geologica il ritmo
della trasformazione ap- pare disomogeneo. La seconda generazione di critiche
si concentrò sull'idea che gli equilibri punteggiati fossero una dichiarazione
sul cambiamento in generale, ma non fossero verificabili attraverso i dati
fossili (Levin- ton, 1988). Certamente, non si può illustrare il modello
puntuazio- nale connettendolo sistematicamente a un episodio di speciazione:
molti isolati periferici non speciano. Tuttavia, quando vediamo una nuova
morfologia di specie che si affianca alla vecchia o addirittura la soppianta, e
notiamo una precisa connessione con la distribuzio- ne geografica, è
presumibile che sia avvenuto un equilibrio punteg- giato. Secondo Gould (1989),
la migliore prova della verificabilità degli equilibri punteggiati è l'origine
«cladogenetica» delle specie (da K/idos, ramo): le forme ancestrali
sopravvivono spesso ai loro di- scendenti, l'evoluzione procede per
ramificazioni, non per sostitu- zioni su tutto il territorio. Questo schema
ramificato di evoluzione (branching evolution) è proprio ciò che testimoniano
spesso le do- cumentazioni fossili e che viene oggi indagato dalla cladistica,
cioè la sistematica filogenetica o sistematica storica inaugurata da Willi
Hennig (Ridley, 1986) che ha affiancato in tempi recenti la tassono- mia
fenetica, fondata sugli schemi di similarità fra gruppi di organi- smi, e la
tassonomia evoluzionistica, fondata sullo studio della di- vergenza adattativa
fra organismi. Adottando la genealogia ramificata delle specie come criterio di
classificazione, la cladistica ha introdotto una struttura storica più
obiettiva negli studi di sistematica, rivoluzionandoli dall'interno e coniando
una terminologia tecnica (spesso un po’ ostica) per diffe- renziarsi dagli
approcci meno scientifici del passato. Il grado di pa- rentela fra le specie è
inversamente proporzionale all’antichità del lo- ro antenato comune. La
separazione fra specie è misurata, vicever- sa, dal numero di ramificazioni nel
cladogramma. La categoria cen- trale della cladistica è il gruppo monofiletico,
cioè l'insieme di tutte le specie che condividono uno e un solo antenato
comune, al punto che alcuni rifiutano di considerare «reali» dal punto di vista
evoluzioni- stico i gruppi parafiletici (che includono solo discendenti di un
uni- co antenato, ma non tutti) e i gruppi polifiletici (che contengono spe-
cie con un antenato comune separato da più di due speciazioni). Per i cladisti
dunque non hanno molto senso le grandi divisioni classiche 37 della tassonomia
evoluzionista (generi, famiglie, ordini...), poiché soltanto i gruppi
monofiletici sono porzioni reali dell’albero della vi- ta. Questa posizione non
cessa di generare polemiche nel campo del- la biologia sistematica (Hull,
1988). La metodologia cladistica, oggi molto diffusa anche se talvolta
applicata in modo troppo rigido, distingue i tratti non informativi su cui non
conviene contare per calcolare le discendenze fra specie (per esempio, i tratti
unici appartenenti a una sola specie, «autapomorfi- smi», o i tratti primitivi
appartenenti a cladi troppo ampi, «simple- siomorfismi») da quelli ricchi di
informazioni, cioè i tratti derivati (o «sinapomorfismi»): questi ultimi
appartengono solo a un sottoinsie- me di un clade e dunque sono l’indizio di un
cambiamento evoluti- vo, di una ramificazione. Il problema principale della
cladistica è quello di distinguere i tratti derivati «buoni», che sono stati
eredita- ti da un antenato comune (omologie), dai tratti derivati «cattivi»,
frutto di evoluzioni indipendenti (analogie o omoplasie), e di non farsi
ingannare da tratti silenti che sono andati perduti in una specie. Per marcare
questa distinzione i cladisti analizzano nel dettaglio il tratto oppure
applicano il «principio di parsimonia»: partendo dal presupposto che in natura
il cambiamento è più raro del non cam- biamento, fra tutti gli alberi
filogenetici possibili che legano un cer- to numero di taxa si sceglie l’albero
che prevede il minor numero di cambiamenti. Gli equilibri punteggiati sono
compatibili con la nozione filoge- netica di specie che i cladisti vorrebbero
affiancare a quella biologi- ca di Ernst Mayr. Qui l’attenzione non è posta
tanto sul processo che genera la specie né sui loro adattamenti, quanto sullo
schema di pa- rentele filogenetiche: per specie si intenderà un particolare
segmen- to dell’albero filogenetico, cioè il tratto di linea di discendenza fra
popolazioni collocato fra due eventi di speciazione (o fra speciazio- ne ed
estinzione). Il vantaggio di questa definizione, rispetto a quel- la biologica,
è che deduce le relazioni filogenetiche fra specie dall’analisi delle
generazioni di organismi che si succedono nelle po- polazioni (relazioni
tocogenetiche), senza fare ipotesi sulle cause del- la coesione in una linea di
discendenza. Ciò che conta è la singola traiettoria evolutiva, i fattori che
tengono insieme una popolazione (genetici, di sviluppo, selettivi) e i processi
che la possono separare non coinvolgono la definizione di specie e possono
essere moltepli- ci. Si tratta di una nozione più formale, che però si fonda
sullo stes- so modello di evoluzione per ramificazione e ne eredita i limiti.
38 Infine, altri critici dell'approccio puntuazionale hanno affermato che gli
equilibri punteggiati sono verificabili empiricamente in linea di principio, ma
alla prova dei fatti non sono stati supportati da evi- denze sufficienti.
Questa in effetti è un’arena aperta. La questione si sposta sulle frequenze
relative dei differenti eventi. E importante no- tare che Niles Eldredge e
Stephen J. Gould, nel 1977, rinunciarono a qualsiasi «esclusiva» e affermarono
di non ritenere che in natura il cambiamento avvenisse soltanto attraverso
equilibri punteggiati. Piuttosto, essi sostennero che gli equilibri punteggiati
avevano una frequenza abbastanza alta da far sì che una parte consistente della
trasformazione morfologica registrata fosse dovuta a eventi puntua- zionali di
cladogenesi, anziché a tendenze di accumulo graduale e lento di modificazioni.
Negli anni Ottanta i paleontologi cominciarono a misurare le fre- quenze in
modo più oggettivo e su base statistica larga, rinunciando alla scelta
partigiana di casi 44 hoc. Si cominciarono a studiare inte- ri cladi a tappeto
oppure interi campionari di specie in una forma- zione geologica. Donald
Prothero studiò tutti i mammiferi pleisto- cenici in un determinato periodo
(Oligocene) e luogo (Dakota), ot- tenendo in effetti un’alta frequenza di
equilibri punteggiati. Risulta- ti analoghi ottennero negli anni Ottanta Stanley
X. Yang per la morfologia dei molluschi bivalvi, Alan H. Cheetham per le lunghe
fasi di stabilità punteggiate nell’evoluzione dei briozoi, Richard For- tey per
i trilobiti, applicando in ciascuno dei casi l’analisi morfome- trica
multivariata su campioni casuali. Come notò Steven Stanley nel suo testo a
difesa degli equilibri punteggiati del 1981, The New Evolutionary Timetable, il
rischio in- sito negli scritti dei due paleontologi era quello di una
radicalizza- zione della contrapposizione fra visione gradualista e visione
pun- tuazionista. John Maynard Smith avanzò il sospetto che gli equilibri
punteggiati fossero soltanto un'illusione prospettica dovuta all’inca- pacità
di rilevare transizioni graduali. A parere della maggioranza, le testimonianze fossili
non potevano dirimere la controversia sui tem- pi dell’evoluzione. Ma lo
sviluppo di sofisticati metodi di rilevazione radiometrica permise proprio in
quegli anni di passare da una cronologia «relati- va» dei dati paleontologici
(per comparazione e successiva accumu- lazione di datazioni) a una cronologia
«assoluta» che garantisce in buona approssimazione la datazione indipendente di
ciascun ogget- to rinvenuto (per rilevamento del decadimento radioattivo degli
iso- 39 topi di vari elementi). Questa metodologia sperimentale affidabile di
fronte ai severi criteri delle hard sciences, unita al normale procedi- mento
indiziario che da sempre contraddistingue la scienza paleon- tologica, ha
permesso di accrescere considerevolmente la conoscen- za dei fossili di molti
periodi dell’evoluzione della vita. Le nuove ca- pacità di datazione rendono
possibile una valutazione sempre più precisa dei tempi evolutivi. 2. La nozione
ecologica di specie La teoria degli equilibri punteggiati prevede l’esistenza
di specie ben adattate che non mostrino segni di evoluzione dei propri
caratteri morfologici per lunghi periodi. In secondo luogo, giustifica l’esi-
stenza di piccole ramificazioni di alberi genealogici più estesi (per- corsi
evolutivi periferici, comprendenti un ristretto numero di spe- cie) che
successivamente alla speciazione rivelano l’assenza presso- ché totale di
ulteriore diversificazione. L'analisi comparata degli in- dividui alla base
della ramificazione (risalenti ai primi «attimi» evo- lutivi del nuovo ramo)
con quelli in cima alla ramificazione dovreb- be dare scarsi risultati quanto a
differenze e specializzazioni biologi- che. In effetti questo è quanto si è
appurato in una serie di verifiche sperimentali: vale per gli amiidi (grandi
pesci di acqua dolce), per i dipnoi o pesci polmonati e per molti altri piccoli
gruppi di animali (fra cui gli storioni, gli alligatori, i tapiri) definiti
convenzionalmen- te «fossili viventi». Inoltre, spiega un fenomeno rilevante
per l'evoluzione della vita: le radiazioni adattative, cioè le subitanee
diversificazioni di un gran numero di nuove forme di vita a partire da un solo
antenato comu- ne (o da pochi antenati comuni). Tre sono gli esempi più noti di
que- ste forme di «esplosione» della vita: l’esplosione della vita pluricel-
lulare all’inizio del Cambriano; la comparsa di piante dotate di fiori nel
Cretaceo; la radiazione adattativa dei mammiferi durante il Ce- nozoico,
culminata nell’Eocene. In questi casi noi non vediamo cam- biamenti graduali
non perché siano nascosti, ma perché probabil- mente non esistono. Il ritmo
evolutivo dei mammiferi dopo l’esplo- sione iniziale non rivela un’evoluzione
graduale bensì una fase di ri- stagno evolutivo lunga spesso più di un milione
di anni. Speciazioni e stabilità evolutive sono pertanto fenomeni che compaiono
accop- piati nella documentazione fossile. La speciazione attraverso piccole
popolazioni isolate potrebbe 40 essere molto più comune di quanto non si sia
pensato e ciò vale an- che per la storia naturale dei nostri antenati ominidi,
se non addirit- tura per la nascita della specie Horzo sapiens (Tattersall,
1998, 2002; Pievani, 2002). Basti pensare alle evidenze emerse dalla metà degli
anni Ottanta a proposito della condivisione, da parte di tutti gli es- seri
umani attuali, di un unico Dna mitocondriale appartenuto a una femmina di
sapiens vissuta fra 150 e 200 mila anni fa all’interno di una popolazione
africana, «fondatrice» dell'intera umanità attuale, i cui membri non dovevano
probabilmente superare la cifra di 10 mi- la unità (Cavalli Sforza, Menozzi,
Piazza, 1997). Attraverso l’opera dei paleoantropologi e primatologi Ian Tat-
tersall e Jeffrey Schwartz, la teoria degli equilibri punteggiati ha in- fluito
profondamente sullo studio dell’evoluzione dei primati non umani, viventi e
fossili (Tattersall, 1982; Schwartz, 1999). L'analisi della radiazione
adattativa dei lemuri del Madagascar ha indotto Tattersall ad applicare uno
schema speciazionale «a cespuglio» an- che all'evoluzione ominide, raccogliendo
per la prima volta in un quadro coerente le anomalie che si erano accumulate
negli anni Set- tanta e Ottanta attorno all’anacronistico modello monofiletico
e pro- gressionista dell’evoluzione umana (Eldredge, Tattersall, 1982; Tat-
tersall, 2003; per una reazione critica cfr. T. White, 2003). Queste ricerche
hanno permesso di rinvenire nella storia natura- le dei nostri antenati gli
stessi pattern di diversificazione presenti in molte forme di mammiferi:
convivenze fra numerose specie nello stesso territorio, radiazioni adattative
innescate da frammentazioni di habitat e da instabilità ecologiche (Stanley,
1996), specie caratte- rizzate da lunghi periodi di stabilità (come dimostrato
da G. Philip Rightmire per Horo erectus), alternanza di periodi di
diversificazio- ne e periodi di estinzione trasversale, speciazioni
allopatriche per de- riva e migrazione. Nel corso di questa storia, i tratti
caratteristici dell’umanità (bipedismo, tecnologie, organizzazione sociale,
cresci- ta cerebrale) si sarebbero manifestati con ritmi e tempi spaiati, come
innovazioni episodiche piuttosto che come accumulo di tendenze progressive.
L’arrivo di un’era glaciale, che frammenta gli habitat, ha pro- dotto una
radiazione adattativa in molti gruppi di mammiferi afri- cani, compreso il
nostro. C’è stata un’esplosione di equilibri pun- teggiati. Come ha scoperto
negli anni Ottanta la paleontologa Eli- sabeth Vrba, grazie alla teoria degli
equilibri punteggiati possiamo interpretare gli eventi intricati che hanno
contraddistinto il Pleisto- 4l cene in Africa e sconvolto il cespuglio degli
ominidi con un’esplo- sione di forme (Vrba, 1984). Un cambiamento ambientale
piuttosto rapido ha reso vani i precedenti adattamenti delle forme ominidi,
obbligandole alla migrazione verso altri habitat, all’estinzione op- pure alla
sopravvivenza grazie a riadattamenti. La frammentazione delle nicchie
ambientali ha poi moltiplicato le speciazioni e le colo- nizzazioni di nuovi
habitat, innescando rapidi processi di avvicen- damento fra specie (turzover
pulse). Del resto, la stessa controversia a proposito dell’evoluzione di Homo
sapiens che si trascina da quindici anni, fra i sostenitori di un'evoluzione
multipla della nostra specie in diverse regioni del glo- bo (ipotesi
multiregionale), da una parte, e i sostenitori della più consolidata ipotesi
dell’origine unica, africana e recente della nostra specie (ipotesi 07 of
Africa) completata da un processo di planeta- rizzazione diasporica, segue
fedelmente la filigrana della controver- sia fra una visione gradualista e
progressionista dell’evoluzione, da una parte, e una visione puntuazionale e
speciazionale, dall’altra. Lo studio della divergenza puntuazionale si è
arricchito negli anni Novanta anche di vari esperimenti di laboratorio. Se in
natura si assi- ste a speciazioni complete nell’arco di alcune migliaia di
anni, la spe- ciazione artificiale può essere indotta in laboratorio attraverso
derive genetiche, effetti del fondatore, trarzsiliences dovute a geni
regolatori. Questi eventi, dunque, sono riscontrati raramente in natura, perché
rapidi, ma non sono impossibili, anzi li possiamo ritenere probabili calcolando
la probabilità che si formino isolati periferici in natura nel corso dei tempi
vastissimi di stabilità delle specie. Queste ultime sono pertanto sistemi
stabili che producono numerosi isolati periferici, di essi soltanto una
piccolissima parte dà origine davvero a una specia- zione; ma quando avviene un
cambiamento evolutivo, questo è dovu- to con buona probabilità a un processo di
tal genere. In questo scena- rio, allargamento delle opportunità ecologiche
sommato alla com- parsa (non necessariamente adattativa) di caratteri biologici
inediti (per esempio, l’impollinazione tramite insetti e uccelli per le angio-
sperme) rende attuabile una vera e propria esplosione della diversità tramite
speciazioni rapide e, almeno nei casi citati, su larga scala. Il punto decisivo
è che la graduale modificazione di specie già esi- stenti non sembra in grado
di spiegare l’attuale diversità della vita. L’origine di forme di vita così
eterogenee deve essere ricondotta a un modello interpretativo basato sul
fenomeno già definito da George Gaylord Simpson, nella sua opera fondamentale
del 1944 Terzpo 42 and Mode in Evolution (le cui tesi vennero però fortemente
mitigate in The Major Features of Evolution del 1953), come evoluzione quan-
tica, cioè episodi di differenziazione rapida non necessariamente det- tati da
ragioni adattative: l’«eresia» di molti paleontologi trova così un’inaspettata
riconsiderazione postuma. Già il tedesco Heinrich- Georg Bronn nel 1857 aveva
riscontrato la stabilità delle specie. John Philips, presidente della
Geological Society di Londra, nel 1860 aveva descritto la radiazione adattativa
esplosiva del primo Pa- leozoico. Hugh Falconer aveva esposto a Darwin i suoi
dati sulla sta- bilità evolutiva dei mammut. Il paleontologo tedesco Otto
Heinrich Schindewolf nel 1950 aveva proposto una lettura macromutazioni- sta,
antidarwiniana, della documentazione fossile. Il botanico Verne Grant aveva
parlato di «evoluzione intermittente» nel 1963. Le prove a favore
dell'emergenza per speciazione di nuove forme di vita, benché di difficile
individuazione, si sono moltiplicate negli anni successivi. Si va dai pesci
ciclidi che popolano il Lago Vittoria e un lago vulcanico in Camerun, dalle
falene dei banani delle Hawaii ai ciprinodonti della Valle della Morte fra
California e Nevada. Ciò che però occorre approfondire è il meccanismo che
spiegherebbe la speciazione stessa. In un’area geografica complessa, come per
esem- pio il Lago Vittoria in Uganda, possiamo trovare specie differenti con
ritmi evolutivi differenziati. Troveremo la specie ittica ancestra- le nel lago
principale e la specie discendente nel laghetto laterale che si è formato
recentemente a causa dell’innalzamento di una striscia di sabbia all'imbocco di
un’antica insenatura del lago (un «attimo» biologico addietro: circa
quattromila anni fa). La «gemmazione» di una forma distinta di pesce ciclide,
compiutasi con una rapidità sor- prendente, evolve ulteriormente e procede
verso altre diramazioni e diversificazioni nel nuovo spazio ambientale, mentre
la specie ance- strale sopravvive nell'ambiente principale senza variazioni di
rilievo (Goldschmidt, 1994). Esistono due condizioni di fondo perché avvenga
una speciazio- ne rapida, entrambe riconducibili a un cambiamento delle condi-
zioni ecologiche: deve schiudersi a una piccola parte della popola- zione
originaria un nuovo spazio ambientale (per migrazione, per ca- tastrofi
naturali, per lenta modificazione dell’orografia o dei bacini, e così via) tale
da garantire all’isolato periferico una ricca messe di opportunità ecologiche
inedite; oppure deve estinguersi una fami- glia di organismi dominanti. Questo
accento sull’importanza del contesto ecologico per la coesione interna di una
specie ha indotto 43 alcuni evoluzionisti a introdurre la mozione ecologica di
specie, che dovrebbe integrare la nozione biologica centrata soltanto sulla
coe- sione genetica: secondo Van Valen, il criterio dell'isolamento ripro- duttivo
non è sufficiente, va affiancato a un criterio di coesione eco- logica
all’interno di una nicchia ambientale discreta. In tal modo ver- rebbero
incluse anche le specie asessuate, definite come gruppi di organismi che
condividono la stessa nicchia adattativa. Nel 1989 Alan R. Templeton ha
proposto una nozione estesa della coesione genetico-ecologica di specie,
intendendo una specie come il gruppo più ampio di organismi aventi
interscambiabilità genetica, demo- grafica o adattativa (cohesion species concept)
(Hull, 1997). Secondo alcune recenti ricerche non è neppure necessaria, per-
ché avvenga una speciazione, la totale separazione (genetica o eco- logica) fra
la specie ancestrale e l’isolato periferico: il flusso genico in alcuni casi
non si esaurisce bruscamente, ma con gradualità fino alla condizione di
inincrocio totale. Non è poi indispensabile riferir- si ad ambienti limitati e
con una forte specificità geografica. Il feno- meno della speciazione sembra
riguardare anche grandi evoluzioni su larga scala che hanno stravolto la
disposizione delle specie viven- ti sul pianeta: i due casi più noti sono
l’evoluzione della fauna e del- la flora australiane e la migrazione delle
specie nordamericane verso il Sud America dopo la formazione dell’istmo di Panama.
Gli habi- tat insulari, di qualsiasi dimensione essi siano, lungi dall'essere
vico- li ciechi dell'evoluzione come spesso li si è interpretati, sono forse le
occasioni più ghiotte di speciazione e di diversificazione delle forme viventi.
L'effetto specie-area (species-area effect) mostra che vi è un rapporto non
lineare fra la biodiversità di una regione e la sua esten- sione: la fusione di
due aree prima separate produce un effetto mol- tiplicativo, e viceversa. Nel
modello speciazionale, la paleontologia si ibrida intensamente con la
paleoecologia. Rimane inevasa la questione del meccanismo genetico della spe-
ciazione. Cosa succede quando l’esplosione di opportunità ecologi- che rende
plausibile la nascita di una nuova forma di vita? La rispo- sta è davvero
controversa. Si possono però estrarre alcune costanti dalla documentazione
fossile e dalle verifiche empiriche su specie esistenti. La disponibilità di
uno spazio ambientale libero abbassa la pressione selettiva, la popolazione
aumenta molto rapidamente, gli individui mutanti non vengono eliminati e
riescono a riprodursi. Quando il numero totale di individui supera una certa
soglia di so- stenibilità ecologica, cresce la pressione selettiva e la
percentuale di 44 mutanti sopravvissuti si abbassa drasticamente. Fin qui nulla
di ori- ginale. Già si è accennato alla funzione «stabilizzatrice» della sele-
zione naturale, che tende a mantenere la situazione antecedente eli- minando
gli individui che si sottraggono alle regole strutturali e fun- zionali di conformazione
della specie. Vi è però un secondo dato: la percentuale di mutazioni devianti
all’interno di popolazioni lasciate libere in una nicchia ecologica fa-
vorevole è al di sopra di qualsiasi previsione in condizioni di normale
competizione in ambienti al limite della sostenibilità. La variabilità
potenziale delle forme viventi in assenza di pressione selettiva è alta: nei
primi tempi dopo la separazione dal ceppo originario sopravvi- ve una grande
percentuale di individui mutati. Non è possibile sta- bilire quanta parte di
tale difformità sia di origine genetica, e quindi ereditabile, e quanta sia
dovuta a errori di tipo non genetico nello sviluppo. Lo spettro delle mutazioni
devianti è tuttavia così ampio da far supporre che almeno una piccola porzione
sia di natura ere- ditabile. Una prima acquisizione importante è quindi quella
della possibi- lità che la progressiva separazione di un isolato periferico si
accom- pagni alla fissazione, in un certo numero di generazioni, di taluni ca-
ratteri insoliti. La selezione naturale interverrebbe in un secondo tempo a
determinare l'andamento da una generazione all’altra dei caratteri fissati
durante la prima fase. Nel caso in cui questi fossero consolidati dal processo
selettivo e l’isolamento riproduttivo fosse compiuto, la popolazione
protagonista di questa deriva naturale po- trebbe diventare una «specie»
autonoma a tutti gli effetti. Il fattore biologico ed ecologico centrale per le
radiazioni adat- tative potrebbe essere invece il cosiddetto principio di utilizzazione,
secondo cui tanto più un ecosistema è ben utilizzato tanto più la composizione
dei suoi abitanti è diversificata. In questo senso, il contributo dell'ecologia
teorica alla soluzione di vecchi problemi della paleontologia è stato
determinante. E un’ipotesi di ecologia teorica, formulata nel 1974 da Thomas
Schopf e Daniel Simberloff, legata al calcolo della riduzione di area
disponibile a causa dell’unio- ne di tutti i continenti nella Pangea, a
riscuotere i maggiori consen- si per la spiegazione dell’estinzione del
Permiano. Il principio di uti- lizzazione ha trovato discrete conferme
sperimentali: se per esempio si introduce in un ambiente un nuovo predatore,
contrariamente al normale modo di pensare il risultato conclusivo è spesso un
aumen- 45 to della diversità complessiva delle specie presenti in quell’ambien-
te; o viceversa se togliamo un predatore già inserito. 3. Riduzionismo genetico
e irriducibilità della macroevoluzione Esiste un’altra acquisizione che
potrebbe correggere l'affermazione pessimista che ancora nel 1974 il genetista
Richard C. Lewontin scrisse in un suo testo germinale sulla «base genetica del
cambia- mento evolutivo»: non sappiamo quasi nulla sui cambiamenti gene- tici
che si verificano nella formazione delle specie. Il meccanismo della nascita di
nuove forme viventi va in qualche modo connesso ai fenomeni che interessano il
genoma, inteso ormai dalla gran parte della comunità scientifica come un
sistema fortemente integrato, re- ticolare e autoregolato. Il punto in questione
è di estrema importanza: si tratta di consi- derare la possibilità che piccoli
cambiamenti genetici trascinino il ge- noma verso mutazioni complessive e verso
ristrutturazioni significa- tive della struttura corporea dell’individuo. Lo
studio del genoma di specie apparentemente molto distanti l’una dall’altra per
caratteri- stiche e abitudini, anche se riconducibili l'una all’altra per
deriva- zione genealogica come può essere tra uno scimpanzè e un uomo, ri- vela
una somiglianza sorprendente: in sostanza, l'evoluzione può ri- strutturare gli
animali senza rimodellare drasticamente il loro codi- ce genetico. Stanno
conquistando una rilevanza crescente alcuni ge- ni in grado di regolare
l’attività di altri gruppi di geni: il primo livel- lo genetico rappresentato
dai «geni strutturali» sarebbe pertanto go- vernato da geni di secondo livello,
capaci di guidare l’attività di pool di geni strutturali. Non è difficile
immaginare come una piccola per- turbazione nell’azione di un gene di livello
elevato possa propagarsi in una vera e propria cascata genetica al primo
livello. La mutazione di un solo gene regolatore può avere profonde conseguenze
di tipo ereditario. Non è da escludere, in conclusione, che alcune delle mu-
tazioni libere non soggette a selezione naturale nei primi tempi del- la
speciazione possano essere tempeste genetiche dovute a ricombi- nazioni nei
livelli più alti del sistema. Non è facile individuare gli effetti immediati
dell’azione di un ge- ne regolatore, ma gli scienziati stanno puntando
l’obiettivo su alcu- ni geni regolatori particolari, responsabili nello
specifico dei ritmi e delle varie fasi dello sviluppo embrionale. Per questi è
più semplice 46 e veloce la ricostruzione, per indizi e deduzioni, del processo
di mu- tazione genetica. Quando si tratta di modificazioni del tasso di cre-
scita relativo delle diverse parti del corpo, in particolare, è piuttosto
agevole identificare il responsabile della ristrutturazione generale: è
possibile anche intervenire sul comando genetico individuato e pro- curare
mutazioni indotte nello sviluppo dell’animale. Il ruolo dei geni non è affatto
sottovalutato, ma viene integrato in un contesto esplicativo in cui i fattori
ecologici hanno pari dignità. I cambiamenti fondamentali nella struttura di animali
appartenenti a popolazioni ben definite e periferiche, soggette a pressione
selettiva quasi nulla e obbligate a un forte inincrocio (cioè all’accoppiamento
fra consanguinei), potrebbero risalire a piccole mutazioni di geni re- golatori
(mutazioni oligogeniche) poi consolidate e fissate dall’evo- luzione
successiva. Potrebbero essere così spiegate sia la rapidità sia
l’irreversibilità del cambiamento, le due caratteristiche peculiari del
processo di speciazione. La metamorfosi degli anfibi è soggetta all’azione di
un unico ge- ne regolatore: l’axolotl messicano è una salamandra a «sviluppo
bloccato», una specie nuova e ben adattata, nata per modificazione di un solo
gene. Questo anfibio che non diventa mai adulto è una specie autonoma, ma basta
iniettare l'ormone mancante perché si comporti come un adulto normale (Gould,
2002). Secondo Mayr, possiamo ipotizzare che in questi casi avvenga una rottura
delle for- ze epistatiche che mantengono l’omeostasi genetica e quindi un «al-
lentamento» del genoma, che diviene più flessibile e si diversifica. Si tratta
di una riorganizzazione genetica di tipo sistemico, che le re- centi scoperte
sui geni regolatori possono finalmente spiegare come fenomeno darwiniano senza
incorrere nell’errore del saltazionismo. Anche Templeton ha fatto ricorso
all’intervento dei geni regolatori e ha coniato l’espressione gerezic
transilience: una modificazione ra- pida di livello genetico strutturale, poi
fissata per selezione, simula- ta in laboratorio con la Drosofila mercatorum.
La selezione naturale non sembra dunque implicare alcun postu- lato sulla
velocità della speciazione e sull’uniformità del suo ritmo. Per i sostenitori
del gradualismo filetico, che polemizzeranno dura- mente con i
«puntuazionisti», l'eresia era duplice: la rapidità del- l'equilibrio
«punteggiato» non è data dall’aumento delle pressioni selettive, ma da episodi
di speciazione allopatrica; i periodi di stabi- lità presuppongono che non vi
sia un accumulo di piccole variazio- ni indotte dalla selezione naturale per un
adattamento progressivo 47 della specie alla sua nicchia. Su questi due punti
precisi, e in parti- colare sul secondo, il dissenso con i postulati della
Sintesi neo- darwiniana era certamente forte, ma la spiegazione fornita dalla
teo- ria degli equilibri punteggiati non negava i principi fondamentali della
teoria darwiniana, come invece sostennero i suoi detrattori. I sostenitori
della teoria degli equilibri punteggiati furono accusati, di volta in volta, di
voler negare i fondamenti della teoria darwiniana o di fiancheggiare complotti
marxisti rivoluzionari. Ma l’accusa più amara, per Eldredge e Gould, fu quella
di voler favorire indirettamente il ritorno del creazionismo nel dibattito pub-
blico statunitense, nonostante fossero note a tutti le battaglie politi- che
condotte da entrambi in difesa dell’insegnamento della teoria darwiniana nelle
scuole americane (Eldredge, 2000). In realtà, non si trattava in alcun modo di
una teoria «saltazionista». Semplice- mente, questo evoluzionismo speciazionale
metteva in crisi alcuni postulati, di tipo gradualista, di una parte della
Sintesi. Secondo Mayr, la teoria degli equilibri punteggiati non solo è
compatibile con la teoria darwiniana ma non minaccia nemmeno la Sintesi:
minaccia la versione genetico-riduzionista di un programma di ricerca molto più
articolato. Non è un caso che gli attacchi più forti alla teoria, tal- volta
venati di un eccesso polemico, siano giunti proprio da Richard Dawkins in
L’orologiaio cieco e da Daniel C. Dennett in L'idea peri- colosa di Darwin.
L'evoluzione e i significati della vita, secondo i qua- li gli equilibri
punteggiati sono una dinamica neosaltazionale im- possibile o quanto meno
inutile per spiegare la storia naturale. Il nodo cruciale dello scontro è la
differente concezione del cam- biamento evolutivo. Nella concezione
«puntuazionale» le specie non sfumano l’una nell’altra, ma nascono, vivono e
muoiono come entità biologiche discrete e reali, portatrici di cambiamenti
adattativi al lo- ro sorgere e poi straordinariamente efficaci nel mantenerli
inaltera- ti. L’assunto della Sintesi Moderna, secondo cui tutti gli aspetti
ma- croevolutivi e morfologici sono da ricondurre a cause microevoluti- ve
(cioè genetiche), gode però ancora oggi di molti consensi nella corrente
evoluzionistica di ispirazione riduzionista che pure afferma di ispirarsi alla
«vera anima» del darwinismo: la selezione naturale agirebbe sul corredo
genetico di una specie per ottimizzarne l’adat- tamento all'ambiente; nulla di
ciò che vediamo in natura sarebbe frutto di circostanze non controllate dalla
selezione naturale; sareb- be la presenza omnipervasiva di quest’ultima a
determinare i com- portamenti e l’aspetto di ogni organismo, noi compresi. 48
L’etologo inglese Dawkins, nel 1976, nella sua fortunata opera I/ gene egoista,
calcò la mano su questi concetti, affermando che gli or- ganismi non sono altro
che meri veicoli di trasmissione dei geni. An- che se nelle opere successive
mitigò in parte le sue posizioni, egli so- stenne che è il gene, e non l'individuo,
l’unità fondamentale e im- mortale dell’evoluzione: la selezione agisce
direttamente su di essi, massimizzandone la trasmissione. Le funzioni
fondamentali della so- pravvivenza sarebbero determinate inflessibilmente da
pool di geni specifici, frutto di una dura lotta per la sopravvivenza. Questo
approccio riduzionista tende a sottovalutare gli aspetti ecologici ed economici
dei contesti nei quali gli organismi vivono. Se contano principalmente gli
aspetti riproduttivi e la quantità di geni tramandati, l’adattamento ottimale
sarà il mezzo per raggiungere la massima diffusione dei propri geni e il ritmo
del cambiamento sarà graduale. Come ha notato Richard Morris nella sua
ricostruzione della controversia fra «ultradarwinisti» e «postdarwinisti»
(Morris, 2001), si può facilmente verificare l’incompatibilità dell'approccio
riduzionista con la teoria degli equilibri punteggiati. Quest'ultima focalizza
l’attenzione, principalmente, sulle cause geografiche ed ecologiche che,
attraverso le speciazioni, producono la maggior par- te delle innovazioni
evolutive. Per contrapporsi a un’impostazione riduzionista dell’evoluzione,
Eldredge e Gould, dalla prima metà degli anni Ottanta, spostarono la loro
attenzione proprio sulle incongruenze di quello che definiro- no «ultradarwinismo».
Eldredge sottolineò che sarebbe stato un er- rore trascurare la molteplicità
dei livelli evolutivi che si intrecciano nelle dinamiche evolutive: i sistemi
biologici su larga scala devono essere considerati importanti quanto i geni. Se
l’ambiente, come accade spesso, è frammentato in piccole nic- chie
diversificate, può accadere che popolazioni locali di organismi si adattino
separatamente alle diverse nicchie, pur rimanendo all’in- terno della stessa
specie. Sulla scorta della definizione biologica di Mayr, non è facile
tracciare confini netti fra le specie, soprattutto se estinte. Anche se in
alcuni casi la comparazione genetica può aiutar- ci, non possiamo tornare
indietro nel tempo e verificare se i membri di due popolazioni si siano incrociati
o meno. Di certo, noi sappia- mo oggi che le specie sono spesso costituite da
un mosaico di picco- le popolazioni locali adattate a microambienti. La
quantità di spe- ciazioni allopatriche potenziali all’interno di una specie
suddivisa in piccole popolazioni locali è dunque proporzionale alla frammenta-
49 zione e alla volubilità degli habitat. Se un ambiente è fluido e ricco di
barriere geografiche che spezzano la compatibilità genetica fra po- polazioni,
il numero di specie aumenta e il palcoscenico dell’evolu- zione ha più attori
in scena. Ecco allora che le caratteristiche di una specie sono «proprietà
emergenti» che scaturiscono dalle interazioni fra gli organismi che ne fanno
parte, ma non sono riducibili ad esse (Gould, in Somit, Peter- son, a cura di,
1989). Le specie, intese come «individui» biologici au- tonomi caratterizzati
da una forte coesione del genotipo, hanno cia- scuna una propria biografia
peculiare: alcune si estinguono subito, al- cune colonizzano le nicchie vicine,
alcune migrano in altri habitat e partecipano a competizioni interspecifiche e
cernite di specie, altre ri- mangono stabili accumulando variazioni genetiche
senza conseguen- ze fenotipiche. Questa attenzione per la diversità delle
specie come en- tità autonome e coese porterà Eldredge, in anni successivi,
alla formu- lazione di alcune fra le più vivide e potenti argomentazioni in
difesa della biodiversità terrestre. Le alterazioni degli habitat terrestri
indot- te dall’antropizzazione stanno infatti stravolgendo le delicate regole
di sopravvivenza di decine di migliaia di specie, causandone l'estinzione in
massa (Eldredge, 1995; Eldredge, cura di, 2002). In questa geometria variabile
di fattori e di livelli sovrapposti, non necessariamente la differenziazione di
una nuova specie va di pari passo con nuovi adattamenti, e ancor meno con
«migliori» adat- tamenti: in alcuni casi due popolazioni all’interno della
stessa specie possono mostrare differenze morfologiche di tipo adattativo
estre- mamente accentuate (eppure sono solo variazioni interne alla stessa
specie, senza un grosso riscontro genetico); in altri casi due specie distinte
(a causa di un isolamento geografico) sono morfologica- mente e adattativamente
identiche. In una prospettiva puntuaziona- le gli effetti della selezione
naturale sulle linee di discendenza vanno integrati con una molteplicità di
altri meccanismi e fattori evolutivi indipendenti, di origine ambientale e
geografica. In generale, però, l’idea è che il cambiamento evolutivo sia
introdotto in natura preva- lentemente attraverso i processi speciativi,
piuttosto che attraverso adattamenti vieppiù complessi all’interno di una
specie, come inve- ce ribadirà Dawkins. 4. La sfida del pensiero puntuazionale
È significativo che nel 1989, in una raccolta di saggi dedicata a un
aggiornamento della teoria degli equilibri punteggiati, lo stesso 50 Mayr, dopo
una prima fase di scetticismo riguardante la sottolinea- tura a suo avviso
eccessiva della stasi evolutiva, abbia evidenziato la portata teorica di una
visione «speciazionale» e puntuazionale dell’evoluzione (Mayr, in Somit,
Peterson, a cura di, 1989), decre- tando la sconfitta, a suo dire, del
gradualismo filetico. In questo sag- gio Mayr afferma senza mezzi termini che
la Sintesi Moderna di Ro- nald Fischer, John B. S. Haldane e Sewall Wright, pur
rimanendo il punto di riferimento fondamentale per una concezione genetico-va-
riazionale del processo evolutivo, ha sottovalutato l’importanza del livello
macroevolutivo: speciazioni da piccole popolazioni, equilibri punteggiati,
cernita di specie, radiazioni adattative, competizioni fra specie, estinzioni
su vasta scala. La confusione più frequente riguardo al pensiero puntuaziona-
le concerne il suo accostamento al saltazionismo di Richard Gold- schmidt. E
bene ricordare che vi sono quattro possibili posizioni ri- guardo al carattere
«puntuazionale» dell’evoluzione: 4) la novità evolutiva origina da una
mutazione sistemica generale nel genoma, senza selezione naturale (Goldschmidt,
«eresia discontinuista» anti- darwiniana); 5) il cambiamento evolutivo è di
tipo variazionale e po- polazionale, ma tutti i cambiamenti sostanziali
avvengono durante turni di speciazione; quando il processo è completato, le
specie sta- gnano e sono quasi sempre incapaci di modificarsi sostanzialmente
(Eldredge-Gould, puntuazionismo forte, coerente con la teoria dar- winiana); c)
le linee evolutive possono cambiare gradualmente e len- tamente in differenti
specie successive, ma i cambiamenti più signi- ficativi avvengono durante
periodi di speciazione peripatrica e geo- grafica (Mayr, puntuazionismo debole,
coerente con la versione na- turalistica della Sintesi); 4) una ramificazione
di lignaggi genetici av- viene, ma non è più importante dei cambiamenti che
avvengono dentro le linee evolutive; il gradualismo filetico è responsabile di
gran parte dei cambiamenti evolutivi (maggioranza dei paleontologi sul campo,
neodarwinismo della Sintesi Moderna). Solo la prima è «antidarwiniana». La
difesa provocatoria dell’eresia di Goldschmidt da parte di Gould nel 1982
suscitò le perplessità di Mayr ma anche una serie di controversie a volte
strumentali, poiché gli bopefu! monsters di Gold- schmidt non condividono nulla
con la speciazione geografica: il gene- tista tedesco non abbracciava un
pensiero popolazionale e discuteva di ristrutturazioni sistemiche del genoma,
in un individuo, dovute a piccoli cambiamenti genetici, per innesco in un colpo
solo e senza fis- 51 sazione successiva per selezione naturale. Si trattava di
un’eresia per certi aspetti intrigante (poiché suggerì per la prima volta il
carattere si- stemico e non lineare del genoma), ma pur sempre di una posizione
estranea al nocciolo centrale della teoria dell’evoluzione darwiniana. Oggi la
fase di contrapposizione frontale si è chiusa e si è tra- sformata in una
discussione sulle frequenze relative dell’uno e dell’altro processo. Spesso
fattori evolutivi e processi visti come al- ternativi devono avvenire
simultaneamente: per esempio, una rivo- luzione genetica viene stabilizzata
dalla selezione naturale. Al di là della sua frequenza nelle stratigrafie, il
puntuazionismo sembra aver avuto dunque un effetto positivo sulla teoria
dell’evoluzione, au- mentandone la capacità esplicativa, come ammise Maynard
Smith nel 1984 «riammettendo» la paleontologia alla «tavola alta» dell’evo-
luzionismo. È pur vero che i fraintendimenti non sono cessati dopo le pole-
miche dei primi anni, e non soltanto a causa delle interpretazioni strumentali
della teoria degli equilibri punteggiati, in chiave anti- darwiniana, da parte
dei creazionisti americani. Non sono mancati atteggiamenti ostentatamente
provocatori da parte dei sostenitori stessi della teoria, il cui valore di
critica del gradualismo fu associa- to alla critica dell’ideologia
progressionista occidentale contrappo- sta alla dimestichezza con una
concezione puntuazionale dell’evolu- zione esibita dai biologi sovietici. Nel
1980 Gould contrappose le «filosofie del cambiamento» dei due blocchi e accostò
la teoria de- gli equilibri punteggiati alla seconda legge della dialettica di
Friedrich Engels. L’analogia fra evoluzione per equilibri punteggiati e inter-
pretazione rivoluzionaria del processo storico fu sottolineata anche da Stanley
(Stanley, 1981, trad. it., pp. 233-36). Sanando le forzature di questi accostamenti,
Gould nel 1989 in- vitò a distinguere la teoria degli equilibri punteggiati,
intesa come una forma di «letteralismo» paleontologico, dal più vasto e
interdi- sciplinare «pensiero puntuazionale», ovvero da una filosofia genera-
le della storia come processo di cambiamento non uniforme, che comprende al suo
interno non soltanto altre ipotesi evoluzionistiche, ma anche la filosofia
della scienza di Thomas Kuhn, la teoria delle catastrofi di René Thom, la
teoria delle strutture dissipative di Ilya Prigogine (Gould, 1989). Gli
equilibri punteggiati non rappresente- rebbero né l'origine di questo movimento
né il suo contesto genera- le: sono soltanto una delle teorie in gioco,
riferita peraltro a una pre- cisa scala temporale, quella delle popolazioni di
organismi biologici 52 in evoluzione. Pertanto le critiche generiche al
puntuazionismo non necessariamente coinvolgono gli equilibri punteggiati,
poiché questi sono solo un’onda in questa corrente e non il tema principale. La
teoria degli equilibri punteggiati, a trent'anni di distanza, ha assunto
molteplici significati e nella versione più «moderata» espo- sta da Eldredge e
Gould su «Nature» nel 1993 rappresenta al con- tempo: una teoria ben definita e
verificabile sull’origine delle specie e sul loro dispiegamento geologico; il
riconoscimento che eventi len- ti su scala ecologica o biologica sono
improvvisi su scala geologica; un'idea affrontabile all’interno dei meccanismi
e delle cause evoluti- ve conosciute, che richiede però un’espansione
gerarchica per com- prendere quali cause operano ai livelli più alti. Gli
equilibri punteg- giati sono dunque una teoria riguardante la macroevoluzione e
ven- nero estesi a una concezione pluralista delle unità evolutive. Essi rap-
presentano l'estensione della logica variazionale darwiniana a «indi- vidui» di
livello superiore: popolazioni e specie. 5. Le estinzioni di massa Nella
prospettiva di una teoria più estesa della macroevoluzione, le estinzioni di
massa, ecatombi globali sotto il cui impeto cadono in- tere classi della
tassonomia terrestre, coinvolgendo paleontologia, geologia, biologia, ecologia,
fisica, astrofisica e altre discipline, sono un ottimo case study per la
verifica delle potenzialità euristiche di una ricerca evoluzionistica
interdisciplinare tesa a indagare le dina- miche macroevolutive non
estrapolabili dal livello genetico (Glen, 1994). La paleontologia, dalla sua
nascita come disciplina, è sempre stata al corrente dell’esistenza di
avvenimenti catastrofici passati, tanto da utilizzarli come spartiacque
fondamentali fra le principali ere del tempo geologico e fra i corrispettivi
biota (Raup, 1991). La Sintesi Moderna, soprattutto nella sua fase di
«indurimento» teori- co degli anni Cinquanta e Sessanta, ha tuttavia
sottovalutato l’inci- denza evolutiva delle estinzioni di massa. Esse
rappresentavano una minaccia per l’immagine gradualista della storia naturale e
furono assorbite come «anomalie» periferiche i cui meccanismi darwiniani
dovevano comunque essere ricondotti a quelli dei tempi normali. Le strategie
epistemologiche «difensive», di sottovalutazione dell’anomalia, furono
essenzialmente di due tipi (Chaloner, Hallam, 1989; Hoffman, 1989). In un primo
senso, si sostenne l’esistenza di una continuità sostanziale attraverso
l’estinzione: si pensò, in altri 53 termini, che l’estinzione fosse solo
un’accelerazione temporanea del ritmo dettato dalla pressione selettiva. La
ricerca di antenati vissuti prima dell’estinzione e di «precursori» delle forme
moderne, anche se talvolta frustrata dalle evidenze osservative, fu sospinta da
questa prima strategia di riduzione del fenomeno alla «normale» gradualità del
cambiamento. In un secondo senso, si volle dimostrare che, fatte le debite mi-
surazioni, l'incidenza numerica delle estinzioni di massa non era suf- ficiente
per considerarle episodi eccezionali: gli apici di scomparsa di individui non
furono ritenuti incompatibili con l’azione della se- lezione naturale e si
presuppose l’esistenza di lunghi periodi di pre- parazione lenta all’estinzione
(periodi di declino). La più sofisticata fra le argomentazioni di questo tipo è
quella di chi ha ipotizzato che l'estinzione fosse un fenomeno soltanto
passivo: un calo improvviso del tasso di speciazione-estinzione e non
l’«uccisione» effettiva di popolazioni. Ma intorno alla metà degli anni Ottanta
gli esperti cominciarono a sospettare che le estinzioni fossero effettivamente
fratture irrever- sibili dell'evoluzione, non i culmini di tendenze evolutive
consolida- tesi in precedenza. Le estinzioni sarebbero cioè «punti di singola-
rità» del tempo evolutivo. Per quattro indici quantitativi coinciden- ti, le
estinzioni di massa vennero da allora considerate come frattu- re improvvise
nel ritmo evolutivo, come «deragliamenti» dal binario dell’evoluzione
«normale»: esse sono più frequenti, più rapide, più profonde (per numero di
individui eliminati) e pid insolite (per gli ef- fetti rispetto al quadro che
si ha in tempi normali) di quanto si fosse sospettato. Sono eventi speciali le
cui regole di funzionamento sfug- gono a ogni ipotesi evolutiva che sia
centrata esclusivamente sulla re- lazione selettiva fra organismi, popolazioni
e nicchie ecologiche. La prima strategia di sottovalutazione delle estinzioni
fu ridi- mensionata dalle ricerche su un episodio evolutivo singolare: la fau-
na di Ediacara (in Australia), interpretata in modo nuovo dal geolo- go tedesco
Adolf Seilacher fra il 1981 e il 1983. Nel sito australiano era stata scoperta
una fauna imprevista: si tratta di organismi pluri- cellulari (invertebrati
marini di basso fondale), dal corpo molle e dal- le dimensioni variabili da
pochi millimetri a quasi un metro di lun- ghezza, risalenti a un periodo di
poco antecedente al «big bang» del- la vita pluricellulare, l’esplosione del
Cambriano. La notizia della scoperta di Ediacara rinforzò le speranze dei pa-
leontologi gradualisti: forse era stata individuata la fauna antenata 54 dei
pluricellulari cambriani, la fase di sperimentazione graduale che avrebbe
portato alla vita di organismi complessi moderni, smenten- do le ipotesi di una
radiazione adattativa eccezionale. Si sarebbe trat- tato soltanto di fare
rientrare tutti gli organismi di Ediacara nelle classificazioni moderne,
cercando di individuare in ogni esemplare australiano l’antenato di una specie
successiva. La conclusione di Seilacher fu invece che fino ad allora, con le
più sofisticate tecniche di rilevazione, non era stato possibile collegare
genealogicamente i membri della fauna di Ediacara a gruppi posteriori. Ediacara
sareb- be, in altri termini, un esperimento unico nella costruzione di fondo
degli esseri viventi: una fauna primordiale poi estintasi e sostituita dalla
fauna cambriana moderna. A detta dello studioso di Tubinga, il Bauplan degli
individui di Ediacara, cioè il loro piano anatomico fondamentale,
rappresenterebbe una strada alternativa dell’evolu- zione che poi gli organismi
moderni non hanno imboccato. La seconda strategia di sottovalutazione puntò sul
calcolo degli indici quantitativi della «catastrofe», nel tentativo di
dimostrare che non vi fossero gli estremi statistici per giustificare un salto
evolutivo improvviso rispetto ai tempi di normalità precedente e seguente.
Tuttavia, alcune importanti ricerche sperimentali successive inde- bolirono
questa argomentazione. Una di queste riguarda non tanto la velocità relativa
del fenomeno dell’estinzione quanto la fonte o le cause concorrenti principali.
La tendenza dominante di geologi e pa- leontologi era stata quella di
privilegiare, secondo un «principio di semplicità» degli agenti di cambiamento
di tipo uniformista, cause endogene graduali il cui corso fosse prevedibile
anziché cause eso- gene ritenute non necessarie e non padroneggiabili alla luce
dei prin- cipi causali dei tempi normali o presenti. Secondo questa interpre-
tazione tradizionale, le estinzioni sarebbero causate da fattori clima- tici, o
affini, la cui azione si dispiegherebbe cumulativamente nell’or- dine dei
milioni di anni. A sostegno di questa interpretazione ci fu per molti anni il
fatto che i sostenitori di ogni altra spiegazione non erano in grado di esibire
valide prove empiriche a conferma. La situazione si capovolse alla fine degli
anni Settanta. Da un la- to molte delle interpretazioni endogeniste si
indebolirono alla luce di nuove acquisizioni paleontologiche, dall’altro
presero forma al- cune letture esogeniste compatibili con i dati a
disposizione. Il caso senza dubbio più popolare di discussione fu l’estinzione
dei dino- sauri, intorno a 65 milioni di anni fa. L’indebolimento delle ipotesi
endogeniste cominciò quando si scoprì che l’estinzione del Cretaceo 55 non
riguardava i dinosauri se non marginalmente: si trattò, infatti, di
un’estinzione su vasta scala che portò, fra l’altro, alla scomparsa di quasi la
metà delle classi di organismi marini esistenti (Powell, 1998). Questo liberò
il campo da una moltitudine di ipotesi sulla presunta inadeguatezza biologica
dei dinosauri. La dimensione planetaria e trasversale dell'estinzione del
Creta- ceo impose ben presto la ricerca di una teoria generale che la spiegas-
se nella sua dinamica globale. Cadde così anche l'ipotesi competitiva, secondo
la quale i dinosauri sarebbero scomparsi a causa della cre- scente competizione
con i mammiferi (allora prevalentemente rodi- tori), piccoli e agili, pelosi e
a sangue caldo, in grado di saccheggiare le loro uova succose. Stimata
correttamente la dimensione dell’estin- zione e la sua azione di perturbazione
dell’intera biosfera, non esiste- va più un problema indipendente di
spiegazione dell’estinzione dei dinosauri. Le ricerche dei paleontologi sui
resti ben conservati della fauna giurassica, rinvenuti negli ultimi vent'anni
in diversi continen- ti, ha destituito di attendibilità l’ipotesi della
competizione. La con- vinzione di Robert T. Bakker, della Harvard University, e
di Mark A. Norell, dell'American Museum of Natural History di New York, fra i
maggiori esperti nel campo, è che i dinosauri anziché rettili in decli- no,
sono oggi da considerare un nuovo gruppo di animali omeotermi che ha dato
origine alla classe degli uccelli. I più attenti paleontologi convennero presto
su una considera- zione relativa alla «salute» della Terra verso la fine del
Cretaceo. Al- cuni eventi geologici planetari erano senza dubbio in
correlazione con l'estinzione. Il livello del mare calò costantemente nella
seconda metà del Cretaceo, abbassando la temperatura media della Terra e
prosciugando le piattaforme continentali di quegli spazi marini a fondale basso
in cui si concentrava la maggior parte degli inverte- brati marini (Ward,
1994). Il clima più freddo portò quindi a un de- clino parallelo dei dinosauri
(che all’epoca dell’estinzione non erano al massimo della loro
diversificazione, anzi avevano già subito una graduale e sostanziale riduzione
delle specie, come ha dimostrato il paleontologo Robert Sloan) e di moltissimi
invertebrati marini di ac- qua bassa (le ammoniti, in particolare, subirono un
lento declino pri- ma dell’estinzione). La fase saliente della biosfera appena
prima dell’estinzione planetaria appare come quella tipica di una sofferen- za
ecologica generalizzata: si trattava probabilmente di una fase «cri- tica» in
cui molti gruppi, per cause di tipo climatico o biologiche, mostravano una
certa vulnerabilità adattativa ed erano già state in- 56 debolite da «un primo
colpo» inferto alla diversità originaria e alle dimensioni della popolazione.
Eppure, secondo una parte dei ricercatori, doveva essere succes- so qualcosa di
molto più drammatico per dare il «colpo di grazia» a questi generi in
difficoltà e per annientare in pochissimo tempo una percentuale così alta del
plancton oceanico (non direttamente dan- neggiato dall’abbassamento del livello
dei mari). Furono infatti ster- minati interi gruppi di organismi, in tutti gli
habitat naturali e non solo sui continenti «raffreddati», e il tutto in un
«istante» del tempo geologico. Serviva una causa concomitante e scatenante,
valida su scala globale. Fu in questo contesto che alcuni ricercatori della
Facoltà di Fisica di Berkeley guidati da Luis e Walter Alvarez, impegnati
allora in ri- cerche del tutto differenti (la misurazione della quantità di
iridio de- positatosi nella varie ere della Terra a causa della caduta di
meteoriti e asteroidi, al fine di poter calcolare derivatamente la velocità di
de- posizione dei sedimenti), fecero nel 1979 una scoperta interessante. La
quantità di iridio depositatosi nelle rocce della fine del Cretaceo era di
molte misure al di sopra del livello normale. Secondo i rileva- menti
geochimici svolti in collaborazione con Frank Asaro e Helen Michael, gli altri
metalli misurati in zone diverse della superficie ter- restre presentavano
invece un comportamento usuale. L’iridio, tro- vato originariamente in una
località dell’Italia centrale e in Danimar- ca, fu poi rinvenuto, nelle
medesime quantità e agli stessi livelli strati- grafici, in rocce del
Nord-America e dell’ Atlantico. La prima spiegazione fu cercata nei ritmi di
deposizione, che però non potevano giustificare concentrazioni di trenta volte
superiori al normale. Si passò presto a spiegazioni esogene, dapprima pensando
all'esplosione di una supernova vicina. In un secondo tempo, dopo varie
ricerche sulla quantità di iridio presente negli oggetti vaganti del sistema
solare e sul numero di «oggetti Apollo» intersecanti l’orbita terrestre
esistenti, si ipotizzò che l’iridio fosse stato distribuito sulla Terra da un
asteroide di grandi dimensioni (circa dieci chilometri di diametro), il cui
impatto sul suolo avrebbe creato un cratere di cen- tocinquanta chilometri di
diametro, inondando l'atmosfera di polve- ri contenenti la quantità di iridio
prevista. A conferma della teoria dell’impatto extraterrestre giunsero altri
rilevamenti geologici sul pe- riodo del tardo Cretaceo corrispondente
all’estinzione: altri isotopi rari, sferule vetrose prodotte da fusione improvvisa
e frammenti di si- lice prodotti solo ad alte pressioni furono interpretati
come ulteriori 57 «tracce» della collisione, il cui cratere fu poi rinvenuto
nel nord della penisola dello Yucatan in America centrale. Dai calcoli degli
Alvarez l’oscuramento del pianeta avrebbe in- terrotto la fotosintesi per circa
dieci anni, portando all’estinzione il plancton fotosintetico oceanico, il cui
ciclo vitale si completa in al- cune settimane, e al crollo la catena
alimentare dei mari. Il sistema trofico terrestre avrebbe subito il medesimo
destino, con l’estinzio- ne progressiva dei dinosauri erbivori e la conseguente
interruzione della catena alimentare dei carnivori. Solo le grandi piante
terrestri, i cui semi possono avere lunghi periodi di quiescenza nel sottosuo-
lo, e i piccoli «ratti del Mesozoico», grazie alle esigenze alimentari più
modeste e alla flessibilità nella regolazione della temperatura corporea,
sarebbero sopravvissuti dopo l’oscuramento. Il significato della teoria di
Alvarez, che resta allo stato di ipote- si anche se accettata da una porzione
consistente della comunità scientifica (ci sono ancora incongruenze sul piano
sperimentale re- lative alla dinamica di sopravvivenza dei gruppi
sopravvissuti), è evi- dente: non solo riabilita le teorie esogeniste
garantendo a una di es- se la credibilità di una prova empirica di rilievo, ma
conferma anche direttamente l’impossibilità di limitare quantitativamente le
estin- zioni. Esse appaiono fenomeni generalizzati, profondi e su vasta sca-
la, innescati (forse in periodi già critici) da eventi improvvisi non ri-
ducibili necessariamente all’azione di agenti graduali. Resiste oggi una
seconda spiegazione, endogena, dell’innalza- mento dei valori di iridio perla
fine del Cretaceo: alcuni scienziati, fra cui il geologo parigino Vincent E.
Courtillot, ritengono che la causa del fenomeno, e quindi il «colpo di grazia»
a dinosauri e invertebrati marini, sia da ricondurre all’esplosione simultanea
e catastrofica di un certo numero di vulcani (nelle cui polveri sono contenute
quantità di iridio depositatosi negli strati più profondi del pianeta). Se
verificata, questa ipotesi endogenista modificherebbe i rapporti fra
endogenisti edesogenisti, ma non toglierebbe nulla all’interpretazione delle
estin- zioni come punti di singolarità evolutiva. Un'altra ricerca smentisce la
strategia di sottovalutazione quanti- tativa dell’estinzione. Si tratta della
stima della estensione dell’estin- zione del Permiano, 245 milioni di anni fa,
operata da David M. Raup, uno dei maggiori studiosi del fenomeno, al Field
Museum di Chicago. Le ragioni scatenanti di questa estinzione più antica sono
meno note. Vi è senz’altro un rapporto di concomitanza con l’unio- ne di tutti
i continenti nella Pangea e con i conseguenti sconvolgi- 58 menti climatici, ma
questo non necessariamente implica un rappor- to determinato di causa-effetto.
Ciò che qui interessa sono i calcoli fatti da Raup sulla percentuale di
famiglie e specie estintesi in quell’occasione. I dati a disposizione indicano
la scomparsa del 52 per cento delle famiglie di organismi marini. Raup
considerò il com- portamento di una «area tassonomica media» (quella degli
echinoi- di, i ricci di mare) e calcolò che per determinare la scomparsa del 52
per cento delle famiglie è necessaria mediamente l’estinzione del 96 per cento
delle specie, una cifra altissima. Il termine «area» deriva dal fatto che Raup
considera per comodità l'estinzione come pura- mente casuale, come una
decimazione che colpisce alla cieca entro una «area di tiro»: il calcolo del 96
per cento è all’eccesso perché l'estinzione reale non è puramente casuale
(Raup, 1991). Inoltre, quando la morte colpisce a caso, il tasso di estinzione
aumenta quan- to più si scende nella scala tassonomica. La tecnica di
misurazione statistica dei tassi di estinzione di massa è detta da Raup
«rarefazio- ne inversa» e fu presentata per la prima volta nel 1979. Il nodo
concettuale che risalta dai calcoli di Raup sull’estinzione è che sulla scorta
di questi indici di estinzione non possiamo più fon- dare con certezza alcuna
argomentazione centrata sulla «selezione» o su criteri di priorità fra più
adatti e meno adatti: un’estinzione con una media del 96 per cento non può
avere alcuna forma di seletti- vità. Anche se la stima di Raup fosse abbondantemente
all'eccesso (come molti sospettano; stime più prudenti parlano di 80-85 per
cento, il che non modifica l’interpretazione dell’estinzione come di una
decimazione assai severa), dobbiamo introdurre nella nostra im- magine delle
estinzioni una componente rilevante di non-linearità ri- spetto ai periodi di
trasformazione «fisiologica». La superiorità competitiva non spiegherebbe i
tassi di estinzione neppure nel caso di fenomeni di «incontro» su larga scala
fra specie diverse e rivali. Nel caso del «grande interscambio» fra i due
subcon- tinenti americani, dovuto alla formazione dell’istmo di Panama, Raup ha
avanzato l’ipotesi che si sia trattato di un effetto tipico (effetto spe-
cie-area) di stabilizzazione fra area geografica occupata e numero di specie
sostenibili: il rapporto fra i due valori non è lineare e l'habitat dato dalla
somma delle due aree geografiche non poteva tollerare la sopravvivenza della
somma delle specie meridionali e settentrionali. Gli studiosi hanno allargato
il loro modello statistico alle varie estinzioni conosciute: ne hanno isolate
cinque più importanti e han- no analizzato molte estinzioni minori o
«estinzioni di sfondo», se- 59 condo la definizione del paleobiologo
dell’Università di Arizona Da- vid Jablonski. Il risultato è stato che le
estinzioni principali si sta- gliano inequivocabilmente come punti di
singolarità nel corso dell’evoluzione, allo stesso modo in cui un uragano è un
fenomeno atmosferico diverso da una violenta tempesta. Quantitativamente il
gruppo di Chicago ritiene che l'estinzione di sfondo abbia un tasso variabile
da 2,0 a 4,6 famiglie per milione di anni, le estinzioni di massa un tasso
medio di 19,3 famiglie per milione di anni. Nel 1983 Jablonski avanzò la
congettura secondo cui le estinzio- ni sarebbero eventi improvvisi e del tutto
isolati. In altre parole, an- che quei periodi di lento declino, che in effetti
si riscontrano per molte specie dominanti prima dell’estinzione, sarebbero
un’illusio- ne: in realtà il calo del livello del mare potrebbe aver diminuito
pro- porzionalmente la quantità di rilevamenti di individui di quelle spe- cie,
dando l’effetto di lenta riduzione degli esemplari reali. Altri pa- leontologi,
fra cui soprattutto Peter Ward dell’Università di Wash- ington, dopo aver
studiato sequenze fossili complete a Zumaya in Spagna e a Stevns Klint in
Danimarca, ritengono viceversa che la la- cuna dei dati possa nascondere una
gradualità di declino delle spe- cie per tutte le estinzioni e che le cause
siano di tipo climatico (Ward, 1994, 2000). La frequenza relativa di «vere
estinzioni» (scomparsa di una spe- cie senza discendenti) e «pseudoestinzioni»
(scomparsa di una specie perché sostituita da una specie discendente meglio
adattata, come previsto dalla teoria darwiniana) si sposta a favore delle
prime, mo- strando l’esistenza di dinamiche macroevolutive non estrapolabili
dai livelli inferiori. A favore delle pseudoestinzioni vi è però la scoperta
dei cosiddetti «taxa di Lazzaro» di Jablonski, fenomeno per cui alcu- ni gruppi
apparentemente estinti ricompaiono in strati superiori. 6. Modelli a cespuglio
e critica dell’estrapolazionismo La fluttuazione fra tempi normali e tempi
rivoluzionari estende alla scala geologica il pattern generale degli equilibri
punteggiati, la cui dinamica però non va confusa con l’estinzione di massa in
quanto ta- le: gli equilibri punteggiati valgono in tempi «normali» e
descrivono la speciazione; le estinzioni di massa nascono da sconvolgimenti
eco- logici che rompono l'andamento normale dell'evoluzione e cambia- no le
regole del gioco evolutivo. Pensiamo ora a quanto conosciamo dei periodi
immediatamente 60 successivi alle estinzioni di massa. Il caso dell’esplosione
della vita pluricellulare nel primo Cambriano è il meglio documentato, ma la
stessa interpretazione varrebbe per la radiazione adattativa dei mam- miferi
dopo l’estinzione del Cretaceo o delle angiosperme dopo l'estinzione del
Permiano. Anche se Eldredge non concorda con Raup e Gould sull’interpretazione
dell’esplosione del Cambriano, poiché ritiene che l’esplosione di differenti
forme di invertebrati ma- rini sessili, che si nutrono per filtrazione e che
sono dotati di uno scheletro, sia probabilmente la conseguenza di una nuova
opportu- nità ecologica e non la reazione a un precedente evento di estinzio-
ne (Eldredge, 1991), la situazione comune a questi periodi successi- vi alle
grandi decimazioni sembra essere quella di una inusitata li- bertà di movimento
per i sopravvissuti: alcuni sistemi organici sono liberi di sperimentare in
modo inedito nuove soluzioni vitali, nuovi comportamenti, nuove morfologie. Si
può parlare di un principio dell’evoluzione indotta dalle estinzioni, per cui
fra tasso di estinzio- ni avvenute e cambiamenti organici sussisterebbe una
legge di pro- porzionalità diretta (Raup, 1991). Secondo Gould, l’alternanza
fra veloci diversificazioni e lunghi periodi di stabilità sarebbe ulteriormente
confermata dallo studio dei periodi successivi al Cambriano. Il futuro della
fauna di Burgess Shale in British Columbia, per esempio, un giacimento di
fossili del primo Cambriano particolarmente ricco di resti di parti molli
attor- no al quale si sono concentrate le attenzioni dei paleontologi fin dal
1909, confuterebbe la concezione di un progresso cumulativo della varietà delle
forme biologiche fondamentali. La comparazione fra la situazione di Burgess e
le faune ritrovate nei sedimenti più recenti il- lustrerebbe uno svolgimento
opposto: pur non avendo un gran nu- mero di specie differenti, la fauna di
Burgess presenta una gamma di piani anatomici fondamentali ineguagliata nei
periodi successivi. All’esplosione del Cambriano e alla decimazione dei phyla
di poco successiva, seguirebbe un lento processo di stabilizzazione e di con-
solidamento (con una differenziazione interna di specie) dei pochi piani
sopravvissuti. Lo scopritore della Burgess Shale, Charles D. Walcott, aveva
ten- tato di incanalare le tipologie degli animali di Burgess nella griglia
tassonomica dei gruppi moderni. Le attribuzioni del più autorevole paleontologo
americano del primo Novecento mirarono, per mezzo di vari espedienti
classificatori, a collegare sistematicamente le morfologie degli animali
cambriani a quelle individuate nei periodi 61 successivi. Questo approccio
rispecchiava una concezione progres- sionista della storia naturale molto
familiare a quel tempo. Un ani- male della fauna di Burgess, per quanto
inconsueta potesse essere la sua forma, doveva per forza essere il discendente
di un animale pre- cambriano e doveva per forza essere il progenitore di un
animale del- le epoche successive, lungo una linea idealmente continua di
deriva- zione morfologica. La costrizione teorica di Walcott era così forte da
alterare, se- condo Gould, il messaggio più evidente della fauna di Burgess,
os- sia la sua irriducibile diversità e la pluralità di piani fondamentali di
strutturazione organica. Egli partì dal preconcetto che la storia na- turale
fosse un’evoluzione progressiva per differenziazione di forme, un cono di
diversità crescente, e che gli animali scoperti per una cer- ta epoca dovessero
rientrare necessariamente nel «calzatoio» con- venzionale di distribuzione
progressiva delle tipologie animali e ve- getali. Una visione comune a molti
scienziati conservatori del mon- do anglosassone rappresentava, infatti, la
storia naturale come un piano di sviluppo e di progresso, una scala ascendente
verso adatta- menti sempre più complessi: la vita doveva procedere verso mag-
giore diversità, crescente complessità e migliori adattamenti. Pesci, rettili,
mammiferi e uomo mettevano in scena la «grande catena dell’essere» (Lovejoy,
1936), un paradigma estremamente influente negli studi evoluzionistici non
soltanto in epoca vittoriana (Nitecki, 1988; Ruse, 1996). Il cono della
diversità crescente rappresenta la vita come un albe- ro genealogico
ramificato, secondo l’iconografia diffusa nella secon- da metà dell'Ottocento
dal biologo Ernst Haeckel. La filogenesi del- le famiglie principali è resa
attraverso diagrammi ad albero che si estendono verso l’alto e verso l'esterno:
la differenziazione è diretta- mente proporzionale al tempo trascorso; ciò che
è situato in basso è primitivo e in quanto tale più elementare. Anche quando
l’evoluzio- ne reale di un gruppo, ricostruita con esattezza da Haeckel,
testimo- nia con evidenza un processo di diversificazione decrescente (come nel
caso degli echinodermi, la cui diversità, quanto a numero di spe- cie, fu
drasticamente ridotta rispetto alle origini), l'iconografia risul- tante è
quella di un cono in cui le singole ramificazioni esprimono il differenziarsi
cumulativo di nuove varianti morfologiche. I successori di Walcott, guidati da
Harry Whittington, che ripre- sero lo scavo di Burgess a partire dalla metà
degli anni Sessanta e stu- diarono molti fossili non analizzati prima,
scoprirono una realtà ben 62 diversa. Il loro «dramma» scientifico ed
euristico, in particolare quello degli allievi di Whittington, Simon Conway
Morris e Derek Briggs, è narrato da Gould in una delle sue monografie più note,
La vita meravigliosa (1989). Essi videro emergere dai cassetti di Walcott una
gamma di diversità anatomica inimmaginabile pochi anni prima: rispetto alla
fauna moderna, quella di Burgess presentava, oltre ai precursori dei phyla
moderni, quasi venti piani anatomici fonda- mentali che non avevano alcun corrispondente
con i trentadue clas- sificati attualmente. Walcott aveva pensato che fosse
possibile aggirare le difficoltà dell’esplosione cambriana ipotizzando che la
differenza di velocità dell’evoluzione, in questi passaggi critici epocali
della storia natura- le, potesse comunque essere ricondotta a una sequenza di
differen- ziazione graduale e progressiva: 4) dal primitivo al complesso; 2) da
abbozzi di adattamento a specializzazioni funzionali; c) da poche ra-
mificazioni di base a «fronde» intricate di derivazioni evolutive. La revisione
della fauna di Burgess operata dal team di Whittington ap- prodò alla
confutazione di questi tre principi del progressionismo. Le preziose parti
molli dei più bizzarri animali cambriani non mo- stravano i segni né di una
elementarità anatomica (al contrario, di un certo «eccesso» nella
sperimentazione anatomica), né di una «inge- nuità» adattativa (molte delle
strutture più innovative si rivelarono ottime specializzazioni alla nicchia
ambientale di Burgess), né, ed è la caratteristica più macroscopica della
diversificazione dei phyla, una minore differenziazione morfologica (per
esempio, lo spettro dei phyla degli invertebrati moderni è ampiamente superato
a Bur- gess). La fauna cambriana non poteva rappresentare la parte infe- riore
di un «cono di diversità crescente». Nella sua analisi del caso Burgess, Gould
ha sottolineato molto la distinzione terminologica, proposta dai paleontologi
Valdar Jaanus- son e Bruce Runnegar nel 1981 e nel 1987, fra diversità, intesa
come differenziazione fra specie, e disparità, intesa come differenziazione fra
i phyla anatomici fondamentali. La riduzione della maggior par- te delle specie
post-cambriane a pochi piani anatomici, fenomeno detto tecnicamente stereotipia
biologica, corrisponderebbe a una di- minuzione drastica della disparità e a un
aumento progressivo della diversità (misurato da Sepkoski e da alcuni colleghi
di Chicago nel 1981). La fauna di Burgess, risalente a circa quaranta milioni
di an- ni dopo l’esplosione cambriana, presenta una disparità anatomica e
morfologica delle parti molli di molto superiore a quella registrata 63 nei
periodi immediatamente precedenti e seguenti: dopo Burgess vi saranno soltanto
variazioni sui pochi «temi» sopravvissuti. La monografia su Burgess ha però
aperto, su questo fronte, ac- cese discussioni a proposito della nozione di
disparità e della sua mi- sura da parte di Gould, in primo luogo perché negli
anni seguenti il pendolo della collocazione tassonomica è tornato in alcuni
casi dal- la parte del «calzatoio» di Walcott. Conway Morris, che in un primo
tempo aveva sottoscritto l’interpretazione della fauna cambriana co- me di un
ineguagliato esperimento di diversificazione anatomica, è poi tornato sui suoi
passi polemizzando duramente con Gould. Al- tri paleontologi ritengono che la
misura della disparità degli artro- podi di Burgess proposta da Gould faccia
troppo affidamento sugli schemi di segmentazione degli animali, e meno su altri
tratti di pari importanza. La disparità è infatti calcolata in Gould sia sulla
base dell’ordine di ramificazione delle linee di discendenza sia sulla base
delle differenze morfologiche fra i gruppi, pertanto la selezione dei caratteri
ritenuti importanti può influenzare il risultato. Questo ap- proccio è messo in
discussione da chi diffida della possibilità di mi- surare oggettivamente le
differenze morfologiche e di quantificare il «morfospazio» occupato dalle
specie. Inoltre, secondo Mark Ridley, utilizzare come criteri di misura della
disparità caratteristiche morfologiche che oggi sono importan- ti,
principalmente la segmentazione corporea e le appendici, rischia di cadere
nella fallacia retrospettiva, una critica che sarà mossa a Gould anche da
Maynard Smith. Non è detto che ciò che oggi di- stingue piani anatomici diversi
sia un buon riferimento per calcola- re la disparità di un’epoca così remota.
Forse anche l'evoluzione «evolve» e il grado di flessibilità genetica di allora
avrebbe potuto es- sere maggiore di quello attuale, vanificando distinzioni che
oggi ci paiono determinanti e che forse allora erano solo modulazioni di un
unico piano anatomico fondamentale. Analoga cautela vale per l'estensione del
caso scelto: il modello di massima disparità iniziale vale per i primi animali
del Cambriano, ma non per le piante né per i batteri, cioè per altri grandi
regni del vivente. Le radiazioni adattative come quella del Cambriano hanno
avu- to modellizzazioni differenti, ciascuna delle quali rivela forse un
aspetto decisivo del processo complessivo di estinzione e di irradia- zione
della vita. Una ulteriore modellizzazione, a lungo prevalente ma oggi
declinante, è quella neodarwiniana classica centrata sul con- cetto di
competizione: Raup l’ha definito il modello del «gioco lea- 64 le». Ma se la
maggior parte del tempo evolutivo impiegato dagli es- seri viventi trascorre
nel recupero della stabilità e della diversità do- po le decimazioni
periodiche, sono le stesse leggi di regolazione del- la sopravvivenza a dover
essere riviste. L'importanza evolutiva delle estinzioni dimostrerebbe che
l’insorgenza di nuove forme di vita è favorita da condizioni ambientali
instabili e non da ecosistemi stabi- li e uniformi. Secondo il modello della
«sperimentazione iniziale e standardiz- zazione successiva», introdotto da un
articolo di compromesso (se- guito a prolungate controversie
sull’interpretazione della fauna cam- briana) firmato da David M. Raup, J. Jack
Sepkoski, Robert K. Bam- bach e James W. Valentine nel 1981, l'opportunità
ecologica insoli- ta permetterebbe, in una prima fase, la sperimentazione di
tutte le forme di vita possibili in un dato contesto. Si formano molti phyla
diversi con poche specie ciascuno. La fase di sperimentazione corri- sponde
all’esplosione e diversificazione di quello che potremmo chiamare un «cespuglio
evolutivo», con le ramificazioni potenziali in via di differenziazione. La fase
successiva è quella di un assestamen- to piuttosto traumatico: crolla il numero
dei phyla complessivi, emergono alcuni rami superstiti e dominanti del
cespuglio, ciascuno con un numero di specie e varianti sottospecifiche in
divergenza pro- gressiva. Si verifica una standardizzazione dei piani corporei
fonda- mentali, o meglio una «decimazione» della maggior parte degli espe-
rimenti precedenti. Nel caso del Cambriano le fasi previste dal modello
sperimenta- zione-decimazione sarebbero: 4) radiazione adattativa: dovuta forse
a cambiamenti ecologici radicali o a un’estinzione di massa di cui ab- biamo
perso le tracce; 5) diversificazione progressiva: la radiazione adattativa si
estende nel tempo fino a un massimo di disparità morfo- logica e strutturale;
c) decimazione: si verifica una riduzione della di- versità e una estinzione
progressiva della maggior parte dei piani anatomici fondamentali; 4)
diversificazione dei piani anatomici so- pravvissuti: i phyla rimasti si
differenziano in specie eterogenee, si ha cioè un aumento di diversità e una
riduzione di disparità. Secondo il modello della «casualità generatrice di
ordine», inve- ce, lo spostamento da un ordine naturale dato da molti phy/a con
po- che specie (disparità) a un ordine naturale dato da pochi phy/a con molte
specie (diversità) avverrebbe anche durante le estinzioni non selettive, non
solo nella fase successiva, come uno schema generale di distribuzione della
diversità. I processi casuali avrebbero un ruo- 65 lo importante (anche se non
esclusivo) nella decimazione dei piani corporei. La profondità della
decimazione di piani anatomici etero- genei è, almeno nelle due estinzioni
analizzate dal gruppo di Chica- go, tanto grande da far entrare in gioco quasi
intuitivamente gli ef- fetti di fluttuazioni casuali in propagazione.
Naturalmente Raup e i colleghi di Chicago non sostengono che il principio di
casualità im- plichi l’«assenza di cause» per l'estinzione e la radiazione.
Occorre distinguere fra «casualità reale» (assenza totale di cause) e
«casualità probabilistica» (complessità dei fattori causali tale da impedirne
una esaustiva analisi deterministica), riferendosi esclusivamente, nella
modellizzazione, alla seconda. Studiando gli invertebrati marini fossili,
Jablonski ha mostrato che i fattori causali attivi in tempi normali (quei
tratti che favorisco- no la sopravvivenza o intensificano la speciazione)
perdono «visibi- lità» selettiva nei periodi di estinzione di massa. Solo la
distribuzio- ne geografica è una proprietà che rimane utile anche nei tempi
spe- ciali della singolarità evolutiva, pur determinando casualmente la buona o
cattiva sorte di ciascuna popolazione. Questi fattori casua- li possono
spiegare, nella forma più diretta, l’irreversibilità del pro- cesso evolutivo
(per cui l'estinzione è per sempre, senza possibilità di ritorno) e la mancanza
di una direzionalità, allargando il dominio potenziale di quella che Gould
altrove chiama la «ruota della fortu- na» (che non è cieca casualità ma
produzione di gradi di ordine a partire da processi randomizzati) in
contrapposizione all’idea di un processo totalizzante di «incuneazione» fra
organismi e specie che si sostituiscono linearmente nella lotta per la sopravvivenza.
Infine, secondo il modello delle different rules o «degli agenti in- nescanti
esterni», un cambiamento esogeno esteso produce nuove regole di vita,
originando differenti esiti e percorsi evolutivi. Il mo- dello si differenzia
dal precedente perché non valuta la sopravviven- za come prevedibile secondo
calcoli probabilistici: i sopravvissuti so- no tali in virtù di una qualche
«ragione evolutiva», di un comporta- mento o di una struttura utile, anche se
del tutto indipendenti dalla funzione originaria per cui si sono formati in
tempi normali. In un certo senso la pura casualità dell’evento di estinzione e
successiva ra- diazione è mitigata dalla possibilità che esista un principio di
seletti- vità dell’estinzione. È la scena a cambiare, piuttosto che i protago-
nisti. Alle leggi della competizione è opportuno integrare lo studio delle
dinamiche indipendenti di reazione alle perturbazioni, dando 66 per inteso che
queste diverse traiettorie adattative saranno «descri- vibili» solo a
posteriori. In questo senso dobbiamo escludere che estinzioni di massa e ra-
diazioni adattative siano eventi meramente fortuiti e che a seguito della
teoria delle estinzioni di massa si annunci una concezione ca- sualistica
dell'evoluzione. Le estinzioni mantengono una loro forte «utilità» evolutiva.
Una funzione possibile delle estinzioni potrebbe essere quella di regolare lo
«spazio adattativo» disponibile per le speciazioni: la riduzione imprevista e
non selettiva di forme viventi potrebbe essere una «boccata di ossigeno» per le
possibilità genera- li di innovazione adattativa. L’estinzione, ha notato Van
Valen, rien- tra nell’«economia della natura», insieme alle espansioni
adattative e alla normale selezione ambientale. Se per assurdo l'estinzione non
si verificasse mai, il cespuglio genealogico delle famiglie animali e ve-
getali assumerebbe ben presto le sembianze di un «salice» aggrovi- gliato, al
limite di saturazione per la ramificazione incontrollata di forme viventi
divergenti. Per questo non è corretto sostenere che la teoria delle estinzioni
di massa e delle radiazioni adattative sia una confutazione del signi- ficato
centrale della teoria darwiniana. Siamo di fronte, piuttosto, a un tentativo di
allargamento teorico e di estensione del nucleo darwiniano (Gould, 2002):
l’estinzione o la decimazione a «seletti- vità anomala» si limita ad aggiungere
un altro fattore, macroevoluti- vo, non estrapolabile da quelli tradizionali.
Certo, si tratta di un ele- mento nuovo, che opera a livello di specie, di
famiglie e di intere clas- si di organismi, e che deriva da sconvolgimenti
ecologici anomali. L’attuale diversità della vita non sarebbe possibile senza
questi in- cendi periodici che, come in una foresta, di tanto in tanto spazzano
via intere porzioni di un ecosistema per poi affidarlo a nuovi prota- gonisti.
Equilibri punteggiati, estinzioni di massa e radiazioni adat- tative
rappresentano pattern di fenomeni evolutivi ed ecologici su larga scala non
estrapolabili dall’accumulo di lente modificazioni ge- netiche su piccola
scala. Si tratta dunque precisamente di una criti- ca dell’estrapolazionismo di
matrice neodarwiniana. Alcuni paleontologi, come Stephen Donovan (1989), hanno
pre- ferito alla ricerca di un’unica causa per tutte le dinamiche di estin-
zione di massa l’individuazione di una molteplicità di cause specifi- che (e
talvolta concomitanti): riduzioni di habitat, impatti extrater- restri,
raffreddamenti globali. Per altri, la causa primaria delle estin- zioni di
massa potrebbe essere l’abbassamento della temperatura 67 planetaria. Le
numerose testimonianze fossili, circa la sopravviven- za differenziale di
specie tropicali (più specialiste e sterminate in massa) e specie delle zone
temperate (solitamente generaliste e più resistenti all’estinzione),
sembrerebbero confermare l’ipotesi. In accordo con il filone di ricerca
americano sulle estinzioni so- stenuto da Raymond Moore e Norman Newell,
Eldredge ritiene che l'abbassamento della temperatura si accompagni alla
riduzione dra- stica degli habitat. La teoria della perdita dell'habitat fu
sostenuta negli anni Settanta dal paleontologo Tom Schopf, fondatore della ri-
vista «Paleobiology». Il cambiamento di clima disgrega gli habitat originari,
innescando le normali estinzioni di sfondo ed esponendo l'ecosistema alle
fluttuazioni improvvise delle estinzioni in massa. Se, come appare da ricerche
successive, la dinamica delle estinzioni di massa non si svolgesse in una
sequenza rapida e isolata ma in un ca- rosello di eventi più piccoli, la teoria
endogenista del raffreddamen- to e della reazione a perturbazioni nelle
dimensioni degli habitat po- trebbe, secondo la paleontologa Vrba, risultare
più calzante. Vrba (1993, 1995) ha formulato la sua ipotesi sulla «resistenza
al- le perturbazioni» studiando le specie di antilopi, e di altre famiglie, del
Pliocene in Africa meridionale. Nella sua visione l’estinzione ap- pare come il
superamento di una soglia critica: il biota è conserva- tore e si oppone al
cambiamento, finché la perturbazione ambienta- le diventa insostenibile e porta
all'estinzione e alla sostituzione di molte specie in un turnover pulse
globale. Anche l'accumulo di un cambiamento ambientale graduale può dare
origine a scompagina- menti degli habitat e a ondate di estinzione. Ciò che
conta è che la stessa causa, la frammentazione dell’habitat, innesca non
soltanto la decimazione, ma anche la successiva proliferazione di specie.
Spicca il significato teorico di questi fenomeni, cioè che la storia della vita
non sarebbe un accumulo di episodi di cambiamento a li- vello microevolutivo e
che le entità su larga scala esibirebbero pat- tern evolutivi propri, non
estrapolabili dai livelli inferiori. Non è dunque un richiamo a «cause
eccezionali», ma una critica all’estra- polazionismo insito nella Sintesi
Moderna, nonché una riscossa del- la paleontologia come disciplina centrale per
comprendere i mecca- nismi dell'evoluzione su larga scala. Teoria degli
equilibri punteg- giati, turnover pulses ed estinzioni di massa apriranno un
importan- te dibattito in seno alla filosofia della biologia, relativo
all’effettiva indipendenza di questi meccanismi macroevolutivi rispetto alle
nor- mali dinamiche di interazione fra organismi e ambienti. 68 COSA LEGGERE...
Nascita, sviluppi e conseguenze del pensiero puntuazionale sono discus- si
nell’importante raccolta di A. SOMIT, S. PETERSON (a cura di), The Dy- namics
of Evolution, Cornell University Press, Ithaca (NY) 1989. Nel 1993 ELDREDGE e
GOULD hanno sintetizzato la versione matura del pun- tuazionismo: «Punctuated
Equilibrium Comes of Age», in Nature, 366, pp. 223-27. ELDREDGE ha ricostruito
il suo punto di vista circa i rappor- ti fra la teoria degli equilibri
punteggiati e la tradizione del neodarwini- smo in Ripensare Darwin, Einaudi,
Torino 1999 (ed. or. 1995), con par- ticolare attenzione al problema della
stabilità delle specie e alla «riam- missione» della paleontologia alla «tavola
alta» del neodarwinismo. GOULD ripercorre puntigliosamente le tappe del
dibattito sugli equilibri punteggiati nel capitolo nono del suo opus rzagnunz:
La struttura della teo- ria dell'evoluzione, Codice Edizioni, Torino 2003 (ed.
or. 2002). L’opera di S.M. STANLEY in difesa del puntuazionismo e di una teoria
indipen- dente della macroevoluzione ha trovato espressione anche in
riferimento all'evoluzione ominide, in Chi/dren of the Ice Age, Freeman &
Co., New York 1996. Per una posizione più scettica, J. MAYNARD SMITH, The
Theory of Evolution, Cambridge University Press, Cambridge 1993. La radiazione
adattativa dei pesci ciclidi del Lago Vittoria, un caso molto in- teressante
per mettere alla prova i pattern macroevolutivi, è descritta da Ts GOLDSCHMIDT,
Lo strazo caso del Lago Vittoria, Einaudi, Torino 1999 (ed. or. 1994). In
ambito italiano, sul contributo della paleontolo- gia alla teoria dell’evoluzione:
G. PINNA, La matura paleontologica dell'evoluzione, Einaudi, Torino 1995. La
controversia fra puntuazionisti e riduzionisti è presentata in forma
divulgativa da R. MORRIS, The Evolutionists. The Struggle for Darwin's Soul,
Freeman & Co., New York 2001. Per un’importante critica al pun-
tuazionismo, oltre ai testi di Richard Dawkins, si veda J. LEVINTON, Ge-
netics, Paleontology and Macroevolution, Cambridge University Press, Cambridge
1988. Una parola di chiarezza sulle confusioni fra puntuazionismo e anti-
darwinismo è quella di ELDREDGE, The Triumph of Evolution and the Fai- lure of
Creationism, Freeman & Co., New York 2000. Molto utili in tal senso sono
anche due testi usciti dopo la sconfitta giudiziaria del movi- mento
creazionista americano del 1981: D.J. FUTUYMA, Science on Trail: The Case for
Evolution, Sinauer Associates, Sunderland (Mass.) 1982 e P. KITcHER, Abusing
Science: The Case Against Creationism, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1982. La
sistematica filogenetica nasce con W. HENNIG, Phylogenetic Sys- tematics,
University of Illinois Press, Urbana (Ill.) 1966. Un importante 69
aggiornamento è E.O. WiLEy, Phylogenetics. The
Principles and Practice of Phbylogenetic Systematics, John Wiley & Sons,
New York 1981. M. RIp- LEY ha descritto principi e metodi della cladistica in
Evolution and Clas- sification: The Reformulation of Cladisma, Longman, London
1986. Gli ac- cesi dibattiti che agitano la biologia sistematica sono
ripercorsi con viva- cità da D.L. HULL, Science as a Process, University of
Chicago Press, Chi- cago 1988. Importante anche lo studio di A. MINELLI,
Introduzione alla sistematica biologica, Muzzio, Padova 1991. L’incontro fra il
puntuazio- nismo e la cladistica è tratteggiato in un’opera di ELDREDGE scritta
insie- me a J.L. CRACRAFT, Phylogenetic Patterns and the Evolutionary Process,
Columbia University Press, New York 1980. L'introduzione del pensiero
puntuazionale nello studio dell’evolu- zione umana è riconducibile soprattutto
all’opera del paleoantropologo IAN TATTERSALL, insieme a N. ELDREDGE, I 772507
dell'evoluzione umana, Bollati Boringhieri, Torino 1984 (ed. or. 1982), e poi
in The Fossil Trail, Oxford University Press, Oxford-New York 1995, I/
camzzzino dell’uomo, Garzanti, Milano 1998 (ed. or. 1998) e La scirzizia allo
specchio, Melte- mi, Roma 2003 (ed. or. 2002). Sia concesso rimandare, a questo
proposi- to, anche a T. PIEVANI, Horzo sapiens e altre catastrofi, Meltemi,
Roma 2002. Un ottimo aggiornamento su questi temi, non solo in paleoantro-
pologia, è rinvenibile nell’opera di JT.H. ScHwARTZ, Sudden Origins. Fos- sîls, Genes, and the Emergence of Species, Wiley
& Sons, New York 1999. Si veda inoltre L.L. CAVALLI
SFORZA, P. MENOZZI, A. PIAZZA, Storia e geografia dei geni umani, Adelphi,
Milano 1997. Sulle diverse nozioni di specie oggi in
gioco (filogenetica, ecologica, pet coesione, e così via), D. HULL, «The Ideal
Species Concept, and Why we Can't Get it», in M.F. CLARIDGE, H.A. DAWAH, M.R.
WILSON (a cu- ra di), Species: The Units of Biodiversity, Chapman & Hall,
New York 1997.In Paleoantropologia, T. WHITE, «Early Hominids-Diversity or Di-
storsion?», in Science, 299, 2003, pp. 1994-97. Un
contributo significativo a una teoria della macroevoluzione come livello
autonomo non estrapolabile dall’accumulo di piccole modifica- zioni nelle
frequenze geniche è stato offerto dalla paleontologa Elisabeth Vrba, «Patterns
in the Fossil Record and Evolutionary Processes», in M.W. Ho, P.T. SAUNDERS (a
cura di), Beyond Neo-Darwinism. An Intro- duction
to the New Evolutionary Paradigr:, 1984, pp. 115-42; «Turnover- Pulses, the Red
Queen and Related Topics», in Azzerican Journal of Sci- ence, 293-A, 1993, pp.
418-52; «Species as Habitat-Specific Complex Systems», in D.M. LAMBERT, H.G. SPENCER
(a cura di), Speciation and the Recognition Concept, Johns Hopkins University
Press, Baltimore, 1995. La monografia sulla Burgess Shale di S.J.
GOULD, La vita meraviglio sa. I fossili di Burgess e la natura della storia,
Feltrinelli, Milano 1990 (ed. or. 1989). Il significato dello scavo di Burgess
per SIMON Conway MoR- 70 RIS è sintetizzato, con una nota finale critica verso
l’interpretazione di Gould, in The Crucible of Creation. The Burgess Shale and the Rise of Ani- mals, Oxford
University Press, Oxford 1998. Il classico dello storico del-
le idee A. J. LOVEJOY sul concetto di progresso nelle scienze del vivente: La
Grande Catena dell'Essere, Feltrinelli, Milano 1966 (ed. or. 1936). Il
progressionismo nella teoria dell’evoluzione viene discusso in: J. DUPRÉ (a
cura di), The Latest on the Best. Essays
on Evolution and Optimality, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1987; M.H. NITECKI (a
cura di), Evoly- tionary Progress, Chicago University Press, Chicago 1988; M.
RuSE, Mo- nad to Man. The Concept of Progress in Evolutionary Biology, Harvard
University Press, Cambridge (Mass.) 1996. Per una
rassegna delle diverse ipotesi esplicative circa i fenomeni di estinzione di
massa cfr. W. GLEN (a cura di), Mass-Extinction Debates: How Science Work in a
Crisis, Stanford University Press, Stanford 1994 e R.D.E. MACPHEE (a cura di),
Extirctions in Near Time. Causes, Con- texts and Consequences, Kluwer Academic
Publ., New York 1999, che aggiornano i precedenti W.G. CHALONER, A. HALLAM (a
cura di), Evo- lution and Extinction, Cambridge University Press, Cambridge
1989, per un approccio neodarwiniano classico e S.K. DONOVAN (a cura di), Mass
Extinctions: Processes and Evidence, Belhaven Press, London 1989, per un
approccio più pluralista. Cfr. anche K.J. Hsu, La grande moria dei di- nosauri,
Adelphi, Milano 1993 (ed. or. 1986). Una ricostruzione, di par- te, delle
scoperte che hanno portato all'ipotesi dell'impatto: W. ALVAREZ, T. Rex e il
cratere dell’apocalisse, Mondadori, Milano 1998 (ed. or. 1997). Fra i sostenitori invece dell’ipotesi vulcanica: V.
COURTILLOT, C. ALLE- GRE, Evolutionary Catastrophes: The Science of Mass
Extinction, Cam- bridge University Press, Cambridge 1999. Molto
scettico sulla reale por- tata delle estinzioni di massa era nel 1989 A.
HOFFMAN, Argurmzents on Evolution, Oxford University Press, Oxford-New York.
Sul modello del- le different rules e della casualità generatrice di ordine,
D.M. RAUP, L’estinzione. Cattivi geni o cattiva sorte?, Einaudi, Torino 1994
(ed. or. 1991). Una discussione più dettagliata e quantitativa è in J.H.
LAWTON, R. MAY (a cura di), Extinction Rates, Oxford University Press, Oxford-
New York 1995. La letteratura divulgativa recente sulle estinzioni di massa è
diventa- ta una sorta di caso editoriale ed è ricca di testi la cui suggestione
non sa- crifica il rigore: D.B. CARLISLE, Dinosaurs, Diamonds and Things from
Outer Space, Stanford University Press, Stanford 1995; C. FRANKEL, The End of
the Dinosaurs. Chicxulub Crater and Mass Extinctions,
Cambrid- ge University Press, Cambridge 1999; J.L. POWELL, Night Comes to the
Cretaceous, Harcourt Brace & Co, New York 1998; G.L. VERSCHUUR, I7- pact.
The Threat of Comets and Asteroids, Oxford University Press, Oxford-New York
1996. Infine, consolidato studioso e abile narratore 71 dei grandi
episodi macroevolutivi del tempo profondo, con un occhio al presente e
all’estinzione di massa della biodiversità prodotta dall’uomo, è PETER D. WARD:
The End of Evolution: On Mass Extinctions and the Preservation of Biodiversity,
Bantam Books, New York 1994; Rivers in Time. The
Search for Clues to Earth's Mass Extinctions, Columbia Univer- sity Press, New
York 2000. Sullo stesso tema ritorna ELDREDGE in I/ ca- narino del minatore,
Sperling & Kupfer, Milano 1995 (ed. or. 1991); La vita in bilico, Einaudi,
Torino 2000 (ed. or. 1998), e in ID. (a cura di), La vita sulla Terra, Codice
Edizioni, Torino (ed. or. 2002), come pure RICHARD LEAKEY e ROGER LEWIN, La
sesta estinzione, Bollati Boringhie- ri, Torino 1998 (ed. or. 1995). Capitolo
terzo Replicatori e interattori: il selezionismo genico e la teoria gerarchica
dell’evoluzione Il ruolo della selezione naturale nel guidare il cambiamento
geneti- co è un punto nodale del programma neodarwiniano. Il nucleo del- la
teoria, è bene ricordarlo, poggia su tre evidenze empiriche: la va- riazione
fenotipica, l’adattamento differenziale, l’ereditabilità dei ca- ratteri. In
sostanza, gli organismi variano in ogni popolazione; alcu- ne varianti saranno
meglio equipaggiate di altre a sopravvivere in un dato ambiente e, a causa
della scarsità di risorse, tenderanno a pre- valere; le varianti più
competitive avranno pertanto più possibilità di riprodursi e di trasmettere le
caratteristiche ereditabili alla discen- denza; tali caratteristiche si
diffonderanno nella popolazione in virtù dei loro vantaggi per la sopravvivenza
e quindi la distribuzione dei tratti nella popolazione cambierà; l’azione
continua di questo mec- canismo demografico e statistico farà sì che le
popolazioni si tra- sformino nel tempo, accumulando innovazioni lungo una
sequenza di episodi selettivi. Noi chiamiamo questa trasformazione su basi de-
mografiche «evoluzione per selezione naturale». 1. La teoria dei replicatori Le
mutazioni con effetti sistemici a vasto raggio sono rare e prevalen- temente
dannose, pertanto la selezione agisce cumulativamente, som- mando piccole
innovazioni nel corso di migliaia di generazioni, in un flusso trasformativo
molto lento se misurato sulla scala deltempo uma- no, un’evidenza questa che
nessun evoluzionista attuale mette in di- scussione. Soltanto i sostenitori di
una versione contemporanea del creazionismo, i teorici del cosiddetto intelligent
design, mettono in di- scussione il fatto che la selezione naturale sia un
cieco meccanismo ma- teriale che non implica alcun agente intenzionale e alcuna
finalità pro- gettuale consapevole inscritta nella natura. 73 Inoltre, la
selezione non è coinvolta soltanto nel processo di adat- tamento, ma anche in
quello della differenziazione delle popolazio- ni. La speciazione allopatrica
si basa sul fatto che le popolazioni, adattandosi ad ambienti diversi,
accumulano per selezione naturale divergenze genetiche, morfologiche e
comportamentali (per esem- pio nei riti di accoppiamento) tali da non potersi
più incrociare. Dunque la selezione concorre alla speciazione e alla
diversificazione di specie. Secondo Butlin (1987) nella speciazione si
instaurerebbe anche una selezione «di rinforzo» che favorisce l’isolamento
ripro- duttivo inibendo gli accoppiamenti ibridi, in quanto progressiva- mente
meno fertili. Naturalmente, sono necessarie alcune condizio- ni di contorno
affinché la selezione possa agire: il tasso di mutazio- ne genetica non deve
essere troppo alto; la variabilità interna alla po- polazione non deve essere
troppo bassa; la direzione delle pressioni selettive deve mantenersi
minimamente stabile nel tempo. Alcuni ritengono però che i limiti della
selezione naturale vada- no oltre la disponibilità di variazione. Forse
esistono vincoli di altro genere, legati alla storia pregressa degli organismi,
ai piani anatomi- ci di base, ai percorsi incanalati dello sviluppo
ontogenetico. Ma la controversia sull’incidenza della selezione naturale si
presenta, in una sua prima dimensione, come un dibattito incentrato sulle «vere
unità dell'evoluzione», tema al quale era approdato anche il dibatti- to sulla
frequenza degli equilibri punteggiati. La descrizione della teoria proposta
poco sopra, per esempio, parte dalla fenomenologia delineata da Darwin (gli
organismi sono diversi) e approda al mec- canismo della selezione naturale che
cambia le distribuzioni dei ge- ni nelle popolazioni: gli organismi si riproducono
perché sopravvi- vono. In una visione centrata maggiormente sul livello
genetico, in- vece, l’interpretazione tende a essere rovesciata: gli organismi
lotta- no per massimizzare la diffusione dei loro geni di generazione in ge-
nerazione, cioè sopravvivono per riprodursi. Oggi troviamo chi, riprendendo la
posizione originaria di Weis- mann, sta elaborando da alcuni decenni un vasto
progetto di ridu- zione della fenomenologia biologica ai meccanismi selettivi e
alle unità evolutive minime, da cui, per estrapolazione, deriverebbe ogni
espressione morfologica e comportamentale dei sistemi viventi. Le forme più
elaborate di tale progetto sono il programma neodarwini- sta dell’etologo
britannico Richard Dawkins, introdotto in I/ gere egoista del 1976, e la sociobiologia,
disciplina introdotta da Edward O. Wilson nel testo omonimo del 1975. 74 Ciò
che più avvicina queste due teorie evoluzionistiche è la fidu- cia nel potere
della selezione naturale, integrata da selezione sessua- le e selezione di
parentela, di plasmare gli individui attraverso adat- tamenti progressivi e
cumulativi. La sociobiologia riconduce i più importanti modelli di
comportamento sociale, animale e umano, a meccanismi di fissazione regolati
dalla selezione, una sorta di «algo- ritmo darwiniano» universale. Una
riduzione del comportamento sociale e naturale, oltre che della morfologia dei
viventi, al livello esplicativo dominante del corredo genetico si accompagna a
una frammentazione analitica dei fenomeni evolutivi in parti isolate. Se- condo
Dawkins i comportamenti più elaborati sviluppati dagli esse- ri viventi,
isolati o in gruppo, fanno interamente parte di un «feno- tipo esteso»
determinato dalla variazione genetica su cui agisce la se- lezione (Dawkins,
1976, 1982). Il protagonista centrale dell’evoluzione diventa il gene, in quan-
to unità fondamentale e primaria capace di copiarsi fedelmente (at- traverso la
linea germinale, che però non esiste in tutti gli esseri vi- venti) di
generazione in generazione: il replicatore (Dawkins, 1982; Hull, 1981). Catene
di geni replicatisi formano le linee di discen- denza (lneages), più o meno
ramificate, su cui si struttura l’evolu- zione. Sono direttamente queste linee
di discendenza a entrare in competizione per il reperimento delle risorse e per
la massima dif- fusione a scapito delle altre. Esse forniscono le informazioni
per co- struire intermediari fra sé e l’ambiente, gli i/erattori, che possono
essere organismi o gruppi di organismi che veicolano i lignaggi ge- netici. La
selezione agisce attraverso gli interattori favorendo i geni in grado di
replicarsi maggiormente, cioè in grado di costruire i «vei- coli» di
trasmissione migliori. Dunque, l’evoluzione procede attra- verso la
sopravvivenza differenziale dei replicatori, un fenomeno che accumula tratti
progressivamente sempre più adattativi negli inte- rattori, siano essi singoli
organismi o colonie o popolazioni. La re- plicazione è vista come il target
primario della selezione, mentre l’in- terazione organismo-ambiente assume una
connotazione strumenta- le, il che differenzia sensibilmente tale concezione
neodarwinista «forte» rispetto alla teoria evoluzionista classica della
Sintesi. I replicatori «costruiscono» dunque indirettamente, per selezio- ne, i
loro interattori, cumulativamente e gradualmente nel corso del- la storia
naturale. Chiaramente non fanno tutto da soli in modo esat- tamente egoistico,
si alleano e cooperano, purché ciò vada comun- que a loro vantaggio. Più
estesamente, anche le linee di discendenza 75 genetiche competono e cooperano
per i loro interessi negli scenari ecosistemici più ampi. Nella coinvolgente
prosa di Dawkins la realtà naturale sembra vista in trasparenza, come se
nascoste dentro i cor- pi degli esseri viventi vi fossero miriadi di brulicanti
unità di codice attivamente impegnate nella loro replicazione: una sorta di
«matri- ce» informatica invisibile la cui logica dirige l'evoluzione. Secondo
John Maynard Smith (1993) e Dawkins questo meccanismo sarebbe la più importante
legge di natura valida in biologia: l’informazione si trasmette di generazione
in generazione attraverso il codice scrit- to nei geni. La fedeltà della
replicazione, infatti, è così alta, nel cor- so di milioni di anni, da non
poter essere di tipo analogico e conti- nuo. I meccanismi di autocorrezione non
possono spiegare una si- mile perfezione replicativa: il genoma è un codice
digitale a tutti gli effetti. Gli individui, in tale prospettiva, diventano
allora i portatori pas- sivi delle unità fondamentali dell'evoluzione, i geni,
il cui codice o «ricetta» di costruzione delle forme viventi è inteso come un
pro- getto di adattamento all'ambiente finalizzato alla diffusione dei re-
plicatori. La metodologia adottata presuppone che il codice geneti- co sia
scomposto in unità di base alle quali corrispondono altrettan- te unità
discrete del fenotipo o unità discrete di comportamento a cui possiamo
assegnare un valore quantitativo di adattamento (So- ber, 1984). Anche
l’evoluzione culturale, secondo Dawkins, è scom- ponibile in atomi discreti di informazione
ereditaria in competizio- ne fra loro, i 72671 o replicatori culturali, di cui
discuteremo nel ca- pitolo settimo. 2. La biologia fra caso e necessità Sul
versante opposto, una corrente di biologi molecolari ha ritenuto di
sottostimare il ruolo della selezione naturale come criterio co- struttivo,
sostenendo che una parte consistente dei cambiamenti av- viene in forma casuale
e «neutra» rispetto alla selezione. Dunque, non solo la mutazione casuale
sarebbe materia prima della trasfor- mazione, essa assurgerebbe a principio
predominante dell’evoluzio- ne nel suo insieme. Se la selezione non «vede» le
più importanti so- stituzioni nucleotidiche, il cambiamento genetico è
prevalentemen- te neutrale (Kimura, 1983). Il ruolo del caso nell’evoluzione non
mancò di creare qualche problema allo stesso Darwin, quando si cimentò in una
teoria della 76 trasformazione dei viventi in cui il principio di «casualità»
della va- riazione era un presupposto fondamentale. La teoria darwiniana
prevede una demarcazione fra il dominio della variazione, intesa co- me materia
prima inerte del processo, e il dominio della selezione na- turale, intesa come
principio direttivo del processo di cambiamento adattativo (Monod, 1970). Il
caso interviene nel prestare la dotazio- ne di variazione potenziale agli
organismi: la materia prima della tra- sformazione scaturisce da mutazioni
diffuse, a raggio limitato, cie- che e non direttamente acquisibili. La
selezione naturale agisce a un secondo livello plasmando la materia fornita dalle
mutazioni, in vi- sta di un adattamento progressivo all’ambiente. In realtà,
l'utilizzo del termine «casuale» può essere fuorviante, poiché le cause della
va- riazione genetica possono essere deterministiche o non determini- stiche:
ciò che conta è che siano insensibili alle esigenze adattative delle
popolazioni, perché la selezione può produrre un cambiamen- to adattativo in
una popolazione anche se il meccanismo che produ- ce la variazione è del tutto
indipendente dalla direzione della sele- zione. Si tratta in sostanza di un
effetto statistico, demografico, di cambiamento di distribuzione di un tratto
in una popolazione. Af- finché la selezione agisca è sufficiente che il tratto
abbia un qualche grado di ereditabilità, qualunque essa sia, il che non implica
peral- tro che il tratto sia geneticamente «determinato». Il caso potrebbe
avere un ruolo anche in alcune dinamiche di spe- ciazione. In certi casi,
quando la specie ancestrale ha un’organizza- zione sociale che predilige le
suddivisioni in piccoli gruppi di con- sanguinei, è possibile che la fissazione
di mutamenti cromosomici ra- pidi e accidentali si spinga fino alla formazione
di una nuova specie. Questa trasformazione genetica potrebbe, infatti,
propagarsi nel gruppo in certe condizioni (specialmente se è molto chiuso
ripro- duttivamente e organizzato per harem) e consolidarsi anche se non ha
alcun vantaggio né svantaggio selettivo. In questo caso, infatti, la mutazione
cromosomica che si verifica in un maschio dominante vie- ne trasmessa ai figli
e nonostante essa procuri un forte svantaggio se- lettivo ai portatori
(l’incrocio fra un mutante cromosomico e un in- dividuo normale dà generalmente
una prole ibrida) nella struttura chiusa dell’harem la prole dei figli
scomparirà sì più rapidamente ma senza estinguersi: un quarto dei figli della
seconda generazione sa- ranno «puri» e conterranno due copie della mutazione
cromosomi- ca. Se essi saranno in grado di riconoscersi e accoppiarsi fra loro
nel- la generazione successiva, tutti i loro figli saranno mutanti puri e già
77 membri di una nuova specie. Solo in un secondo tempo, a specia- zione
avvenuta, nascerà un problema di riadattamento e di soprav- vivenza per i primi
rappresentanti della nuova specie. L’albero filogenetico in questi casi sarà
quello di animali simili per morfologia e comportamento e tuttavia molto
differenziati nel numero e nella forma dei cromosomi (la situazione contraria a
quel- la del cespuglio dei primati). Il paleontologo Guy Bush, dell’Uni-
versità del Texas, sembra aver individuato un cespuglio evolutivo del genere
negli equidi (cavalli, asini e zebre), che hanno appunto una struttura sociale
per piccoli gruppi ad harem e differiscono nel- le loro sette specie (due di
cavalli, due di asini e tre di zebre) princi- palmente per la struttura
cromosomica. Si tratterebbe pertanto di un fenomeno selettivamente neutro di
speciazione, definito «speciazio- ne cromosomica». Il nuovo cromosoma è
selettivamente neutro: es- so non fornisce di per sé né svantaggi né vantaggi:
tuttavia, affer- mandosi rapidamente e in modo accidentale in un piccolo
gruppo, potrebbe consentire l’origine di una nuova specie. Allo stesso modo, il
caso ha un ruolo in tutti i processi di deriva genetica, un fenomeno studiato
da Sewall Wright e messo in evidenza già nell’opera di Theodosius Dobzhansky,
nel quale la diffusione di un tratto è det- tata dalle mutazioni genetiche
casualmente ereditate da un gruppo. Oggi si conviene che ogni processo di
aumento o diminuzione della variazione genetica complessiva per opera di
varianti casuali non se- lezionate sia una deriva genetica, fenomeno pienamente
riconosciu- to dal neodarwinismo anche se ritenuto piuttosto infrequente e con-
finato per lo più a piccole popolazioni con scarse possibilità di per- sistenza
filogenetica. A parte questi casi, di norma le popolazioni si trasformano quan-
do certi geni si fissano in conseguenza del maggiore successo che gli individui
portatori hanno nella riproduzione e nell’allevamento del- la prole. La
quantità generale di variazione genetica dovrebbe resta- re in equilibrio: le
mutazioni geniche aumentano la variazione co- stantemente; l'eliminazione dei
non adatti (le varianti sfortunate) per opera della selezione naturale riduce e
bilancia la variazione. Le tec- niche di misurazione reale (e non
probabilistica, o indiretta sulla ba- se di osservazioni sui fenotipi) della
variazione genetica hanno for- nito alcuni risultati sorprendenti, accomunati
da una tendenza di fondo: la quantità di variazione reale riscontrata sembra
decisamen- te superiore a quella prevista dai calcoli statistici. In un saggio
del 1979 il genetista giapponese Motoo Kimura presentò i tre risultati 78
problematici contro cui incappava il riduzionismo genico di tipo se-
lezionista: 1) in una data proteina, la velocità con la quale gli ammi- noacidi
si sostituiscono l’un con l’altro è all’incirca la stessa in mol- te diverse
linee di discendenza; 2) le sostituzioni sembrano avvenire casualmente e non
rispondere, piuttosto, a un disegno prestabilito; 3) la velocità globale di
cambiamento a livello del Dna è molto ele- vata, ammontando alla sostituzione
di almeno una base nucleotidica per genoma ogni due anni nella linea di
discendenza di un mammi- fero (Kimura, 1979, trad. it., p. 20). La scoperta
fece sospettare che il filtro eliminatorio della selezio- ne non fosse così
efficace oppure che la quantità di base delle muta- zioni fosse superiore. Una
prima spiegazione, insufficiente quantita- tivamente, venne ricercata in quelle
rare occasioni in cui la selezione non elimina le mutazioni differenti ma le
conserva, come nel caso del cosiddetto «vantaggio degli eterozigoti»: nelle
specie con riprodu- zione sessuale ogni individuo ha due copie di un gene, una
per ciascun genitore; se l’individuo eterozigote Aa ha un vantaggio selettivo
su en- trambe le forme pure, la doppia dominante AA o la doppia recessiva aa,
la selezione preserverà sia la forma A sia la forma 4, favorendo gli individui
eterozigoti Aa (come nel caso della resistenza alla malaria). Secondo Elliott
Sober, questo caso sarebbe la prova che la selezione non agisce necessariamente
a partire dal livello genico, mentre Kim Sterelny e Philip Kitcher (1988) hanno
attribuito questo fenomeno a una forma di selezione genica dipendente dalla
frequenza dei geni in una popolazione (frequercy-dependent selection) che
equilibra gli ac- coppiamenti di alleli in base alla loro frequenza. Una
seconda spiegazione, più generale, evidenziò la casualità in un senso più forte
che non quello di «materia prima della selezione». La variazione così alta
indusse a ipotizzare che esistessero intere fa- sce di geni invisibili alla
selezione naturale, cioè tali per cui la sele- zione non può né individuarli
come varianti sfavorevoli né consoli- darli come varianti favorevoli. Il loro
destino è neutro rispetto alla selezione. La teoria del reutralismo genetico,
fondata su modelli ma- tematici, fu elaborata da Kimura già nel 1968. La teoria
fu esposta per la prima volta in un convegno tenutosi a Fukuoka nel novembre
del 1967. Nel 1969 i biologi molecolari americani Jack Lester King,
dell’Università di California di Santa Barbara, e Thomas H. Jukes, di Berkeley,
giunsero indipendentemente alle stesse conclusioni, rafforzando il neutralismo
con nuovi dati sperimentali. Nei primi an- ni Settanta Kimura approfondì
l'approccio neutralista con l’aiuto 79 dei due colleghi Tomoko Ohta e Takeo
Maruyama. Tali ricerche portarono alla luce per la prima volta il livello di
variazione genetica reale nelle popolazioni naturali e il fatto che, a livello
molecolare, la maggior parte dei cambiamenti evolutivi è provocata dalla deriva
ca- suale di geni mutanti. Kimura fece anche una seconda scoperta interessante.
I tassi di variazione genetica di base indicavano un'attività di mutamento «di
sfondo» costante nelle molecole: quello che fu poi chiamato l’«oro- logio
molecolare» dell’evoluzione. Se la selezione naturale agisse sui singoli geni
regolarmente avremmo indici di variazione diversi da ge- ne a gene, a seconda
del grado di pressione selettiva che incide sul gene in un dato organismo. Se
invece i mutamenti molecolari non fossero prevalentemente selettivi ma retti da
un principio di casua- lità, il ritmo di mutamento complessivo sarebbe dato
dalla somma dei mutamenti casuali e dal numero dei geni. Se la popolazione è
ab- bastanza grande e i tassi medi di mutazione pressoché identici per tutti i
geni, il modello elaborato da Kimura può prevedere il costan- te «ticchettio
molecolare» di sfondo nell’evoluzione genetica. Secondo il genetista
giapponese, i tassi di variabilità si mantene- vano così alti, e in siti genici
così ampi, da escludere che la selezione naturale potesse governarli
estesamente, sostituendo di volta in vol- ta sulla scorta di una specifica
pressione selettiva ciascuna sequenza nucleotidica. Molte delle varianti di un
gene dovevano essere «invi- sibili» alla selezione, non imponendo alcun costo
per la loro sostitu- zione. E bene precisare tuttavia che la teoria
neutralistica non con- futa il darwinismo né nega il potere della selezione
naturale di pla- smare gli adattamenti degli organismi. Kimura non sostiene che
i mutanti neutrali siano privi di funzione, ma che il corredo genetico sia
dotato di una tale ridondanza da produrre varianti dello stesso gene egualmente
funzionali in termini adattativi. La teoria neutrali- sta sottolinea il ruolo
della pressione delle mutazioni e della deriva casuale a livello molecolare.
L'ipotesi di Kimura è dunque che le leg- gi dell'evoluzione fenotipica siano
sostanzialmente diverse dalle leg- gi della microevoluzione: in altri termini,
la selezione darwiniana agi- sce sui fenotipi e produce l'evoluzione, ma non
tiene in gran conto in che modo i fenotipi siano determinati dai genotipi,
perché al li- vello più basso della struttura interna del materiale genetico
una grande parte dei cambiamenti evolutivi è promossa dalla deriva ca- suale
(Kimura, 1979, trad. it., p. 27). Dopo più di quindici anni di acceso dibattito
fra selezionisti e 80 neutralisti in merito alla frequenza relativa dei due
tipi di mutamen- to genetico, il bilancio sembra essere di parità se valutato
dai risul- tati immediati: da quanto sappiamo oggi la selezione naturale non ha
un ruolo marginale nel «mare» delle mutazioni casuali costanti e neutre (come
se fosse una semplice «perturbazione» del ritmo uni- forme) e l'orologio
molecolare non è così regolare come l’elabora- zione randomistica di Kimura
prevedeva. Fra i maggiori critici del- l’ipotesi della costanza della velocità
di evoluzione a livello moleco- lare vi è il genetista di Harvard Richard Lewontin,
che non condivi- de l’utilizzo del calcolo probabilistico per la variazione
genetica. Vi- ceversa, i processi casuali di mutazione sono ora accolti
obiettiva- mente come un altro processo, di sfondo e non marginale, dell’evo-
luzione genetica nel suo complesso. Una nota forma di mutazione casuale senza
vantaggio selettivo accettata dall'intera comunità scientifica fu il cosiddetto
effetto hitchiking o «effetto autostop», per cui un gene mutante neutrale può
occasionalmente essere trasporta- to mediante «aggancio» su un gene
selezionato. Questa «teoria stocastica della genetica di popolazioni» (come
ebbe a definirla lo stesso Kimura nel 1982) propone quindi uno schema
predittivo di tipo quantitativo, suscettibile di verifica mate- matica e ben
più affidabile, secondo il suo autore, rispetto alle rico- struzioni storiche e
qualitative di tipo selezionista. Ma il punto è so- prattutto un altro: la
visione neodarwiniana prevedeva una corri- spondenza diretta fra il grado di
pressione selettiva e la velocità di mutamento genetico; il neutralismo prevede
esattamente l’opposto, poiché l’intensità della selezione naturale è
inversamente proporzio- nale alla velocità di mutamento. Infatti, un tasso di
trasformazione più alto implicherebbe una maggior quantità di variazioni
casuali non soggette a selezione. Il neutralismo dimostra che la selezione
naturale agisce in modo asimmetrico rispetto alla dicotomia fra creazione e
distruzione: essa ha di solito una funzione «stabilizzante», elimina le
varianti inutili e dannose. Molto più raramente di quanto pensasse Darwin, essa
agi- sce per fissare, in positivo, un carattere favorevole. L’intensità della
selezione produce stabilità evolutiva, rallentando il ritmo massimo del
mutamento molecolare neutrale. Quando essa non agisce (per- ché non «vede» i
mutamenti genetici neutri) il ritmo di sostituzione è massimo ed è retto da un
principio di casualità. Più precisamente, come scrive lo stesso Kimura: «quanto
più debole è il vincolo fun- zionale su una molecola o su parte di essa, tanto
più alta è la velocità 81 evolutiva delle sostituzioni di mutanti» (Kimura,
1979, trad. it., p. 24). Alcune ricerche interessanti hanno confermato questa
predi- zione di Kimura agli inizi degli anni Ottanta. Sono state individuate
sezioni di Dna ridondante, in cui il ritmo di mutamento molecolare è massimo e
che non mostrano effettivamente correlazione con la se- lezione naturale, né
positivamente né negativamente. Queste loca- lizzazioni neutre del Dna
presentano generalmente un ritmo di so- stituzione nucleotidica accelerato. Le
immissioni di «casualità» ora affrontate limitano l’influenza della selezione
naturale come meccanismo di fissazione di varianti favorevoli. L'eleganza dei
modelli neutralisti, e in ultima analisi la lo- ro fecondità sperimentale,
rafforza inoltre l’idea che un principio di casualità, anziché aumentare il
grado di complicazione del modello, permetta una comprensione del sistema
stesso, nella sua ricchezza evolutiva, più semplice e sintetica. Alcuni
evoluzionisti hanno co- minciato dunque a sostenere che la bipartizione
classica di Jacques Monod fosse fuorviante e che la storia naturale non fosse
un com- promesso fra le due forze fondamentali del puro caso e della rigida
necessità selettiva. Sarà in particolare Stephen J. Gould a introdur- re il
concetto di contingenza evolutiva, che a suo avviso si sottrae al- la dicotomia
fra caso e necessità, evidenziando il carattere irreversi- bile della
co-implicazione fra le forze evolutive che produce cammi- ni evolutivi
imprevedibili a priori. Il paleontologo di Harvard indagò per tutta la sua
carriera scientifica la possibilità di elaborare un con- cetto di non-necessità
e di non-casualità complementari, per cui l’in- troduzione di un principio di
casualità non fosse più sinonimo della mancanza di un rapporto causale fra gli
eventi e l'evoluzione non fosse intesa come una semplice mediazione o
attenuazione del caso ad opera della necessità della selezione. 3. I/ dibattito
sulle unità di selezione L'opinione di altri è che né l’atomismo genetico di
marca selezionista né il neutralismo rispondano alle esigenze profonde di una
cono- scenza pluralistica della «natura della storia». La selezione non è né
onnipotente né marginale, e soprattutto va distribuita su più livelli
«gerarchici» (Wimsatt, 1994). La teoria darwiniana fa affidamento su un solo
livello organizzativo dell’evoluzione, l’individuo biologico, costantemente
impegnato nella lotta per la sopravvivenza e per il suc- cesso riproduttivo
contro altri individui. Non contempla alcun bene- 82 ficio per meccanismi
selettivi favorevoli riguardanti le specie nella lo- ro interezza, le
popolazioni, i gruppi all’interno di specie o la «salute» degli ecosistemi.
Nella visione darwiniana si staglia una netta distin- zione fra il bene
individuale, determinante in ogni aspetto del pro- cesso, e il bene delle
popolazioni, un fenomeno derivato. La visione darwiniana dei livelli evolutivi
è chiara: i geni produ- cono le variazioni senza le quali l'evoluzione non
avrebbe «materia prima» per il cambiamento, offrendo una gamma di scelte
prelimi- nari indispensabile; gli organismi sono l’unità fondamentale dell’e-
voluzione, crescono, si riproducono, scompaiono, si trasformano gradualmente;
gli individui sono a loro volta il materiale di cui so- no costituite le
specie, e solo delle specie noi avvertiamo il processo evolutivo nella sua
completezza. Come ha proposto efficacemente David Hull, nel darwinismo esistono
tre unità distinte: unità di va- riazione (i geni), unità di selezione (gli
individui) e unità di evolu- zione (le specie). In realtà la prevalenza delle
unità di selezione nel programma darwinista è forte: le unità di variazione
sono solo il «combustibile» per le unità di selezione, mentre le unità di
evoluzione sono deriva- te interamente dalle seconde. La selezione, vero motore
del proces- so, riguarda solo gli individui, non i geni, non le specie, non gli
eco- sistemi. L'evoluzione difficilmente riconosce «il bene» delle specie o il
bene degli ecosistemi, mentre misura costantemente il bene de- gli individui
sulla base delle loro capacità di sopravvivenza e di tra- smissione del
materiale genetico alla discendenza. Solo l'individuo, nel suo interesse
egoistico permanente di tra- smettere ai discendenti il maggior numero
possibile di geni attraver- so il successo riproduttivo, regge l’equilibrio
evolutivo. A partire dall’unità centrale si possono poi «estrapolare» le altre
due. Po- tremmo parlare di una estrapolazione up, per cui dal comportamen- to
dei singoli individui si deduce l’evoluzione della specie, e di una
estrapolazione down, per cui dalla morfologia dell’individuo si de- duce il
meccanismo genetico sottostante. Questo assunto fonda- mentale del darwinismo
ha però subito negli ultimi venticinque an- ni due attacchi da direzioni
opposte. Il primo è una messa in discussione parziale, in senso pluralista,
dell’estrapolazione up. Nel 1962 un biologo scozzese, Vero C. Wynne- Edwards,
sfidò l’ortodossia sostenendo che sono i gruppi, e non so- lo gli individui, le
unità realmente sottoposte a selezione. La teoria della «selezione di gruppo»
si fonda, schematicamente, su quattro 83 assunti principali: 1) esistono gruppi
di animali in grado di svilup- pare complicati sistemi di autoregolazione; essi
presentano alcune caratteristiche tipiche delle organizzazioni sociali coese,
fra cui il sa- crificio riproduttivo di alcuni individui per il bene della
popolazio- ne complessiva; 2) nei periodi di scarsità di cibo in rapporto alla
po- polazione generale di una specie, si innescano meccanismi di sele- zione
non fra individui bensì fra sottogruppi della specie stessa; 3) un’analisi
attenta di questi periodi di selezione fra gruppi rivela la presenza, al loro
interno, di comportamenti improntati a un eviden- te «altruismo» sociale; 4)
infine (ed è l'ipotesi più controversa) i gruppi sarebbero in grado addirittura
di autocensirsi con una certa precisione e di limitare la riproduzione;
sarebbero in un certo senso «coscienti» del proprio numero grazie ad alcuni
riti collettivi come lo sciamare, il radunarsi e il canto collettivo. La teoria
di Wynne-Edwards fu però soggetta a dure critiche da parte di ampi settori
della comunità evoluzionistica. Molti esempi di selezione di gruppo furono
ricondotti a episodi di selezione indivi- duale indiretta o mascherata e, come
vedremo nel capitolo settimo, la teoria della «selezione di parentela» di
William D. Hamilton per- mise di interpretare in chiave riduzionista gran parte
della letteratu- ra sulla selezione di gruppo: i comportamenti sorti per
un’apparen- te vantaggio indipendente del gruppo sono in realtà il frutto di
stra- tegie individuali di massimizzazione della diffusione genica ottenu- ta
favorendo la sopravvivenza dei propri parenti (detentori di una porzione di
geni in comune) all’interno del gruppo. I filosofi della biologia Elliott Sober
e David Sloan Wilson han- no proposto, in tempi più recenti, una versione della
selezione di gruppo in chiave gerarchica che rappresenta forse la risposta più
adeguata alle obiezioni di Hamilton e di George C. Williams. Se- condo Sober e
Wilson la definizione di interattore ecologico può es- sere estesa oltre il
singolo organismo, perché non ha bisogno delle caratteristiche stringenti che
solitamente attribuiamo ai soli organi- smi, cioè forte integrazione fisica,
distinzione fra interno ed esterno, coadattamento di ogni parte. Se intendiamo
per interattore un’en- tità evolutiva le cui componenti condividano un destino
adattativo comune relativamente a un certo tratto, allora anche i gruppi di or-
ganismi sono potenzialmente interattori soggetti a selezione per quel tratto.
Il modello di Sober e Wilson è formalmente molto elegante. Essi definiscono un
interattore collettivo come un gruppo di organismi le- 84 gati insieme dalla
condivisione di un tratto comune (trazt group), visi- bile alla selezione.
Questi gruppi omogenei rispetto a un tratto sono considerati unità di selezione
a tutti gli effetti e le loro proprietà di gruppo possono sopravanzare le
proprietà dei singoli. Per questa ra- gione tali unità non sono riducibili all’unità
inferiore dell'organismo: in gruppi altruistici gli individui egoisti esistono
e sopravvivono ma restano in numero inferiore, perché le due pressioni
selettive si bilan- ciano in favore della selezione di gruppo. Naturalmente i
gruppi in- terni a una specie non restano sempre separati, ma si rifondono
nella popolazione complessiva: ciò significa che la selezione fra trait groups
non porta necessariamente all’estinzione di altri gruppi (per esempio, gli
altruisti estinguono gli egoisti), ma alla diffusione differenziale di alcuni
tratti nella popolazione a detrimento di altri. Il criterio non è più la
resistenza all’estinzione di un gruppo contro l’altro, ma la pro- duttività
differenziale di un gruppo rispetto all’altro in base ai tratti rispettivamente
condivisi. L’attribuzione del carattere di interattori a gruppi definiti così
de- bolmente non ha mancato di suscitare le perplessità di evoluzionisti come
Maynard Smith. L'evoluzione è certamente strutturata per po- polazioni, ma un
altro conto è definire queste popolazioni «come se» fossero singoli organismi
soggetti a selezione. Si potrebbe piuttosto pensare, come hanno proposto i
teorici dell’«individualismo esteso», che i gruppi siano più semplicemente un
aspetto dell'ambiente che in- fluisce sulla selezione fra individui. Vi sarebbe
cioè una dimensione sociale dell'adattamento, che fa sì che il comportamento di
un ani- male sia dipendente da quello più diffuso nel suo gruppo. La struttu-
ra della popolazione di una specie e la frequenza dei diversi compor- tamenti
fanno dunque parte dell’ambiente e condizionano le pressio- ni selettive, che
però continuano ad agire su singoli individui. Secon- do L.A. Dugatkin e H.K.
Reeve, l’individualismo esteso e la teoria del- la selezione fra tratt groups
non si escludono necessariamente, mentre Sober e Wilson ribattono che
l’individualismo esteso spiega il risulta- to della selezione ma non dice nulla
sul processo che conduce a certe frequenze anziché ad altre. Sterelny e
Griffiths hanno recentemente proposto di considerare queste due prospettive
come equivalenti: en- trambe riconoscono l’importanza della divisione delle
popolazioni in gruppi edentrambe riconoscono che il grado di adattamento di un
or- ganismo dipende sia dai tratti del gruppo in cui vive sia dai suoi trat- ti
peculiari. 85 4. Un caso controverso: la selezione fra specie Da quanto detto
si arguisce che la selezione di gruppo, nelle sue ver- sioni più aggiornate, è
un’ipotesi ben diversa dalla «selezione fra spe- cie», che presuppone di
attribuire a un'intera specie il carattere di interattore e di replicatore in
un contesto di relazioni ecologiche con altre specie. In effetti, l'ipotesi
della speczes selection, interpretata da alcuni come alternativa alla selezione
naturale, ha generato non po- che discussioni in ambito evoluzionistico. Il
termine fu coniato da Steven Stanley in analogia con la selezione fra
individui, sull’onda dell’entusiasmo per l’applicazione del modello
speciazionale all’evo- luzione, e fu in un primo tempo accettato da Gould, che
si ravvide però negli anni seguenti su suggerimento di Elisabeth Vrba, la pa-
leontologa che ebbe il merito di chiarire l'errore logico insito in que- sto
ragionamento (Vrba, Eldredge, 1984; Vrba, Gould, 1986). Come si accennava nel
capitolo primo, una forma di selezione fra specie venne invocata in un primo
tempo da Niles Eldredge e Stephen J. Gould per spiegare i trend macroevolutivi.
Talvolta sono soltanto un effetto incidentale (passive trends) di estinzioni su
larga scala, come nel caso della filogenesi dei cavalli, che dà l'apparenza di
una tendenza evolutiva verso una certa direzione. Ma in altri casi la tendenza
è reale e in qualche modo «sospinta» da un meccanismo evolutivo (driven trends)
(McShea, 1994) che potrebbe essere il cam- biamento evolutivo correlato in un
gruppo di specie che si ramifica- no sotto pressioni selettive similari. Questa
ipotesi di convergenza selettiva graduale e in parallelo non convinse Gould, il
quale propo- se nel 1990 una soluzione speciazionale differente: i trend macroe-
volutivi potevano essere il risultato di una sopravvivenza differen- ziale fra
specie, dovuta a differenti tassi di speciazione ed estinzione, e non a
cambiamenti all’interno delle specie. Un meccanismo selet- tivo su larga scala.
Ma, come fece notare Vrba in accordo con Eldredge, «selezione» implica una
causalità precisa, fautrice di morte o di sopravvivenza connesse a caratteri
inerenti gli oggetti selezionati, difficile da ri- scontrare nelle relazioni
fra intere specie. Bisogna, infatti, indivi- duare proprietà dell’intera specie
che siano in grado di renderla più feconda e meno esposta all’estinzione, ma
che siano anche eredita- bili dalle specie figlie, un'assunzione molto cogente.
Vrba e Gould proposero allora il termine meno impegnativo di species sorting
(in italiano, cernita o vaglio di specie) per descrivere il fatto che una so-
86 pravvivenza differenziale fra le specie esiste a causa delle caratteri-
stiche diverse dei loro componenti e conduce all’accumulazione di certi tratti
anziché di altri all’interno di una popolazione o di una li- nea di
discendenza. La differenza sta dunque nel fatto che selection implica un
meccanismo causale preciso dovuto a proprietà delle spe- cie intese come
totalità, mentre sortir2g si limita a descrivere la pre- senza di differenti
tassi di speciazione e di estinzione in diverse linee di discendenza di
organismi. Ecco allora che la speciazione di suc- cesso trascina con sé il
cambiamento adattativo. In Darwin la descrizione delle unità evolutive è
gerarchica, men- tre la causalità non lo è, perché ridotta al solo livello
individuale or- ganico: il sorting degli organismi è sempre causato dalla
selezione fra gli organismi stessi e fra i due processi non vi è differenza. In
un mondo «selettivamente gerarchico», invece, dove la selezione potes- se
avvenire su «individui» di livelli diversi, con effetti che si propa- gano su e
giù nella gerarchia, la cernita di individui a ogni livello po- trebbe essere
causata dalla selezione a quel livello, ma anche dalla ra- mificazione di
effetti di selezione ad altri livelli (Vrba, Gould, 1986). Diventa dunque
essenziale riconoscere la differenza fra sorting (un differenziale di vita e di
morte fra organismi che si propaga alle spe- cie) e selection (un trend
evolutivo dipendente dalle proprietà delle specie stesse). Affinché sia
possibile parlare di selezione fra specie dobbiamo dunque: 1) individuare
tratti che siano propri delle specie e irridu- cibili ai componenti di livello
inferiore; 2) dimostrare che questi trat- ti sono in grado di accrescere o
deprimere le possibilità di sopravvi- venza dell’intera specie; 3) verificare
che siano in qualche modo «mantenuti» nelle specie figlie e che quindi si
generi una selezione cumulativa. Nell’ultima versione della teoria di Vrba e
Gould, ela- borata insieme all’epistemologa Elisabeth A. Lloyd (1993), si può
parlare di species selection solo se la cernita delle specie avviene a partire
da proprietà emergenti delle specie intese come entità gerar- chiche autonome,
dove per «proprietà emergente» si intende una proprietà che dipende sì dallo
stato degli organismi, ma è irriduci- bile e non additiva rispetto ad essi; in
altri termini, una proprietà di interazione fra membri del livello più basso
che però esiste soltanto al livello più alto. In alcune specie, per esempio, i
singoli organismi sono specialisti mentre l’intera popolazione è generalista,
quindi il punto di osservazione evoluzionistico cambia le proprietà in gioco.
87 Le specie possono avere proprietà che gli organismi non hanno e dunque la
prima condizione è soddisfatta. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, le
dinamiche di so- pravvivenza alle estinzioni di massa sono indipendenti dal
grado di adattamento delle specie all'ambiente precedente alla catastrofe, tut-
tavia dipendono da proprietà (pur contingenti) che spesso appar- tengono alla
specie intera. La dimensione e la distribuzione dell’in- tera popolazione, fra
le altre, sono determinanti. Quindi le proprietà a livello di specie, almeno in
queste occasioni, sono causalmente im- portanti per decretare il successo o il
fallimento nella lotta per la so- pravvivenza. Anche la seconda condizione è
realizzabile in linea di principio. Rimane la questione dell’ereditabilità di
tali caratteristiche, affin- ché si possa utilizzare il termine «adattamento di
specie». Secondo David Jablonski (1987), specie con alta variazione interna
sono più resistenti all’estinzione di specie omogenee e la tipologia di distri-
buzione della popolazione potrebbe essere una caratteristica che, fa- vorendo
la sopravvivenza a episodi di estinzione di massa, viene tra- smessa alle
specie figlie. Una specie espansiva e con un’alta variazio- ne interna tenderà
a ereditare un ambiente più disponibile, a irra- diarsi e quindi a generare
specie figlie ancor più espansive e inter- namente diversificate, ben
equipaggiate per resistere a nuove onda- te di estinzione. Un processo
selettivo potrebbe quindi accumulare un adattamento di specie. In questa
selezione a favore della variabi- lità, come arma contro i cambiamenti
ambientali rapidi, anche la ter- za condizione sembra soddisfatta. La rarità
del caso potrebbe però assumere un valore aggiuntivo se si rivelasse corretta
la teoria secondo cui tale meccanismo sareb- be all'origine niente meno che
dell'emergenza della riproduzione sessuata in natura, una pratica costosa e
rischiosa per gli organismi, ma in grado di aumentare la variabilità genetica e
di offrire maggio- re flessibilità evolutiva alle specie. La riproduzione
sessuata è così diffusa fra i pluricellulari da lasciare supporre che il suo
contrario, che pure esiste in una minoranza di esseri viventi, comporti rischi
ben peggiori, per esempio l’accumulo di mutazioni svantaggiose sen- za che sia
possibile, soprattutto in popolazioni piccole, eliminarle. É allora possibile
che la riproduzione sessuata sia emersa per selezio- ne fra organismi in alcune
specie, che hanno poi vinto la competi- zione con le specie asessuate grazie al
flusso genico e alla ricombi- nazione genica. Il sesso, del resto, soddisfa le
tre condizioni richie- 88 ste per la selezione di specie: è una proprietà della
specie (a volte in- dipendente dalla modalità riproduttiva di una parte dei
suoi mem- bri); contribuisce alla sopravvivenza aumentando la variabilità in-
terna; viene trasmesso alle specie figlie. Se non la sua origine, alme- no la
persistenza del sesso potrebbe essere dovuta a una selezione a livello di
specie. Maynard Smith (Michod, Levin, 1988) ha tentato di confutare questa
ipotesi, sostenendo che il comportamento sessuato verrebbe ben presto
«sovvertito» internamente da gruppi o specie asessuate e dunque non può essere
nato in questo modo, ma per competizione adattativa normale fra organismi, i
quali trarrebbero diversi benefi- ci diretti dal sesso in termini di
variabilità genetica della discenden- za e di resistenza ai parassiti (Matt
Ridley, 1993). Ma nel 1993 Gould e Lloyd hanno rilanciato, con nuovi dati a
loro disposizione, l’idea che il sesso sia selezionato a livello di specie in
quanto aumenta la plasticità filogenetica di una discendenza, ovvero la sua
capacità di reagire con flessibilità al mutare delle pressioni selettive.
Questa pro- pensione al cambiamento sembra essere esaltata non soltanto dal
sesso, ma anche dalla struttura popolazionale diversificata e dal nu- mero di
trat groups interni. Alcuni fattori di plasticità filogenetica sono ereditabili
a livello di specie e sottoposti a selezione, come del resto molti biologi
evolu- zionisti sospettavano da tempo (Godfrey-Smith, 1996). Le tendenze di
mortalità differenziale fra le specie sono spesso dovute a selezio- ne fra
individui, mentre le tendenze di natalità differenziale sono più spesso dovute
a speczes selection: infatti, la speciazione riguarda sem- pre una popolazione
(gli organismi non speciano), mentre l’estin- zione è sempre estinzione a
partire dalla morte fra individui (Gilin- sky, 1986). Tuttavia, secondo Sober,
l’idea dell’influenza di caratteri di specie sull’adattamento degli organismi
resta controversa (Sober, 1984). Ernst Mayr, Stanley e David S. Wilson (1992)
continuano in- vece a usare il termine species selection. Secondo John Damuth
l’unità di selezione più alta non sono le specie perché non hanno quasi mai un
ambiente coerente di riferimento, ma gli avatars, cioè popolazioni locali che
occupano una nicchia ecologica definita. El- dredge è oggi su posizioni
analoghe e rifiuta di assegnare alle specie il ruolo di interattori darwiniani
in competizione fra loro. La selezione di specie è obiettivamente una sfida per
la teoria neodarwiniana, mentre la cernita di specie, allorché riducibile alla
selezione fra organismi, lo è molto meno. Secondo Mayr la prospet- 89 tiva
puntuazionale è connessa al fatto che la selezione naturale av- venga anche a
livello delle specie, intese come entità biologiche au- tonome. In tal modo,
diventano unità di variazione non soltanto gli organismi, ma anche le
popolazioni e le intere specie (variazioni- smo gerarchico). Le portatrici
delle innovazioni evolutive che con- tano sono le specie. Del resto, nota Mayr,
la selezione di specie per competizione è nota da tempo, anche Lyell e Darwin
ne parlano: una specie meglio adattata soppianta altre specie. Anche qui dun-
que si determina una contrapposizione con il neodarwinismo della corrente
biologico-molecolare, e non con la teoria darwiniana in quanto tale. Anche se
Darwin non concepì l’idea discreta di specie, una visione gerarchica delle
unità evolutive è perfettamente darwi- niana secondo Mayr (cfr. anche Gilinsky,
1986), poiché in linea di principio non vi è contraddizione fra selezione di
specie e selezio- ne individuale. In alcune occasioni è una caratteristica
della specie (una caratteristica riproduttiva o di colonizzazione, una
catastrofe naturale, altri processi contingenti), indipendentemente dalla lotta
per la sopravvivenza fra individui, a decidere le sorti: è un proces- so
addizionale che avviene a un altro livello gerarchico. Certo, esi- ste solo il
bene per un individuo, e non il bene per una specie, ma altri effetti selettivi
agiscono creando un turnover fra le specie e questo è pur sempre a vantaggio
degli individui che compongono la specie. 5. Geni egoisti e Dua egoista Di
opinione molto diversa sono coloro, come Dawkins, che predili- gono una visione
«geno-centrica» (gere’s eye view) dell’evoluzione, per i quali l’esistenza di
una molteplicità di livelli selettivi è nella mi- gliore delle ipotesi
ininfluente: le popolazioni di organismi sono in- tese come interattori di
secondo livello, non sottoposte a selezione di per sé, ma veicoli per la
massimizzazione dei replicatori da loro trasportati. Si tratta di un secondo
«attacco» alla centralità della se- lezione individuale, condotto però dalla
direzione opposta. Secondo l’autore del Gere egossta, le vere unità di
selezione sono i geni, i «re- plicatori». Gli individui sono soltanto
ricettacoli inerti del program- ma genetico, automi al servizio dei
replicatori, un rivestimento per il «replicatore nudo» da cui tutta la storia
della vita ebbe inizio. L’evo- luzione, fin dai suoi esordi primordiali, è una
lotta per la riprodu- zione e la sopravvivenza fra replicatori, che utilizzano
i corpi orga- 90 nici come «campi di battaglia» provvisori. Il fine del
processo evo- lutivo è la moltiplicazione delle copie di geni «egoisti» in
competi- zione fra loro. La selezione agisce prevalentemente a livello geneti-
co, fissando quei geni la cui mutazione garantisca un numero mag- giore di
copie sopravvissute nelle generazioni seguenti. Dawkins presuppone un rapporto
di continuità fra gli effetti del- la selezione naturale e il corredo genetico,
con un’intermediazione a livello corporeo non ben definita nelle prime opere. I
critici fecero su- bito notare che la selezione non può individuare
direttamente i geni senza passare da un livello mediano di sensibilità
organica: la selezio- ne «vede» corpi discreti, isolati, all’interno delle cui
cellule esistono sequenze di materiale genetico. Pertanto la dimensione
corporea è ineludibile per gli effetti della selezione naturale e i filosofi
della bio- logia hanno accolto con favore la proposta di David Hull di
sostitui- re il termine un po’ squalificante di «veicolo» con quello di
«interat- tore». Dawkins, che rimedierà nelle opere successive alternando po-
sizioni più radicalmente riduzioniste (1995) a concessioni di impor- tanza per
l'interazione (soprattutto in I/ fenotipo esteso del 1982), ri- batte tuttavia
che i geni, perilloro «interesse», manipolano i corpi che li trasportano come
in una sorta di rerzote control: l’organismo è dun- que una «macchina per la
sopravvivenza» dei suoi geni. La selezione dovrebbe dunque «vedere» singole
parti organiche progettate da unità genetiche discrete, anche se, come ha
notato Lewontin, non è generalmente possibile scomporre gli elementi del- la
morfologia e ridurli a «mattoni» inerti programmati da replicato- ri. Fece
inoltre discutere l’idea che le singole parti organiche, oltre ad essere mere
traduzioni dell’informazione genetica, fossero anche espressione diretta di
adattamenti ottimali all'ambiente: i geni non solo determinerebbero le singole
parti corporee, ma lo farebbero ri- spettando un principio progettuale
«ingegneristico» di adeguazione alla realtà ambientale, un’assunzione che fu
poi fortemente mitigata nelle opere successive dei riduzionisti genetici e che
oggi quasi nes- suno sostiene più in questi termini. Del resto, Dawkins ha
sempre ri- fiutato, dal 1982, di associare il selezionismo genico al
determinismo genico, poiché è per lui sufficiente ipotizzare una connessione
affi- dabile e regolare fra geni e tratti fenotipici senza radicalizzare que-
sta relazione fino all’idea che solo i geni siano importanti, che l’am- biente
sia irrilevante e che un singolo gene determini linearmente un carattere.
L’approdo attuale della teoria di Dawkins, che in questo si riavvicina alle
posizioni di Williams, sembra essere quello di con- 91 cepire l'evoluzione come
un processo duale di replicazione e intera- zione, bilanciate in modo tale che
l’enfasi sull’una non vada a scapi- to dell’altra. Tuttavia, l'ipotesi che la
selezione avvenga prioritariamente a li- vello genico resta forte, in virtù
dell'idea che solo i geni siano repli- catori, cioè unità capaci di copiarsi
fedelmente e quindi di dare per- sistenza e fedeltà all’azione della selezione
naturale. Il cambiamento cumulativo non può avvenire a livello degli organismi,
perché que- sti non sono replicatori affidabili, sono mutevoli, transeunti,
insta- bili, e soprattutto non si copiano l’un l’altro (nemmeno nel caso di
riproduzione asessuata). Gli organismi sono comparse nel teatro
dell’evoluzione, i veri protagonisti sono i geni che formano linee di
discendenza in competizione fra loro. Dunque, nella visione geno- centrica gli
adattamenti complessi avvengono attraverso l’azione cu- mulativa della
selezione sui lignaggi genici e in più occasioni si sot- tolinea che il reale
beneficiario dell’adattamento non è l'organismo ma il lignaggio genico. I
critici del selezionismo genico, fra i più efficaci dei quali si an- novera
Elliott Sober, hanno fatto notare però che la selezione può agire in modo
persistente e cumulativo anche su «catene» di tratti ri- correnti, finché non
vengono fissati nell'intera popolazione di una specie, e ciò avviene
regolarmente senza presupporre che sia un sin- golo lignaggio genico ad essere
selezionato. Inoltre, anche i genitori agiscono come replicatori attraverso
diverse modalità di «copiatura» delle loro caratteristiche nella prole. A
dispetto del carattere univer- sale del «dogma di Weismann», secondo cui la
freccia della deter- minazione causale in biologia può andare solo in una direzione,
cioè dal genoma, contenitore delle «ricette» per la costruzione degli or-
ganismi, al «soma» o fenotipo, oggi sappiamo che l’ambiente cellu- lare e il
citoplasma dell'uovo fecondato sono fondamentali per l’at- tivazione dei geni
anche nelle prime fasi dello sviluppo embrionale e che la separazione fra linea
germinale e linea somatica non è così impermeabile. Dunque, un organismo
genitore può «replicarsi» in- fluenzando il fenotipo di un figlio non soltanto
attraverso le cure pa- rentali ma anche in senso strettamente biologico, fino
al caso limite di duplicarsi per partenogenesi. Anche gli interattori, in
sostanza, possono tentare di copiarsi e i geni non sono l’unico tipo di
replica- tore possibile. Secondo Sterelny e Griffiths, il problema del
selezionismo geni- co consiste nella sua aspirazione alla generalità, quindi
non tanto in 92 un errore concettuale (poiché nessuno nega che ogni cambiamento
evolutivo sia rappresentato, in ultima istanza, da un cambiamento nelle
frequenze geniche) quanto nella sottovalutazione di altri fatto- ri innescanti
e di altri livelli propulsivi dell’evoluzione. Molti feno- meni attribuiti a
processi selettivi di livello superiore sarebbero sta- ti, infatti,
efficacemente ricondotti da Dawkins (1982) e da Maynard Smith agli effetti
della selezione frequency-dependent a livello geni- co, che può produrre
combinazioni geniche fortemente adattative bilanciando gli accoppiamenti di
alleli e dando l'impressione che si sia trattato di selezione fra organismi.
Visto che non tutti i replica- tori sono geni (per esempio, i complessi
simbiontici si trasmettono di generazione in generazione attraverso meccanismi
non genetici), è stato proposto il termine sostitutivo di «selezionismo dei
replica- tori». In questo senso esteso, proposto da Hull, possono essere con-
siderati replicatori anche cromosomi, genomi e organismi asessuati, nonché
membrane, citoplasmi e simbionti. Tuttavia, molti ribadi- scono che il
linguaggio in sé dei replicatori da solo non può spiega- re l’intera gamma delle
cause che producono evoluzione, spesso di tipo ecologico e dunque legate
prioritariamente alle caratteristiche degli interattori. È interessante che sia
stato proprio Francis Crick a modificare un’immagine convenzionale
dell’«universo genetico» inglobata dal- la Sintesi e imposta all’attenzione
generale proprio nel breve saggio rivoluzionario scritto con James D. Watson
nel 1953: l’immagine del cromosoma come una collana su cui sono inserite le
«perline» rap- presentate dai geni e l’idea che l’organismo potesse essere un
«mon- taggio» a partire dalle informazioni di base del codice genetico.
L’ipotesi fu esposta nel 1980 su Nazure in un articolo scritto insieme a Leslie
Orgel, un suo collaboratore al Salk Institute in California. Il fatto
sperimentale era che la ricerca delle chiavi primarie di questo presunto
«montaggio» non dava buon esito. Più aumentava la conoscenza del cromosoma e
più sofisticate diventavano le tecni- che di indagine, più si rivelava
complessa l'articolazione dei mecca- nismi di traduzione delle informazioni
genetiche nella costruzione organica. Il materiale genetico degli organismi
superiori presentava caratteristiche di estrema complicazione. A partire dalla
metà degli anni Settanta ci si accorse che la percentuale di Dna predisposta
per la codifica di proteine era molto bassa: nell'uomo essa è poco meno del 2
per cento. Il rimanente 98 per cento del Dna è costituito da una «marea» di
sequenze ripetute, disperse su vari cromosomi. Una par- 93 te di questo Dra
ridondante, circa il 5 per cento del totale, è dato da sequenze semplici
ripetute un gran numero di volte in forma assolu- tamente identica («Dna
altamente ripetuto» o «Dna satellite»). Si ve- rificò poi l’esistenza di un
«Dna mediamente ripetuto» che occupa dal 15 al 30 per cento del genoma e su cui
si incentrano le più recenti ipotesi di spiegazione sull’origine e il ruolo del
Dna ripetitivo. Le spiegazioni neodarwiniane partono dal presupposto che il Dna
ripetitivo abbia una funzione adattativa, cioè sia in qualche mo- do utile e
l’origine sia vincolata a questa utilità corrente. La ridon- danza del
materiale genico non può non avere un vantaggio o una serie di vantaggi
immediati per la sopravvivenza e il successo ripro- duttivo, vantaggi
interamente plasmati dalla selezione naturale. Il principale di questi
argomenti adattativi postula che il Dna ripetiti- vo sia necessario perché
garantisce la ridondanza essenziale alla tra- sformazione e alla produzione di
varianti per la selezione. La dupli- cazione di un gene che codifica una
proteina indispensabile permet- terebbe al gene duplicato di mutare ed
esplorare così nuove solu- zioni che altrimenti sarebbero precluse dal
controllo selettivo. Il Dna ripetitivo darebbe insomma al genoma la
flessibilità potenziale ne- cessaria per garantire il cambiamento evolutivo. Si
tratta di una evidente ricollocazione dell'argomento darwinia- no della
«materia prima» genetica, proposta per la prima volta da Susumu Ohno in un
libro del 1970, Evolution by Gene Duplication. Gould fece però notare che si
dovrebbe postulare una sorta di «pre- veggenza» dell'evoluzione, cioè una
capacità di fissare il gene dupli- cato anche se questo non ha un vantaggio
immediato, bensì a lungo termine. Ma esiste un problema anche più generale e
cioè che se que- ste porzioni di Dna non contribuiscono ad alcuna trascrizione
e sin- tesi proteica non dovrebbero avere alcun effetto sugli organismi, e
quindi non dovrebbero essere «viste» dalla selezione. Ciò dimostre- rebbe,
secondo i sostenitori della concezione genocentrica, l’esi- stenza di una
selezione genica specifica del tutto indipendente dal li- vello degli
organismi. Un'altra spiegazione neodarwiniana sostiene invece che esistano
almeno due possibili benefici selettivi immediati per il Dna medio- ripetitivo.
In primo luogo, la dispersione di geni duplicati da un cro- mosoma all’altro
(detti «geni saltatori» o «trasposoni») può garanti- re mediamente un aumento
delle occasioni di ricombinazioni favo- revoli con altre sequenze di Dna, e
questo fenomeno potrebbe ef- fettivamente essersi fissato per selezione. In
secondo luogo, una par- 94 te del Dna ripetitivo potrebbe non essere utile
direttamente nella co- difica di proteine ma potrebbe rivelarsi ancor più
importante nel re- golare le sequenze di Dna predisposte alla codifica. La
propagazio- ne di questo Dra regolativo e le conseguenze delle ricollocazioni
dei geni a contatto con nuove sequenze attivate potrebbero effettiva- mente
avere vantaggi immediati da un punto di vista selettivo. L’anomalia
rappresentata dalla percentuale molto alta di Dna «doppio» contenuta nel genoma
di animali superiori (unita alla sco- perta di Dna ripetitivo anche in animali
più semplici e addirittura in procarioti unicellulari) non sembrò superata da
queste ultime spie- gazioni. L'ipotesi del Da egoista introdotta da Crick e
Orgel (ma si- multaneamente anche da W. Ford Doolittle e Carmen Sapienza sul-
lo stesso numero di Nature) richiedeva un ordine di interpretazione in cui non
necessariamente il vantaggio adattativo immediato dove- va precedere l’origine
di una struttura. Crick e colleghi proposero di rovesciare il ragionamento: po-
trebbe essere che l’esistenza di geni saltatori e di Dna trasponibile sia fine
a se stessa e antecedente a qualsiasi sua eventuale utilità. Forse le sequenze
trasponibili possono diffondersi proprio perché la sele- zione naturale non le
sa identificare: il Dna egoista potrebbe essere neutro rispetto alla selezione,
non avere effetti immediati sui corpi e perciò diffondersi, moltiplicando
secondo una normale «selezione naturale fra geni» le proprie copie discendenti
all’interno del geno- ma. E come se applicassimo l’idea darwiniana del massimo
successo riproduttivo all’interno del corredo genetico anziché in una nicchia
ecologica, senza postulare un vantaggio immediato se non quello strettamente
riproduttivo di un Dna inteso come «parassita ultimo». In questo senso
l’aggettivo «egoista» è leggermente fuorviante, perché suppone una connotazione
negativa implicita per tutto ciò che non «aiuta» l'organismo a formarsi e a
modificarsi. L’aggettivo contribuisce inoltre ad alimentare un’ambiguità
concettuale con l’idea di «gene egoista» di Dawkins. Là si trattava di spostare
l’unità di evoluzione dai corpi ai geni intesi come «individui» soggetti alla
forma unica o comunque prevalente (come primzumz inter pares se- condo la
definizione di Maynard Smith e Eors Szathmary del 1995) di selezione, da
estrapolare poi agli altri livelli evolutivi, al punto da ipotizzare che
esistano geni talmente egoisti da danneggiare le pos- sibilità di sopravvivenza
dello stesso organismo che li trasporta (è il caso dei cosiddetti «geni
fuorilegge», come i geni distorsori della se- gregazione o i geni distorsori
della percentuale di maschi-femmine 95 nella prole). Crick discute di geni che,
all'opposto, non determina- no la costruzione dell’individuo e,
moltiplicandosi, si comportano come gli abitanti di un microcosmo darwiniano
indipendente. In realtà, non dovremmo neppure definirlo un «Dna non adattativo»
perché, pur non avendo effettivamente un valore adattativo per i corpi, ha
comunque un valore adattativo di tipo darwiniano per se stesso. Gould propose
la definizione di «Dna autocentrico» (self centered Dna). La riformulazione non
adattativa della prospettiva di spiegazio- ne del Dna ridondante è interessante
perché si ricollega al neutrali- smo di Kimura, collocandolo in una teoria
generale della struttura- zione del genoma. Se l’unità reale della selezione
fossero gli indivi- dui biologici in modo esclusivo, il Dna ridondante, non
avendo al- cun effetto sulla costruzione dei corpi e delle forme organiche, non
avrebbe alcun senso selettivo e l’ipotesi del Dna egoista sarebbe a dir poco
inconsistente. Il Dna ripetitivo è un epifenomeno se rapporta- to ai corpi e
alla codifica di singole parti dell’individuo. E un livello organizzativo
dell'evoluzione «indifferente» rispetto a quello indivi- duale. 6. La teoria
gerarchica dell'evoluzione Secondo la logica selezionista della Sintesi esiste
dunque una so- stanziale identità fra selezione e variazione individuale. Il
meccani- smo di base di ogni fenomeno di differenziazione sarebbe ricondu-
cibile sempre alla selezione naturale in vista di una funzione adatta- tiva. La
posizione darwiniana si fonda anche su una seconda consi- derazione: l’unità
evolutiva effettiva, per il successo riproduttivo e il progresso della vita, è
soltanto l'organismo. La fissazione di caratte- ri nuovi è sempre riconducibile
a un meccanismo selettivo organico (per cui variazione e selezione sono
equivalenti), agente sullo stesso livello in cui avviene la variazione.
Spostando l’asse esplicativo sulla selezione genica e mettendo ad- dirittura in
discussione la stessa categoria di «organismo», la visione genocentrica pone
dunque una sfida significativa alla tradizione neo- darwiniana. In effetti,
secondo questa impostazione l’esistenza stes- sa di organismi è un problema da
giustificare in qualche modo: essi rappresentano un enorme investimento di
energie per le discenden- ze genetiche, perché sono collettivi di cellule da
mantenere conti- nuamente stabili, vincendo le forze che li minacciano e che,
come nel 96 caso delle proliferazioni tumorali, obbediscono proprio alla legge
evolutiva della massima diffusione egoistica. Gli organismi, nella vi- sione
genocentrica, sono quasi «contro natura». Dall'altra parte, il modello
gerarchico proposto da Gould, Vrba e, in parte diversamente, da Niles Eldredge
e da Elliott Sober con David Sloan Wilson comporta una duplice contrapposizione
rispet- to a questa impostazione. Innanzitutto, si afferma un concetto più
esteso di «individualità biologica»: potrebbero essere «individui» a tutti gli
effetti non solo gli organismi ma anche i costituenti auto- centrici del genoma
in basso e le specie con i loro sottogruppi in al- to. Il mondo vivente si articolerebbe
cioè in una molteplicità di «og- getti evolutivi riproduttivi» e di livelli di
organizzazione stratificati: le unità di evoluzione sono diverse e la
variazione si realizza autono- mamente su diversi livelli. Sober e Wilson
interpretano la gerarchia evolutiva come una successione di interattori
inclusivi, cioè «indivi- dui» compositi il cui successo ecologico differenziale
si traduce nel- la diffusione differenziale dei rispettivi lignaggi genetici.
Quindi l'evoluzione sarebbe un mosaico di casi in cui di volta in volta le
unità di selezione sono i geni, gli organismi, i gruppi di organismi o un mix
fra questi. In secondo luogo, l’estensione delle unità evolutive si accompa-
gna a una visione integrata delle relazioni reciproche fra di esse: i li- velli
sono inseriti in una «gerarchia genealogica» (come scrissero nel 1984 Eldredge
e Vrba in un saggio su Paleobiology) e interagiscono fra loro. In particolare,
essi riscontrarono un «flusso causale» da li- velli più alti a livelli più
bassi (causazione downward) e un flusso cau- sale da livelli più bassi a
livelli più alti (causazione upward). Dunque non solo la differenziazione
avviene su più livelli diversi, ma non ne- cessariamente avviene a partire
dagli individui presi livello per livel- lo: la differenziazione può anche
derivare da effetti causali generati su livelli evolutivi diversi (più in alto
o più in basso). Un altro modo per esprimere lo stesso concetto consiste
nell’im- portante distinzione, proposta da Gould e Vrba, fra «caratteri fisici aggregati»
(inerenti a proprietà delle sottoparti) e «caratteri fisici emergenti»
(inerenti all’organizzazione fra sottoparti). In un model- lo gerarchico si può
allora parlare di selezione naturale solo in un’ac- cezione ristretta: essa è
l’interazione fra le variazioni di caratteri fisi- ci emergenti (ed ereditari)
e l’ambiente esterno, premesso che i ca- ratteri fisici emergenti (a differenza
di quelli aggregati) sono in- fluenzabili e determinabili anche da causazioni
su altri livelli. Viene, 97 in altri termini, introdotta una distinzione fra
caratteri la cui evolu- zione e variazione risponde a meccanismi di interazione
sistemica su più livelli e caratteri derivanti a ciascun livello dalla sola
combina- zione delle componenti individuali. Caratteri «aggregati» a un livel-
lo più basso (per esempio a livello genotipico) possono essere «emer- genti» al
livello superiore (fenotipico). I caratteri derivanti dalla di- stribuzione e
interazione fra organismi in una popolazione possono essere emergenti a livello
della specie. Risulta così precisato che in un modello gerarchico delle unità
evolutive la selezione naturale a ciascun livello (fra organismi, fra co-
stituenti genetici, fra gruppi), che già di per sé estenderebbe il mo- dello
neodarwiniano, non è tuttavia sufficiente per spiegare la gam- ma di possibili
cause della variazione ai vari livelli. L'ipotesi avanza- ta dai teorici del
modello gerarchico è che dove si verifica l’insor- genza di un carattere nuovo
(emergente, ereditario e fissato seletti- vamente) non per selezione adattativa
fra gli individui del livello stes- so, questa differenziazione possa essere
spiegata con l'interazione fra diversi livelli gerarchici. Essa deriverebbe
dalla relazione fra livelli, attraverso la propagazione di fenomeni evolutivi
consolidatisi a li- velli diversi, cioè per causazione downward o upward. I due
tipi di flusso causale non hanno lo stesso potere. Vrba e Gould nel 1986
propongono la cosiddetta «legge della gerarchia», un principio di asimmetria
caratteristico della costruzione gerarchi- ca dei sistemi evolutivi. Il tenore
della propagazione degli effetti in un flusso causale dowrward e in un flusso
upward non è equivalen- te: nel primo caso, infatti, si tratta di una
propagazione inevitabile e necessaria (una sorta di «ricaduta» cui non si possa
reagire), nel se- condo caso la causazione non è necessaria ma soltanto
possibile. Il flusso causale downward potrebbe essere definito come un «trasci-
namento» evolutivo: l’evoluzione a livello organico si trascina, per esempio, a
livello dei geni trasmessi. La variazione genomica deriva per trascinamento da
una pressione selettiva su un livello più alto. Il flusso causale upward
potrebbe essere definito invece come una «de- riva» evolutiva: non sempre la
variazione a un livello più basso si pro- paga alla variazione su livelli più
alti né può determinarla. Una conseguenza importante di questa legge della
gerarchia è che muovendosi verso i livelli più bassi vi è una perdita
dell’autono- mia evolutiva, mentre verso i livelli più alti vi è un aumento
dell’au- tonomia. I livelli più bassi sono maggiormente vincolati. Verso l’al-
to cresce invece il grado di indipendenza degli individui evolutivi. Il 98
livello «centrale» dato dalla selezione fra organismi non solo non può essere
considerato come base organica di partenza di due estra- polazioni verso l’alto
e verso il basso, ma si configura come un pun- to mediano attraversato da
causazioni incrociate di cui non sempre esso è agente primario. L'estensione
delle individualità riproduttive non implica in alcun modo una sottovalutazione
della frequenza naturale dei processi se- lettivi darwiniani. L'ipotesi è,
piuttosto, quella di considerare l’azio- ne della selezione come non
necessariamente diretta e univoca livel- lo per livello. L'introduzione delle
ricadute downward e delle derive upward estende le possibilità di causazione
dei processi evolutivi ol- tre la semplice selezione adattativa focalizzata ai
rispettivi livelli. Gli effetti causali focalizzati sono integrati da causazioni
per intercon- nessione e interazione gerarchica fra individui di differenti
livelli. É in questo senso che Vrba e Gould parlano di «una tassonomia este- sa
della variazione». Questa tassonomia estesa dei tipi di cause della variazione
com- prende: cause ereditarie e non casuali (le sole prese in considerazio- ne
per l'illustrazione del modello gerarchico); cause non ereditarie e non
casuali, come le differenze «ecofenotipiche» fra organismi do- vute a
modificazioni locali e temporanee della nicchia ecologica; cause ereditarie e
casuali (la classe più controversa di processi di dif- ferenziazione):
rientrano fra queste le derive casuali di carattere ge- netico, fenotipico o a
livello di specie, cioè quei processi a tutti i li- velli in cui non c’è legame
diretto e adattativo con la variazione ri- sultante a un altro livello. Abbiamo
visto che per evento «casuale» si intende ogni fenome- no che sia indifferente
rispetto alla selezione naturale operante al li- vello in cui il fenomeno
stesso avviene. La proposta dei sostenitori del modello gerarchico è diversa:
possiamo dire «casuale» solo un evento che sia indifferente alla selezione sia
allo stesso livello sia agli altri livelli. L'estensione della definizione di
casualità è così ridotta: un processo che è casuale per la selezione adattativa
al suo stesso li- vello, può non essere casuale per la selezione a un altro
livello. Ciò che appare come casualità da un angolo di visione ristretto a
ciascun livello potrebbe rappresentare una base deterministica di spiegazio- ne
del fenomeno se interpretato con uno sguardo comprensivo sul- le molteplici
unità di evoluzione. I tre livelli gerarchici interagenti possono essere
definiti come 77/- crocosmo (il livello dei costituenti del genoma),
rzesocoszzo (il livello 99 degli organismi) e 7z4crocosmo (il livello delle
specie). L'uso con- venzionale del concetto di selezione naturale darwiniana
rientra nel modello gerarchico, come interazione caratteri-ambiente a un livel-
lo focale preso isolatamente (prizza tipologia). Nel microcosmo, la se- lezione
naturale potrebbe agire a livello genetico, mirando alla fissa- zione e al
successo riproduttivo (cioè alla moltiplicazione) delle se- quenze geniche in
grado di duplicarsi con maggiore facilità (ipotesi del Dna autocentrico). Nel
mesocosmo, agisce la normale selezione darwiniana operante fra organismi. Nel
macrocosmo troviamo tutti i fenomeni di cernita di specie, cioè di
trasformazione delle specie per selezione o per altre cause di sopravvivenza
differenziale. L’interazione caratteri-ambiente a partire da livelli più alti
ge- nera fenomeni di causazione downward (seconda tipologia, trasci- namenti).
Nell’interfaccia organismo-genoma, la variazione fra or- ganismi incide
necessariamente sulla variazione reale del genoma. Un esempio in tal senso è
illustrato dagli studi di Maynard Smith (1978) e di Alan R. Templeton sulla
ricaduta genetica di modifica- zioni avvenute nei comportamenti e nella
morfologia degli individui di una specie. Una propagazione particolarmente
bizzarra, dovuta a una causazione downward fra la variazione organica e la
struttura del genoma, è quella dovuta all’innesco nelle sequenze cromosomi- che
di effetti hitchiking («effetti autostop» di trasposizione genica, studiati da
Maynard Smith). Nell’interfaccia fra popolazioni e or- ganismi, la cernita fra
specie coinvolge per trascinamento evolutivo i caratteri degli organismi. Gli
studi di Norman L. Gilinsky rivela- no in particolare l’effetto di ricaduta
sugli organismi e sui loro fe- notipi dei cambiamenti di regole nei tassi di
speciazione e di estin- zione fra specie. L’interazione caratteri-ambiente a
partire da livelli più bassi pro- duce fenomeni di causazione upward (terza
tipologia, derive). Le re- lazioni instaurate nell’interfaccia fra genoma e
organismi sono state associate a un modello di legame selettivo per adattamento
o a un modello di estrapolazione dal microcosmo al mesocosmo (per cui gli
organismi sarebbero solo i contenitori per la competizione darwi- niana fra
geni «egoisti»). L'approccio gerarchico interpreta invece le relazioni
dell’interfaccia microcosmo-mesocosmo come non neces- sariamente adattative. Un
secondo tipo di causazione upward può intercorrere fra or- ganismi e specie.
Secondo la cosiddetta «ipotesi degli effetti inci- dentali», suggerita da
George C. Williams nel testo classico del 1966 100 e ripresa da Elisabeth Vrba
nel 1984, la selezione in vista di adatta- menti prossimi degli organismi (per
esempio, essere generalisti o specialisti) può anche incidere per effetti
concomitanti sui tassi di speciazione. Molte speciazioni potrebbero essere
«effetti» nel senso di Williams. Su questa traccia teorica ha lavorato la
paleontologa su- dafricana, i cui studi sui processi di speciazione nei
mammiferi afri- cani del Miocene sembrano confermare l’ipotesi che «effetti
conco- mitanti» si propaghino attraverso l’interfaccia fra selezione organica e
diversificazione delle specie. Non si tratta di desumere la diversifi- cazione
fra specie come una conseguenza diretta, graduale e cumu- lativa della
selezione naturale fra organismi, bensì di ammettere che la selezione per
adattamenti degli organismi può anche influire indi- rettamente sui tassi di
speciazione (Vrba, Gould, 1986, p. 223). L'ipotesi dell’effetto di Vrba
chiarisce la sostanziale differenza fra una teoria «gerarchica» di effetti che
si propagano da un livello all’al- tro e teorie casualiste (per cui si intende
«effetto incidentale» nell’ac- cezione di meramente casuale) o teorie
selezioniste (per cui non vi è trasferimento di effetti da un livello a un
altro). L'approccio gerar- chico tenta di concepire il successo dell’evoluzione
fra organismi co- me indipendente dal successo dell’evoluzione della specie.
L’intera- zione fra i caratteri degli organismi e l’ambiente ha un effetto upward
incidentale, e non un’estrapolazione adattativa lineare, a livello di specie.
In un sistema evolutivo gerarchico entità diverse si collocano su vari livelli
di inclusione ascendente e la variazione a ciascun livello acquista un vasto
spettro di cause potenziali. Questa tassonomia più comprensiva della
differenziazione evolutiva non esclude i pro- cessi selettivi diretti livello
per livello, ma li integra in un modello più ampio: essi diventano un
sottoinsieme, significativo ma non preponderante, delle possibilità evolutive.
A ciascuno dei tre livel- li, la variazione individuale può dunque derivare da
tre tipologie di causazione. La teoria gerarchica rappresenta il fulcro di una
visione plurali- sta: essa spiega processi che Darwin non include nella sua teoria
ma che non sono contro la sua teoria; semmai, essa si contrappone al ri-
duzionismo genetico di una parte della Sintesi Moderna, delinean- do un
«darwinismo esteso» su base gerarchica contrapposto all’e- strapolazionismo
(Gould, 2002). 101 7. Approccio gerarchico e fenotipi estesi I livelli della
gerarchia evolutiva non sono dunque estrapolabili l’uno dall’altro, in tutte le
relazioni reciproche possibili (interfaccia specie- genoma, specie-individui,
individui-genoma). Un’obiezione imme- diata è quella di chi individua in questa
moltiplicazione dei piani esplicativi possibili un raffinamento eccessivo
dell’analisi, in altri ter- mini un’inutile «complicazione». In realtà, secondo
i suoi propu- gnatori l'aumento di difficoltà che si registra nello schema concet-
tuale gerarchico di organizzazione dei dati empirici è uno sforzo ver- so la
semplificazione e l’unificazione. Essa permette una classifica- zione più
comprensiva, più efficace, in un certo senso più «realisti- ca» e semplice che
non il richiamo alla black box della casualità e dell’indeterminazione. Ciò che
in un modello più rigido si concede malvolentieri alla casualità, in un modello
gerarchico basato su livelli irriducibili si rivela come una misura
dell’interazione fra livelli. Il Dna autocentrico espone però il modello
gerarchico a un’altra difficoltà esplicativa. Se certi geni possono replicarsi
e diffondersi li- beramente senza essere intercettati dalla selezione, perché
le dupli- cazioni hanno un termine e non procedono invece all’infinito, fino a
saturare lo spazio disponibile? Il Dna autocentrico sembra infatti comportarsi
come un «parassita intelligente» e non come un cancro che giunga a divorare il
corpo ospitante: a una certa soglia la diffu- sione si ferma, lasciando un
numero di copie consistente ma non dannoso per il funzionamento dell'organismo.
Quando il ritmo delle duplicazioni conduce all’accumulo di una massa genetica
oltre un certo limite critico di «sostenibilità», la pre- senza del Dna
autocentrico (secondo l’ipotesi esplicativa di Crick e dei colleghi) potrebbe
cominciare a essere «visibile» dalla selezione operante a livello organico. La
replicazione di migliaia di copie «inu- tili» produrrebbe, infatti, un costo
energetico avvertibile. L’aumen- to progressivo a livello di geni si arresta
quando la quantità di mate- riale esistente reca uno svantaggio effettivo a
livello di selezione fra individui. L’innesco di un meccanismo di normale
selezione darwi- niana porterà pertanto a un riequilibrio nella duplicazione. I
livelli di selezione non sono dunque autonomi nel senso di «iso- lati», bensì
interrelati attraverso meccanismi di retroazione tali da garantire il
bilanciamento delle pressioni selettive. I livelli organiz- zativi, pur essendo
irriducibili l’uno all’altro, sono integrati. Non si tratta, in definitiva, di
negare la selezione fra individui, ma di arric- 102 chirla in una visione
pluralista degli «attori» dell'evoluzione. L’in- terrogativo epistemologico è
posto allora sull’adeguatezza di una metodologia riduzionista, oltre che sulla
possibilità di estendere con- cetti di cui finora si è fatto un uso
«monodimensionale», come nel caso della nozione di senso comune di
«individualità» associata a «corpi» discreti, coesi e integrati, cioè
organismi. In realtà la filoso- fia della biologia è attraversata da accesi
dibattiti sulla pertinenza di questa definizione di individuo, perché non è ben
chiaro se, per esempio, una colonia di organismi o di cloni siano un organismo
sin- golo o più organismi. Alcuni hanno fatto notare che le proprietà so-
litamente attribuite agli organismi (coesione, uniformità genetica e sviluppo
ciclico) sono viziate da un pregiudizio a favore dei verte- brati, per i quali
esse si applicano ma che non funzionano altrettan- to bene per altri rami del
vivente. Se liberiamo la nozione di interattore dalle caratteristiche vinco-
lanti che lo associano agli organismi soltanto, come fanno Sober e Wilson,
otteniamo una pluralità di interattori eterogenei, che vanno dalle coppie di
animali cooperanti ai gruppi più vasti che condivi- dono un destino adattativo
comune relativamente a uno o più tratti caratteristici. Non sembra dunque
esservi una distinzione oggettiva netta fra diversi tipi di interattori.
Quest'ultimo aspetto rappresenta per alcuni un punto debole del pluralismo
gerarchico perché inde- bolisce molto la centralità dell'organismo come unità
di selezione e perché soltanto una minoranza di entità collettive risponde
davvero al requisito di avere una struttura integrata e coesa come quella di un
organismo. Solo in questi rari casi possiamo parlare di «super-orga- nismi»,
cioè di interattori collettivi. Secondo alcuni filosofi della bio- logia,
quindi, la selezione strutturata in popolazioni (sia essa la sele- zione fra
tratt groups o l’individualismo esteso) è soltanto la pre-con- dizione per
l'evoluzione di veri interattori collettivi, i super-organi- smi (superorganism
selection). Le colonie di invertebrati, i termitai, le unioni simbiotiche, le
as- sociazioni di cloni rappresentano comunità collettive così integrate da non
essere equiparabili a gruppi qualsiasi di organismi: sono for- temente
integrate, con parti differenziate e specializzate all’interno; hanno
meccanismi omeostatici che le rendono stabili e un confine o membrana che
separa l'interno dall’esterno; sono coadattate perché l’ambiente selettivo di
ogni loro membro è dato dall’insieme di tut- ti gli altri membri; la
competizione interna alla comunità è minimiz- zata; sono proprio come
organismi, gli interattori esemplari, ma so- 103 no rare e la loro importanza
per la teoria dell’evoluzione è ancora in discussione. Di aspetto ben diverso è
la gerarchia di interattori proposta da Dawkins, ovvero un’estensione dei
«veicoli» di replicazione al di so- pra del livello organico e a suo detrimento
rispetto all'importanza as- segnatagli dalla tradizione neodarwiniana. A volte,
infatti, gli effetti positivi di un gene, in virtù dei quali esso viene
replicato, non vanno a vantaggio dell’organismo che lo trasporta ma a vantaggio
del grup- po più o meno ampio a cui questo appartiene. Dawkins ha proposto di
considerare questo raggio più ampio di effetti adattativi di un ge- ne come una
sorta di ferotipo esteso (1982). L'ospite di un parassita subisce l’effetto dei
comportamenti (codificati geneticamente) del parassita, quindi l’ospite diventa
il fenotipo esteso dei geni del pa- rassita, che lo usano come strumento
adattativo. Gli interattori, in quanto portatori degli adattamenti, non sono
allora necessariamen- te gli organismi: possono essere gruppi di organismi o
complessi ospite-parassita. Pertanto la coppia replicatore-interattore è più
in- clusiva della coppia gene-organismo. Eppure, in tutte le opere di Dawkins
(fatta forse eccezione per I/ fenotipo esteso del 1982), l’ac- cento è posto
con decisione sul potere centrale della replicazione ri- spetto all’interazione
e gli organismi rappresentano, in quanto vei- coli, un livello organizzativo
della natura che non ha equivalenti a li- velli più alti. In buona sostanza, la
questione della selezione di grup- po e dell’individualismo esteso sembra
essere piuttosto neutrale ri- spetto al modello di Dawkins perché questi
processi vengono riclas- sificati sotto la categoria degli effetti del fenotipo
esteso dei lignaggi genetici in competizione fra loro e non godono di una
particolare ri- levanza. 8. La doppia gerarchia di Eldredge Eldredge, nel testo
Urfinished Synthesis del 1985, ha proposto una visione gerarchica delle unità
evolutive di segno opposto rispetto al- la gerarchia di replicatori/interattori
di Dawkins, approdando a una modellizzazione complessiva che potremmo definire
«a chiasmo». Muovendosi dal presupposto che gli organismi partecipano a due
classi fondamentali di attività irriducibili l’una all’altra, riproduzio- ne e
trasferimento di materia ed energia, Eldredge ipotizza l’esisten- za di due
gerarchie evolutive parallele: una gerarchia genealogica, da- ta dalla sequenza
di entità biologiche che nel loro complesso gover- 104 nano la riproduzione e
una gerarchia economica o ecologica, data dal- la sequenza di entità biologiche
che garantiscono i trasferimenti di materia e di energia, sulla cui esistenza
aveva fissato l’attenzione in quegli anni anche l’erpetologo Stanley N. Salthe
(1985). Gli organismi, partecipando a entrambe le gerarchie, diventano il livello
intermedio comune del modello gerarchico: essi rappresen- tano il centro del
chiasmo. Ciò è giustificato, secondo Eldredge, dal fatto che la lotta per la
sopravvivenza darwiniana deve avere ancora un ruolo centrale nella gerarchia,
essendo espressione di un mecca- nismo fondamentale sia di propagazione dei
geni (funzione ripro- duttiva) sia di conquista dei mezzi di sopravvivenza
(funzione eco- nomica o ecologica). Le due attività sono strettamente
interconnes- se, pur restando distinte: la prima, ad esempio, non è
indispensabi- le per il singolo individuo ma solo per la popolazione. Del
resto, il gioco darwiniano della sopravvivenza è prioritariamente di tipo eco-
logico, in quanto competizione per il successo economico, e solo se-
condariamente riproduttivo. La gerarchia delle unità evolutive preposte alla
conservazione e alla trasmissione dell’informazione genetica divisa in
«pacchetti» consta di quattro livelli inferiori rispetto agli organismi
individuali (cromosomi, geni, codoni e coppie di basi nucleotidiche) e di tre
li- velli superiori (demi, specie e unità tassonomiche monofiletiche), per cui
fra un livello e i livelli adiacenti intercorre una relazione di inclusione
(Eldredge, 1999). La gerarchia economica presenta a sua volta cinque livelli
inferiori (sistemi di organi, organi, tessuti, cellu- le, proteine) e tre
livelli superiori (gli avatars di Damuth, e non le spe- cie quindi; gli
ecosistemi, la biosfera). Le attività del livello imme- diatamente inferiore
tengono insieme le entità del livello superiore e le producono per
plurificazione (m20re-mzaking). Le differenze fra l’organizzazione economica e
l’organizzazione genealogica sono marcate, essendo regole di
«auto-assemblaggio» diverse: la gerarchia genealogica è fatta di «pacchetti di
informazio- ne» genetica; la gerarchia ecologica è costruita dalle relazioni
ecolo- giche e dalle interazioni economiche. L'immagine complessiva è quella di
una doppia gerarchia in cui si stabiliscono rapporti di co- struzione dai
livelli inferiori ai livelli superiori e di retroazione dai li- velli superiori
ai livelli inferiori. In Le trame dell'evoluzione (1999), Eldredge tenta un
passo ulte- riore, proponendo una visione allargata dei processi evolutivi e
get- tando un ponte fra lo studio del mondo inanimato e lo studio del 105 mondo
vivente. La sua ipotesi, che si avvale anche della conoscenza sul campo di
alcuni fra i più elaborati ecosistemi terrestri, è che nel- le più diverse
discipline impegnate nello studio della storia stia emer- gendo una comune sensibilità
per pattern esplicativi di tipo evoluti- vo, cioè per l'emergenza di schemi di
regolarità «simili a leggi» (/a1w- like) a partire dai quali l'evoluzione
traccia poi i suoi percorsi unici. Eldredge esplora in particolare le
connessioni tra le modalità di fun- zionamento e di evoluzione dei sistemi
biologici e dei sistemi fisici. Senza perturbazioni e risonanze a largo raggio
fra i due domini non sarebbe possibile a suo avviso alcuna evoluzione. La
gerarchia «economica» (la storia della «materia in movimen- to» e del
trasferimento di energia) dell’evoluzione viene estesa a tut- ti i processi
geologici e fisici del pianeta, ma anche ai processi co- smologici che ne hanno
influenzato talvolta il corso a causa dell’im- patto sulla Terra di asteroidi o
di frammenti di cometa. Si ipotizza una «meta-teoria» che mostri come
l’evoluzione biologica su media e piccola scala sia mossa dalle stesse forze,
dai medesimi pattern, cioè dagli schemi ripetuti di regolarità storiche «simili
a leggi», che han- no plasmato la geologia e l’ecologia del nostro pianeta su
larga sca- la: la stabilità, gli equilibri punteggiati, la successione di
specie, l’ha- bitat tracking, l'alternanza di periodi di estinzione di massa e
di pe- riodi di esplosione della biodiversità, e così via. Si delinea, in
questa proposta teorica, l’opposizione forse più ar- ticolata alla visione
«genocentrica» del neodarwinismo. Il fuoco pro- spettico non è più condensato
esclusivamente su gerarchie di «re- plicatori», o di «riproduttori» come
preferisce chiamarli Eldredge. I processi evolutivi avvengono altresì
all’interno di un contesto ecolo- gico e fisico determinante. La vita emerge da
una complessa archi- tettura di gerarchie incrociate di livelli: la gerarchia
genealogica del- la riproduzione; la gerarchia economica di sopravvivenza e di
repe- rimento delle risorse; la gerarchia delle strutture fisiche della crosta
terrestre. L'evoluzione degli organismi che si riproducono, l’evolu- zione
degli ecosistemi e l'evoluzione del pianeta sono inestricabil- mente
intrecciate e interdipendenti: le fluttuazioni dell’una si riper- cuotono
proporzionalmente sull’altra, come l’acqua che oscilla in un secchio quando lo
trasportiamo a mano (secondo il modello dello sloshing bucket, proposto in
Eldredge 1999). Per Dawkins la competizione per il successo riproduttivo è alla
base della competizione per le risorse. Viceversa, per Eldredge la se- lezione
agisce su interattori immediati (che non possono «immagi- 106 nare» vantaggi
futuri per i loro geni) e solo in seconda battuta rica- de sul successo
riproduttivo degli organismi. Gould però dissente dall’utilizzo della doppia
gerarchia da parte di Eldredge, poiché ri- tiene che siano «individui»
evolutivi a tutti gli effetti soltanto entità genealogiche ed economiche al
contempo, ovvero le unità di sele- zione. Un semplice interattore non può
rappresentare per Gould un livello gerarchico autonomo, poiché la replicazione
riveste un ruolo ineludibile nel definire l’individualità biologica. Egli
concepisce per- tanto un’unica gerarchia inclusiva di livelli selettivi,
composta da «interattori contrassegnati da adeguate modalità di plurificazione»
(Gould, 2002, trad. it., p. 800). Sdoppiare la gerarchia rischia di es- sere
un’inutile complicazione e su questo punto si consuma l’unico argomento di
dissenso forte fra i due maggiori sostenitori di una teo- ria indipendente
della macroevoluzione. COSA LEGGERE... Per un approfondimento del selezionismo
genico, cfr. G.C. WILLIAMS, Adaptation and Natural Selection: A Critique of Some
Current Evolution ary Thought, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1966;
Nazural Selection: Domains, Levels and Challenges, Oxford University Press,
Oxford 1992; R. DAWKINS, I/ gere egoista, Zanichelli, Bologna 1982 (ed. or.
1976); Il fenotipo esteso: il gene come unità di selezione, Zanichelli, Bo-
logna 1986 (ed. or. 1982); L’orologiato cieco, Rizzoli, Milano 1988 (ed. or.
1986); Il fiume della vita, Sansoni, Milano 1995 (ed. or. 1995); Alla con-
quista del monte improbabile, Mondadori, Milano 1997 (ed. or. 1996);
l’antecedente illustre nella Sintesi Moderna, R.A. FISHER, The Genetical Theory
of Natural Selection, Clarendon Press, Oxford 1930. Per una de- finizione più estesa di «replicatore», D.
HULL, «Units of evolution: A me- taphysical essay», in R. JENSEN, R. HARRE (a
cura di), The Philosophy of Evolution, Harvester, Brighton 1981. Circa la
selezione di rinforzo, R.K. BUTLIN, «Speciation by Reinforcement», in Trends in
Ecology and Evo- lution, II, 1987, 1, pp. 8-13. L’approccio informazionale
all'evoluzione di John Maynard Smith è bene descritto in Evolutionary Genetics,
Oxford University Press, Oxford 1989 e The Theory of Evolution, Cambridge
University Press, Cambridge 1993. Il classico di Jacques Monod è
I/ caso e la necessità, Mondadori, Mi- lano 1970 (ed. or. 1970). La prospettiva
del neutralismo di Motoo Ki- 107 mura è delineata in The Neutral Theory of
Molecular Evolution, Cam- bridge University Press, Cambridge 1983; la
formulazione completa è già del 1979: La teoria della neutralità
nell'evoluzione molecolare, in V. PARI- sI, L. Rossi (a cura di), Adattamento
Biologico, Quaderni di Le Scienze, XXVII, 1985, pp. 18-27. L’ipotesi della
selezione genica dipendente dal- le frequenze è in K. STERELNY, P. KITCHER,
«The Return of the Gene», in Journal of Philosophy, LKXXV, 1988, 7, pp. 339-60.
Il selezionismo a base gerarchica è
presentato da W.C. WIMSATT, «The Ontology of Com- plex Systems: Levels of
Organization, Perspective and Causal Tickets», in M. MATTHEN, R.X. WARE (a cura
di), Biology and Society, University of Calgary Press, Calgary (Cal.) 1994, pp.
207-74. La teoria della selezione di gruppo di Vero C. Wynne-Edwards, pro-
posta nel 1962, è formulata nel modo più ampio e aggiornato in Evolution
Through Group Selection, Blackwell, Oxford 1986. La
kix selection viene proposta nel 1964 da William D. Hamilton in «The Genetical
Theory of Social Behavior», in Jourzal of Theoretical Biology, VII, 1964, 1,
pp. 1-52. Per una visione di insieme dell’opera di HAMILTON: Narrow Roads of
Gene Land: The Collected Papers of W.D. Hamilton, Freeman, New York 1996. A
favore della selezione di gruppo si esprime con efficacia e rigore ELLIOTT
SOBER, The Nature of Selection, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1984. La teoria dei trait groups di ELLIOTT SOBER e DAVID
SLOAN WILSON è rivista in «A Critical Review of Philosophical Work on the Units
of Selection Problem», in Philosophy of Science, LXI, 1994, 4, pp. 534-55 e in
«Reintroducing Group Selection to the Human Behavioral Sciences», in Behavior
and Brain Science, XVII, 1994, 4, pp. 585-654. Un'ottima introduzione alla
teoria è la voce «Group Selection» scritta da D.S. WILSON in E. Fox-KELLER,
E.A. LLOYD (a cura di), Keywords în Evolutionary Biology, Harvard University
Press, Cambridge (Mass.) 1992. Le controversie sulla teoria della selezione fra
specie sono ben rap- presentate in due saggi di Elisabeth Vrba scritti con
Eldredge e Gould negli anni Ottanta: E.S. VRBA, N. ELDREDGE, «Individuals,
Hierarchies and Processes: Towards a More Complete Evolutionary Theory», in Pa-
leobiology, X, 1984, 2, pp. 146-71; E.S. VRBA, S.J. GOULD, «The Hierar- chical
Expansion of Sorting and Selection: Sorting and Selection Cannot be Equated»,
in Paleobiology, XII, 1986, 2, pp. 217-28. La versione più aggiornata di GOULD,
elaborata insieme a ELISABETH A. LLOYD è «Spe- cies selection on variability»,
in Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of
America, XC, 199, pp. 595-99. L'ipotesi di DAVID JABLONSKI sull’ereditarietà di
alcune proprietà a livello di spe- cie è in «Heritability at the Species Level:
Analysis of Geographic Ran- ges of Cretaceous Mollusks», in Science, CCXXXVIII,
1987, pp. 360-63. Dello stesso avviso sono N.L. GILINSKvy, «Species Selection as
a Causal Process», in Evolutionary Biology, XX, 1986, pp. 249-73 e P. GODFREY-
108 SMITH, Corzplexity and the Function of Mind in Nature, Cambridge Uni-
versity Press, Cambridge 1996. Sui trend macroevolutivi si veda D.W. Mc SHEA,
«Mechanisms of Large Scale Evolutionary Trends», in Evoly- tion, 48, 1994, pp.
1747-63. Le origini del sesso è un tema irto di difficoltà ma non per
questo me- no frequentato dagli evoluzionisti di orientamento neodarwiniano,
dal classico di JOHN MAYNARD SMITH, The Evolution of Sex, Cambridge Uni-
versity Press, Cambridge 1978, alla collettanea con lo stesso titolo curata da
R. MICHOD e B.R. LEVIN (Sinauer, Sunderland, Mass.) nel 1988, ai più recenti
testi di MATT RIDLEY, La regina rossa. Sesso ed evoluzione, Instar Libri,
Torino 2003 (ed. or. 1993) e di JARED DIAMOND, L'evoluzione del- la sessualità
umana, Sansoni, Milano 1998 (ed. or. 1997). Su una disami- na critica degli
approcci centrati sull’imperativo di riproduzione si con- centra l’ultimo
lavoro di ELDREDGE: Why We Do It. Rethinking
Sex and the Selfish Gene, Norton, New York 2004. Il celebre articolo sul Dna
egoista del 1980 è: L.E. ORGEL, F.H.C. CRICK, «Selfish Dna: The Ultimate
Parasite», in Nature, CCLXXXIV, 1980, pp. 604-607. L’ipotesi
di Susumu OHNO sulla duplicazione genica è in Evolution by Gene Duplication,
Springer, New York 1970. Oltre che nel saggio di Eldredge e Vrba del 1984, la
teoria gerarchi- ca dell’evoluzione è discussa in diversi testi: T.F.H. ALLEN,
T.B. STARR, Hierarchy. Perspectives for Ecological Complexity,
The University of Chi- cago Press, Chicago 1982; N. ELDREDGE, Unfinished
Synthesis. Biological Hierarchies and Modern Evolutionary Thought, Columbia
University Press, New York 1985; S.N. SALTHE, Evolving Hierarchical Systems,
Co- lumbia University Press, New York 1985. La
versione più estesa della teoria è contenuta in N. ELDREDGE, Le trarze
dell'evoluzione, Cortina, Milano 2002 (ed. or. 1999). La visione di GOULD è
dettagliatamente ar- gomentata nel capitolo ottavo di La struttura della teoria
dell'evoluzione, Codice Edizioni, Torino 2003 (ed. or. 2002). Capitolo quarto
L'impero genocentrico e i suoi ribelli: la teoria dei sistemi di sviluppo È
possibile rintracciare un’essenza naturale che definisca l'umano con la stessa
precisione con cui Aristotele e Linneo definivano il set di proprietà da
attribuire a ciascuna specie? Esiste una dimensione «naturale» innata (zature)
che possa contrapporsi o anche solo es- sere distinta dalla sfera cangiante
dell’acquisito, dell’appreso, del non dato, di quella trama di influenze «culturali»
o «ambientali» (nurture) che condizionano lo sviluppo dell’identità? Ciò che
definiamo a prima vista «natura umana» è in realtà un mosaico contrastato di
invarianze «universali», per esempio la capa- cità di imparare un linguaggio, e
di variabilità «locali», per esempio le abitudini alimentari, le modalità di
espressione delle emozioni, le strutture familiari. Questa unità nella
molteplicità non si manifesta in modo altrettanto radicale in altri animali.
Nel caso della specie umana, anche se solitamente biologia e cultura si sono
spartite i ri- spettivi domini esplicativi in modo complementare (alla biologia
gli invarianti, alle scienze sociali le variabilità), il richiamo al genetico o
al biologico può essere finalizzato sia alla giustificazione degli inva- rianti
(«tutti gli esseri umani sono aggressivi perché l’aggressività fa parte del
nostro corredo genetico di specie») sia alla spiegazione del- le differenze
(intese come «predisposizioni» naturali, per esempio ad avere un basso
quoziente di intelligenza). I geni unificano e di- scriminano al contempo,
sulla scorta di un’argomentazione etichet- tata come «determinismo genetico».
In realtà, è molto raro trovare filosofi della biologia o evoluzio- nisti
disposti ad accettare di essere inclusi nella categoria dei deter- ministi
genetici, perché tale definizione presuppone, nel suo senso comune, l’idea che
il fattore genetico sia condizione necessaria e suf- ficiente per l'emergenza
di un tratto fenotipico, indipendentemente da ogni altra condizione di
contorno; una caricatura del determini- smo che nessuno accetta. Tutti
concordano, in un modo o nell’altro, 110 sul fatto che l’ambiente cellulare
conta molto nella sequenza causa- le che va dal Dna al fenotipo, che i geni
sono spesso pleiotropici, cioè hanno effetti molteplici, e che viceversa molti
tratti sono poligenici, cioè sono connessi a un pool di geni anche molto
ramificato. Oggi è persino in discussione il principio secondo cui a un gene
corrispon- de una proteina codificata: già a questo livello elementare la
relazio- ne sarebbe di tipo non lineare. Tuttavia, il determinismo assume una
connotazione debole ampiamente condivisa allorché si intenda che i geni non
possono costruire da soli l'organismo ma possono deter- minarne lo sviluppo
«normale»: a meno che le condizioni ambienta- li non interferiscano
pesantemente, la «via maestra» dello sviluppo è tracciata dai geni. L’accento
si sposta dunque sulla prevalenza cau- sale del livello genico rispetto agli
altri. Tutti concordano sul fatto che il cambiamento evolutivo implichi un
cambiamento nelle frequenze geniche, o più estesamente nella fre- quenza dei
replicatori. Tuttavia i critici della selezione genica, come Elliott Sober,
hanno fatto notare efficacemente che la selezione «ve- de» gli organismi e non
i geni in essi contenuti, come se dietro la con- figurazione organica scorresse
una sorta di «matrice» di codice visibi- le dall’esterno. L’errore, secondo
Sober, è quello di avere confuso la «selezione per» un certo tratto con la
«selezione di» quel tratto: la se- lezione vede e sceglie in primo luogo
organismi con alcuni tratti, a sca- pito di altri; questa selezione ha come
effetto collaterale e automatico la selezione di alcuni geni che sono
statisticamente connessi ai fenoti- pi vincenti. Se il rapporto fra quei geni e
quei fenotipi, nonostante la variabilità dell’espressione fenotipica di un gene
e la non necessaria li- nearità degli effetti di un gene sul grado di
adattamento, è comunque minimamente stabile e affidabile, la selezione naturale
avrà l’effetto di aumentare la frequenza di quei geni. 1.La devianza come norma
La comunità dei filosofi della biologia è animata dalle discussioni, sempre più
frequenti e popolari sui media, a proposito delle origini «genetiche» di un
carattere o di una patologia, a proposito delle ra- gioni «evolutive» profonde
che ci spingono a comportarci in un cer- to modo anziché in un altro e che ci
fanno essere diversi gli uni da- gli altri. La prima versione del programma
sociobiologico, nella se- conda metà degli anni Settanta, sembrò assegnare gran
parte dei comportamenti umani a una spiegazione genetica: dalla gelosia 111
all’altruismo, i capisaldi della condizione umana vennero ricondotti
all'espressione di geni specifici, fissati dalla selezione naturale per as-
solvere a una determinata funzione adattativa (ancora attiva o atavi- ca).
L’erede contemporanea della sociobiologia, la psicologia evolu- zionistica, ha
spostato lo stesso ragionamento dall’etologia umana ai meccanismi psicologici
profondi che sarebbero alla base dei nostri comportamenti, non soltanto a
livello «universale» ma anche al li- vello delle variazioni fra le diverse
culture umane, prospettando in tal modo una sorta di colonizzazione delle
scienze sociali da parte di spiegazioni evoluzionistiche. Abbiamo visto che la
teoria dell’evoluzione darwiniana si fonda sull’assunto centrale della
diversità individuale, non fra specie. Il cuore del pensiero popolazionale,
proposto da Ernst Mayr e ben de- scritto da Sober nella sua trasformazione
successiva attraverso la teo- ria degli equilibri punteggiati, sta proprio nel
riconoscimento della popolazione come soggetto imprescindibile del processo
evolutivo: una collezione di individui portatori di differenze genetiche che
ven- gono ricombinate di generazione in generazione e che si diffondono
proporzionalmente al loro effetto adattativo. La diversità individua- le non
solo è la norma in natura, ma è anche il segreto dell’evoluzio- ne. Se vi è
carenza di diversità interna, la popolazione risulta espo- sta al parassitismo,
a pandemie o all’estinzione a causa di repentini cambiamenti ambientali per i
quali non vi siano «mutanti» pronti a resistere. Anche gli esseri umani sono
una collezione di diversità. Come ogni specie giovane Horzo sapiens presenta
una forte uniformità ge- netica di fondo, tale da impedire una distinzione
biologica o geneti- ca fra «razze» umane, all’interno però di una spiccata
diversità morfologica e comportamentale a livello individuale. Noi siamo dunque
«umani» principalmente perché condividiamo l’apparte- nenza a una popolazione,
riproduttivamente chiusa, con una speci- fica storia evolutiva cominciata in
Africa non più di 200 mila anni fa. Come ha scoperto il genetista Richard
Lewontin, la distanza geneti- ca media fra due individui qualsiasi è di solito
più grande della di- stanza genetica media fra due popolazioni distinte di
esseri umani (Lewontin, 1982; Cavalli Sforza, Piazza, Menozzi, 1997). Le razze
umane sono dunque un’estrapolazione riduttiva a partire da pochi caratteri
fenotipici di tipo antropometrico, come il colore della pel- le, legati
principalmente all’adattamento climatico, scelti come ste- 112 reotipo di una
certa etnia spesso per motivi sociali e culturali che non hanno alcun
fondamento nella genetica. Benché abbia un’enorme importanza in campo etico, il
concetto di «naturalità» è paradossalmente molto problematico in ambito
evoluzionistico. Il pensiero popolazionale, infatti, esclude che si pos- sa
distinguere una «norma» di specie alla quale i membri debbano somigliare il più
possibile. Nemmeno in quelle popolazioni con adat- tamenti geografici peculiari
un tempo definite «razze» si riscontra una norma invariante di tipo biologico.
Questo rovesciamento di prospettiva ha causato molti fraintendimenti del
pensiero evoluzio- nistico declinato in chiave antropologica. Il suo
significato spicca però per chiarezza e radicalità: John Maynard Smith ha
proposto ad- dirittura una regola selettiva generale (/requercy-dependent
selec- tion) secondo cui all’interno di una popolazione dovrebbe sempre
esistere un grado minimo di diversità di comportamento fra gruppi differenti
(per esempio fra animali dal comportamento aggressivo e animali dal
comportamento più timido). Dunque non si potrà mai definire un comportamento
«normale» della specie e ogni deviante minoritario sarà portatore di una
potenziale trasformazione. La se- lezione naturale agirebbe dunque nel
calibrare le frequenze relative di gruppi diversi, ciascuno «deviante» rispetto
agli altri. Alcuni psicologi evoluzionisti parlano però di un esteso «poten-
ziale mentale comune», di tipo innato, nella specie umana. La psi- cologia
umana sarebbe in sostanza una congerie di «algoritmi darwi- niani» (Dennett,
1995), selezionati dall'evoluzione per la loro capa- cità di contribuire alla sopravvivenza
e alla massima diffusione dei geni del portatore. Dunque il richiamo
all'evoluzione (cioè alla di- mensione storica della nostra natura) diventa la
ragione esplicativa della presenza di invarianti specie-specifici. La capacità
di imparare un qualunque linguaggio è pertanto, in questa prospettiva, un
«istin- to naturale» fissato dalla selezione e diventato patrimonio dell’inte-
ra specie (Pinker, 1994). 2. La biologia come luogo della determinazione In
un’ampia parte della letteratura scientifica e divulgativa contem- poranea sui
processi di sviluppo il richiamo al biologico assume gli aspetti di
un’evocazione ultimativa, un affidarsi alla chiave di lettu- ra primaria che ci
permetta di decifrare i dettagli di una storia evo- lutiva che inevitabilmente
ha condotto al risultato finale che abbia- 113 mo oggi sotto gli occhi. Solo
dove non arriva la spiegazione biologi- ca, dove la «natura» non dà risposte
chiare e definitive, la dimensio- ne culturale può svolgere il proprio ruolo,
pur secondario, e com- pletare il quadro. Contrapposta a questa invocazione del
biologico come «base» solida e universale dei comportamenti e dell'identità
umana, si po- larizza una visione di tipo culturalista o
costruzionistico-sociale la quale finisce spesso per accettare la medesima
struttura argomenta- tiva che produce la dicotomia. In una versione
deterministica ugua- le e contraria a quella genetica, la biologia fornisce
soltanto un vin- colo minimale che solo i fattori ambientali, culturali e
sociali tradu- cono poi in un determinato fenotipo. Il dibattito affonda dunque
nelle secche di una contrapposizione sterile. Nemmeno la presunta «via di
mezzo» dell’interazionismo convenzionale sembra però fun- zionare, perché
spesso si accontenta semplicemente di mitigare la di- cotomia, di bilanciare
gli influssi, di calcolare le reciproche sfere di influenza, senza sottrarsi,
ancora una volta, alla cornice intellettuale di tipo dicotomico che tende a
organizzare il discorso quasi implici- tamente (Ridley, 2003). Distinguere,
separare, soppesare le due di- mensioni rischia di moltiplicare soltanto le
tipologie di cause, inter- ne ed esterne, viste come opposte o complementari,
senza mettere in discussione le ragioni stesse che ci permettono di dividerle.
In fondo quasi tutti, critici e sostenitori, intendono normalmen- te il
biologico come luogo della necessità, dell’universalità, di ciò che non può
mutare se non sui tempi lunghissimi della selezione natura- le. Una dimensione
naturale si disvela nel processo di sviluppo, si traduce in «propensioni» e
attitudini innate. Non è detto, peraltro, che questo richiamo al biologico sia
necessariamente confinato a po- sizioni retrive e conservatrici: esso compare
anche in molti approcci psicologici «alternativi» o «new age», laddove si
sostituisca l’imma- gine severa di una natura «grondante di sangue dai denti e
dagli ar- tigli» dell’evoluzionismo neodarwinista con l’immagine morbida di una
natura cooperativa, simbiotica e sinergica. Compare, del resto, anche nella
letteratura femminista più radicale, come in ampie fran- ge del pensiero
ambientalista. Tutto sommato, entrambi i determinismi accettano una debole
forma di interazionismo. Il problema si sposta sulla cornice intellet- tuale e
sulla possibilità stessa della distinzione fra una sostanza im- mutabile
interna e una pletora di perturbazioni esterne mutevoli. La dicotomia sbiadisce
se, per esempio, le scoperte sperimentali degli 114 ultimi anni sembrano
indicare nel genoma non un serbatoio di unità discrete di informazione, linearmente
connesse a una catena di de- terminazione univoca dal genotipo al fenotipo, ma
un sistema reti- colare, non lineare, stratificato su più livelli e fittamente
connesso al suo contesto prima cellulare e poi organico. La dicotomia non reg-
ge se il «genetico» stesso non è più la sede della determinazione in-
flessibile, suddivisa per «atomi» di informazione, ma un luogo di po-
tenzialità e di vincoli che influenzano, insieme agli altri livelli, il pro-
cesso di sviluppo con modalità diverse e attivazioni dipendenti dal contesto.
Il presupposto stesso del «biologico» come «potenziale ineren- te» e prefissato
sembra vacillare dinanzi alle scoperte recenti circa la straordinaria
plasticità delle cellule animali e vegetali, da cui deriva- no proprio i filoni
di ricerca attuali sulla clonazione di tessuti e di or- ganismi, sulla medicina
rigenerativa e sulle terapie geniche di ultima generazione. Allo stesso modo,
le ricerche sulla plasticità neurale, sulla ridondanza funzionale, sulla
plasticità fenotipica mostrano la sorprendente creatività dei sistemi viventi:
per molti, come Steven Rose, l'evoluzione appare oggi come il regno delle
diversità e delle potenzialità di sviluppo, non come il regno dell’inevitabile
(Rose, 1997; Ehrlich, 2000). Ma non solo. Gli avanzamenti tecnologici messi in
opera dalla specie umana in questi anni obbligano a ripensare radicalmente, in
termini sistemici e di potenzialità, i dualismi classici di natura e cul- tura,
mente e corpo. Se possiamo modificare intenzionalmente l’i- dentità biologica
nostra e delle altre specie, se possiamo sempre più «ibridare» l’identità umana
con l’alterità animale e tecnologica, si- gnifica che saremo sempre più
«naturali attraverso la cultura». La cultura, del resto, ha contribuito fin
dagli inizi della nostra specie a modificare il quadro delle pressioni
selettive e di sviluppo. Vicever- sa, quando sapremo ricostruire, alla luce di
dati archeologici e gene- tici che stanno diventando sempre più ricchi ed
eloquenti, il percor- so e i meccanismi evolutivi che hanno fatto «emergere»
l’intelligen- za umana autocosciente in una specie sapiens uscita dall’ Africa
150 mila anni fa, potremo finalmente affermare anche il reciproco, ov- vero che
siamo «culturali attraverso la natura»: potremo cioè abbat- tere le ultime
resistenze che impediscono una spiegazione piena- mente naturale delle origini
della mente e del linguaggio umani, qua- le risultato di una complessa dinamica
di speciazioni, di derive e di riorganizzazioni neurali poi fissate dalla
selezione naturale, com- 115 prendendo che anche la cultura è parte dello
sviluppo «naturale» de- gli esseri umani. Se dunque la cultura nella nostra
specie gioca un ruolo biologico, e viceversa, la distinzione dei due campi
rischia dav- vero di essere meramente convenzionale. 3. La teoria dei sistemi
di sviluppo (DST) Il principale obiettivo polemico di alcuni filosofi della
biologia, co- me Susan Oyama della New York University, già espresso nella sua
interpretazione antiriduzionista dei processi di sviluppo del 1985, The Ontogeny
of Information, è la persistenza di interpretazioni dua- listiche nello studio
dei processi di sviluppo ontogenetico e nella teo- ria dell'evoluzione
biologica in generale: a loro avviso, le distinzioni fra il dominio dell’innato
(zazure) e il dominio dell’acquisito (rur- ture) si fondano su assunzioni
discutibili circa i meccanismi che pro- ducono il cambiamento nei sistemi in
evoluzione. La loro è una vi- sione che identifica lo sviluppo con
l’intersezione e la miscela di in- fluenze eterogenee e di livelli
interdipendenti che solo per comodità epistemologica possiamo distinguere l’uno
dall’altro. Tale visione radicale dello sviluppo esclude anche che si possa
parlare di entità separate che «interagiscono» nei processi di sviluppo, perché
l’inte- razione così intesa presupporrebbe una precedente distinzione e in-
dipendenza delle entità coinvolte. Vi è dunque una critica al «consenso
interazionista» che oggi do- mina il pensiero biologico e alle analisi di
varianza che mirano al- identificazione delle percentuali di influenza genetica
su un tratto o su un comportamento, sia esso l’infedeltà o l'omosessualità.
Tali analisi individuano, infatti, soltanto una correlazione possibile fra la
presenza di un fattore genetico o biologico e la comparsa di un com-
portamento, ma non spiegano quasi nulla delle cause effettive di quest’ultimo.
I metodi poi che utilizzano il confronto di percentua- li fra soggetti normali
e coppie di gemelli rischiano sempre di non te- nere in considerazione tutti
gli altri fattori, non genetici, che accen- tuano la comunanza di comportamenti
fra due gemelli omozigoti. Correlazione significa determinazione solo a parità
di tutte le altre condizioni possibili, un caso rarissimo. Secondo Oyama
l’attore principale dell'evoluzione è il «sistema di sviluppo»
genetico-ambientale: una eterogenea e causalmente com- plessa miscela di entità
interagenti e di influssi che producono il ciclo di vita di un organismo.
Questo approccio integrato allo sviluppo co- 116 me «emergenza interattiva» (ir/eractive
emergence, un’espressione che rimanda alle ultime proposte teoriche del biologo
e neuroscien- ziato cileno Francisco Varela) può appoggiarsi oggi su una teoria
ar- ticolata, definita dai suoi fondatori «Teoria dei Sistemi di Sviluppo»
(DST: Developmental Systems Theory), che a detta di Kim Sterelny e Paul
Griffiths rappresenta l'avversario più autorevole e coerente del paradigma
genocentrico e selezionista sostenuto dalle correnti della sociobiologia, della
psicologia evoluzionistica e della genetica com- portamentale odierne.
L’ipotesi di fondo della DST, che affonda le sue radici nelle ri- cerche di
scienziati come l’etologo Daniel S. Lehrman e il biologo dello sviluppo Patrick
Bateson (Bateson, Martin, 1999), è che la «trasmissione» fra generazioni non
riguardi tanto i tratti discreti di informazione, quanto un intero bagaglio di
«interagenti» o «interat- tanti» (s72/eractants) dello sviluppo che comprendono
i geni, i mec- canismi e le strutture cellulari, l’ambiente extracellulare,
fino al più ampio contesto organico dello sviluppo dentro cui troviamo il
siste- ma riproduttivo materno, le cure parentali, le interazioni con i con-
specifici, le relazioni con altri aspetti del mondo animato e inanima- to
circostante. La logica di replicazione-interazione è pertanto rifiu- tata alla
sua stessa radice. Non esistono replicatori privilegiati. L’uni- co vero
replicatore sarebbe il sistema di sviluppo, che però a tutti gli effetti è
anche una matrice di interazione, e dunque la distinzione sbiadisce. La materia
soggetta a eredità viene estesa all’intera gamma dei fat- tori e degli elementi
che compongono il sistema di sviluppo. L’evolu- zione nel suo insieme sarebbe
una «successione di sistemi di svilup- po» e ogni spiegazione che desse
priorità causale a un fattore anziché a un altro rischierebbe di essere
parziale (Gray, 1992). La teoria dei sistemi di sviluppo può essere strutturata
attorno ad alcuni principi epistemologici e metodologici (Oyama, 2000; Gray,
1997): a) attribuire la stessa importanza alle diverse sorgenti di trasfor-
mazione nei sistemi di sviluppo (interne ed esterne), evitando di as- segnare
una «priorità causale» alla trasmissione genetica delle pro- prietà biologiche;
gli organismi ereditano un’intera matrice di svi- luppo, che perdura tanto a
lungo da essere soggetta alla selezione na- turale e che comprende anche
strutture non genetiche come gli sche- mi di comportamento appresi, le eredità
epigenetiche e cellulari (Ja- blonka, Lamb, 1995), le strutture extracellulari,
i simbionti; b) concepire la stretta interdipendenza, sia evolutiva sia di svi-
117 luppo, fra fattori genetici ed extragenetici, fra organismi e ambienti: il
loro legame non è «interattivo» (come fra entità, comunque auto- nome, che
entrano in relazione), ma «costruttivo», poiché organismi e ambienti si
co-determinano e si co-definiscono vicendevolmente; il genetista Richard
Lewontin ha proposto, per tale fenomeno di in- terdipendenza costruttiva ed
evolutiva, il termine «interpenetrazio- ne» (Lewontin, 2000); l’ontogenesi,
cioè lo sviluppo dei singoli or- ganismi, nascerebbe dunque da questa mutuale
costruzione; c) spostare l’attenzione da sistemi riducibili a un livello fonda-
mentale a sistemi multilivello accoppiati; l'emergenza interattiva produce,
infatti, una scala ampia di livelli interconnessi e retroagen- ti; non vi
sarebbero cellule e organismi senza geni, ma non vi sareb- bero geni senza
cellule e senza membrane; d) spostare l’attenzione dal controllo centralizzato
alla regolazio- ne interattiva e distribuita: non vi sono motori primi del
processo, ma un contesto di relazioni da cui esso «emerge» spontaneamente
mantenendo una propria coerenza o «affidabilità» (reliability) attra- verso
cicli ripetuti di vita e acquisendo in tal modo rilevanza dal pun- to di vista
evolutivo; e) spostare l’attenzione dalla trasmissione di informazione alla
continua costruzione e trasformazione di essa; termini chiave come «eredità» (o
«apprendimento») alludono a sistemi di interagenti e di risorse che trasformano
soggetti e contesti lungo l’intero ciclo di vita. In sostanza, nella DST il
rapporto causale fra ontogenesi e infor- mazione si inverte. Non è più
l'informazione genetica a programma- re e a determinare l’ontogenesi, secondo
il principio di una trasmis- sione automatica di geni da una generazione
all’altra. E piuttosto l’on- togenesi individuale a dare pertinenza a ciò che
chiamiamo «infor- mazione». Nell’odierna sociobiologia, nota polemicamente
Oyama, persiste una concezione «pre-formista» dell’informazione, nascosta sotto
il nuovo linguaggio computazionale del programma, del codice e del controllo.
In questa prospettiva l’informazione preesisterebbe rispetto alla sua
utilizzazione e alla sua espressione, quasi fosse un principio che desse forma
alla materia, un fantasma nella macchina: una concezione, questa, non troppo
diversa epistemologicamente dall'immagine dell’omuncolo rannicchiato nello
spermatozoo, pron- to a «dispiegarsi» nell’ontogenesi. Ma l’informazione non
sta tutta all’inizio e non si «trasmette», si co-costruisce nel processo. Siamo
dunque molto lontani dalla concezione immateriale dei geni, intesi come unità
di pura informazione, proposta da George C. 118 Williams nel 1992. Cade la
distinzione fra cause materiali dello svi- luppo (i «mattoni» epigenetici della
costruzione) e cause formali, cioè il «programma» di costruzione scritto nei
geni. L'informazione necessaria per lo sviluppo non viene trasmessa di
generazione in ge- nerazione come un pacchetto, come un patrimonio consolidato:
l'informazione si manifesta nel ciclo di vita di un organismo e si ri-
costruisce con esso ogni volta; non vi è pertanto alcuna «esecuzio- ne» di un
piano prefissato nei geni poiché anche i fattori non gene- tici contribuiscono
all’ontogenesi dell’informazione (Oyama, 1985). Del resto, alcuni filosofi
della biologia si sono spinti al punto di ne- gare che il concetto di
informazione in sé abbia ancora una qualche utilità in biologia (Sarkar, 1998).
4. Tre nozioni di contingenza Nel 1995 Maynard Smith e Eors Szathmary hanno
accettato l’idea di un'eredità estesa dei processi di sviluppo, attribuendo
però ai geni e ai memi il ruolo di replicatori «privilegiati» in quanto
portatori di un'eredità senza limiti, contrapposta all’eredità condizionata e
siste- mica dei fattori extragenetici. Ma ad avviso di Oyama occorre vigi- lare
su tutte le soluzioni che privilegino o i fattori esogeni o i fattori endogeni
(cioè processi di autorganizzazione, contrapposti all’azio- ne plasmante della
selezione naturale) sottovalutando l’intrinseca coevoluzione fra endogeno ed
esogeno. Il riduzionismo metodologico, ovvero il tentativo di estrapolare dal
livello microevolutivo le caratteristiche di un fenomeno che si di- sloca su
più livelli, nell’ottica della DST non è tanto sbagliato, giac- ché un'analisi
dei singoli fattori è comunque indispensabile, quanto incompleto. La radicale
inseparabilità ontologica delle due sorgenti di sviluppo deriva proprio dalla
coevoluzione fra cause genetiche e cause ambientali che caratterizza
l’ontogenesi. Lo sviluppo è il dato primario e solo nella loro azione
simultanea le informazioni (geneti- che, ambientali...) acquistano significato.
In questa «co-azione» to- talmente genetica e totalmente ambientale, rischia di
non avere let- teralmente più senso attribuire l'origine di un tratto a una
causa «biologica» o «culturale». I domini causali eterogenei e interdipen-
denti dello sviluppo godono, secondo Lewontin, dello statuto epi- stemologico
di polarità «dialettiche». La DST contesta dunque i tentativi di attribuire uno
statuto spe- ciale ai geni come portatori di informazione causale, intesa nel
sen- 119 so classico della teoria dell’informazione, cioè come dipendenza cau-
sale sistematica fra sorgente e destinatario. Anche se concepiamo il genoma
come sorgente di informazione (segnale), l’ambiente di svi- luppo come canale
di trasmissione e il ciclo di vita dell'organismo come destinatario, la teoria
dell’informazione insegna che i ruoli del- la sorgente e del canale possono
essere invertiti. A ciò si aggiunge che le condizioni del canale di
trasmissione, a lungo sottovalutate in bio- logia molecolare, sono in realtà
determinanti: il «codice genetico» è sempre incarnato in un ambiente cellulare
e in una matrice di svi- luppo, quindi l'accuratezza e la linearità della
replicazione sono me- diate da un contesto (Griesemer, 2004). Inoltre,
l'informazione è co- varianza: se teniamo fissi alcuni fattori, gli altri,
variando, diventano portatori di informazione, compresi i fattori non genetici
dello svi- luppo. Quindi nessuno statuto speciale è garantito per i geni,
perché il tipo di sorgente di informazione causale messa in evidenza dipen- de
dalla scelta compiuta dallo sperimentatore. Mai teorici della DST fanno anche
notare che, nel linguaggio co- mune, ai geni viene ormai attribuita una forma
ben più connotata di «informazione», di tipo intenzionale, equiparata a quella
contenuta nei messaggi di un soggetto intelligente: i geni danno istruzioni, i
ge- ni portano un messaggio, 1 geni commettono errori, e così via, come piccoli
strateghi racchiusi nei nuclei delle cellule. Se davvero i geni avessero questo
tipo di informazione, le condizioni all’intorno così importanti per la DST
sarebbero pressoché ininfluenti, poiché il «messaggio» nella sua purezza non ne
verrebbe influenzato. Ma co- me ha notato Sterelny (1996), i tentativi di
naturalizzare i contenuti intenzionali della mente umana sono già di per sé
così difficili che appare assurdo attribuire informazione intenzionale anche a
piccoli pezzetti di Dna. La nostra mente pensa e attribuisce nomi a oggetti che
non esistono e questa capacità deve essersi in qualche modo evo- luta nella
nostra storia naturale (secondo l’ipotesi della feleoserzan- tica). Ma non vi è
alcuna necessità teorica né evidenza empirica per assegnare anche ai geni tale
capacità. La divergenza epistemologica della teoria dei sistemi di sviluppo
rispetto agli opposti determinismi, ma anche rispetto all’interazioni- smo
convenzionale, è quindi molto forte: essa introduce nella defi- nizione
dell’identità processuale di ogni soggetto un elemento di contingenza
evolutiva. In una recente raccolta dal titolo L'occhio dell’evoluzione (2000),
Oyama fa notare che la contingenza caratte- 120 rizza sia i processi
evoluzionistici in generale sia i processi di svilup- po di ciascun organismo,
ma con accezioni diverse. La contingenza dei processi di sviluppo va intesa in
due accezio- ni: in un’accezione epistemologica essa è sinonimo
dell’imprevedibi- lità della traiettoria di sviluppo; in un’accezione
ontologica essa rap- presenta una particolare tipologia di dipendenza causale,
cioè l’in- fluenza di un evento rispetto al risultato finale. La specie Horzo
sa- piens, nella prima accezione, è il risultato di una lunga sequenza di
eventi imprevedibili (la sopravvivenza del primo cordato Pikaza gra- cilens,
vedremo, nelle paludi del Cambriano...). Nella seconda acce- zione, noi siamo
l’esito di una traiettoria evoluzionistica che ha at- traversato un certo
numero di soglie e di biforcazioni contingenti, non prive di una propria catena
causale: siamo figli di una storia, che possiamo ricostruire nei suoi passaggi
consequenziali, ma che ben difficilmente si ripeterebbe due volte identica. I
processi di sviluppo, in cui fattori interni e fattori esterni si co-
definiscono incessantemente a diversi livelli di costrizione, sono se- condo la
DST «contingenti» in un senso che permette di distinguere le due accezioni
precedenti. La contingenza ontologica non esclude la predicibilità, che
peraltro dipende dal livello di osservazione. Lo sviluppo ontogenetico, benché
possa apparire in qualche modo «pre- vedibile» essendo la ripetizione della
morfogenesi di esseri viventi ap- partenenti alla stessa specie, è
caratterizzato invece da una contin- genza ontologica dovuta al gioco
costruttivo fra strutture e interat- tanti a diversi livelli. In disaccordo con
l’approccio «internalista» al- le leggi di autorganizzazione, Oyama fa notare
che non si può parlare di un’emergenza «necessaria», «prevedibile» e
ineluttabile né della vita in generale né di un singolo organismo. Sfioriamo
così il nodo problematico centrale di ogni teoria sistemica, ovvero la
comprensio- ne e spiegazione del processo evolutivo e di sviluppo, sciolto
secondo Oyama da un approccio «interattivamente costruttivista»: il termine
«sistema» non deve essere inteso come garante di una replicazione fe- dele, ma
piuttosto come il segnale di una rete complessa e interattiva che può
predisporre una sua ripetizione più o meno accurata. Un si- stema implica un
certo grado di autorganizzazione, nella quale il «sé» non è un qualche
costituente privilegiato o un motore primo, ma è una entità-con-il-suo-mondo,
dove il mondo è qualcosa di esteso ed etero- geneo, con confini indeterminati e
mobili. Secondo Oyama, il grado di contingenza dei sistemi di sviluppo è così
forte che, un po’ paradossalmente, è proprio la loro contin- 121 genza (essendo
il risvolto della fitta interconnessione e ridondanza di elementi eterogenei
che producono una catena causale) a pro- durre traiettorie che in qualche modo
si ripetono con una certa affi- dabilità. Senza tale intrinseca convergenza di
elementi e senza tale dipendenza da condizioni certe o incerte, la vita non
sarebbe suffi- cientemente flessibile e creativa. Quindi, a differenza di
quanto so- stenne Gould, non vi sarebbe necessariamente contraddizione fra
contingenza e ripetibilità: un processo di sviluppo può essere con- tingente
(cioè dipendente da condizioni incerte), ma affidabilmente ripetitivo. Dunque i
processi di sviluppo introducono una terza ac- cezione di contingenza, una
contingenza di sviluppo (developmental contingency), grazie alla quale essi
sono affidabili passo dopo passo pur rimanendo imprevedibili a una scala di
osservazione diversa e dipendenti da perturbazioni casuali: in quanto reti
mobili di rela- zioni organismo-nicchia che producono catene o «cicli di
contin- genze» (Oyama, Griffiths, Gray, 2001), essi sono «ordinati» ma non
«pre-ordinati». 5. L’interazionismo costruttivista Da una visione centrata
sull'idea di un equilibrio di cause fra am- bienti e organismi, l’attenzione si
sposta dunque verso una conce- zione estesa del cambiamento inteso come
costruzione di percorsi evolutivi alternativi fra organismi e ambienti che si
co-determinano reciprocamente. Da questo scenario emerge un’immagine non de-
terministica del genoma, in cui le leggi di trasmissione non hanno va- lore
necessitante ma coevolvono nel processo evolutivo: i vincoli ge- netici non
sono un dominio di necessità atemporale, ma coevolvono con la struttura
fenotipica e il contesto di sviluppo. Ciò vorrà dire, secondo Lewontin, che a
parità di condizioni (ge- netiche e ambientali), il processo di codificazione
del fenotipo e il processo di adattamento condurranno su sentieri evolutivi
anche molto eterogenei e intrinsecamente (secondo Oyama invece solo po-
tenzialmente) imprevedibili. Su di essi agisce, infatti, una moltepli- cità di
fattori e di perturbazioni casuali che intervengono a livello molecolare, come
ipotizzato dall’interazionismo non additivo in que- sti anni elaborato da Lewontin,
in grado di deviare lo sviluppo su traiettorie diverse. Nell’interazionismo
additivo, infatti, un cambia- mento in una variabile ambientale o genetica
sortisce effetti prevedi- bili e cumulativi sul risultato finale. Ma se
assumiamo che l’intera- 122 zione fra geni e ambiente sia non additiva, allora
un piccolo cambia- mento genetico può generare grandi differenze fenotipiche in
un am- biente e non in un altro, con modalità fortemente imprevedibili do- vute
all’interazione ogni volta diversa di cause eterogenee. Vicever- sa, una
differenza ambientale o culturale potrebbe alterare l’espres- sione fenotipica
di un gene in certe condizioni e non in altre. Se i geni e tutti gli altri
fattori di sviluppo interagiscono fra loro e con l’ambiente in modo non additivo,
diventa difficile sostenere che il processo di sviluppo sia una mera
elaborazione di informazio- ni, più o meno combinate: esso appare piuttosto
come una deriva evolutiva che dà senso alle informazioni medesime.
L’informazione necessaria allo sviluppo viene in un certo senso disseminata.
Essa non è «posseduta» da alcunché, non è localizzabile, non è «presen- te» da
nessuna parte, poiché si genera ricorsivamente nella trama di relazioni. La DST
si pone dunque come un antidoto all’essenzialismo bio- logico, antidoto che si
materializza principalmente in una concezio- ne costruttiva, relazionale e
storica dell’identità (Fox-Keller, 2000). Secondo Oyama, noi siamo «cascate
ripetute di contingenze»: le in- fluenze di sviluppo interagiscono lungo il corso
del ciclo di vita per produrre, mantenere e alterare gli organismi e i loro
mondi in cam- biamento. Le vere unità di evoluzione sono dunque i cicli di
vita, cioè i processi di sviluppo capaci di coordinare le risorse del sisterza
di sviluppo in modo tale che il ciclo si ricostruisca a ogni generazione in
modo affidabile. Ogni livello della gerarchia delle unità evolutive, descritta
nel capitolo precedente, possiede i propri cicli di vita, dai geni egoisti ai
gruppi di organismi. La biologia dello sviluppo di- venta anch'essa una scienza
storica, una scienza delle costruzioni on- togenetiche e filogenetiche, cioè di
quei processi di assemblaggio e riassemblaggio delle risorse a disposizione o
«strumenti» (72ear5) at- traverso cui gli organismi evolvono. L’opera di Susan
Oyama, come del resto quella di Richard Lewontin e di Patrick Bateson, ha il
merito aggiuntivo di aver anti- cipato, già dalla prima metà degli anni
Ottanta, un filone di ricerche oggi divenuto molto ricco e influente. Basti
pensare all’interesse su- scitato negli ultimi anni dalla scoperta che gli
organismi sono in gran parte i costruttori delle proprie «nicchie» ecologiche
(Odling-Smee, Laland, Feldman, 2003), dall’ipotesi della «plasticità
fenotipica» (Pi- gliucci, 2001), dalla riconsiderazione di intuizioni di Conrad
Wad- dington e di James Mark Baldwin riguardo alle possibili retroazioni 123 da
comportamenti appresi a cambiamenti evolutivi, da nicchie a or- ganismi (nel
caso degli esseri umani, nicchie sociali, simboliche e cul- turali, come ha
notato Terrence Deacon nel 1997) (Weber, Depew, 2003). Il tema è controverso,
perché la visione genocentrica rappre- senta ancora una modalità esplicativa
più diretta e semplice. La ten- denziale infalsificabilità delle sue versioni
più generalizzate non sembra essere un grosso problema per molti studiosi
dell’evoluzio- ne e dello sviluppo, per i quali è invece più preoccupante il
fatto che nella DST non vi sia un livello privilegiato su cui fondare l’ana-
lisi dei sistemi biologici. Ma il compito non è facile anche perché la teoria
dei sistemi di sviluppo deve risolvere alcune ambiguità e riempire di senso
alcune domande ancora inevase: come si struttu- ra effettivamente un processo
di costruzione a molti livelli; se i ge- ni non sono tutto ciò che è replicato
nell’evoluzione, qual è il de- stino della nozione biologica di specie, fondata
sull'esistenza di un pool genico coeso; come viene garantita l’affidabilità del
ciclo di vi- ta in questa interpenetrazione di fattori interni ed esterni; come
si tiene insieme una visione olistica dei sistemi di sviluppo con la ne-
cessità sperimentale di analizzare covarianze e di «isolare» comun- que alcuni
fattori rispetto ad altri. È tuttavia opinione condivisa che la DST abbia
permesso uno svecchiamento della riflessione sui processi di sviluppo e ne
abbia arricchito lo studio con nuovi fattori e nuovi punti di vista (Griffiths,
Gray, 1994). La concezione del genetico come pre-scrizione nello sviluppo era
l'ambizione di partenza del Progetto Genoma ed è sta- ta proprio la conclusione
del Progetto Genoma a svelare interessan- ti novità che lo hanno fatto
tramontare. L’aggancio fra teorie dell’evoluzione e teorie dello sviluppo
(evo-devo), senz'altro sotto- stimato nella tradizione della Sintesi Moderna,
sta aprendo una mi- niera di suggestioni inedite sulle interazioni fra
ontogenesi e filoge- nesi: i vincoli di sviluppo limitano l’azione della
selezione naturale, ma è anche vero che molte innovazioni evolutive potrebbero
essere sorte proprio attraverso modificazioni nella regolazione dello svi-
luppo. La post-genomica richiede una nuova elaborazione episte- mologica, che
si faccia carico di riflettere sul significato di fenomeni come la ridondanza
genetica, la plasticità cellulare, fenotipica e del- lo sviluppo (West-Eberhard,
2003). 124 6.I molti modi di definire un gene Persino la definizione di cosa
sia esattamente un gene ha cessato di essere un patrimonio comune a tutte le
correnti della filosofia della biologia. Tradizionalmente pensiamo a un gene
come a un’unità fun- zionale e discreta di Dna, una sequenza di lettura che
contribuisce alla sintesi proteica e al metabolismo della cellula. Nella
genetica mendeliana, che aveva un carattere molto empirico e si basava sugli
esperimenti di ibridazione, il gene era l’unità discreta di eredità, il fattore
ereditario unitario che determinava un tratto fenotipico e si presentava in
forme alternative, gli alleli. Nei cinquant'anni che van- no dalla scoperta
della meiosi nel 1903, da parte di Walter Sutton, alla scoperta della struttura
a doppia elica del Dna da parte di James D. Watson e Francis Crick nel 1953,
furono indagate prima la base cellulare e cromosomica, poi la base molecolare
dell’ereditarietà. Vennero decifrati i meccanismi di trascrizione e traduzione,
il ruolo dei ribosomi e la complessa sequenza di sintesi delle proteine. La ge-
netica molecolare non soppiantò la genetica della trasmissione di Mendel,
fondata sullo studio fenomenologico delle differenze feno- tipiche, ma la
incorporò e la integrò attraverso la spiegazione fisico- chimica dettagliata e
generale delle regolarità sottese ai meccanismi di eredità. Negli anni Venti
Morgan ipotizzò che il gene, in quanto «atomo» di informazione ereditaria,
potesse assolvere a quattro funzioni fon- damentali: la trasmissione di
informazione, la mutazione, la ricombi- nazione e la regolazione dello sviluppo
individuale. L’approfondi- mento della genetica molecolare permise di
distinguere meglio le unità implicate in queste funzioni, liberando il gene da
alcune di que- ste: la mutazione, per esempio, interessa le singole basi
nucleotidiche, più che i geni. Nella visione genocentrica «dura» del Gene
egoista di Richard Dawkins e di Natural Selection di George C. Williams, la de-
finizione cambiò e divenne più formale: per gene essi intesero qual- siasi
sequenza discreta, e non troppo lunga, di Dna, cioè una qualsia- si porzione di
cromosoma arbitrariamente scelta (evolutionary gene concept), un pacchetto di
informazione immateriale. Il gene diventò così un’entità potenzialmente
«immortale», avvinta in una logica se- lettiva che potrebbe addirittura essere
applicata alle basi nucleotidi- che (secondo la teoria del «nucleotide
egoista», poi abbandonata da Dawkins). Ma il destino di un gene dipende pur
sempre dal grado di adattamento medio associato ai suoi effetti fenotipici e
dunque l’ap- 125 proccio genocentrico sembrò ben presto convergere verso una
defi- nizione molecolare del gene, come unità biochimica funzionale, re-
plicatore attivo nelle cellule germinali. Ma i problemi non finirono, perché
nel corso delle ricerche del Progetto Genoma la stessa definizione molecolare
di gene (unità funzionale di ereditarietà solitamente associata a un segmento
di Dna che codifica per una singola proteina) incontrò ripetute diffi- coltà. L'insieme
delle strutture molecolari coinvolte nel processo di codificazione del Dna è
oggi così complesso che difficilmente si ri- scontra una corrispondenza fra i
geni mendeliani discreti e un qual- che tipo di struttura molecolare definita
univocamente. L’associa- zione è diventata così problematica che molti biologi
molecolari pre- feriscono da qualche tempo adottare una definizione
convenzionale di gene, dipendente dal singolo contesto e variabile da caso a
caso: per «gene» essi intendono una sequenza di Dna che abbia caratteri- stiche
tali da svolgere un ruolo definito in uno specifico processo di codificazione,
che nasce dalla convergenza di fattori eterogenei; una sorta di etichetta per
una molteplicità di strutture molecolari inte- grate. In altri termini, per
gene si intende qui l’intreccio fra una sequen- za di Dna e il contesto
cellulare più ampio in cui avviene la trascrizio- ne. La filosofa della
biologia Eva M. Neumann-Held, in un saggio provocatorio dal titolo I/ gene è
morto, lunga vita al gene (1998), si è spinta oltre, ritenendo formalmente
impossibile identificare i geni con sequenze di Dna isolate e proponendo
un’interessante definizio- ne «processuale» e contestuale. A suo avviso non
solo gli effetti di un gene sono fortemente influenzati dal contesto cellulare,
ma è lo stes- so contesto a stabilire se una sequenza di Dna è un gene oppure
no. Il contesto, a sua volta, include tutti gli elementi della matrice di
svilup- po e dipende dai processi attraverso i quali le cellule si
differenziano e si generano le unità di organizzazione più ampie
dell’organismo. Il gene può essere allora definito come quel processo che
culmina in mo- do regolare, a un certo stadio dello sviluppo, nella produzione
di una certa proteina. Tutti i fattori che contribuiscono all’espressione della
proteina fanno parte del «gene» e quindi qualsiasi distinzione fra «ge- netico»
e «ambientale» svanisce nel momento in cui le cause ambien- tali e di sviluppo
vengono addirittura incluse nella definizione di ge- ne. Secondola proposta
costruttivista della Neumann-Heldil gene ri- mane l’unità fondamentale
dell’ereditarietà, ma viene esteso all’inte- ra matrice di sviluppo e smette di
essere considerato una semplice se- 126 quenza di Dna: si tratta di un
rovesciamento diametrale della conce- zione genocentrica, perché qui la
genetica viene praticamente ridotta alla biologia dello sviluppo. I critici del
genocentrismo (Brandon, 1988) hanno notato che la selezione genica avrebbe un
senso soltanto se i geni avessero un effet- to costante, stabile e affidabile
sul fenotipo e in modo tale che vi fos- se una corrispondenza quanto più
lineare possibile (al limite, uno a uno) fra geni e tratti, due clausole oggi
smentite. Non sembra esservi questa relazione stringente fra genotipo e fenotipo,
e neppure fra ge- ni e proteine. Altri ritengono che queste condizioni siano
troppo re- strittive e che la selezione necessiti soltanto di tendenze stabili
all’in- terno di popolazioni, essendo un effetto statistico generale indipen-
dente dalle idiosincrasie locali. La definizione evoluzionistica proposta da
Sterelny e Griffiths, cioè il gene come marcatore di differenze in un contesto
specifico, sembra più promettente da vari punti di vista. Definire un gene sul-
la base delle differenze che è capace di generare rovescia la prospet- tiva: i
geni codificano per differenze di tratti, non per tratti discreti. La
selezione, del resto, «vede» differenze, non tratti discreti. I mar- catori di
differenze sono sensibili al contesto e i loro effetti dipen- dono dall'ambiente
genetico, cellulare ed ecologico in cui sono atti- vati. Nonostante ciò, tali
effetti possono essere sufficientemente co- stanti da essere soggetti a
selezione e cambiare quindi frequenza in una popolazione. AI momento vi è
dunque una divaricazione fra la definizione pu- ramente molecolare di gene e la
definizione evoluzionistica nel sen- so della DST. Secondo quest’ultima i geni
contribuiscono alla co- struzione del fenotipo aggiungendo un fattore biologico
a una rete di altri fattori genetici, cellulari, epigenetici, dell'ambiente di
svilup- po. In questa trama estesa di cause potenziali i geni perdono il loro
statuto privilegiato in quanto depositari dell’informazione necessa- ria allo
sviluppo: se l'informazione si costruisce nel processo onto- genetico nella sua
totalità non vi è più la distinzione fra cause mate- riali (epigenetiche e di
sviluppo) e portatori di informazione, come nelle versioni più morbide della
teoria genocentrica. La distinzione fra i due approcci rimane dunque netta sul
piano metodologico: mentre i sostenitori della DST puntano allo studio delle
interdipendenze degli elementi eterogenei di un sistema di svi- luppo, i
teorici del selezionismo genico preferiscono fondare la loro analisi sul
terreno dei replicatori, intesi o come geni soltanto o in mo- 127 do esteso
alla Hull, ma in ogni caso intesi come cause formali dello sviluppo che giocano
un ruolo funzionale distinto e privilegiato in quanto generatori di similarità
e garanti dell’affidabilità del proces- so di sviluppo (Sterelny, Smith,
Dickison, 1996). Sterelny, con la sua teoria del «replicatore esteso», concede
alla DST il merito di avere esteso la nozione di replicatore ai fattori
extragenetici, ma i geni ri- mangono replicatori «paradigmatici» per il loro
alto contenuto informazionale. 7.La genetica sistemica Oggi sappiamo che i
sistemi genetici rispondono a una strutturazio- ne su più livelli e ciò apre
nuove opportunità di spiegazione dei mec- canismi che regolano il ritmo
evolutivo. L'evoluzione non sembra procedere «gene per gene», per minuscole
alterazioni progressive, impercettibili e graduali. La trascrizione del Dna è
finemente rego- lata a livello proteico, attraverso fattori di trascrizione e
repressori che si equilibrano. La relazione fra la sequenza di Dna e il
fenotipo è mediata da meccanismi che «accendono e spengono» i geni, che
modulano i tassi di trascrizione e traduzione, che stabiliscono quale proteina
sarà costruita da una certa sequenza trascritta. Ernst Mayr ha sintetizzato il
significato di queste ricerche battezzandole «gene- tica sistemica». Fenomeni
come gli «atavismi» (per cui, ad esempio, alcuni cavalli presentano tre o
quattro dita, regredendo nella loro evoluzione di al- cuni milioni di anni)
dimostrano le sorprendenti capacità di cam- biamento del genoma: il sistema
genetico contiene abbondanti ca- pacità «nascoste» di sviluppare corposi
cambiamenti morfologici a partire da piccole mutazioni. L'esistenza di una
«folla di caratteri in- visibili» e latenti era stata peraltro già intuita da
Darwin, che ne di- scusse ampiamente nel suo libro del 1868 dedicato alla
variazione potenziale: Variation of Animals and Plants Under Domestication. I
sottili meccanismi di regolazione del genoma rappresentano 0g- gi la frontiera
più avanzata della ricerca in biologia molecolare. Co- me dimostrano le ultime
acquisizioni in materia di cellule staminali, non sono ancora ben chiari i
processi attraverso cui avviene la diffe- renziazione cellulare e come questa
sia regolata a livello genico. La scommessa avvincente della clonazione
cellulare sta proprio nel ten- tativo di cogliere i segreti di questa
modulazione dello sviluppo, al fine di poter «ammaestrare» le cellule
totalmente o parzialmente in- 128 differenziate indirizzandole verso l’esito
desiderato, rigenerando co- sì diverse tipologie di tessuto da reimpiantare nel
paziente. Oggi sap- piamo, infatti, che il materiale genetico non viene
separato nei vari tipi di tessuto (teoria dello sviluppo «a mosaico») e che
quasi tutte le cellule contengono il genoma dell’intero organismo: in ogni
parte è contenuta l’informazione per il tutto e la differenziazione funzio-
nale fra cellule diverse è governata da geni regolatori che attivano al- tri
geni (eredità epigenetica) con modalità forse più flessibili e re- versibili di
quanto non si pensasse fino a pochi anni fa. Le «mutazioni omeotiche», scoperte
e studiate dai grandi gene- tisti Calvin Bridges e Theodosius Dobzhansky già
nel 1933, ovvero alterazioni genetiche teratologiche che inducono alla crescita
di par- ti normali e sane in localizzazioni del tutto anormali, sono un altro
esempio della strutturazione gerarchica del codice genetico incari- cato di
regolare lo sviluppo embrionale: anche in questo caso si pen- sa a una
mutazione puntiforme in una particolare classe di geni re- golatori («geni
omeotici»), responsabili dell’attivazione di una clas- se più ampia di geni
strutturali. È stato inoltre ipotizzato un terzo li- vello di strutturazione:
devono infatti esistere alcuni «regolatori di second’ordine» in grado di
attivare o disattivare i regolatori omeoti- ci in un certo tempo e per una
certa localizzazione. Questo terzo li- vello potrebbe essere rappresentato da
altri geni oppure dagli «agen- ti morfogeni» scoperti da Lewis Wolpert, cioè
gradienti di una so- stanza chimica «percepita» dai geni regolatori. E bene
tuttavia fare una precisazione in merito alla realtà di que- sti «salti»
evolutivi improvvisi innescati da piccole mutazioni nei ge- ni regolatori. Gli
esperimenti di natura derivanti da mutazioni omeo- tiche non sono equivalenti
agli bope/ul monsters di Richard Gold- schmidt. Le macromutazioni omeotiche
solo raramente sono «pro- mettenti» in senso evolutivo e comunque non si
traducono diretta- mente in transizioni evolutive consolidate. Le macromutazioni
sti- molano e danno materiale potenziale alla selezione naturale, ma non
possono dirigere l'evoluzione: restiamo all’interno di una prospetti- va
rigorosamente darwiniana. L’interesse per un modello di spiegazione dei
cambiamenti evo- lutivi a più livelli, con particolare attenzione alla
strutturazione e re- golazione finemente gerarchica dello sviluppo embrionale,
è dive- nuto oggi di notevole attualità grazie ai progressi degli studi sulle
in- terazioni fra il processo evolutivo su scala filogenetica e i processi di
sviluppo su scala individuale (ontogenesi), un campo denominato 129
sinteticamente «evo-devo» (Gilbert, Opitz, Raff, 1996; Minelli, 2003). Il
«dato» osservativo primario delle indagini dell’evo-devo è che si registra una
quantità di varietà di forme e di dimensioni sproporzio- nata rispetto alle
lievissime differenze genetiche riscontrabili. I geni omeotici sono molto
simili in tutto il regno animale. Non solo, mol- te delle forme più dissimili
sembrano essersi sviluppate parallela- mente e indipendentemente l’una
dall’altra più di una volta. Questo è il nucleo problematico dello sviluppo
morfologico: come è possi- bile che un insieme complesso di caratteri
indipendenti si evolva ri- petutamente nello stesso modo e così fedelmente? La
forte integrazione del genoma non esclude affatto che la sele- zione abbia un
ruolo decisivo nell’eliminare le variabili inadatte e nel modificare
cumulativamente il corredo genetico. L’idea che possa scaturire una perfezione
immediata da un cambiamento genetico profondo è irta di difficoltà, prima fra
tutte l’impossibilità di spie- gare l'accoppiamento con altri individui della
specie ancestrale non trasformati. La spiegazione della speciazione in termini
genetici e geografici presentata da Mayr e dai suoi allievi rimane interna alla
tradizione darwiniana, aggirando i vicoli ciechi del discontinuismo di Hugo De
Vries o del paleontologo Otto Heinrich Schindewolf che immaginava la nascita,
da un uovo di rettile, del primo uccello già pienamente formato. Eppure, l’evo-devo
sembra suggerire che non tutte le teorie del cambiamento accelerato siano
necessariamente antidarwiniane. Il cambiamento rapido potrebbe emergere in una
forma adulta a cau- sa di piccole modificazioni genetiche, questa alterazione
non impe- direbbe al mutante di accoppiarsi con i suoi simili e la variante
ver- rebbe regolarmente sottoposta a selezione naturale. Se la variante ri-
sulta favorevole si diffonde e si consolida, determinando un adatta- mento a
nuovi modi di vita. In Ortogeny and Phylogeny Gould mo- stra come le specie
consolidate e ben adattate siano resistenti al cam- biamento: solo
un’alterazione genetica sui ritmi di sviluppo, poi con- solidata, può spiegare
talune accelerazioni. Detto nei termini attua- li, solo l’evo-devo può
decifrare il mistero dell’esplosione di forme anatomicamente diverse in tempi
rapidi che si riscontra in episodi come la radiazione adattativa dei mammiferi,
su cui concentrò la sua attenzione per decenni George Gaylord Simpson. 130 8.
Lo strutturalismo processuale D’Arcy Thompson, la cui voluminosa opera Crescita
e forma del 1917 rappresenta un punto di riferimento imprescindibile per com-
prendere la filosofia della biologia di orientamento strutturalista, so-
steneva che l’unità profonda della natura fosse rappresentabile da una
molteplicità di modelli di generazione comuni e immutabili al pari delle
essenze platoniche. La sua biologia era un universo di for- me ideali, di
progetti generativi fondamentali cui il singolo organi- smo non può apportare
sostanziali variazioni. Gli individui obbedi- scono nella loro crescita a piani
di organizzazione preordinati, che costituiscono vincoli inaggirabili per lo
sviluppo fisiologico. La diversità naturale, anziché limitarsi a un mero
«tassonomi- smo», dovrebbe essere ricondotta alle sue forme generative. Quella
di D’Arcy Thompson fu forse la reazione più consapevole al meto- do, dominante
nel periodo di consolidamento della Sintesi Moder- na, di scomposizione
dell’unità organica nei «componenti elementa- ri» e di «sezionamento» delle
singole parti al fine di estrapolarne la causa selettiva. La biologia della
scienziato scozzese era, viceversa, una biologia del «disegno» della vita, del
progetto (desigr) di cui ogni sistema integrato è portatore e al contempo
«traccia». La scoperta del genoma come sistema integrato e delle mutazio- ni
indotte da piccole modificazioni dei geni predisposti all’evoluzio- ne delle
forme durante lo sviluppo embrionale secondo autori come Gould riabilita oggi
l’opera di D’Arcy Thompson. I tratti struttura- li devono infatti essere
ereditati senza l'apporto di alcuna pressione selettiva esterna, non essendo
adattativi. Un’ipotesi plausibile è che essi svolgano un ruolo nella coesione
dell’organismo durante lo svi- luppo: se una mutazione genetica dovesse
interessarli, verrebbe su- bito eliminata perché minaccerebbe l’integrità del
sistema di svilup- po. Essi sono dunque vincoli dello sviluppo (developmental
con- straints), la cui origine non è direttamente adattativa e non stanno lì
per svolgere una funzione di sopravvivenza specifica: fanno parte del sistema
integrato di sviluppo e la selezione naturale li preserva da mutazioni
negative. Le correlazioni di crescita rivelano effettivamente l’esistenza di
«complessi integrati» a livello genetico, responsabili di canali di cre- scita
alternativi e di risultati morfologici indipendenti. Non è più ri- tenuto
improbabile che trasformazioni di uno stesso modello di cre- scita nelle fasi
di sviluppo possano, in certi casi, determinare la di- 131 versificazione di sottospecie
o anche fornire la variazione potenziale per una speciazione. Lo sviluppo
embrionale, secondo un’analisi re- cente di Rudolf A. Raff (1996), è
strutturato in campi morfogenetici, cioè regioni tridimensionali di sviluppo
che evolvono come unità in- tegrate e sono assemblate dall’azione congiunta e
reciproca dei geni regolatori e del contesto ambientale e citoplasmatico. In
tal senso, una parte rilevante del merito per la scoperta della possibilità di
un’apertura sistemica allo studio dello sviluppo è da at- tribuire al biologo
ed embriologo britannico Conrad H. Wadding- ton (1905-1975), le cui ricerche
sui meccanismi dello sviluppo em- brionale e sui processi generali
dell’ontogenesi sono alla base degli approcci strutturalisti alle unità evolutive.
Waddington seppe in- quadrare la sua concezione della crescita individuale in
un contesto teorico che sfruttava le intuizioni della tradizione morfologica
inte- grandole con il meccanismo di selezione naturale darwiniano (1979). La
descrizione di un’organizzazione biologica deve partire a suo av- viso dalla
valutazione del tracciato di sviluppo. La prospettiva di Waddington fu definita
«strategico-interazionista»: i geni non sono mattoni isolati predisposti per
singole mutazioni, ma componenti di un sistema integrato avente una «strategia
comune» di cambiamen- to (1940, 1957). L'evoluzione riguardava a suo avviso
popolazioni di geni in po- polazioni di organismi e i geni non erano riducibili
a mere informa- zioni: erano piuttosto «algoritmi» complessi, o meglio
«strategie ci- bernetiche» di adattamento all'ambiente. In questo senso, Wad-
dington intuì che la mutazione genetica non poteva essere concepi- ta
linearmente, ma andava contestualizzata in un intreccio evolutivo di
correlazioni e di interazioni genetiche ed extragenetiche. Secon- do
Waddington, la reazione di sviluppo innescata da una sollecita- zione
ambientale si forma nei primi stadi dell’evoluzione di un or- ganismo per poi
trasformarsi in una reazione puramente genica. In altri termini, lo sviluppo è
«canalizzato». La sua rappresentazione tridimensionale della canalizzazione
dello sviluppo è il cosiddetto paesaggio epigenetico. La forma del paesaggio è
dettata dai geni, dalle costrizioni dello sviluppo e dalle loro
interconnessioni. Un oggetto sferico (l'organismo) si muove in un territorio
solcato da avvallamenti, cioè da percorsi obbligati di sviluppo. La pallina
deve adeguarsi alla morfologia della valle, roto- lando in un alveo
precostituito che Waddington chiamò creodo (dal greco «via obbligata»). Fra un
creodo e l’altro esistono picchi o spar- 152 tiacque che la pallina deve
superare, restando nell’alveo originario o deviando in un creodo alternativo:
questi punti di potenziale devia- zione sono intesi da Waddington come punti di
crisi e di singolarità dello sviluppo. Gran parte delle mutazioni genetiche e
di sviluppo lasceranno la pallina nel suo solco resistente (omeoresi). In
alcuni ca- si, faranno sbalzare la pallina in un altro creodo. Questi sono mo-
menti di trasformazione radicale che Waddington volle chiamare «fasi di
competenza» (perché mettono alla prova la «forza» e le ca- pacità accumulate
nel percorso precedente) e che obbedirebbero al- la logica della singolarità
evolutiva descritta da René Thom e Erik Christopher Zeeman con la «teoria delle
catastrofi» o fratture di sta- bilità dei sistemi. Evoluzione e sviluppo
sarebbero insomma raffigu- rabili come percorsi canalizzati, che in alcuni casi
deviano da un creo- do a un altro. I processi di sviluppo derivano da un
equilibrio dinamico fra mo- dificazioni indotte dall’ambiente e resistenze
omeoretiche al cambia- mento, da una dialettica fra alterabilità per selezione
naturale e capa- cità di controllo genetico, o meglio fra vincoli genetici e
potenzialità di modificazione. La teoria dello sviluppo poteva essere estesa,
se- condo Waddington, in una teoria «organica» dell’evoluzione. Egli ipotizzò
che il sistema di sviluppo fosse articolato su quattro livelli: il «sistema
genetico», la «selezione naturale», il «sistema di sfrutta- mento» (cioè
l’insieme dei processi per cui gli organismi modificano il proprio ambiente,
indifferentemente dalla dipendenza dall’am- biente stesso); il «sistema
epigenetico» (cioè la sequenza dei processi causali che portano allo sviluppo
dello zigote). I livelli dell’evoluzio- ne sono reciprocamente connessi e
l’essere vivente (considerato nel corso del suo sviluppo) è una forma di
«organizzazione». La selezione naturale ha qui una duplice funzione, quella di
ca- nalizzazione dello sviluppo e quella di diversificazione potenziale dei
percorsi evolutivi. Ciò che però prevale nella visualizzazione com- plessiva
del percorso di sviluppo è che esso porta a risultati stabili nonostante le
pressioni subite. Gli adattamenti organici sono, molto frequentemente, direzioni
impresse nel processo di sviluppo. Una lunga serie di indagini sperimentali lo
portò alla deduzione che mol- ti adattamenti ritenuti esogeni erano in realtà
endogeni: essi riguar- davano canalizzazioni particolari dello sviluppo
embrionale, che «resistevano» sia alle perturbazioni esterne sia alla
variazione gene- tica sottostante. Da questi studi sui vincoli di sviluppo
nacque una tradizione di ricerca, definita «strutturalismo processuale»
(process 133 structuralism), che influenza oggi sia la DST sia l’opera di
evoluzio- nisti come Gould. Alle spalle di queste teorizzazioni scorgiamo il
tentativo di supe- rare la dicotomia classica della filosofia della biologia
moderna: quel- la fra meccanicismo e vitalismo. Da un lato, i fautori
dell’integrità or- ganica supponevano l’esistenza di principi superiori, di
agenti evo- lutivi non materiali e di «forze vitali» che avrebbero animato la
mac- china della vita. D'altro lato, i sostenitori dell’approccio fisicalista
puntavano alla deduzione del funzionamento vitale da leggi mecca- niche
invarianti e da giustapposizioni di parti inerti. Il cuore teorico della «terza
via» sistemica è invece così riassumibile: la vita è un fe- nomeno non
determinabile univocamente dalle leggi fisico-chimiche cui pure è vincolato; non
esiste tuttavia neppure una proprietà «spe- ciale» della vita, un principio
immateriale che ne diriga il corso; il se- greto di funzionamento dei sistemi
viventi è la stratificazione di li- velli evolutivi, irriducibili l’uno
all’altro ma interagenti; il passaggio da un livello a un altro corrisponde al
succedersi di proprietà emer- genti, prodotte dalle interazioni fra le diverse
unità evolutive di cia- scun livello; l'oggetto vivente nella sua interezza è
dato pertanto dal- la sua organizzazione morfologica e funzionale; questa
organizzazio- ne vitale è in un rapporto al contempo di continuità e di
autonomia rispetto ai principi fisici. Come scrisse Erwin Schròdinger in Che
cos'è la vita? (1944), quella dell'organismo vivente è una «costruzione» integrata
diffe- rente da qualsiasi oggetto studiato in un laboratorio di fisica. É
un’organizzazione inedita per la fisica, anche se ron è, ovviamente,
indipendente dalla fisica. Da questo spunto, peraltro proveniente da un
autorevole fisico, si è diffuso in filosofia della biologia un vasto consenso
antiriduzionista che rifiuta l’idea secondo cui la biologia possa essere
unificata teoricamente alle leggi della fisica e della chi- mica. Secondo David
Hull l’assunto antiriduzionista vale anche all’interno della biologia, laddove
la genetica empirica mendeliana non appare riducibile teoricamente alla
biologia molecolare (Kit- cher, 2003; Mayr 1997, 2004), poiché i geni
mendeliani corrispon- dono a raggruppamenti ogni volta diversi di strutture e
di eventi mo- lecolari. Quindi il «gene» rappresenterebbe un livello gerarchico
su- periore, prodotto da una gamma di differenti configurazioni mole- colari di
livello inferiore e non riducibile a una sola tipologia speci- fica. I
tentativi di unificazione o di colonizzazione teorica sembrano proprio fallire
quando incontrano la biologia (Dupré, 1993): vec- 134 chie e nuove teorie sono
invece complementari e permettono di comprendere in modo pluralista e
gerarchico lo stesso processo na- turale. Dunque il rapporto fra genetica e
riduzionismo, come ha notato Sahotra Sarkar, richiede molti distinguo interni
alla disciplina e va ben al di là delle semplificazioni della divulgazione
della biologia molecolare (1998). A questo proposito è bene sottolineare che in
fi- losofia della biologia è più che mai importante la distinzione classi- ca
fra i tre tipi di riduzionismo suggerita nel 1961 da Ernst Nagel: il consenso
antiriduzionista alla Schròdinger riguarda in primo luogo il riduzionismo
teorico 0 epistemologico, ovvero la possibilità di uni- ficare teoricamente un
campo di studio attraverso leggi di generaliz- zazione che lo riconducano
interamente a una teoria più ampia (per esempio, la fisica rispetto alla
biologia, oppure la genetica molecola- re rispetto alla genetica di trasmissione).
Un’altra strategia riduzio- nista interessa invece la metodologia esplicativa,
allorché si decida, per esempio, di studiare un fenomeno biologico
scomponendolo nelle sue parti costituenti e analizzandole separatamente, oppure
si decida di isolare arbitrariamente come costanti alcuni fattori e di stu-
diare la norma di reazione degli altri (riduzionismo metodologico 0 per
scomposizione). Di tutt'altro tenore è invece quella forma di ri- duzionismo
che possiamo associare all'impresa scientifica in senso generale, cioè il
rifiuto di considerare pertinenti cause che non sia- no naturali, intelligibili
e identificabili attraverso i metodi di ricerca intesi nel senso più ampio e
pluralista possibile (riduzzionismzzo onto- logico) (Nagel, 1961; Schaffner, 1993).
La posizione naturalistica di chi non accetta di considerare l’esistenza di
cause o di essenze im- materiali è dunque ben distinta, in questa terza
accezione, da quella di chi considera la teoria dell’evoluzione valida per
tutto il mondo naturale tranne che per l’origine dell’intelligenza. La
soluzione di su- peramento della controversia tra meccanicismo e vitalismo
mette in discussione la pervasività delle prime due forme di riduzionismo, ma
non la terza. La tradizione strutturalista continentale affonda le sue radici
nell'opera di Geoffroy Saint-Hilaire e del Johann Wolfgang von Goethe del
Versuch die Metamorphose der Pflanzen zu erkliren (Ten- tativo di spiegare la
morfologia delle piante, 1790). La via sistemica alla biologia sostiene che il
vivente non contraddice in alcun modo i principi chimico-fisici indicati dalle
scienze di base, tuttavia le leggi fisiche sono necessarie ma non sufficienti
per garantire una spiega- 135 zione esaustiva dei sistemi viventi; lo studio
integrale e non parcel- lizzato degli organismi porta alla scoperta di
proprietà emergenti del tutto nuove. La «materia» della vita è
l’organizzazione, cioè un si- stema irriducibile alla somma meccanica delle
proprie componenti, eppure intelligibile senza la necessità di un principio
causale di tipo metafisico. Tale considerazione dell’aspetto relazionale e
sistemico non esclude, peraltro, che la spiegazione per scomposizione sia in
molti casi utile ed efficace. Se dunque la terza forma di riduzionismo riscuote
un vasto consenso trasversale e la seconda sembra essere su- perabile
attraverso il pluralismo metodologico, il riduzionismo teo- rico è fonte di
accese discussioni in seno alla filosofia della biologia. In una direzione
analoga punta anche la ricerca del biologo bri- tannico Brian Goodwin, fra i
maggiori teorici dell’approccio strut- turalista alla forma organica, il quale
ha avuto il merito di connette- re questa corrente ai recenti studi sui sistemi
complessi adattativi e alle teorie del caos, promossi fra gli altri dal Santa
Fe Institute in New Mexico. L’opposizione di Goodwin alla tradizione di tipo
ana- litico applicata allo studio dei sistemi viventi e il bisogno di «una
nuova visione del mondo non frammentaria» (1994) si sono espres- si, in
particolare, in una teoria dei campi morfogenetici che indivi- dua le leggi di
organizzazione di base dei sistemi viventi (Goodwin, Saunders, a cura di,
1989). Secondo la visione radicalmente interna- lista di Goodwin, le proprietà
di autorganizzazione del vivente rap- presentano una forte contrazione del
campo di possibilità della se- lezione naturale: i tratti strutturali altamente
conservati sono come «attrattori» del processo di sviluppo, usando la
terminologia propo- sta da Stuart Kauffman. Come ha notato Raff (1996),
l’organizza- zione dei piani corporei fondamentali della vita tende a rimanere
for- temente stabile per centinaia di milioni di anni e questo aspetto con-
servativo del processo evolutivo solleva qualche difficoltà per i so- stenitori
di un'immagine progressionista dell’evoluzione. In tal modo, notiamo come la
contrapposizione fra meccanici- smo, vitalismo e strutturalismo coinvolga
direttamente la teoria dell’evoluzione, trasferendosi sul piano della
valutazione del reale potere «plasmante» della selezione naturale sugli
organismi. Il «morfospazio» (battezzato da Daniel Dennett design space) di
tutti i progetti adattativi possibili non sembra infatti occupato in modo
omogeneo in natura: alcune soluzioni attraggono una grande quan- tità di forme,
mentre altre rimangono inesplorate. I grandi piani or- ganizzativi del vivente,
la cui misura fu definita da Gould disparità, 136 non sono distribuiti
uniformemente. Ciò potrebbe essere dovuto in parte alle canalizzazioni di
sviluppo che condizionano l’evoluzione instradandola su alcuni binari anziché
su altri, nonché ai vincoli fisi- ci cui la vita è soggetta, ma potrebbe essere
dovuto anche alle con- tingenze storiche che hanno deviato la traiettoria della
storia in al- cune regioni del morfospazio a scapito di altre. La disparità
della vi- ta potrebbe essere figlia di costrizioni alla selezione naturale,
come anche di percorsi storici irreversibili. Se è vero che non esistono ele-
fanti con le ali per un evidente problema di gravità, non è altrettan- to ovvio
spiegare come mai non esistano rane volanti, tartarughe vi- vipare, animali con
tre sessi o serpenti erbivori. Darwin, che aveva studiato le opere dei grandi
anatomisti euro- pei della prima metà dell'Ottocento, era ben consapevole
dell’esi- stenza di due modalità complementari di spiegazione evolutiva, quel-
la adattativa (spiegare un tratto chiedendosi quale funzione svolga nella lotta
per la sopravvivenza) e quella strutturale (spiegare un trat- to collocandolo
nel piano corporeo complessivo di un organismo di un certo tipo): egli definì
queste due «leggi» come unità di tipo e con- dizioni di esistenza. La coesione
del «tipo» in una classe di organismi era per lui quasi del tutto indipendente
dalle abitudini di vita, quin- di dalla selezione naturale, pur essendo figlia di
una discendenza co- mune. Questa «unità per discendenza» di tipo strutturale
era pro- dotta dall'evoluzione per adattamento progressivo, certo, ma limita-
va chiaramente, nella sua visione, l’azione della selezione naturale nel
presente, la cui onnipotenza sarà invece rivendicata dalla corrente se-
lezionista dei suoi epigoni. Questi ultimi accentuarono l’affermazio- ne
darwiniana secondo cui le condizioni di esistenza erano una «leg- ge superiore»
rispetto all'unità di tipo e non considerarono il ruolo di vincolo e di inerzia
esercitato dai piani corporei ereditati. Sarebbe dunque un errore supporre,
come alcune frange del crea- zionismo contemporaneo hanno fatto, che il
contributo dello strut- turalismo biologico, nonostante alcuni passi falsi dei
suoi stessi pro- ponenti in tal senso, rappresenti oggi un’alternativa alla
teoria del- l'evoluzione darwiniana per selezione naturale. In gioco è semmai
una contrapposizione più sottile fra approcci esternalisti e approcci in-
ternalisti alla teoria dell’evoluzione. La dialettica fra forme e funzio- ni,
fra vincoli interni e pressioni selettive esterne, fra strutture conso- lidate
e contingenze storiche ci porta allora nel cuore di uno dei pro- blemi
fondamentali della filosofia della biologia: la spiegazione e il si- gnificato
dell'adattamento, oggetto del prossimo capitolo. 137 COSA LEGGERE... Il potere
dell’algoritmo darwiniano su base genetica nel definire la na- tura umana e
della selezione naturale come meccanismo onnipervasivo è ben evidenziato
nell'opera di DANIEL DENNETT, L'idea pericolosa di Darwin. L'evoluzione e i
significati della vita, Bollati Boringhieri, Torino 1997 (ed. or. 1995), come
in quella di STEVEN PINKER, L’istinto del lin- guaggio, Mondadori, Milano 1998
(ed. or. 1994). I temi fondamentali del consenso interazionista, in un’ottica
neo- darwinista, sono delineati in MATT RIDLEY, Nature via Nurture, Harper-
Collins, New York 2003. La teoria dei sistemi di sviluppo (DST) fa riferimento
a un blocco di testi recenti: P.E. GRIFFITHS, R.D. GRAY, «Developmental Systems
and Evolutionary Explanation», in Journal of Philosophy, XCI, 1994, 6, pp.
277-304; P. BATESON, P. MARTIN, Progetto per una vita, Dedalo, Bari 2002 (ed.
or. 1999); S. OvAMA, The Ontogeny of Information. Developmental Systems and Evolution, Second edition
revised and expanded, Duke Uni- versity Press, Durham (NC) 2000; ID., L'occhio
dell'evoluzione, Fioriti, Ro- ma 2004 (ed. or. 2000); S. OYyAMA, P.E.
GRIFFITHS, R.D. GRAY, Cyoles of Contingency. Developmental
Systems and Evolution, MIT Press, Cambrid- ge (Mass.) 2001. Per comprendere lo
sfondo della teoria: R.C. LEWONTIN, Gene, organismo e ambiente. I rapporti
causa effetto in biologia, Laterza, Ro- ma-Bari 1998, e, più recente, la
raccolta di saggi: I/ sogno del genoma uma- no e altre illusioni della scienza,
Laterza, Roma-Bari 2002 (ed. or. 2000). Sulla
crisi del concetto informazionale di gene: R.D. GRAY, «Death of the Gene:
Developmental Systems Strike Back», in P.E. GRIFFITHS (a cura di), Trees of
Life: Essays in the Philosophy of Biology, Kluwer, Dordrecht 1992; R.D. GRAY,
«In the Belly ofthe Monster: Feminism, Developmental Systems and Evolutionary
Explanations», in P.A. GOWATY (a cura di), Evolutionary Biology and Feminism,
Chapman & Hall, New York 1997; E. JABLONKA, M.J. LAMB, Epigenetic
Inheritance and Evolution, Oxford Uni- versity Press, Oxford 1995;J.R.
GRIESEMER, «The Informational Gene and the Substantial Body: On the
Generalization of Evolutionary Theory by Abstraction», in N. CARTWRIGHT, M.
JONES (a cura di), Varseties of Ideali- zation, Rodopi Publishers, Amsterdam
2004. L’interessante definizione costruttivista e processuale di «gene» di Eva
M. Neumann-Held è conte- nuta in «The Gene Is Dead, Long Live to the Gene», in
P. KOSLOWSKI, So- ciobiology and Bioeconomrics, Springer, Berlin 1998. Cfr.
anche P.E. GRIF- FITHS, E. NEUMANN-HELD, «The Many Faces of the Gene», in
Bioscience, IL, 1999, pp. 656-62. Una posizione scettica
sull’utilizzo del concetto di informazione in biologia è quella di SAHOTRA
SARKAR, Genetics and Re- ductionism, Cambridge University Press, Cambridge
1998. Per una critica radicale al riduzionismo genetico e all’approccio 138
informazionale in biologia molecolare: EVELYN Fox-KELLER, I/ secolo del gene,
Garzanti, Milano 2001 (ed. or. 2000). Una guida importante per comprendere le
diverse sfaccettature del riduzionismo in biologia è PHI- LIP KITCHER, In
Mendel’s Mirror: Philosophical Reflections on Biology, Oxford University Press,
Oxford 2003; non meno utile, di dieci anni pri- ma, K. SCHAFFNER, Discovery and
Explanation in Biology and Medicine, University of Chicago Press, Chicago 1993.
L’inefficacia dei riduzionismi chimico-fisici nelle scienze della vita è
mostrata da ERNST MAYR in I/ r20- dello biologico, McGraw-Hill Italia, Milano
1998 (ed. or. 1997) e nella sua ultima opera: What Makes Biology Unique?
Cambridge University Press, Cambridge 2004. Il classico più volte richiamato di
ERWIN SCHRODINGER è Che cos'è la vita?, Adelphi, Milano 1995 (ed. or. 1944);
quello di ERNST NAGEL è The Structure of Science, Routledge, Londra 1961. Un
libro mol- to interessante su pluralismo e riduzionismo in biologia è JOHN
DUPRÉ, The Disorder of Things, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)
1993. Il ruolo della genetica per comprendere la storia della diversità umana è
evidenziato in R.C. LEWONTIN, La diversità umana, Zanichelli, Bologna 1987 (ed.
or. 1982). L’autorevole genetista italiano della Stanford Univer- sity, Luigi
Luca Cavalli Sforza, ha dato un contributo straordinario alle ri- cerche sulla
diversità del genoma umano, tracciando a partire da esse an- che le grandi
biforcazioni della planetarizzazione di Horo sapiens: L.L. CAVALLI SFORZA, F.
CAVALLI SFORZA, Chi siarzo. Storia della diversità uma- na, Mondadori, Milano
1983; L.L. CAVALLI SFORZA, P. MENOZZI, A. PIAZ- ZA, Storia e geografia dei geni
umani, Adelphi, Milano 1997 (ed. or. 1994); L.L. CAVALLI SFORZA, Geri, popoli e
lingue, Adelphi, Milano 1996. La biologia come luogo della potenzialità e non
della necessità è il te- ma conduttore di due opere di grande respiro di Steven
Rose, Linee di vita. Oltre il determinismo, Garzanti, Milano 2001 (ed. or.
1997) e di Paul R. Ehrlich, Human Natures. Genes,
Cultures and the Human Prospect, Island Press, Washington D.C. 2000. Sul
genoma come sorgente di fles- sibilità e di potenzialità di apprendimento: GARY
MARCUS, La nascita del- la mente. Come un piccolo numero di geni crea le
complessità del pensiero umano, Codice Edizioni, Torino 2004 (ed. or. 2004).
Nell’alveo di un’interpretazione costruttivista e pluralista delle relazio- ni
fra nicchie ecologiche, organismi e geni, sono apparsi negli ultimi anni alcuni
testi molto interessanti. Sugli organismi come costruttori di nicchie: F.J.
ODLING-SMEE, K.N. LALAND, M.W. FELDMAN, Niche Construction. The Neglected Process in Evolution, Princeton
University Press, Princeton 2003. Sulla plasticità fenotipica e dello sviluppo:
MASSIMO PIGLIUCCI, Phe- notypic Plasticity: Beyond Nature and Nurture, Johns
Hopkins University Press, Baltimore 2001 e MARY JANE WEST-EBERHARD,
Developmental Pla- sticity and Evolution, Oxford University Press, Oxford 2003.
Sulla coevo- 139 luzione cervello-linguaggio nella nicchia
simbolica umana: TERRENCE DEACON, La specie simbolica. Coevoluzione di
linguaggio e cervello, Fioriti, Roma 2001 (ed. or. 1997). Riflessioni
particolarmente utili su eredità ge- netica e sistemi di sviluppo sono
contenute in una pregevole raccolta de- dicata all’effetto Baldwin: BRUCE H.
WEBER, DAVID J. DEPEW, Evolution and Learning. The
Baldwin Effect Reconsidered, MIT Press, Cambridge (Mass.) 2003 e in P. BATESON,
«The Active Role of Behaviorin Evolution», in Biology and Philosophy, XIX,
2004, pp. 283-94. Tentativi di compromesso con il neodarwinismo selezionista si
trova- no nell’ipotesi della gerarchia di interattori di R. BRANDON, «The
Levels of Selection. A Hierarchy of Interactors», in H. PLOTKIN
(a cura di), The Role of Behavior in Evolution, MIT Press, Cambridge (Mass.)
1988 e nell’ipotesi del replicatore esteso di KIM STERELNY, KELLY SMITH, MIKE
DICKISON, «The Extended Replicator», in Biology and Philosophy, XI, 1996, 3,
pp. 377-403. Per un’ipotesi di pluralismo esplicativo, si veda K. STERELNY,
«Explanatory, Pluralism in Evolutionary Biology», in Biology and Philosophy,
11, pp. 193-214, 1996. Sulle prospettive attuali e future dell’evo-devo: S.F.
GILBERT, J.M. OPITZ, R.A. RAFF, «Resynthesising Evolutionary and Developmental
Bio- logy», in Developmental Biology, CLXXIII, 1996, pp. 357-72; R.M. Bu- RIAN,
«On Conflicts between Genetic and Developmental Viewpoints - And Their
Resolution in Molecular Biology », in M.L. DALLA CHIARA (a cura di), Structures
and Norms in Science, Kluwer, Dordrecht 1997; A. MINELLI, The Development of
Animal Form. Ontogeny, Morphology, and Evolution, Cambridge University Press,
Cambridge 2003. Le riflessioni sui vincoli di sviluppo di STEPHEN J. GOULD
erano state abbozzate la pri- ma volta in Ortogeny and Phylogeny, Harvard
University Press, Cam- bridge (Mass.) 1977; un aggiornamento alla luce degli
sviluppi dell’evo- devo è rintracciabile nel capitolo decimo della Struttura
della teoria dell'evoluzione (2002). La teoria dei campi morfogenetici dello
sviluppo è descritta in un ottimo libro di RUDOLF A. RAFF, The Shape of Life.
Genes, Development and the Evolution of Animal Form, University of Chicago
Press, Chicago 1996, forse la migliore sintesi attualmente dispo- nibile fra
biologia evolutiva e biologia dello sviluppo. Per chi intenda ritornare
all'opera di Conrad H. Waddington: Orga- nisers and Genes, Cambridge University
Press, Cambridge 1940; The Strategy of the Genes, Allen & Unwin, London e
Macmillan Company, Chicago 1957; Evoluzione di un evoluzionista, Armando, Roma
1979 (ed. or. 1975); Strumenti per pensare. Un approccio globale ai sistemi
comples- sî, Mondadori, Milano 1977 (ed. or. 1977). Lo strutturalismo
internalista centrato sull’idea di autorganizzazione è difeso da BRIAN GOODWIN
e coltivato dalla scuola di biologia teorica della Open University britannica:
MAE-WAN Ho, S.W. Fox (a cura di), 140 Evolutionary Processes and Metaphors,
John Wiley & Sons, Chichester 1988; B. GOODWIN, P. SAUNDERS (a cura di),
Theoretical Biology. Epige- netic and Evolutionary Order from
Complex Systems, Edinburgh Univer- sity Press, Edinburgh 1989; B. GOODWIN, How
the Leopard Changed Its Spots: The Evolution of Complexity, Scribner &
Sons, New York 1994. Capitolo quinto ._ La dialettica tra forme
e funzioni: i concetti di adattamento e di «exaptation» L’adattamento è forse
la maggiore evidenza della biologia evolutiva. Gli organismi sono ben adattati
ai loro ambienti. Si mimetizzano, sviluppano armi sofisticate per catturare le
prede, hanno sistemi per- cettivi perfetti per la loro nicchia, inventano
soluzioni ingegneristi- che straordinarie come gli occhi, le orecchie,
l’ecolocalizzazione dei pipistrelli, i becchi di alcuni insetti e uccelli
perfettamente conformi alle dimensioni dei fiori. Un tratto favorito dalla
selezione naturale per i suoi effetti positivi sull'organismo portatore viene
appunto de- finito «adattamento» (adaptation). La selezione tenderà a fissare
trat- ti sempre più «adattativi», che favoriscano gli organismi nella so-
pravvivenza e nella riproduzione e ne «ottimizzino» le performance in un dato
contesto ambientale. Tuttavia, se usiamo l'adattamento come criterio
esplicativo onnipervasivo corriamo il rischio di cadere in una tautologia più
volte rimarcata dai filosofi della biologia, cioè in una definizione circolare
reciproca dell'adattamento e della sele- zione naturale: dicesi adattamento
tutto ciò che viene prodotto dal- la selezione naturale; dicesi selezione
naturale il meccanismo che ge- nera adattamenti. Fu lo stesso Darwin a notare
che le evidenze più interessanti per comprendere l’evoluzione non sono gli
adattamenti perfetti, ma le imperfezioni, i compromessi adattativi, le
peculiarità apparente- mente accidentali. Le sue remore nell’utilizzare
l’espressione di Her- bert Spencer, «sopravvivenza del più adatto» (survival of
the fittest), come sinonimo di selezione naturale sono da ricondurre a questo
problema. Egli capì che l'adattamento andava caratterizzato in mo- do indipendente
dalla selezione naturale operante attualmente, per spezzare la tautologia. Le
imperfezioni che lui notava derivavano in molti casi dal trascinarsi di
adattamenti passati, oggi dismessi, cioè da vincoli strutturali ereditati, in
gran parte non adattativi, ma uti- lissimi per classificare gli organismi in
base all’unità di tipo. Questi 142 tratti altamente conservativi e resistenti,
nonostante il mutare delle condizioni di esistenza, erano per lui il segno
della storia, erano la promessa di nuovi riutilizzi possibili, gli garantivano
un’efficace con- futazione degli argomenti creazionisti circa il perfetto
«design» de- gli organismi. In tempi più recenti, la contrapposizione fra la
visione puntua- zionale e la visione genocentrica ha coinvolto il concetto di
adatta- mento. La domanda da cui ebbe inizio la controversia sugli equilibri
punteggiati potrebbe essere riformulata in questi termini: che rap- porto
esiste fra cambiamento adattativo e speciazione? E perché il cambiamento
adattativo sembra concentrato in periodi così brevi? La risposta convenzionale
fu che i ritmi adattativi potevano cambia- re in base alla modulazione
dell’intensità delle pressioni selettive. Una teoria più comprensiva, a parere
di Niles Eldredge e Stephen J. Gould, doveva invece partire dall'idea di
speciazione geografica, per poter spiegare non solo la diversità adattativa, ma
anche la sua diffor- mità in natura. La diversità, infatti, sembra essere
trasportata per «package», per blocchi, attraverso specie intese come cluster
all’in- terno dello spettro della diversità adattativa, oltre che come comu-
nità riproduttive. Al contrario, per Richard Dawkins la selezione ge- nica è un
meccanismo pervasivo che plasma gli organismi e produ- ce un perfezionamento
adattativo progressivo e una crescita di com- plessità che hanno le loro radici
a livello microevolutivo e si estra- polano poi a tutti i livelli
dell’evoluzione. In una visione gerarchica dell'evoluzione, le interazioni di
entità su larga scala che sovrimpongono i loro pattern di sopravvivenza dif-
ferenziale fra specie sui pattern di cambiamento graduale all’interno delle
specie sono spesso svincolate da ragioni adattative valide per gli organismi
che compongono le popolazioni. Una barriera geogra- fica, una frammentazione di
habitat, uno sconvolgimento climatico o geologico sono fenomeni contingenti
rispetto al valore adattativo degli organismi di una singola specie e si
impongono su di esso. Per- tanto, come scrissero Eldredge e Elisabeth Vrba nel
1986, il cam- biamento direzionale di lungo termine dentro le linee evolutive
im- plica sia una sopravvivenza differenziale delle specie come entità su larga
scala sia un cambiamento adattativo mediato dalla selezione naturale sulle
caratteristiche fenotipiche individuali. Diversamente, nella visione
genocentrica il secondo è necessario e sufficiente per spiegare l’intera
panoplia di trasformazioni delle forme viventi. 143 1. Perfezione e
imperfezione in natura Riemerge dunque il tema darwiniano del ruolo effettivo
della sele- zione naturale nella costruzione delle forme organiche, un problema
molto più spinoso per la teoria dell’evoluzione di quanto non si sia portati a
pensare comunemente. Non fu infatti mai facile, nella sto- ria
dell’evoluzionismo, ricondurre l’intera gamma dei fenomeni na- turali
all’azione della selezione naturale. Che senso hanno alcune strutture
particolarmente ingombranti, come le corna ramificate dell’alce irlandese ora
estinta? Perché le specie si estinguono? Mol- ti scienziati creazionisti dei
secoli XVII e XVIII sostenevano che l'estinzione di una specie sarebbe stata in
contrasto con la bontà e la perfezione di Dio e cercarono invano esemplari
viventi corrispon- denti ai resti fossili. Ma nel 1812 George Cuvier utilizzò
proprio l’al- ce irlandese per dimostrare la realtà delle estinzioni. La prima
questione, il valore adattativo di strutture ingombranti, ricevette una
risposta chiara da parte di Darwin: i cambiamenti evo- lutivi riscontrabili in
un organismo sono frutto della selezione natu- rale che premia, attraverso il
successo differenziale delle varianti più favorevoli, gli individui meglio
adattati all’ambiente. Le trasforma- zioni organiche sono (quasi) sempre, e in
modi diversi, utili per la so- pravvivenza dell’organismo. Le corna dell’alce
irlandese devono aver senz'altro offerto all'animale un vantaggio riproduttivo
sostanziale, nella competizione fra maschi per l'accoppiamento o nella scelta
ses- suale stessa da parte delle femmine, tale da mettere in secondo piano la
scomodità di sobbarcarsi un palco di corna così impegnativo. Tuttavia, la
spiegazione non convinse l’intera comunità scientifi- ca e nei primi
cinquant'anni dalla pubblicazione dell’Origire delle specie si organizzò una
forte opposizione antidarwiniana che sul te- ma specifico del ruolo dell’adattamento
aderì a una teoria della ge- nesi degli organi del tutto differente: la teoria
dell’ortogenesi. I pa- leontologi antidarwiniani, nella ricerca di episodi
evolutivi in cui l'adattamento non potesse essere considerato il principio
causale de- terminante, ipotizzarono che l’evoluzione procedesse in linea
retta, lungo direzioni prestabilite quasi indipendenti dall’influenza della
selezione. Questi sentieri obbligati dei processi di sviluppo e di tra-
sformazione, in taluni casi, potevano anche condurre irreversibil- mente
all’estinzione della specie: le tigri dai denti a sciabola si sa- rebbero
soffocate e infilzate da sole; le alci irlandesi perché immo- bilizzate fra i
rami da corna ingovernabili. 144 Queste ricostruzioni ortogenetiche non
durarono a lungo e furo- no smentite dalla «teoria dell’allometria» elaborata
da Julian Huxley negli anni Trenta. Secondo Huxley, e secondo la biologia
animale at- tuale, l’aumento delle dimensioni degli organi di un animale
procede secondo tassi di crescita differenziali interrelati, comunque adattati-
vi. Il punto però rimane un altro: l’utilità adattativa portò primaria- mente
all'aumento delle dimensioni del corpo (e per relazione allo- metrica
secondaria di quelle delle corna) 0, viceversa, l'aumento del- le dimensioni
delle corna precedette quelle corporee? Alcuni moderni studi sul comportamento
sociale delle alci irlan- desi hanno rivelato che, come per molte altre specie,
le strutture ma- schili considerate di solito come armi da battaglia o
ornamenti per am- mansire le femmine erano usate invece per i combattimenti
ritualiz- zati fra maschi. Erano simboli di potere e di forza che, fissando
pre- ventivamente una gerarchia nel gruppo, rendevano superflue le bat- taglie
fisiche fra i più forti. Questa manifestazione di predominio rap- presenta un
valore adattativo molto preciso in termini di selezione ses- suale. Le corna
ramificate erano in un certo senso lo «status symbol» di questi cervi, un
ottimo espediente per accrescere il proprio succes- so riproduttivo attirando
il maggior numero possibile di femmine. La vicenda dell’alce irlandese assume
nuovi connotati: non si estinse a causa delle grandi corna, ma nonostante le
grandi corna. La fine della glaciazione comportò una serie di rapidi mutamenti
cli- matici, dannosi per la sua sopravvivenza: solo allora le corna, così utili
in precedenza, divennero un impaccio a causa del cambiamen- to delle
circostanze ambientali. L’attenzione si è spostata da un asse esplicativo
adattamento-disadattamento (che accosta il concetto di estinzione a quello di
«inadeguatezza» adattativa) a una considera- zione storica su cambiamenti
contingenti delle regole ambientali di sopravvivenza. In realtà, dietro
ricostruzioni evolutive come questa si annida un preconcetto a proposito della
«perfezione» naturale. La perfe- zione adattativa di un organo o di un animale
misurata in relazione al contesto ecologico non solo è un concetto facilmente
adottabile da un creazionista, ma è un’argomentazione classica a favore dell’e-
sistenza di un sommo «progettista» nella natura (arguzzent from de- sign):
secondo la teologia naturale proposta nel 1802 dall’arcidiaco- no William
Paley, nella natura sarebbe stato inscritto un disegno su- premo di ingegneria
naturale; è del tutto prevedibile che gli organi- smi siano perfettamente
«equipaggiati» e ben inseriti nell'ambiente 145 insieme al quale sono stati
creati. Darwin comprese la centralità di questo concetto forte del creazionismo
(rimanendone in un primo tempo anche affascinato) e concentrò il suo impegno
teorico sui par- ticolari curiosi e su quelle strutture evolutesi da forme
ancestrali dif- ferenti, come nel caso delle orchidee. Egli intuì, in un certo
senso, che il nocciolo della controversia fra evoluzionismo e fissismo si do-
vesse giocare sulle «stranezze» della natura, e non sui percorsi evo- lutivi
standard (Ruse, 2003). Oggi sappiamo che i fenomeni adattativi si presentano
come stra- tegie complesse e non-banali di sopravvivenza differenziale. Una
pri- ma acquisizione in questo senso, intorno alla metà degli anni Ses- santa,
è venuta dalle ricerche dell’ecologo teorico Robert H. Mac Arthur e di Edward
O. Wilson, in cui furono illustrate le cosiddette «strategie vitali». Si scoprì
allora che gli organismi si adattano al con- testo ecologico non solo
modificando le proprie dimensioni e forme, ma anche regolando la durata delle
diverse fasi della vita e differen- ziando l’apporto di energia alle diverse
attività nel corso del tempo. Oggi sappiamo che l’adattamento contempla una
molteplicità di so- luzioni egualmente plausibili. Eppure la scomoda questione
della perfezione organica non può essere aggirata con il solo argomento della
diversificazione. L’esi- stenza di organi molto complicati e tuttavia così
«perfetti», come l'occhio dei vertebrati, angustiò a lungo lo stesso Darwin.
Com'era possibile che ingranaggi così sofisticati e delicati potessero essere
stati costruiti, passo dopo passo, dalla selezione naturale? Il proble- ma è
opposto al precedente, e complementare. Là Darwin doveva giustificare forme di
vita e comportamenti «bizzarri» apparente- mente incomprensibili in un’ottica
funzionale, risolvendo la diffi- coltà attraverso l’ipotesi di una
proliferazione di strategie adattative vitali. Qui si trattava di spiegare
l’origine selettiva di forme organi- che il cui senso adattativo è fin troppo
evidente, talvolta addirittura sorprendente per ingegnosità. 2. La teoria del
«pre-adattamento» L'adattamento è in costante evoluzione ed è il risultato
dell’azione incessante della selezione naturale che agisce sulle mutazioni
geneti- che individuali. Eppure, l’idea di adattamento si è rivelata ingom-
brante per le teorie evoluzionistiche. Essa richiese l’onere della pro- va fin
dall’inizio perché in un’ottica creazionista l’adattamento era 146 inteso come
il giusto accomodamento di ogni organismo agli equili- bri inscritti da sempre
nel creato. In un’ottica evoluzionistica l’adat- tamento doveva essere invece
spiegato come qualcosa di non immu- tabile, come una trasformazione incessante
delle forme naturali. Come spiegare dunque l’evoluzione di organi così
elaborati e per- fetti come un occhio, un’ala d'uccello o come i mimetismi
stupefa- centi di molte specie animali? L'evoluzione sapeva fin dall’inizio di
voler costruire quella particolare struttura, come se nel processo evolutivo vi
fossero in azione cause finali dirette a un costante pro- gresso e
miglioramento, oppure deve essere successo qualcosa di di- verso? Nel sesto
capitolo dell’edizione del 1872 dell’Origize delle specie, intitolato Difficoltà
della teoria, Darwin inserisce un intero paragrafo sugli «organi di estrema
perfezione e complessità», nel quale ammette apertamente il problema. Nella
visione darwiniana l’adattamento procede alla costruzione dell’organo
attraverso una lunga serie di trasformazioni continue e molti stadi intermedi
di evoluzione. Tuttavia, la difficoltà di un ra- gionamento selezionista sta
proprio nel giustificare il valore adatta- tivo delle gradazioni di strutture
intermedie. Fra gradualismo e fun- zionalismo si apre una contraddizione
esplicativa: come tenerli in- sieme? Le prime critiche alla teoria darwiniana
centrate su tale dif- ficoltà nello spiegare le strutture incipienti erano
venute da Edwin D. Cope, nel 1887, e da George Mivart, nel 1871. A cosa può
servi- re un abbozzo di occhio, si chiesero polemicamente Cope e Mivart? Il
risultato finale del processo ha un chiaro significato per la soprav- vivenza,
ma un embrione di occhio non può servire per vedere. Il 5 per cento di un’ala
non basta per volare. Secondo Mivart, il «problema del 5 per cento di un’ala»
era un falso problema, perché il 5 per cento di un’ala semplicemente non è mai
esistito: le modificazioni in una specie si manifestano repentina- mente, tutte
in una volta, a causa di una forza interna e seguendo pia- ni strutturali
prefissati. Ma Darwin non poteva in alcun modo ac- cettare una simile
spiegazione «saltazionista», che negava l’efficacia della selezione naturale di
tipo gradualista. La risposta a questa dif- ficoltà venne allora dall’ipotesi
del pre-adattamento, che introdusse un’idea di grande rilievo nella teoria
dell’evoluzione. Un abbozzo di occhio non serve per vedere, notò Darwin: non
può mai esistere un dispiegamento teleologico dell’organismo verso la
costruzione di una forma la cui utilità sia solo nel futuro. L'evoluzione non
si oc- cupa mai di futuro, ma di vantaggi e di svantaggi nel presente. Ciò 147
che conta è che vi sia una continuità nel successo riproduttivo diffe-
renziale, cioè nell’azione della selezione naturale, e non tanto una continuità
nella funzione assunta dal singolo organo. Gli stadi inci- pienti di una
struttura devono aver recato un vantaggio riproduttivo ai loro possessori,
vantaggio che poi è stato «convertito» in un be- neficio differente al mutare
delle condizioni. Se le funzioni cambiano, significa allora che nell'evoluzione
non è bene che vi sia una stabile corrispondenza «uno a uno» fra una struttura
e una funzione. Gli organi possono funzionare in più mo- di, possiedono cioè
una «capacità intrinseca» ridondante. Una sin- gola funzione potrà essere
assolta da più organi, di modo che, all’oc- correnza, uno di questi possa
essere «cooptato» per nuovi utilizzi senza che la salute complessiva
dell’organismo ne risenta (primo principio di ridondanza). Viceversa, un singolo
organo potrà esple- tare più funzioni, alcune delle quali operative, altre
soltanto poten- ziali, pronte per essere «reclutate» all’occasione (secondo
principio di ridondanza). Nell’evoluzione vi saranno allora, di norma, funzioni
«primarie» (pre-adattamenti) disgiunte dalle funzioni derivate attuali (adatta-
menti). Ammettiamo dunque che vi sia un cambiamento funzionale nell’ambito di
una continuità strutturale. Parti dell'organismo sele- zionate per una certa
funzione ancestrale (per esempio gli ossicini necessari nei pesci al sostegno
dell’arco branchiale) vengono «ria- dattate» a funzioni nuove (per esempio
andando a sostenere la ma- scella e consentendo la masticazione). La funzione
può variare anche radicalmente, senza che la forma dell’organo cambi
considerevolmente. La pinna dotata di un resi- stente asse centrale, sviluppata
da alcuni pesci di fondale d’acqua dolce, era un ottimo pre-adattamento per il
movimento sulla terra- ferma. Il passaggio può non essere una soglia brusca: si
può ipotiz- zare che la funzione ancestrale continui a essere soddisfatta anche
quando la nuova funzione sta subentrando e prevalendo. Mentre la struttura
primordiale assolve degnamente al compito per cui è stata selezionata
originariamente, una pressione adattativa concomitante ma eterogenea preme per
un’evoluzione della tecnologia dell’orga- no in un’altra direzione. Se non si
fosse ammesso questo, intuì Darwin, sarebbero rimaste soltanto due strade:
negare che gli stadi intermedi avessero una qual- siasi funzione primaria (e
quindi che fossero stati fissati per selezio- ne); oppure postulare una
creazione improvvisa della forma perfet- 148 ta finale. Due posizioni
egualmente inaccettabili dal suo punto di vi- sta. Così Darwin, per salvare il
gradualismo, fu costretto ad offrire all'evoluzione una notevole flessibilità
funzionale. Il problema della perfezione naturale divenne allora quello di
spie- gare come fosse possibile passare per selezione naturale da strutture
incipienti, non adattabili a una certa funzione, all’organo completo, perfetto,
che si vede alla conclusione del processo. Il mutamento fun- zionale nella
continuità strutturale suggerisce di non considerare quel 5 per cento di ala
come un’ala provvisoria in senso funzionale. Un 5 per cento di ala è un altro
organo, con una configurazione, un’utilità e una storia incommensurabili
rispetto al suo destino futuro. Le ipo- tesi, poi, sulla funzione originaria
possono divergere: forse serviva per sostenere l’apparato respiratorio (teoria
del passaggio dalla respira- zione al volo di Darwin), o forse (ipotesi
consolidatasi sulla base de- gli studi sull’Archaeopteryx) serviva come organo
termoregolatore, sostenendo l’apparato di penne e piume e accrescendo la
superficie esposta al sole. Alcuni studiosi hanno individuato, attraverso
elabo- razioni grafiche, le «zone di transizione funzionale», fasi cruciali in
cui l'organo passa da uno sviluppo orientato verso una certa funzione (quella
termodinamica) a una crescita orientata verso un’altra fun- zione
(aerodinamica). L'esistenza di una struttura ben funzionante oggi non è quindi
la prova di un adattamento finalizzato a ciò fin dal passato. Un con- cetto
scivoloso di adattamento implica lo sviluppo attivo verso un fi- ne,
determinato in un processo di selezione naturale. Noi affermia- mo abitualmente
che le gambe servono «per» camminare, gli occhi «per» vedere, le orecchie «per»
sentire, ma in quale senso adottiamo la preposizione «per»? Nei modi di
concepire l'evoluzione si instaura un conflitto fra una concezione funzionale
che appiattisce l’idea di adattamento sul pre- sente e una concezione che,
introducendo la trasformazione funzio- nale 277 itinere, accetta la costruzione
storica contingente delle strut- ture presenti. Di questa stretta implicazione
fra il cambiamento fun- zionale non teleologico (ribattezzato quirky functional
shift da Gould, 2002) e il ruolo della contingenza nella storia naturale Darwin
fu pienamente consapevole, del resto. In almeno due sensi fondamen- tali. Gli
organismi si adattano ad ambienti locali in mutamento, cioè a condizioni
ecologiche per definizione contingenti. Inoltre, il cam- biamento funzionale
«bizzarro» separa l’origine storica dall’utilità attuale, aggiungendo un
ulteriore grado di contingenza al processo 149 poiché ciascuna struttura porta
con sé un’ampia gamma di riadatta- menti possibili. 3. Il concetto di
«exaptation» Alle spalle di questa visione «possibilista» di Darwin vi è una
con- cezione della selezione naturale di tipo pluralista, che permette una
molteplicità di strategie evolutive possibili: la selezione naturale è il
filtro che vaglia, di volta in volta, le forme dimostratesi più efficien- ti
nella lotta per la sopravvivenza e favorisce per esse la trasmissione genetica
di generazione in generazione. La selezione naturale, in so- stanza, è un puro
meccanismo materiale che produce effetti (la so- pravvivenza differenziale dei
portatori di mutazioni vantaggiose) e non rappresenta un’intenzione progettuale
inscritta nella natura. In molte teorizzazioni successive, il ruolo della
selezione naturale subì invece un sostanziale indurimento, trasformandosi in
principio pro- gressivo di sviluppo delle strutture organiche: in questo senso
«for- te», l’obiettivo di ogni individuo biologico è la competizione ripro-
duttiva, cioè la lotta per la massima trasmissione possibile dei propri geni
alla discendenza, e la selezione naturale è il risultato diretto di questa
competizione attiva. Ogni genere di attività degli organismi (sia essa di tipo
economico o riproduttivo; o, nella nostra specie, di tipo culturale,
psicologico, sociale...) diviene dunque uno strumen- to per vincere la
competizione genetica. L’adattamento diviene in tal senso la struttura scelta
attivamente dalla selezione naturale per massimizzare la trasmissione genetica,
un espediente per facilitare la diffusione dell’informazione genetica di un
organismo, processo che reca vantaggio all’organismo stesso. Non esiste un
«fine» inscritto nella natura (feleologia), tuttavia le strutture viventi, a
differenza dei corpi inerti studiati dalla fisica, hanno funzioni e scopi
(feleonorzia). Così, la confusione terminolo- gica fra adattamento come
processo (il meccanismo selettivo che fil- tra le varianti migliori per un
contesto) e adattazzento come prodotto (il risultato finale espresso in un
organo o in un comportamento) ge- nerò fraintendimenti. Il termine
«pre-adattamento» non aveva giovato all’intuizione darwiniana: esso mantiene
l’ambivalenza di un approccio teleologi- co all’adattamento, giacché la specie
non ha ovviamente «pre-veg- genza» dell’applicazione futura di un organo che si
chiamerà «oc- chio» o «ala» e la selezione naturale non può essere sensibile in
an- 150 ticipo a benefici che si realizzeranno in futuro. Come abbiamo visto
George C. Williams, nel suo classico Adaptation and Natural Selec- tion del
1966, propose di attribuire il termine adaptation soltanto a quei caratteri
plasmati dalla selezione naturale per la funzione che svolgono effettivamente
oggi, riservando a tutti gli altri casi di con- versione funzionale ir itinere
il termine di effect (effetto). Come ave- va già scritto Darwin nel 1859, le
suture del cranio nei piccoli di mammifero sono utilissime, quasi
indispensabili, al momento del parto, ma chiaramente non sono un adaptation per
il parto poiché suture identiche sono presenti anche nei rettili e negli
uccelli, che non ne hanno alcun bisogno. Nei mammiferi, le suture sono un ca-
rattere che ha un ottimo effetto nel parto, ma che non esistono in «funzione»
del parto. I paleontologi Stephen J. Gould ed Elisabeth Vrba, in un saggio del
1982 dal titolo Exaptation, a Missing Term in the Science of Form, scelsero un
altro termine da attribuire ai caratteri sorti per una ra- gione indipendente
dalla loro utilità attuale. Essi circoscrissero l’in- sieme generale dei
caratteri definibili come aptations, cioè tutte le ca- ratteristiche biologiche
in qualche modo utili (40/5) per il benesse- re degli organismi, identificando
due sottoinsiemi: il sottoinsieme dei caratteri plasmati dalla selezione per la
funzione che ricoprono attualmente (adaptations); e il sottoinsieme dei
caratteri formatisi per una determinata ragione, o anche per nessuna ragione
funzionale specifica, e poi resisi disponibili alla selezione per il
reclutamento at- tuale. L'ipotesi fu cioè quella di non considerare come
ad-aptations (utili per, «ad», la funzione attuale) tutti i casi in cui vi
fosse un cam- biamento sostanziale di funzione a parità di struttura: si parlò
dun- que di ex-aptations in tutti i casi in cui vi fosse una cooptazione, in vi-
sta di nuove funzioni, di strutture impiegate in passato per funzioni di- verse
o per nessuna funzione. Il secondo sottoinsieme divenne dun- que quello degli
exaptazions (in italiano suonerebbe «exattamenti»), cioè strutture resesi utili
(40/42/05) in conseguenza della loro strut- tura o forma (ex). Detto secondo la
terminologia di Williams, gli adaptations assolvono a «funzioni», gli
exaptations producono «ef- fetti». Qualora la funzione originaria non sia nota
o comunque non si conoscano i cambiamenti funzionali subiti da un carattere, la
pro- posta fu quella di mantenere il termine generale aptations. Da ciò si
evince chiaramente che il concetto di exaptation non è sostitutivo dell’idea di
adattamento. Gli exaptations stanno alla base della teo- 151 ria dell’evoluzione,
fin dalla sua prima formulazione, come una sot- tocategoria di tutti i
caratteri che contribuiscono alla sopravvivenza. Alcuni di questi sono
modellamenti diretti della selezione naturale, altri sono cooptazioni
funzionali. La tassonomia dei caratteri evolutivi diventa: Processo Carattere
Uso La selezione naturale modella il carattere Adaptation Funzione per un uso
attuale: adattamento Un carattere, precedentemente modellato Exaptation Effetto
dalla selezione naturale per una particolare funzione (un adattamento), è
cooptato per un nuovo uso: cooptazione Un carattere, la cui origine non può
essere Exaptation Effetto ascritta all’azione diretta della selezione naturale
(un non-adattamento), è cooptato per un uso attuale: cooptazione Fonte: Gould,
2002, trad. it., p. 1539. Con questa nuova cornice teorica si opera una
scissione fra la for- ma e la funzione di un organo: la funzione non precede
sempre la forma, determinandola; le funzioni possono variare a parità di for-
ma e di struttura. In tal modo, l'evoluzione non appare più come il regno della
necessità e di un’ottimalità adattativa, ma come il risul- tato di adattamenti
secondari e sub-ottimali, di bricolage impreve- dibili. L'impiego adattativo
attuale (più o meno soddisfacente) di una struttura non implica che questa sia
stata costruita gradualmen- te e selettivamente per quell’impiego: l’uzilità
attuale e V’origine sto- rica di un carattere devono essere distinte, una tesi
che Gould fa ri- salire addirittura a Friedrich Nietzsche (Gould, 2002, trad.
it., pp. 1516-21). L’airone nero africano utilizza le ali (a loro volta un
exap- tation) per creare in acqua un cono d’ombra nel quale attira i pesci: non
un adattamento diretto dunque, ma un doppio effetto collate- rale (Gould, Vrba,
1982). Di certo, le ali non servono «per» fare om- bra nell'acqua, ma un loro
effetto secondario utile può anche essere quello. Se l'organo cooptato svolgerà
una funzione diversa da quella per cui è stato selezionato, potremo in molti
casi definirlo un carattere 152 «sub-ottimale», evidenziando in
talmodol’intuizione darwiniana cir- ca l’importanza della parziale imperfezione
in natura: l’impiego at- tuale, più o meno soddisfacente, di una struttura non
implica che que- sta sia stata costruita gradualmente e selettivamente per
quell’impie- go. L’evoluzionismo teleonomico del programma neodarwiniano è lo
sfondo critico di questa proposta teorica: non possiamo sostenere che esista
una sola forza, in senso funzionale, di «trazione» del processo evolutivo. Non
esiste una direzione univoca del processo, determina- ta dall’avvicinamento
progressivo a un’ottimalità funzionale. La nozione di exaptation ha tre radici
teoriche principali, risalenti alle ricerche della prima metà degli anni
Settanta: una radice filoso- fica, ovvero il debito di Gould per la tradizione
strutturalista in bio- logia; una radice sperimentale connessa, ovvero la
presenza di omo- logie strutturali nelle discendenze filogenetiche, oggi
attribuite ai vincoli dello sviluppo determinati dall’azione dei geni
regolatori (non a caso, lo strutturalismo biologico e la cladistica sono
accomu- nati da una preferenza per le spiegazioni di tipo filogenetico); e una
radice «politica», ovvero il rifiuto delle interpretazioni sociobiologi- che,
fortemente funzionaliste, della natura umana e dei comporta- menti individuali
e collettivi. Questa «archeologia dell’exaptazion» ci permette di introdurre
alcuni temi chiave della filosofia della biolo- gia fin qui trascurati. 4.
L'evoluzione come trasformazione del possibile La nozione di exaptation
suggerisce che anche i comportamenti sia- no valutabili come «epifenomeni
cooptati» rispetto alla funzione adattativa attuale. La definizione di
exaptation riportata nel para- grafo precedente reca con sé almeno tre
conseguenze epistemologi- che. La prima è una conferma della «grande
asimmetria» che regna nella storia dell'evoluzione. E infatti evidente,
dall'idea di exaptation, che la selezione naturale opera efficacemente laddove
si tratti di di- struggere o comunque far regredire le varianti sfavorevoli
(gli orga- nismi poco adatti), mentre è molto meno efficiente quando si tratta
di plasmare o di costruire dal nulla le strutture utili alla sopravviven- za. E
reciso illegame fra l’idea di «successo» in natura e l’idea di «pro- getto» in
natura. In secondo luogo, l’exaptation mostra che è arduo ricostruire una
sequenza graduale di piccoli passi impercettibili, dal «nulla adattati- vo» al
soddisfacimento ottimale della funzione. L'evoluzione non è 153 in genere
riconducibile alla fissazione selettiva di singole parti auto- nome ottimali in
vista della realizzazione di un disegno complessivo: il tracciato accidentato
dell'evoluzione è percorso da sistemi di svi- luppo integrati e gerarchicamente
interconnessi, non da automi «adattativi» (morfologici e comportamentali)
programmati per un perfezionamento progressivo. Infine, quella di exaptation è
una teoria che integra e arricchisce la teoria originaria successivamente
irrigiditasi nel programma fun- zionalista della Sintesi Moderna. Getta una
nuova luce sulla possi- bilità di riabilitare una biologia
morfologico-strutturale che reinter- preti l'evoluzione come un’interazione
complessa e integrata di for- ze interne (regole strutturali, vincoli genetici)
e forze esterne (nicchie ecologiche, cambiamenti di regole ambientali). Se,
infatti, non pren- diamo alla lettera le tesi ortogenetiste sull’inflessibilità
delle tenden- ze evolutive privilegiate, l'accento posto sull’esistenza di
direzioni dello sviluppo offre uno spunto interessante per fissare una prima
accezione del concetto di exaptation, che consiste nell’intreccio fra caratteri
portati dai canali di sviluppo, in particolare i canali del pro- cesso di
accrescimento dell'individuo o «canali ontogenetici», e ca- ratteri determinati
dalla normale selezione naturale. Lo studio dell’ontogenesi ha condotto Gould
all’idea che esista- no direzioni vincolate dello sviluppo individuale. Queste
non sono naturalmente «vie a senso unico», cioè tendenze intrinseche di ma-
trice genetica non influenzabili da alcun processo selettivo come nel- la
teoria ortogenetica antidarwiniana, ma forti tendenze nella dire- zione della
variazione disponibile al mutamento evolutivo. Si tratta in sostanza di
costrizioni (corstraints) che limitano il campo di azio- ne della selezione e
tuttavia non riducono la creatività dell’evoluzio- ne. Adottando una metafora
di Francis Galton, gli organismi, anzi- ché palle da biliardo, sono poliedri
che possono muoversi solo spo- standosi da una faccia verso un’altra adiacente.
Per evolversi hanno bisogno di una spinta dalla selezione naturale, ma sono le
possibilità interne (date dalla «forma» del poliedro) a fissare la direzione
del mutamento possibile. Fenomeni biologici come l’allometria, la simmetria
bilaterale, l'assenza di strutture motorie circolari, lo stile cognitivo
animale di decisione sì-no fondato su stimoli evocatori semplici, la
predilezio- ne per arti superiori con cinque dita dimostrano l’incidenza di
canali primari dello sviluppo «architettonico» individuale: canali che poi si
mescolano e si integrano con le variazioni indotte dalla particolare 154 storia
della specie e dell’individuo. Le vie ontogenetiche sono l’ere- dità
ancestrale, le tracce della storia profonda che si mescolano e si ibridano con
le tracce di storie «locali». La selezione, in sostanza, non ha i poteri di un
ingegnere, ma quelli di un bricoleur che opera con le parti di cui dispone,
generando da poche strutture originarie una grande varietà di forme. Questi
limiti al potere del «lento scrutinio» della selezione natu- rale si traducono
in opportunità di cambiamento inedite quando in- teragiscono con l’ambiente. I
«vincoli» e i «limiti» non hanno neces- sariamente un’accezione negativa.
L'evoluzione appare piuttosto co- me un’interazione complessa e inestricabile
di forze interne di cana- lizzazione dell’ontogenesi e forze esterne di
rimodellamento funzio- nale. I vincoli sono dunque co-generatori di
adattatività, sono il con- tributo interno che gli organismi offrono al loro
futuro evolutivo. Come hanno dimostrato molti studi su specie animali adattate
ad ambienti e climi identici che pure mostrano caratteri morfologici so-
stanzialmente eterogenei, non sempre una classe di stimoli ambien- tali
uniformi produce soluzioni morfologiche identiche, quindi o la conoscenza del
rapporto organismo-ambiente è così superficiale da non aver ancora individuato
la differenza fra un «sistema di svilup- po» e l’altro, e se è così non resta
che attendere la scoperta dell’adat- tamento ottimale che non si era individuato
(come lo stesso Gould tentò di fare nella sua tesi di dottorato insieme a David
Woodruff, conclusa nel 1969), oppure la fonte del mutamento creativo degli ot-
ganismi non è solo la selezione naturale. Se in un contesto ecologico possono
trovarsi ben adattate molte anatomie possibili di una stessa forma animale,
forse l’incidenza di fattori congeniti (ereditari, strut- turali, o anche solo
dovuti a vincoli fisici) non è irrilevante. Nell’ittiosauro, «pesce-lucertola»
ancestrale ora estinto, troviamo una mescolanza originale di elementi indotti
dal suo adeguamento a un’ecologia marina (per cui si registra una serie di
«convergenze evo- lutive», cioè lo sviluppo di caratteri simili a partire da
strutture iniziali diverse, con i pesci) e caratteri ereditati dalla sua
diretta discendenza dalla famiglia dei rettili. Anche se nel 1836 l’anatomista
William Buckland, proseguendo gli studi pionieristici di Richard Owen sugli
ittiosauri in una prospettiva funzionalista, invocò la precisa conver- genza
fra ittiosauro e pesce come prova della bontà di Dio, vi è chia- ramente una
coevoluzione di caratteri «analogici» (determinati da fattori esterni) e
caratteri «omologici» (determinati da strutture in- terne ereditate).
Genealogia e funzionalità interagiscono nel formare 155 un organismo peculiare
che nella sua «storicità» rappresenta la coim- plicazione fra la «freccia del
tempo» (modificazioni cumulative, irre- versibili, di tipo funzionale) e il
«ciclo del tempo» (il continuo ritor- no di vincoli omologici sedimentati),
cioè fra analogie e omologie. Il braccio di un uomo e il braccio di una scimmia
sono omologhi: si tratta di una somiglianza relativa a una parentela
genealogica. Le ali di un uccello, di un pipistrello e di uno pterodattilo sono
analo- ghe: sono soluzioni convergenti per la funzione organica di aerodi-
namicità. Le omologie riguardano la tassonomia, le analogie concer- nono la
morfologia funzionale. Il punto è che nell’analisi della con- figurazione
organica di qualsiasi essere vivente non è mai possibile riferirsi solo all’una
o all’altra: c'è sempre una interazione, una coe- voluzione di omologie e
analogie. E proprio la persistenza di simila- rità strutturali (persistenza di
tipo) a dimostrare che la selezione na- turale non è onnipotente e che gli adattamenti
complessi devono fa- re i conti con questo materiale di base. I selezionisti
ribattono però che la persistenza di tipo può essere ricondotta in molti casi
all’azio- ne della selezione stabilizzante, che impedisce il cambiamento. E be-
ne però notare che questa idea dell’adattamento come soluzione di compromesso
fra spinte selettive e vincoli strutturali rappresenta il compimento dei
tentativi darwiniani di sottrarsi alla trappola degli argomenti creazionisti
del «buon disegno» e si pone agli antipodi di qualsiasi interpretazione
dell'evoluzione fondata sul principio dell’inzelligent design. 5. Utilità
attuale e origine storica Una seconda gamma di exaptations si differenzia dalla
prima nella considerazione del primo dei due poli, quello ereditario o interno.
Non sempre, infatti, la funzione ancestrale è un tributo dato dall’or- ganismo
all’eredità ontogenetica. Può anche essere che la funzione primaria sia stata a
sua volta selezionata per un’utilità passata, del tutto indifferente
all’utilità attuale. Con questa lettura del meccani- smo exattativo rientriamo
nel caso specifico del pre-adattamento darwiniano: un riorientamento funzionale
della struttura organica. Una componente accidentale interviene quindi non solo
nel for- nire la mutazione favorevole iniziale (la «materia prima»), ma anche
nel permettere il passaggio da una «pre-funzionalità» soddisfacente della
struttura (l’origine storica) a una funzione adattativa che è in-
commensurabile alla sua antecedente (l’utilità attuale). Nel caso del 156
comportamento delle quaglie studiate dall’etologo Patrick Bateson, per esempio,
una preferenza estetica ancestrale le porta a evitare rap- porti incestuosi
svantaggiosi sul piano selettivo. Le pre-funzioni che, a posteriori, potevano
risultare utili per quell’adattamento specifico erano naturalmente infinite.
Ogni carattere complesso racchiude in sé un ampio margine di potenzialità
funzionale, una gamma estesa di utilizzazioni possibili. Appurata la «buona
sorte» iniziale, l'evoluzione si incanala poi in una traiettoria fra tutte le
possibili. In tal modo essa rivela un’ulte- riore dualità: appare sempre come
l’intreccio fra una «bizzarria» (in un senso tecnico e non solo evocativo, cioè
il perdurare di una fun- zione passata, ereditaria o selettiva a sua volta, nel
presente) e un ag- giustamento «ragionevole» (l’adattamento per selezione
successivo). A volte l’ambiguità fra utilità attuale e origine storica è tale
da con- sentire autentiche inversioni della causalità naturale: si scambia
l’ef- fetto dell'emergenza di una struttura con la causa della sua compar- sa.
E il caso della aplodiploidia, un particolare sistema di determi- nazione del
sesso di alcuni insetti, per cui uova non fecondate dan- no maschi e uova
fecondate danno femmine. L’aplodiploidia è cau- sa dell’organizzazione sociale
delle specie che la praticano e non ef- fetto delle (o adattamento alle)
organizzazioni sociali medesime. Un esempio interessante di bricolage
adattativo innescato da un cambiamento di regole comportamentali è il «pollice
del panda», un dito opponibile del tutto atipico per mammiferi carnivori
specializ- zati nella corsa come orsi e procioni, con i quali il panda è
imparen- tato. Come riportano le monografie sui panda giganti (la principale è
dell’anatomista Delbert Dwight Davis, del Field Museum of Na- tural History di
Chicago, 1964), il cosiddetto «pollice» non è in realtà un dito ma una
deformazione adattativa di un osso del polso, il sesamoide radiale, sviluppata
per facilitare al panda la manipola- zione dei bambù di cui si ciba per gran
parte della giornata. Questo sesto dito aggiuntivo è una parte anatomica
completa (con muscoli e cuscinetti) sviluppatasi a seguito di una rivoluzione
alimentare su- bentrata nella vita di un ex carnivoro. L’ipertrofia del
sesamoide ra- diale deve essersi fissata quando il panda, abbandonando le
vecchie abitudini, cominciò a cibarsi esclusivamente di bambù e fu spinto a
monopolizzare il suo tempo in funzione dell’alimentazione (il con- tenuto
energetico del bambù, molto più basso di quello della carne, obbliga l’animale
ad assumerne in quantità massiccia e in continua- zione). 157 La soluzione
adattativa del panda è illuminante per due motivi. In primo luogo perché
dimostra che di fronte a necessità nuove l’or- ganismo non inizia a plasmare
gradualmente nuove strutture, ma uti- lizza al meglio ciò che già possiede. Un
polso ingrandito fino a for- mare una specie di pollice è una bizzarria
ingegnosa ed efficace, de- gna del miglior bricoleur naturale, per affrontare
un’emergenza vita- le. Se non fosse un termine con una connotazione negativa,
si po- trebbe dire che si tratta di un ottimo esempio di «opportunismo»
evolutivo. In secondo luogo, si è notato che anche l’osso corrispondente del
piede del panda, il sesamoide della tibia, si è ingrandito senza tutta- via
essere utilizzato dall’animale. Ciò mostra che la chiave della com- prensione
di queste trasformazioni sta in mutazioni genetiche al li- vello del
coordinamento della crescita delle varie parti dell’organi- smo: l’animale è
una rete intrecciata di correlazioni genetiche di svi- luppo (cioè di
correlazioni ontogenetiche). Come notò il biologo Mi- chael Ghiselin, la
scoperta della straordinaria ingegnosità della na- tura nel riciclare i
materiali organici disponibili risale proprio a Darwin, che nel suo studio
analitico sulle orchidee del 1862 elencò un’incredibile varietà di espedienti
elaborati da questi vegetali per attirare su di sé gli insetti e garantire le
fecondazioni incrociate. Si- mili strategie di riciclaggio valgono in Darwin
anche per i compor- tamenti umani e per la modulazione dell’espressione delle
emozioni dai primati all'uomo (Darwin, 1872). Anche ciò che accadde durante e
dopo l’estinzione in massa K-T è il racconto dell’exaptazion storico forse più
affascinante. Le carat- teristiche di nicchia dei mammiferi si rovesciarono in
vantaggi adat- tativi straordinari. Le proprietà dei dinosauri, autentici
dominatori del pianeta, si trasformarono al contrario in trappole mortali. Uno
sconvolgimento delle regole ambientali rovesciò i rapporti di «forza
adattativa» fra mammiferi e dinosauri. In un pianeta reso probabil- mente
freddo e oscurato dall'impatto di un asteroide, il piccolo ro- ditore peloso e
a sangue caldo sopravvisse come in una notte parti- colarmente lunga: l’alba seguente
sarà l’inizio di una delle più spet- tacolari radiazioni adattative della
storia naturale. Possiamo consi- derare questo rovesciamento adattativo
contingente come un mo- dello questa volta ecologico di exaptatton. Le
modificazioni ambien- tali improvvise, innescando periodi di estinzione di
massa e di suc- cessiva radiazione adattativa, cioè immensi turzover pulses
(impulsi di avvicendamento) di specie, rappresentano dunque episodi «exat- 158
tativi» su larga scala: essi generano exaptations potenziali trasversal- mente
a specie e popolazioni (ciò che per una specie era un adatta- mento può
diventare un exaptation fortunato, o viceversa un peri- coloso
dis-adattamento). Inoltre, in virtù delle «correlazioni di crescita», come
furono de- finite già da Darwin, un cambiamento in senso adattativo può pro-
pagare conseguenze non adattative in altre parti dell’organismo. Il segno
contingente della storia può dunque essere rappresentato dall’effetto del
cambiamento evolutivo strutturale, che può estendere la propria influenza fino
a innescare effetti del tutto indipendenti dalla funzione adattativa iniziale.
Uno degli enigmi adattativi che più mise in difficoltà Darwin fu la spiegazione
evolutiva del cannibali- smo sessuale. Perché mai le femmine di vedova nera o
di mantide religiosa dovrebbero cibarsi del maschio dopo l'accoppiamento?
Mentre per altre conformazioni insolite (gli ornamenti del pavone) l'ipotesi
della selezione sessuale riusciva a compensare le insuffi- cienze della
selezione naturale (giacché non possono avere valore adattativo diretto
strutture ingombranti e obiettivamente svantag- giose), nel caso del
cannibalismo sessuale anche la selezione sessua- le vacillava. A dispetto delle
teorie convenzionali sul vantaggio riproduttivo del cannibalismo, si è
probabilmente di fronte a un fenomeno che esula da meccanismi selettivi. Le
femmine potrebbero aver sviluppa- to una rapacità incontrollabile nell’atto
dell’accoppiamento come conseguenza correlata di un qualche altro adattamento
funzionale. Un cambiamento adattativo, per il principio strutturale dello
svilup- po integrato, potrebbe influenzare derivatamente un altro carattere
morfologico o comportamentale, determinando conseguenze del tutto imprevedibili
e sganciate da qualsiasi funzionalità organica. La casistica dei fenomeni di
exaptation è oggi molto estesa (Cod- dington, 1988). Dodici anni dopo la sua
formulazione, l’importanza operativa del concetto di exaptation fu oggetto di
un lungo e impor- tante saggio del biologo teorico E.N. Arnold (1994), i cui
risultati rafforzarono notevolmente la consapevolezza dell’estensione e del
valore empirico del fenomeno. Ad esso seguirono molte ricerche ap- plicative,
che hanno portato negli ultimi dieci anni all’adozione del- la terminologia
proposta da Gould e Vrba in ampi settori delle di- scipline evoluzionistiche.
Secondo Arnold, è possibile in molti casi distinguere lo statuto exattativo o
adattativo di un carattere analiz- zando la sequenza degli eventi evolutivi con
tecniche cladistiche. 159 Non sempre, a dire il vero, l’applicazione del
concetto di exapta- tion ha mantenuto fede alla sua radice strutturalista e
sistemica: più generalmente, e in discipline oggi diversissime, si usa il
termine exap- tation per definire qualsiasi cambiamento funzionale bizzarro,
qual- siasi riutilizzo ingegnoso di caratteri e strutture formatesi per altre
ragioni. Il termine, ormai, non compare soltanto nei dizionari di teo- ria
dell’evoluzione o addirittura di lingua inglese generale, ma è di- ventato di
uso comune in zoologia (valga il caso dei batteri fosfore- scenti usati dal
calamaro Euprymzna scolopes come fonte di luce che si sprigiona dal ventre), in
paleoantropologia, in biologia molecola- re (per un «classico» dell’exaptazion
in campo molecolare si veda la sintesi di Gould sulle scoperte di Piatigorsky e
Wistow sull’evolu- zione delle cristalline delle lenti oculari di vertebrati e
invertebrati, in Gould, 2002, trad. it., pp. 1551-55), in linguistica, nelle
scienze cognitive, in sociologia (per i riferimenti bibliografici nelle diverse
discipline si rimanda a Pievani, 2004). 6. La critica del funzionalismo
biologico Nel caso della seconda e della terza tipologia, tutto sommato, la
con- tinuità dell’azione selettiva è garantita: una funzione, qualunque es- sa
sia, più o meno provvisoria, è sempre insediata per darci una mi- sura
dell’utilità di un organo. Vi è uno spostamento contingente di funzioni, ma pur
sempre di funzioni e di utilità si discute. Limitata- mente a ciascuna
sequenza, vi è sempre una condizione minimale di fitness che giustifica la
presenza di un carattere. Per fitness biologica si intende il grado di
adattamento, cioè la misura (ottenuta in modi diversi e discussi) della
capacità di sopravvivenza e di riproduzione. Che sia un pre-adattamento, una trasformazione
di vincoli struttu- rali, un riutilizzo creativo a seguito di cambiamenti di
regole di so- pravvivenza, il governo della selezione naturale non è mai
sospeso e la struttura è pur sempre adattata o exattata «per» qualcosa. La
prin- cipale critica al concetto di exaptation tende a ridurne in questo mo- do
l’importanza: in fondo, l'adattamento è un processo per stadi, le pressioni
selettive cambiano e non è così importante distinguere l'adattamento originario
da quelli secondari. Una ricostruzione adat- tativa deve spiegare non tanto
l’origine di un tratto, quanto la sua persistenza fino a oggi, e in tal senso
l’exaptation non aggiunge nul- la (Sterelny, Griffiths, 1999, p. 220). Semmai
la distinzione è fra l’es- sere adattativi in senso lato (cioè avere avuto in
qualche fase storica 160 una funzione) e l'essere un adattamento attuale (cioè
avere una fun- zione operativa dovuta a una pressione selettiva presente). Ma
che dire di una struttura, poi cooptata per un’utilità attuale, che
originariamente ron aveva alcuna funzione? Significa forse che la presa della
selezione naturale non controlla l’intera panoplia dei caratteri emergenti? In
effetti, questo è il risvolto più radicale del concetto di exaptation.
Esistono, infatti, per Gould e Vrba, due sot- toinsiemi diversi di fenomeni
exattativi: quelli derivanti da caratteri che originariamente avevano una
funzione adattativa riconoscibile (cooptazioni o cambiamenti funzionali
bizzarri di vario tipo); quelli derivanti da caratteri aventi un’origine r0r adattativa,
cioè che non avevano alcuna funzione precedente. Per «non adattativi» si
possono intendere naturalmente due tipi di caratteri: quelli che recano con sé
svantaggi per l'organismo che li possiede (e non è questo il caso, perché si
presuppone che verranno subito eliminati dalla selezione naturale) e quelli che
non recano né svantaggi né vantaggi, sono cioè «neutri» rispetto alla
selezione, la quale in molti casi potrebbe semplicemente ignorarli e lasciarli
esi- stere finché non si rivelino dannosi o finché non vengano cooptati per
diventare exaptations. Già Darwin aveva notato che molte cor- relazioni di
crescita negli organismi, pur non avendo alcuna utilità specifica, erano
tollerate dalla selezione, che sembrava non vederle proprio. Il significato di
questo tipo di exaptations è più radicale, perché non soltanto l’utilità
attuale non può essere inferita dall’origine sto- rica, ma la stessa origine
storica non può essere attribuita all’azione della selezione naturale. Non è un
caso che le reazioni negative si sia- no concentrate su una duplice strategia:
considerare il primo tipo di exaptation come banale e completamente
riconducibile alla tradizio- ne neodarwinista; bocciare il secondo tipo di
exaptation come inam- missibile (Dennett, 1995). Nella prospettiva
panselezionista tradi- zionale si ritiene infatti che un carattere non
adattativo, per poter so- pravvivere, debba essere o pressoché irrilevante, o
molto marginale nella fisiologia dell'organismo, o comunque agganciato ad altri
ca- ratteri adattativi. La casistica dei fenomeni exattativi di primo e quarto
tipo sembra invece indicare la rilevanza evoluzionistica dei caratteri non
adattati- vi nei sistemi biologici. Ancora una volta, sono considerazioni di
orientamento strutturalista a spingere in questa direzione. Se gli or- ganismi
sono entità integrate, la frequenza di correlazioni e di conse- 161 guenze
collaterali, generatrici di caratteri non adattativi, sarà molto alta: non solo
il bianco delle ossa, il rosso del sangue e le mammelle maschili (Gould, 2002,
trad. it., p. 1572), ma anche gli spazi di riem- pimento nella costruzione
delle chiocciole, la «gobba» dell’alce ir- landese, l’animale da cui siamo
partiti (che ha trasformato l’attacca- tura dei muscoli che sorreggono le
pesanti corna in una concrescen- za colorata, per una funzione connessa alla
selezione sessuale), il cli- toride ipertrofico delle iene maculate (un
carattere non adattativo do- vuto a livelli molto alti di testosterone), e
molti altri esempi. Più la complessità dell’organo aumenterà, più sarà alta la
probabilità di pro- pagare caratteri non adattativi dotati di utilità
potenziale. Ma vi è un’altra ragione per confidare nella diffusione di
caratteri non adattativi in natura, una ragione messa in luce da Gould e Vrba
in un saggio del 1986 e poi ripresa da Gould insieme all’epistemolo- ga
Elisabeth A. Lloyd (Gould, Lloyd, 1999). Se le unità di selezione non sono
soltanto gli organismi singoli, ma si dispongono su una struttura gerarchica,
allora potranno sorgere caratteristiche adattati- ve al livello gerarchico
d’origine, ma non adattative se considerate dal punto di vista degli altri
livelli. Un’innovazione emersa a un li- vello microevolutivo per ragioni
selettive può tradursi in un caratte- re non adattativo a livello di organismi
o di specie, e viceversa. Que- sta logica plurale di evoluzione su più livelli
moltiplica le occasioni di insorgenza di caratteri imprevedibili fra livelli,
detti cross-/evel spandrels (dal termine spandrels, ovvero «pennacchio
architettoni- co», che introdurremo nel prossimo capitolo per indicare
caratteri originariamente non adattativi poi cooptati dall’evoluzione). In
effetti, Gould e Vrba hanno dato due definizioni diverse di exaptation. Nel
lavoro del 1982 essi diedero una prima definizione ristretta di exaptation,
limitandolo ai caratteri che a uno stesso livel- lo della gerarchia evolutiva
fossero stati cooptati da una funzione ori- ginaria a una funzione differente.
Nel 1986 allargarono il campo di exaptation secondo le modalità di reciproca
influenza causale fra i li- velli all’interno del loro modello gerarchico.
Gould, nella sua ultima opera (2002), dà una grande importanza a questo
concetto di exaptation gerarchico, ritenendo la sua acquisi- zione decisiva per
una revisione ed estensione della teoria dell’evo- luzione darwiniana. Per
esempio, la duplicazione di elementi genici, prodotta dalla selezione a livello
microevolutivo, può propagarsi o «iniettarsi» a livello degli organismi. In
linea teorica tutte le muta- zioni genetiche dette comunemente «casuali» lo
sono in quanto 162 «non adattative» rispetto ai livelli gerarchici superiori
(Eble, 1999): le perturbazioni che generano mutazioni genetiche (siano esse ri-
conducibili ai raggi cosmici o all'inquinamento ambientale) sono sempre «exattative»
rispetto ai loro effetti al livello degli organismi. Detto in altri termini,
l’intera letteratura evoluzionistica rubricata sotto il titolo di «caso»
diventerebbe un sottoinsieme dei fenomeni exattativi. Questo per quanto
concerne il passaggio dal livello micro al li- vello intermedio degli
organismi. Ma anche gli exaptazions trasver- sali fra il livello degli
organismi e il livello macroevolutivo delle spe- cie hanno conseguenze di vasta
portata. Essi sarebbero, infatti, il presupposto per fondare e comprendere un
aspetto dell’evoluzione rimasto finora abbastanza inesplorato nella tradizione
neodarwini- sta, cioè l’evolvibilità delle specie, il loro grado di «capacità
evoluti- va». Abbiamo visto che alcuni aspetti (la flessibilità genetica, la
ri- dondanza funzionale, la diversità interna) sembrano favorire una lunga
sopravvivenza delle specie, a differenza di altre caratteristiche che sono
molto utili come adattamenti locali e specializzati a livello di singoli
organismi ma deleterie a livello di specie. Un problema del- la teoria
darwiniana è infatti quello di spiegare il motivo per cui un’accentuata
specializzazione favorisca gli organismi in un dato contesto, ma vada a
discapito delle probabilità di sopravvivenza a lungo termine della specie (al
primo mutare di condizioni ecologi- che, gli specializzati corrono seri rischi
rispetto ai generalisti). La soluzione al problema può venire, secondo Gould,
da una ri- declinazione dei fenomeni exattativi all’interno di una teoria
gerar- chica delle unità selettive. Anche le specie possono avere meccani- smi
di cernita e di vaglio differenziale. Per gli stessi motivi potreb- bero
esistere meccanismi di sopravvivenza differenziale fra interi cla- di: alcuni
sono più resistenti e prolifici, altri meno. Rimane un pro- blema:
l’evolvibilità si misura su caratteristiche potenziali, cioè at- tualizzabili
in futuro, e non su caratteristiche effettive sulle quali pos- sa agire la
selezione. Ma la difficoltà potrebbe essere aggirata pro- prio grazie al
concetto di cross-/evel spandrels: l’evolvibilità potreb- be essere favorita
proprio dalla capacità delle specie di fare tesoro degli exaptations
provenienti dal livello degli organismi, mitigando così i loro pericolosi
eccessi di specializzazione. L’evolvibilità sareb- be cioè direttamente
proporzionale alla riserva exattativa disponibi- le o «pool exattativo».
L’exaptation sarebbe allora cruciale per la fitness, per l'idoneità 163 delle
specie nella macroevoluzione. La resistenza all’estinzione, per esempio,
potrebbe dipendere proprio dal grado di flessibilità forni- ta dal pool
exattativo. Come le mutazioni genetiche «casuali» sono cross-level spandrels
per gli organismi, allo stesso modo le modifica- zioni degli organismi sono
cross-level spandrels per le specie: quelle che sanno «exattarne» il più
possibile hanno maggiori probabilità di sopravvivere. La base strutturale
dell’evolvibilità sarebbe dunque il pool exattativo, la riserva di utilità
potenziali, il potenziale concesso per futuri episodi di selezione a tutti i
livelli, che Gould nella Srut tura della teoria dell'evoluzione, ridefinisce
secondo lo schema se- guente (modificato da Gould, 2002, p. 1598). Tassonomia
del pool exattativo A. Potenziali inerenti (cioè capacità intrinseche, funzioni
potenziali in- terne alternative a quelle attuali, già presenti in un carattere
ed «exatta- bili»): la categoria che riassume in sé il concetto di
pre-adattamento darwiniano e tutte le modificazioni, conversioni, cooptazioni
di funzioni già presenti in potenza nei caratteri. Nel passaggio da potenziale
ineren- te a exaptation, la selezione naturale non è mai sospesa. B. Cose a
disposizione (cioè caratteri, strutture, materiali biologici già presenti,
senza un utilizzo corrente, non adattativi): la categoria che rias- sume in sé
tutte le tipologie di «pennacchi» non adattativi. La selezione ha un ruolo
nella fissazione dell’exaptazion successivo, ma non nell’origi- ne del
carattere. Questa categoria si suddivide in materiali a disposizione non
adattativi generati come conseguenze strutturali e materiali non adat- tativi
frutto di una sequenza storica. B1. Conseguenze architettoniche (origine
strutturale): pennacchi (spar- drels), a loro volta suddivisi in: pennacchi a
un solo livello gerarchico, generati come effetti collate- rali meccanici,
automatici; pennacchi trasversali (cross-level spandrels), generati mediante
inie- zione da un livello gerarchico ad un altro. B2. Dismissioni o
manomissioni (origine storica): (atavismi, vestigia: caratteri che hanno perso
un'’utilità originale, to- talmente o parzialmente, senza acquisirne una nuova;
adattamenti non più adattativi). B3. Introduzioni invisibili 0 «insinuazioni»
(origine storica): (caratteri neutrali rispetto alla selezione, introdotti a
seguito di derive genetiche o effetti del fondatore). 164 La scelta di questa
tassonomia rispecchia evidentemente la vo- lontà di Gould di dare un peso
sempre maggiore ai caratteri genui- namente non adattativi: ciò rappresenta una
sfida all’esclusività del funzionalismo attraverso la sottolineatura del ruolo
dei vincoli strut- turali e una risposta a critici come Griffiths che avevano
appiattito la nozione di exaptation su quella di pre-adattamento (Griffiths,
1992). Negli ultimi anni l’evidenza empirica sembra giungere in soc- corso di
Gould. In una serie di ricerche sperimentali compiute a par- tire dalla fine
degli anni Ottanta, si va profilando un nuovo indiriz- zo di studio che
potrebbe confermare anche su un versante quanti- tativo l’esistenza di una
polifunzionalità ridondante alla base di pro- cessi evolutivi per exaptation.
In un articolo del 1987 i genetisti Wiljam Hendriks, Jack Leunissen, Eviatar
Nevo, Hans Bloemendal e Wilfried W. de Jong hanno mostrato come i modelli
casuali di mi- surazione genetica dei ritmi di sviluppo, ispirati a una
versione mo- derata della teoria neutralistica possono essere efficaci per lo
studio del cambiamento funzionale. Il caso riguarda gli occhi completamente
ciechi di una particola- re talpa nordamericana, lo Spalax ebrenbergi, che
ancora si formano al di sotto di uno spesso strato di pelle e di pelo. Abbiamo
di fronte un caso di exaptation potenziale. Per la situazione evolutiva presen-
te i casi sono tre: 1) gli occhi della talpa sono definitivamente fuori uso e
in via di graduale riassorbimento; 2) servono ancora a qualco- sa (hanno cioè
una nuova funzione per exaptation), ma ancora non abbiamo scoperto in che modo;
3) sono momentaneamente inutiliz- zati, ma stabilizzati dall’ontogenesi «in
attesa» di possibili riconver- sioni future. Il principio neutralista attesta
che la velocità di sostituzione del- le proteine è inversamente proporzionale
alla funzionalità selettiva e permette di dare una risposta credibile al
quesito su quale delle tre ipotesi evolutive sia quella esatta: nel primo caso
il ritmo di sostitu- zione neutrale rispetto alla selezione sarebbe massimo;
nel secondo caso sarebbe minimo; nel terzo caso avrebbe valori intermedi.
L’operazione è riuscita grazie alla definizione della sequenza del ge- ne che
codifica la proteina del rudimentale cristallino che ancora si forma
nell’occhio dello Spalax. L'esito è stato che il ritmo di sostitu- zione è
molto alto (circa il quadruplo rispetto al valore tipico per oc- chi
funzionanti, quindi l’ipotesi seconda è scartata), però non suffi- cientemente alto
da indicare una neutralità pura. Lo Spalax usa an- cora i suoi occhi quel tanto
che basta per abbassare di un 20 per cen- 165 to il ritmo di sostituzione
neutrale del cristallino. Esiste dunque una pressione selettiva residuale o
derivata, che abbassa il ritmo del mu- tamento casuale. I modelli di
derivazione neutralistica sono in grado quindi di fis- sare una norma
sperimentale di misurazione indiretta della funzio- nalità organica. Le ipotesi
funzionali sul cristallino dello Spalax si so- no concentrate pertanto sul
possibile utilizzo degli occhi ancestrali come organi di ricezione mediata
della luce (attraverso la produzio- ne di melatonina dalla retina), da cui
l’animale dedurrebbe la tem- peratura esterna e adatterebbe la sua fisiologia
al clima (attivando la crescita del pelo e altre trasformazioni stagionali).
Nevo e colleghi alla metà degli anni Ottanta avevano già speri- mentato che lo
Spa/ax è sensibile alla luce ambientale diffusa, ma non alla temperatura
circostante. Il cristallino sarebbe una struttura deri- vata, senza finalità
adattative, che l’animale ricostruisce ancora du- rante l’embriogenesi per
obbedienza al piano ancestrale di struttura- zione dell’occhio. Avrebbe in
altri termini una funzionalità potenzia- le nel percorso di sviluppo che
conduce alla formazione correlata del- la retina, enon un’utilità diretta.
Probabilmente senza la costruzione di una vescicola del cristallino non sarebbe
possibile neppure la for- mazione della retina: da qui l'abbassamento, seppur
modesto, del rit- mo di sostituzione neutrale nei geni di codifica delle
proteine del cri- stallino. Si sta delineando, in buona sostanza, la
possibilità sperimen- tale di una valutazione quantitativa della trasformazione
funzionale. 7. Bricolage evolutivi I fenomeni exattativi sembrano essere
particolarmente diffusi a li- vello molecolare. La scoperta di un elevato grado
di ridondanza fun- zionale (l’uso multiplo di molti prodotti genetici) e di
ridondanza strutturale (duplicazioni geniche e ripetizioni) offre l’opportunità
di applicare la categoria dell’exaptazion (Gould, 2002, trad. it., p. 1550).
Qui infatti i due principi di ridondanza darwiniani assumono oggi un’importanza
cruciale: un singolo gene può espletare diverse fun- zioni; una stessa funzione
è nella gran parte dei casi espletata da pool genici estremamente complessi e
articolati. Le possibilità di shz/£ funzionali sono dunque molto alte. Il
modello della riserva exattati- va può essere esteso, secondo Gould, ai tre
livelli gerarchici delle unità evolutive. 1) Bricolage macroevolutivo. In
alcune fasi critiche della storia na- 166 turale (i cosiddetti «spartiacque»
evolutivi, le grandi soglie di di- scontinuità), generalmente caratterizzabili
da un’alternanza estrema fra una fase di diversificazione esplosiva delle forme
viventi e una fa- se di restrizione non selettiva dei piani anatomici
risultanti, la diffe- renziazione delle strutture funzionali potrebbe avvenire
per «reclu- tamento» di caratteri disponibili nel corredo genetico, fino al
rag- giungimento di un culmine di disparità anatomica. Si verifichereb- be, in
altri termini, un bricolage macroevolutivo di diversificazione dei piani
anatomici fondamentali, a partire da un potenziale geneti- co reso più «libero»
nelle fasi di radiazione adattativa. 2) Bricolage mesoevolutivo. La
trasformazione funzionale in con- tinuità di struttura rappresenta una forma di
bricolage evolutivo a li- vello di selezione darwiniana normale fra singoli
organismi all’inter- no di una specie. Ecco come presenta questa idea dell’evoluzione-
bricolage il medico e fisiologo parigino Frangois Jacob, in una con- ferenza
del 1977 a Berkeley: Spesso senza progetti a lungo termine, il bricoleur dà ai
suoi materia- li funzioni non previste per la produzione di un nuovo oggetto.
Da una vecchia ruota di bicicletta costruisce una carrucola, da una seggiola
rotta ottiene la scatola per la radio. Allo stesso modo, l'evoluzione
costruisce un’ala da una zampa, o un pezzo di orecchio con un frammento di ma-
scella (Jacob, 1978, p. 18). Un esempio molto interessante di bricolage, nello
stesso passo, è riferito a una ricerca che già nel 1964 Ernst Mayr aveva
ultimato a proposito dell’origine dei polmoni nei vertebrati terrestri. 3)
Bricolage microevolutivo. Come ebbe a suggerire lo stesso Ja- cob nel 1977,
anche a livello genetico si può assistere a una forma ge- neralizzata di
bricolage evolutivo. Il funzionamento del genoma, nel- la sua integrazione
gerarchica e autoregolativa (la cui scoperta regalò aJacob, insieme a Jacques
Monod, il premio Nobel per la medicina e la fisiologia nel 1965), è
paragonabile in qualche modo all’utilizzo in chiave combinatoria di una serie
non illimitata di varianti possi- bili. Naturalmente l’evoluzione necessita di
una costante produzio- ne di varietà e di una molteplicità di componenti
genetiche disponi- bili. Non è detto, tuttavia, che la diversificazione di base
debba crearsi di volta in volta come novità (cioè come una trasformazione
chimica che conduca a sequenze nucleotidiche inedite): molto più spesso si
tratta di «variazioni su temi noti». 167 Anchea livello di sequenze
nucleotidiche di organismi moderni si registrano due «disobbedienze» alla
genealogia e alla discendenza ereditaria: forti somiglianze in animali
diversissimi fra le sequenze di proteine che svolgono la stessa funzione e,
viceversa, somiglianze fo- calizzate fra proteine con funzioni diverse. Ciò
sembra essere più in accordo con una concezione della trasformazione genetica
in cui le strutture molecolari non si presentano ex zovo, ma per alterazione e
ricombinazione delle strutture preesistenti. In particolare, converge su questa
interpretazione l’ipotesi neutralistica di Susumu Ohno, se- condo cui la
derivazione di nuove sequenze può avvenire per dupli- cazione libera e
ricombinazione neutra di geni che a un certo punto della loro replicazione
possono presentare strutture proteiche modi- ficate «visibili» alla selezione e
in quanto tali rinforzate. Si trattereb- be anche in questo caso di un
exaptation a partire da elementi non adattativi di livello inferiore
(cross-level spandrels), perché la duplica- zione e l'amplificazione di
elementi genetici per selezione genica (ipo- tesi del Dna autocentrico)
forniscono materiale genico ridondante che rende più flessibili gli organismi.
Ciò che abbiamo spregiativa- mente definito «Dna spazzatura» (juzk Dra)
potrebbe essere in realtà Dna ridondante, momentaneamente inutile e neutrale
rispetto alla se- lezione, ma anche preziosa riserva potenziale per
l’evolvibilità futura. Secondo le suggestioni teoriche di Jacob, l'ottimizzazione
fun- zionale si rivela come un autentico paradosso, una pretesa esplicati- va
senza riscontri effettivi. Interni a una prospettiva di specializza- zione
focalizzata non riusciremmo a spiegare l’insorgenza della «no- vità» biologica:
sfuggirebbe, in altri termini, la possibilità di rico- struire il processo di
emergenza di una struttura fra le molte possi- bili. Affidandosi, viceversa, a
una teoria della sub-ottimalità evoluti- va possiamo afferrare il «significato
evoluzionistico della creatività», per cui dalla bizzarria e dalla molteplicità
funzionale si delinea una sorta di principio evolutivo di ridondanza. Tra
perfezione del dise- gno organico e creazione di novità sussisterebbe dunque
una pro- porzione inversa. La «lusinga» dell’ottimalità rischia di mascherare
il carattere di «stallo evolutivo» rappresentato dalla configurazione perfetta
di un organo: «Un mondo adattato in modo ottimale alle condizioni ambientali
del presente è un mondo senza storia» (Gould, 1985, p. 43). Il bricolage a
tutti i livelli mostra insomma che in numerose occasioni la novità emerge dalle
conseguenze acciden- tali, e spesso non adattative, di strutture evolutesi per
altri motivi. Se l’ortogenesi, cimentandosi con il problema dell’evoluzione 168
convergente, sfocia in ipotesi interniste antidarwiniane come quelle avanzate
da Arthur Koestler, in polemica con la visione di Jacques Monod dell’evoluzione
per «caso e necessità», si corre il rischio di commettere un errore di
prospettiva. È interessante notare che en- trambe le radicalizzazioni, quella
esternalista (panselezionismo) e quella internalista (ortogenesi), conducono a
una riduzione della di- versità naturale, fino a sottovalutarne
sistematicamente l’esistenza nei dati empirici. Possiamo allora ipotizzare che
l’exaptation, inteso come una sorta di eterogenesi della funzione biologica,
sia una tradu- zione del principio della massima varietà possibile in natura.
L’uni- cità dei percorsi funzionali, data da quello che Gould chiama «il
principio della utilizzazione delle parti disponibili», produce una tendenza
intrinseca alla massima diversificazione dei cammini evo- lutivi. Le
correlazioni sistemiche costituiscono al contempo i limiti e la flessibilità
potenziale su cui poggiano le dinamiche di trasformazio- ne funzionale. Il tema
della varietà irriducibile della vita è bilancia- to e intrecciato al tema
dell’unità e della modularità delle forme ri- petute, suggerito da D’Arcy
Thompson nei termini, oggi datati, del- le forme fisiche fondamentali inscritte
nella natura (come le struttu- re ad alveare, le onduloidi, le molteplici
combinazioni superfici/vo- lumi, i moduli a bolla). L’idea di exaptation ci
riporta a considerare il sistema di sviluppo come una totalità integrata di
elementi «inter- penetrati», per tornare alla definizione della DST. La domanda
iniziale dell’evoluzionismo neodarwiniano — «a che cosa serve?» — si è ora
trasformata in: «come funziona?». Si è cioè passati da un’interrogazione sulla
finalità adattativa della parte esa- minata (con successiva estrapolazione
funzionalista al passato) a un’interrogazione sulla struttura integrata e sulla
rete di correlazio- ni gerarchiche in cui si è sviluppata la singola parte. Nei
termini clas- sici della tipologia causale aristotelica, vi è una prevalenza delle
«cause efficienti» che contribuiscono alla costruzione dei caratteri, i quali
potranno poi avere (o non avere) una causa di tipo funzionale. Quest'ultima
sarà una conseguenza derivata della costruzione, non la sua ragione
costitutiva. Sul piano epistemologico, l’avversario allora più diretto di
questa prospettiva resta il panselezionismo, l'erede intellettuale del «miglio-
re dei mondi possibili» leibniziano, oggetto del sarcasmo di Voltaire nel
Cardide.Il mondo naturale così sembra, per Gould, l’universo del dottor
Pangloss, in cui utilità attuale e origine storica sono costante- 169 mente
collegati. Tutto va per il meglio, perché ogni struttura presen- te è frutto di
un sapiente e onnipervasivo processo di adattamento «in vista» della funzione
attuale. Ogni individuo ha un posto «giusto» e appropriato nella natura.
L’ambizione della corrente morfologico-strutturale è sempre sta- ta quella di
svelare questo pregiudizio funzionalista e di smaschera- re le speranze
esplicative indotte dagli «occhiali del dottor Pangloss» di Voltaire. La
versione più accreditata di «panglossismo» contem- poraneo, come la definisce
Gould, ha avuto un’ampia divulgazione e suscitato un vivace dibattito negli
ultimi vent'anni. È rappresenta- ta dalla sociobiologia di Wilson ed è una
forma di funzionalismo classico, espresso con chiarezza programmatica e
applicato alle ma- nifestazioni della cultura umana e alle abitudini della
specie Horo sapiens. Alla base vi è l'ambizione di dare una spiegazione
generale, su basi rigorosamente neodarwiniane, del comportamento umano. Wilson
traspose i principi esplicativi validi per la selezione di carat- teri
morfologici a una teoria universale della cultura e delle diffe- renze
culturali. Ne risultò un anacronismo curioso: mentre la ricerca più avanza- ta
in genetica e biologia animale apriva varchi inaspettati nel pro- gramma
neodarwinista della Sintesi Moderna, Wilson proponeva una «nuova sintesi»,
questa volta estesa all’etologia umana e all’evo- luzione culturale,
riprendendo i principi panselezionisti. All’insegna di un’adesione al paradigma
metodologico delle scienze hard, i so- ciobiologi immaginarono un «nuovo mondo»
darwiniano per il comportamento umano, un mondo in cui la lotta per il successo
ri- produttivo individuale fosse il criterio di fissazione naturale dei co-
dici comportamentali. Tuttavia, in molti casi la critica veemente alla
sociobiologia è stata motivata dall’idea che la teoria dell’evoluzione non
avesse nulla da dire a proposito dei comportamenti umani. Co- sì, l’utilizzo da
parte della sociobiologia di una visione panselezioni- sta dell'evoluzione ha
creato una contrapposizione sterile fra scien- ze evoluzionistiche e scienze
sociali, impedendo di riconoscere che per la comprensione del comportamento
degli esseri umani, pur sempre esseri viventi evoluti come tutti gli altri,
anche la biologia evolutiva poteva dire qualcosa di significativo. La
sociobiologia si è poi fusa con le prime versioni di geretica comportamentale,
allargando ulteriormente il divario. Si è parlato di una «coevoluzione
genetico-culturale», come di un intreccio di re- troazioni fra programma
genetico ed evoluzione culturale, da cui sa- 170 rebbero derivati la nostra
mente, gli aspetti più importanti del com- portamento umano (atomizzato in
unità di base dette «culturgeni») e le differenze fra le varie culture umane.
Ma gli esseri umani non so- no animali facilmente trattabili in laboratorio e
le ipotesi di genetica comportamentale hanno subito prestato il fianco a
letture riduzio- niste ispirate all’idea di Dawkins di un rezzote control del
comporta- mento umano da parte dei geni. A parere di altri evoluzionisti,
dietro la discussione attorno a for- me di riduzionismo neodarwinista si celano
due fraintendimenti di fondo. Il primo riguarda la concezione abituale dei
vincoli genetici sull’evoluzione degli organismi e delle specie. Non è
problematico che si parli, come molti sociobiologi fanno, di «universali
genetici» in grado di determinare la sintesi di certi «culturgeni» in una
catena di estrapolazioni adattative. Dare una spiegazione selettiva non im-
plica di per sé aderire al determinismo genetico, ovvero all’idea che gli
schemi di comportamento fissati nell’evoluzione siano insensibi- li alle
esperienze di vita del singolo. Sono due piani di discorso di- versi: il primo
legato alla filogenesi, il secondo all’ontogenesi e ai meccanismi di sviluppo
dei tratti. Adattamento e stabilità nello svi- luppo sono due fenomeni non
sempre sovrapponibili: una malattia genetica ereditaria può essere molto
stabile nello sviluppo, al limite anche indifferente ai fattori ambientali, pur
non essendo un adatta- mento. È discutibile piuttosto che si ritenga
l'informazione genetica, nella sua «universalità», necessitante e che si
concepiscano vincoli biologico-molecolari come determinazioni inevitabili dei
comporta- menti intesi solo come «istinti». Molti scienziati pensano oggi che i
vincoli genetici siano potenzialità per il cambiamento evolutivo, e non norme
imperative. Nessuno più di Lewontin ha stigmatizzato questa associazione fra
eredità genetica e inevitabilità, descrivendo i vincoli molecolari come aree
potenziali di sviluppo e rifiutando ogni tentazione di ve- dere nei geni la
prova della necessità e immodificabilità dell’ordine sociale precostituito. Se
i ruoli sessuali, per esempio, hanno una fun- zione adattativa codificata nei
geni, qualsiasi proposta riformatrice rischia di diventare un atto «contro
natura». Insieme a Steven Rose e Louis Kamin, ha individuato nel funzionalismo
selezionista un’i- deologia influente della scienza occidentale che da
estrapolazioni ri- duzioniste deriva e giustifica esigenze di politica
culturale conserva- trice. Diversamente, l’acquisizione principale della DST,
abbiamo visto, è che biologia e cultura costituiscono un'entità interrelata,
in- 171 scindibile. In questo modo, la nozione di exaptation permette di aprire
uno spiraglio sul più ampio confronto fra funzionalismo e strutturalismo in
filosofia della biologia. COSA LEGGERE... La nozione di exaptation
venne introdotta da S.J. GOULD e E. VRBA in un famoso saggio del 1982:
«Exaptation, a Missing Term in the Science of Form», in Paleobiology, VIII, 1,
pp. 4-15 successivamente rivisto e ag- giornato in «The Hierarchical Expansion
of Sorting and Selection: Sort- ing and Selection Cannot be Equated», in
Paleobiology, XII, 1986, 2, pp. 217-28; e in S.J. GOULD, E.A. LLOYD,
«Individuality and Adaptation across Levels of Selection», in Proceedings of
the National Academy of Sciences of the United States of America, XCVI, 1999,
pp. 11.904-909. Il capitolo undicesimo della Struttura della teoria
dell'evoluzione di S.J. GOULD, Codice Edizioni, Torino 2003 (ed. or. 2002)
ripercorre, vent’an- ni dopo, l'origine, gli sviluppi e le prospettive
dell’idea. Per un ap- profondimento dell’argomento si rimanda a T. PIEVANI,
«Exaptation, la biologia dell’imprevedibile», in P. BARBETTA, M. CAPARARO, T.
PIEVANI, Sotto il velo della normalità, Meltemi, Roma 2004. La ricostruzione di
Darwin dell’evoluzione delle emozioni negli ani- mali e nella specie umana in
termini di «ri-adattamento» è in: L’espres- sione delle emozioni nell'uomo e
negli animali, Bollati Boringhieri, Tori- no 1982 (ed. or. 1872). Un’eccellente
esposizione del dibattito sull'esistenza di un progetto e di una finalità in
natura, dall’argurzent from design di Paley all’intelligent design dei
creazionisti di oggi, è in MICHAEL RUSE, Darwin and Design. Does Evolution Have a Purpose?, Harvard University
Press, Cambridge (Mass.) 2003. Una discussione non
specialistica e brillante dei temi del pluralismo evolutivo, con numerosi saggi
dedicati all’exaptation, è rintracciabile nel- le dieci raccolte di saggi di
storia naturale che GOULD scriveva mensil- mente per la rivista americana Natural
History: Questa idea della vita, Editori Riuniti, Roma 1984 (ed. or. 1977); I
pollice del panda, Editori Riuniti, Roma 1983 (ed. or. 1980); Quando i cavalli
avevano le dita, Fel- trinelli, Milano 1984 (ed. or. 1983); I/ sorriso del
fenicottero, Feltrinelli, Milano 1987 (ed. or. 1985); Bravo Brontosauro,
Feltrinelli, Milano 1992 e Risplendi grande lucciola, Feltrinelli, Milano 1994
(ed. or. unico vol. 1991); Otto piccoli porcellini, Bompiani, Milano 1994;
Dirosaur in a Hay- stack, Harmony Books, New York 1995; I fossili di Leonardo e
il pony di 172 Sofia, Il Saggiatore, Milano 2004 (ed. or. 1998); The Lying
Stones of Mar- rakech, Harmony Books, New York 2000; I Have Landed, Harmony
Books, New York 2002. Si veda inoltre la raccolta dei suoi saggi apparsi sulla
New York Review of Books: Un riccio nella tempesta, Feltrinelli, Mi- lano 1991
(ed. or. 1987). Molti casi di exapzation sono stati individuati grazie a
tecniche cladi- stiche da J. CODDINGTON: «Cladistic Tests of Adaptational
hypotheses», in Cladistics, IV, 1988, 1, pp. 3-22. Il saggio più completo sulle
evidenze sperimentali di fenomeni exattativi è: EN. ARNOLD, «Investigating the Origins of Performance
Advantage: Adaptation, Exaptation and Linear Effects», in Phylogenetics and
Ecology, The Linnean Society of London, London 1994. La valutazione
quantitativa della trasformazione funziona- le nella talpa Spalax ebrenbergi è
in: W. HENDRIKS, J. LEUNISSEN, E. NEVO, H. BLOEMENDAL, W.W. DE JONG, «The Lens
Protein alfa-A-crystallin of the Blind Mole Rat Spalax ehrenbergi: Evolutionary
Change and Func- tional Constraints», in Proceedings of the National Academy of
Sciences of the United States of America, LKXXIV, 1987, pp. 5320-24. Sulla
casualità in biologia come non-adattatività: G.T. EBLE, «On the Dual Nature of
Chance in Evolutionary Biology and Paleobiology», in Paleobiology, XXV, 1999,
pp. 75-87. Tentativi di ridimensionamento del concetto di exaptatior si trovano
nei testi di GEORGE C. WILLIAMS e di JOHN MAYNARD SMITH, in P.E. GRIFFITHS,
«Adaptive Explanation and the Concept of a Vestige», in P.E. GRIFFITHS (a cura
di), Trees of Life: Essays in the Philosophy of Biology, Kluwer, Dordrecht 1992
e in K. STERELNY, P.E. GRIFFITHS, Sex and Death: An Introduction to Philosophy
of Biology, The University of Chi- cago Press, Chicago 1999. Si
punta più decisamente a una confutazione nell'opera di DAWKINS e in DANIEL
DENNETT, L'idea pericolosa di Darwin. L'evoluzione e i significati della vita,
Bollati Boringhieri, Torino 1997 (ed. or. 1995). Una messa in discussione
serrata del funzionalismo selezionista, da un punto di vista strutturalista, è
invece quella di ROBERT WESSON in Beyond Natural Selection, MIT Press,
Cambridge (Mass.) 1991. Dobbiamo la suggestiva idea di bricolage evolutivo al
grande geneti- sta francese FRANGOIS JACOB: La logica del vivente, Einaudi,
Torino, 1971 (ed. or. 1970); Evoluzione e bricolage, Einaudi, Torino 1978; I/
gioco dei possibili, Mondadori, Milano 1983 (ed. or. 1981); I/ topo, la mosca e
l’uo- mo, Bollati Boringhieri, Torino 1998 (ed. or. 1997). Capitolo sesto La
selezione e i suoi limiti: funzionalismo e strutturalismo, progresso e
contingenza I problemi connessi al concetto di adattamento coinvolgono dunque
il nocciolo teorico più profondo della filosofia della biologia. Che cos'è una
funzione? Come distinguiamo quali aspetti di un organi- smo sono un adattamento
e quali sono elementi di struttura? Cosa intendiamo quando diciamo che la
selezione naturale ha favorito un certo carattere «per» svolgere una
determinata funzione? Qui il ruo- lo dell’evoluzionismo diventa cruciale.
Mentre i biologi evolutivi de- vono raccontare una storia per spiegare
l'emergenza di un tratto fun- zionale, gli anatomisti e i fisiologi si limitano
a fare un’analisi fun- zionale dell’utilità corrente di una struttura organica,
in quanto «componente di fitness» attuale. Il concetto di exaptation mostra che
queste due accezioni di funzione non necessariamente coincidono: una funzione
storicamente importante può non essere più la causa dell’utilità attuale di una
funzione (causa! role function). Una funzione biologica può essere spiegata
attraverso le sue ori- gini evolutive: si dirà che la funzione di un tratto è
data dagli effetti positivi in virtù dei quali esso è stato selezionato (teoria
eziologica), indipendentemente dal fatto che questi effetti siano attivi ancora
0g- gio no. Si tratta di un approccio tipicamente neodarwiniano centra- to sul
ruolo della selezione naturale come generatrice di tratti fun- zionali alla
sopravvivenza e alla riproduzione. Ben pochi biologi so- no propensi a ledere
questa teoria, uscendo così dal solco darwinia- no: si tratta di
un’acquisizione condivisa da tutte le correnti di pen- siero significative
della filosofia della biologia attuale. In una prospettiva genocentrica la
definizione eziologica viene però leggermente ristretta: la funzione di un
tratto coincide con gli effetti adattativi operanti che aumentano la
«propensione» di un or- ganismo a riprodursi e a diffondere quante più copie
possibile dei propri geni (teoria della propensione) (Bigelow, Pargetter,
1987). Se un comportamento e un organo aumentano la propensione ripro- 174
duttiva grazie a certi loro effetti, possiamo definire questi ultimi co- me la
loro «funzione». Qui dunque esuliamo da considerazioni rela- tive alla storia
evolutiva di un tratto adattativo e ci soffermiamo esclusivamente sull’utilità
attuale, evitando le incertezze delle rico- struzioni funzionali a posteriori
che rischiano di trasformarsi in quel- le «storie proprio così» atte a
giustificare il presente (Hauser, 1996). Questo rischio viene definito
«adattazionismo» ed è stato oggetto di una nota polemica in ambito
evoluzionistico consumatasi nei primi anni Ottanta. 1. L'articolo sui pennacchi
di San Marco Nel 1978 Richard Lewontin fu invitato a un convegno della Royal
Society di Londra per sostenere la posizione critica espressa dopo l’uscita del
testo programmatico di Edward O. Wilson sulla socio- biologia nel 1975. AI
genetista di Harvard fu offerto l’intervento conclusivo dell’intera
manifestazione. Lewontin fu tuttavia costret- to a rifiutare l’invito e propose
in sua sostituzione il collega Stephen J. Gould. I due concordarono per il
prestigioso appuntamento lon- dinese un intervento che fece scalpore,
suscitando non poche rea- zioni polemiche nell’establisbment accademico britannico.
In quel- l'occasione iniziò il lungo scambio polemico a distanza fra Gould e
Richard Dawkins, che aveva pubblicato due anni prima I/ gere egotsta. Il
soggetto dell’intervento di Gould e Lewontin, dal titolo The Spandrels of San
Marco and the Panglossian Paradigm: A Critique of the Adaptationist Programme
(1979), giungeva al termine di un lun- go periodo di ricerche volte a mettere
in crisi l’approccio teleono- mico e funzionalista ai processi adattativi.
Gould aveva condotto in quegli anni con David M. Raup, Thomas Schopf e Daniel
Simberloff i primi studi sui modelli stocastici nella filogenesi e alcune
ricerche teoriche sulla tradizione biologica strutturalista dell'Europa conti-
nentale, contrapposta alla tradizione selezionista inglese. Era inoltre
motivato da un impegno critico molto accentuato verso le teorie so-
ciobiologiche allora diffusamente propagandate sulla stampa statu- nitense ed
europea. Il lavoro di Lewontin in genetica, d’altra parte, puntava a delineare
una concezione del processo evolutivo che, sen- za negare la plausibilità e la
frequenza relativa dei fenomeni di adat- tamento, non assegnasse un campo di
validità onnicomprensivo al meccanismo adattativo nella spiegazione del
cambiamento. 175 L'intervento di Gould fu apprezzato dallo stesso John Maynard
Smith come «evento culminante» dell'incontro e fu pronunciato in uno stile a
tratti felicemente divulgativo e a tratti rigorosamente «ac- cademico», tanto
da essere citato dal maggiore agente letterario americano, John Brockman, come
esempio migliore della nuova di- vulgazione scientifica «d’autore» ai confini
delle due culture (Brock- man, 1995). Alcuni anni dopo, fra i molti dibattiti e
le polemiche sul- la rilevanza dei «pennacchi» trascinate per anni (Dennett,
1995; Queller, 1995; Houston, 1997), questo episodio di storia dell’evolu-
zionismo fu addirittura scelto da alcuni storici della scienza e della
letteratura come emblema delle capacità narrative e retoriche degli scienziati,
divenendo una specie di «caso letterario» studiato nei cot- si universitari
(Selzer, a cura di, 1993). Gould in quell’occasione sostenne che il programma
adattazio- nista si manifestava come una forma di fedeltà quasi inconsapevole a
un’abitudine radicata fra gli studiosi dell’evoluzione. Questo par- ticolare
stile interpretativo dei processi naturali era riassumibile in alcune
proposizioni di base: 1) la selezione naturale è il meccanismo pervasivo di
costruzione del progetto organico; 2) l'organismo è «atomizzato» nei suoi
tratti singoli, ciascuno dei quali è poi spiega- to come struttura ottimale
forgiata dalla selezione naturale per la funzione attuale; 3) questa idea di
ottimizzazione part by part si af- fianca a una concezione delle interazioni
fra le parti organiche cen- trata sulla nozione di «compromesso» o di
«equilibrio»: la selezione agisce attraverso un bilanciamento funzionale che
garantisce co- stantemente l’ottimalità dell’organismo intero; 4) fenomeni di
for- mazione di nuove strutture per via di meccanismi non adattativi non sono
negati per principio (non si possono escludere eventi come le derive genetiche
o le correlazioni di crescita allometriche), ma sono ritenuti marginali sul
piano esplicativo; 5) la procedura di ricostru- zione del processo evolutivo si
configura nell’adattazionismo come un «riavvolgimento» temporale a partire
dall’utilità attuale. Questo modo particolare di concepire le cause del
cambiamento corrisponde anche a una modalità di «raccontare le storie naturali»
ritenuto da Gould infalsificabile per principio. Le tecniche argo- mentative
adattazioniste furono così sintetizzate nel 1978: 4) «se un argomento
adattativo fallisce, cercane subito un altro», anziché va- gliare storie
alternative; 5) «se un argomento adattativo fallisce, de- ve per forza
esisterne un altro» (il paradigma legittima la propria esposizione a ipotesi
non verificate); c) «in assenza di un buon argo- 176 mento adattativo al
momento, attribuisci le difficoltà all’imperfetta conoscenza di dove un
organismo vive e di cosa fa»; d) «enfatizza l'utilità immediata ed escludi
altri attributi della forma organica». L’accusa fu dunque quella di voler
operare la scelta di una gam- ma peculiare di «storie plausibili», a partire
dal principio di selezio- ne naturale ottimizzante come esclusiva modalità di
spiegazione, sot- traendosi a una reale verifica dell’ipotesi adattativa
specifica. Ogni tratto utile (aptazzon) esiste proprio perché è utile
(adaptazion). In quello che ritengono lo spirito autentico del pluralismo
darwiniano, cioè il rifiuto di un’omogeneizzazione dei meccanismi evolutivi
sot- to il criterio della selezione del più adatto, i due autori tracciarono
nel 1978 una classificazione di alternative alla spiegazione selezioni- sta
ortodossa. 2. Selezione e vincoli strutturali La classe generale degli episodi
di cambiamento evolutivo ricono- scibili può comprendere al proprio interno,
oltre agli eventi di nor- male adattamento, anche altre cinque tipologie: 1)
trasformazioni il cui meccanismo di consolidamento non regi- stra né un
adattamento né gli effetti della selezione naturale; è il caso delle variazioni
dovute a fattori puramente casuali, come nel caso delle derive genetiche, in
cui si verifica un processo stocastico di cambiamento nelle frequenze geniche;
2) trasformazioni in cui non vi è ré adattamento né selezione na- turale nella
parte in questione: la forma della parte considerata è una conseguenza
correlata agli effetti della selezione naturale su altre parti; è il caso delle
correlazioni di crescita, dell’allometria, dei fe- nomeni di compensazione
evolutiva, delle correlazioni meccaniche di sviluppo; 3) trasformazioni in cui
vi è un disaccoppiamento fra adattamento e selezione; nei due sensi: selezione
senza adattamento, come avviene in presenza di pressioni selettive multiple che
si intrecciano fino al raggiungimento di un grado di stabilità senza
necessariamente la «guida» di adattamenti primari; o adattamento senza
selezione, come nei casi di «plasticità fenotipica»: un cambiamento geografico
o cli- matico induce una trasformazione fenotipica di carattere pretta- mente
adattativo senza che vi sia stata una pressione selettiva di lun- ga durata e
continuativa (l’esempio citato sovente è la modificazio- 177 ne fenotipica
delle spugne e dei coralli per adattarsi ai mutevoli re- gimi di flusso e correnti
delle acque); 4) trasformazioni per adattamento e selezione, senza tuttavia una
base selettiva per le differenze fra i vari tipi di adattamento; organismi
simili possono sviluppare diverse strategie adattative come soluzio- ne alle
medesime sollecitazioni ambientali; si parla in questo caso di «picchi
adattativi multipli»; 5) trasformazioni per adattamento con selezione, in cui
l’adatta- mento è un’utilizzazione secondaria di parti formatesi per ragioni
non selettive: la tipologia specifica indicata tecnicamente con il termine di
exaptation nella sua accezione più radicale. La trattazione di Gould e Lewontin
sulle tipologie di azione del- la selezione naturale non implica dunque una
sottovalutazione del ruolo e della frequenza dei fenomeni adattativi. Le
trasformazioni non primariamente adattative o comunque non dettate dalla causa-
zione lineare della selezione non sono equiparate a fenomeni «non ancora ben
conosciuti» all’interno degli organismi. Gould opta per una forma di
strutturalismo pluralista centrato su un’idea portante: l’opera della selezione
naturale interagisce costantemente, a tutti i li- velli gerarchici, con i
vincoli imposti dalla struttura organica indivi- duale. L'evoluzione scaturisce
da questa interazione fra spinte selet- tive e resistenze strutturali. Come
scrisse lo zoologo austriaco Rupert Riedl nel 1978, questo stile «organicista»
del pensiero biologico si trova in minoranza fra i teorici dell’evoluzione. Ma
non si tratta, in definitiva, di negare l’azio- ne dell'adattamento, bensì di
indebolire la riconduzione unilaterale di ogni schema strutturale, divergente
in qualche tratto rispetto ai si- mili e agli ascendenti, a una funzionalità
adattativa primaria additata automaticamente come causa della divergenza
stessa. I vincoli che giustificano un’interpretazione estensiva dei princi- pi
del cambiamento naturale per Gould e Lewontin sono ricondu- cibili a quattro
categorie principali: a) vincoli filetici residuali: resi- stenze al
cambiamento dovute all’inerzia evolutiva sedimentatasi nel passato (Homo
sapiens ha ancora, per esempio, una qualche resi- stenza ancestrale alla
postura eretta); 5) vincoli filetici di tipo fisico: i limiti fisiologici che
le leggi della fisica impongono al cambiamento degli individui (i molluschi non
volano, gli insetti non sono grandi come elefanti e gli alberi non crescono
fino in cielo - Gould, 1996); c) vincoli filetici dello sviluppo: restrizioni
alle trasformazioni evolu- tive possibili dovute ai «canali di sviluppo»
ontogenetici refrattari al 178 cambiamento e alla manipolazione; d) vincoli
ontogenetici struttura li o «architetturali»: descritti per esempio dal
paleontologo tedesco Adolf Seilacher nel 1970 (che si occupò nello specifico
delle strut- ture corporee divergenti dei molluschi e dei brachiopodi); si
tratta delle restrizioni al campo dei cambiamenti evolutivi potenziali da at-
tribuire alla struttura materiale degli organismi, cioè alla particolare
costruzione e interconnessione dei componenti del piano corporeo fondamentale o
Bauplan. 3. Il principio delle lunette Il paradigma adattazionista viene
definito come una «inversione del- la logica esplicativa»: l’effetto risultante
del processo evolutivo (il «prodotto») viene inteso come causa del processo
stesso. Nell’esor- dio del saggio del 1978 gli autori illustrano questa
inversione logica attraverso un’efficace metafora architettonica. Se la
costruzione della cattedrale di San Marco prevede la sovrap- posizione di una
cupola circolare, divisa in quattro quadranti, su un corpo quadrato la cui
sommità è costituita da quattro archi sui lati, ne- cessariamente si otterranno
ai quattro angoli degli spazi triangolari, af- fusolati verso il basso. Questi
«pennacchi» (spardrels se bidimensio- nali; più precisamente perdentives se
tridimensionali) saranno delimi- tati dagli archi di sostegno e dal bordo
inferiore del quadrante della cu- pola. Ciascun pennacchio contiene un mosaico
perfettamente adatta- to allo spazio disponibile: un evangelista è seduto nella
parte superio- re, affiancato dalle città celesti, mentre al di sotto un uomo
simboleg- giante i fiumi biblici versa acqua da una brocca nello spazio che si
re- stringe fino a chiudersi ai suoi piedi. Il disegno è così armonioso che
siamo tentati di vederlo come il punto iniziale di qualsiasi analisi, come la
causa di tutta l'architettura circostante, notano Gould e Lewontin. Restando
nella metafora, l’argomentazione adattazionista suone- rebbe così: il disegno
attuale è ottimamente adattato allo spazio dei pennacchi, quindi i pennacchi
sono stati concepiti e progettati per garantire la rappresentazione degli
evangelisti e della profusione dell’acqua dai quattro estremi della costruzione
allegorica. Una scansione logica differente riporta invece la causa come
effetto del- la struttura preesistente: le regole architettoniche di
costruzione del- la cattedrale impongono vincoli alla ripartizione dello spazio
all’in- terno dell’edificio; si formano necessariamente spazi interstiziali fra
le componenti maggiori della costruzione; questi spazi vengono ri- 179
utilizzati con ingegno dai mosaicisti che trasformano la regolarità dei quattro
pennacchi in una composizione allegorica; questa regolarità in base quattro, di
tipo exattativo, ricade poi sull’intera struttura perché, per simmetria di
composizione, altri mosaici e altre rappre- sentazioni dovranno essere
organizzate dagli artisti in base quattro; da qui l'impressione che tutto
l’impianto espositivo sia stato studia- to appositamente in questo modo fin
dall’inizio e quindi che i pen- nacchi stiano lì «proprio per» ospitare i
quattro evangelisti. I pen- nacchi sono una conseguenza collaterale di
un’architettura com- plessiva, strutture «non adattative» poi cooptate per
alloggiare ope- re d’arte all'apparenza «perfette per» quegli spazi. In altri
casi (Gould cita, in 2002, trad. it., p. 1569, la chiesa di San Fedele a Mi-
lano), l’exaptation artistico non sembra altrettanto ben riuscito, sve- lando
la sua sub-ottimalità di fondo. L’inversione adattazionista è particolarmente
evidente, secondo i due autori, quando in causa sono spiegazioni
evoluzionistiche di comportamenti umani. Non necessariamente deve esistere un
solo significato adattativo e sostenere che qualcosa nasce come «effetto
secondario» in un contesto già organizzato non implica né una sot- tovalutazione
di principio dell’effetto stesso né una rinuncia alla sua intelligibilità.
Inoltre, l’adattazionismo della sociobiologia non pre- suppone soltanto la
stabilità adattativa di contro a ogni cambiamen- to ambientale, ma anche una
stabilità fenotipica oggi messa in di- scussione da vari studi: secondo la DST,
lo sviluppo dipende da una matrice complessa di risorse e non solo dai geni,
quindi il cambia- mento ambientale e sociale cambia i processi di sviluppo e
può dare origine a fenotipi fisicamente diversi. Ciò vale a maggior ragione se
ci riferiamo ad aspetti comportamentali del fenotipo odierno. In occasione
della stesura del testo collettaneo di Brockman cita- to prima, George C.
Williams, a tutti gli effetti uno dei padri nobili del programma adattazionista,
commentò l'intervento di Gould sul concetto di exaptation con un’obiezione
arguta, di tipo semantico: se un’ala, prima di diventare tale, era un arto e
prima ancora una pin- na e si è poi accidentalmente rivelata utile per fare
tutt'altro, allora essa sarà alternativamente un exapzatzon se riferita al
camminare e al nuotare, un adaptation se riferita al volare. Dipende da quale
fun- zione scegliamo, arbitrariamente. Il ragionamento di Williams si sottrae
ai due argomenti svaluta- tivi dell’exaptation sostenuti da Maynard Smith:
sottovalutazione sperimentale e sottovalutazione della novità. Williams accetta
che gli 180 eventi di exaptation siano la norma in natura. Ritiene tuttavia che
non sia necessario sostituire il termine adaptation: è sufficiente con- cepire
exaptation come il susseguirsi, contingente, di più adatta- menti funzionali.
Il problema semantico sollevato da Williams viene accolto favorevolmente da un
antiadattazionista: possiamo anche definire exaptation un «adattamento
secondario» o «derivato». Il concetto di exaptation non è in contrapposizione
alla teoria della se- lezione naturale, nemmeno nella versione radicale di
exaptation co- me cooptazione di strutture non adattative, un fenomeno che Wil-
liams non contempla nella sua analisi. La differenza è un’altra e con- siste
propriamente in quella «inversione logica» argomentativa, su cui Williams non
si sofferma. Accettare l’idea che possa verificarsi un cambiamento funzionale a
parità di struttura morfologica signi- fica negare (e Williams implicitamente
lo fa) la legittimità di ogni estrapolazione dall’utilità attuale all’origine
evolutiva. E qui sta la critica al programma adattazionista classico. Il
pollice del panda è stato regolarmente fissato dalla selezione na- turale:
possiamo immaginare che i panda con il sesamoide radiale ipertrofico siano
stati per qualche motivo avvantaggiati nella compe- tizione per le risorse, che
a un certo punto quel sesamoide radiale sia diventato la base per un sesto dito
opponibile, che si sia quindi diffu- so a tutta la specie, e così via. Il
meccanismo della sopravvivenza dif- ferenziale in un contesto di lotta per la
sopravvivenza non è affatto messo in discussione. Ma un conto è dire che la
selezione naturale ha prodotto il pollice del panda, un altro è affermare che
il sesamoide ra- diale del panda era lì proprio «per» costruire un pollice
opponibile. Più precisamente, secondo la terminologia proposta da Williams, di-
remo che il sesamoide radiale in sé è «exattativo» rispetto al pollice
opponibile, mentre le modifiche ipertrofiche del sesamoide sono «adattative»
rispetto all’utilità del pollice opponibile. La fase di coop- tazione iniziale
è, infatti, distinta dalla fase di ritenzione successiva at- traverso il
normale funzionamento della selezione naturale. Anche nei casi in cui
l’exaptation sia una cooptazione di struttu- re originatesi per nessuna
funzione, la selezione, benché non agisca nel rendere disponibile tali
strutture di partenza (in quanto «pen- nacchi»), agisce comunque nel fissare l’exapztation.
Il concetto espresso da Williams, semmai, obbliga a un approfondimento della
nozione di adaptation alla luce di un approccio pluralista applicato alle cause
potenziali di trasformazione morfologica e funzionale. Una volta introdotto il
concetto di exaptation e una volta mostrato 181 che non si tratta di una
rimozione della teoria classica, ma di una sua coerente estensione, l’idea di
adattamento biologico può essere ri- definita secondo Lewontin in senso
costruttivista. 4. Coevoluzione: la reciproca costruzione di organismi e
nicchie Nel saggio del 1978, Gould e Lewontin propongono una tripartizio- ne
gerarchica della nozione di adaptation, notando che solo in un ca- so è
pienamente legittimo utilizzare le categorie interpretative dell’adattamento
darwiniano classico. Si distingue allora: 1) un «adap- tation fenotipico», cioè
la manifestazione di una buona adeguazione fra organismo e ambiente circostante
per via della plasticità fenotipi- ca individuale; la morfologia è modificata
durante l’ontogenesi in fun- zione di un migliore adattamento alle circostanze
esterne (per esem- pio l'adattamento dell’uomo e di altri mammiferi alle forti
altitudini): tale manifestazione di adaptation in sé non è ereditabile, lo è
invece la capacità genetica dell’organismo di sviluppare la plasticità
fenotipica da cui deriva; 2) un «adaptation culturale», cioè una forma
ereditabi- le di adattamento non biologico; l’ereditarietà è data naturalmente
dalla possibilità di trasmettere le conoscenze attraverso l’insegna- mento e
l’apprendimento; 3) un «adaptation genotipico», cioè la for- ma convenzionale
di adattamento derivante dall’azione della selezio- ne naturale sulla
variazione genetica potenziale. Molti dei fraintendi- menti sociobiologici
deriverebbero dalla confusione fra adaptation culturale e adaptation
genotipico: solo l'adattamento basato con sicu- rezza sulla variazione genetica
come «materia prima» e sulla selezio- ne come criterio costruttivo può essere
considerato darwiniano. La riconcettualizzazione dell'idea di adattamento
biologico tro- va la sua espressione teorica, pochi anni dopo, in una serie di
saggi di Richard Lewontin. Nel 1978 il genetista di Harvard affronta, in un
saggio intitolato Adaptation (1978, trad. it., 1985), la questione della
necessità di un nuovo approccio a questa categoria del pensie- ro biologico.
L’autore esamina in primo luogo le origini storiche dell’idea di adattamento
darwiniano. In gioco, agli albori della teo- ria evolutiva moderna, era la
connessione logica fra due aspetti ap- parentemente contrastanti della storia
naturale: la diversità irriduci- bile delle forme viventi e l’ottima idoneità
degli organismi all’am- biente circostante. Implicita in questa origine
dell’idea di adatta- mento vi è un’opzione circa il rapporto fra organismi e
ambiente. Il 182 ragionamento adattazionista coinvolge cioè l’idea di
ottizzalità: la na- tura stabilisce una struttura di pressioni selettive, alla
quale gli orga- nismi devono conformarsi, come una chiave alla serratura.
L’analisi adattazionista procederà allora a ritroso: a cosa servono le placche
dorsali dello Stegosaurus, essendo senz'altro la soluzione ottimale a un
problema specifico? Di seguito un elenco di funzioni alternative: «per» difesa,
«per» il corteggiamento, «per» autoregola- zione termica. Esiste in sostanza
uno spazio definito, un paesaggio di funzioni adattative che attraggono gli
organismi sui loro picchi: un'immagine, quella del fitress landscape, coniata
da Sewall Wright e trasversale all’intera storia dell’evoluzionismo grazie alle
opposte interpretazioni di Theodosius Dobzhansky (in chiave adattazionista) e
di Gould (in chiave strutturalista) (Gould, 2002, pp. 1470-71). Il termine
«nicchia» ecologica (r/che) venne introdotto nel 1927 da Charles Elton per
indicare il contesto di vita di una specie all’in- terno di una comunità
organica dotata di una propria struttura, in- dipendente dai membri particolari
che la occupano. La nicchia era definita sulla base della sua trama di funzioni
e di ruoli causali nelle reti alimentari. Siamo nel cuore della Sintesi Moderna
e la nicchia viene intesa come l'insieme delle pressioni selettive che agiscono
pla- smando gli adattamenti degli organismi. In questo scenario adatta-
zionista, l’ambiente pone problemi di sopravvivenza e di relazione con altre
specie e gli organismi vengono selezionati per risolverli al meglio: le
caratteristiche degli organismi sono l'impronta delle ca- ratteristiche degli
ambienti (esterzalismzo). Rincorrendo i cambia- menti ambientali gli organismi
tentano di mantenersi «adeguati» al contesto e massimizzano la diffusione dei
propri geni. Ma i problemi di questo approccio esternalista in cui la spiega-
zione del cambiamento evolutivo procede sempre dall’esterno verso l'interno
sono piuttosto seri (Godfrey-Smith, 1996). Possiamo par- lare di nicchie
astratte o di «nicchie vuote», secondo Lewontin, so- lo prescindendo dalle
caratteristiche degli altri organismi che già vi abitano. Ma questa operazione
è arbitraria: è sempre possibile im- maginare nicchie vuote «relativamente» a
qualche caratteristica bio- logica, basta prendere un parametro reale e
modificarlo in modo ta- le da prefigurare una «nicchia» ancora non occupata. Le
nicchie so- no come volumi immersi in uno spazio multidimensionale astratto,
secondo la definizione di Evelyn Hutchinson del 1965: le nicchie reali
(realized niches) sono una porzione variabile all’interno della nicchia
potenziale astratta di una popolazione (fundarmental niches), 183 le cui
dimensioni sono date dai parametri ecologici pertinenti per la sua
sopravvivenza. Quindi una nicchia non solo non può essere de- finita
indipendentemente dai suoi occupanti, ma è un attributo del- le attività
economiche delle popolazioni stesse (o avatars) in relazio- ne agli ambienti in
cui sono immerse. Il problema della definizione teorica di una nicchia
ecologica vuota, senza riferimenti agli organismi che la potrebbero abitare, ha
segnato per esempio le difficoltà di valutazione delle possibilità di esistenza
di forme di vita non terrestri: come si può «cercare» la vi- ta in un ambiente
dove effettivamente non è possibile considerare fattori ecologici relativi alla
presenza di organismi (che è ciò che si deve per l’appunto verificare)?
L’esobiologia o astrobiologia, cioè la biologia incaricata di indagare l’esistenza
di forme di vita aliene (l’unica disciplina priva al momento dell’oggetto di
studio), incappa in un paradosso: se la nicchia è anche costruita dai suoi
abitanti e gli abitanti sono costruiti dalla nicchia in un rapporto di
cospecifica- zione, come si possono fissare per via ipotetica i parametri per
rile- vare la presenza di organismi viventi su un satellite di Giove parten- do
dai valori e dalle proprietà della vita sulla Terra? Un altro problema riguarda
il fatto che organismi e nicchie sem- brano così compenetrati da rendere
virtualmente impossibile la di- stinzione fra proprietà degli uni e delle
altre: se le nicchie ecologiche possono essere specificate soltanto dagli
organismi che le occupano, l'evoluzione non può più essere descritta come un processo
di adatta- mento perché tutti gli organismi risultano in un certo senso già
adat- tati (Lewontin, 1978, trad. it., p.5). La nicchia diventa l’ambiente eco-
logico-economico e Vambiente selettivo (Brandon, 1990) costruito da una
popolazione volta per volta: non esiste più un arzbiente esterno de- finibile
in modo oggettivo, non esistono più confini reali fra nicchie o fra comunità,
perché ogni nicchia è definibile solo relativamente alle dimensioni peculiari
della popolazione di riferimento (Hutchinson, 1978a e 1978b). Gli organismi,
secondo Odling-Smee, Laland e Feld- man, sono costruttori di nicchie e questa
scoperta richiede sia una teo- ria estesa dell’evoluzione intesa come processo
intrinsecamente co- evolutivo (Durham, 1991), sia una teoria estesa
dell’ecologia. In sostanza, se abbandoniamo le assunzioni adattazioniste del-
l'ecologia teorica (modello problema-soluzione e postulato del mon- do
preesistente), si sgretola la concezione classica di ad-aptation co- me
«corrispondenza», chiave perfettamente adeguata alla serratura ambientale.
L’adattamento è piuttosto un processo «costruttivo». 184 Organismi e nicchie si
fanno e disfano a vicenda: ogni organismo contemporaneamente genera e distrugge
le condizioni della propria esistenza. Gli organismi costruiscono i loro
ambienti tanto quanto gli ambienti trasformano gli organismi. Gli esseri
viventi seleziona- no il loro ambiente, lo manipolano, trasformano le
caratteristiche che sono rilevanti per loro, cambiano i parametri fisici. La
nicchia, in quanto contesto di pertinenza per la vita economica di una popo-
lazione definito sulla base di parametri arbitrariamente scelti, di- venta una
nozione puramente convenzionale relativa alla sopravvi- venza di una
particolare specie. Alcuni biologi, tuttavia, hanno espresso alcune perplessità
a pro- posito di questo esito radicale, che sembra sottovalutare l’esistenza di
architetture funzionali analoghe in comunità ecologiche diverse, e hanno
proposto una definizione di compromesso che accresce la ge- neralità della
nozione di nicchia, senza tornare però alla visione adat- tazionista e
rispettando il metodo di Hutchinson. Prendendo spunto dalla teoria della
macroevoluzione di Elisabeth Vrba, è stato proposto di estrarre le dimensioni
di una nicchia non da una singola specie ma dal clade più ampio a cui
appartiene. La nicchia sarebbe data cioè dai parametri ecologici rilevanti per
un clade e potrebbero esistere nic- chie più o meno «vuote» rispetto a un
clade. Come mostra Tijs Gold- schmidt a proposito della radiazione dei pesci
ciclidi del Lago Vitto- ria, sono le caratteristiche del clade a rendere le
proprietà dell’ecosi- stema pertinenti per la loro evoluzione esplosiva: quindi
ha senso par- lare di nicchia solo se è ritagliata sulle caratteristiche del
clade. In que- sta prospettiva il confronto fra le nicchie potenziali e le
nicchie reali, suggerito da Hutchinson, diventa ancor più utile per comprendere
le dinamiche coevolutive in un ecosistema. Si tratta di una definizione fi-
logenetica e storica di nicchia, in cui si ipotizza che l’ecologia di un cla-
de sia stabile al fine di poter apprezzare le differenze fra le varie stra-
tegie adattative al suo interno nonché le differenze fra cladi diversi. 5.
L'ipotesi della Regina Rossa Una prova a favore dell’interpretazione
costruttivista dell'intreccio evolutivo fra organismi e ambiente proviene da un
dato sperimenta- le che ha fatto molto discutere i paleontologi: il valore
costante del- la probabilità media di estinzione di una specie biologica. La
possi- bilità che una specie si estingua, è stato notato, non sembra dipen-
dere né dalla collocazione geografica, né dall’età della specie, né da 185
altri fattori legati al tempo e alla storia della specie stessa. Il tasso di
«estinguibilità» deriva spesso dalle caratteristiche del gruppo a cui la specie
appartiene e non è inversamente proporzionale all’età del- la specie. Una
spiegazione di questo dato interessante è stata fornita, nella seconda metà
degli anni Settanta, dal biologo evolutivo dell’Univer- sità di Chicago Leigh
Van Valen, che coniò la cosiddetta «ipotesi della Regina Rossa» (dal nome di un
personaggio di Lewis Carroll che, nella favola intitolata Attraverso lo
specchio, è costretto a corre- re all’infinito e sempre più velocemente per
poter restare allo stesso posto). Il suggerimento di Van Valen è semplice: la
selezione natu- rale non determina un accumulo di «esperienza adattativa»
positiva perché gli ambienti cambiano senza una direzione prevedibile e co- sì
velocemente da obbligare gli organismi a una «rincorsa adattati- va»
potenzialmente infinita. Come la Regina Rossa, la selezione tra- sforma
incessantemente gli organismi per «tenerli al passo» con l'evoluzione
ambientale. Se ci riesce abbiamo una situazione di «adattamento», che è quindi
a maggior ragione una precondizione di esistenza e non un obiettivo, se non ci
riesce il «differenziale» fra velocità evolutiva ambientale e velocità
evolutiva individuale cresce al punto di determinare l’estinzione della specie.
Per essere più pre- cisi, la prima eventualità non è mai soddisfatta del tutto.
Gli organi- smi, secondo Van Valen, «sono sempre un po’ disadattati», un po’
arretrati rispetto alla nicchia ambientale, e quindi mai in una situa- zione di
fitress ottimale. L’ipotesi della Regina Rossa conferma che l’opera della
selezione è prevalentemente e sostanzialmente un’azione stabilizzatrice: essa
mantiene lo status quo evolutivo più che introdurre forme innovati- ve.
Ribadisce inoltre che non vi è una corrispondenza semplice fra estinzione e
inadeguatezza organica: la «rincorsa adattativa», so- spinta dalla selezione
naturale, anche nei casi migliori non garanti- sce da cambiamenti ambientali
irreparabilmente incompatibili con le esigenze degli individui di una specie.
L'ipotesi conferma, poi, che il rapporto fra possibilità di sviluppo
(inversamente proporzionali al tasso di «estinguibilità») e variabilità
potenziale è decisivo. In que- sto passaggio concettuale l’intuizione
darwiniana sulla ricchezza ine- stimabile della diversità biologica è pienamente
confermata: il com- bustibile per la «rincorsa adattativa» sta nella
disponibilità di varia- zione genetica. Quanto più è ampia l’area di
variabilità genetica po- 186 tenziale, tanto più alte sono le possibilità di
proseguire nel cammino evolutivo. Ma in un'ottica costruttivista emergono
alcuni punti controversi della teoria di Van Valen: 4) essa convalida un
approccio fortemen- te gradualista all'evoluzione accoppiata di
organismi-ambiente; 2) favorisce un’interpretazione «esternalista» del processo
evolutivo, con gli organismi in affannosa ricerca del minor disadattamento pos-
sibile e in competizione perenne; c) non spiega completamente le ra- diazioni
seguite a episodi di estinzioni di massa: in queste occasioni l'impostazione di
Van Valen andrebbe rovesciata perché si ha una vastissima nicchia ecologica
«indulgente» e tanti organismi che scel- gono altrettante strategie adattative
più che soddisfacenti (le specie sono qui «in vantaggio», nella metafora della
Regina Rossa, rispetto all'ambiente). In generale, come ha notato Niles
Eldredge, ciò che sembra man- care in queste ricostruzioni neodarwiniste del
processo evolutivo, centrate esclusivamente su popolazioni e geni, è la
considerazione del reale contesto del cambiamento adattativo in tutta la sua
com- plessità: un contesto nel quale occorre spiegare il cambiamento e la stasi
delle specie nel loro insieme (e non solo di individui o di popo- lazioni); un
contesto nel quale è necessario capire in quali circostan- ze e con quali
modalità opera la selezione naturale; un contesto nel quale non si può
prescindere dalla considerazione dei diversi livelli gerarchici, ecologici,
economici e genealogici che si intrecciano du- rante il processo evolutivo. 6.
La critica alla «biologia ingegneristica» Il fondamento epistemologico del
programma adattazionista, secon- do Lewontin, è infatti quello di un
«neo-meccanicismo» evolutivo: l'organismo è scomposto in parti discrete
ciascuna delle quali tro- verà una funzione adattativa ottimale in
corrispondenza della sua comparsa (componenti di fitness). La buona
realizzazione di una fun- zione specifica, come appunto per una macchina, è
fusa indistin- tamente con la finalità di costruzione dell’ingranaggio.
L’adatta- zionismo poggia su un’«analisi ingegneristica» del piano corporeo.
Lewontin sembra privilegiare come bersaglio delle proprie argo- mentazioni non
tanto il riduzionismo, quanto lo stile analitico di marca meccanicista. Una
metafora della «fabbricazione» domina, a parere del genetista americano, le
interpretazioni prevalenti della co- 187 struzione organica. Tale analisi
adattativa per dissezione incontra a suo avviso alcune difficoltà
metodologiche. La prima è che non è del tutto scontato, al momento della ricer-
ca sperimentale, in che modo si debba (o si possa) dividere un orga- nismo
nelle sue «parti» o componenti discrete (ammesso che ne esi- stano). Si può
decidere di partire, nell’analisi, dal problema specifi- co per poi individuare
il carattere adattativo corrispondente, o vice- versa analizzare prima i caratteri
rinvenibili e poi le funzioni soddi- sfatte volta per volta. Si dà per appurato
che vi sia una certa divisio- ne in «unità» costitutive, ma la decisione su
come calibrare questa divisione in parti del continuum organico è arbitraria.
Il rischio evi- dente è quello di una crescente astrattezza dell’analisi
funzionale stessa, sempre più cieca di fronte alle connessioni e correlazioni
fra le parti a qualsiasi livello di divisione ci si soffermi. Senza contare (ed
è la seconda difficoltà metodologica) che alcune «parti» non posso- no da
nessun punto di vista essere considerate unità funzionali, co- me nel caso del
mento umano (zona residuale di origine neotenica, generata dalla intersezione
fra la contrazione della struttura ossea della mandibola e la contrazione, più
rapida, della zona alveolare su cui poggiano i denti). Non è sempre possibile
pertanto l’individua- zione di una corrispondenza lineare e univoca, per
adattamento spe- cifico, fra «parte singola» e «singola funzione». Un'altra
difficoltà teorica interessa invece la topologia della ri- partizione. Dove
sono collocate le varie unità funzionali e in che mo- do si può visualizzare la
loro indipendenza dal resto? Ciò vale so- prattutto per l’analisi di «organi»
particolarmente complessi, primo fra tutti il cervello, e l’analisi di
comportamenti, spesso viziata da dissezioni in categorie astratte e
indifferenziate tipo «aggressività», «cooperazione», «omosessualità». Il
riferimento in questo senso è proprio Sociobiology di Edward O. Wilson, dove il
comportamento animale e umano è diviso in «organi di comportamento», a ciascuno
dei quali corrisponderebbe una spiegazione selettiva. In tal modo si
sottovalutano però le proprietà di coesione interna che rendono l’or- ganismo
un sistema evolutivo integrato. Spesso anche la decisione su quale problema
specifico ogni carat- tere di un organismo sia preposto a risolvere è
arbitraria. La «condi- zione adattativa» di un carattere o di un organo è
frequentemente rap- presentata da una pluralità di funzioni e non da una sola.
Di fronte ab- biamo spesso «intrecci di cause». L'affare si complica quando ci
ac- corgiamo che può capitare anche il fatto reciproco, cioè che caratteri 188
secondari della morfologia o del comportamento possono essere cor- relati ad
altri caratteri con funzioni adattative riconosciute senza tut- tavia avere in
quanto tali una qualsiasi funzione adattativa. Esistereb- be cioè una pluralità
di spinte selettive eterogenee e indipendenti che coinvolgerebbero
incessantemente l’esistenza di tutti gli organismi. «Compromessi» adattativi
sono frequenti anche nella fissazione dei comportamenti, ogniqualvolta sia in
gioco un doppio o triplo inte- resse selettivo: per esempio, negli uccelli,
portare molto cibo al nido ma in modo da non restare assenti più di un certo
tempo. Queste osservazioni gettano qualche ombra sui modelli tradiziona- li di
valutazione delle ipotesi adattative, in particolare sui modelli quan- titativi
basati sul criterio di ottimalità. Secondo questa analisi ingegne- ristica
della «tecnologia» adattativa utilizzata da un organismo, i crite- ri per
mettere alla prova un adattamento sono: la misura della fitness (in termini di
successo riproduttivo o di costo energetico); il grado di ereditabilità; il
confronto con soluzioni alternative; la scelta della solu- zione ottimale
rispetto all'ambiente. É evidente che questo approccio contiene in sé tutti i
problemi messi in luce dalla critica di Lewontin, a cominciare dal fatto che si
presuppone che la fitness di un organo o di un comportamento dipenda dalla
relazione fra un organismo e un am- biente, un’idealizzazione che non si
riscontra mai in natura. Per ovviare a questo limite, Maynard Smith ha proposto
di sosti- tuire i modelli di ottimalità con i modelli basati sui giochi
teorici. I cri- teri sono gli stessi di prima, ma lo scenario immaginato (la
matrice di gioco) contempla anche le relazioni fra le soluzioni adattative
diverse adottate dagli organismi in una popolazione. Ogni fenotipo rappre-
senta una strategia di gioco, che garantisce all’organismo un punteg- gio di
fitness. Non esistono strategie ottimali in assoluto, ma nello svolgimento del
gioco alcune strategie dominano e diventano stabili, altre soccombono. Quando
una strategia evolutivamente stabile (ESS), dopo varie fasi di alternanza,
elimina tutte le altre significa che è stata fissata dalla selezione. Può anche
succedere che due o più stra- tegie rimangano in equilibrio. Ma al mutare delle
pressioni selettive, delle risorse o del rapporto costi-benefici di un
comportamento, il gioco ricomincia. Confrontando simulazioni come queste con i
dati reali delle osservazioni naturalistiche, Maynard Smith ha tratto im-
portanti teorie come quella della selezione dipendente dalla frequen- za e
della sovversione interna, che vedremo nel prossimo capitolo. L’utilizzo di
questi modelli ha indotto alcuni filosofi della biologia a ritenere che
l’adattazionismo non sia più oggi un’assunzione del tut- 189 to
infalsificabile, come Gould e Lewontin denunciarono nel 1978. Se- condo Orzack
e Sober (2001), l’adattazionismo si configura come un «programma di ricerca»
alla Lakatos, con un nucleo teorico non sog- getto a falsificazione e una
cintura di ipotesi collaterali soggette a fal- sificazione. Nel loro modello il
nucleo centrale è rappresentato dalla triplice assunzione che l’adattamento sia
pressoché ubiquo, che sia in- dispensabile per comprendere l’origine delle
forme organiche, che la selezione naturale produca solitamente fenotipi
ottimali. La terza parte è quella problematica e può essere testata in modo
indiretto: se escludendo qualsiasi fattore che non sia la selezione naturale
ottimiz- zante possiamo spiegare una buona percentuale di tratti biologici, il
test è positivo; se invece siamo costretti a introdurre ipotesi 44 hoc e
aggiustamenti continui, significa che il programma di ricerca adatta- zionista
è «regressivo», cioè non è fecondo sul piano euristico. Ma un esempio del
postulato di ottimalità, non sottoponibile a fal- sificazione indiretta, è
l'approccio adattazionista di Daniel Dennett (1995), il quale ritiene che la
spiegazione in termini di selezione natu- rale ottimizzante sia in grado di
spiegare i dati meglio di ogni altra. A suo avviso nessuna teoria eguaglia la
somma di due strumenti adatta- zionisti complementari: 1) la previsione
adattativa, ovvero l’analisi delle strutture e dei comportamenti di un
organismo alla luce dei pro- blemi ecologici che deve affrontare, al fine di
prevedere quali carat- teristiche l'organismo dovrebbe idealmente avere e
quindi di con- frontarle con quelle reali; 2) l’analisi ingegneristica
retrospettiva, ov- vero, alla rovescia rispetto al punto primo, lo studio delle
forze adat- tative che possono aver plasmato un certo tratto in base alla sua
uti- lità attuale o alla sua utilità in un presunto ambiente ancestrale. Si
trat- ta di una doppia inferenza: dal problema adattativo astratto alla solu-
zione reale, nel primo caso; dalla soluzione reale al problema adatta- tivo,
nel secondo. In questa strategia a tenaglia è difficile trovare un punto di
appiglio per una falsificazione, diretta o indiretta: il loop ar- gomentativo
proposto da Dennett richiede o l'adesione o il rifiuto. 7. Cladistica e
adattamenti L’assunto metodologico del ceteris paribus (a parità di tutte le
altre condizioni) incontra limitazioni di principio nel tentativo di defini- re
la morfologia ideale per una determinata funzione. L'analisi inge- gneristica,
nella necessità metodologica di semplificare la situazione sperimentale,
rischia di non cogliere la ricchezza delle forze costan- 190 temente in gioco
nei processi di trasformazione. Allo stesso modo, sia i modelli di ottimalità
sia i giochi teorici rischiano di non poter includere nelle loro previsioni il
ruolo delle peculiari condizioni sto- riche che hanno caratterizzato un percorso
adattativo: condizioni ecologiche locali sconosciute, la storia pregressa e le
sue restrizioni all’ereditarietà, derive genetiche, e così via. Nelle
ricostruzioni di Dennett, date certe condizioni storiche, se il modello
funzionale cal- za bene i dati osservativi ciò è sufficiente per confermare la
validità delle assunzioni storiche stesse. Ma che dire di fronte
all’eventualità, assai frequente, che esistano ipotesi adattative molteplici ed
egual- mente plausibili? In un’analisi ingegneristica, l'organismo è un
progetto evolutivo in costante perfezionamento, bisognoso di manutenzione e di
ag- giornamenti progressivi. Esistono tuttavia intere classi di dati osser-
vativi in contraddizione con questa visione del progetto autoperfe- zionantesi:
il tasso di «estinguibilità» è indipendente dal tempo; un grande numero di
«scelte» morfologiche non presenta un valore adattativo primario e talvolta non
presenta alcun valore adattativo in sé. Lewontin ritiene che si possa spiegare
questa contraddizione so- lo immaginando che il campo di potenzialità della
selezione natura- le sia un insieme più ampio del campo di variabilità
dell’adattamen- to in senso stretto. Potremmo dire che l'adattamento non solo è
la pre-condizione del processo evolutivo, ma è anche un meccanismo
interminabile nella sua realizzazione. Questo non tanto e non solo per la
rincorsa adattativa perenne tipo «Regina Rossa», quanto piuttosto per il fat-
to che il campo di variabilità della selezione è comunque più ampio di quello
adattativo. Si guadagna in questo modo una sorta di rott- ra di simmetria fra
selezione e adattamento. Non esiste un rapporto biunivoco di congruenza fra le
due dimensioni, pena lo scivolamen- to nella tautologia della sopravvivenza
(che è poi un’altra forma per esprimere la retrospezione funzionalista): il più
adatto è sopravvis- suto perché era il più adatto. Viene così connotata una
nozione di adattamento senza un’origi- ne univoca (pre-condizione di ciò che
«già da prima» riesce a soprav- vivere in una nicchia), senza un compimento
definito, e relativo: se la selezione naturale può sempre qualcosa in più
rispetto all’adatta- mento, quest’ultimo non sarà mai assoluto. In condizioni
di pressio- ni selettive similari, una popolazione può privilegiare la propria
ido- neità a una pressione selettiva (per esempio aumentando la fecon- 191
dità), un’altra potrà rispondere meglio alla pressione selettiva per un miglior
utilizzo delle risorse alimentari. I «picchi adattativi» corri- spondenti
possono anche essere incommensurabili: non è sempre possibile decidere quale
delle due vie sia più idonea in generale. Una trasformazione funzionale,
originatasi in risposta a una certa pressio- ne selettiva, produce un ventaglio
di trasformazioni collaterali, il cui consolidamento può condurre a nuove
derive evolutive imprevedibi- li. In definitiva, non tutto il cambiamento
evolutivo può essere com- preso in termini di adattamento. Da una visione
onnicomprensiva centrata sull’idea di un adeguamento passivo fra ambienti e
organi- smi, l’attenzione si è spostata verso una concezione estesa del cam-
biamento come costruzione di percorsi evolutivi alternativi fra orga- nismi e
ambienti che si co-determinano reciprocamente. La portata innovatrice della
critica di Gould e Lewontin è anco- ra in discussione. Secondo il filosofo
della biologia Godfrey-Smith (Orzack, Sober, a cura di, 2001) esistono tre tipi
di adattazionismo. Esiste un adattazionismo empirico, prima maniera, piuttosto
inge- nuo, contro il quale si scagliano efficacemente Gould e Lewontin: in sostanza,
l’idea che la selezione naturale ottimizzante sia il fattore fondamentale che
ha generato l’intera diversità delle forme viventi. Esiste poi un
adattazionismo esplicativo più sofisticato, difeso da Dawkins, che non fa
assunzioni troppo impegnative sull’onnipoten- za empirica della selezione
naturale, ammette che esistano vincoli al suo potere e che non tutti i tratti
siano adattativi, ma ritiene nondi- meno che la selezione sia l’unico fattore
esplicativo capace di rende- re conto degli adattamenti complessi, ingegnosi e
meravigliosi di cui la natura trabocca. Infine, esiste un adattazionismo
metodologico, al- la Maynard Smith, che trascende ogni questione empirica o
episte- mologica e vede nell’adattamento della forma organica il criterio di
metodo per studiare i sistemi biologici, indipendentemente dal loro grado di
ottimalità. Non dimentichiamo che l’idea di adattamento per selezione na-
turale è centrale in filosofia della biologia perché rappresenta l’ar- gomento
fondamentale contro le ipotesi teistiche del «buon dise- gno» e, dall’Origire
delle specie in avanti, rimane il fulcro di una concezione naturalistica del
mondo vivente. Le critiche all’adatta- zionismo non coinvolgono questa
dimensione. Tuttavia, lo struttu- ralismo di processo a cui si ispirò la
polemica del 1978 rappresenta una sfida sia all’adattazionismo empirico sia
all’adattazionismo esplicativo, perché ammette l’esistenza di tratti non
adattativi (da 192 qui importanza della nozione più radicale di exaptation) la
cui spie- gazione empirica e il cui principio esplicativo esulano dall’azione
della selezione naturale. Inoltre, arriva alla conclusione che il feno- tipo
raramente è perfettamente adattato e che l’equilibrio è un’ec- cezione in
natura, una convinzione che invece sta alla base dei mo- delli di ottimalità.
La critica non sembra invece toccare l’adattazio- nismo metodologico, che non
fa alcuna ipotesi di ottimalità: anzi, se- condo Maynard Smith, è proprio
l'individuazione di un adattamen- to ottimale a svelarci, per differenza, la
presenza di vincoli struttu- rali o di restrizioni di altro tipo. L’ottimalità
diventa una strumento euristico: laddove gli adattamenti reali si discostano
dal «miglior adattamento possibile» significa che è in azione un vincolo alla
se- lezione naturale. Nella sua classificazione estesa del cambiamento
evolutivo Lewon- tin introduce come ultima la tipologia di adaptation
funzionale vera e propria, senza di cui, precisa, non vi sarebbe evoluzione.
Ciò vale in tutti i casi di «convergenza funzionale», quando animali diversi
sviluppano in parallelo le stesse strutture per adattarsi a nicchie eco-
logiche simili, per esempio acquatiche. Selezione naturale e vincoli di
sviluppo, secondo William Wimsatt, possono addirittura coevol- vere, creando un
«trinceramento generativo» (gereraztive entrench- ment). A volte, secondo
Rudolf A. Raff, né la selezione naturale né i vincoli di sviluppo riescono a
spiegare la conservazione dei piani cor- porei, che in alcuni organismi
sembrano svilupparsi nella forma adulta saltando i passaggi intermedi (direct
development). L'adattamento, in conclusione, non può essere considerato in ta-
le prospettiva una univoca conseguenza della selezione naturale, ma consiste in
una molteplicità di strategie evolutive eterogenee e crea- tive. Questo
slittamento teorico porta con sé implicazioni epistemo- logiche importanti
riguardo al modo comune di intendere la rela- zione fra organismi e ambiente,
permettendo di superare la tautolo- gia iniziale della teoria evoluzionistica
riguardo all’idea di adatta- mento, già temuta da Darwin. L’obiezione della
tautologia fallisce nel momento in cui separiamo il successo riproduttivo
effettivo di un organismo dal suo successo riproduttivo previsto: se intendiamo
il se- condo come «fitness» e ne diamo una definizione probabilistica in-
dipendente dalla selezione naturale, la tautologia svanisce. La sele- zione
naturale non è niente più che una legge statistica e l’adatta- mento misura la
probabilità di sopravvivenza. Se non definiamo la fitness come sopravvivenza o
come capacità riproduttiva effettiva, 193 ma come probabilità di sopravvivenza
a medio e lungo termine, il rapporto fra selezione e adattamento rimane sì
ricorsivo, ma non è più tautologico. Secondo Kim Sterelny, Paul E. Griffiths e
altri filosofi della bio- logia, la classificazione estesa del cambiamento
evolutivo può essere oggi analizzata meglio che in passato adottando una
metodologia comparativa di tipo cladistico. Confrontando i tempi di evoluzione
di un tratto rispetto a un altro, comparando i risultati di un proces- so
evolutivo con un altro in condizioni simili, valutando le correla- zioni
storiche fra un certo tratto e determinate condizioni ecologi- che, calcolando
quando si è realizzata una convergenza adattativa e quando no, verificando se
un tratto si è evoluto parallelamente più volte oppure se si è evoluto una
volta sola in un antenato comune, è possibile formulare ipotesi adattative
molto più realistiche e precise delle precedenti (Eggleton, Vane-Wright, 1994).
La ricostruzione degli alberi filogenetici e la loro comparazione possono, per
esem- pio, stabilire il raggio di applicazione di un’ipotesi adattativa e con-
frontarla con ipotesi alternative. L'utilizzo delle tecniche cladistiche per
l’analisi funzionale sta dando frutti insperati e sta cambiando il volto di
molte «storie proprio così» date per scontate. 8. «Exaptation» e
autorganizzazione biologica Il gioco fra adattamenti funzionali e vincoli
strutturali rimane dun- que al centro delle ricerche future, anche attraverso
l'applicazione di tecniche cladistiche. Nessuno ipotizza più che l’uno o
l’altro non ab- biano alcun ruolo. Certo, per chi adotta una metodologia
adattazio- nista è importante presupporre che i vincoli di sviluppo e i fattori
storici rimangano il più possibile stabili, al fine di poter valutare il ruolo
della selezione naturale per differenza, come creatrice di va- rianti. Per chi
mette in discussione l’adattazionismo, invece, i due fattori sono covarianti e
dunque non è possibile isolarne uno come invariante per misurare l’altro. Oggi
i modelli di sistemi biologici che fanno affidamento su una nozione classica di
adattamento (inteso come sinonimo di «apprendimento» tout court dall'ambiente)
si ri- velano talvolta unilaterali. La critica all’adattazionismo e all’esterna-
lismo è anche una critica all’istruziorismzo, cioè all'idea che l’am- biente
dia le istruzioni agli organismi, i quali poi devono elaborarle e produrre
performance adattative efficaci. La relazione fra l’opera di Gould e quella di
Stuart Kauffman sve- 194 la alcuni ulteriori elementi di interesse attorno al
concetto di exapta- tion. Le prime ricerche di Kauffman, biologo teorico, fra i
fondatori del Santa Fe Institute for the Study of Complex Systems, indirizzato
allo studio dei sistemi viventi dall’opera dei maestri francesi Frangois Jacob
e Jacques Monod sui geni regolatori, avevano riguardato lo svi- luppo delle
cellule embrionali. Egli aveva ipotizzato che le cellule dell'embrione fossero
strutturate come una rete coesiva (sistemi in cui ciascun componente
interagisce con gli altri creando una catena a so- stentamento reciproco),
funzionante grazie al fitto scambio di mes- saggi chimici fra le superfici
delle cellule che così si attivano vicende- volmente. Il sistema, evolvendosi,
si autorganizza e produce una serie di configurazioni ordinate. La tesi di
Kauffman è che questo ordine prodotto per «autocatalisi» sia «gratuito», cioè
spontaneo (order for free), in qualche modo inscritto nella struttura del
sistema e nelle sue innate proprietà autorganizzatrici (sia esso una rete
casuale di geni o una rete neurale). Quindi gli adattazionisti sovrastimano a
suo avviso l'estensione del morfospazio virtuale, perché non valutano a suffi-
cienza l’influenza dei vincoli autorganizzativi interni. Gli studi di Kauffman
puntano all’applicazione estensiva delle proprietà emergenti in un sistema
autorganizzato come integrazione al principio della selezione naturale. Il
sistema vivente, lungi dall’es- sere plasmato passivamente dall’azione della
selezione, evolve espri- mendo una creatività interna che trascende sia le
determinazioni se- lettive sia le perturbazioni casuali. L'evoluzione è
sospinta dalla se- lezione naturale verso quello che Kauffman chiama «margine
del caos», cioè una situazione di fluidità e di imminente transizione di fase
da cui si produce la trasformazione e il nuovo «ordine gratuito». L’evoluzione
sarebbe dunque un connubio fra autorganizzazione e selezione (Kauffman, 1993,
1995). Pur nella condivisione della critica al funzionalismo di matrice
neodarwiniana, fra l’approccio storico di Gould e le ricerche sulle «leggi
naturali dei sistemi complessi» ispirate a una forma più forte di internalismo
emergentista, come quelle di Kauffman e di Brian Goodwin, si è consumato negli
anni Novanta un acceso dibattito, su posizioni diverse, di estremo interesse.
In Gould, una traccia intel- lettuale, passata attraverso lo spartiacque
principale di una ridefini- zione non funzionalista del concetto di
adattamento, riaffiora nella delineazione di una concezione della storicità
naturale come pro- cesso contingente di elaborazione delle forme viventi. In
Kauffman, la spiegazione del comportamento dei sistemi viventi è data invece
195 dall’applicazione estensiva delle «proprietà emergenti in un sistema
autorganizzato», come limitazione e integrazione al raggio d’azione della
selezione naturale. Il connubio fra autorganizzazione e selezio- ne sposta
l’accento sul concetto di «produzione di ordine» e sull’idea di una creatività
«interna» (una sorta di «legalità») dei sistemi viventi che li sottragga sia al
determinismo della selezione sia al bricolage fi- ne a se stesso. Tuttavia,
nella definizione di questi «arrangiamenti» della natu- ra (thinkering)
Kauffman ha sempre riunito sotto l’etichetta di «con- tingenza storica», senza
distinzioni, sia l’operato della selezione na- turale nel produrre strutture
adattate sia il riutilizzo creativo di ma- teriali già esistenti. «Selezione»,
«storia», «contingenza», «exapta- tion», «arrangiamenti» sono sempre caduti,
per lui, sotto la stessa area semantica, rifiutando così la tassonomia di
Lewontin e di Gould. Quest'ultimo, dal canto suo, ha sempre interpretato la
pro- spettiva di Kauffman, probabilmente in modo erroneo, come uno
«strutturalismo dissidente» (Gould, 2002, trad. it., pp. 1473-515) al pari di
quello di D’Arcy Thompson: l’eresia consisterebbe nel fatto che Kauffman,
Goodwin e il loro illustre predecessore hanno con- cepito una versione dello
strutturalismo in cui le cause fisiche ven- gono «imposte» ai sistemi organici
dall’esterno, e non dall’interno come nella corrente strutturalista ortodossa.
Ciò può essere corret- to per la teoria delle forme di D’Arcy Thompson, mentre
l’introdu- zione della nozione di proprietà emergente in Kauffman e Goodwin
rappresenta una novità: le leggi di autoproduzione di ordine sono sì universali
e astoriche, ma emergono dall’interno dei sistemi com- plessi, non sono imposte
dall’esterno. L’ordine strutturale spontaneo di Kauffman non è in alternativa
all’ordine funzionale costruito dalla selezione naturale. Quest'ultima ha
infatti un duplice ruolo nella sua teoria delle origini della com- plessità
organica: a livello di individui, filtrare, conservare e perfe- zionare le
differenti «varianti» che scaturiscono dai processi di au- torganizzazione; a
livello di specie, produrre un trend generale ver- so sistemi che abbiano
caratteristiche di flessibilità, di diversità in- terna e di connettività che
li renda massimamente creativi e adatta- tivi. Dunque non esisterebbe soltanto
l'evoluzione delle forme vi- venti, ma anche un’evoluzione di secondo livello,
la stessa «evolvi- bilità» di cui parla Gould, una sorta di «evoluzione delle
condizioni di evoluzione». Il problema, almeno nelle formulazioni fino al 1995,
è che l’ac- 196 centuazione del potere della generalità strutturale sottostante
alle specificità funzionali giunge fino al punto di negare un qualsiasi ruo- lo
alla dimensione storica irreversibile. Esistono, secondo Kauffman, percorsi
storici contingenti, ma a lungo andare essi vengono riassor- biti da un ordine
statistico riconoscibile. Dipende solo dalla scala temporale considerata. Di
deriva in deriva, a lungo andare emerge nuovamente una regolarità. Ciò
significa, allora, che la storia non ha il potere di intaccare la prevedibilità
di tali schemi generali: ripeten- do il film della vita infinite volte, in
qualche modo dovremmo ritro- vare ogni volta gli stessi modelli e un'analoga
tendenza verso la com- plessità autorganizzata. L'origine della vita non è un
miracolo di im- probabilità, ma una conseguenza necessaria, date certe
condizioni iniziali astratte (il supporto non conta), delle leggi universali
della complessità. Allo stesso modo, noi esseri umani non siamo l’ultimo
capitolo di una lunga sequenza di biforcazioni storiche contingenti e
fortunate, ma l’esito prevedibile di tali leggi. Dalle simulazioni si evince la
natura duplice dei sistemi complessi: essi appaiono in un certo senso come
«forme processuali», ma anche co- me reti di processi «carichi di forme». La
costruzione di semplici mo- delli di reti casuali ha permesso a Kauffman di
mostrare come tre soli parametri, cioè il numero di nodi della rete, il grado
di interconnessio- ne media fra i nodi e le regole di connessione step by step,
definissero una gamma molto ampia di reti possibili. In tal modo, a partire da
unità in- teragenti e da regole di aggregazione anche molto semplici è
possibile riprodurre comportamenti collettivi ed emergenti di sorprendente
complessità (Wolfram, 2002). L’idea centrale è che, in qualsiasi tipo di rete,
quando un gruppo di elementi (molecole, geni, organismi, e così via) raggiunge
una soglia critica di diversità e di interconnessione si for- mi spontaneamente
una «rete autocatalitica», cioè una matassa di ele- menti connessi
circolarmente, una rete nella quale tutti gli elementi con- corrono alla
formazione di altri elementi della rete producendo confi- gurazioni ordinate in
evoluzione: la rete prende «vita», metabolizza ele- menti esterni, si regola e
si sostiene da sola, si moltiplica per autodupli- cazione e prima o poi
produrrà una nuova «proprietà emergente». Dato un livello di complessità minimo
nel «brodo primordiale», la vita sarebbe allora emersa spontaneamente senza
bisogno né dell’azione della selezione naturale (che subentra soltanto dopo) né
di un preesistente meccanismo genetico di trasmissione e replica- zione
dell’informazione biologica, contrariamente a quanto sostenu- to da Dawkins a
proposito della nascita di un primo «replicatore nu- 197 do» a caccia di
interattori come atto di esordio dell’evoluzione. Il sorgere della vita sarebbe
una conseguenza prevedibile delle leggi di emergenza spontanea dell’ordine
all’interno di reti complesse di in- teragenti chimici. Una legge generale
della complessità biologica sarebbe dunque quella che prevede che tutti i
sistemi complessi adattativi evolvano spontaneamente verso la condizione «ai
margini del caos». Come sottolineano a proposito delle dinamiche neurali Brian
Goodwin e Ricard Solé nel loro ultimo libro S1grs of Life (Solé, Goodwin, 2000),
un’aggiornata sintesi delle teorie dei sistemi autorganizzati, se noi studiamo
i sistemi secondo il punto di vista della loro autonomia sco- priamo
sistematicamente principi di autorganizzazione e proprietà emergenti, cioè
stati globali del sistema che derivano dall’interdi- pendenza di tutti i
componenti del sistema stesso e che possono es- sere utilmente descritti
attraverso la matematica dei sistemi non li- neari. Il riconoscimento di
pattern emergenti (pattern recognition, secondo la definizione di Steven
Johnson) diventa dunque lo stru- mento principale per studiare la dinamica dei
sistemi non lineari in biologia e in altre discipline. I fondatori del
programma di ricerca battezzato Artificial Life si sono spinti fino a
ipotizzare l’esistenza di un algoritmo universale, fondato sulla chimica senza
tempo della complessità emergente, che includa per intero la teoria
dell’evoluzione, rendendo la storia un pro- cesso più o meno prevedibile.
Secondo Leo Buss e Walter Fontana esistono oggi i presupposti per fondare, su
un corpus di poche leggi di complessità emergente, una vera e propria «biologia
universale», valida in qualsiasi contesto e indipendente dal supporto di
partenza, sia esso carbonio, silicio o altri supporti fisici extraterrestri (G.
John- son, 1995). Secondo Thomas Ray, creatore della simulazione «Tier- ra», la
vita presenta alcune caratteristiche universali formalizzabili e dunque un
sistema complesso simulato a computer è a tutti gli effetti «vivo», è un
vivi-sistema (Kelly, 1994). Essere vivi è infatti una que- stione di forma, di
organizzazione, di struttura emergente, non di sup- porto materiale (Emmeneche,
a cura di, 1994; Boden, a cura di, 1996). Kauffman, avvertendo forse i pericoli
di questa deriva degli studi sulla complessità biologica, ha proposto nella sua
ultima opera, dal ti- tolo Investigations (2000), di considerare tre domini per
la compren- sione della «biologia universale»: il dominio delle proprietà di
autor- ganizzazione dei sistemi non in equilibrio, il dominio della selezione
naturale, e il dominio della contingenza evolutiva. Come si può nota- 198 re,
la frontiera più avanzata della ricerca sui sistemi evolutivi è anco- rauna
volta collocata nel punto di intersezione fra i pattern interni dei sistemi
(elemento strutturale) e le loro dinamiche evolutive irreversi- bili (elemento
storico). Kauffman sembra essersi quindi allontanato dalle posizioni più
estreme assunte al riguardo da colleghi come Christofer G. Langton: la storia,
comunque sia, conta e la «logica uni- versale della vita» va pur sempre
declinata in una traiettoria storica che ne definisce l’essenza. Ebbene, in
tale riconsiderazione dell’area di influenza rispettiva delle proprietà
«robuste» della vita e degli eventi singolari, la nozio- ne di exaptation ha
avuto per Kauffman un ruolo fondamentale. For- se la definizione di «sistema
complesso» ha bisogno di una terza gamba: i sistemi complessi sono sistemi
auto-organizzati (ordine «gratuito» ai margini del caos); sistemi
etero-organizzati (selezione naturale e coevoluzione con il contesto); ma anche
sistemi r/-orga- nizzati (per sequenze di exaptations). In primo luogo,
Kauffman ha separato i fenomeni exattativi dal- le costruzioni funzionali per
selezione naturale. Qui si tratta di strut- ture già formate, con o senza una
funzione, che diventano effetti col- laterali, adottando una nuova funzione,
che si tradurrà potenzial- mente in altri effetti, e così via. Funzioni ed
effetti si propagano espo- nenzialmente: «la funzione di una parte di un
organismo è un sot- toinsieme delle sue conseguenze causali» (2000, p. 130).
Tali conse- guenze causali a cascata dipendono da ciascun contesto in cui la
par- te viene a trovarsi. Pertanto, ciascun «accidente congelato» (una
struttura attuale funzionante) rappresenta un punto di potenziale propagazione
di effetti, alcuni dei quali diventeranno a loro volta «accidenti congelati»
nella dinamica coevolutiva di accoppiamento fra sistemi in evoluzione. La
domanda circa la prevedibilità del pro- cesso storico ottiene allora una risposta
ben diversa: Pensate di poter pre-stabilire con certezza tutte le conseguenze
cau- sali, dipendenti dal contesto, delle componenti di tutti i possibili
organi- smi che potrebbero diventare exaptazions, essere selezionati ed entrare
nella biosfera? Io credo, e questa è una faccenda di centrale importanza se
sono nel giusto, che la risposta sia no (ivi, p. 131). Il tentativo di Kauffman
è ora quello di provare in qualche mo- do questa impossibilità. Sulla base di
elementari valutazioni combi- natorie, l’insieme di tutte le funzioni
biologiche possibili non è defi- 199 nibile una volta per tutte, ancor meno lo
sarà l'insieme di tutti gli ef fetti potenziali dipendenti dal contesto. Il
loro numero non è infini- to, ma transfinito, cioè così immensamente grande da
non poter es- sere processato da alcun sistema computazionale nell’universo
(infi- nito procedurale). Dunque, l'emergenza di una struttura exattata
rappresenta un’esplorazione nello spazio delle funzioni possibili,
un’esplorazione dell’«adiacente possibile» di ogni stato della biosfe- ra, che
non è estrapolabile o derivabile algoritmicamente dalla con- figurazione
precedente. Tale exaptation potrebbe benissimo rappre- sentare un aumento di
complessità nel sistema, ma tale aumento non sarebbe derivabile dagli stadi
precedenti. Secondo Kauffman, que- sto è il motivo per cui i più sofisticati
modelli di simulazione della complessità, come A/cherzy di Fontana o Tierra di
Ray, pur utilissi- mi nel suggerire mondi alternativi nei quali sperimentare
regolarità evolutive, hanno grosse difficoltà nel predire le direzioni dei
possi- bili salti di complessità nei loro sistemi. Tale difficoltà sarebbe in-
trinseca, non dovuta a difetto di conoscenza: se anche conoscessimo
perfettamente la configurazione precedente, lo spazio delle possibi- li
configurazioni derivabili non sarebbe dominabile. Le modalità per «exattare»
una struttura non sono algoritmicamente comprimibili. L’unica procedura per
computarle sarebbe quella di un algoritmo lungo tanto quanto l’intera sequenza
delle possibilità attualizzate. Ma un algoritmo di questo tipo, inutile per i
suoi scopi, non sareb- be altro che una descrizione del sistema, o se
preferiamo, non sareb- be niente altro che la sforza di quel sistema e dei suoi
exaptations ef- fettivamente realizzati. Se questa argomentazione è corretta
possiamo allora dire che il fenomeno dell’exapztation rappresenta un «teorema
di limitazione» di principio della possibilità di comprimere algoritmicamente
qual- siasi sistema in trasformazione. L'evoluzione procede attraverso la
selezione naturale, ma l’evolvibilità dipende dal grado di flessibilità
«exattativa», in un costante accoppiamento fra contingenza e po- tenzialità
strutturale. Il motore che mantiene la «fitness ai margini del caos» potrebbe
essere proprio il meccanismo exattativo (la di- sponibilità al reclutamento per
funzioni indipendenti dalle prece- denti), il quale però, proprio nel momento
in cui garantisce l’evolvi- bilità, pregiudica la possibilità di pre-stabilire
lo spazio delle confi- gurazioni potenziali. Il dominio delle leggi atemporali
della com- plessità è dunque mitigato dal ruolo della contingenza storica,
attra- verso il fenomeno evolutivo dell’exaptation. 200 Nel capitolo undicesimo
del suo testamento scientifico, Gould (2002, p. 1052) propone uno schema
pluralista della spiegazione evoluzionistica che in molti sensi rappresenta
un’agenda di studio per i prossimi anni. Nel suo «triangolo attativo» (apzive
triangle) so- no compresi tutti i tratti biologici utili. Gli angoli rappresentano
le tre forze trainanti dell’evoluzione, rispettivamente: in basso, l’ango- lo
delle funzioni (adattamenti complessi frutto della selezione natu- rale) e
l’angolo delle strutture (omologie, vincoli di vario genere, processi di
autorganizzazione); in alto il vertice della storia (derive casuali, eventi
contingenti), che sovrintende i primi due e rende la loro coevoluzione un
percorso imprevedibile e irreversibile. Questo modello pluralista è una sfida
teorica ed empirica al contempo: teo- rica perché propone di escogitare
modalità nuove per comprendere l’interpenetrazione di strutture e funzioni
nell’evoluzione; empirica perché richiede di ponderare con cura il peso di
ciascun vertice nel- la storia evolutiva di ogni tratto e di valutarne
l’importanza relativa caso per caso. Si prefigurano così, nella filosofia della
biologia contemporanea, due atteggiamenti diversi, accomunati dal richiamo alle
comuni ra- dici darwiniane e ricchi, entrambi, di sfaccettature interne. Da un
la- to, si è consolidato un approccio di tipo riduzionista centrato su una
visione genocentrica dello scacchiere evoluzionistico e sull’adatta- zionismo
esplicativo come criterio guida. Dall’altro, cominciano ad emergere alcune
alternative di tipo pluralista — i due strutturalismi di Gould e dell’ultimo
Kauffman accomunati dal consenso recente sull’idea di exaptation, la teoria dei
sistemi di sviluppo di Susan Oya- ma, la teoria gerarchica estesa alla Eldredge
— ciascuna delle quali con peculiarità marcate e sensibilità diverse a proposito
di alcuni te- mi fondamentali di filosofia della biologia. Fra questi, rimane
inelu- dibile il nodo teorico relativo al ruolo della storia, fra progresso e
contingenza. 9. Complessità, progresso ed evolvibilità Forse esiste una regola
nella filosofia della biologia contemporanea: l’estromissione della storia
conduce su sentieri scivolosi e verso teo- rie universali difficili da
sostenere sul piano argomentativo. Il tema dell’esistenza o meno di una
«direzione» nella storia naturale sem- bra riassumere molte delle controversie
analizzate finora, inclusa l’ultima fra Gould e Kauffman. Del resto, abbiamo
visto che un ca- 201 so emblematico come l’esplosione del Cambriano aveva
sollevato analoghe discussioni. Nei primi anni delle loro ricerche sulla Burgess
Shale, Harry Whittington, Simon Conway Morris e Derek Briggs si scontrarono con
l’evidenza paleontologica di organismi estinti che tuttavia espri- mevano
specializzazioni adattative che nulla avevano da invidiare a quelle degli
organismi che poi sarebbero sopravvissuti. I «proble- matica» di Burgess non
potevano essere considerati i «vicoli ciechi» o gli esperimenti falliti della
sperimentazione evolutiva. La ricerca di criteri selettivi non aveva portato a
risultati affidabili, se non a quel- lo di accentuare la ricostruzione di
«storie proprio così» sui motivi di estinzione di alcuni e di sopravvivenza di
altri. Intorno ai primi anni Ottanta, quando il numero di monografie su
organismi bizzarri di Burgess superò una certa massa critica, Conway Morris arrivò
a sostenere che un ipotetico osservatore del- la fauna cambriana non avrebbe
mai potuto prevedere lo scenario successivo alla decimazione. Con
l’introduzione dell’argomento del- l’imprevedibilità era sancita un'importante
svolta: l’esistenza di per- corsi alternativi divergenti ma egualmente
plausibili, senza che vi fosse un criterio di determinazione a priori di una
traiettoria favori- ta, rimandava infatti a un principio di contingenza
evolutiva, che ab- biamo già visto discutendo di estinzioni di massa e poi
della teoria dei sistemi di sviluppo di Oyama. Burgess non sarebbe un caso
anomalo ma rappresenterebbe un tema generale della storia naturale: gli alberi
filogenetici sembrano avere il massimo di diversità all’inizio della loro
storia e la riduzione successiva non manifesta criteri di setaccio selettivo
evidenti. Ripe- tendo il film della vita 7 volte, forse otterremmo uno scenario
di so- pravvivenza 7 volte diverso. Il principio della contingenza evolutiva è
pertanto strettamente legato al modello generale della sperimenta- zione
precoce seguita da una posteriore standardizzazione. E bene notare, a questo
proposito, che il concetto di contingenza per Gould è connesso a precisi
pattern evolutivi e non va in alcun modo confu- so con l’idea di casualità del
processo di trasformazione biologica. La contingenza evolutiva, in altri
termini, non è un’attenuazione del determinismo della selezione naturale per
opera di un principio di casualità. Il caso, un concetto assai problematico in
biologia, si- gnificherebbe invece la totale assenza di regolarità e di
principi cau- sali. L'idea di contingenza si sottrae invece alla dicotomia
ambigua fra presunto caso e presunta necessità: Gould la definisce un con- 202
cetto 0ff the line rispetto a questa polarizzazione introdotta da Mo- nod. Per
contingenza egli intende il «potere causale del singolo even- to», cioè la
capacità potenziale di una singola biforcazione di devia- re la traiettoria
della storia evolutiva su un binario non prevedibile a priori. La contingenza racchiude
la dimensione di imprevedibilità intrinseca dell'evoluzione, ma non esclude che
a posteriori sia pos- sibile ricostruire nel dettaglio la catena di cause ed
effetti che ha de- terminato un percorso, escludendone altri. La teoria
dell’evoluzione male si attaglia alla contrapposizione fra caso e necessità,
perché nes- sun fenomeno evoluzionistico cade perfettamente in uno dei due po-
li. E preferibile una valutazione dei differenti gradi di probabilità di un
prodotto evolutivo, e in tale contesto si inserisce la nozione di contingenza
evolutiva. Contingenza per Gould significa che ogni storia evolutiva è irre-
versibile e potenzialmente unica, proiettata nell’esplorazione di uno spazio di
possibilità così ampio da non poter essere prevedibile su larga scala, anche se
nei suoi testi si avverte un’oscillazione fra una definizione radicale di
contingenza (per cui ogni evento apparente- mente insignificante devia la
traiettoria della storia) e una definizio- ne più moderata (il singolo evento è
potenzialmente generatore di una biforcazione storica). Tuttavia, contingenza
non è sinonimo di inintelligibilità e non è incompatibile né con l’idea che la
storia na- turale abbia avuto una direzione né con l’assunzione che la selezio-
ne naturale sia il motore di fondo dell'evoluzione. Non contravvie- ne ad
alcuna legge fisica e non esclude alcun meccanismo di base dell’evoluzione. Una
freccia del tempo esiste, anche solo per il fatto che le specie si succedono in
modo irreversibile e ogni epoca ha una propria conformazione biotica peculiare:
il problema è capire quale grado di probabilità (0, se vogliamo, di
ripetibilità di medesimi pat- tern) vi sia in questa direzionalità. Dennett ha
associato la contingenza evolutiva all'idea che il suc- cesso o l'insuccesso nella
lotta per la sopravvivenza siano dovuti al puro caso, opposto all’adattamento
funzionale (1995). Una mossa che Gould ha decisamente respinto. Ciò che conta
per quest’ultimo è che se i prodotti dell’evoluzione dipendono sensibilmente
dalla va- riazione di una o più condizioni iniziali, allora significa che il
pro- cesso è intrinsecamente imprevedibile. Ciò non esclude che l’intero
processo sia retrospettivamente intelligibile. Del resto, senza andare troppo
lontano dalla tradizione della Sintesi Moderna, una buona dose di contingenza è
data proprio dal ruolo dei fattori ecologici, che 203 sono indipendenti dal
valore di fitness delle popolazioni: il formarsi di una barriera geografica e
la deriva genetica che ne consegue sono «contingenti» rispetto al grado di
adattamento della specie madre. In questi casi, un evento accidentale può dare
origine a nuovi taxa e cambiare il volto della storia naturale. Ciò non
significa, però, che anche gli adattamenti delle specie siano di per sé
contingenti: lo so- no nel momento in cui dipendono da processi speciativi, ma
l’inno- vazione funzionale che ne deriva è legata a un rapporto di coevolu-
zione fra organismi e nicchie che può anche ripetersi uguale in sog- getti e in
tempi diversi. Pertanto l’idea di contingenza non sembre- rebbe sminuire
l’importanza delle convergenze adattative e la «ne- cessità» funzionale di
alcuni complessi adattativi molto efficaci, co- me invece ha sostenuto con
vigore Conway Morris nel 1998. Piutto- sto, essa è incompatibile con l’idea di
ottimalità e con l’adattazioni- smo empirico, perché presuppone che esistano
strategie adattative multiple e che l'adattamento sia un fenomeno incompiuto
soggetto ai dettagli della storia. Il principio di contingenza evolutiva soffre
però di un’eccezione importante: le origini della vita. Il passaggio
dall’inorganico all’or- ganico possiede, infatti, caratteristiche di emergenza
spontanea, quasi «urgente» se comparata ai tempi lunghi dell’evoluzione. Per
Gould l’inizio della vita è necessario, mentre le tappe successive so- no
permeate di contingenza. Vertono sulla stessa idea di «sponta- neità» della
prima insorgenza di materiali organici le ricerche di Manfred Eigen prima e di
Kauffman poi (Kauffman, 1993). Alcuni composti chimici potrebbero avere svolto un’azione
catalizzatrice, innescando una serie di reazioni a catena non casuali ma
coerenti e tali da configurare una rete autocoesiva. L’«ordine gratuito» della
vi- ta potrebbe essere sorto spontaneamente, al pari di una proprietà emergente
o di una transizione di fase, da questo «insieme autocata- litico» creatosi
nell'oceano di 3,5 miliardi di anni fa. La vita fece la sua apparizione sulla
Terra non appena possibile, cioè poco tempo dopo il raffreddamento della
crosta. La sua rapida insorgenza sem- bra confermare che la combinazione
biotica fondamentale non sia stata dovuta a una fortunata coincidenza, ma a una
sorta di «neces- sità» chimica e reattiva. La contingenza emerge in seguito,
secondo Gould ma non secondo il Kauffman dei primi libri, nei quali si dà
invece un grande peso alla crescita progressiva e prevedibile della complessità
autorganizzata lungo tutto il cammino della vita sulla Terra. 204 La monografia
di Gould su Burgess Shale si conclude con la sto- ria della ricollocazione
tassonomica di un ultimo, piccolo organismo di Burgess. Walcott aveva
classificato fra i vermi policheti anche uno strano organismo nastriforme,
schiacciato lateralmente, lungo circa cinque centimetri, molto simile
all’anfiosso moderno (un piccolo cordato prevertebrato marino) e chiamato dallo
scopritore Pikaza gracilens. Conway Morris lasciò per ultima l’analisi di
Pikaza perché intuì, come già altri prima di lui, che potesse essere non un
verme, ma un cordato. Pikaza presenta, infatti, una corda dorsale, una for-
mazione mediana che rappresenta la forma ancestrale di una colon- na vertebrale
e la muscolatura a zig zag corrispondente alla corda dorsale. E un cordato
prevertebrato, dunque il primo esponente do- cumentato del novero dei nostri
progenitori diretti. Pikaia è un organismo piuttosto raro a Burgess e non si
registra la presenza di altri cordati nelle /agerstatten del Paleozoico
Inferio- re. Il sospetto di Gould è che il nostro phy/u7 non fosse tra quelli
di maggior successo nel Cambriano. Un ipotetico allibratore cambria- no non
avrebbe scommesso molto sulle sorti di questo animaletto. Attraverso Pikaia
scorgiamo allora una sottile connessione fra la de- cimazione di Burgess e la
successiva evoluzione del nostro piano ana- tomico fondamentale. Abbiamo un
controfuturo equiprobabile, in cui la presenza umana poteva non essere
contemplata. Il messaggio di Pikaza è adottato da Gould come icona della con-
tingenza storica. Il piccolo cordato di Burgess raccoglie in un singo- lo
episodio il senso che un approccio non progressionista all’evolu- zione
assegna, secondo Gould, alla «natura della storia». Se riavvol- giamo il film
della vita e Pikaza, per ragioni che a posteriori potrem- mo ricostruire senza
difficoltà, non sopravvive, il suo discendente Homo sapiens potrebbe non fare
mai la sua comparsa sul palcosce- nico della biodiversità. Noi siamo dunque
figli di Pikaz4, cioè, per Gould «figli di pura storia». Qualcuno invece
ritiene che questa interpretazione sia inaccetta- bile ed è proprio lo stesso
Conway Morris che inizialmente era stato attratto dall’idea di contingenza
evolutiva e dall’esercizio di imma- ginare controfuturi alternativi, simulando
il destino della biosfera se anziché la famiglia dei vermi policheti (oggi
dominante) fosse pre- valsa nel primo Cambriano quella dei vermi priapulidi
(oggi relega- ti in nicchie inospitali e minoritarie, ma al tempo di Burgess il
grup- po più numeroso e specializzato). Ribaltando ciò che aveva scritto fi- no
al 1989, Conway Morris iniziò nel 1993 i suoi tentativi di ricon- 205 durre la
filogenesi dei primi animali, in chiave gradualista e progres- sionista, a
forme precedenti e seguenti, in alcuni casi con successo. Il messaggio circa la
natura contingente della storia evolutiva, let- to da Gould nei fossili della
Burgess Shale, fu duramente contestato anche da Dawkins, che finì ben presto
per conquistare alla sua vi- sione adattazionista Conway Morris, il quale nel
1998, in The Cruci- ble of Creation, mosse una critica a tutto campo al modello
di Gould. Secondo l’autore de I/ gene egoista, l'approccio di Gould contiene un
errore di partenza che ne inficia tutta la struttura argomentativa: non
considera la crescita della complessità di adattamento degli or- ganismi nel
corso del tempo. A suo avviso è innegabile che esista una tendenza nella storia
della vita verso una complessità adattativa cre- scente. La vita oggi ha
raggiunto livelli di complessità incomparabili rispetto a quelli di decine di
milioni di anni fa e può dunque essere definita a tutti gli effetti come un
progresso cumulativo. Conway Morris rincarò la dose e rilesse l’intera storia
dello sca- vo di Burgess come una costruzione di piani anatomici adattativa-
mente ottimali e diede un peso preponderante all'idea di conver- genza
funzionale, a suo avviso in grado di scardinare qualsiasi ipote- si di
contingenza evolutiva. Esistono complessi adattativi ottimali, come i sistemi
di visione, che non possono essere sorti per motivi contingenti, ma per
un’evoluzione parallela spinta da stringenti ra- gioni funzionali. Altri studiosi
invitano però alla prudenza: il peso delle convergenze adattative potrebbe
essere esagerato dal fatto che non conosciamo una base genetica omologa o più
semplicemente dal fatto che non calcoliamo tutti i casi in cui, pur a parità di
condizio- ni, non si genera tale convergenza. I problemi relativi a queste tesi
sono due: definire con una certa precisione e oggettività la «complessità» di
un organismo o di un cla- de; spiegare le ragioni evolutive di questo trend
verso una comples- sità crescente. Dawkins propone di utilizzare la definizione
algorit- mica di complessità del matematico Gregory J. Chaitin: con essa in-
tendiamo la lunghezza della descrizione formale di una struttura or- ganica.
Secondo McShea, invece, la complessità di una struttura è data dal numero delle
parti componenti unitamente al loro grado di differenziazione e non funziona
come criterio di progresso generale nella storia della vita. Ma queste
definizioni rendono bene quando si tratta di comparare strutture abbastanza
simili e imparentate l’una all’altra, falliscono se si tratta di confrontare
organismi molto diver- 206 si come un batterio e un mammifero perché la
decisione circa il gra- do di dettaglio della descrizione è arbitraria. Le
cause del presunto «progresso» della complessità non sono meno problematiche.
Su due punti Gould e Dawkins concordano. Entrambi accettano l’idea che nella
storia della vita siano comparsi organismi più complessi dei precedenti: un
mondo in cui esistono soltanto alghe azzurre unicellulari è decisamente più
semplice di un mondo in cui scorazzano predatori e prede pluricellulari, dotati
di sistema nervoso e con decine di migliaia di geni nel loro corredo. En-
trambi, del resto, concordano che spesso le definizioni correnti di complessità
strutturale sono viziate da un pregiudizio antropocen- trico: essendo la
complessità una caratteristica delle nostre descri- zioni del mondo piuttosto
che del mondo in quanto tale, la pietra di paragone in ambito evolutivo rischia
sempre di essere la specie uma- na, ritenuta espressione della massima
complessità neurale e com- portamentale. I due si dividono però sulla nozione
di progresso. Per Gould non esistono surrogati di complessità in grado di
resuscitare l’idea di progresso nella teoria dell’evoluzione. Per Dawkins invece
l'evoluzione è progressiva perché nel corso del tempo la vita è di- ventata più
adatta alle nicchie ambientali grazie all’azione della sele- zione naturale: le
modalità attraverso le quali gli organismi sono pro- gettati hanno giovato di
un graduale e costante miglioramento. Nell’ottica dell’adattazionismo
esplicativo di quest’ultimo, è pos- sibile comparare gradazioni differenti di
fitness non soltanto fra or- ganismi, ma anche fra popolazioni coetanee e fra
specie lontane mi- lioni di anni, anche se le loro morfologie e i loro ambienti
sono no- tevolmente diversi. La spinta al progresso è data, a livello degli or-
ganismi e delle popolazioni, dalla selezione naturale, mentre a livel- lo
macroevolutivo dalla competizione e dalle «corse agli armamen- ti» (4775 races)
ingaggiate dalle linee di discendenza genetiche. Fin- ché non viene interrotta
da estinzioni di massa, l’escalation compe- titiva fra i lignaggi genici spinge
a un miglioramento costante degli adattamenti. Vi è dunque una proprietà
generale di adattatività (adaptedness), di buon adeguamento fra specie e
nicchie, che au- menta nel tempo, può essere misurata e va di pari passo con la
com- plessità progettuale degli organismi. Ciò varrebbe, secondo l’ipote- si
della «intelligenza machiavellica», anche per le capacità sociali del sistema
cognitivo umano, frutto di una corsa agli armamenti fra po- polazioni umane
intente a eludere gli altri e a non farsi eludere. Il problema della nozione di
adattatività crescente risiede però nella 207 sua astrattezza e nella sua
apparente indipendenza da qualsiasi cam- biamento nelle nicchie e nel rapporto
fra organismi e nicchie. Pos- siamo afferrarla facilmente se immaginiamo il
progresso di adattati- vità in una linea di discendenza immersa nello stesso
ambiente (i mi- metismi migliorano, le strategie di difesa si raffinano, e così
via), ma diventa molto più laborioso definirla sulla scala larga della macroe-
voluzione. Essa non tiene conto della relazione di co-costruzione fra organismi
e nicchie sul lungo periodo. Nel 1996, in Fu/! House, Gould propose una critica
radicale dell’idea di progresso nell’evoluzione, rifiutando di considerare la
crescita di complessità, adattativa o strutturale, come una tendenza cumulativa
e direzionale. La comparsa di organismi più complessi dei predecessori è un
dato di fatto, ma non implica l’esistenza di una tendenza globale: è piuttosto
un effetto prospettico, un risultato sta- tistico collaterale dell’allargamento
dello spettro di variazione. Dato che la vita ai suoi esordi è allo stadio di
minima complessità possibi- le, l'esplorazione occasionale di nuove forme per
differenziazione di specie non potrà che spostarsi verso livelli di complessità
maggiore. Se il punto di origine è al minimo di complessità, ogni evoluzione successiva
non potrà che «apparire» come una crescita di comples- sità adattativa e
strutturale, ma in realtà è soltanto l’esito della diffu- sione passiva e
casuale di varietà a partire da un minimo statistico. Come un ubriaco che
cammina ondeggiando su un marciapiede con un muro alla sinistra prima o poi
finirà per cadere in strada, l’evolu- zione produce una «coda» di organismi che
esplorano livelli di com- plessità più alti verso destra. Dunque il progresso
sarebbe solo un'illusione prodotta da un meccanismo stocastico del tutto cieco
al valore adattativo della com- plessità degli organismi. Lo dimostrerebbe il
fatto che gran parte del- la vita si mantiene ancora oggi vicina al muro
sinistro di minima com- plessità e che questa biomassa di esseri viventi semplicissimi
risulta adattata in modo molto robusto e flessibile ad ambienti diversissimi e
spesso inospitali. Oggi sappiamo che alcuni batteri sono in grado di
sopravvivere a condizioni fisiche estreme (estremofili), alle quali qual- siasi
altro organismo «complesso» soccomberebbe. Su altri pianeti oggi cerchiamo
qualcosa di simile a batteri, non alieni complessi. Non solo, sappiamo che i
cicli di autoregolazione del pianeta dipendono in gran parte da questi
protagonisti silenziosi allo stadio minimo di «progresso» e che la loro
estinzione metterebbe a repentaglio la so- pravvivenza dell’intera panoplia di
organismi complessi. Viceversa, 208 se questi ultimi si estinguessero (noi
compresi, sulla punta della coda destra) la loro evoluzione proseguirebbe indisturbata
verso altre «passeggiate dell’ubriaco» (drurzkard’s walk model). L’elegante
modello statistico di Gould e la sua critica all’idea di una complessità
adattativa media in crescita rianimarono le polemi- che su evoluzione,
progresso e complessità. Mentre Dawkins si li- mitò a ribadire la potenza
predittiva del suo adattazionismo esplica- tivo, la reazione di Maynard Smith e
del collega Fors Szathmary (già proposta nel 1995) entrò nel merito del modello
gouldiano e ne col- se un punto debole. Lo schema della «passeggiata
dell’ubriaco» pre- vede un muro di sinistra fisso e la creazione di code
statistiche a de- stra, ogni volta diverse in virtù del principio di
irreversibilità e con- tingenza evolutiva. La complessità ha un limite minimo
intrinseco, ma non un limite massimo. L’obiezione di Maynard Smith e Szath-
mary puntò proprio su questa assunzione, che a loro avviso non te- neva conto
del fatto che le condizioni all’interno delle quali l’evolu- zione si realizza
cambiano anch'esse nel tempo: l'evoluzione evolve. I muri di complessità si
spostano, non restano fissi, e ciò permette di reintrodurre una direzionalità
nell'evoluzione e una successione di «grandi transizioni» nell’informazione
biologica riconoscibili come passaggi chiave di questa «evoluzione dell’evoluzione».
La critica risulta particolarmente efficace perché tiene conto pro- prio degli
effetti circolari e costruttivi che si instaurano fra gli orga- nismi e gli
ambienti che essi contribuiscono a trasformare in una re- lazione di
persistente coevoluzione. Se accettiamo questa idea di re- ciproca costruzione,
allora i vincoli di complessità evolvono neces- sariamente insieme alla vita,
producendo a loro volta nuove possibi- lità evolutive e pregiudicandone altre.
La comparsa dei pluricellula- ri ha abbattuto un muro di complessità massima, a
destra, che limi- tava lo sviluppo degli eucarioti. L'emergenza della
differenziazione cellulare, degli organismi, del sesso e poi delle colonie di
organismi ha ulteriormente spostato il muro di destra. Nell’altra direzione, la
vita batterica, sfruttando la complessità degli organismi alla sua de- stra, ha
sviluppato forme di vita virale e prionica che si trovano a uno stadio di
complessità addirittura inferiore: anche il muro di sinistra quindi si è
spostato. Non è detto che con il passare del tempo le po- tenzialità evolutive
crescano progressivamente, possono anche di- minuire, come mostrerebbe
l’ipotesi della cristallizzazione dei vin- coli genetici e di sviluppo
successiva all'esplosione cambriana, ma si tratta pur sempre di un’evoluzione
dell’evoluzione. Dunque il mo- 209 dello di Gould cade in contraddizione
laddove non tiene in consi- derazione l'evoluzione dell’evolvibilità, un
aspetto fondamentale sottolineato con forza anche nell’opera di Kauffman. Ciò
che prima non era possibile ora lo è, e viceversa. I muri di complessità,
minima e massima, sl spostano. Molte di queste controversie nascono dal fatto
che il tema della contingenza evolutiva è legato, in Gould, a due questioni
piuttosto diverse. Il potere causale del singolo evento, sia esso l'impatto
dell’asteroide o la sopravvivenza di Pikaza, e l'impossibilità di asso- ciare
la crescita di complessità degli organismi a una necessità in- trinseca della
storia naturale hanno come obiettivo finale la critica dell’idea di progresso
nell’evoluzione in ogni variante possibile, con i punti deboli che abbiamo
visto. Ma in un’accezione più profonda la contingenza evolutiva è un modo per
definire la reciproca in- fluenza della storia, della selezione naturale e dei
vincoli, fisici e strutturali, che limitano il potere della prima e della
seconda. È cioè una questione che tocca il nocciolo teorico individuato, con
un’altra terminologia, da Darwin e da Asa Gray nella loro corrispondenza: dove
comincia il regno delle leggi naturali e dove finisce quello del- la
singolarità storica. Il grado di contingenza di un percorso evoluti- vo dipende
dalla scala alla quale lo osserviamo: ciò che a una grana fine di dettaglio ci
appare contingente può invece appartenere a un pattern più ampio di regolarità.
L'opzione di Gould è quella di un operato della selezione naturale e di
un’influenza dei vincoli così in- dulgenti da permettere soluzioni di dettaglio
pressoché indominabi- li e comunque imprevedibili a priori. Nelle apologie dei
dettagli re- se celebri dai suoi saggi di storia naturale, l’ultima parola
spetta sem- pre alla storia. Altri filosofi della biologia collocano invece il
potere vincolante dei pattern ripetuti a un livello più alto. Kim Sterelny ha
definito efficacemente queste differenze attra- verso il termine di «resistenza
controfattuale». Il grado di contin- genza che attribuiamo a un processo
evolutivo è dato dalla sua resi- stenza ai contropresenti alternativi. Se
qualsiasi dettaglio facesse de- ragliare il percorso su altri binari e verso
prodotti finali diversi, non vi sarebbe alcuna resistenza controfattuale e non
esisterebbe una spiegazione di processo «robusta»: esisterebbero soltanto
storie ef- fettive, singolari, sequenze irripetibili di eventi la cui spiegazione
sa- rebbe lunga tanto quanto il processo stesso. La «teoria» dell’evolu- zione
coinciderebbe con una descrizione infinitamente dettagliata dell’evoluzione
stessa, perché non potrebbe selezionare, come ogni 210 teoria inevitabilmente
fa, i dettagli pertinenti da quelli ininfluenti. All’estremo opposto, se
qualsiasi scenario alternativo conducesse al medesimo risultato, la resistenza
controfattuale sarebbe massima e la spiegazione sarebbe non solo robusta, ma
anche deterministica. Nella gamma di soluzioni intermedie si situano le
filosofie della sto- ria che sottendono i diversi approcci alla teoria
dell'evoluzione con- temporanea. Purtroppo il test del «film della vita» non ha
valore em- pirico. COSA LEGGERE... Il famoso articolo dei pennacchi di San Marco
è disponibile nella tradu- zione italiana di Marco Ferraguti: S.J. GOULD, R.C.
LEWONTIN, I per- nacchi di San Marco e il paradigma di Pangloss: critica al
programma adat- tazionista, www.Einaudi.it, Torino 2002 (ed. or. 1979). Un
aggiorna- mento del dibattito fra alcuni protagonisti della polemica
sull’adattazio- nismo si trova in J. BROCKMAN, La terza cultura. Oltre la
rivoluzione scien- tifica, Garzanti, Milano 1995. Lo studio critico
dell’articolo dei pennac- chi in termini di retorica scientifica è condotto da
diversi autori in: J. SEL- ZER (a cura di), Understanding Scientific Prose,
University of Wisconsin Press, Madison 1993. Fra
i saggi più corrosivi: A.I. HOUSTON, «Are the Spandrels of San Marco Really
Panglossian Pendentives?», in Trends în Ecology and Evolution, XII, 1997, p.
125; D.C. QUELLER, «The Spaniels of St. Marx and the Panglossian Paradox», in
The Quarterly Review of Biology, LXX, 1995, pp. 485-89. Un
aggiornamento della discussione si trova nell’opera di S.J. GOULD, La struttura
della teoria dell'evoluzione, Codice Edizioni, Torino 2003 (ed. or. 2002). La
concezione costruttivista e pluralista dell'adattamento di Richard C. Lewontin
è ben delineata in Adattamento, in Enciclopedia Einaudi, To- rino 1977, vol. 1,
pp. 198-214; L'adattamento, in V. PARISI, L. ROSSI (a cu- ra di), Adattamento
Biologico, Quaderni di Le Scienze, 1978, XXVII, 1985, pp. 3-13. Sul concetto di vincolo in chiave antiadattazionista:
R. AMUNDSON, «Two Conceptions of Constraint», in D.L. HULL, M. RUSE (a cura
di), The Philosophy of Biology, Oxford University Press, Oxford- New York 1998.
I rischi delle «storie proprio così» nell’evoluzionismo sono
affrontati in M.D. HAUSER, The Evolution of Communication, MIT Press, Cambridge
(Mass.) 1996. I lavori di Evelyn G. Hutchinson sul concetto di nicchia
ecologica ri- mangono un punto di riferimento molto attuale: The Kindly Fruits
of the Earth. Recollections of an Embryo Ecologist, Yale
University Press, New 211 Haven-London 1978a; Introduction to Population
Ecology, Yale Univer- sity Press, New Haven-London 1978b. Sull’idea di
coevoluzione fra or- ganismi e nicchie si vedano anche: R. BRANDON, Adaptation
and Envi- ronment, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1990; W.H. DURHAM, Coevolu-
tion, Stanford University Press, Stanford 1991; P. GODFREY-SMITH, Complexity
and the Function of Mind in Nature, Cambridge University Press, Cambridge 1996.
L'ipotesi della Regina Rossa di Leigh Van Valen è esposta in: «A New
Evolutionary Law», in Evolutionary Theory, VII, 1973, pp. 93-106; «A Theory of
Origination and Extinction», in Evolutionary Theory, X, 1985, pp. 1-13. La
teoria genocentrica della funzione come «propensione» è in: J. BI- GELOW, R.
PARGETTER, «Functions», in Journal of Philosophy, LIV, 1987, pp. 181-96. La
logica e la metodologia adattazioniste per ottimizzazio- ne sono abbracciate
con entusiasmo da DANIEL DENNETT, L'idea perico- losa di Darwin. L'evoluzione e
i significati della vita, Bollati Boringhieri, Torino 1997 (ed. or. 1995). Sul
grado di falsificabilità del «programma di ricerca» adattazionista cfr.
l’ottima raccolta STEVEN ORZACK, ELLIOTT SOBER (a cura di), Adaptationism and
Optimality, Cambridge University Press, Cambridge 2001, all’interno della quale
vi è anche il saggio di GODFREY-SMITH sui tre tipi di adattazionismo. Il ruolo
della cladistica nel valutare le ipotesi adattative è preso in considerazione
in un’altra impor- tante raccolta: P. EGGLETON, R. VANE-WRIGHT (a cura di),
Phylogenetics and Ecology, Academic Press, London 1994. L'intreccio di
strutture e funzioni nella filosofia della storia naturale è indagato nella
raccolta JOHN BINTLIFF (a cura di), Structure and Con- tingency, Leicester
University Press, London 1999. Stuart Kauffman
discute dell’idea di exaptation nel suo Investigations, Oxford University
Press, Oxford-New York 2000. Dello stesso autore: The Origins of Order.
Selforganization and Selection in Evolution, Oxford University Press,
Oxford-New York 1993; A casa nell'universo, Editori Riuniti, Roma 2001 (ed. or.
1995). Sui processi di emergenza e au- torganizzazione in biologia si
veda anche R. SOLÉ, B. GOODWIN, Signs of Life, Basic Books, New York 2000. Il
progetto ambizioso di definire una biologia universale fondata sul- le leggi
della complessità è discusso nelle tre raccolte del Santa Fe Insti- tute:
CHRISTOFER G. LANGTON (a cura di), Artificial Life (I, II, III), Ad-
dison-Wesley, Redwood City (Cal.) 1989, 1992, 1994. Altre collettanee
importanti sull'argomento sono: C. EMMENECHE (a cura di), The Garden in The Machine,
Princeton University Press, Princeton (NJ) 1994; M. Bo- DEN (a cura di), The
Philosophy of Artificial Life, Oxford University Press, Oxford-New York 1996.
Si vedano anche al proposito S. WOLFRAM, A New Kind of Science, Wolfram Media,
Champaign (Il1.) 2002; G. JOHN- 212 son, Sizzetrie, Instar Libri, Torino 2002
(ed. or. 1995); K. KELLY, Out of Control, Apogeo, Milano 1996 (ed. or. 1994).
Complessità adattativa e progresso, associati da Dawkins in A//a con- quista
del monte improbabile, Mondadori, Milano 1997 (ed. or. 1996) e in altre opere,
sono discussi criticamente da Gould attraverso il modello della «passeggiata
dell’ubriaco» in Gt alberi non crescono fino in cielo, Mondadori, Milano 1997
(ed. or. 1996). La risposta di DAWKINS è stata ripubblicata in I/ cappellano
del diavolo, Cortina, Milano 2004 (ed. or. 2003). Il superamento dell’obiezione
di Gould in termini di «evolvibilità» è stato efficacemente proposto da JOHN
MAYNARD SMITH ed EOoRS SZATHMARY in The Major Transitions in Evolution,
Freeman, New York 1995 e implicitamente in Le origini della vita, Einaudi,
Torino 2001 (ed. or. 1999). La critica serrata del concetto di contingenza
evolutiva da pat- te di CONWAY MORRIS e l’ipotesi radicalmente opposta
dell’inevitabilità dei prodotti adattativi attuali sono contenute in Life's
Solution. Inevita- ble Humans in a Lonely Universe,
Cambridge University Press, Cam- bridge 2003. In tema di evolvibilità si veda
anche J. GERHART, M. KIRSCHNER, Cells, Embryos and Evolution, Blackwell, London
1997. Il pluralismo esplicativo di KIM STERELNY è proposto in «Explana- tory
Pluralism in Evolutionary Biology», in Biology and Philosophy, XI, 1996, pp.
193-214. Capitolo settimo L’evoluzione del comportamento umano:
sociobiologia, psicologia evoluzionista ed ecologia Evoluzione, cultura e
società rappresentano un intreccio cruciale per la filosofia della biologia. Il
tema del rapporto fra biologia ed eti- ca, in particolare, non ha mai smesso di
generare controversie a par- tire dalla pubblicazione dell’Origizze dell’uomo
di Darwin nel 1871. Dalla teoria dell'evoluzione del comportamento umano sono
state fatte discendere implicazioni morali pressoché di ogni orientamen- to, in
una gamma continua che va dalla più severa lotta per la so- pravvivenza in un
mondo competitivo alla cooperazione armoniosa fra partner in un ecosistema
equilibrato. Le cautele di Darwin stes- so, secondo il quale la morale umana
attuale doveva avere certa- mente un carattere adattativo ma riferito a
contesti ambientali ormai superati e dunque da non prendere «alla lettera»,
furono amplifica- te da Thomas Huxley, il cui scetticismo circa la presunta
relazione di parentela fra evoluzione ed etica divenne piuttosto radicale.
Dell’avviso contrario fu Herbert Spencer, che non esitò ad associa- re
l’evoluzionismo a una teoria del progresso universale, tanto bio- logico quanto
sociale, spinto da una rigida logica selettiva. 1. Naturalismi La gamma delle
posizioni su questo delicato argomento è oggi piut- tosto ampia. I sociobiologi
ritengono che la spiegazione evoluzioni- stica sia decisiva per comprendere
aspetti centrali della psicologia umana e della vita sociale. Tuttavia, essi si
affidano a una visione dell'evoluzione fortemente selezionista e funzionalista,
non da tutti condivisa neppure nel suo alveo biologico originario, tanto che il
lo- ro approccio adattazionista li spinge spesso a speculazioni molto fra- gili
sul piano sperimentale (Kitcher, 1985). Altri scienziati, come il genetista
Luigi Luca Cavalli Sforza, hanno proposto di applicare 214 modelli evolutivi di
tipo matematico allo studio delle trasformazio- ni culturali, aderendo però a
una visione del processo evolutivo di ti- po non genocentrico: secondo Cavalli
Sforza selezione, mutazione, migrazione e deriva sono meccanismi utili, pur con
le dovute diffe- renze, per comprendere non soltanto l’evoluzione della
biologia umana ma anche la storia delle sue diversità culturali originatesi at-
traverso una lunga sequenza di innovazioni, diffusioni, migrazioni e
ibridazioni (Cavalli Sforza, 2004). Altri ancora, come Richard C. Lewontin,
sono invece convinti che vi sia una barriera insormontabile fra le due
dimensioni: da quando l'evoluzione biologica ha dato origine a una specie
capace di cultura si è generata un’inversione adattativa che fa sì che siano
pro- prio le nostre culture a stabilire tutti i tratti più importanti della no-
stra psicologia e della nostra vita sociale (Levins, Lewontin, 1985), quindi la
teoria evoluzionistica può dirci qualcosa su come e quan- do abbiamo sviluppato
le capacità potenziali di essere una specie culturale, ma ha ben poco di
interessante da offrire per capire in che modo siano organizzate le nostre
culture. Teoria dell'evoluzione bio- logica e teoria dell'evoluzione culturale
riguarderebbero quindi due domini distinti e complementari. La rinuncia alla
distinzione fra «questioni di fatto», legate alla co- stituzione materiale del
mondo naturale, e «questioni di valore», le- gate alle norme morali che
garantiscono la convivenza umana, è stata definita da alcuni studiosi «fallacia
naturalistica», una sorta di errore inferenziale e categoriale, ma il dibattito
continua ancora oggi e vede fronteggiarsi due posizioni abbastanza simili a
quelle originali. Alcu- ni filosofi della biologia rimangono convinti di poter
dedurre dalla teoria dell'evoluzione insegnamenti morali o quanto meno
indicazio- ni utili per comprendere la costituzione del sentimento morale uma-
no (Ruse, Wilson, 1986), altri continuano a ritenere questo passaggio rischioso
o nella migliore delle ipotesi inutile (Sober, a cura di, 1994). Alcuni
ritengono che i due domini esplicativi, quello biologico e quel- lo delle
scienze sociali, siano complementari, altri li ritengono incom- patibili. Una
posizione più equilibrata sembra quella di chi ritiene che una spiegazione
evoluzionistica possa essere efficace per compren- dere il sentimento morale
umano e la capacità di condividere norme morali, ma non per fondare
estensivamente su fattori biologici i siste- mi morali umani (Boniolo, 2003).
Fra i primi, tuttavia, è importante distinguere coloro che riten- gono
possibile «fondare» il sistema delle credenze morali su fatti 215 biologici e
coloro che più moderatamente ritengono che le scienze del vivente possano
offrire suggerimenti e indicazioni inedite per elaborare principi morali e per
risolvere problemi gnoseologici, il cui statuto rimane però irriducibile alla
dimensione biologica. Occorre inoltre tenere presente che l’interferenza fra
biologia e temi di ca- rattere morale, politico e sociale assume connotati
molto diversi in base ai presupposti filosofici di fondo, riguardanti
l'evoluzione ma anche il modello di società a cui si guarda. Inoltre, la
distinzione fra nudi fatti e valori ideali difficilmente resi- ste a una
rigorosa analisi filosofico-scientifica. I fatti biologici e gene- tici sono
oggi più che mai «carichi di teoria». Viceversa, non è ben chia- ro quale
significato possa avere nella nostra epoca una riflessione filo- sofica che
ignori completamente gli avanzamenti sorprendenti della ri- cerca nelle scienze
della vita. Pare, insomma, che le teorie biologiche possano assumersi un ruolo
quanto meno di vincolo rispetto alle ipo- tesi elaborate dalle scienze sociali.
Del resto, già i quattro domini espli- cativi classici proposti dall’etologo
Niko Tinbergen nel 1963 per il comportamento animale e umano (1) L'origine
storica di un compor- tamento, 2) L'utilità attuale del comportamento, 3) Lo
sviluppo del comportamento nel corso della vita dell’individuo, 4) I meccanismi
psicologici e sociali che controllano il comportamento) non solo pre- vedevano
la possibilità di innovazioni comportamentali di tipo exatta- tivo (laddove 2
non coincide con 1), ma presupponevano un’integra- zione fra spiegazioni
evoluzionistiche e spiegazioni psico-sociali. Questo approccio pluralista
sembra il migliore antidoto contro le degenerazioni che il determinismo
biologico ha talvolta diffuso nel suo tentativo di colonizzare le scienze
sociali. Ma la sua negazione ha spesso comportato una rimozione completa del
problema stesso del- la pertinenza della biologia, e dell’evoluzionismo, per
una migliore comprensione del comportamento umano. Inoltre, il legame delica-
to fra scienze biologiche e scienze sociali si inserisce nell’oscillazio- ne,
spesso avvertibile anche nell’immaginario dell’opinione pubbli- ca, fra il
timore verso la scienza che si trasforma in sospetto e in ri- fiuto e la
difesa, talvolta arcigna e punitiva, di uno scientismo esclu- sivo. Più di
recente, alcune posizioni antiscientifiche si sono ma- scherate di pretesa
scientificità, come nel caso del cosiddetto «crea- zionismo scientifico». In
alcuni grandi evoluzionisti, come Stephen J. Gould e Richard Dawkins, pur così
lontani nelle loro visioni del processo evolutivo, l'opposizione
all’antiscientismo si nutre di moti- vazioni anti-irrazionalistiche tanto forti
da giustificare l’impegno 216 concreto in tribunale contro la manovra
filo-creazionista inscenata, ancora nel 1981 in Arkansas, per l'introduzione
nelle scuole dello Stato di una sorta di «pari condizione» fra insegnamento
dell’evolu- zione darwiniana e insegnamento della creazione biblica. In questo
troviamo d’accordo i due avversari storici della filoso- fia della biologia
contemporanea. Kim Sterelny (2001) nota che si tratta di due studiosi nati da
discipline diverse e dunque educati a metodologie, ad approcci, a filtri
teorici diversi: etologo Dawkins, quindi particolarmente interessato al
significato adattativo delle strutture organiche e del comportamento animale
attuale; paleonto- logo Gould, e dunque attratto dalla possibilità di
ricostruire traiet- torie evolutive passate a partire da frammentari indizi
fossili. Ma il nocciolo del loro dualismo non sembra riducibile a una
dimensione meramente disciplinare. Le loro appaiono come due biologie del-
l'evoluzione alternative sul piano epistemologico, due modi possibi- li di
essere neodarwiniani, due opposte filosofie della storia natura- le, dinanzi
alle quali anche la differente sensibilità verso la scienza in quanto tale
sembra sbiadire. Eppure, per Gould, come per Dawkins, vale l'insegnamento
epicureo dell’indifferenza della natura verso i nostri sistemi morali e i
nostri vezzi culturali. Ciò detto, le diverse interpretazioni della teoria
dell’evoluzione so- no associate, come abbiamo visto, a vere e proprie
«filosofie della sto- ria» alternative e ciò non può non coinvolgere i
tentativi di spiegare in termini biologici il comportamento umano. Su questo
terreno, inter- no all’evoluzionismo, lo scontro fra Gould e Dawkins raggiunse
inve- ce i suoi apici polemici. La teoria dei sistemi di sviluppo e la critica
all’adattazionismo avevano alle loro spalle, si è detto, il rifiuto del pro-
gramma sociobiologico, rinato poi negli anni Novanta in altra veste. La
tentazione di dedurre insegnamenti morali dalla sociobiologia ha in- dotto
anche in tempi recenti alcuni, come Robert Wright, a proporre un'etica critica
della contemporaneità su basi evolutive (1994) e a scre- ditare ideologicamente
gli assunti antiprogressionisti di Gould perché minaccerebbero le speranze di
dare un senso ultimo alla storia e favo- rirebbero una visione cinica e
disincantata del mondo (2001). 2. La psicologia evoluzionista Gli attacchi alla
sociobiologia vanno suddivisi in due categorie. Vi sono coloro che l'hanno
respinta in quanto progetto politico e ideo- logico di «colonizzazione» delle
scienze sociali e che rifiutano di 217 pensare che la biologia abbia alcunché
di significativo da dire a pro- posito del comportamento umano. La critica
dell’adattazionismo si trasforma in un determinismo ambientale e culturale
talvolta altret- tanto dogmatico. Vi sono invece coloro che hanno focalizzato
la lo- ro attenzione sul tipo di evoluzionismo insito nella sociobiologia e lo
hanno messo in discussione, senza escludere però che la biologia evolutiva
possa contribuire, a modo proprio e insieme ad altri sape- ri, alla
comprensione della natura umana. La nostra attenzione verrà centrata sul
dibattito nato da questa seconda posizione. Le difficoltà incontrate dal
programma sociobiologico sono sta- te sia di tipo concettuale sia di tipo
empirico. Il metodo adottato era di per sé interessante, ovvero applicare
storie selettive per tratti del comportamento umano, in particolare
presupponendo, sulla base di un’analogia con il comportamento degli animali
sociali, una diffe- renza ancestrale fra comportamenti diversi in determinate
circo- stanze ambientali, l’ereditabilità di queste differenze e la sopravvi-
venza differenziale dei portatori di varianti comportamentali capaci di
aumentare la fitness. Come abbiamo visto, questo tentativo non implica di per
sé l'assunzione del determinismo biologico o geneti- co: l’idea guida è che i
comportamenti umani sono adattamenti, a volte necessari a volte condizionati,
plasmati dalla selezione natura- le proprio come ogni altra variazione
fenotipica. I comportamenti, come le parti della morfologia, incidono sulla
fitness dell’individuo e sono ereditabili, quindi sono soggetti a selezione.
Tuttavia, come ha notato Cavalli Sforza (2004, p. 94), la sociobiologia sconta
la sua analogia iniziale con i comportamenti collettivi degli insetti eusocia-
li, api e formiche, fortemente condizionati sul piano genetico. Il problema di
metodo è che i nostri antenati ominidi sono tutti estinti e il metodo
comparativo è applicabile soltanto alle scimmie antropomorfe nostre cugine,
separate da sette milioni di anni di sto- ria evolutiva: una base cladistica
molto debole per l’analisi della di- stribuzione filogenetica dei tratti in un
gruppo. Non solo. Come ha notato il paleoantropologo Ian Tattersall, l’ambiente
in cui sono im- mersi oggi gli esseri umani è completamente diverso da quello
in cui si sono evoluti — nella dieta, nell’organizzazione sociale, nei ritmi di
vita, nello scenario ecologico — e forse non è mai nemmeno esistito un
«ambiente ancestrale» coerente. L'evoluzione umana si è svolta in un serie di
nicchie ecologiche e sociali eterogenee e miste. La critica all’adattazionismo
operata attraverso l'introduzione del concetto di exaptation si rivela quindi
piuttosto efficace per 218 smontare l’applicazione della teoria evoluzionistica
alla specie uma- na prospettata dalla sociobiologia. Se l’ambiente è cambiato
più vol- te in modo radicale, la connessione fra la storia selettiva e
l'utilità at- tuale di un comportamento è rischiosa ed è molto probabile che
ciò che oggi ha un valore adattativo si sia formato per ragioni e funzio- ni
completamente diverse e molto difficili da ricostruire. Inferire un’ipotesi
selettiva su un tratto comportamentale umano diffuso nel ventunesimo secolo è
molto più azzardato che inferire l’origine adat- tativa di un tratto
comportamentale di uno scimpanzé in uno zoo. Presupporre che vi sia una
stabilità adattativa così forte da resistere a cambiamenti ambientali tanto
profondi significa esporsi a rico- struzioni adattazioniste estremamente
speculative. Altri problemi, già percorsi nei capitoli precedenti, riguardano
l’identificazione dei tratti soggetti a selezione e la tentazione di consi-
derarli quasi tutti come «tratti mosaico», cioè non correlati ad altri in modo
significativo, «atomi adattativi» con storie selettive separate. Mentre appare
evidente che gran parte dei comportamenti umani so- no «tratti connessi», non
aggregazioni di unità indipendenti, e che le specificità umane rischiano di
vanificare molte ricostruzioni adatta- zioniste, soprattutto a proposito dei
ruoli sessuali in maschi e femmi- ne. Dall’insieme di queste perplessità ha
preso quindi avvio, nei pri- mi anni Novanta, un movimento di revisione della
sociobiologia che, pur mantenendo la visione selezionista, ha spostato l’asse
interpreta- tivo dai comportamenti ai meccanismi mentali soggiacenti. La mossa
centrale della psicologia evoluzionista è quella di non fo- calizzarsi più
sulla fenomenologia complessa dei comportamenti umani, ma di considerare come
autentiche unità di adattamento, sog- gette a storie selettive specifiche, i
meccanismi psicologici che li pro- ducono. La sociobiologia si è quindi
innestata nel programma cogni- tivista, introducendovi una connotazione
evoluzionista: la vasta gam- ma dei comportamenti umani è causata da un insieme
limitato di mec- canismi cognitivi fondamentali, i quali sono stati plasmati
dalla sele- zione naturale per il loro valore adattativo. Secondo l’antropologo
fi- sico Richard Alexander (1987), i comportamenti non sono adatta- menti
diretti, ma espressioni cangianti di capacità cognitive, queste sì intese come
adaptations. La selezione naturale predispone capacità adattative di
apprendimento e di risposta, finalizzate a massimizzare la fitness individuale
e di gruppo, che poi si declinano in comporta- menti anche molto diversi da
contesto a contesto, ma pur sempre ot- timali rispetto alle circostanze. Appare
quindi evidente, come ha no- 219 tato Philip Kitcher, che questa «antropologia
darwiniana» punta principalmente su fattori riproduttivi e su strategie di
massimizzazio- ne genica per spiegare l'emergere di meccanismi cognitivi che a
loro volta spiegano i comportamenti sociali: ne deriva una pesante inter-
pretazione evoluzionista su tre livelli sconnessi, piena di eccezioni; una
«biologia dei sistemi morali» costretta a misurare il contributo di fitness
offerto da ciascun comportamento (Kitcher, 1985). Negli anni successivi la
psicologia evoluzionista ha incontrato la teoria modulare della mente di Jerry
Fodor e ha acquisito un corpus teorico più articolato (Crawford, Smith, Krebs,
1987; Barkow, Cos- mides, Tooby, 1992), fondato sull’idea che gli «algoritmi
darwinia- ni», efficacemente descritti da Dennett qualche anno dopo, siano in
grado di spiegare non solo ciò che accomuna tutti i comportamenti e le culture
umani, ma anche le specifiche diversità riscontrate da contesto a contesto. Le
strutture cognitive alla base delle attività umane sono poche e universali,
frutto dell’evoluzione biologica per selezione naturale, e anche la loro
declinazione nelle singole culture avviene per ragioni adattative. La mente è
un insieme di meccanismi di elaborazione di informazioni evoluti, divisi per
moduli che corri- spondono ad altrettanti «algoritmi darwiniani» sorti per la
soluzio- ne di specifici problemi adattativi: riti di accoppiamento, scelta del
partner, regolazione degli scambi sociali, alimentazione, problemi logici. Ogni
algoritmo darwiniano si occupa di un dominio specifi- co di situazioni e non
viene scelto liberamente dal soggetto, si attiva da solo, automaticamente. Le
informazioni pertinenti per un modu- lo non influenzano altri moduli e il loro
funzionamento interno non è reso conscio per il soggetto. L’analisi
adattazionista di ottimalità diventa quindi il metodo per isolare i moduli
mentali o algoritmi darwiniani. Prima si identificano i problemi adattativi che
presumibilmente i nostri antenati dovevano affrontare e da essi si deducono le
soluzioni adattative escogitate, va- lide ancora oggi. Gli scarti fra il
contesto ecologico di allora e il nostro verranno quindi intesi come cause dei
«disadattamenti» e dei disagi sofferti dalla nostra specie. I retaggi di questi
adattamenti ancestrali diventano gli «istinti» attuali, anche se
controproducenti. Ma in gran parte dei casi il modulo di elaborazione delle
informazioni, e di performance corrispondente, sarà stato quello ottimale per
l’obietti- vo adattativo. Una volta ipotizzata una ricostruzione selettiva,
essa verrà quindi provata sperimentalmente individuando il meccanismo previsto,
per esempio per la fissazione dell’istinto innato del linguag- 220 gio
nell’opera di Steven Pinker. Dove la selezione naturale non ga- rantisce
ricostruzioni adattazioniste efficaci viene in soccorso la sele- zione sessuale
su base genetica, alla cui logica è ricondotta l’origine di molteplici moduli
comportamentali (Miller, 2000). Inseguire le tracce dell’operato della selezione
naturale e sessua- le sulla psicologia umana in questo modo comporta alcuni
rischi, in gran parte già evidenziati dalle critiche all’adattazionismo come
ap- proccio generale. Come ha notato il filosofo della biologia Peter
Godfrey-Smith, anche accettando che la competizione riproduttiva e la
massimizzazione genica siano i criteri prioritari, l’analisi presup- pone una
dinamica esternalista, problema-soluzione, che forse non rappresenta in modo
adeguato la relazione fra organismi e ambien- ti, soprattutto se abbiamo a che
fare con nicchie sociali e culturali, le quali coevolvono insieme ai loro
membri in modo molto stretto. La DST ha ben evidenziato come sia difficile
immaginare un ambiente invariante, composto di «problemi» precostituiti, a cui
gli organismi si adattino progressivamente. L’identificazione di singoli
«proble- mi» stabili per singoli algoritmi darwiniani specializzati è
altrettanto difficoltosa, spesso arbitraria (Griffiths, 1997). L'esistenza di
meccanismi cognitivi specializzati pone ulteriori difficoltà in un’ottica
evoluzionista: possono essere facilmente sov- vertiti da moduli diversi e non
spiegano le capacità di elaborazione integrata e fortemente automatizzata del
nostro cervello. Inoltre, ca- pacità di calcolo ed efficienza adattativa non
coincidono: gli esseri umani sono capaci di affrontare compiti estremamente
complessi come guidare un’auto, anche con informazioni insufficienti di par-
tenza; ma possono avere grosse difficoltà con compiti semplici dal punto di
vista computazionale, per il sovrapporsi di istanze, motiva- zioni, valori e
idiosincrasie che rendono assai imperfetta la loro «ra- zionalità». Senza
contare che molti problemi essenziali per la so- pravvivenza, come la
pragmatica della comunicazione, non sembra- no poter essere risolti da
meccanismi modulari, come lo stesso Fo- dor ha ammesso. E richiesta una tale
integrazione di moduli diversi da farne sbiadire i confini, e quindi l’utilità
esplicativa. Secondo Paul Griffiths, l’associazione fra adattazionismo e teo-
ria modulare della mente non riflette il carattere interattivo dell’evo-
luzione sociale e non tiene conto della reale plasticità di funziona- mento
della mente, i cui adattamenti cognitivi spesso nascono per trasformare
l’ambiente circostante piuttosto che per accomodarsi ai suoi problemi (1997).
Inoltre, rischia di non cogliere il significato 221 evolutivo di comportamenti
apparentemente non adattativi e con- trari alla logica di massimizzazione
genica, per spiegare i quali la struttura della popolazione di una specie e la
coevoluzione fra po- polazioni e nicchie potrebbero essere determinanti (Sober,
Wilson, 1998). Secondo Griffiths, lo studio naturalistico delle emozioni umane,
inaugurato da Darwin nel 1872, è un ottimo caso per verificare il po- tere e i
limiti di un approccio evoluzionistico alla mente. Nella so- ciobiologia di
Robert Trivers, le emozioni sono meccanismi eredita- ri di controllo sociale
evolutisi come adattamenti alla vita comunita- ria umana, in particolare per
regolare gli scambi sociali, per dissi- mulare intenzioni e svelare le
dissimulazioni altrui. In sostanza, le emozioni sarebbero programmi o moduli
comportamentali sorti in risposta a esigenze della nicchia ambientale e sociale
umana. Mentre Darwin fondava la sua analisi sullo studio delle espressioni
delle emozioni realmente evolutesi per poi darne una possibile spiegazio- ne
attraverso i vari exaptations intercorsi, la psicologia evoluzionista applica
un’analisi adattazionista di ottimalità che rovescia i termini: prima viene la
spiegazione selettiva specifica, poi la descrizione ad hoc del modulo
emozionale che si attaglia perfettamente alle pre- messe. Ora, è appurato che
esistono schemi emozionali pancultura- li, ma la loro universalità viene poi
declinata in una vastissima gam- ma di situazioni diverse, i «problemi»
adattativi vengono ridefiniti continuamente e sembra molto difficile trovare
singole spiegazioni adattative. Le facoltà innate della mente, in altri
termini, non ap- paiono cristallizzate in moduli adattativi specializzati,
piuttosto esse rappresentano nella specie umana una predisposizione flessibile
all’apprendimento in contesti evolutivi eterogenei (Griffiths, 1997). Più che
un catalogo di «soluzioni» per problemi adattativi preesi- stenti, esse
rappresentano, come aveva suggerito Darwin, una riser- va di riadattamenti
potenziali. 3. Dalla memetica alla teoria dell'evoluzione culturale di Cavalli
Sforza La sociobiologia e la psicologia evoluzionista fondano i loro program-
mi di ricerca sull’idea che la teoria dell’evoluzione, spiegando il com-
portamento umano in termini di adattamento, possa farci compren- dere i
meccanismi di sviluppo delle culture e delle società umane in quanto prodotti
indiretti della storia naturale di Horzo sapiens (Lums- 222 den, Wilson, 1981).
Si tratta pertanto di una strategia di riduzione me- todologica della
dimensione culturale al processo di evoluzione biolo- gica che ha dato origine
alla natura umana. Il nodo del rapporto fra bio- logia, cultura e società può
essere sciolto però anche in un altro modo, cioè intendendo la teoria
dell'evoluzione come uno schema esplicati- vo generale valido per domini
differenti. In questo caso l'evoluzione della cultura viene intesa come un
processo di cambiamento autono- mo, dotato di proprie specificità, e tuttavia
debitore alla teoria del- l'evoluzione di alcuni meccanismi esplicativi
fondamentali. Per Dawkins il parallelo fra teoria dell’evoluzione biologica e
teo- ria dell'evoluzione culturale è presto detto: come esistono nella pri- ma
le unità discrete di informazione biologica la cui diffusione com- petitiva
rappresenta la logica fondamentale del cambiamento, così nella seconda vi
saranno unità replicative di base, i 772677, con le stes- se caratteristiche.
Nelle culture umane riscontriamo variazione, so- pravvivenza differenziale ed
ereditabilità delle idee, quindi può es- sere applicata una logica selettiva
per comprendere le loro trasfor- mazioni. Nuove idee, invenzioni, tendenze,
mode, scoperte possono diffondersi in una popolazione ed essere sottoposte a
selezione. Per Dawkins esse sono a tutti gli effetti replicatori culturali che
compe- tono per la massimizzazione della loro discendenza. I memi vengo- no
copiati di generazione in generazione, subendo variazioni e for- mando
discendenze proprio come i geni. I lignaggi di memi entrano in competizione fra
loro e progrediscono. Pertanto esiste un vero e proprio processo evolutivo che
opera sulle idee. In quest'ottica la cultura umana è data da linee di
discendenza di memi, dai loro effetti popolazionali e dall’ambiente competitivo
in cui sono immersi. Non è ben chiaro quale entità si celi dietro un me- me,
forse è un’idea o un concetto nel senso di un circuito neurale o di un
enunciato verbale. Secondo David Hull (1988), una logica se- lettiva di questo
tipo governa anche l’evoluzione della scienza. Cer- tamente, si tratta della
trasposizione non soltanto di un set di mec- canismi evolutivi, ma anche di una
concezione dell’evoluzione di ti- po selezionista e adattazionista alla
cultura. La domanda è se questa transizione di dominio, al di là della
suggestione metaforica, per- metta di capire qualcosa di nuovo rispetto alla
diffusione delle idee e alle trasformazioni culturali. Le obiezioni alla
memetica riguardano la plausibilità di un paral- lelo così netto fra due
dimensioni tanto diverse. L'ambiente selettivo delle idee è molto diverso da
quello degli organismi: è molto più ve- 223 loce e subisce facilmente
trasformazioni radicali, poiché le idee ac- quisite vengono ereditate
immediatamente da chi le riceve. In condi- zioni analoghe negli ecosistemi, la
selezione naturale avrebbe luogo con molte difficoltà. Il grado di
interconnessione nel mondo delle idee èincomparabilmente maggiore che in natura
eun meme può ave- re molti antenati insieme. Le idee sono escogitate da
soggetti dotati di strategie intenzionali, mentre la teoria dell’evoluzione per
selezione naturale riguarda effetti statistici meramente demografici a partire
da mutazioni casuali. In molti campi del sapere non è scontato che l’esi- to
dell'evoluzione sia un progresso graduale di accumulo di modifi- cazioni
adattative. Inoltre, come ha notato Dan Sperber, mentre nel- la replicazione
genica la copiatura corretta è la norma e la mutazione è l'eccezione, nella
replicazione memica accade l’inverso: la trasmis- sione di idee è molto più
soggetta a variazione e la selezione cumula- tiva assai difficile (1996). Un
approccio naturalistico alla cultura può essere fecondo, ma nel caso della
memetica il parallelismo appare troppo impegnativo e il termine stesso «meme»
sembra troppo lega- to a una dimensione imitativa della trasmissione culturale.
Fatta forse eccezione per le idee scientifiche, alle quali possiamo applicare
un criterio di verosimiglianza nella descrizione di un feno- meno e altre
caratteristiche «adattative» come il potere esplicativo e la corroborazione
empirica, è veramente arduo trovare una spiega- zione della fitness di un meme
in altri settori. È difficile anche spie- gare, talvolta, perché un’idea abbia
prevalso su un’altra. L’ecologia in cui sono immerse le idee non ha pressioni
selettive stabili e non permette di calcolare la fitness prevista di un meme.
Pertanto, se- condo Elliott Sober (1992), in questo caso vale pienamente
l’obie- zione della tautologia della «sopravvivenza del più adatto»: si può
giusto dire che un meme è il più adatto perché è sopravvissuto e che chi
sopravvive è il più adatto. Una strada alternativa è stata intrapresa in anni
recenti da autori come Luigi Luca Cavalli Sforza, il quale già nel 1971, in un
testo ci- tato dallo stesso Dawkins in I/ gere egoista, aveva difeso la
possibi- lità di istituire un parallelo fra evoluzione culturale e cambiamento
genetico adottando come unità di base le idee. Di qualche interesse sono stati
anche i tentativi, da parte di Gould, di applicare la teoria degli equilibri
punteggiati e il concetto di exaptazion all'evoluzione delle idee, alla ricerca
di un fondamento comune per comprendere la creatività dei processi evolutivi in
entrambi i settori, pur così di- versi essendo quello biologico di tipo
darwiniano e quello culturale 224 di tipo lamarckiano. Tuttavia, la proposta
più esplicita di rovescia- mento della logica selezionista della memetica è
stata elaborata da Niles Eldredge, insieme a Marjorie Grene (1992), e consiste
nell’ap- plicazione di una concezione gerarchica doppia, non solo riprodut-
tiva ma anche e principalmente economica ed ecologica, alle tra- sformazioni
culturali e sociali intese come sistemi integrati e stratifi- cati soggetti a
ritmi evolutivi non uniformi. I sistemi sociali non sa- rebbero «cooperative
per la riproduzione», ma «ibridi» economico- riproduttivi. Anche il punto di
partenza dello studio scientifico dei fenomeni culturali di Cavalli Sforza è
diverso da quello di Dawkins: l’evolu- zione culturale viene intesa come un
processo trasformativo auto- nomo, non riducibile a fondamenti meramente
genetici o biologici né a una logica evolutiva di tipo strettamente
selezionista e adatta- zionista (2004). L’accento è posto sulle origini della
diversità cultu- rale, sulla possibilità di elaborare modelli matematici della
sua tra- smissione (Cavalli Sforza, Feldman, 1981) e sulla fecondità dell’uti-
lizzo interdisciplinare di modelli evolutivi sorti in ambito biologico. Tutte
le differenze fondamentali fra evoluzione biologica ed evolu- zione culturale
prima elencate vengono accettate, tuttavia si ritiene che la teoria
dell'evoluzione possa fornire schemi generali di com- prensione utili anche in
altri campi. La similitudine fra i due domi- ni è giocata attraverso l’applicazione
comparata dei quattro mecca- nismi evolutivi fondamentali, verticali e
orizzontali: mutazione, sele- zione, migrazione e deriva, agenti sui «tratti o
caratteri culturali» poi definiti più semplicemente «idee». Anche il
cambiamento culturale si divide, infatti, in una trasmissione verticale, di
tipo familiare e ten- denzialmente conservativa, e in una trasmissione
orizzontale, da uno a molti o da molti a uno, che riunisce le varie modalità
«epidemiche» di diffusione delle idee. La storia della cultura, come quella
natura- le, è una storia di innovazioni e della loro diffusione differenziale.
Vengono presi in considerazione non soltanto gli influssi della ge- netica sul
comportamento umano, intesi come vincoli minimali che predispongono un’ampia
gamma di possibilità, ma anche gli influs- si reciproci dell'evoluzione
culturale sulla natura biologica della spe- cie umana. Questa coevoluzione fra
geni e cultura non impedisce che diversità culturale e diversità genetica
abbiano un pattern inver- tito: la prima è molto alta fra gruppi diversi e
bassa all’interno di cia- scun gruppo; la seconda è mediamente più alta fra
individui dello 225 stesso gruppo. Tuttavia, possedendo la cultura un forte
valore adat- tativo, è soggetta a fattori evolutivi analoghi a quelli
biologici. Nella teoria dei fattori di evoluzione culturale di Cavalli Sforza
l’unità di trasmissione sono le idee, intese come unità discrete di at- tività
cerebrale. La mutazione è sostituita dall’invenzione di nuove idee,
dall’innovazione, dalla perdita o dalla trasformazione di idee preesistenti.
Come i geni, le idee si autoriproducono e si diffondono nelle popolazioni,
anche se il processo di invenzione non è casuale ma è la risposta a un bisogno
o l’esito di un progetto. Il drift si veri- fica quando il singolo portatore di
un’idea è in grado, per autorità o per una moda, di imporla a una popolazione
intera e di condizio- narne l’evoluzione futura. La migrazione presenta le
stesse caratteri- stiche in un dominio e nell’altro, trasferendo geni e idee
insieme. In- fine, la selezione compare sia come forza trasformatrice,
filtrando le idee in competizione fra loro, sia come forza conservatrice,
attraver- so i molteplici meccanismi di inibizione delle novità culturali.
Questa delicata modulazione di analogie e di differenze fra il do- minio
genetico e il dominio culturale, unita alla considerazione dei processi di
coevoluzione e di influenza reciproca fra i due ambiti, as- sume oggi una forte
valenza euristica per gli studi futuri e potrebbe permettere di superare i
vicoli ciechi derivanti dall’applicazione in- terdisciplinare di approcci
evoluzionisti unilaterali e poco critici. Ciò vale in particolare per i casi in
cui il comportamento umano, e in par- te quello di altri animali, manifesta
caratteristiche «irrazionali» o contrarie al principio di selezione competitiva
che scegliamo come criterio guida per rappresentare l’evoluzione. In tal senso,
le emo- zioni troverebbero la loro ragione evolutiva nel contrastare i calcoli
razionali di utilità immediata per ottenere un vantaggio più a lungo termine,
dato da motivazioni, valori e impegni verso se stessi e ver- so gli altri
(corzzzitment model of emotions). Questa ipotesi sembre- rebbe suffragata dalle
scoperte recenti sulla imprevedibilità delle scelte umane in contesti di
simulazione e sul bilanciamento dei ruo- li nei giochi teorici. 4. L’enigma
dell’altruismo in natura Nonostante l’appello epicureo all’indifferenza della
natura prima ri- chiamato, vi sono dibattiti, ai confini fra scienza ed etica,
che hanno attraversato l’intera storia della filosofia della biologia: primo
fra tut- ti, quello riguardante l'evoluzione dell’altruismo e la possibilità
che 226 comportamenti di spontanea «gratuità» possano esistere in natura. Il
problema di spiegare gli atti di altruismo che riscontriamo in mol- te specie,
oltre che nella nostra, diventa particolarmente significati- vo se adottiamo
una prospettiva «genocentrica» come quella di Dawkins e dei sostenitori del
programma sociobiologico. Se gli or- ganismi sono macchine da sopravvivenza
costruite dai loro geni di generazione in generazione significa che la loro
funzione si riduce al- la massimizzazione di tale trasmissione nel tempo:
devono produrre e diffondere il maggior numero possibile di copie dei loro geni
nel- la linea di discendenza. Nel caso della specie umana, tuttavia, la
costruzione teorica si fa ardita, perché la spiegazione in termini di selezione
genica acquista una spiccata universalità. Se gli esseri umani sono macchine da
so- pravvivenza per i loro geni, allora la totalità dei comportamenti uma- ni
deve essere stata progettata per offrire un beneficio ai geni che si lasciano
trasportare da «veicoli» più o meno efficaci. I geni sono l’unità primaria di
selezione, dunque un comportamento ha un sen- so adattativo solo se è in
qualche modo immagazzinato nei geni e dunque trasmissibile. I soggetti con un
comportamento alimentare o sessuale o sociale più congeniale alla diffusione
dei loro geni pre- valgono e trasmettono il loro vantaggio alla discendenza a
scapito dei geni connessi a comportamenti disadattativi. Il gene è egoista e
cie- co nella sua attività di costante proliferazione intergenerazionale. Il
gesto altruistico, dunque, rappresenta un apparente paradosso in questa logica
fondata sulla competizione fra singoli. Se un indivi- duo sacrifica il proprio
interesse immediato per arrecare un vantag- gio a un altro, saranno i geni di
quest’ultimo ad avere più chance di diffusione. Come può l'evoluzione per
selezione naturale, fondata sul vantaggio egoistico individuale, tollerare
l’esistenza di compor- tamenti altruistici che a volte si spingono fino
all’autosacrificio? Una prima risposta, con una lunga tradizione alle spalle,
si basa sull’os- servazione che in gran parte dei casi il comportamento
altruistico è rivolto a membri della stessa specie o quanto meno dello stesso
grup- po. Si può dunque ipotizzare che gli adattamenti degli organismi non
siano esclusivamente individuali, ma che possano esistere adat- tamenti che
favoriscono la sopravvivenza del gruppo nella sua inte- rezza o addirittura
della specie. Il tema dell’altruismo rimanda allo- ra alla questione delle
unità di selezione e alla definizione di quali siano gli interattori effettivi
nell'evoluzione, poiché una simile spie- gazione presuppone che esistano gruppi
di organismi in grado di 227 svolgere la funzione di interattori in modo
indipendente dal vantag- gio egoistico dei singoli. Se una scimmia emette un
verso di allarme quando avvista un predatore si comporta in modo decisamente poco
adattativo per se stessa, poiché attira l’attenzione del cacciatore su di sé e
permette ai compagni di mettersi in salvo. Un comportamento egoistico sugge-
rirebbe che ciascuna scimmia facesse per sé e si desse alla fuga in or- dine
sparso: le più agili e scaltre sopravvivranno. La scimmia che dà allarme
esibisce un comportamento rischioso per l'individuo, ma utile per il gruppo di
appartenenza, dunque deve esistere una sorta di «selezione a livello di gruppo»
che permetta l’emergere di tali comportamenti nell’evoluzione. Evidentemente i
gruppi di scimmie altruistiche che si aiutano e si avvisano a vicenda hanno più
possibi- lità di sopravvivenza dei gruppi di scimmie egoiste dove ciascuna fa
per sé senza preoccuparsi delle sorti delle compagne. Lo stesso vale per i
comportamenti di singoli individui che segnalano la presenza di cibo ai loro
simili, diminuendo le proprie possibilità di riforni- mento; che si uniscono
agli altri per difendere il gruppo da un at- tacco esterno, a costo della
propria vita; che si prendono cura della prole non loro, rinunciando a
procreare. E difficile immaginare che comportamenti così codificati e di-
versificati siano conseguenza di errori o di strategie adattative im- perfette,
se non in rari casi come può essere l’accudimento di una prole altrui per un
difetto nei sistemi di riconoscimento. Un’altra porzione di questi esempi può
essere spiegata riferendosi al benefi- cio che la cooperazione e la
collaborazione di gruppo offrono al sin- golo individuo, o viceversa agli svantaggi
di un comportamento egoi- sta in seno alla società animale. L’altruismo
reciproco può essere dunque selezionato normalmente a livello individuale,
soprattutto negli animali con una vita sociale elaborata: la cooperazione, in
mol- te occasioni, paga. Tuttavia, questa spiegazione non funziona per tutti i
casi in cui non vi sia un apparente vantaggio diretto del singo- lo, a meno di
non voler descrivere antropomorficamente il compor- tamento degli insetti
sociali in termini di valori. Quale meccanismo evolutivo può indurre un insetto
al sacrificio di sé per salvare la co- munità? I biologi ricorsero così ad
un’altra soluzione per spiegare l’altrui- smo: la selezione naturale favorisce
i singoli che si comportano in modo tale da accrescere il successo riproduttivo
differenziale dei gruppi a cui appartengono. Come abbiamo visto a proposito
dell’al- 228 largamento delle unità di selezione, Wynne-Edwards definì questo
processo «selezione di gruppo»: anche le popolazioni all’interno di una specie
sono soggette a selezione, non soltanto gli individui. L’opera di Wynne-Edwards
ebbe il merito di rilanciare un interes- sante dibattito sul ruolo
dell’altruismo in natura, inaugurato nel 1813 da uno degli anticipatori
«ufficiali» del concetto di selezione naturale (citato da Darwin nell’edizione
del 1872), William Charles Wells, amplificato nel 1902 dall’opera
dell’anarchico russo Peter Kropotkin, Mutual Atd, e ripreso dal genetista
Sewall Wright, il pri- mo a parlare di «selezione di gruppo» all’interno della
Sintesi Mo- derna. Dopo la pubblicazione del secondo libro di Wynne-Edwards nel
1986 la selezione di gruppo, attaccata dalla corrente neodarwiniana, fu
considerevolmente circoscritta fra i fenomeni di selezione. Tutta- via non fu
respinta nella sua interezza. La strategia di limitazione se- guì due strade.
In primo luogo, si riuscì a ricondurre i comporta- menti scoperti da
Wynne-Edwards nell’alveo di una normale spie- gazione per selezione
individuale. Molte ricostruzioni di apparente altruismo potevano essere interpretate
come forme sofisticate o in- dirette di egoismo individuale. Se l’effetto
complessivo di molti at- teggiamenti socialmente utili era il benessere della
popolazione, il meccanismo di attuazione di questa «strategia evolutivamente
stabi- le» restava pur sempre quello della lotta egoistica per il successo ri-
produttivo individuale. Gli etologi Amotz e Avishag Zahavi, in I/ principio
dell'handicap (1997), hanno ipotizzato che la logica della comunicazione
animale preveda la modalità di segnalazione di un’apparente debolezza co- me
sfida di segno opposto al predatore: la scimmia che avverte del pericolo non
manda soltanto un segnale ai compagni, ma sta anche avvisando il predatore di
averlo visto e di essere una preda meno fa- cile di tutte le altre del gruppo.
L’handicap apparente si trasforma in una dichiarazione di forza. In altri casi,
soprattutto negli uccelli, potrebbe essere l’ambiente sociale di un individuo a
indurlo a svi- luppare, egoisticamente, comportamenti altruistici: in un gruppo
strutturato in modo cooperativo ed egualitario un soggetto aggressi- vo
potrebbe essere escluso dalla comunità e dalla riproduzione. Dunque è pur
sempre la selezione individuale a creare comporta- menti socialmente utili. In
secondo luogo, la selezione di gruppo è stata ridimensionata dalla teoria della
«selezione di parentela» (ki selection), formulata 229 da William D. Hamilton
nel 1964 ma già accennata in alcuni pas- saggi di Darwin, per cui molti degli
atteggiamenti altruistici scoper- ti (anche i più estremi, come il sacrificio
riproduttivo delle api ope- raie) sarebbero giustificati dalla tendenza
egoistica a moltiplicare le possibilità di propagazione dei propri geni
attraverso i consanguinei che sopravvivono. In particolare, la kr selection
spiegherebbe gli at- teggiamenti «di coesione di gruppo» fra consanguinei, in
cui il bene della popolazione è derivabile dal bene individuale del membro del-
la famiglia. Se il grado di adattamento di un organismo è dato dal suo
contributo al pool genico della generazione successiva e se un indi- viduo
condivide una parte consistente del suo genoma con i parenti più stretti, è
plausibile che un comportamento favorevole verso il gruppo dei parenti
contribuisca al grado di adattamento del singo- lo: sacrifico i miei geni per
diffondere i geni dei miei parenti. Secon- do Hamilton, questa estensione del
valore di adattamento di un or- ganismo, definita inclusive fitness, può essere
anche misurata in ba- se ai gradi di parentela nel gruppo. L’aiuto reciproco in
un gruppo favorisce la massimizzazione della diffusione del pacchetto di geni
dell’intero gruppo e potrebbe addirittura giustificare, in questa pro-
spettiva, l’esistenza di comportamenti sessuali non finalizzati alla ri-
produzione ma alla coesione sociale, come l’omosessualità. 5. Competizione e
cooperazione Da quanto sappiamo oggi, il contributo quantitativo della
s2clusive fitness all’adattamento normale non è molto alto ed è difficilmente
misurabile, anche se in alcuni casi in cui la comunanza genetica è strettissima
(come negli insetti sociali) ha avuto senz’altro un ruolo centrale. La teoria
della k:7 selection ha tentato di mostrare che in molti casi il comportamento
altruistico è solo una forma indiretta di egoismo genetico individuale e che
non è necessario ricorrere alla se- lezione di gruppo, perché il movente è
sempre il successo riprodut- tivo dei propri geni. Tale approccio ha ottenuto
poi un’ulteriore ge- neralizzazione grazie alla teoria del fenotipo esteso di
Dawkins, alla quale si ispirano i più importanti tentativi di spiegazione, in
chiave genocentrica, dei comportamenti sociali animali e umani (Cronin, 1991).
George Williams, nel suo classico del 1966 e poi nel 1992, mos- se un'ulteriore
critica alla teoria di Wynne-Edwards. Egli fece nota- re che la selezione di
gruppo avrebbe dovuto comunque emergere a 230 un secondo livello a partire
dalla selezione individuale: in un certo momento un membro del gruppo si
comporta in modo altruistico, questo genera un vantaggio nel gruppo, il
comportamento viene se- lezionato, e così via. Tuttavia, qualora una parte del
gruppo comin- ciasse a comportarsi altruisticamente, gli egoisti rimasti ne
avrebbe- ro un tale vantaggio da «sovvertire internamente» la selezione del-
l’altruismo: in un gruppo di altruisti un egoista può usufruire degli aiuti che
gli vengono dagli altri senza pagare alcun prezzo, un adat- tamento perfetto.
Pertanto, concluse Williams, la selezione di grup- po non può esistere in alcun
caso, perché viene riassorbita dalla se- lezione egoistica fra individui.
Inoltre, se è vero che un adattamento può fissarsi in una popolazione solo se è
trasportato da geni, la scim- mia che per prima comincia a mandare avvisi di
allarme espone i suoi «geni altruisti» all'estinzione, mentre la scimmia che ne
trae vantag- gio standosene in silenzio diffonde i suoi geni egoisti alla
discenden- za. Dunque anche la selezione genica stroncherebbe sul nascere
qualsiasi comportamento altruista emergente. Ma l’obiezione di Williams finì
per diventare un boomerang, per- ché l’altruismo esiste, è un dato di fatto che
assume, soprattutto nel- la nostra specie, un grande rilievo sociale ed è molto
plausibile che comportamenti improntati alla lealtà e alla generosità siano
sorti per favorire l'individuo non direttamente, ma indirettamente attraverso
il bene del gruppo. Essendo anche noi figli dell'evoluzione naturale, in una
prospettiva genocentrica siamo costretti a una scelta delicata: o ammettiamo
che il nostro comportamento e quello di altre specie non rispetta più la logica
egoistica della selezione genica o cerchia- mo una spiegazione dell’intera
gamma dei comportamenti umani in termini di interesse individuale, diretto e
indiretto, di selezione na- turale e sessuale. La seconda soluzione è quella
esplorata da studio- si come Matt Ridley e Susan Blackmore (1999). Eppure,
nonostante i ridimensionamenti, la proposta di Wynne- Edwards ha aperto un
orizzonte nuovo, imponendo all’attenzione dei difensori del programma
neodarwiniano una serie di fenomeni naturali sottovalutati. Oggi si può asserire
che in taluni casi, in par- ticolare nelle specie formate da molti gruppi
separati dotati di coe- sione interna e in diretta competizione fra loro,
l’unità di selezione può anche essere la popolazione e non solo l'individuo. La
teoria del- la selezione fra trait groups proposta da Elliott Sober e David
Sloan Wilson va nella stessa direzione: essi ritengono che i controesempi
«individualisti» della kz77 selection e dell’altruismo reciproco siano in 231
realtà casi speciali di selezione fra gruppi i cui membri interagisco- no gli
uni con gli altri relativamente a un certo tratto, per esempio l’altruismo o
l'egoismo. E vero che la reciprocità favorisce il singolo, ma essa si evolve,
secondo i due filosofi della biologia, quando la se- lezione favorisce gruppi
dotati di reciprocità a scapito di altri. In questo senso, anche due soli
animali che condividano questo tratto, per cooperazione reciproca, diventano un
interattore visibile alla se- lezione, in una sorta di «selezione di coppie»
(pazr selection). Nella visione di Sober e Wilson le spinte selettive interne
ai grup- pi e la selezione fra gruppi si bilanciano e si mischiano di volta in
vol- ta, senza che vi sia una prevalenza scontata della selezione fra orga-
nismi. Quindi il pericolo della sovversione interna di Williams è scongiurato,
poiché anche i fraz groups sono interattori selettivi ef- ficaci (in termini di
numero e di successione di generazioni) e si di- fendono dalla sovversione
interna facendo talvolta prevalere i loro tratti condivisi, per esempio
l’altruismo, in quanto più produttivi di altri. Tuttavia, anche il modo in cui
le popolazioni si strutturano, se- condo Maynard Smith, può prevenire la
sovversione dell’altruismo. L’organizzazione delle popolazioni in una specie
potrebbe fare in modo che gli altruisti non si associno agli egoisti,
separandoli in gruppi diversi e opportunamente distribuiti, nonché selezionando
altruisti ed egoisti in base alla loro frequenza relativa nella popola- zione.
Vi è però un’altra strada percorribile. Se la competizione genica non fosse il
solo motore dell’evoluzione, molti paradossi evoluzioni- stici verrebbero meno.
Di questa opinione è il biologo del Santa Fe Institute Leo Buss il quale, in un
libro del 1987 che rimane un pun- to di riferimento per chi sia interessato a
esplorare le dinamiche «au- torganizzative» che integrano il potere della
selezione naturale, The Evolution of Individuality, ribatté con un discreto
effetto alla critica di Williams. Buss propose di spostare l’attenzione ai
livelli più bassi di «emergenza» dell’individualità: la formazione della prima
cellula, la nascita del materiale ereditario, la comparsa dei primi organismi
pluricellulari, la separazione fra linea germinale e linea somatica. Se la
sovversione interna del comportamento cooperativo fosse effetti- vamente in
azione, notò Buss, non esisterebbero cellule eucariotiche e probabilmente
nemmeno organismi. Senza simbiosi, cooperazione e comportamenti collettivi
«autorganizzati» non vi sarebbero orga- nismi complessi, giacché ogni organismo
è una popolazione di cel- lule organizzate le quali fortunatamente non si
comportano quasi 232 mai (escluse le dinamiche tumorali) in modo egoistico.
L’«indivi- duo» biologico di livello superiore (organismo rispetto a cellule,
gruppo rispetto a organismi singoli) possiede evidentemente carat- teristiche
collettive che disinnescano la sovversione interna prospet- tata da Williams,
che limitano la diversità genetica e la competizio- ne fra parti di una stessa
organizzazione biologica. Per esempio, un adattamento a livello organico fa sì
che le cellu- le tumorali siano sempre cellule suicide, perché la segregazione
del- la linea germinale impedisce loro di insediarsi nei gameti e di diffon-
dersi: dunque il comportamento egoistico conduce solo alla morte dell’organismo
e non può arrecare alcun vantaggio alla cellula im- pazzita e ai suoi geni. La
strategia migliore della cellula singola è al- lora quella di contribuire alla
buona salute dell’organismo intero, af- finché questo si riproduca e diffonda una
copia degli stessi geni pos- seduti dalla cellula e contenuti nei gameti. Anche
l’apoptosi, il suici- dio cellulare programmato, potrebbe essere spiegato in
chiave adat- tativa come una strategia di limitazione della proliferazione
interna di linee cellulari in competizione. Nell’ottica proposta da Buss l’al-
truismo è quindi un comportamento fortemente adattativo perché funzionale alle
dinamiche aggregative che creano i livelli di com- plessità crescente che
osserviamo in natura e che generano le diver- se forme di autorganizzazione
biologica che chiamiamo «individui». Nella stessa direzione punta la teoria,
oggi comunemente accet- tata, dell’origine simbiotica della cellula eucariotica
(s172biogeresi) proposta dalla biologa Lynn Margulis nel 1981. Alcuni degli
orga- nelli principali, fra cui i mitocondri e i cloroplasti, sarebbero i di-
scendenti di cellule procariotiche evolutesi in modo tale da vivere
simbioticamente in altre cellule. La prima cellula composita sarebbe dunque una
colonia simbiotica composta da cellule più piccole in- tegratesi fino alla
reciproca dipendenza. La ragione immediata dell’insediamento di un mitocondrio
in un’altra cellula deve essere stata di tipo adattativo, innescando quindi i
benefici della coopera- zione e dell’integrazione, ma la simbiogenesi in
Margulis rappresen- ta una seria alternativa al selezionismo per spiegare
l’origine delle specie e l’evoluzione nel suo insieme (Margulis, Sagan, 2002).
Il dibattito sull'argomento è oggi molto vivace. La provocazione teorica di
Buss ha avuto se non altro il merito di sollevare il proble- ma evoluzionistico
della transizione fra livelli di organizzazione bio- logica, al quale hanno
cercato di dare una risposta in chiave selezio- nista e adattazionista Maynard
Smith e Szathmary nel 1995, nonché 233 Dawkins nelle opere più recenti (1995),
e da tutt’altro versante la Margulis. Per Maynard Smith simbiosi, mutualismo,
sinergie e coo- perazione sono fondamentali per comprendere le grandi
transizioni della storia della vita, ma non rappresentano un’alternativa alla
sele- zione naturale. La complementarità fra competizione e cooperazio- ne è
oggi all’ordine del giorno nei dibattiti di filosofia della biologia, il che
rimanda nuovamente alla relazione delicata fra teoria dell’evo- luzione ed
ecologia. 6. La relazione uomo-ambiente nella filosofia della biologia A
partire dalla formulazione dell’ipotesi della «lotta per la sopravvi- venza»,
la teoria dell’evoluzione ha sempre mantenuto un rapporto stretto con
l’ecologia. Il termine stesso «ecologia» fu adottato da Ernst Haeckel per
indicare lo studio delle dinamiche di sopravvi- venza degli organismi nei loro
ambienti. Un padre della Sintesi, co- me Theodosius Dobzhansky, correlò
strettamente la diversità degli organismi alla diversità degli ambienti. Il
paesaggio adattativo della vita per lui era costruito sulla base delle
difformità nella distribuzio- ne delle nicchie ecologiche, che condizionava
l’esistenza di grappo- li di combinazioni geniche ben adattate (picchi
adattativi) separate da vasti spazi inesplorati. In più, i temi cardine della
filosofia della biologia coinvolgono i dibattiti concernenti l'ecologia, intesa
sia co- me scienza evoluzionistica (a tutti gli effetti dopo la svolta popola-
zionale e puntuazionale) sia come movimento di opinione per la sal- vaguardia
di un rapporto non distruttivo fra la specie umana e il pia- neta. Eppure le
differenze di linguaggio e di sensibilità non sono mai mancate. Gli
evoluzionisti si occupano di popolazioni, di specie e di cladi sui tempi lunghi
della storia naturale. Gli ecologi studiano in- vece le comunità locali di
esseri viventi in contesti specifici, i cam- biamenti stagionali, la divisione
delle risorse, le oscillazioni demo- grafiche in una regione, la struttura di
un ecosistema, i vincoli di coe- sistenza fra specie, le successioni fra
specie, le regole di «assemblag- gio» delle comunità, l’esclusione competitiva
fra avatars e specie, e così via. A torto secondo Eldredge, i due campi sono
stati divisi an- che dalla preferenza dell’uno per gli aspetti riproduttivi e
di discen- denza fra organismi e dell’altro per le relazioni economiche e mate-
riali fra organismi. La sua doppia gerarchia punta, abbiamo visto, a riunire
questi due regni delle scienze del vivente in una teoria estesa 234 dell’evoluzione
e non a caso una delle sue ultime fatiche scientifiche è la curatela di una
enciclopedia integrata della biodiversità, La vita sulla Terra (Eldredge, a
cura di, 2002), composta da una selezione di voci che comprende ecologia,
teoria dell'evoluzione, antropologia, biologia della conservazione e sviluppo
sostenibile. Non dimentichiamo che sono state teorie di tipo ecologico a sve-
lare due misteri fondamentali della paleontologia come le estinzioni del
Permiano e del Cretaceo: l'approccio ecologico alla storia della vita
arricchisce l’interpretazione macroevolutiva di fattori causali or- mai
imprescindibili per una spiegazione esaustiva della speciazione e
dell’estinzione. Viceversa, la teoria dell'evoluzione è fondamenta- le per
l’ecologia perché tocca alcune domande fondamentali quali il legame fra specie
ed ecosistemi, gli effetti del perturbamento uma- no sulla biosfera, le
relazioni fra specie autoctone e specie aliene in- trodotte in un ambiente, la
divergenza e la correlazione fra specie. Dalla definizione di cosa sia una
specie dipende il calcolo del loro numero complessivo e quindi la stima dei
tassi di estinzione antro- pica recente. Anche la nozione di adattamento si
trova all’incrocio fra i due domini, perché l'ecologia studia gli effetti delle
differenze di fitness (consequence laws), mentre la biologia evolutiva studia
le origini di tali differenze (source laws) (Sober, a cura di, 1994). Un altro
punto di intersezione fra i due domini disciplinari ri- guarda la corretta
definizione di cosa debba essere oggetto di con- servazione: se le varietà, le
specie o gli ecosistemi. Gli «attori» della biologia evoluzionista, infatti,
mantengono sempre un margine di ambiguità fra il loro carattere discreto e la
loro continuità con il re- sto del vivente: le specie sono identificabili in
qualche modo come oggetti isolati, ma sono anche parti di un complesso più
ampio di in- terrelazioni; lo stesso vale per le comunità ecologiche.
L’«ipotesi Gaia» del biochimico James Lovelock, secondo cui la Terra an- drebbe
intesa come un sistema geofisiologico integrato che emerge dall’interdipendenza
di tutti i suoi ecosistemi, ha messo in luce l’ef- ficienza del sistema
omeostatico della Terra. Gaia rivela l’intercon- nessione dinamica fra tutte le
componenti fisiche e biologiche del pianeta, la loro fitta trama di retroazioni
e di interazioni climatiche, geochimiche, idrologiche, biochimiche, e oggi
anche antropiche. Il suo «corpo» è la materializzazione di tutte le trame
reticolari che le- gano il regno dell’evoluzione biologica e il regno della
realtà fisica. La versione forte dell’ipotesi, secondo cui il pianeta sarebbe
real- mente equiparabile a un unico immenso organismo, ha suscitato 235 molte
discussioni, ma non appare una mossa teorica necessaria né particolarmente
utile per apprezzare il messaggio di Lovelock. Que- sto si condensa nell’idea
che l’integrazione del sistema non è sinoni- mo di fragilità: se l’uomo
amplificasse la sua intera gamma di com- portamenti nocivi per Gaia, essa,
secondo il modello, subirebbe una perturbazione profonda che la porterebbe
verso una nuova situa- zione di omeostasi, ma non verso la morte. L'equilibrio
raggiunto al termine della «crisi» potrebbe essere sfavorevole alla nostra vita
ma non alla vita in quanto tale, che sopravvivrebbe in altre forme. In
un’ottica evoluzionistica ne consegue che, se le nostre azioni conti- nueranno
a recare danni all’ambiente, prima o poi si instaureranno nuove condizioni
ambientali più adatte alla vita, ma non necessaria- mente alla nostra forma di
vita. Nell’intersezione fra ecologia e teoria dell’evoluzione, la metafo- ra
della «natura in equilibrio» è rimasta per lungo tempo il retaggio di un ordine
trascendente inscritto nel Creato, residuo dell’idea che nella natura fosse
inscritta un’armonia, una sorta di giustizia delle cose ora minacciata
dall'azione umana. Ma non vi è mai stato accor- do unanime su come definire
l’equilibrio ecologico (Pimm, 1991). La stessa nozione di resilienza sistemica,
cioè il grado di resistenza al- le perturbazioni esterne, è stata spesso intesa
come la capacità di sopportazione e di ripresa da parte della natura: lasciata
da sola, si rigenera per conto proprio. Tuttavia, ampi settori del pensiero
eco- logista oggi sono consapevoli del fatto che, di fronte allo sfrutta- mento
sconsiderato della natura come «risorsa» inesauribile, non si possa difendere
una prospettiva opposta centrata sulla mera conser- vazione degli equilibri
ecosistemici esistenti, ma si debba in qualche modo accettare la natura
evolutiva e instabile di tali ecosistemi posti sotto il peso dell’interferenza
umana. La giovane disciplina evoluzionistica denominata «ecologia delle
comunità» ha dato in questi anni un contributo importantissimo al- la crisi
dell’idea di equilibrio nello studio delle dinamiche ecosiste- miche (Diamond,
Case, 1986). Le comunità ecologiche sono sistemi altamente interconnessi,
fortemente coerenti al loro interno, pur es- sendo costituiti da «individui»
biologici di livello inferiore, come specie, popolazioni e organismi. Robert
May ha notato che il ritmo della vita nelle comunità ecologiche assomiglia
molto a quello dei si- stemi autorganizzati e non lineari a «criticità
autorganizzata» (May, 1989): fasi di stabilità e di accumulo di perturbazioni,
solcate da epi- 236 sodi di fluttuazione che variano dal moderato al
catastrofico, dopo le quali si instaura una nuova configurazione ordinata. Il
dato interessante, che emerse da ricerche condotte a partire dal- la fine degli
anni Ottanta, è che queste dinamiche non lineari per- meano il comportamento di
una comunità ecologica anche in assen- za di perturbazioni esterne (uragani,
siccità, inondazioni, alterazioni del clima, e così via): quindi esse derivano
spontaneamente dalla tra- ma delle relazioni interne fra i componenti dell’ecosistema.
Le per- turbazioni esterne non fanno altro che alimentare tali dinamiche, sol-
lecitando fluttuazioni più profonde e improvvise. Nondimeno, sono proprio le
forti interazioni interne alla comunità, i suoi cicli di retroa- zione, i
responsabili della resistenza al cambiamento e alle invasioni di specie
estranee. Più c’è connessione reticolare, più c’è resilienza, più le
fluttuazioni saranno infrequenti, ma catastrofiche. Dato un cer- to numero di
specie e di connessioni fra esse la comunità ecologica emerge spontaneamente
dalle loro interazioni e retroazioni. Ora, la scoperta attorno alla quale si
stanno confrontando gli eco- logi di comunità è che gli ecosistemi con le
migliori caratteristiche di resilienza, di creatività interna, di vitalità e di
diversità interna sono proprio quelli maggiormente vicini al limite di
instabilità. Gli ecosi- stemi più stabili e monotoni tendono a produrre meno
specie, e vi- ceversa. Le comunità ecologiche lontane dall’equilibrio sono la
nor- ma, non l'eccezione. Fra biodiversità interna e dinamiche non in
equilibrio si instaura un legame diretto. La vita prolifera in comunità
ecologiche né troppo ordinate (nel qual caso l'ecosistema viene ben presto
monopolizzato da poche specie invadenti) né troppo caotiche (cioè soggette a
fluttuazioni senza sosta e poco resilienti), bensì in co- munità nelle quali le
perturbazioni sono forti ma non eccessive (i- termediate disturbance
bypothesis). Se lasciati evolvere naturalmente, gli ecosistemi maturi tendono a
raggiungere spontaneamente questa condizione di fitta intercon- nessione. Essi
diventano stabili, resilienti e persistenti scegliendosi un mix di specie e di
interazioni fra specie che può variare di volta in volta. Notiamo qui la
compenetrazione di regolarità atemporali e di irreversibilità storica che
interessa l’ecologia teorica fin dai suoi esordi. Il sogno del fondatore della
biogeografia delle isole, Robert MacArthur, era quello di individuare gli
schemi generali dell’evolu- zione degli ecosistemi, minimizzando il ruolo delle
storie contingen- ti e trasformando l’ecologia in una scienza matematica e
quantitati- va. Vennero così proposti alcuni modelli ancora oggi molto impor-
237 tanti, basati sull'idea di equilibrio ecologico, come le successioni fra
specie, i bilanciamenti fra predatori-prede, i tassi di estinzione va- riabili,
l’equilibrio nella diversità di specie isolane sulla base di va- riabili
quantitative come l’estensione dell’isola e la distanza da altre terre. Ma
l'ecologia delle popolazioni dovette fin dall’inizio scon- trarsi con
l'evidenza della storia e con la spiccata sensibilità delle co- munità
ecologiche a particolari condizioni iniziali nella composizio- ne delle specie
e nei fattori fisici (Cracraft, 1983; Kingsland, 1985). Inoltre, è sempre stato
molto difficile mettere alla prova leggi così generali, perché gli esperimenti
degli ecologi hanno una scala di tem- po e di spazio molto ridotta rispetto a
quella necessaria per un mo- dello esplicativo. Le simulazioni a computer hanno
dato un valido contributo per superare questo limite empirico. È interessante
vedere come nelle si- mulazioni, ma anche in alcune situazioni reali, ripetendo
più volte la stessa aggregazione casuale di specie non si ottenga mai la stessa
con- figurazione: ogni volta nasce una comunità ecologica differente, a parità
di efficienza e stabilità. Quindi non si tratta della prevalenza canonica di
specie superiori su specie inferiori, ma di un’autorganiz- zazione spontanea di
specie che può dare esiti equiprobabili e con- tingenti. E la storia a fare la
differenza. Il ripopolamento di un’isola dopo una catastrofe dipende molto
dall’ordine casuale di arrivo dei primi colonizzatori, che lascia un'impronta
storica sui pattern eco- logici ricorrenti. I meccanismi biogeografici che
spiegano la distri- buzione delle specie sul pianeta — principalmente la
vicaranza, cioè la frammentazione della regione di origine di una specie, e la
disper- sione, cioè la migrazione in habitat vicini — hanno un carattere emi-
nentemente storico. Nel caso della vicarianza, è l’ambiente a essere
«ereditato» dalle specie. Ma non solo. Analoghe dinamiche storiche sembrano
interessare le comunità ecologiche non soltanto nella loro evoluzione, quindi
nel tempo, ma anche nella loro organizzazione territoriale, quindi nello
spazio. Un collega di May, Michael Hassel, mostrò nel 1994, con esperimenti sul
campo e simulazioni a computer, che in molti ecosi- stemi altamente
interconnessi le popolazioni non soltanto fluttuano in modo discontinuo nel
tempo, ma si distribuiscono negli habitat con dinamiche non lineari: esse
tendono a organizzarsi a mosaico, formando piccoli insediamenti separati,
aggregandosi e separandosi in modo fluido. Anche in questo caso, il fenomeno
non sembrava di- pendere soltanto dalla conformazione più o meno accidentata
del 238 territorio e dalla presenza pur importante di habitat isolati
all’inter- no della regione (habitat islands), poiché anche in una regione
unifor- me in termini di habitat le popolazioni si distribuivano a mosaico,
formando isole separate di popolamento. Secondo Eldredge, per esempio, i
gradienti latitudinali della biodiversità mostrano che gli habitat tropicali
sono più ricchi di specie di quelli temperati perché privi di oscillazioni
climatiche: l'affidabilità ecologica favorisce la specializzazione degli
organismi e il numero di speciazioni di suc- cesso. In definitiva, sia nel
tempo che nello spazio l’instabilità interna sarebbe generatrice di novità
evolutive (Pimm, 1991). Siamo di fron- te, dunque, a un rovesciamento del dogma
dell’equilibrio naturale: gli ecosistemi in armonia stabile sono i più
vulnerabili e i meno pro- mettenti. Inoltre, se è vero che le dinamiche
imprevedibili sorgono dall’interno degli ecosistemi e sono amplificate dalle
perturbazioni, appare molto difficile immaginare che l’intervento umano possa
te- nere sotto controllo dall’esterno tali processi di autorganizzazione.
Quando interveniamo su una comunità ecologica trasformiamo ir- reversibilmente
la sua trama interna e non possiamo più tornare in- dietro: è già un’altra
comunità. Ecco perché limitarsi a conservare l'esistente e a porlo sotto tutela
diventa un compito vieppiù irrag- giungibile. Da questa breve carrellata è
facile notare come l’argomentazione evoluzionistica sia diventata
imprescindibile per riflettere, a diffe- renti scale di tempo e di spazio, sul
rapporto fra la specie umana e gli ecosistemi che abita, nonché sulle modalità
più efficaci di gestio- ne della loro sempre più stretta coevoluzione (Quammen,
1996). Il concetto di reciproca costruzione fra organismi e nicchie rende piut-
tosto problematica una biologia della conservazione centrata su una visione
ecologica che rifiuti l'evoluzione come condizione di tra- sformazione
incessante. Il valore direttivo di una conduzione «eco- logista» della vita sul
pianeta può essere semmai la difesa generaliz- zata della diversità biologica
come valore indipendente, e indiretta- mente come valore di sopravvivenza della
specie umana (Wilson, 2002). L'oggetto della scienza ecologica, come ha
insegnato Evelyn Hutchinson, è la diversità naturale, apprezzata sia
nell’irriducibilità dei suoi particolari bizzarri sia nella coerenza delle sue
regolarità. Compito della filosofia della biologia potrebbe essere quello di
ana- lizzare questo sapere interdisciplinare, che oggi intreccia la diversità
biologica con la diversità culturale, attraverso l'esplorazione dei te- 239 mi
teorici di fondo sollevati dalla presenza della specie umana come «soggetto
evolutivo» (Eldredge, a cura di, 2002) generatore di per- turbazioni irreversibili.
COSA LEGGERE... La sociobiologia annovera alcuni testi che possiamo considerare
fonda- tivi: E.O. WILSON, Sociobiologia. La nuova sintesi, Zanichelli, Bologna
1979 (ed. or. 1975); Sulla natura umana, Zanichelli, Bologna 1980 (ed. or.
1978); Genes, Mind and Culture, Harvard University Press, Cambridge (Mass.)
1981 (con Charles Lumsden); R. TRIVERS, Socia/ Evolution, Cum- mings, Menlo
Park (Cal.) 1985. Per una difesa recente: J. ALCOCK, The
Triumph of Sociobiology, Oxford University Press, Oxford 2003. La
vio- lenta contesa, anche politica, attorno alla sociobiologia è ben
ricostruita da ULLICA SEGERSTRALE in Defenders of the Truth: The Sociobiology
De- bate, Oxford University Press, Oxford 2001. Cfr. anche: S. MANGHI, I/
paradigma biosociale, Franco Angeli, Milano 1984; D. MAINARDI, L'art male
irrazionale, Mondadori, Milano 2001. La
psicologia evoluzionista attinge, oltre che all’antropologia darwi- niana di
RICHARD ALEXANDER, The Biology, of Moral Systems, De Gruy- ter, New York 1987,
ad alcune opere collettive: C. CRAWFORD, M. SMITH, D. KREBS (a cura di),
Sociobiology and Psychology, Erlbaum Ass., New York 1987; J.H. BARKOW, L.
COSMIDES, J. TOOBY (a cura di), The Adapted Mind: Evolutionary Psychology and
the Generation of Culture, Oxford University Press, Oxford 1992. Si
vedano inoltre: S. PINKER, Cozze fun- ziona la mente, Mondadori, Milano 2000
(ed. or. 1997); H. PLOTKIN, In- troduzione alla psicologia evoluzionistica,
Astrolabio, Roma 2002 (ed. or. 1998); D. Buss, Evolutionary Psychology: The New
Science of the Mind, Allyn & Bacon, London 2003. Le critiche a questo
programma di ricer- ca sono condensate in una raccolta a cura di HILLARY e
STEVEN ROSE, Alas Poor Darwin. Arguments Against
Evolutionary Psychology, Vintage, New York 2001, nonché in alcuni testi dei
filosofi della biologia Peter Godfrey-Smith e Paul E. Griffiths: P.
GODFREY-SMITH, R.C. LEWONTIN, «The Dimensions of Selection», in Philosophy of
Science, LX, 1993, pp. 373-95; P.E. GRIFFITHS, What Emotions Really Are: The
Problem of Psychological Categories, University of Chicago Press, Chicago 1997.
Un'analisi particolarmente riuscita dei presupposti filosofici
della so- ciobiologia è quella di PHiLip KITCHER in Vaulting Ambition:
Sociobio- logy and the Quest for Human Nature, MIT Press, Cambridge (Mass.)
1985. La natura politica della ricerca scientifica in campo biologico è messa
in evidenza, attraverso gli strumenti interpretativi della dialettica 240
marxiana, in R. LEVINS, R.C. LEWONTIN, The Dialectical Biologist, Har- vard
University Press, Cambridge (Mass.) 1985. Il dibattito sul naturali- smo è
alimentato da autorevoli contributi, fra i quali: M. RUSE, Taking Darwin
Seriously, Blackwell, Oxford 1986; M. RUSE, E.O. WILSON, «Mo- ral Philosophy as
Applied Science», in Philosophy, LXI, 1986, pp. 173- 92; E. SOBER (a cura di),
Corceptual Issues in Evolutionary Biology, MIT Press, Cambridge (Mass.) 1994;
M. STANZIONE, Epistemzologie naturaliz- zate, Bagatto Libri, Roma 1991; G.
BONIOLO, I/ lirzite e il ribelle. Etica, naturalismo e darwinismo, Cortina,
Milano 2003. L’epistemologia evolu- tiva selezionista di DAVID HULL è in
Science As a Process, University of Chicago Press, Chicago 1988. Il tema delle
origini dell’altruismo ha prodotto un’ampia letteratura di settore. Segnaliamo,
per il versante selezionista neodarwiniano, MATT RIDLEY, The Origins of Virtue,
Penguin Books, New York 1997; per una concezione gerarchica basata sulle
strutture popolazionali E. SOBER, D. S. WILSON, Unzto Others. The Evolution and Psychology of Unselfish Behav- tor,
Harvard University Press, Cambridge (Mass.) 1998. Si veda
inoltre l'interessante ipotesi avanzata da AMOTZ e AVISHAG ZAHAVI in I/ princi-
pio dell'handicap, Einaudi, Torino 1997 (ed. or. 1997). Due testi in cui il
comportamento animale e umano è ricondotto a spiegazioni adattazioniste che
fanno un uso preponderante della teoria della selezione sessuale sono HELENA
CRONIN, I/ pavone e la formica: se- lezione sessuale e altruismo da Darwin a
oggi, Il Saggiatore, Milano 1995 (ed. or. 1991) e GEOFFREY MILLER, Uorzini,
donne e code di pavone, Ei- naudi, Torino 2002 (ed. or. 2000). Un manuale
aggiornato di memetica è senz'altro SUSAN BLACKMORE, La macchina dei memi,
Instar Libri, Torino 2002 (ed. or. 1999). Il pro- getto di «darwinizzare» la
cultura è delineato nella raccolta ROBERT AUN- GER (a cura di), Darwinizing
Culture. The Status of Memetics as a Science,
Oxford University Press, Oxford 2000. L'originale analisi
dell’argomen- to da parte di DAN SPERBER è in I/ contagio delle idee. Teoria
naturalisti- ca della cultura, Feltrinelli, Milano 1999 (ed. or. 1996).
Annotazioni cri- tiche in E. SOBER, «Models of Cultural Evolution», in P.E.
GRIFFITHS (a cura di), Trees of Life: Essays in the Philosophy of Biology,
Kluwer, Dor- drecht 1992. La doppia gerarchia di Eldredge applicata
all'interfaccia fra evolu- zione biologica ed evoluzione culturale e sociale è
in N. ELDREDGE, M. GRENE, Interactions. The
Biological Context of Social Systems, Columbia University Press, New York 1992.
Un confronto fra le diverse concezioni della scienza di Dawkins e
di Gould è proposto da KIM STERELNY in La sopravvivenza del più adatto. Dawkins
contro Gould, Cortina, Milano 2004 (ed. or. 2001). Una versio- ne della teoria
della «doppia verità» di fede e scienza è proposta da 241 GOULD in I pilastri
del tempo, Il Saggiatore, Milano 2000 (ed. or. 1999). La difesa della scienza
come modello di razionalità e come metodo criti- co da parte di DAWKINS è ben
compendiata nella raccolta di saggi I/ cap- pellano del diavolo, Cortina,
Milano 2004 (ed. or. 2003), che contiene al- cuni frammenti della disputa con
Gould e un commento successivo alla scomparsa di quest’ultimo, avvenuta nel
maggio del 2002. Il «moralismo» evoluzionistico di ROBERT WRIGHT è espresso in The
Moral Animal, Pantheon Books, New York 1994. La sua visione forte- mente
progressionista dell’evoluzione, diretta verso approdi di crescente
complessità, cooperazione e civilizzazione, viene esaltata in Now-zero. The
Logic of Human Destiny, Abacus Books, New York 2001. Lo studio della
trasformazione culturale da un punto di vista evolu- zionistico risale,
nell’opera di Cavalli Sforza, ai primi anni Settanta: L.L. CAVALLI SFORZA, M.W.
FELDMAN, Cultural Transmission and Evolution. A
Quantitative Approach, Princeton University Press, Princeton (NJ) 1981,
aggiornato in «The Application of Molecular Genetic Approaches to the Study of
Human Evolution», in Nature Genetics Supplement, XXXIII, 2003, pp. 266-75. Un
quadro programmatico generale delle analogie fra evoluzione biologica ed
evoluzione culturale, nell’intento di delineare una storia delle culture su
basi evolutive, è proposto da L.L. CA- VALLI SFORZA in L'evoluzione della
cultura, Codice Edizioni, Torino 2004. L’opera di Leo Buss sulle leggi di
autorganizzazione è The Evolution of Individuality, Princeton University Press,
Princeton (NJ) 1987. Per un approfondimento della teoria della simbiogenesi:
LYNN MARGULIS, Syrz- biosis in Cell Evolution, Freeman, San Francisco 1981; L.
MARGULIS, R. FESTER (a cura di), Syrzbiosis As a Source of Evolutionary
Innovation. Spe- ciation and Morphogenesis, MIT Press,
Cambridge (Mass.) 1991; L. MAR- GULIS, D. SAGAN (a cura di), Slarted Truths.
Essays on Gata, Symbiosis and Evolution, Springer-Verlag, New York 1997; L.
MARGULIS, Syrzbio- tic Planet, Basic Books, Amherst (Mass.) 1998. Una
recente generalizza- zione della simbiosi e dello scambio genetico come
meccanismo di origi- ne delle specie, in accordo con la teoria degli equilibri
punteggiati, è in L. MARGULIS, D. SAGAN, Acquiring Genomes, Basic Books,
Ambherst (Mass.) 2002. La storia dell’ipotesi Gaia, dei suoi fraintendimenti e
delle sue po- tenzialità è narrata dal suo fondatore: JAMES LOVELOCK, Orzaggio
a Gata, Bollati Boringhieri, Torino 2002 (ed. or. 2000). La formulazione com-
pleta è in J. LOVELOCK, Le nuove età di Gaia, Bollati Boringhieri, Torino 1991
(ed. or. 1988). Un’opera intrigante di «geofisiologia» è quella di MARK e
DIANNA MCMENAMIN, Hypersea. Life on Land, Columbia Uni- versity Press, New York
1994. 242 Il testo di riferimento per l'ecologia di comunità è J. DIAMOND, T.
CA- SE (a cura di), Corzzunity Ecology, Harper & Row, New York 1986. La
critica dell’idea di equilibrio in ecologia è argomentata in S.L. PimM, The
Balance of Nature?, University of Chicago Press, Chicago 1991. Biogeo- grafia
delle isole e ambientalismo sono al centro di DAVID QUAMMEN, The Song of the
Dodo, Scribner, New York 1996. Sull’ecologia di popolazio- ni sono importanti
anche le opere di ROBERT MAY: fra le altre, il saggio «The Chaotic Rythms of
Life», in New Scientist, XI, 1989, pp. 37-41. Per
la breve trattazione qui proposta, cfr. anche: J. CRACRAFT, «Cladistic Analysis
and Vicariante Biogeography», in Amzerican Scientist, LXXI, 1983, pp. 273-81;
S. KINGSLAND, Modeling Nature: Episodes in the His- tory of Population Ecology,
University of Chicago Press, Chicago 1985. L’«altro
Edward O. Wilson», non il teorico della sociobiologia ma l’ineguagliato
studioso e cantore della biodiversità terrestre, ha scritto te- sti di grande
fascino, come La diversità della vita, Rizzoli, Milano 1993 (ed. or. 1992), e
l'appassionato I/ futuro della vita, Codice Edizioni, Torino 2004 (ed. or.
2002). In realtà, in Biofilia, Mondadori, Milano 1985 (ed. or. 1984) e in I/
futuro della vita, egli mostra come sia le propensioni negative della specie
umana contro la biodiversità sia le possibili vie di uscita per la sua
salvaguardia siano radicate in comportamenti istintuali e adattativi frutto
della selezione naturale. Pertanto le due dimensioni del suo pensie- ro non
sono in contraddizione, ma fanno parte di una visione selezionista coerente. Il
grande progetto interdisciplinare di studio della biodiversità, natu- rale e
culturale, da un punto di vista evoluzionistico ha preso forma, gra- zie
all’impegno di NILES ELDREDGE e di un team di ricercatori dell’ Ame- rican
Museum of Natural History di New York, in La vita sulla Terra. Un’enciclopedia
della biodiversità, dell'ecologia e dell'evoluzione, Codice Edizioni, Torino
2004 (ed. or. 2002). Conclusione La filosofia della biologia oggi: consenso
riduzionista e strategie pluraliste Dall’insieme delle posizioni che abbiamo,
pur sommariamente, de- scritto traspare l’impressione che la filosofia della
biologia sia oggi di- visa fra chi predilige soluzioni riduzioniste ai temi più
controversi sol- levati dalle scienze del vivente e chi esplora la possibilità
di integrare punti di vista e livelli esplicativi differenti. Anche il tema del
progres- so contrapposto alla contingenza evolutiva, che ha animato il dibatti-
to attorno alle diverse interpretazioni del caso cambriano, può essere letto in
questa chiave. E interessante notare però che sia le teorie ridu- zioniste sia
le teorie pluraliste si dividono in un ventaglio di posizioni piuttosto
variegato. Secondo Kim Sterelny, l'esperimento ideale del «film della vita»
rischia di radicalizzare inutilmente la riflessione sull’irreversibilità
dell’evoluzione e può essere risolto concependo un doppio livello esplicativo
per la storia naturale: quello delle «spiegazioni robuste» di massima, ovvero
la ricerca dei trend evolutivi e dei pattern profon- di che guidano la storia
naturale e si configurano come concatena- zioni causali in gran parte
indipendenti dai dettagli più spicci; e quel- lo delle ricostruzioni effettive
delle singole storie realmente attuate- si, ricche di dettagli e potenzialmente
uniche. I due piani sono me- todologicamente e concettualmente indipendenti, ma
complemen- tari. Le singole sequenze di episodi potrebbero essere effettivamen-
te contingenti e ripetendo il film della vita otterremmo ogni volta una
sequenza diversa, ma forse le storie, accumulandosi, si raggrup- pano in
«bacini di attrazione» che permettono, a un livello esplica- tivo diverso, di
identificare regolarità e schemi ripetuti. Il primo li- vello studia
l’indipendenza dell’esito finale della storia dalle idiosin- crasie della sequenza
che si è effettivamente realizzata (qui, la storia non si fa con i se). Il
secondo livello studia le differenze fra la storia che si è realizzata e le
infinite storie parallele che avrebbero potuto realizzarsi (qui, la storia si
fa anche con i se). 244 Allo stesso modo la genetica mendeliana ci offre la
grana grossa della spiegazione della trasmissione genetica, mentre la genetica
mo- lecolare entra nei dettagli delle singole sequenze di trascrizione. I due
livelli esplicativi non sono riducibili l'uno all’altro e saranno ar- ricchiti
nei prossimi anni dalla genorzica funzionale, che mira alla comprensione della
rete di interconnessioni molecolari che lega il codice genetico, i suoi
prodotti, i gradienti chimici e le altre caratte- ristiche dell'ambiente
cellulare. Paradossalmente, allora, la sede mi- croevolutiva tradizionalmente
deputata alla «determinazione» gene- tica diventa il luogo della contingenza di
sviluppo e dell’unicità dei processi di codificazione, from many to many, che
dal Dna condu- cono al fenotipo. In un senso più generale, i campi
morfogenetici po- trebbero essere un livello esplicativo dello sviluppo su
scala più lar- ga, compatibile con spiegazioni dettagliate di ciascun processo
di sviluppo a livello molecolare. Solo modulando l'ampiezza delle ge-
neralizzazioni causali sembra insomma possibile cogliere la natura stratificata
del fenomeno biologico. In un senso ancor più generale, il gioco fra selezione
naturale e vincoli strutturali può fissare la grana grossa del paesaggio adattati-
vo di un ecosistema popolato da organismi diversi, definendo i con- fini fra
possibile e impossibile, fra probabile e improbabile. Ma poi soltanto i
capricci delle microstorie che si realizzano in contesti lo- cali fanno sì che
una specie appaia come effettivamente è, collocan- dosi in un punto all’interno
del suo morfospazio potenziale più am- pio. Ciò significa che l’espressione «la
sopravvivenza del più adatto» è una tautologia solo a metà, cioè soltanto a
livello delle storie effet- tive, poiché occorre distinguere fra il grado di
adattamento previsto di un organismo e il grado di adattamento reale dato dal
suo successo riproduttivo differenziale. La modulazione fra il regno delle
leggi naturali e il regno della contingenza storica, oggetto della corrispondenza
fra Darwin e Asa Gray citata nell’Introduzione di questo lavoro, è dunque un
filo con- duttore fondamentale per la filosofia della biologia. I processi eco-
logici sono sensibili ai dettagli della storia e non si ripetono mai due volte
nello stesso modo. Eppure alcune regolarità emergono a lungo andare e
permettono di fare qualche timida previsione. A parità di condizioni storiche,
sono i pattern a fare la differenza. A parità di pattern, è la storia a fare la
differenza. Il compito diventa dunque quello di trovare regolarità che abbiano
un grado sufficiente di ge- neralità, senza perdere dettagli storici
significativi. L'evoluzione del- 245 la vita sulla Terra è una concatenazione
di eventi contingenti, ma non misteriosi e forse, a lungo andare, iscrivibili
in pattern e tendenze su larga scala. Lo statuto epistemologico delle scienze
del vivente deve accogliere la sfida di tenere insieme l’intelligibilità
scientifica e l’ine- ludibilità della storia, l'utilizzo di strumenti
quantitativi e di metodi qualitativi a scale diverse. Pertanto, esso non solo
non è riducibile al quadro esplicativo e metodologico delle scienze fisiche e
matemati- che, ma queste ultime farebbero bene a guardarlo con attenzione, come
sostiene Ernst Mayr, perché l’irreversibilità storica sembra es- sersi
insinuata in molti territori un tempo appannaggio esclusivo del metodo
quantitativo. L'introduzione alla filosofia della biologia che abbiamo qui pro-
posto si basa sull’ipotesi che la Sintesi Moderna e il consenso ridu- zionista
che ne consegue siano rappresentabili come un programma di ricerca alla Lakatos
il cui nucleo teorico centrale, virtualmente in- falsificabile, è
l’adattazionismo esplicativo fondato sull’interpreta- zione della selezione
naturale come processo cumulativo e progres- sivo. La cintura di ipotesi
falsificabili è composta da una costellazio- ne di assunzioni organizzate
attorno ai principi cardine del riduzio- nismo genetico, della priorità della
replicazione e del gradualismo. Le posizioni neodarwiniane di stampo
riduzionista si dispongono lungo una gamma di sfumature piuttosto ampia, che va
dal geno- centrismo duro del primo Dawkins al selezionismo informazionale di
Maynard Smith, fino al neodarwinismo pluralista di Sterelny. In tutti i casi
rimaniamo però all’interno del programma di ricerca ori- ginario, considerato
progressivo e ancora fecondo: in alcuni casi es- so viene «indurito» attorno a
porzioni della cornice difensiva (Dawkins) o al nucleo stesso (Dennett), in
altri casi aperto a solu- zioni di compromesso. Il fulcro centrale, comunque,
non è messo in discussione seriamente. Anche le posizioni pluraliste si
dispongono in una gamma di in- terpretazioni diverse rispetto alla
«sopravvivenza» del programma di ricerca della Sintesi, considerato però da tutti
come regressivo. Gli approcci gerarchici di Eldredge, di Sober, di Sloan Wilson
e la teo- ria dei sistemi di sviluppo di Oyama, pur diversi fra loro,
smantella- no punto per punto i sostegni della cornice esterna, attaccano fron-
talmente gli eccessi del genocentrismo, ma non sembrano voler pun- tare al
cuore del programma. L’interazionismo non additivo di Lewontin mira invece da
vie diverse al nocciolo adattazionista, ma 246 senza l'ambizione di una critica
globale al programma. Forse solo l’opera di Gould e quella del secondo Kauffman
rappresentano ten- tativi organici e completi di proporre una «nuova sintesi»
su basi di- verse dalla prima, recuperando le suggestioni pluraliste di Darwin,
esaltando le contraddizioni interne alla Sintesi Moderna scaturite dalle
ricerche della componente naturalistica e rinnovando la tradi- zione
strutturalista con le più aggiornate scoperte nel campo della regolazione
genica al fine di scardinare il nucleo infalsificabile dell’adattazionismo
funzionalista. Nel «triangolo attativo» di Gould la base è la complementarità
di funzioni e di forme, di selezione e di vincoli, di adattamenti e di
exaptations; ma il vertice è la storia, ogni volta diversa nei suoi
«meravigliosi dettagli». Ne deriva quella revi- sione ed estensione del
darwinismo che a partire dalla critica dell’estrapolazionismo rappresenta, che
la si condivida o meno, una buona agenda di discussione per la filosofia della
biologia dei pros- simi anni. In anni recenti ha avuto un discreto sviluppo un
campo di studi rimasto a lungo marginale nella filosofia della scienza,
definito epi- stemologia evolutiva, cioè lo studio delle trasformazioni della
cono- scenza scientifica adottando modelli evoluzionistici. La filosofia del
cambiamento scientifico in chiave evolutiva, dopo le opere fondati- ve di
Donald T. Campbell e di Popper, è stata ripresa da David Hull nel 1988 in
Science as Process e due anni prima da Michael Ruse in Taking Darwin Seriously.
Questi autori, con sfumature diverse, scel- gono un approccio all’evoluzione
delle idee scientifiche centrato sul meccanismo di selezione naturale. Di
diverso orientamento, ma altrettanto sensibile all’epistemolo- gia evolutiva
era Thomas Kuhn, che negli ultimi scritti paragonava sempre più spesso la
transizione di paradigma a un processo «spe- ciativo» di tipo allopatrico,
dovuto cioè alla deriva eterodossa di co- munità di ricerca periferiche e alla
formazione di una barriera di «in- commensurabilità» analoga alla barriera di
inincrocio fra due specie. Nel far ciò egli restituiva peraltro la cortesia a
Eldredge e Gould, che nel loro articolo fondativo del 1972 avevano citato
l’opera di Kuhn, insieme a quella di Paul Feyerabend, come una delle loro fonti
di ispirazione per definire le transizioni repentine fra specie. Il terreno del
confronto fra evoluzione biologica ed evoluzione delle idee, come abbiamo visto
nel capitolo settimo, è rischioso ma può essere a volte illuminante. Come non
esistono definizioni pie- 247 namente soddisfacenti di specie, così non
esistono teorie che offra- no tutti i requisiti che siamo soliti attribuire a
una «teoria» scientifi- ca: anzi, la natura delle teorie sembra essere molto
più debole della natura reale delle specie. Questa introduzione alla filosofia
della bio- logia potrebbe essere intesa come una serie di commenti a margine
del fatto che, pur nella condivisione di un nucleo comune, vi sono tanti
darwinismi quanti scienziati darwiniani. L’epistemologia evolutiva può avere un
ruolo assai fecondo pro- prio in filosofia della biologia, restituendo il
debito dei suoi modelli evolutivi alla disciplina da cui sono nati. La
«teoria-specie» con cui ogni proposta evoluzionista deve ancora oggi fare i
conti è senz’al- tro la Sintesi Moderna. Dal 1972, anno del saggio sugli
equilibri pun- teggiati, alcuni evoluzionisti hanno ritenuto di poter costruire
una sintesi alternativa, dividendosi però nelle strategie di revisione. Dal
1975 e 1976, quando escono Sociobiologia di Wilson e I/ gene egoi- sta di
Dawkins, altri evoluzionisti hanno ritenuto di poter rifondare la Sintesi
Moderna su basi più solide, anche al costo di perdere una parte decisiva della
sua eredità. Abbiamo scelto l’evoluzione del pensiero puntuazionale come
«ingresso» di questa introduzione alla filosofia della biologia. Esso si è
sviluppato in tre fasi storiche: negli anni Settanta fece il suo esor- dio nel
pensiero evoluzionista come estensione ortodossa della cor- rente naturalistica
della Sintesi; agli inizi degli anni Ottanta Gould, più di Eldredge, vide nel
puntuazionismo un’alternativa alla Sintesi e lo associò alla sua elaborazione
filosofica di matrice strutturalista che puntava alla pluralizzazione dei
fattori evolutivi e alla critica dell’adattazionismo; dalla seconda metà degli
anni Ottanta la teoria puntuazionale dell’evoluzione abbandonò i suoi lati di
eterodossia più accesa e sfociò in una concezione gerarchica delle unità
evoluti- ve, con sfaccettature diverse da autore ad autore. Valutando in
estrema sintesi quanto è avvenuto negli ultimi tre de- cenni, notiamo che vi è
stato uno spostamento, all’inizio impercetti- bile, dell’asse fondamentale
della riflessione: dalla critica dell’estra- polazionismo alla critica
dell’adattazionismo. Anche se i due piani di discorso sono distinti, perché si
può elaborare una teoria della spe- ciazione senza toccare i meccanismi
selettivi che generano l’adatta- mento, gli equilibri punteggiati hanno
innescato una tendenza alla sottovalutazione dei fenomeni adattativi che è
stata poi acuita dal co- struttivismo di Lewontin e dallo strutturalismo di
Gould. Questo per varie ragioni: la dimensione funzionale è meno importante se
schiac- 248 ciata in periodi brevi di cambiamento; nei periodi di speciazione
in- tervengono fenomeni ecologici contingenti, con un ruolo indipen- dente dal
valore di fitness delle popolazioni; in un’evoluzione ramifi- cata i vincoli
interni diventano fattori fondamentali di costruzione e di differenziazione dei
piani organici. In questo modo una falsificazione «di cintura», rispetto al
pro- gramma di ricerca della Sintesi Moderna, è diventata un tentativo di
falsificazione del suo nucleo metafisico di natura funzionalista.
L’elaborazione del concetto di exaptazion riapre quindi lo scontro fra due
tradizioni del pensiero biologico, scontro che la Sintesi Mo- derna aveva
cercato di chiudere attraverso la «soluzione finale» di stampo adattazionista.
Tutto sommato, che il riduzionismo genetico fosse una semplificazione eccessiva
della dinamica evoluzionista è insito già nelle opere di Dobzhansky e di Mayr
almeno dagli anni Quaranta del Novecento. È una questione che possiamo
considera- re interna alla Sintesi. Il tema dell’adattamento tocca invece
metafi- siche influenti e profonde del pensiero biologico che in modo ricor-
rente si affrontano già da prima dell’era evoluzionista. E l’attacco
all’adattazionismo, che incassa un’adesione molto più tiepida da parte di
Eldredge, il passaggio cruciale che trasforma l’opera di Gould in una filosofia
della biologia alternativa alla Sinte- si Moderna. Dunque il pluralismo
gerarchico di Eldredge rappresen- ta oggi il coronamento del pensiero
puntuazionale e dell’evoluzione del neodarwinismo indicata da Mayr.
Diversamente, il pluralismo at- tativo di Gould rappresenta il più articolato
tentativo di sostituire la Sintesi Moderna, sbilanciata sul funzionalismo, con
una «nuova sin- tesi». Volendo forzare la metafora evoluzionista alla Kuhn, il
natu- ralismo di Eldredge è una speciazione teorica «simpatrica» rispetto alla
Sintesi Moderna, lo strutturalismo di Gould è una speciazione allopatrica con
sostituzione della specie madre. Sono due avversari diversi di chi invece,
sull’altro versante, ha scelto di «indurire» il pro- gramma di ricerca della
Sintesi facendolo cristallizzare attorno a uno dei suoi capisaldi. Pur fra
reciproche incomprensioni, il confronto prosegue. Nuo- ve tecniche e nuovi dati
sperimentali si sono aggiunti in questi anni: essi non sembrano decretare
vincitori e vinti, anche se le maglie dei differenti «pluralismi» sembrano
allargarsi sempre più. I destini del- la vecchia e della nuova sintesi sono
incerti, ma molti scienziati del vivente, genetisti compresi, sono meno sicuri
che in passato di aver trovato la soluzione finale, la teoria «del tutto»
valida per ogni an- 249 fratto del regno del biologico. Mayr ha colto nel segno
prevedendo per la filosofia della biologia un periodo di grande sviluppo dovuto
alla natura particolarmente «avanzata» del suo oggetto di studio. Chi confonde
la vivacità delle dispute biologiche con la debolezza della teoria
dell’evoluzione rischia di collezionare ulteriori smentite. Le controversie
continueranno e la tensione creativa fra tradizioni teo- riche differenti avrà
effetti positivi sulla ricerca. Adesso sarebbe tempo di confrontare la
filosofia della biologia con le più recenti acquisizioni delle scienze del
vivente: con la post- genomica, la proteomica, la farmacogenomica, le macchine
moleco- lari e le nanotecnologie biologiche che si insinueranno nelle micro-
strutture della vita. Ma abuseremmo della pazienza del lettore e an- dremmo
oltre i compiti di questo lavoro, che voleva essere soltanto una sintetica
introduzione ad alcuni temi di fondo della disciplina. Indici Indice dei nomi”
Alcock, J., 240b. Alexander, R., 219, 240b. Allegre, C., 71b. Allen, T.F.H., 109b. Alvarez, L.,
57-58. Alvarez, W., 57-58, 71b. Amundbson, R., 211b. Aristotele, 6, 110.
Arnold, E.N., 159, 173b. Asaro, F., 57. Aunger, R., 241b. Bakker, R.T., 56.
Baldwin, J.M., 123. Bambach, R.K., 65. Barbetta, P., 172b.
Barkow, J.H., 220, 240b. Bateson, P., 117, 123, 138b, 140b, 157. Bateson, W.,
13. Beer, G. de, 14. Bigelow, J., 174, 212b. Bintliff, J., 212b. Blackmore, S.,
231, 241b. Bloemendal, H., 165, 173b. Boden, M., 212b. Boniolo, G., xI, 33b,
215, 241b. Brandon, R., 127, 140b, 184, 212b. Bridges, C., 129. Briggs, D., 63,
202. Brockman, J., 176, 180, 211b. Bronn, H.-G., 43. Buckland, W., 155. Buffon,
L.L. de, 6. Buiatti, M., 33b. Burian, R.M., 140b. Bush, G., 78. Buss, D., 240b.
Buss, L., 198, 232-33, 242b. Butlin, R.K., 74, 107b. Campbell, D.T., 247.
Capararo, M., 172b. Carlisle, D.B., 71b. Carroll, L., 186. Cartwright, N.,
138b. Case, T., 236, 243b. Cavalli Sforza, F., 139b.
Cavalli Sforza, L.L., XI, 41, 70b, 112, 139b, 214-15, 218, 224-26, 242b. Chaitin, G.J., 206. Chaloner, W.G., 53, 71b. Cheetham,
A.H., 39. Chetverikov, S., 28. Chiesura, G., 34b. Claridge,
M.F., 70b. Coddington, J., 159, 173b. Continenza, B., 33b. Conway Morris, S.,
63-64, 70b, 71b, 202, 204-206, 213b. * I numeri di pagina seguiti dalla lettera
«b» segnalano le occorrenze dei lem- mi nelle bibliografie a fine capitolo.
Cope, E.D., 147. Corbellini, G., 33b. Correns, C., 13. Cosmides, L., 220, 240b.
Courtillot, V.E., 58, 71b. Cracraft, J.L.,
70b, 238, 243b. Crawford, C., 240b. Crick, F.H.C., 93, 95-96, 102, 109b, 125.
Cronin, H., 230, 241b. Cuvier, G., 144. Dalla Chiara, M.L.,
140b. Damuth, J., 89, 105. Darwin, C., X, XIV-XVI, 3-9, 11-13, 16-19, 21, 23,
30-32, 33b, 34b, 43, 74, 76, 81, 87, 90, 101, 128, 137, 142, 144, 146-51,
158-59, 161, 172b, 193, 210, 214, 222, 229-30, 245, 247. Darwin, F., 34b. Davis, D.D., 157. Dawah, H.A., 70b.
Dawkins, R., XV, 9, 18, 48-50, 69b, 74-76, 90-91, 93, 95, 104, 106, 107b, 125,
143, 171, 173b, 175, 192, 197, 206-207, 209, 213b, 216- 17, 223-25, 227, 230,
234, 241b, 242b, 246, 248. Deacon, T., 124, 140b. De Jong, W.W., 165, 173b.
Dennett, D.C., xv, 48, 113, 136, 138b, 161, 173b, 176, 190-91, 203, 212b, 220,
246. Depew, D.J., 32b, 124, 140b. De Vries, H.,
13, 130. Diamond, J., 109b, 236, 243b. Dickison, M., 128, 140b. Dobzhansky, T.,
xt, 13-14, 19, 21, 24, 34b, 78, 129, 183, 234, 249. Donovan, S.K., 67, 71b.
Doolittle, W.F., 95. Dugatkin, L.A., 85. Dupré, J., 71b, 134, 139b. Durham, W.H., 184, 212b. 254 Eble, G.T., 163, 173b.
Eggleton, P., 194, 212b. Ehrlich, P.R., 115, 139b. Eigen, M., 204. Eldredge,
N., xv, 10-11, 16-18,21,24- 25, 28-31, 34b, 35b, 39, 41, 48-51, 53, 61, 68,
69b, 70b, 72b, 86, 89,97, 104-107, 108b, 109b, 143, 187,201, 225, 234-35,
239-40, 241b, 243b, 246-49. Elton,
C., 183. Emmeneche, C., 198, 212b. Engels, F., 52. Falconer, H., 43. Fawcett,
H., 11. Feldman, M.W., 123, 139b, 184, 225, 242b. Ferraguti, M., 211b.
Fester, R., 242b. Feyerabend, P., 12, 247. Fischer, R., 14,
51. Fisher, R.A., 107b. Floridi, L., 33b. Fodor, J., 220-21. Fontana, W., 198,
200. Fortey, R., 39. Fox, S.W., 140b. Fox-Keller, E., 32b, 108b, 123, 139b.
Frankel, C., 71b. Futuyma, D.J., 69b. Gagliasso, E., 33b. Galton, F., 154. Gerhart,
J., 213b. Ghiselin, M.T., 28-29, 33b, 34b, 158. Gilbert, S.F., 130, 140b.
Gilinsky, N.L., 89-90, 100, 108b. Glen,
W., 53, 71b. Godfrey-Smith, P., 89, 108b, 109b, 183, 192, 212b, 221, 240b.
Goethe, J.W. von, 135. Goldschmidt, R., 25, 28, 30, 51, 129. Goldschmidt, T.,
43, 69b, 185. Goodwin, B., 136, 140b, 141b, 195- 96, 198, 212b. Gould, S.J.,
xv, 10-11, 16-18, 21, 24- 25, 28-31, 33b, 34b, 35b, 37, 39, 47-53, 61-64,
66-67, 69, 70b, 71b, 82, 86-87, 89, 94, 96-99, 101, 107, 108b, 109b, 122,
130-31, 134, 136, 140b, 143, 149, 151-55, 159-66, 168-70, 172b, 175-76, 178-80,
182- 83, 190, 192, 194-96, 201-10, 211b, 213b, 216-17, 224, 241b, 242b, 247-49.
Gowaty, P.A., 138b. Grant, V., 43. Gray, A., XIV, 210, 245. Gray, R.D., 117,
122, 124, 138b. Grene, M., 32, 225, 241b. Griesemer, J.R., 120, 138b.
Griffiths, P.E., 10, 32b, 85, 92, 117, 122, 124, 127, 138b, 160, 165, 173b,
194, 221-22, 240b, 241b. Haeckel,
E., vIr, 8, 62, 234. Haldane, J.B.S., 18, 34b, 51. Hallam, A., 53, 71b. Hamilton, W.D., 84, 108b, 230. Harre, R., 107b.
Hassel, M., 238. Hauser, M.D., 175, 211b. Hendriks, W., 165, 173b. Hennig, W.,
37, 69b. Hertwig, O., VII. Ho, M.W., 70b, 140b. Hoffman, A., 53, 71b. Houston,
A.I., 176, 211b. Hsu, K.J., 71b. Hull, D.L., 28-29, 32b, 34b, 38, 44, 70b, 75,
83, 91, 93, 107b, 128, 134, 211b, 223, 241b, 247. Hutchinson, E.G.,
183-85,211b, 239. Huxley, J., 14, 34b, 145. Huxley, T.H., 8, 28, 214.
Jaanusson, V., 63. Jablonka, E., 117, 138b. Jablonski, D., 60, 66, 88, 108b.
Jacob, F., 167-68, 173b, 195. Jenkin, F., 13. Jensen, R., 107b. Johnson, G.,
198, 212b, 213b. Johnson, S., 198. Jones, M., 138b. Jones, S., 33b. Jukes,
T.H., 79. Kamin, L., 171. Kauffman, S., xv, 136, 194-201, 204, 210, 212b, 247.
Kelly, K., 198, 213b. Kimura, M., 76, 78-82, 96, 107b, 108b. King, J.L., 79.
Kingsland, S., 238, 243b. Kirschner, M., 213b. Kitcher, P., 69b, 79, 108b, 134,
139b, 214, 220, 240b. Koestler, A., 169. Koslowski, P., 138b. Krebs, D., 220,
240b. Kropotkin, P., 229. Kuhn, T.,
12, 52, 247, 249. Lakatos, I., xII, 190. Laland, K.N., 123, 139b, 184. Lamarck,
J.-B., 6, 23. Lamb, M.J., 117, 138b. Lambert, D.M., 70b.
Langton, C.G., 199, 212b. Lawton, J.H., 71b. Leakey, R., 72b. Lehrman, D.S., 117. Leunissen, J., 165, 173b. Levin,
B.R., 89, 109b. Levins, R., 215, 241b. Levinton, J., 37,
69b. Lewin, R., 72b. Lewontin, R.C., 46, 81, 91, 112, 118- 19, 122-23, 138b,
139b, 171, 175, 178-79, 182-84, 187, 189-93, 196, 211b, 215, 240b, 241b, 246,
248. Linneo, C., 16, 19, 110. Lloyd, E.A., 32b, 87, 89, 108b, 162, 172b.
Lovejoy, A.J., 62, 71b. Lovelock, J., 235-36, 242b. Lumsden, C., 222-23, 240b.
Lyell, C.,9, 32, 90. MacArthur, R.H., 146, 237. MacGillavry, H.J., 25. MacPhee,
R.D.E., 71b. Mainardi, D., 240b. Malthus, T., 5. Manghi, S.,
240b. Mann, T., VII, XVI. Marcus, G., 139b. Margulis,
L., 233-34, 242b. Martin, P., 117, 138b. Maruyama, T., 80. Matthen, M., 108b.
Matthew, P., 6. May, R,, 71b, 236, 238, 243b. Maynard Smith, J., xv, 28-29, 39,
52, 64, 69b, 76, 85, 89, 93, 95, 100, 107b, 109b, 113, 119, 173b, 176, 180,
189, 192-93, 209, 213b, 232- 34, 246. Mayr, E., XI, XIV, 7, 14-15, 17-19, 21,
23-25, 27-29, 33b, 34b, 38, 47-49, 51, 89-90, 112, 128, 130, 134, 139b, 167,
246, 249-50. McMenamin, D., 242b. McMenamin, M., 242b. McShea, D.W., 86, 109b,
206. Medawar, P., 11. Mendel, G., 7,9, 13, 125. Menozzi, P., 41, 70b, 112,
139b. Michael, H., 57. Michod, R., 89, 109b.
Miller, G., 221, 241b. Minelli, A., 70b, 130, 140b. Mivart, G., 147. Monod, J., 77, 82, 107b, 167, 169,
195, 203. Moore, R., 68. Morgan, T.H., 13, 125. Morris, R., 49, 69b. Nagel, E.,
135, 139b. Neumann-Held, E.M., 126, 138b. Nevo, E., 165-66, 173b. Newell, N.D.,
10, 68. Nietzsche, F., 152. Nitecki, M.H., 62, 71b. Norell, M.A., 56.
Odling-Smee, FJ., 123, 139b, 184. O'Hara, R.J., 20, 34b. Ohno, S., 94, 109b,
168. Ohta, T., 80. Opitz, J.M., 130, 140b. Orgel, L.E., 93, 95, 109b. Orzack, S., 190, 192, 212b. Owen, R., 155. Oyama, S.,
116-23, 138b, 201-202, 246. Paley, W., 145, 172b. Pargetter,
R., 174, 212b. Parisi, V., 108b, 211b. Paterson, H., 31. Peterson, S., 50-51,
69b. Philips, J., 43. Piatigorsky, J., 160. Piazza, A., 41, 70b, 112, 139b.
Pievani, T., 41, 70b, 160, 172b. Pigliucci, M., 123, 139b. Pimm, S.L., 236,
239, 243b. Pinker, S., 113, 138b, 221, 240b. Pinna,
G., 69b. Plotkin, H., 140b, 240b. Popper, K., 11, 247. Powell, J.L., 56, 71b.
Prigogine, I., 52. Prothero, D., 39. Provine, W.B., 19, 34b. Quammen, D., 239,
243b. Queller, D.C., 176, 211b. Raff, R.A., 130, 132, 136, 140b, 193. Raup,
D.M.,53,58-59, 61, 64-66,71b, 175. Ray, T., 198, 200. Reeve, H.K., 85. Rensch,
B., 14. Ridley, Mark, 33b, 37, 64, 70b. Ridley, Matt, 89, 109b, 114, 138b, 231,
241b. Riedl, R., 178. Rightmire, G.P., 41. Romanes, G.J., 8, 21, 34b. Rose, H.,
240b. Rose, S., 115, 139b, 171, 240b. Rossi, L., 108b, 211b. Runnegar, B., 63.
Ruse, M., 32b, 33b, 62, 71b, 146, 172b, 211b, 215, 241b, 247. Sagan, D., 233,
242b. Saint-Hilaire, E.G., 6, 135. Salthe, S.N., 105, 109b. Sapienza,
C., 95. Sarkar, S., 119, 135, 138b. Saunders, P.T., 70b, 136, 141b. Schaffner, K., 135, 139b. Schindewolf, O.H., 13, 43,
130. Schopf, T., 45, 68, 175. Schrédinger, E., vm, 134-35, 139b. Schwartz,
J.H., 41, 70b. Segerstrale, U., 240b. Seilacher, A., 54-55, 179. Selzer, J.,
176, 211b. Sepkoski, J.J., 63, 65. Simberloff, D., 45, 175. Simpson, G.G.,
14-15, 21, 24, 33b, 34b, 42, 130. Sloan, R., 56. Smith, A., 8. Smith, K., 128,
140b. Smith, M., 220, 240b. Sober, E., 32b, 76, 79, 84-85, 89, 92, 97, 103,
108b, 111-12, 146, 190, 192, 212b, 215, 222, 224, 231-32, 235, 241b, 246. Solé,
R., 198, 212b. Somit, A., 50-51, 69b. Spencer, H., 6, 8, 142, 214. Spencer,
H.G., 70b. Sperber, D., 224, 241b. Stanley, S.M., 15-16, 34b, 39, 41, 52, 69b,
86, 89. Stanzione, M., 241b. Starr, T.B., 109b. Stebbins, G.L., 14, 34b. Sterelny, K., 10, 32b, 79, 85, 92, 108b, 117, 120,
127-28, 140b, 160, 173b, 194, 210, 213b, 217, 241b, 244, 246. Sutton, W., 125.
Szathmary, E., 95, 119, 209, 213b, 233. Tattersall, I., 41, 70b, 218.
Templeton, A.R., 44, 47, 100. Thom, R., 52, 133. Thompson, D’Arcy W., 30, 131,
169, 196. Tinbergen, N., 216. Tooby, J., 220, 240b. Tort, P., 33b. Trivers, R.,
222, 240. Tschermak, E. von, 13. Valentine, J.W., 65. Vane-Wright, R., 194,
212b. Van Valen, L., 25, 44, 67, 186-87, 212b.
Varela, F.J., 117. Verschuur, G.L., 71b. Voltaire (pseud. di F.-M. Arouet),
169-70. Vrba, E., 26, 41-42, 68, 70b, 86-87, 97-99, 101, 108b, 109b, 143, 151-
52, 159, 161-62, 172b, 185. Waddington, C.H.,
123, 132-33, 140b. Wagner, M., 21. Walcott, C.D., 61-64, 205. Wallace, A.R., 4,
6, 8. Ward, P.D., 56, 60, 72b. Ware, R.X., 108b. Watson, J.D., 93, 125. Weber,
B.H., 32b, 124, 140b. Weismann, A., 8, 74. Wells, W.C., 6, 229. Wesson, R., 173b.
West-Eberhard, M.J., 124, 139b. Whewell, W., x. White, M.J.D., 14, 31, 35b.
Wistow, G., 160. White, T., 41, 70b. Wolfram, S., 197, 212b. Wrhittington, H.,
62-63, 202. Wolpert, L., 129. Wiley, E.O., 70b. Woodruff, D., 155. Williams,
G.C., 9, 14, 18, 84,91, 100- Wright, R., 217, 242b. 101, 107b, 118-19, 125,
151, 173b, — Wright, S., 14, 29, 51, 78, 183, 229. 180-81, 230.33.
Wynne-Edwards, V.C., 83-84, 108b, Willis, T., 13. 22931. Wilson, D.S., 84-85,
89, 97, 103, 108b, 222, 231-32, 241b, 246. Wilson, E.O., 74, 146, 170, 175,
188, = Yang S.X., 39. 215, 223, 239, 240b, 241b, 243b, 248. Zahavi, Amotz, 229,
241b. Wilson, M.R., 70b. Zahavi, Avishag, 229, 241b. Wimsatt, W.C., 82, 108b,
193. Zeeman, E.C., 133. Il II. Indice del volume Introduzione
Frustrazioni di un collezionista di francobolli Ringraziamenti Le scienze del
vivente fra gradualismo e puntuazionismo 1. Il mondo naturale dopo Darwin, p. 3
- 2. Il gradualismo: un'immagine influente dell’evoluzione, p. 10 - 3.I molti
mo- di di definire una specie, p. 15 - 4. La speciazione allopatri- ca, p. 20 -
5. La teoria degli equilibri punteggiati, p. 24 - 6. Il problema della
stabilità, p. 26 - 7. Antidarwinismo, neo- darwinismo e darwinismi attuali, p.
30 - Cosa leggere..., p. 32 Micro e macroevoluzione: l'eredità contesa della
Sintesi Moderna 1. La nozione filogenetica di specie, p. 36 - 2. La nozione
eco- logica di specie, p. 40 - 3. Riduzionismo genetico e irriduci- bilità
della macroevoluzione, p. 46 - 4. La sfida del pensiero puntuazionale, p. 50 -
5. Le estinzioni di massa, p. 53 - 6. Mo- delli a cespuglio e critica
dell’estrapolazionismo, p. 60 - Cosa leggere..., p. 69 Replicatori e
interattori: il selezionismo genico e la teoria gerarchica dell’evoluzione 1.
La teoria dei replicatori, p. 73 - 2. La biologia fra caso e ne- cessità, p. 76
- 3. Il dibattito sulle unità di selezione, p. 82 - 4. Un caso controverso: la
selezione fra specie, p. 86 - 5. Geni egoisti e Dna egoista, p. 90 - 6. La
teoria gerarchica dell’evo- luzione, p. 96 - 7. Approccio gerarchico e fenotipi
estesi, p. 102 - 8. La doppia gerarchia di Eldredge, p. 104 - Cosa leg-
gere..., p. 107 259 36 73 IV. VI. VII. L'impero genocentrico e i suoi ribelli:
la teoria dei sistemi di sviluppo 1. La devianza come norma, p. 111 - 2. La
biologia come luo- go della determinazione, p. 113 - 3. La teoria dei sistemi
di sviluppo (DST), p. 116 - 4. Tre nozioni di contingenza, p. 119 - 5.
L’interazionismo costruttivista, p. 122 - 6. I molti modi di definire un gene,
p. 125 - 7. La genetica sistemica, p. 128 - 8. Lo strutturalismo processuale,
p. 131 - Cosa leggere..., p. 138 La dialettica tra forme e funzioni: i concetti
di adattamento e di «exaptation» 1. Perfezione e imperfezione in natura, p. 144
- 2. La teoria del «pre-adattamento», p. 146 - 3. Il concetto di «exapta-
tion», p. 150 - 4. L'evoluzione come trasformazione del pos- sibile, p. 153 -
5. Utilità attuale e origine storica, p. 156 - 6. La critica del funzionalismo
biologico, p. 160 - 7. Bricolage evo- lutivi, p. 166 - Cosa leggere..., p. 172
La selezione e i suoi limiti: funzionalismo e strutturalismo, progresso e
contingenza 1. L’articolo sui pennacchi di San Marco, p. 175 - 2. Selezio- ne e
vincoli strutturali, p. 177 - 3. Il principio delle lunette, p. 179 - 4.
Coevoluzione: la reciproca costruzione di organi- smi e nicchie, p. 182 - 5.
L’ipotesi della Regina Rossa, p. 185 - 6. La critica alla «biologia
ingegneristica», p. 187 - 7. Cla- distica e adattamenti, p. 189 - 8.
«Exaptation» e autorganiz- zazione biologica, p. 194 - 9. Complessità,
progresso ed evol- vibilità, p. 201 - Cosa leggere..., p. 211 L'evoluzione del
comportamento umano: sociobiologia, psicologia evoluzionista ed ecologia 1.
Naturalismi, p. 214 - 2. La psicologia evoluzionista, p. 217 - 3. Dalla
memetica alla teoria dell’evoluzione culturale di Cavalli Sforza, p. 222 - 4.
L’enigma dell’altruismo in natura, p. 226 - 5. Competizione e cooperazione, p.
230 - 6. La rela- zione uomo-ambiente nella filosofia della biologia, p. 234 -
Cosa leggere..., p. 240 Conclusione La filosofia della biologia oggi: consenso
riduzionista e strategie pluraliste Indice dei nomi 260 110 142 174 214 244;
253 TELMO
PIEVANI Te ANATOMIA DI UNA RIVOLUZIONE) | + ( LA LOGICA DELLA SCOPERTA
SCIENTIFICA DI DARWIN Pat. LIS (E 4 \ MIMESIS G AI EPISTEMOLOGIA - =.
“Nonostante le preoccupazioni figlie della sua mitezza, Darwin fu un uomo
libero, un esempio di intellettuale civile dentro la tempesta di emancipazione
che aveva prodotto, oggetto di quelli che definiva ‘i violenti attacchi degli
ortodossi”. Rileggiamo il suo capolavoro innanzitutto perché è ancora oggi
un'agenda aperta sul futuro. ‘Intanto questo è un principio’, aveva scritto a
Hooker nel 1869, e così è stato. Qui abbiamo cercato di raccontarne l’intricata
genesi, il metodo innovativo e la peculiare struttura interna.” Telmo Pievani
Ventidue anni di attesa e di reticenza. Dodici anni di rimaneggiamenti. L'origine
delle specie di Darwin non fu soltanto un libro. Fu un romanzo di formazione,
un travaglio teorico e umano, un cantiereaperto di idee e di ipotesi. La sua
struttura argomentativa “alla rovescia” è peculiare e rivelatrice. Dalle sue
pagine traspira la complessa logica della scoperta scientifica del naturalista
inglese e il suo metodo misto, tra induttivismo e slanci ipotetico-deduttivi.
In questo saggio il capolavoro darwiniano viene scomposto e ricomposto in un
modo del tutto inedito, seguendo le sottili tracce delle revisioni apportate
dall'autore alle sei edizioni successive dell'Opera, fino all'ultima del 1872.
Un meticoloso lavoro di scavo storico e linguistico, con una sequenza analitica
di citazioni tradotte ex novo dall'originale, che svela tutto il pluralismo
teorico di Darwin, la sua attenzione verso le obiezionidegli avversari, la
consapevolezza dei punti deboli, la forza delle evidenze e delle
argomentazioni, e soprattutto le predizioni rischiose (alcune poi corroborate,
altresmentite) che proiettarono la teoria dell'evoluzione nel futuro della
ricerca biologica. Questo libro è al contempo una guida alla lettura e una
proposta filosofica e storiografica, che permette di capire oggi il nocciolo
teorico del neodarwinismo e l'agenda dei problemi ancora aperti in filosofia
della biologia. Telmo Pievani è professore associatopresso il Dipartimento di
Biologia dell'Università degli studi di Padova, dovericoprela prima catte dra
italiana di Filosofia delle Scienze Biologiche. Dal 2001 al 2012è stato in
servizio presso l'Università degli stu di di Milano Bicocca. Filosofo e storico
della biologia ed esperto di teoria dell'evoluzione, è autore di più di 150
pubblicazioni nazionali e internazionali nelcampo dellafilosofia della scienza,
fra le quali: Homo sapiens e altre catastrofi (Roma, 2002); htroduzione alla
filosofia della biologia (Roma-Bari, 2005; edizione portoghese 2010); La
teoriadell'evoluzione (Bologna, 2006 € 2010); Gre azione senza Dio (Torino,
2006, finalista Premio Galileo e Premio Fermi; edizione spagnola 2009); /n
difesa di Darwin (Milano, 2007); Natiper credere (Torino, 2008,con V. Girotto e
G. Vallortigara ); La vita inaspett4a (Milano, 2011; finalista Premio Galileo;
Premio Serono Menzione Speciale 2012); Homo sapiens. La grande storia della
diversità umana (Torino, 2011, con L.L. Cavalli Sforza); /ntroduzione a Darwin
(Roma-Bari, 2012); La fine del mondo. Guida per apocalittici perplessi
(Bologna, 2012). Direttore del portale Pikaia, collabora con // Corriere della
Sera e con le riviste Le Scienze, Micromega e L'Indice dei Libri. ISBN
97K-88-5751-644-8 Mimesis Edizioni Epistemologia www. mimesisedizion it 9'788
448 16.00 euro 857/516 TELMO PIEVANI ANATOMIA DI UNA RIVOLUZIONE La logica
della scoperta scientifica di Darwin D MIMESIS © 2013 - Mimesis Edizioni
(Milano - Udine) Collana Epistemologia n. |} Isbn: 97888575 16448
ww.w.mimesisedizioni. it Via Risorgimento, 33 - 20099 Sesto San Giovanni (MI)
Telefono +39 02 24861657 / 02 24416383 Fax: +39 02 89403935 E-mail: mimesis@
mimesisedizioni it © ® Creative Commons INDICE INTRODUZIONE UNA LUNGA
PREPARAZIONE I IDEE PERICOLOSE E ALTRI ANTEFATTI 1. L'Essay del 1844 2.1
cirripedi e il marchio della variabilità 3. Un’accelerazione non voluta 4.
Prende avvio il cantiere dell’Origine delle specie 5. La prima grande
discussione scientifica internazionale II VARIAZIONE E SELEZIONE: IL NOCCIOLO
DELLA TEORIA DARWINIANA 1. Perché Darwin scrisse L'origine delle specie alla
rovescia? 2. Una prorompente diversità 3. La “specie”: una mera convenzione 4.
La grande battaglia della vita 5. “Legati da una trama di relazioni complesse”:
l’evoluzione è ecologia 6. Un sottotitolo fuorviante 7.1 lento scrutinio della
natura: la selezione naturale 8. La contingenza della selezione 9. Una radicale
separazione tra natura e teleologia 10. L'egoismo imperfetto della selezione
11. Il principio di divergenza 12. Irregolarità o pienezza della natura? HT LA
CINTURA DIFENSIVA |. L'altro lato del lungo ragionamento 2.1 segreti sfuggenti
dell’ereditarietà 3.II guazzabuglio della sterilità e della fertilità 101 4.
L'assenza di prove non è la prova di un'assenza 102 IV IL COMPLESSO DELLE PROVE
EMPIRICHE 109 1. La discendenza con modificazione vista nella profondità del
tempo 110 2. La discendenza con modificazione vista nel grande scenario
geografico 114 3. Isolamento e migrazione: il grande fiume della vita 117 4.
Evoluzione e sviluppo: i meravigliosi “fatti dell’embriologia” 121 5. Unità di
tipo e condizioni di esistenza 125 6. “Evoluzione”, un termine scomodo 131 V
DALL'ORIGINE DELLE SPECIE A OGGI: IL PLURALISMO DARWINIANO 139 1. La selezione:
principale, ma non unica, causa dell’evoluzione 139 2. La classificazione
genealogica e il “principio di Darwin” 142 3. Il problema degli stadi
incipienti 147 4. Perfezionamento graduale: le prima soluzione darwiniana alla
“maggiore difficoltà di tutta la mia teoria” 149 5. Cooptazione funzionale: la
seconda soluzione darwiniana alla “maggiore difficoltà di tutta la mia teoria”
153 6. Non tutto è adattamento: la terza soluzione darwiniana alla “maggiore
difficoltà di tutta la mia teoria” 158 7.I1 pluralismo di Darwin e le sue
predizioni rischiose 162 8. Due significative omissioni 167 9. L'antico
fraintendimento degli “anelli mancanti” 170 10. Più tempo. più tempo per
l’evoluzione 176 11. Il posto di Dio ne L'origine delle specie 179 12. “Non
sono fatto per seguire ciecamente la guida degli altri" 186 RIFERIMENTI
BIBLIOGRAFICI 189 Introduzione UNA LUNGA PREPARAZIONE Il successo duraturodi un
libro può dipendere anche dall’efficacia dei li- miti estremi che lo cingono.
L'origine delle specie di Charles R. Darwin (d’ora in poi OdS) presenta un
incipit e una chiusa memorabili. Quest’ulti- ma esordisce con una celebre frase
di commento che è diventata il logo ri- voluzionario del volume: “Vi è qualcosa
di grandioso in questa visione del- la vita” (p. 554). La genesi di questi due
passi, inizio e fine del capolavoro darwiniano, descrive al meglio la sofferta
costruzione intellettuale, durata più di vent'anni, dell’opera maggiore del
naturalista inglese. L'introduzione inizia con alcune note personali, di cui
Darwin si scusa e il cui scopo è “dimostrare che non sono stato troppo
precipitoso nella deci- sione”. In effetti, come vedremo, i venti anni di
attesa attestano la lunga ponderazione dell’opera darwiniana: Durante il mio
periodo d'imbarco sulla regia nave Beagle, in qualità di na- turalista, fui
molto colpito da alcuni fatti relativi alla distribuzione degli esse- ri
viventi nell’America meridionale, e ai rapporti geologici fra gli abitanti at-
tuali e quelli estinti di quel continente. Come si vedrà negli ultimi capitoli
di questo libro, tali fatti sembravano portare un po' di luce sull'origine
delle spe- cie, questo mistero dei misteri, come è stato chiamato da uno dei
nostri miglio- ri filosofi. (p.77)' I Sarà adottato qui un approccio
epistemologico di tipo genetico-evolutivo, centrato sul processo di continuo
aggiustamento teorico della struttura del “programma di ricerca” darwiniano
(‘l'evoluzione del pensiero di Darwin", secondo la definizio- ne di
Giuseppe Montalenti). OdS è il frutto di un'elaborazione cominciata ventidue
anni prima, nel 1837, e proseguita nei dodici anni che seguono la prima
edizione. Questi due processi di costruzione intellettuale rappresentano una
chiave di lettura privilegiata per capire l’opera sia dal punto di vista del
suo contesto storico sia dal punto di vista della sua architettura teorica.
L'ottima traduzione di Celso Balducci (in C. Darwin, “L'evoluzione”, Newton
Compton, Roma, 1994, pp. 175-522) è condotta sulla prima edizione. benché
presenti alla fine di ciascun capitolo le prin- cipali varianti introdotte da
Darwin nella sesta edizione (richiamate con numeri progressivi nel testo). Tali
variazioni sono numerose e capillari, con il risultato che 8 Anatomia di una
rivoluzione Quasi cinquecento pagine dopo, ecco la celeberrima chiusa di OdS:
Vi è qualcosa di grandioso in questa visione della vita, con le sue diverse
forze, originariamente impresse dal Creatore in poche forme, o in una forma
sola; e nel fatto che, mentre il nostro pianeta ha continuato a ruotare secon-
do l’immutabile legge della gravità, da un così semplice inizio innumerevo- li
forme, bellissime e meravigliose, si sono evolute e continuano a evolversi.
(p.554)* In che cosa consiste esattamente la “grandiosità” (rhere is grandeur
in this view of life) a cui fa riferimento Darwin? E soprattutto, come può un
processo cieco, senza fini e senza preveggenze, un lento meccanismo stati-
stico e demografico, costruire la maestosità della visione della vita darwi-
niana, con le sue endless forms most beautiful and most wonderful? Che cosa ha
da insegnarci ancora oggi la risposta che Darwin diede a queste do- mande? La
chiusa di OdS ha una storia peculiare, perché negli scritti priva- ti di Darwin
la vediamo ricomparire a più riprese, in versioni leggermente diverse ma con un
marchio inconfondibile, a molti anni di distanza l’una dall’altra, come se quel
celebre commiato, da consumato attore che lascia il palcoscenico dopo averci
raccontato la sua visione, fosse stato lunga- mente studiato e soppesato parola
per parola. Noi sappiamo che Darwin stava lavorando alla sua “view of life” dai
tempi dei Taccuini della Trasmutazione. ovvero da più di vent'anni prima del
1859, due decenni di segretezza e reticenze interrotti bruscamente
dall’annuncio che un altro naturalista, Alfred R. Wallace, era giunto dopo di
lui alle medesime conclusioni (Darwin, 1842-1858; Quammen, 2006). Il la lettura
delle due versioni appaiate non è agevole. La traduzione italiana più re- cente
e aggiornata del testo darwiniano, per merito di Giuliano Pancaldi, è uscita
nel 2009 nei tipi di BUR Rizzoli. Essa fa però riferimento alla prima edizione
di OdS del 1859, riportando in appendice alcune parti (‘Risposte alle
critiche”) tratte dalla sesta e ultima edizione, quella finale licenziata da
Darwin nel 1872. Per que- ste ragioni, si farà qui riferimento, in linea
generale, alla traduzione classica di Lu- ciana Fratini uscita la prima volta
nel 1967 per Bollati Boringhieri. È condotta di- rettamente sulla sesta
edizione del 1872 e il lettore potrà facilmente ritrovare tutte le citazioni
qui riportate. Tuttavia, nella traduzione dei passi, faremo qui scelte ter-
minologiche differenti se necessario, sulla base di quanto acquisito nelle
traduzio- ni successive prima citate e di una maggiore rispondenza al testo
originale inglese (che sarà aggiunto ove necessario, per sottolineare la
specificità della prosa darwi- niana). Dove la traduzione del passo è stata
modificata. aggiungeremo un asterisco al riferimento di pagina dell'edizione
Bollati Boringhieri. Per alcuni passaggi par- ticolarmente rivelatori verrà poi
analizzata la sequenza delle variazioni testuali in- trodotte da Darwin nelle
successive edizioni di OdS. Una lunga preparazione 9 periodo di stesura dei
Taccuini va dal 1836 al 1844 e corrisponde alla fase di massima
diversificazione iniziale degli interessi di Darwin (Darwin, 1836-1844). È
appena tornato dal viaggio di circumnavigazione del globo durato cinque anni a
bordo del Beagle e la sua curiosità enciclopedica spa- zia fra campi disparati
che da lì a qualche decennio diventeranno dominio di competenze settoriali. Il
Red Notebook viene inaugurato da Darwin già a bordo del Beagle nella primavera
del 1836 e compilato in viaggio nell’At- lantico, sulla via del ritorno. Le
prime osservazioni del Taccuino Rosso fanno intravedere quale sarà lo scenario
maestoso dentro il quale nasce la teoria dell’evoluzione: le trasformazioni
incessanti della superficie instabi- le del pianeta e la geologia imparata dal
maestro Adam Sedgwick e dai Principles of Geology di Charles Lyell come modello
di scienza rigorosa (p. 72 dell’originale?), perché capace di applicare i suoi
schemi semplici al mondo intero (p. 18). Darwin sente il bisogno di mettere
ordine alle osservazioni da buon in- duttivista “baconiano”, come si definirà
non senza qualche depistaggio nell’Aurobiografia iniziata nel maggio del 1876
(Darwin, 1958). Trasferi- tosi a Londra dopo il viaggio, inizia la sua carriera
accademica come geo- logo e comincia a raccogliere i commenti dei maggiori
esperti britannici a cui aveva affidato, distribuiti per competenza, i suoi
preziosi reperti. In po- chi mesi nei cinque Taccuini successivi (da A a E),
con una scrittura diari- stica da appunti di laboratorio, vediamo così
innalzarsi l’intera architettura teorica darwiniana: la discendenza con
modificazioni da antenati comuni (visibile nel tempo, attraverso i fossili, e
nello spazio, attraverso la biogeo- grafia); la moltiplicazione e l'estinzione
delle specie (con una prima fase “saltazionista” che verrà poi negata in virtù
dell’adesione all’uniformitari- smo di Lyell, tradotto nel gradualismo
evolutivo); la lotta per l’esistenza (ispiratagli dalla lettura di Thomas
Malthus nel settembre del 1838); la se- lezione naturale (così definita poi
nello Skerch del 1842); l'analogia con la selezione artificiale. In questa fase
il suo occhio è fedele ai dati osservativi in quanto tali, che vuole rendere
coerenti attraverso generalizzazioni. È colpito, come ri- corderà nell’ Awrobiografia
del 1876, da un insieme eterogeneo di eviden- ze: dal mix di somiglianze e
differenze tra grandi animali del passato Dr Le pagine fanno riferimento
all'originale darwiniano dei Taccuini curato in edi- zione critica da Barrett
er alii nel 1987. La stessa numerazione è presente nella tra- duzione italiana
parziale dell’opera: Tuccwini 1836-1844, Taccuino Rosso, Taccu- ino B, Taccuino
E, Editori Laterza, Roma-Bari, 2008, a cura di T. Pievani, trad. di Isabella
Blum 10 Anatomia di una rivoluzione (come il gliptodonte e altri mammiferi
estinti che dissotterra in Patagonia) e animali attualmente esistenti in quei
luoghi (l’armadillo); dalla distribu- zione geografica dei nandù patagonici
andando verso sud, laddove una barriera fisica come il Rio Negro fa sì che si
dividano in due specie “cugi- ne”; dalla morfologia e dalla distribuzione di
piante e animali sugli arci- pelaghi, così simili a quelli del continente
vicino ma poi diversificatisi da isola a isola. Leggendo voracemente testi di
ogni tipo, ha per le mani una matassa di dati provenienti principalmente dalla
paleontologia e da quella che oggi chiamiamo biogeografia. Dunque, evidenze
riguardanti il tempo e lo spazio insieme: non soltanto parentele genealogiche,
ma anche geo- grafiche, questo è il crogiuolo in cui nasce la teoria
darwiniana, come ve- dremo anche in OdS. Sembra lasciarsi pervadere da ciò che
ha visto, con un'attitudine ricetti- va e descrittiva. In questa prima stesura,
anche ispirandosi all’analogia tra specie e individui proposta dal geologo
italiano Giambattista Brocchi (co- nosciuto attraverso le rispettose critiche
alla sua opera contenute nei Prin- ciples of Geology di Lyell, che aveva letto
in viaggio), si convince che le specie siano entità discrete, con confini
netti, una nascita, uno sviluppo e una morte. La loro trasmutazione deve quindi
avvenire “per salti”, scrive alla fine del Red Notebook (un'affermazione
sorprendente, conoscendo il gradualismo pervasivo teorizzato in OdS). In
particolare, una nuova specie nasce rapidamente quando una sotto-popolazione
della specie madre viene a trovarsi isolata fisicamente e gli organismi dei due
gruppi finiscono per non riuscire più a incrociarsi (si crea, scrive Darwin,
una “ripugnanza all'incrocio”). È, in sostanza, l'intuizione del processo di
speciazione geo- grafica, che passerà sotto traccia in OdS e tornerà di forte
attualità nel No- vecento. Darwin sta entrando in quello che ancora oggi è il
cuore della spiegazio- ne evoluzionistica e uno dei grandi temi della filosofia
della biologia. Si in- terroga cioè su come tenere insieme il continuo e il
discreto, in altri termi- ni la trasmutazione di una specie nell'altra senza
soluzioni di continuità ma anche l'evidente distinzione fra specie diverse, sia
nello spazio (con varia- zioni geografiche continue. e tuttavia specie
distinte) sia nel tempo (con specie estinte, specie discendenti simili e non
sempre gradi intermedi di transizione fra l’una e l’altra). Ne risulterà una
rivoluzione intellettuale e metodologica, che non corrisponde soltanto e
semplicemente alla confuta- zione della teoria fissista delle creazioni
speciali (già messa in dubbio da più parti) ma all’esordio del pensiero
popolazionale unito alla visione ra- mificata della storia naturale (ciò che
oggi definiamo “tree thinking"). Una lunga preparazione Il Le basi sono
gettate per il ponte successivo, quello fra la visione ramifi- cata della
natura, già familiare agli anatomisti dell’epoca, e la sua idea di
trasmutazione. Inizia il Taccuino B, rileggendo Zoonomia, l’opera proto-
evoluzionistica del prorompente nonno Erasmus, la cui arditezza teorica era già
stata definita da Coleridge “darwineggiare”. Unisce con formidabi- le
intuizione sintetica i dati riguardanti il tempo e quelli riguardanti lo spa-
zio, in un unico schema: “Gli esseri organizzati rappresentano un albero, ir-
regolarmente ramificato, giacché alcuni rami sono di gran lunga più ramificati
di altri. Di qui i generi. Tante gemme terminali muoiono, quante ne sono
generate di nuove” (Taccuino B, p. 21). Alla pagina 36 del B - di- venuta ormai
celebre icona dei Taccuini — scrive d’un tratto “I think” e di- segna l'albero
della vita. È il suo primo diagramma evoluzionistico, uno spartiacque teorico:
la parentela universale di tutti i viventi, uniti da un al- bero genealogico
fittamente ramificato (Eldredge, 2006). Con l’idea di “moltiplicazione delle
specie” Darwin intuisce in sostanza che l’intero sistema, essenzialista e
creazionista, di classificazione bino- miale proposto nel Systema Naturae di
Carlo Linneo (la cui decima edizio- ne era uscita nel 1758) corrispondeva in
realtà a un ordine di vicinanza e di comparsa nella storia naturale. Pensa di
avere fra le mani addirittura un “nuovo sistema della Storia Naturale” (p. 47),
perché in grado di sintetiz- zare in un colpo solo concetti come speciazione,
moltiplicazione delle spe- cie, discendenza comune, estinzione. In effetti, c'è
qualcosa di ‘“grandio- so”, ma non basta. Sembra insoddisfatto, sa che gli
manca ancora il meccanismo esplicativo centrale. È un momento cruciale, perché
ha intui- to e descritto a se stesso il grande schema ad albero della
discendenza co- mune (l’evidenza primaria della sua teoria), ma non gli basta e
si mette alla ricerca di un processo causale sottostante. Vuole la linfa che
alimenta quell’albero. A p. 227 dialoga con se stesso: adesso devo concentrarmi
sul- le “cause del cambiamento”. Il linguaggio cambia: compaiono sempre più
frequentemente termini — come “leggi”, “cause”, “teoria” — connessi all’e-
sigenza di trovare una spiegazione generale di quanto finora osservato, dal- la
quale poi dedurre nuove interpretazioni e predizioni. Su un punto invece ha
ormai le idee chiare, anche grazie alla lettura di A Preliminary Discourse on
the Study of Natural Philosophy (1830) dell’a- stronomo John Herschel e alla
sua dissertazione circa le “cause vere” di spiegazione dei fenomeni naturali?:
le ipotesi creazioniste tradizionali da cui era partito non reggono più. non
hanno aderenza ai fatti. non sono in- A Insieme a Personal Narrative di
Humboldt, il libro di Herschel, scrive Darwin nell’Autobiografia. accese “in me
il desiderio ardente di portare un contributo, an- 12 Anatomia di una
rivoluzione duttivamente fondate. Se il Creatore è causa prima di tutte le
cose, deve tut- tavia operare per mezzo di leggi naturali, comprese quelle
dell'evoluzione. L'ipotesi di una sequenza di piccoli atti di “creazione
speciale” per ogni forma vivente in ogni luogo è sempre meno plausibile, “non
spiega nulla”, proprio come non ha senso, dopo aver scoperto la legge di gravitazione
universale, ipotizzare che Dio insegua ogni pianeta per tenerlo incatenato alla
sua orbita: In passato gli astronomi avrebbero potuto affermare che Dio dispose
affin- ché ciascun pianeta si muovesse seguendo il proprio particolare destino.
Allo stesso modo Dio dispone che ciascun animale sia creato con una certa forma
in una certa regione; ma quanto più semplice e sublime sarebbe una forza per
cui, agendo l'attrazione secondo certe leggi, tali siano le inevitabili conse-
guenze; essendo creato l’animale, tali saranno i suoi successori secondo le
leggi prefissate della generazione. (p. 101) Si sente il Newton della
biologia‘: l'affermazione secondo cui “tutti i mammiferi derivano da un’unica
stirpe e furono quindi distribuiti con i mezzi che possiamo riconoscere” ha lo
stesso valore epistemologico della forza di gravità nello “spiegare il
movimento di tutti i corpi con un’unica legge” (p. 196), e ciò in virtù di un
metodo induttivo che da casi particola- ri porta a generalizzazioni fondate,
dalle quali acquisiamo ulteriori cono- scenze su nuovi fenomeni prima
incompresi*. In OdS tornerà più volte l’a- nalogia con la legge di gravitazione
universale. Il fatto è che adesso ha una buona descrizione alternativa della
storia na- turale: la propagazione ramificata di specie “cugine” nel grande
albero (o corallo) della vita. Si tratta di “qualcosa che potrebbe rivoltare
l’intera me- tafisica”, perché significa che l’uomo e gli animali, “compagni,
fratelli in dolore, malattia, morte e sofferenza e fame”, condividono un
antenato co- mune (p. 232). Nel processo di indagine darwiniano appare in tutta
la sua che il più umile, al nobile edificio delle scienze naturali. Nessun
altro libro ebbe su di me un'influenza simile a quella di queste due
opere" (p. 49). +4 Questa nota di un Darwin ventottenne è sorprendente se
pensiamo che nel 1882 sarà seppellito solennemente nell'abbazia di Westminster
a pochi passi proprio da Isaac Newton. 5 Scrive Herschel nel 1830 che grazie a
un’induzione valida e comprensiva “siamo presenti ai fatti con gli occhi della
ragione, e così acquistiamo continuamente la conoscenza di nuovi fenomeni e di
nuove leggi. che giacciono sotto la superficie delle cose e danno origine a
nuove parti di scienza, sempre più remote dall'osser- vazione comune” (in
Giorello. Introduzione all'Aztobiografia di Darwin. edizio- ne Einaudi 2006. p.
X) Una lunga preparazione 13 importanza il rapporto fra l'accumulo tortuoso
delle “scoperte” che il natu- ralista fa e la sua relazione consapevole con
esse. Non basta, insomma, sco- prire qualcosa: occorre anche esserne coscienti
e rendersi conto di avere fra le mani una spiegazione alternativa rispetto a
quelle contenute nella “cono- scenza di sfondo”. Ora gli manca il motore della
diversificazione, la legge del cambiamento. Quella che comincia a chiamare
quasi affettuosamente “my theory” (alle pp. 219 e 224 del Taccuino B) e che
potrebbe avere una conseguenza piuttosto pericolosa: scoprire che la specie
pensante forse non è il fine ultimo della storia naturale. Del resto, “gli
animali — quelli che abbiamo reso nostri schiavi — non ci piace considerarli
nostri eguali. I padroni di schiavi non vorrebbero forse attribuire l’uomo
negro a un altro genere?” (p. 231; per capire quanto sia stata importante,
nella formazione delle idee di Darwin, la sua opposizione allo schiavismo, si
veda Desmond, Moore, 2009). Eppure, “animali con af- fetti, imitazione, paura,
dolore, dispiacere per i morti, rispetto”. E conclu- de: “potremmo essere tutti
legati in un’unica rete”. Come vedremo, per Darwin l'evoluzione è una trama
ecologica di relazioni complesse. La grandiosa visione della vita che troviamo
nella chiusa di OdS comin- cia così a prendere forma in un foglietto del 1837:
Quando parliamo degli ordini superiori, dovremmo sempre dire, intellet-
tualmente superiori. Ma chi, al cospetto della Terra, ricoperta di splendide
sa- vane e foreste, oserebbe dire che l'intelletto è l’unico scopo di questo
mondo? (p. 252) Nei Taccuini centrali del 1838 (C e D) Darwin mostra un
interesse cre- scente per questioni epistemologiche, con apprezzamenti sempre
più mar- cati per un rigoroso metodo induttivo in cui si susseguano confluenze
di in- duzioni (mettere in ordine fatti sparsi), spiegazioni (le cause o leggi
che producono il cambiamento delle specie, ottenute come generalizzazioni dalle
evidenze) e previsioni su fatti non ancora noti (Kohn, 1980). È in- fluenzato
dal dibattito sulle scienze induttive che si svolgeva in Inghilterra in quegli
anni per opera del filosofo e matematico William Whewell (cono- sciuto a
Cambridge prima di partire per il viaggio), nonché di John Stuart Mill e dello
stesso Herschel. In un passo di sorprendente modernità episte- mologica,
nell’agosto del 1838 scrive: Quantunque nessun fatto nuovo venga scoperto da
queste speculazioni, an- che se parzialmente vere esse sono della massima
utilità per l'obiettivo della scienza, ossia la predizione. Prima che i fatti
siano raggruppati e denominati, 14 Anatomia di una rivoluzione non vi può
essere predizione. L'unico vantaggio di scoprire leggi è prevedere che cosa
accadrà e vedere una connessione tra fatti sparsi. (Taccuino D, p. 67) Prende
forma quella che in realtà è la peculiare metodologia darwiniana, descritta
tempo dopo anche dal figlio Francis: come vedremo in OdS, né ingenuo induttivismo
da ligio raccoglitore di fatti curiosi (la famosa meta- fora squalificante,
nata negli ambienti della fisica, del naturalista come “collezionista di
francobolli”), né deduttivismo speculativo e astratto da fi- losofo
sistematico, bensì una miscela potente di acume osservativoe di sin- tesi
teoriche, capace di tenere insieme una massa eterogenea di fenomeni.
Nell’Aurobiografia definirà la sua mente come “una specie di macchina per
estrarre delle leggi generali da una vasta raccolta di fatti” (ed. it.p. 121) e
a proposito proprio dei Taccuini giovanili dirà di aver lavorato “secondo i
principi baconiani” e “senza seguire alcuna teoria” (p. 101). Ma il suo
“raggruppare tutti i fatti sotto leggi generali” (ibid., p. 123) aveva poi un
lato discendente: nonostante la sua “diffidenza verso i grandi ragionamen- ti
deduttivi nelle scienze naturali” (ivi), da quelle leggi seppe trarre sia una
moltitudine di predizioni osservative sia ulteriori ardite congetture. Biso-
gna infatti essere scettici nei riguardi delle proprie ipotesi, aggiunge, ma
non eccessivamente, non al punto da rimanere paralizzati nel fare esperi-
menti. Un po’ di coraggio teorico e di immaginazione, misti allo spirito di
osservazione, è ciò che serve? Alcuni schemi osservativi hanno invaso in pochi
mesi la sua mente. in- nescando ulteriori domande. Le nuove ipotesi, rese
coerenti fra loro. gene- rano predizioni plausibili. Riecheggiando la History
of the Inductive Scien- ces di Whewell, che dice di avere molto apprezzato,
scrive: “Il genere di ragionamento spesso seguito in tutta la mia teoria
consiste nello stabilire un punto come probabile mediante l’induzione,
applicandolo poi come ipote- si ad altri punti per vedere se li risolve”. È al
lavoro la logica della scoper- ta scientifica di Darwin, non però esattamente
improntata al fedele indutti- vismo baconiano professato nell’ Autobiografia”
ma assai più complessa 6 La nipote Nora Barlow scrive in Appendice
all'Autobiografia: “Il suo genio era come una trama composta di duc elementi
intimamente uniti: l'amore per l’'osser- vazione diretta dei fatti naturali e
la necessità di formulare una teoria per spiegare tutti i fatti che osservava”
(op. cit. p. 139). Nel 1861. in una lettera a Henry Fawcett, Darwin aveva
scritto: “E molto strano che non tutti capiscano che ogni osservazione, per
avere qualche utilità, deve essere a favore 0 contro qualche opi- cit. in
Autobiografia, ed. it. cit. p. 142). 7 Nell'introduzione all'edizione Einaudi
2006 dell'Aurobiografia, Giulio Giorello nota che “il timore
baconianodell'eccesso di fantasia e del rischio della precipito- Una lunga
preparazione 15 (Ghiselin, 1969). Darwin teme le anticipazioni avventate del
metodo de- duttivo, ma ammette di averlo praticato. Sempre nell’ Autobiografia,
a pro- posito della sua teoria (poi rivelatasi corretta) sulla formazione degli
atolli corallini, scrive: Nessun altro dei miei lavori fu incominciato con un
atteggiamento mentale così deduttivo: infatti la teoria era già stata
completamente pensata fin da quando ero sulle coste occidentali del Sud
America, e ancora non avevo visto una vera scogliera corallina, sicché non mi
rimaneva che verificare e comple- tare le mie opinioni con un accurato esame
delle scogliere di coralli viventi. (p. 80) Qui potremmo sostituire “mie opinioni”
con “mie predizioni”. Ciò che in realtà Darwin teme non è il coraggioso
deduttivismo scientifico del teo- rico dotato di straordinarie abilità
osservative, quale lui era, bensì il dedut- tivismo filosofico malamente
sorretto da citazioni libresche, affermazioni infondate, universalizzazioni
senza evidenze. È precisamente l’atteggia- mento che condanna in Herbert
Spencer, il padre dell’evoluzionismo pro- gressivo e fautore di innumerevoli
fraintendimenti circa il significato della teoria darwiniana. Nell’
Autobiografia non è per nulla tenero. Pur apprez- zando il suo talento, Non
credo che la conoscenza delle opere di Spencer abbia avuto qualche in- fluenza
sul mio lavoro. Il metodo deduttivo con cui egli tratta ogni argomento è
assolutamente contrario alla mia mentalità. Le sue conclusioni non mi con-
vincono mai; e ogni volta, dopo aver letto una sua discussione, mi vado ripe-
tendo: ‘ecco un argomento che richiederebbe sei anni di lavoro’. (p.90) E poco
oltre spiega la differenza che ha in mente tra le mere “definizio- ni” alla
Spencer e le sue “leggi naturali”, cioè il potere predittivo sulla base
empirica: Le sue generalizzazioni fondamentali (che qualcuno ha ritenuto
d'impor- tanza pari a quella delle leggi di Newton!) forse sono molto
importanti filoso- ficamente, ma non sembrano utili da un punto di vista
rigorosamente scientifi- sa anticipazione è quasi un luogo comune nelle
riflessioni accademiche nelle Iso- le Britanniche nella prima metà
dell'Ottocento" (p.1X). In OdS Darwin ama ripe- tere, in modo quasi
rituale e sicuramente per schermirsi, che le leggi da lui scoperte forse non
hanno la forza di una deduzione logica (“it may not he a logi- cal
deduction" - p. 337). ma sono molto meglio di ogni spiegazione precedente
perché più probabili. 16 Anatomia di una rivoluzione co. Esse hanno il
carattere di definizioni anziché di leggi naturali e non servono a prevedere
che cosa accadrà nei vari casi particolari. (ivi)? L'impressione è che Darwin
abbia in mente un metodo ipotetico-dedut- tivo alternativo, “rigorosamente
scientifico” nel senso che le generalizza- zioni sono prima raggiunte per via
induttiva. Ma poi lo slancio teorico non è affatto di corto respiro. Per
esempio cerca sempre di anticipare gli avver- sari, immaginando le loro
obiezioni per prevenirle. Lo farà anche in OdS: Per molti anni avevo seguito
l'ottima regola di annotare subito e senza fal- lo tutto ciò che era contrario
ai risultati generali della mia teoria: fosse un fat- to, una nuova
osservazione o un pensiero che mi capitava di leggere, perché avevo imparato
per esperienza che i fatti e i pensieri contrari tendono a sfug- gire alla
memoria più facilmente di quelli favorevoli. Per questa abitudine po- che
furono le obiezioni alla mia teoria che già non avessi considerato e a cui non
avessi cercato di dare risposta. (Autobiografia, ed. it. cit. p. 105) È
significativo che durante il processo di scoperta lo scienziato stia ri-
flettendo così razionalmente e intensamente sul proprio metodo (Krausz, Dutton,
Bardsley, 2009). In un corpo a corpo incessante, vede schemi di connessione tra
fatti sparsi, armato dei quali torna poi alle osservazioni, e poi di nuovo alla
teoria in un andirivieni di revisioni, errori rivelatori, con- getture e
confutazioni. Più che un’epifania, sembra una lotta, la scalata di una vetta
controintuitiva, così poco inconscia che ne coglie subito le impli- cazioni
filosofiche e psicologiche (Gruber, 1974; Keynes, 2001): se ho vi- sto bene,
nota quasi impaurito, vuol dire che non vi è finalità intrinseca nel- la storia
della natura e che la teologia naturale poggia su piedi d'argilla. Come scrisse
Giuseppe Montalenti nell’introduzione all’edizione italiana di OdS del 1967,
qui c’è la rottura di un’intera “cosmogonia”. il crollo di antiche armonie
prestabilite (p. 10). La teleologia viene sostituita da una spiegazione
meccanicistica e storica al contempo. È una svolta non soltan- to scientifica,
ma anche filosofica e persino per certi aspetti psicologica (Girotto, Pievani,
Vallortigara, 2008). Ora dunque ha una ‘teoria su cui lavorare” (Autobiografia.
ed. it. cit. p.). Mentre rimugina su questioni metodologiche, trova la pietra
angolare della & = Eppure, assecondando l’idea di introdurre l’espressione
“sopravvivenza del più adatto”. vedremo che Darwin in OdS mostrerà di essere
tutto sommato sensibile all'influenza di Spencer. Nella quarta edizione. lo
cita positivamente come colui che ha individuato il “principio della vita”,
cioè le incessanti azioni e reazioni di forze vitali diverse che tendono a
equilibrarsi (p. 358), e lo ritiene il fondatore dell'approccio evoluzionistico
in psicolog Una lunga preparazione 17 sua concezione il 28 settembre 1838,
leggendo la sesta edizione del 1826 del “Saggio sul principio di popolazione”
di Thomas Malthus (uscito la pri- ina volta nel 1798) e gli articoli del
botanico svizzero Augustin Pyrame de Ciandolle sulle severe dinamiche
popolazionali in fasi di scarsità di risorse e sulla guerra fra specie rivali.
Già da solo aveva ipotizzato che vi potesse es- sere un controllo “naturale”
del numero di organismi, ma è l'economia po- litica di Malthus a mostrargli —
sulla scorta di un’intuizione che era già sta- ta di Benjamin Franklin — che le
popolazioni biologiche lasciate a se stesse tenderebbero a proliferare
indefinitamente in modo accelerato e che soltan- to la scarsità di risorse
disponibili e di mezzi di sussistenza le mantiene en- tro dimensioni
equilibrate in virtù di una lotta per la sopravvivenza che tem- pra i
sopravvissuti. Non minore influenza sembra avere avuto, in quelle settimane, la
lettura de La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, con la sua interpretazione
della concorrenza individuale come motore del cambiamen- to in un regime di
/aissez faire: il vantaggio del singolo, se lasciato opportu- mamente esprimere
nella libera iniziativa, diventa vantaggio per la nazione. Ancora una volta,
alternandosi tra i taccuini scientifici e quelli che di- remmo oggi
“filosofici” (ovvero concernenti le “ricerche metafisiche” dei l'accuini M e
N), come in tutte le accelerazioni cruciali della sua creatività scientifica
usa una metafora, un’analogia, un ponte fra idee, che tornerà an- che al centro
di OdS: Si potrebbe dire che esiste una forza come di centomila cunei che cerca
di spingere ogni genere di struttura adattata nelle lacune dell'economia della
Na- tura, 0 piuttosto di formare lacune spingendo fuori i più deboli. La causa
fina- le di tutta questa azione dei cunei deve essere quella di vagliare la
struttura ap- propriata e adattarla al cambiamento. (Taccuino D, p. 135) Ha
colto il meccanismo esplicativo che gli mancava, l'origine degli ‘adattamenti,
anche se la chiamerà “selezione naturale” soltanto nel 1842. I freni
malthusiani in natura sono la competizione, la predazione, la riprodu- zione
differenziale, le estinzioni: tramite essi, la “mano invisibile” della se-
lezione favorisce i portatori di varianti che offirono un vantaggio contingen-
te nella lotta per la sopravvivenza. Con il Taccuino E il romanzo di formazione
scientifica del giovane Darwin trova un suo primo, provvisorio compimento.
Viene redatto durante quell’autunno. fino al luglio del 1839, rimuginando
sull'idea di settembre, che è riassunta in tre principi: 1) 1 nipoti come î
caso di cambiamenti to] dai genitori. (p. 58) ni; 2) tendenza a piccoli
cambiamenti, specialmente in : 3) grande fecondità rispetto al sostegno
[assicura- 18 Anatomia di una rivoluzione Ereditarietà, variazione, eccesso di
fecondità, competizione, selezione: sono le basi della sua spiegazione, il
nocciolo del programma di ricerca darwiniano. Concentra le sue attenzioni sulla
variazione e sull’ereditarietà: ha colto che la selezione agisce sulle
differenze, in qualche modo traman- dabili, tra organismi in competizione
all’interno di una popolazione. Para- gona la lunghezza del tempo geologico a
ciò di cui sono capaci gli alleva- tori in pochi anni: un altro dei suoi ponti,
fra selezione artificiale e selezione naturale, è lanciato. Capisce così di
avere fra le mani la spiegazione del “mistero dei miste- ri” di cui gli aveva
parlato proprio John Herschel a Città del Capo nel giu- gno del 1836, durante
un pranzo “nella sua incantevole casa al Capo di Buona Speranza”
(Autobiografia, p. 88): la causa della comparsa di nuove specie e delle
successioni fossili, il più grande problema aperto per il futu- ro della
scienza. Anche Herschel aveva letto Lyell, era antischiavista come Darwin e si
interrogava in quegli anni sull’origine delle specie animali e vegetali, a suo
avviso un mistero divino. Il giovane Darwin, due anni dopo a Londra, nutre
segretamente idee molto diverse: quell’origine non ha al- cunché del mistero
divino, è del tutto naturale, ed è proprio ciò che spiega la fondamentale unità
di tutti gli esseri umani. Il suo segreto sta tutto in due parole: “cause
intermedie” (p. 59), quelle cause materiali che ora ha capito di aver
intravisto. Gli scappa persino un “hurrah” di gioia. Ha la piena con-
sapevolezza della sua scoperta. L'importanza di questo momento verrà
suggellata, ventuno anni dopo, dalla citazione del “mistero dei misteri” di
Herschel all’inizio di OdS. Ora che ha trovato la grande “legge del
cambiamento” che cercava, la selezione naturale, torna indietro a
reinterpretare le osservazioni accumu- late precedentemente. Il primo dato che
rivede è l’apparente mancanza di cambiamento continuo e lento che si osserva
nei reperti fossili: lo attribui- sce ora non più al carattere discreto delle
specie-individui, ma alle lacune della documentazione stessa, perché il
nocciolo variazione-selezione gli impone d’ora in poi di pensare a un ritmo
uniforme di cambiamenti lenti e insensibili di generazione in generazione.
anche se non sempre si vedono. La teoria comincia a “esigere” il suo prezzo.
Qui Darwin capisce di poter applicare alle sue idee sui viventi quanto Charles
Lyell aveva indicato per le trasformazioni della superficie terre- stre: mai
ipotizzare cause o meccanismi speciali e drammatici quando si può spiegare la
situazione presente attraverso l'azione cumulativa delle medesime. piccole
cause. agenti oggi tanto quanto nel corso di un lunghis- simo periodo di tempo
passato. Questo metodo “uniformitarista” o ‘“’attua- lIna lunga preparazione 19
lista” diverrà la strategia di Darwin per opporsi anche al catastrofismo del
grande anatomista e paleontologo francese George Cuvier, propugnatore «ella
teoria dell’alternanza di periodiche “rivoluzioni” nelle faune?. Sulla scia di
Lyell, si impegna a cercare “lente gradazioni di forme” in serie verticali,
piccole modificazioni cumulative nei fossili. Se non si tro- vano è colpa delle
contingenze della fossilizzazione, dell’intermittenza «ella sedimentazione,
come cercare fra le pagine di un libro strappate. Na- sce così un lungo
fraintendimento, che domina l'OdS e che si trascina fino iagli anni settanta
del Novecento: ovvero, la necessità o meno di postulare non solo la continuità
del cambiamento ma anche un rigido gradualismo all’interno della struttura
esplicativa darwiniana. Ora l’interesse di Darwin è puntato più sugli organismi
come individui in concorrenza che sulle spe- cie come entità discrete di
livello superiore. Il quadro assume tinte fosche: l'evoluzione implica anche
un’ecatombe di individui che non ce la fanno. Il 12 marzo 1839 escogita la
celebre immagine delle guerre silenziose del- la natura che piacerà così tanto
al poeta Alfred Tennyson e che tornerà in OdS: È difficile credere nella
guerra, terribile ma silenziosa, che ha luogo fra es- seri organici nei boschi
tranquilli e nei campi ridenti. (p. 114) Una triste asimmetria risiede nella
storia della natura fra l’estinzione, così rapida e irrimediabile, e la
trasmutazione, lenta e faticosa. È interes- sante notare che Darwin non usa qui
il termine “evoluzione” — come qua- si mai anche vent'anni dopo in OdS — perché
attribuito a quel tempo allo sviluppo individuale, alla crescita
dell'organismo. Il cambiamento delle specie è un’altra cosa: non ha “cause
finali” né frecce del tempo verso for- me adulte (p. 146), poiché le sorgenti
di variazione sono spontanee, cioè indipendenti dai possibili effetti più o
meno adattativi che avranno sui portatori, e l’adattamento è un processo
contingente e locale, relativo a condizioni di esistenza mutevoli, dipendente
spesso da rimaneggiamenti imperfetti e da correlazioni fra le parti che
compongono il piano corporeo degli organismi. Quindi la trasformazione dei viventi
non è progressiva, non è una tendenza verso la maggiore complessità
dell’organizzazione, non è l'esito di una volontà interna degli animali, come
scriveva l’avver- sario di Cuvier, il grande naturalista francese Jean-Baptiste
Lamarck nel 4 “Gli effetti positivi dell'opera di Lyell si potevano chiaramente
rilevare confron- tando il progresso della scienza inglese con quella
francese”, Autobiografia, ed.it. cit. p.83. 20 Anatomia di una rivoluzione
1809, anno di nascita di Darwin e anno di uscita della Philosophie zoolo- gique
del francese. Darwin si accorge del fatto che la rottura con la teleologia
adattativa e l’inserimento della specie umana nell’albero della vita, senza
“eccezioni” metafisiche, lo stanno portando in rotta di collisione non soltanto
con il progressionismo di Lamarck — alla cui opera era stato introdotto dallo
zoo- logo marino Robert E. Grant'° già nei primi anni di studi di medicina a
Edimburgo - ma soprattutto con la trattatistica devota dominante in quegli
anni, quella della teologia naturale dei “Bridgewater Treatises”, che nei di-
versi settori delle scienze naturali cercavano di moltiplicare l'argomento del
disegno della Natural Theology di William Paley (pubblicata nel 1802) mostrando
“il potere, la saggezza e la bontà di Dio per come si manifesta nelle opere
della Creazione”. È percorso dal brivido di aver capito che lo smantellamento
della religione naturale per via logica e argomentativa — operato da David
Hume, che rilegge avidamente in quei mesi a Londra as- saporando le sue critiche
all’idea leibniziana di “armonia prestabilita” — è ora possibile anche per via
scientifica: c'è un altro modo, del tutto privo di finalismo, per spiegare i
meravigliosi adattamenti degli organismi, dall’oc- chio del camaleonte al volo
silenzioso del gufo. Non si tira più indietro: La storia geologica dell’uomo
sarebbe perfetta come quella dell'elefante, se solo si scoprisse qualche genere
imparentato con l’uomo come Mastodon lo è con l'elefante. L'uomo agisce sugli
agenti organici e inorganici di questa ter- ra, ea sua volta ne subisce
l'azione, come ogni altro animale. (p. 65) “Come ogni altro animale”, e non
solo: “È difficile pensare a Platone e Socrate intenti a discutere
l’immortalità dell'anima quali discendenti line- ari di un mammifero che troverebbe
la sua collocazione nel Systema Natu- rae” (p. 76). Nel Taccuino M aveva
scritto nell’estate del 1838: “Per evita- re di dichiarare quanto io creda nel
Materialismo, dico solo che le emozioni, gli istinti, i diversi gradi di
intelligenza sono ereditari ed è così perché il cervello di un bambino somiglia
a quello dei suoi antenati” (p. 57). Sono idee pericolose, che potrebbero
pregiudicare la sua carriera. ap- pena iniziata sotto i migliori auspici e con
i favori dei maggiorenti della co- munità scientifica britannica. Lo scopritore
inizia a sentirsi intimorito. Me- glio per il momento chiudere i Taccuini in un
cassetto. OdS è ancora lontana da venire. 10 Citato come precursore nel
compendio storico di OdS, per via delle sue idee tra- sformiste (p. 70) Una
lunga preparazione 21 Nei venti anni che intercorrono fra i Taccuini e OdS,
Darwin soprattutto consolida il suo programma di ricerca, aggiungendo alla
selezione natura- lc il più generale principio di divergenza graduale delle
specie (Browne, 2)2). Nell'estate del 1842, pochi mesi prima di trasferirsi a
Down House nel Kent (dove resterà fino alla morte), approfittando di un
soggiorno sere- no nella casa paterna decide di compilare a matita un “abbozzo”
della sua teoria segreta. Sente probabilmente il desiderio di sistematizzare le
sue idee, dopo l'accumulo di pensieri affastellati nei Taccuini. Così nelle
tren- ticinque pagine dello Skerch troviamo la prima ossatura dell’impianto
esplicativo darwiniano!!. Descritti nella prima parte i meccanismi che producono
il cambiamento «delle specie, nella seconda organizza per tipologie le sue
classi di prove: la «documentazione fossile, di cui cerca di spiegare
l'apparente discontinuità ipotizzando che il dato geologico sia frammentario e
imperfetto, per avva- lorare in questo modo il suo gradualismo; la
distribuzione geografica delle specie, come indizio della loro parentela; le
“unità di tipo”, o omologie, e le conversioni funzionali; le somiglianze nelle
fasi precoci dello sviluppo embrionale; gli organi vestigiali. È una
rappresentazione della natura radi- calmente innovativa, presentata qui in una
forma molto moderna, sia per- ché rimarrà pressoché la stessa nelle stesure
successive fino a OdS sia per- ché contiene barlumi di idee anticipatrici —
come quella di cooptazione lunzionale, introdotta per spiegare l’origine di
organi particolarmente com- plessi come l'occhio — su cui Darwin tornerà nella
sesta edizione di OdS del 1872. Ie bizzarrie della natura cessano di essere il
capriccio di un Creatore che insegue ogni dettaglio, perché ora nella sua mente
pochi “schemi” o “pat- tern” possono rendere conto di una vasta eterogeneità di
fatti naturali. La selezione naturale, intuisce Darwin, è un processo senza
scopi, senza inten- sioni, senza premonizioni. È un insieme di meccanismi
demografici imper- sonali dagli esiti contingenti e imperfetti, per quanto
funzionali. Dalla si- lenziosa guerra per le risorse e dalla sopravvivenza
differenziale degli unlividui deriva dunque il bene più alto — chiosa Darwin,
facendo qui le prove generali della sua caratteristica prosa — e cioè la
comparsa degli ani- mali superiori, ma soprattutto una “grandiosa visione della
vita” che da un semplice inizio si è irradiata nella esuberante diversità delle
specie passate « presenti, evolvendosi in “innumerevoli forme, bellissime e
meraviglio- tt Peruna recente traduzione della Skerch darwiniano, a opera di
Isabella Blum, si veda: C. Darwin, L'origine delle specie, Abbozzo del 1842 —
Lettere 1844-1858 - Comunicazione del 1858, Einaudi, Torino, 2009. a cura di T.
Pievani. 22 Anatomia di una rivoluzione se”. La chiusa dello Skerch del 1842 è
la stessa di OdS e poco prima trovia- mo un parallelo che tornerà nell’opera
maggiore: Non guardiamo più a un animale come il selvaggio guarda a un bastimen-
to, 0 un'altra grande opera d'arte, ovvero come a un oggetto completamente al
di là della comprensione, ma proviamo, nell’esaminarlo, un interesse di gran
lunga maggiore. (Abbozzo, ed. it. cit. p. 63) La cavalcata finale delle pagine
di OdS ha preso forma e tornerà come una presenza quasi ossessiva nei suoi
scritti privati. Ecco il passo prece- dente nella versione di OdS: Quando non
guardiamo più un organismo come un selvaggio guarda una nave, cioè come
qualcosa di assolutamente al di fuori della sua comprensione; quando
consideriamo ogni produzione della natura come avente una lunga storia; quando
contempliamo ogni complessa struttura e istinto come la som- ma di numerosi
espedienti (contrivances) ciascuno utile al suo possessore, allo stesso modo in
cui ogni grande invenzione meccanica è la somma del lavoro, dell'esperienza,
della ragione e anche degli errori di numerosi lavoratori: quando così
consideriamo ciascun organismo, quanto più interessante diviene — e parlo per
esperienza — lo studio della storia naturale! (p. 551) 23 IDEE PERICOLOSE E
ALTRI ANTEFATTI A chi confidare idee tanto scottanti? Aveva provato timidamente
ad ac- cennarle al suo mentore Charles Lyell, con scarso successo. I nuovi
oligar- chi dell'Inghilterra industriale e commerciale, i borghesi malthusiani
e ri- formatori che propugnavano i nuovi valori della competizione, del merito
© del libero scambio, le avrebbero senz'altro apprezzate. Ma non era quel- lu
dei “dissenzienti” antiecclesiastici e degli oppositori al potere anglicano il
pubblico a cui Darwin ambiva. Ancor meno lo attirava la prospettiva di
diventare un riferimento per i socialisti, per i materialisti e per gli atei
che iugitavano la società in quei mesi di disordini, di scioperi e di
rivendicazio- ni sociali. Nello Sketch aveva dichiarato in più passaggi di non
voler af- frontare di petto l'argomento della parentela fra uomo e animali, ma
sape- va che qualcuno avrebbe potuto facilmente dedurre l’implicazione. Benché
quelle e non altre fossero le sue idee, avvertiva il pericolo di essere stru-
mentalizzato, di essere coinvolto in un gioco politico che non lo appassio-
mava. Le ragioni dei vent'anni di “riluttanza” furono dunque molteplici
(Richards, 1987) e vanno ben oltre la preoccupazione metodologica di rac-
cogliere altri fatti e di “evitare ogni pregiudizio” dietro la quale si
schermi- sce nell’ Autobiografia (p. 102). |. L’Essay del 1844 Capisce,
insomma, la portata della sua scoperta, ma non vuole tradire l'élite della
comunità scientifica che lo ha accolto giovanissimo con tanto livore e tanta
cordiale generosità. Più che a una rivoluzione dal basso, punta al
convincimento graduale dell’establishment, come hanno notato gli storici Adrian
Desmond e James Moore (2009). Inizia così ad accenna- re occasionalmente al suo
“segreto” nelle lettere private, ingenerando «dubbi nei suoi interlocutori e
saggiando prudentemente l'effetto delle sue Ipotesi. 24 Anatomia di una
rivoluzione Agli inizi del 1844 gli ispira particolare fiducia un giovane
brillante botanico, Joseph Dalton Hooker, medico di bordo nella spedizione
antar- tica de! capitano Ross appena conclusa, figlio del direttore dei
giardini reali di Kew, al quale succederà'. Il Darwin pubblico ha appena
termina- to un lavoro sulle isole vulcaniche, ma in privato riprende fra le
mani il suo Sketch. Gli piacciono le idee di Hooker sulla distribuzione delle
pian- te nell'emisfero australe e decide di confidarsi. Nel gennaio 1844 gli
rac- conta a quali conclusioni è giunto a partire dalle sue osservazioni sugli
animali sudamericani e come ha cambiato idea circa la fissità delle spe- cie.
Affermare che “le specie non sono immutabili”, tuttavia, gli appare come la
confessione di “un omicidio”. L’imbarazzo e la riluttanza di Darwin sono
evidenti. In quelle settima- ne, di “trasmutazione” parlavano per le strade i
contestatori più estremi- sti, rifacendosi principalmente a Lamarck e alla sua
idea di una “Histoire naturelle” (uscita dal 1815 al 1822, alcuni anni dopo la
Philosophie z00- logique) dominata da una tendenza intrinseca nelle forme
viventi a pro- gredire verso strutture più complesse, una forza di progresso
globale per- sino più forte dell’adattamento locale. Forse anche per questo,
nella lettera ripudia con toni particolarmente duri le “insensatezze” del
france- se. Eppure la non fissità delle specie, la trasformazione graduale dei
loro adattamenti in funzione di problemi di sopravvivenza e l’importanza del-
le pressioni ambientali esterne erano indizi che la natura stessa aveva
onestamente suggerito anche a lui. Sta riconoscendo implicitamente che le
teorie di Lamarck, per quanto speculative, rappresentavano il primo si- stema
di interpretazione globale della trasmutazione dei viventi, lo sfon- do dal
quale eventualmente smarcarsi. Sulla caricatura di Lamarck dovrà ricredersi
quando, in OdS, pur continuando a rifiutare il suo progressio- nismo, dovrà
accettare almeno in parte la seconda metà dell’eredità la- marckiana: i
principi dell’uso e del disuso e dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti (per
quanto con un ruolo circoscritto a casi specifici). Cerca attenuanti.
rifacendosi ora all’antilamarckismo di Lyell e al rifiu- to dell’idea che i
cambiamenti delle forme organiche siano determinati da precedenti modificazioni
comportamentali nelle specie. Hooker. che poi I Proprio Hooker, e solo lui, si
meriterà una menzione speciale di ringraziamento da parte di Darwin
nell’Introduzione di OdS. Per una ricostruzione della parabola intellettuale
che va dai Taccuini giovanili a OdS. letta attraverso una selezione di lettere
c di documenti. si veda: C. Darwin, L'origine delle specie, Abbo del 1858.
Einaudi. Torino. 2009, traduzione di I. Blum. a cura di T. Pievani. so Idee
pericolose e altri antefatti 25 «liventerà insieme a Thomas H. Huxley il suo
migliore amico e alleato per tutta la vita, nelle sue risposte non si
scandalizza affatto. Non è persuaso, ma si dice interessato alle nuove idee. È
quanto basta perché Darwin lo «legga come complice privilegiato dei suoi
ragionamenti, travolgendolo di proposte interpretative e di domande. Lettera
dopo lettera, gli descrive la sua architettura teorica e le evidenze
accumulate, dal ruolo dell’isolamen- to geograficoagli effetti della selezione
artificiale. Facendo tesoro delle re- azioni e delle obiezioni di Hooker,
decide di riscrivere per esteso I’ Abboz- #0 di due anni prima, mantenendone la
struttura. Prende così forma nel 1844 la seconda stesura della teoria
dell’evoluzio- ne: un “Essay” di più di duecento pagine che Darwin è risoluto a
mantene- re segreto, tanto da corredarlo di una lettera per la moglie, da
aprire solo in caso di morte improvvisa, contenente le disposizioni su come
pubblicare postuma la sua opera. Così ricostruisce la vicenda in OdS: Nel 1837,
ritornato in patria mi venne l’idea che questo problema si sareb- he potuto risolvere
in parte, raccogliendo pazientemente e studiando tutti i fat- ti che avessero
rapporto con esso. Dopo cinque anni di lavoro fui in grado di avanzare qualche
teoria sull'argomento e ne scrissi alcune brevi note, che svi- luppai, nel
1844, fino ad abbozzare le conclusioni che allora mi sembravano probabili: da
quell’epoca fino a oggi ho sempre continuato a studiare lo stes- so argomento.
(p. 77) Sempre lo stesso argomento, dunque, e con spiegazioni ritenute ‘“pro-
labili”. Ma con il passare dei mesi di quel 1844 le ragioni della reticen- zi
aumentarono. Nell’ottobre del 1844 uscì anonimo un libro divulgati- vo dal
titolo “Vestiges of the Natural History of Creation’’, dove l’editore «i
Edimburgo Robert Chambers esponeva la “visione scientifica alterna- tiva del
progresso” che da tempo si annusava nell’aria. Era un testo dilet- tantesco
rivolto al grande pubblico, nel quale veniva vividamente de- scritta
un'evoluzione universale della materia, del cosmo, dei viventi e dell'uomo. Fu
un successo editoriale senza precedenti, ma l'accademia scientifica
conservatrice si scagliò contro il libro in modo veemente. Solo l'anonimato
protesse l’autore e Darwin ne fu impressionato. Era il caso di guardarsi bene
dal diffondere simili idee se voleva mantenere la sua reputazione nella cerchia
delle società scientifiche di Sua Maestà. (ili interlocutori. peraltro. non
erano tutti ben disposti come il giovane Hooker. 26 Anatomia di una rivoluzione
2.1 cirripedi e il marchio della variabilità Inizia così un prolungato periodo
di attesa e di febbrili ricerche con- dotte in modo tanto pignolo da apparire a
molti come un diversivo. Il cli- ma politico instabile, le polemiche sui
Vestiges*, i timori per le prevedibi- li reazioni alla naturalizzazione della
specie umana. il desiderio di accumulare altri dati lo induconoa tardare, di
anni e anni. Nel frattempo gli otto trattati di teologia naturale, editi grazie
al lascito del conte di Bridgewater, continuavano a essere diffusissimi. Anche
il “Giornale di viaggio” di Darwin, pur all’interno delle cronache delle
spedizioni del Beagle curate dal capitano Robert FitzRoy, mieteva successi e
decise di ripubblicarlo autonomamente nel 1845 migliorandone lo stile e aggiun-
gendo riferimenti che provenivano dalle osservazioni maturate dagli spe-
cialisti sui suoi reperti. Così comparvero - solo a posteriori, in quello che
d'ora in poi sarà l’acclamato Viaggio di un naturalista intorno al mondo — le
dissertazioni sui fringuelli delle Galàpagos e sulle differenze tra i loro
becchi, nonché una fugace allusione, di nuovo, al “mistero dei miste- ri” della
comparsa di nuove specie. Tra gli acciacchi ricorrenti, le visite in sanatorio
per l’idroterapia e le incombenze domestiche, termina un saggio sulla geologia
del Sud Ame- rica e intraprende lo studio dell’ultimo esemplare non ancora
descritto fra i materiali del Beagle, un cirripede raccolto sulla costa del
Cile nel 1835. Poi, assicura a se stesso, lavorerà su quella spinosa “questione
delle spe- cie” lasciata in sospeso. Tuttavia, il mondo di quei minuscoli
crostacei marini, per alcuni aspetti simili a molluschi, si rivelerà così
affascinante, e rassicurante, da occupare quasi dieci anni di “ricerca pura”*.
Si mette a studiare le loro strutture diversificate, i gusci e le appendici
filamentose, gli stadi di sviluppo, il parossistico dimorfismo sessuale, le
abitudini ali- mentari e riproduttive, il riutilizzo di organi per nuove
funzioni, gli esem- plari fossili e attuali. Ne classifica a migliaia
provenienti da ogni parte 3 La decima edizione dei Vesriges, del 1853, verrà
poi citata da Darwin, pur critica- mente, nel compendio storico di OdS: “Ila
funzione molto utile che ha svolto in questo paese è stata quella di aver
richiamato l’attenzione sull'argomento. di aver rimosso certi pregiudizi, e preparato
così il terreno alla comprensione di idee ana- loghe" (p. 72). 4
Inunalettera a John S. Henslow del 1848 scrive: “To credo che esista, e lo
sento dentro di me, un istinto della verità, v della conoscenza o della
scoperta, qualcosa che ha la stessa natura dell’istinto della virtù, e che
l'avere un simile istinto sia motivo sufficiente per condurre ricerche
scientifiche senza che ne venga mai un risultato pratico” (1 aprile 1848). llee
pericolose e altri antefatti 27 «lel pianeta e diviene in alcuni anni la
massima autorità mondiale in fatto «lr cirripedi. Aveva rimuginato troppa
teoria generale sulle specie, ora vo- leva una monografia minuziosa: la
descrizione completa e definitiva di uni piccola porzione di natura, anche se
da ciò non fosse derivato alcun iisultato pratico. la sottoclasse di crostacei
si rivelò, del tutto imprevedibilmente, come un autentico scrigno di bizzarrie
e di diversità, con maschi parassiti delle fem- mne, specie ermafrodite e
un’intera gamma di comportamenti e di strutture sessuali che
dall’ermafroditismo giungevano alla divisione completa in due sessi definiti.
Una “trasmutazione”, circa il ruolo dei sessi, osservata in fieri. {Du questo
microcosmo di stranezze Darwin intuisce che la variazione in na- tura è
permeante, continua e ampiamente sottostimata. È: soltanto grazie a uno studio
così analitico e a tappeto che le diversi- tn individuali — non soltanto quindi
fra specie diverse, ma anche all’inter- no di ogni popolazione — gli appaiono
ora chiaramente come il combusti- bile indispensabile del cambiamento, la
materia prima di base su cui ngisce la selezione naturale. In questo modo
Darwin scuote un altro pila- stro del pensiero convenzionale all’epoca, secondo
il quale la diversità andava misurata a livello di “tipi” di specie o di
“generi naturali”, intesi come modelli ideali, archetipici e sostanzialmente
immutabili. Secondo «uesta visione essenzialista, la variazione a livello più
basso fra individui (evidenza innegabile anche prima di Darwin) era intesa
negativamente come la manifestazione imperfetta dell'essenza più alta della
specie, lo scarto dalla norma, la deviazione dallo standard. Esplorando le
pullulan- ti diversità dei cirripedi a ogni livello, Darwin capisce che la
variazione individuale è al contrario. e positivamente, il presupposto delle
trasfor- mazioni delle specie. Non c'è un organismo uguale all’altro, ed è
proprio questo che conta. Per le stesse ragioni si accorge che la distinzione
fra “specie” e “varietà” interne alle specie è ambigua: le popolazioni che presentano
variazioni lo- cali potrebbero essere l’inizio di un processo di divergenza che
condurrà a vina nuova specie, e il confine fra le due entità non è sempre
netto. Trovare «quindi le linee di demarcazione tra due specie è spesso
difficile. L'unifor- mitarismo alla Lyell, indotto dalla gradualità di azione
della selezione na- turale, acquisisce un’importanza crescente nella filosofia
darwiniana e di- venta una forma di continuismo forte che non prevede salti né
discontinuità, tanto nel tempo quanto nello spazio: le variazioni emergono 1
tutti i livelli e complicano il mestiere del sistematico. Darwin sente così il
bisogno di formulare un principio integrativo più generale che renda con- 28
Anatomia di una rivoluzione to delle diversificazioni a ventaglio delle specie.
Occasionali isolamenti geografici non gli bastano più. Risale probabilmente al
1850 il viaggio in carrozza durante il quale Dar- win sostiene di aver avuto
l’illuminazione cruciale riguardante la relazione fra la selezione naturale e
la differenziazione arboriforme delle linee evo- lutive: gli esseri organici
derivanti da uno stesso insieme ancestrale, se do- minanti, avranno la tendenza
a crescere di numero e a divergere nelle loro caratteristiche adattative nel
corso dell’evoluzione, poiché saranno portati a occupare nicchie diverse
dell'ambiente e a differenziare le loro abitudini, come in un processo di
specializzazione e di divisione del lavoro nell’eco- nomia della natura. La
separazione fisica delle popolazioni non è più indi- spensabile, perché in
contesti ecologici sempre tendenzialmente affollati e pieni le specie saranno
indotte a competere fra loro, a frammentarsi o a estinguersi, in ragione della
sola selezione naturale fra individui. È il “prin- cipio di divergenza” al
quale il naturalista d’ora in poi assegnerà un grande valore teorico5, perché è
convinto che gli permetta di legare la struttura ge- rarchizzata della
tassonomia biologica al cuore esplicativo della selezione naturale. Lo scritto
teorico sulle specie, che decide di intitolare Natura! Selec- tion, viene nel
frattempo continuamente rimandato. Nei primi anni cin- quanta del XIX secolo lo
scenario culturale inglese stava cambiando. Au- torevoli teologi sfidavano le
letture conservatrici dei testi sacri, giovani naturalisti riformatori erano in
ascesa e le idee trasformazioniste sul pro- gresso vittoriano della natura e
della società erano sempre più nell'aria tra i liberali borghesi, per opera
soprattutto dello storico Henry Buckle, del filosofo lamarckiano Herbert Spencer
(è già del 1852 il suo libro L'i- potesi dello sviluppo) e di un irruente
zoologo di nome Thomas Henry Huxley. Darwin ricevette nel 1853 la Royal Medal e
terminò i quattro vo- lumi progettati (due sui cirripedi peduncolati, fossili e
viventi, e due su tutti gli altri), ancora oggi un punto di riferimento per gli
specialisti. Fi- nalmente nel maggio 1856. incoraggiato da Lyell, avvia la
stesura di Na- tural Selection, interrotta da occasionali diatribe
sull’esistenza o meno di continenti sommersi. Sentiva di possedere adesso
l'autorevolezza suffi- ciente e di avere attorno un clima sociale e scientifico
più favorevole. s “Non riesco a capire come abbia potuto non vederlo e non
trovarne la soluzione: era l'uovo di Colombo. Mi riferisco alla tendenza degli organismi
discendenti da uno stesso ceppo a divergere nei loro caratteri, quando si
modificano”, Autobio- grafia,ed. it. cit. p. 102. lilee pericolose e altri
antefatti 29 A. Un'accelerazione non voluta Ripartì dall’ Essay del 1844 e lo
divise in capitoli: animali domestici e selezione artificiale; fecondità e
sterilità; variazione; lotta per l’esistenza; selezione naturale; etc. Ma il
dono della sintesi gli mancava, come la- menta più volte nelle lettere del
periodo, e ben presto l’opera dilaga in centinaia di pagine di esempi e
divagazioni. Si sta imbarcando in un’ope- in monumentale, come i Principles of
Geology di Lyell che tanto lo ave- vo impressionato durante il viaggio del
Beagle. Tornò a frequentare mo- stre agricole e zootecniche, mentre a Down House
allestiva il suo amato allevamento di colombi. Intensificò gli esperimenti di
ibridazione sulle piante. Voleva vedere sul nascere il materiale grezzo di cui
si nutre la se- lezione, cioè la variabilità indefinita e spontanea degli
individui biologi- «i. Nello stesso maggio del 1856 si avvertì però il primo
scricchiolio che preannunciava un’accelerazione drammatica e inaspettata.
l.yell, che seguiva le ricerche di Darwin con interesse ma anche con una certa
trepidazione per le loro conseguenze sulla degradazione del posto dell’uomo
nella natura, lesse sugli “Annals and Magazine of Na- tural History” uno strano
articolo sulla “introduzione di nuove specie” scritto da Alfred Russel Wallace,
un intraprendente naturalista esplora- tore che si guadagnava da vivere
raccogliendo e vendendo esemplari riri. Nel testo si parlava di nascita delle
specie, di trasformazione delle razze in specie, di “albero” genealogico. Lyell
si preoccupò del fatto che le scoperte di Darwin, da così lungo tempo
coltivate, venissero anticipa- te da altri, ma questi finse tranquillità
giudicando l'articolo privo di no- vità significative. Non solo, Wallace si
trovava nel Borneo e Darwin,smanioso di informa- zioni supplementari, iniziò a
intrattenere con il collega più giovane una garbata corrispondenza,
chiedendogli l’invio di uccelli imbalsamati. In una lettera del 22 dicembre
1857, Darwin ammette che il collega ha seguito ra- gionamenti analoghi ai suoi,
ma tiene anche a precisare — con affilata cor- tesia vittoriana e un capolavoro
di messaggi impliciti — che lui ci stava la- vorando “più o meno da vent'anni”
e che comunque si era spinto “molto vltre‘*. È curioso notare quanto la teoria
dell’evoluzione nasca fra natura- listi interessati agli arcipelaghi: la
dimensione dell'isola, dalle Galfpagos «lla Sonda. le è congeniale. Nel
settembre del 1857 Darwin aveva inviato f Si veda: C. Darwin, L'origine delle
specie, Abbozzo del 1842 — Leniere 1844-1858 - Comunicazione del 1858. Einaudi,
Torino, 2009, traduzione di I. Blum, a cura di I. Pievani 30 Anatomia di una
rivoluzione al botanico di Harvard Asa Gray una sintesi dei suoi risultati e un
estratto di Natural Selection. Sul finire dell’anno è fermo al capitolo
sull’ibridi- smo. Dalle estremità dell’impero Wallace chiede notizie
dell’opera, ma Darwin non si sbilancia, anzi incoraggia il collega a formulare
le sue inte- ressanti teorie. Wallace non si lasciò pregare e nel febbraio del
1858, bloccato da una febbre tropicale sull’isola di Ternate, scrisse una
sintesi delle sue idee sul- la differenziazione delle specie. Il pacco arrivò a
Down House il 18 giugno e per Darwin fu un duro colpo. I timori di Lyell si
erano avverati. Nelle venti cartelle di Wallace c’era un modello di evoluzione
quasi identico al suo: “Se Wallace avesse avuto il mio abbozzo manoscritto,
redatto nel 1842, non avrebbe potuto farne un riassunto migliore!”, scrive
sconsolato a Lyell. Anche Wallace si era ispirato a Malthus, introduceva la
lotta per l’esistenza, associava la variazione alla selezione, e queste alla
divergenza progressiva delle specie. Qualche differenza rispetto all'impianto
darwi- niano si nota, ma la coincidenza, persino negli esempi scelti, resta
impres- sionante, uno dei casi più eclatanti di congiunzione fra due processi
di sco- perta paralleli e indipendenti. Darwin è avvilito all’idea che ora
qualcuno possa pensare che l’uscita della sua opera sia stata accelerata per
rivendicare la priorità su Wallace. Lo spiega a Lyell in una lettera del 25
giugno: posso dimostrare di non aver “preso nulla da Wallace" e ‘sarei
estremamente contento di pubblicare una sintesi delle mie idee”, tuttavia “non
riesco a persuadermi che una simile scelta sarebbe onorevole da parte mia””.
Piuttosto. che sia l'altro a pubblica- re per primo, annientando “tutta la mia
originalità”, chiede un po’ teatral- mente a Lyell. Questi escogita invece la
soluzione più saggia, che anche Wallace approverà a posteriori, invitando i due
ad annunciare congiunta- mente le loro scoperte. Come sede viene prescelta la
Linnean Society, dove Hooker è di casa e dove il primo di luglio è indetta una
riunione straordina- ria per recuperare una seduta rinviata. Il 30 giugno,
trafelati. Hooker e Lyell fanno inserire all'ordine del giorno la comunicazione
Darwin-Wallace. I protagonisti non erano presenti. Wallace era nell'arcipelago
malese. Darwin a casa in lutto per la perdita dell’ultimogenito Charles Waring
e preoccupato per un'epidemia di scarlattina che aveva già stroncato sei
bambini del villaggio. Prima che decidesse di riparare sull’isola di Wight, 7
La missiva del 25 giugno 1858 a Lyell è contenuta nella selezione di lettere
cura- ta da Frederick Burkhardt nel 1996. disponibile in edizione italiana: C.
Darwin, Lettere 1825-1859. prefazione di SJ. Gould. Cortina Editore. Milano.
1999. pp. 259-260. lee pericolose e altri antefatti 31 gli riferirono che la
reazione alla lettura dell’incartamento era stata di tie- pia indifferenza o di
sconcerto. Fra la trentina di presenti, nessuno in so- siunza si accorse della
rivoluzione. Darwin si dichiara soddisfatto comun- «ue. Meglio così, ci sarà
tempo per scrivere un compendio ottimizzato di Natural Selection. Prima pensa a
un articolo per il “Journal” della Linnean Society, poi perde il controllo
della scrittura e in tredici mesi diventa un “ri- ussunto” argomentativo di
Natura! Selection 8 Nelle conclusioni lo defini- in un volume “in forma di
compendio” (under the form of an abstract) (p. %40). Indubbiamente uno dei
riassunti più famosi della storia. L'opera del- lu sua vita. 4. Prende avvio il
cantiere dell’Origine delle specie Scritto precisamente in tredici mesi e dieci
giorni, di fretta, dopo l’arri- vo della lettera di Wallace da Ternate, il
volume presenta tuttavia una strut- tura accuratamente pensata da Darwin in
chiave di “difesa” del suo nucleo esplicativo centrale, e già quindi collaudata
in privato prima nei Taccuini, pui nello Sketch del 1842, quindi nell’ Essay
del 1844 e infine nei primi ca- pitoli del “grande libro delle specie” che
stava lentamente scrivendo dalla età degli anni cinquanta. L'OdS fu dunque
l’esito di un lungo dramma in- tellettuale e personale, cristallizzatosi in una
complessa stratificazione di appunti e di testi nel corso di ventanni”.
L'autore, ormai cinquantenne, vi giunse dopo un'avventura umana e intellettuale
piena di ostacoli, di reti- cenze, di incontri contingenti, di preoccupazioni e
di speranze. L'opera va «dunque letta nel contesto della parabola storica del
processo di scoperta condotto dal grande naturalista inglese. L'archeologia
delle idee darwinia- ne che trapela dalle pagine di OdS nelle sue sei edizioni
è infatti il modo inigliore per comprendere sia la retorica del volume, sia la
sua logica inter- ti e la sua metodologia. $. Darwin ricostruisce l'episodio
che sta alla base della rapida stesura di OdS, in modo molto corretto e
trasparente, nell'Introduzione (pp. 77-78). È probabile che nella stesura abbia
seguito il metodo “per accrescimento" che de- scrive nell’Awrobiografia a
proposito di tutte le sue opere: “Nel redigere i miei li- bri più voluminosi
dedico sempre molto tempo alla distribuzione generale della materia. Dapprima
traccio uno schizzo molto rudimentale c brevissimo di due o tre pagine, poi uno
più esteso di parecchie pagine. in cui una o poche parole stan- no al posto di
un'intera discussione o di una serie di fatti. Ciascuno di questi capi- toli
viene poi sviluppato e spesso trasformato, prima ch'io cominci a scrivere in
extenso.” (op. cit.. p. 119). 32 Anatomia di una rivoluzione Siamo allora
giunti nel 1859, nel pieno dello sviluppo industriale e inge- gneristico
dell’Inghilterra vittoriana. Londra è il cuore pulsante di un impero che
investe nelle tecnologie del vapore e del carbone. Alfred Tennyson de- canta le
ferrovie inglesi che dettano “lo squillante ritmo del cambiamento”. Tra
radicali dissenzienti e aristocrazie conservatrici, la società è percorsa da
ardenti desideri di novità e da malcelate inquietudini. Negli uffici di Alber-
marle Street John Murray — editore londinese delle guide turistiche per vitto-
riani, ma in procinto di diventare uno dei più importanti editori scientifici
dell’epoca — annuncia l’uscita del nuovo libro, lungamente atteso, del noto
naturalista e geologo inglese Charles R. Darwin, dal titolo per esteso L'origi-
ne delle specie per selezione naturale, o la conservazione delle razze favori-
te nella lotta per la vita. L'edizione ha una tiratura di 1250 copie, che
andran- no esaurite in poche ore nonostante il prezzo non proprio alla portata
di tutti: 14scellini, all’incirca un quarto dello stipendio medio di un
lavoratore dell’e- poca. L'autore nel frattempo non è a casa ad attendere
ansiosamente notizie, bensì nello Yorkshire per un periodo di agognate cure
termali. Come se nul- la fosse. La calma apparente dissimula forse qualche
inconfessabile preoccupa- zione. In realtà, sa che sta per scoppiare un
putiferio. Amato e odiato in pari misura, quel testo personalissimo, il suo
“lungo ragionamento”, è in pro- cinto di innescare una delle più accese
discussioni scientifiche e filosofiche di tutti i tempi. Ma quando Darwin riceve
la prima copia ostenta una sere- nità quasi olimpica: “Sono infinitamente
compiaciuto e fiero dell'aspetto della mia creatura”. ‘Sono lieto che lei abbia
avuto la bontà di pubblicare il mio libro”, scrive all’editore. E quale bontà.
La seconda edizione dell’opera appare dopo poche setti- mane, il 7 gennaio del
1860, stampata questa volta in ben tremila copie. Sempre austera, senza
illustrazioni in copertina né all’interno (tranne un solo diagramma), nessun
frontespizio decorato. Ad ogni edizione Darwin aggiungerà o correggerà
qualcosa. Nel 1876, quando scrive la sua autobio- grafia, ne erano state
vendute sedicimila copie (‘che sono molte se si con- sidera che è un libro
molto difficile) ed era stata già tradotta nelle princi- pali lingue europee.
compreso il giapponese: Ne è comparso anche un saggio in ebraico, in cui si
dimostra che la mia te- oria è contenuta nel Vecchio Testamento! (ed. it. cit.
p. 105) Nella seconda edizione rivede lo stile di alcuni passaggi e aggiunge
due riferimenti finali al “Creatore” come possibile ispiratore della prima
forma di vita. Nella terza. del 1861. aggiunge un significativo “Compendio
stori- llee pericolose e altri antefatti 33 «0° sul progredire delle idee
sull’origine delle specie, sulle teorie trasfor- iniste concepite prima della
sua e su chi aveva dato inizio alla trattazione «lell'argomento evoluzionistico
in modo scientifico (a cominciare soprat- tutto da Buffon, Lamarck e Geoffroy
Saint-Hilaire): distribuisce meriti, tal- valta persino eccessivi, ai suoi
precursori, compreso quel W.C. Wells che nel 1818 aveva applicato un principio
simile alla selezione naturale per spiegare alcuni caratteri delle razze umane,
seguito poi da un certo Patrick Matthew in un’opera sul legname da costruzioni
navali. Darwin ritrova «un'ombra di adattamento per selezione naturale persino
in Aristotele, il pa- «re della teleologia (Solinas, 2012), mentre a Wallace
sono riservate solo «quattro righe, essendo poi citato nell’introduzione come
causa scatenante della pubblicazione di OdS. Horse vuole essere generoso e
corretto fino in fondo, ma nell’Aurobio- urafia ha le idee chiare sul fatto che
la sua teoria non fosse per nulla già “nell'aria”: È stato spesso detto che il
successo dell'Origine ha dimostrato che ‘l’argo- mento era nell'aria’ o che ‘le
menti erano preparate a riceverlo’. Non credo che ciò sia del tutto vero,
perché di tanto in tanto cercai di capire quale fosse il pensiero di molti
naturalisti sul problema, e non mi capitò mai d’incontrarne uno che mettesse in
dubbio la stabilità delle specie. Perfino Lyell e Hooker, che pure mi
ascoltavano con interesse, non si mostrarono mai d'accordo con le mie
convinzioni. (ed. it. cit. p. 106) Non a caso, il compendio storico gli servì
anche per smontare le confu- se pretese di priorità rivendicate, fuori tempo
massimo, da Richard Owen. (“n un candore descrittivo senz'altro studiato,
spesso la presentazione del- lc idee dei presunti precursori è tale da
evidenziare, al contrario, la loro estraneità alla teoria darwiniana. Nella
quarta edizione arricchì le parti riguardanti l’embriologia e i pro- cessi di
sviluppo. Nella quinta, del 1869, si lascia convincere da Alfred Russel Wallace
a usare l’espressione “sopravvivenza del più adatto” (co- niata da Herbert
Spencer nel 1864), per la quale diventerà famoso benché «i tratti di
un'espressione fuorviante (al pari di “sopravvivenza del più for- te").
Nel frattempo Appleton pubblica l'edizione statunitense e cominciano i uscire
le prime traduzioni straniere supervisionate per quanto possibile da Wirwin stesso.
non senza una certa delusione per gli inevitabili “tradimen- delle prime
traduzioni (in particolare di quella tedesca e di quella fran- «ese in chiave
sciovinistico lamarckiana). Di edizione in edizione, dinanzi alle persistenti
difficoltà nel dar conto delle cause della variazione. cresce la fiducia che
Darwin ripone. senz'al- 34 Anatomia di una rivoluzione tro controvoglia e mai
rinunciando alla centralità della selezione naturale, nei meccanismi
lamarckiani dell’ereditarietà dei caratteri acquisiti e dell’u- so e disuso
degli organi. Nell’ Awrobiografia si schermisce scrivendo che OdS non subì
sostanziali modifiche dopo il 1859: “Nelle successive edizio- ni, nonostante le
considerazioni aggiunte e le numerose correzioni, esso ri- mase sostanzialmente
inalterato” (p. 104). Ma non è esattamente così, guardando le capillari
modificazioni che ha introdotto. In una lettera a Ho- oker del 1869 confessa
che OdS è in realtà un cantiere aperto: “Se mi fos- se dato vivere e lavorare
per altri venti anni, quanto dovrei modificare l'O- rigine e quanto
profondamente dovrei correggere ogni affermazione! Intanto questo è un
principio ed è già qualcosa”. La sesta e ultima edizione del 1872, quella
solitamente adottata per le ri- stampe moderne, viene profondamente rivista da
Darwin al fine di render- la più comprensibile a un pubblico vasto e integrata
con un capitolo nuovo di risposte argomentate e dettagliate alle critiche
raccolte nei dodici anni precedenti. Darwin, sollecitato dai lettori, aggiunge
anche un glossario dei principali termini scientifici usati, con l’aiuto di
W.S. Dallas. Il suo modo di prendere sul serio le obiezioni degli avversari'° e
di rispondere in forma argomentativa è esemplare del metodo scientifico. Nel
capitolo finale di OdS scrive: Non nego che si possano sollevare molte e serie
obiezioni alla teoria della discendenza con modificazioni attraverso la
variazione e la selezione natura- le. Ho cercato di dare a queste tutta la loro
forza. (p. 526) Ma ancor più forti sono le sue risposte alle obiezioni, che in
alcuni casi anticipano concetti poi recuperati dalla teoria evoluzionistica
neodarwinia- na contemporanea. La sesta è l’ultima edizione corretta
dall'autore prima della morte!'. Viene messa in vendita finalmente a un prezzo
popolare, il ti- tolo diventa semplicemente The Origin of Species e farà il
giro del mondo come un classico della letteratura scientifica. Il vittoriano
amabile e mode- 10° Conuna clausola restrittiva, enunciata all'inizio del
capitolo settimo: è disponibi- le a rispondere a tutte le obiezioni, purché
l'interlocutore sia in buona fede e si sia preso la briga di comprendere
l'argomento (p. 265). Sulla base di questo criterio, molto ragionevole, oggi
non si dovrebbe rispondere a gran parte delle presunte “obiezioni” degli
antievoluzionisti. Il Morse Peckham, in occasione del centenario, ha pubblicato
un'ineguagliabile analisi frase per Frase di tutte le modifiche apportate da
Darwin nelle varie edizio- ni di OdS: M. Peckham, The Origin of Species: A
Variorum Text. University of Philadelphia Press. Philadelphia. 1959. hlee
pericolose e altri antefatti 35 slo che aveva scompaginato il posto dell’uomo
nella natura assistette alle schermaglie generate dal suo tomo rivoluzionario,
rilegato in cartone tela- to verde, standosene rinchiuso con la famiglia nella
casa del Kent a trenta chilometri da Londra. Grazie alle visite di cortesia e
alla fitta corrisponden- 1 seppe comunque tenersi costantemente aggiornato.
Nell’ Autobiografia, con un pizzico di misurata nostalgia, scriverà che si è
trattato “senza dub- Ino dell’opera più importante della mia vita”. E con uno
strappo all’usuale modestia: “Ha avuto fin dall’inizio un grande successo” (p.
104). . $La prima grande discussione scientifica internazionale t:ppure le
premesse erano state quanto meno tormentate. In OdS è conte- nuta un'idea
fondamentale, l’evoluzione delle specie per selezione naturale, «he Darwin,
abbiamo visto, aveva in mente dal settembre del 1838, da quan- «lo la
tratteggia per esteso nei Taccuini della trasmutazione, compilati dopo il
intorno del Beagle in Inghilterra nel 1836. La teoria rimane quindi nel casset-
to per ventuno anni. È già noto al di fuori della comunità scientifica per il
suo «lario di ricerche, quel Viaggio di un naturalista intorno al mondo definito
“eccellente” persino da chi di viaggi era autorità suprema, Alexander von
Ilumboldt. Tuttavia, in mezzo a questo trambusto, solo la moglie e pochi amici
fidati sanno della sua idea. E consapevole di avere idee ‘“materialisti- «hie'”
piuttosto sconvenienti per l'epoca. Con un libro solo, “risoluto come won mai,
mise in dubbio tutto ciò in cui i suoi contemporanei credevano sul- lu natura
vivente” (Browne, op. cit., p. 74). È: dunque sorprendente che lo stile
volutamente affabile, l’uso creativo «lelle metafore e la prosa suggestiva di
OdS che mescola linguaggio tecni- «o e linguaggio comune — né saggio
specialistico né libro divulgativo, con «citazioni che spaziano da Aristotele
all’allevatore della contea vicina, e uti- ll sommari alla fine di ogni capitolo
— si siano addensati in quelle pagine in psxchissimi mesi, durante una corsa
contro il tempo dopo lo shock procura- tugli da un collega più giovane che si
era posto gli stessi problemi, aveva letto le stesse fonti e si era dato le
stesse risposte. Darwin sintetizza drasti- cumente i capitoli già scritti per
Narura! Selection (il cui manoscritto origi- nule, nonostante le intenzioni più
volte manifestate in tal senso, non verrà uni più pubblicato dall’autore'’),
lamentandosi per le innumerevoli evi- 1* Il testo. a cura di R.C. Stauffer, è
uscito nel 1975: Charles Darwin Natural Se- Iection: Being the Second Part of
His Big Species Book Written From 1856-1858, cd. by R.C. Stauffer, Cambridge
University Press. Cambridge (UK). 36 Anatomia di una rivoluzione denze
scientifiche accumulate negli anni che è costretto a eliminare dalla
trattazione per ragioni di spazio. Nell’Introduzione spiegherà di essersi
limitato giocoforza a “esporre le conclusioni generali”, illustrandole “con un
numero limitato di fatti” (p. ‘78).OdS prende in realtà la forma di un libro
corale, grazie all’efficace ete- rogeneità delle fonti naturalistiche citate da
Darwin a riprova dei passaggi del suo ragionamento. Fa leggere le bozze alla
moglie Emma, a Lyell e ad Huxley. Come titolo sceglie un involuto intreccio di
parole, ‘Compendio di un saggio sull’origine delle specie e delle varietà
attraverso la selezione na- turale”, che poi Murray corregge e semplifica un
po’, ma non troppo, to- gliendo “compendio”, “saggio” e “varietà”. Darwin consegna
stremato il manoscritto il primo di ottobre del 1859 e si rifugia a Ilkley:
“Sono esausto e devo riposarmi ... Idroterapia e il resto, forse tornerò ad
essere un uomo”. Il “delitto” confessato a Hooker nel 1844 ora è compiuto,
sotto forma di evento letterario. Per la prima volta, la storia delle specie
viene descritta come un processo integralmente naturale che non ha più bisogno
di cause finali né di interventi divini. La teoria rivale delle creazioni
speciali viene smontata pezzo per pezzo, schiacciata sotto le evidenze
contrarie e sostitu- ita da un potente programma di ricerca scientifico in gran
parte da svilup- pare. Nella chiusura dell’Introduzione compare una frase così
perentoria da sembrare uno sfogo troppo lungamente represso: Sono fermamente
convinto che le specie non sono immutabili; che, anzi, quelle che appartengono
a ciò che chiamiamo gli stessi generi sono le diretti discendenti di altre
specie. oggi generalmente estinte, così come quelle che ri- conosciamo come
varietà di una qualsiasi specie sono discendenti da quella specie. (p.81)* La
polemica infuriò subito, con obiezioni scientifiche, filosofiche e teo- logiche
che si accavallavano. Darwin, forse per sfida o per ingenuità, inviò le prime
copie autografate anche a chi sicuramente non avrebbe apprezza- to, come Louis
Agassiz ad Harvard e Adam Sedgwick. La stroncatura di Richard Owen arrivò
nell’aprile 1860. Si trattò, secondo Janet Browne, della “prima vera
discussione scientifica internazionale della storia” (2006, ed. it. 2007, p.13):
“Fu uno dei dibattiti più autenticamente pubblici sulla scienza che avessero
mai interessato la società nel suo complesso” (ibid., p.91). L'opera ebbe una
sorte particolare. perché non fu mai appannaggio esclusivo di esperti
dell'ambiente scientifico: venne subito condivisa dal mondo intellettuale nel
suo insieme. recando con sé risvolti culturali e filo- sofici più generali che
furono evidenti a tutti, sostenitori e oppositori. Ulee pericolose e altri
antefatti 37 {luxley, da par suo, soffiò sul fuoco e si fece persecutore della
“darwinofo- nu”, come la chiamava. Persino la regina Vittoria sentì parlare del
sovver- tiniento darwiniano di antiche gerarchie di scimmie e di angeli. Non si
fe- «ero attendere i primi racconti, un po’ esagerati, di celebri “duelli” fra
«voluzionisti e creazionisti. Vi furono conflitti aspri con la “vecchia guar-
«liu"” degli Owen e dei Sedgwick, ma a parte alcuni scontri proverbiali —
i «i resoconti sono stati forse un po’ mitizzati — con illustri ecclesiastici
«ume il vescovo di Oxford Samuel Wilberforce il 30 giugno del 1860, in
«wccasione del trentesimo convegno della British Association for the Advan-
«ement of Science, le idee di Darwin circa il fatto dell'evoluzione furono
umipimente accettate dalla comunità scientifica e penetrarono rapidamen- te
nella società inglese. Più incerte fortune ebbe invece, nei decenni succes-
vivi, l'impianto esplicativo di Darwin, in particolare la selezione naturale. A
dispetto dei luoghi comuni, l’opposizione religiosa non si concentrò «we non
marginalmente sulla presunta minaccia al valore di verità letterale «lelle
Sacre Scritture, bensì sul carattere radicalmente anti-finalistico della
spiegazione darwiniana e sul suo naturalismo integrale, non molto diversa-
mente da quanto accade oggi: “Il fondamentalismo biblico riguarda soprat- tutto
noi moderni, non i vittoriani. Per costoro, la vera sfida del darwinismo ei nel
fatto che trasformava la vita in un caos amorale, privo di un’autori- tu divina
e di qualunque fine o disegno” (Browne, 2006, ed. it. cit. p.92). Con il senno
di poi, il “clan dei dieci” difensori della nuova visione evo- Inzionistica —
in testa Huxley, il botanico Joseph Hooker, Herbert Spencer «il fisico
irlandese John Tyndall — fu più agguerrito e meglio organizzato «legli oppositori.
Con le loro opere seppero promuovere una vera e propria politica culturale ed
educativa in difesa della rivoluzione darwiniana. Non ineno preziosa fu l’opera
di mediatori, credenti, come Lyell in madrepatria « Asa Gray negli Stati Uniti.
Prima di morire, Darwin fece in tempo ad as- sistere alle interpretazioni (non
sempre benevole) della sua opera da parte ili grandi personaggi dell’epoca, da
John Stuart Mill a Karl Marx, dal lin- puista Friedrich Max Miiller ad Alfred
Tennyson, dall’acido Samuel Butler icon il quale ebbe una dura controversia nel
1880), agli entusiasti magnati «lell'industria americana John D. Rockfeller e
Andrew Carnegie. 1 o scrittore Osip Mandel'Stam nel 1932, a cinquant'anni dalla
morte di {»urwin, così descriveva il particolare stile di scrittura e di
argomentazione «lel naturalista inglese, comparandolo al contemporaneo Dickens
e a talune torme musicali: “Se dovessimo paragonare Sull'origine delle specie a
un'opera musicale, non è una sonata, né una sinfonia con i crescendo. con 1
«toi movimenti rallentati e tempestosi. ma piuttosto una suite. Brevi capi-
toli autonomi. L'energia dell’argomentazione si scarica in “quanti”. in fasci.
38 Anatomia di una rivoluzione Accumulo e resa, inspirazione ed espirazione,
flussi e riflussi” (da Viaggio in Armenia, Adelphi, 1988, p. 147). Nulla meglio
di questa nota sul “bel tempo scientifico di Darwin”, sul suo “raggruppare il
dissimile, il contra- stante, il diversamente colorato” — sull’evoluzione come
in fondo essa stes- sa suite, successione e variazione sul tema — può
descrivere meglio lo stile peculiare del volume che ha reso Darwin un’icona
della scienza nella so- cietà vittoriana. Il suo “quotidiano della natura”, il
suo diario di viaggio fisico e menta- le, è come “un giornale che ferve di vita
e di fatti”: impregnato dello spiri- to industriale vittoriano, “la bandiera
mercantile della flotta britannica sventola sulle pagine dei suoi lavori
scientifici” (ibid., p. 142). Il tono con- ciliante e persuasivo, lo stile
gradevole e accogliente misero in crisi molti critici, costretti a riconoscere
la sua onestà intellettuale e la sua meticolosi- tà. “Se vogliamo definire la
tonalità del discorso scientifico di Darwin” — prosegue Mandel’$tam — “la
definizione migliore sarà quella di conversa zione scientifica. Non è la solita
lezione accademica, e neanche un corso monografico. Immaginate un dotto
giardiniere che accompagni gli ospiti per la sua tenuta e dia loro spiegazioni
fermandosi tra le aiuole” (p. 146). È tempo dunque di imboccare i sentieri
dell’invitante giardino darwiniano e di lasciarci accompagnare nell’edificio
del suo pensiero. 39 II VARIAZIONE E SELEZIONE: IL NOCCIOLO DELLA TEORIA
DARWINIANA \:liminando le note a piè di pagina e tralasciando di citare tutte
le fonti {mu rammaricandosi in più punti di non avere spazio a sufficienza per
spie- pure tutto), Darwin sceglie per la sua “conversazione scientifica” uno
stile incisivo e suggestivo, non senza qualche involuzione di subordinate in
al- «uni passaggi e una punteggiatura talvolta incerta. Organizza l’opera so-
nunzialmente in tre parti, seguendo come abbiamo visto una struttura teo- tivi
collaudata da tempo nei suoi appunti. Per comprenderla occorre immedesimarsi
nelle metodologie dell’epoca. Una mole di evidenze etero- pece suggerisce che
“le specie non sono state create indipendentemente {ua dall’altra, ma sono
derivate, come varietà, da altre specie” (p. 78). Ma «mesta conclusione,
aggiunge Darwin, non può essere considerata soddi- «lucente se non si mostra
“in che modo le innumerevoli specie che abitano questa terra si siano
modificate” (ibid.). Serve, insomma, una spiegazione «ausale. Non basta
l'evoluzione come fatto, ci vuole un’indagine sui mec- «anismi che la
producono. Warwin non possiede al suo tempo esperimenti cruciali per mostrare
l'evoluzione per selezione naturale in atto. Non dispone di equazioni ma-
tematiche né di quantificazioni precise. Deve fare ricorso ad altri stru- nenti
per innalzare la sua architettura esplicativa: alla mole di dati osser- vutivi
diretti, al ragionamento inferenziale, all’analogia, alla convergenza «li
prove, alla probabilità, all'opposizione con la teoria di sfondo degli atti «li
creazione indipendenti (che in molte occasioni confuta mostrando le «imseguenze
assurde alle quali porterebbe — per esempi di reductio ad ubvurdum: p. 464, p.
493), agli esperimenti mentali e, come vedremo, an- «hw id alcune predizioni
cruciali. Era dunque necessaria soprattutto una «tuttura argomentativa efficace
e persuasiva: una coerente, prolungata e uccurata dissertazione. 40 Anatomia di
una rivoluzione 1. Perché Darwin scrisse L'origine delle specie alla rovescia?
A differenza di come probabilmente noi organizzeremmo oggi un lavo- ro
scientifico di questo tipo (prima l’explanandum e poi il meccanismo causale sotteso),
ed evitando accuratamente la scelta già percorsa prima da Chambers e poi da
Spencer di presentare l'evoluzione come un grande rac- conto di progresso
biologico, sociale e cosmologico, il naturalista inglese decise di presentare
prima analiticamente il nocciolo esplicativo della sua teoria e poi in ordine
sparso i fenomeni che ne derivavano (fatta eccezione per la discendenza comune
della specie umana). In questo modo egli sotto- lineò fin dall’inizio che la
selezione naturale doveva essere un processo ne- cessario date certe
circostanze (le variazioni ereditabili e la lotta per l’esi- stenza) e che la
trasmutazione delle specie nella discendenza comune (già osservata da molti
prima di lui, compreso il nonno Erasmus in Zoonomia del 1794-1796) doveva essere
intesa solo alla luce di quel meccanismo. Un compito non banale. Selezione
naturale e discendenza comune, i due concetti centrali della teoria darwiniana,
sono infatti logicamente distinti: è possibile concepire una schiera di specie
legate da una discendenza comune, senza che ciò im- plichi logicamente, di per
sé, che si siano evolute per selezione naturale; vi- ceversa, un insieme di
specie evolutesi per selezione naturale non necessa- riamente hanno un antenato
comune (Sober, 2011). La mossa darwiniana in OdS consiste precisamente
nell'impegno di mostrare, attraverso l’eviden- za osservativa, l'intreccio
indissolubile fra questi due concetti. Deve quin- di valutare bene l'ordine
causale e la sequenza retorica del suo ragiona- mento. Per farlo inverte la
logica dell’argomentazione usata per illustrare la scoperta scientifica emersa
inconsapevolmente nei Taccuini, un dettaglio assente nella pur accurata analisi
di Elliott Sober nel saggio “Did Darwin write the Origin backwards?” (2011). In
quei testi giovanili osserviamo il processo di ricerca mentre avviene, in presa
diretta, privatamente, attraver- so la sequenza: descrizione (l'albero della
vita) — spiegazione (la selezione naturale) — predizione (gradualismo e altri
pattern). Gli manca però un nes- so causale forte tra discendenza comune e
selezione naturale. In OdS Dar- win si rivolge invece al pubblico dei colleghi
e ai lettori. Inoltre, è convin- to di aver trovato il ponte fra le due
componenti della sua teoria. Dopo vent'anni di ricerche. adesso deve convincere
tutti. Fa dunque sia una scel- ta retorica. invertendo spiegazione e
descrizione. sia una scelta di struttura- zione logica della teoria. con un
nocciolo esplicativo centrale e una cintura \iniuzione e selezione: il nocciolo
della teoria darwiniana 4l {lessibile di descrizioni e predizioni che
costituiscono la base empirica del programma di ricerca darwiniano. Subito la
novità teorica, insomma, poi la difesa dalle obiezioni, e infine {u pianoplia
di evidenze che la corroborano: non una massa di fatti prima e x un'ipotesi
esplicativa fra tante altre. Persino all’interno della terza par- tw. 1 fatti
comprovanti la discendenza comune sono presentati negli ultimi «npitoli
lasciando alla fine quelli ritenuti più importanti, cioè le evidenze morfologiche
ed embriologiche (capitolo quattordicesimo). 1 fatti salienti, «puindi, quelli
che tutti si attendono di leggere subito, sono in coda, alla ro- vescia. Darwin
cita sì la discendenza comune nell’introduzione e nel primo «npitolo (a
proposito di piccioni), ma la priorità spetta alla selezione natu- vile.
l'ordine delle evidenze vedrebbe per prima la discendenza comune, inn l'ordine
causale vede per prima la selezione: “il libro è nel giusto ordi- ue causale,
ma sul piano delle evidenze è scritto alla rovescia” (Sober, #11, p. 44). Era
successo il contrario nei Taccuini, con le evidenze accu- inulate per prime nel
1837 e il meccanismo causale aggiunto successiva- mente nel 1838. Come
testimonia la scelta dell’epigramma iniziale di Wil- linm Whewell, Darwin in
OdS punta ora alla delineazione delle “leggi yenerali” della storia della vita,
proprio come i geologi stavano trovando i miterns di trasformazione della
superficie terrestre nel tempo profondo del pinneta. Egli elenca questi schemi
generali o leggi nell’ultimo capoverso dell'opera: Queste leggi, prese nel loro
più ampio significato, sono la legge della cresci- tu con riproduzione;
l'ereditarietà che è quasi implicita nella riproduzione; la variabilità per
azione diretta e indiretta delle condizioni di vita, e dell'uso e del «lisuso;
il ritmo di accrescimento così elevato du condurre a una lotta per l’esi-
vienza, e conseguentemente alla selezione naturale, che comporta la divergenza
dei caratteri e l'estinzione delle forme meno equipaggiate. Così, dalla guerra
«ella natura, dalla carestia e dalla morte, direttamente deriva il più alto
risulta- tv che si possa concepire, cioè la produzione degli animali superiori.
(p. 554)* Warwin mira dunque intenzionalmente, dopo vent'anni di ruminazioni e
nlmeno due prove speciali in privato (lo Sketch del 1842 e I Essay del 1844,
«we la struttura è in entrambi già invertita), alla costruzione di un unico
lun- yu ragionamento complessivo. “Questo intero volume è una sola, lunga ar-
pmnentazione” (rhis whole volume is one long argument) è il celebre incipit
«lvl capitolo conclusivo (p. 526), dove riassume prima le obiezioni e le diffi-
colta (pp. 527-533) e poi i capisaldi della sua teoria (pp. 527-544). Così
facendo. sembra voler scongiurare un'evenienza puntuale: che il lettore possa
sì accettare l'evoluzione come un insieme di dati di fatto. ma 42 Anatomia di
una rivoluzione, non la sua spiegazione causale centrale, cioè la selezione
naturale, che, ri- cordiamo, doveva essere il titolo iconico del suo ‘grande
libro delle spe- cie”. La preoccupazione era fondata, tanto che molti
commentatori scisse- ro in effetti la parte descrittiva del “lungo
ragionamento” darwiniano da quella esplicativa, pensando di poter accogliere
favorevolmente le eviden- ze inoppugnabili circa la discendenza comune di tutti
i viventi pur rifiutan- do o mettendo in discussione il meccanismo causale
proposto da Darwin, cioè la selezione naturale. Il destino eccentrico
dell’eredità darwiniana (ac- colta subito per quanto concerne la parte descrittiva,
mentre si dovrà atten- dere gli anni trenta del Novecento per corroborare la
parte esplicativa gra- zie alla genetica delle popolazioni) trova quindi le sue
ragioni nel cuore della struttura logica stessa della teoria e nella non
completa persuasività del nesso tra selezione naturale e discendenza comune,
che Darwin indivi- duò nel principio gradualistico di divergenza. Inoltre,
Darwin è alle prese con un problema epistemologico che già si era affacciato
nei Taccuini giovanili: trovare una metodologia scientifica che fosse in grado
di trattare dati storici relativi a sequenze di eventi del passato, per loro
natura frammentari e soprattutto irripetibili. La deduzione di leggi e di cause
che hanno agito in epoche lontane può essere condotta sia direttamente sul
record fossile (che però per Darwin è imperfetto e an- cora inaffidabile) sia
indirettamente estrapolandola da osservazioni sugli organismi moderni, ma in
questo secondo caso occorre postulare l’invaria- bilità e l'uniformità dei
meccanismi evolutivi operanti tanto nel passato quanto nel presente: da qui
l'adesione forte all’uniformitarismo di Charles Lyell. La deduzione storica
richiede anche altro: la messa in ordine di dif- ferenti configurazioni di
fenomeni attuali, intese come fasi sequenziali di un unico processo storico; la
“confluenza di induzioni” (o ‘“consilience’’ di Whewell) a partire da evidenze
eterogenee ma coordinate per corroborare una spiegazione causale; l'analisi di
indizi discordanti e imperfetti (come i tratti vestigiali) che sono il segno di
una storia passata. Ma non basta anco- ra: Darwin può essere considerato a
pieno titolo il fondatore della “scienza della storia naturale” (secondo la
nota espressione di Stephen J. Gould — 2002) proprio perché antepone a questi
dati comparativi eterogenei la pro- posta di un meccanismo esplicativo centrale
e unificante. Quest'ultimo deve però fondarsi, a sua volta, su dati puramente
osserva- tivi: la variabilità allo stato domestico. la variabilità in natura,
l'unicità in- dividuale. l'ereditarietà della variazione. Notiamo quindi in OdS
un'alter- nanza di generalizzazioni induttive e di leggi teoriche generali
(come la lotta per l'esistenza e poi la selezione naturale. che per inciso sono
due pat- tern non coincidenti. essendo il primo il contesto di realizzazione
del se- \iwniione e selezione: il nocciolo della teoria darwiniana 43 «inido).
Una prima fase induttiva ascendente (primo e secondo capitolo) lo unt al
nocciolo esplicativo della teoria (lotta per l’esistenza e selezione, «ajitoli terzo
e quarto). Poi difende il suo nucleo apicale e le sue conse- wuweuze (il
gradualismo) da possibili attacchi, sui temi dell’ereditarietà e «ella
lacunosità delle evidenze fossili. Quindi in fase discendente torna ai «posi
dati osservativi interdisciplinari e li spiega grazie al suo processo
««plicativo unificante. Può quindi capitare la stranezza di avere prima il ca-
putolo sulla “imperfezione della documentazione geologica” (il decimo, al
Iwrmine della terza parte) e poi quello sulla documentazione geologica stes- «a
(l'undicesimo, il primo della terza parte). Infine nelle conclusioni tira le
tilu, rinnova la sua considerazione per le obiezioni ricevute (“ho così tanto
avvertito per molti anni il peso di queste difficoltà che non posso dubitare
«ella loro importanza”, p. 532*), le considera tutto sommato insufficienti {wi
«distruggere la sua teoria e riprende per sommi capi le “leggi generali” «dellu
storia della vita, con il riferimento finale al grande quadro della di- «
cndenza comune da uno o pochi progenitori iniziali. Da questa peculiare niscela
di prudente metodologia ipotetico-deduttiva e di proclamate gene- nlizzazioni
induttive nasce la struttura tripartita del suo programma di ri- cerca
scientifico. 2. Una prorompente diversità Come derivano le specie le une dalle
altre? E come hanno raggiunto iuella perfezione di struttura e di coadattamento
che giustamente suscita lu nostra ammirazione?” (p. 78). Affidarsi soltanto
alle condizioni esterne, all'ubitudine o alla volontà degli animali è “insensato”
(preposterous). Per avere “una chiara visione dei mezzi della modificazione e
del coadatta- mento” bisogna partire dallo studio degli animali domestici e
delle piante cultivate, solitamente trascurato dai naturalisti (p. 79),
osservando così la ye quantità di modificazioni ereditarie che insorgono sia
allo stato do- inestico sia allo stato di natura. Solo in tal modo si potrà poi
apprezzare il potere dell'accumulo successivo “di tante piccole variazioni”
mediante un'azione selettiva. Il primo capitolo è dedicato quindi alla
variazione di animali e piante allo stilo domestico. che è generalmente
maggiore rispetto alla variazione allo stato di natura (p. 82). Si comincia
quindi con il modello esplicativo della selezione artificiale, messo a punto da
anni tra questionari per alleva- tini, esperimenti casalinghi e corrispondenze
internazionali. Il dato osser- vativo primario è che la variabili permeante e
si gioca a livello indivi- 44 Anatomia di una rivoluzione duale: anche a parità
di condizioni esterne, non si trovano mai due piante a due animali
addomesticati che siano identici l'uno all’altro. Questa “varia- bilità
indefinita” individuale (p. 83) è un’evidenza sotto gli occhi di tutti gli
inglesi dell’epoca, non solo di allevatori e orticoltori abituati a sfruttare
le variazioni per selezionare i loro ceppi favoriti. Dunque il modello della
se- lezione artificiale possiede anche un valore comunicativo. Questo brulicare
di piccole variazioni di generazione in generazione — causate da fattori
esterni di disturbo sull’apparato riproduttore, ma soprat- tutto dalla natura
interna dell’organismo — fa sì che le popolazioni animali e vegetali siano
plastiche rispetto alle strategie di riproduzione messe in opera consciamente
dagli allevatori, dagli agricoltori, dai giardinieri e da- gli orticoltori', o
anche non intenzionalmente dai proprietari di animali do- mestici. La
variazione può anche essere “correlata”, cioè dipendente da in- terferenze e
associazioni tra parti diverse (a causa delle “misteriose leggi della correlazione”,
p. 87) dell’organismo singolo, che Darwin intende chiaramente come
un’organizzazione complessiva e integrata, non come una somma di tratti
distinti. È ammissibile, in particolare nelle piante, che alcune variazioni
utili si siano manifestate talvolta tutte in un colpo, già pronte (ed è
interessante che Darwin non escluda questa possibilità), ma nella stragrande
maggio ranza dei casi la variabilità si manifesta con piccole modificazioni che
si accumulano nel tempo sotto l’effetto costante e paziente della selezione ar-
tificiale: La chiave del problema sta nel potere dell'uomo di operare una
selezione cumulativa: la natura fornisce variazioni successive, e l'uomo le
somma l'una all'altra nelle direzioni che gli sono utili. In questo senso si
può dire che egli si è fabbricato le razze che gli sono vantaggiose. Il grande
potere di questo prin- cipio di selezione non è ipotetico. (p. 101)* Le varietà
domestiche sono dunque adattate non al proprio benessere, a “al vantaggio e al
capriccio dell’uomo” (p. 101). Con queste conoscen- ze esperienziali,
selezionando opportunamente gli incroci e scegliendo i soggetti preferiti per
la riproduzione. si poteva plasmare il piumaggio dei colombi quasi a
piacimento. Per queste pratiche millenarie (già note a cine- si. greci e
latini, e utilizzate anche dagli odierni popoli selvaggi — p. 104) ci vogliono
perseveranza. colpo d'occhio e sicurezza di giudizio. doti che [|
“L'organizzazione nel suo insieme sembra essere diventata plastica. e tende a
dif- ferenziarsi leggermente da quella del tipo parentale” (p. 87)* \wwhi-wme e
selezione: il nocciolo della teoria darwiniana 45 awnmimeno un uomo su mille
possiede (p. 102). Più è alto il grado di varia- Vila, dalle pecore alle
fragole, maggiore sarà il potere selettivo dell’uomo. ()uesle trasformazioni
direzionate sono lente ma si accumulano da tempi antichissimi, tanto che ‘la
nostra ignoranza sulle origini e sulla storia dei twmiri animali domestici è
assai grande” (p. 108). l'allevamento di colombi, già praticato in famiglia, fu
una delle attività pieterite di Darwin nei quindici anni che precedettero la
pubblicazione di ts, il suo “amore di sempre” a Down House. Seguendo i consigli
di un «aperto allevatore, William Tegetmeier, e partecipando alle riunioni dei
«lub di appassionati applicò a questi animali i più diversi, e talvolta strava-
yunti, esperimenti di incrocio (favoriti dal fatto che i colombi “possono {me
coppia tutta la vita”, p. 110), cercando di capire le modalità di trasmis-
alume di caratteri come il piumaggio scuro o chiaro. Divenne uno dei mas- «lun
esperti intemazionali della spumeggiante diversità di questi animali. ()xvervà
la continua ricomparsa di variazioni e di reversioni, cioè il ritorno «hi
alcuni esemplari selezionati al loro tipo ancestrale. Notò che era quasi
Impossibile formare razze distinte mediante l’incrocio fra individui di due
tnzse diverse già selezionate, perché gli ibridi dopo qualche generazione
iliventano tutti diversi fra loro. Insieme agli esperimenti botanici nella ser-
tu e ai pluriennali studi sui cirripedi, i colombi domestici offrirono a Dar-
win un modello di variazione ed ereditarietà, oltre che di discendenza co- mine
“da un unico ceppo selvatico” (p. 91), il che vale anche per cavalli, pelli,
anatre e conigli”. Tutto varia, in queste razze, fino al punto di diver-
«lticirsi in sottospecie geografiche, eppure discendono dalla stessa forma
«uicestrale, una tesi alla quale in OdS sono dedicate molte pagine del primo
capitolo. l'unità di discendenza (che poi Darwin applicherà anche alle razze
uma- 1) e il processo selettivo si affacciano quindi fin da subito come i due
pi- Darwin è più in difficoltà con le razze di cani, a suo avviso forse
discendenti da specie originariamente distinte, per quanto ancora tutte
interfeconde (p. 345). Conclude che “per la maggior parte delle piante o
animali da più tempo addome- sticati, non è possibile decidere se essi
discendano da una o più specie selvatiche” {p.91). Tuttavia, cerca in ogni modo
di indebolire le ipotesi poligeniste o plurali- sie (spinte “fino all’assurdo
da alcuni autori”, p. 92), sminuendo per esempio l’ar- gomento dell'antichità
delle razze basato sui resti archeologici egizi (evidente- mente, ribatte, è
esistito “un lungo periodo precedente di civiltà meno avanzato” c “l’uomo primitivo
esisteva già in un periodo straordinariamente remoto”, p.91). (sì facendo,
intende portare acqua al mulino della sua tesi monogenista riguar- db alla
discendenza comune di tutte le razze umane (Desmond, Moore, 2009) Uggi
sappiamo, grazie alla genetica, che aveva ragione e che anche le razze cani- ne
hanno avuto un unico progenitore nel lupo grigio mediorientale. 46 Anatomia di
una rivoluzione lastri della teoria darwiniana. L'arma retorica e argomentativa
è ben affila- ta. Se si accetta la genealogia comune delle razze è ben
difficile negare poi che, allo stato naturale, le specie discendano le une
dalle altre: Quei naturalisti che, pur sapendo molto meno degli allevatori
sulle leggi dell’ereditarietà e non sapendone di più sui legami intermedi che
connettono tra loro le lunghe serie genealogiche, ammettono tuttavia che molte
delle no- stre razze domestiche sono discese dagli stessi progenitori, non
potrebbero im- parare una lezione di cautela, quando deridono l’idea che le
specie allo stato naturale possano discendere in linea diretta da altre specie?
(p. 100)* Il dato osservativo successivo è che almeno una parte di questa
variazio- ne (che non ha limiti intrinseci) è ereditaria, nel senso che si
trasmette di generazione in generazione, altrimenti il lavoro degli allevatori,
senza cu- mulatività, verrebbe vanificato ogni volta. Darwin è ben consapevole
di non conoscere le cause né dell’emergere delle variazioni individuali né del-
la loro ereditarietà (“le leggi che governano l’ereditarietà sono pressoché
sconosciute”, p. 88), ed è forse per questo che sommerge il lettore di casi-
stiche sterminate in questa prima parte. Con un “eccesso di realtà fattuali”
(Browne, op. cit. p. 77) vuole mostrare che se anche non ne conosciamo i
meccanismi la variazione è un dato osservativo inoppugnabile: “l’eredita- rietà
delle caratteristiche buone e cattive è così evidente” (p. 104). La variabilità
è il motore del cambiamento, anche se i suoi meccanismi interni appaiono
infinitamente complessi a Darwin: La maggiore o minore forza dell'ereditarietà
e della reversione decide se le variazioni sono destinate a persistere. La
variabilità è regolata da molte leggi sconosciute, la più importante delle
quali è forse quella della correlazione del- la crescita (correlation of growth).
Una certa influenza, non sappiamo quanta, può essere attribuita a effetti
conseguenti dalle condizioni di vita. Un certo ef- fetto, forse grande, può
essere attribuito all’accresciuto uso e disuso delle par- ti. Il risultato
finale diviene così infinitamente complesso (p. 112)*. Si noti qui l’importanza
attribuita da Darwin intuitivamente alle correla- zioni di crescita, che oggi
sono studiate dagli esperti di biologia evoluzio- nistica dello sviluppo e sono
ritenute cruciali per capire le maggiori inno- vazioni evolutive. Ma
l'incertezza circa l'ereditarietà lo porta a recuperare il principio
lamarckiano dell'uso e del disuso. aggiungendo nella sesta edi- zione quel
‘forse grande” riferito all'effetto di questo processo?. Nonostan- ì Poco dopo.
all’inizio del capitolo secondo. Darwin non esclude che una modifica- zione
dovuta direttamente alle condizioni esterne, acquisita durante il cielo di vita
\wriazione e selezione: il nocciolo della teoria darwiniana 47 {e tutti questi
tentennamenti sugli influssi delle condizioni di vita e sulla wreditarietà dei
loro effetti, ciò che conta per lui è che la variazione eredi- {una esista, che
la si possa osservare non soltanto nel passato ma anche nel nesente, e che
funzioni in modo cumulativo, con le sue regolarità e le sue nuuunezze (anche se
allora non si sapeva perché). Anzi, sarebbe bene “con- «lilerare l’ereditarietà
di tutti i caratteri come la regola, e la mancata eredi- tn «di essi come
l'eccezione” (p. 88). AI di sopra di questo magma di varia- ame ereditaria si
erge il fattore principale del cambiamento evolutivo: L'azione cumulativa della
selezione sembra avere una forza prevalente su Iutte queste cause di
cambiamento, sia quando viene esercitata metodicamente © rapidamente, sia
quando viene esercitata inconsapevolmente e lentamente, ma con maggiore
efficacia. (p. 112)* Wa qui l'esigenza di un secondo capitolo (che nella
corrispondenza pri- vu definisce “breve e arido”, un giudizio condiviso da
molti commenta- tori) interamente dedicato alla variazione allo stato
selvatico, il quale mo- stru la rispondenza fra il modello artificiale e la
realtà concreta della viriazione in natura, tanto esuberante nei suoi cirripedi
e in ogni ambito del vivente da rendere incerta e arbitraria la definizione di
“specie”: ne esisto- uv varie definizioni, ma nessuna soddisfa pienamente i
naturalisti, “anche «© ogni naturalista sa, più o meno, che cosa intende quando
parla di specie” tp. 113). Un commento, questo, che potrebbe benissimo stare in
una tratta- none contemporanea del mai risolto problema delle definizioni
dell’*og- getto-specie”. Il carattere continuativo del cambiamento evolutivo,
dove tutto sfuma gradatamente in qualcosa d’altro, rende infatti difficile la
deli- initazione di entità discrete. \. La “specie”: una mera convenzione Anche
allo stato domestico le varietà e le “mostruosità” aberranti sono wr Darwin
difficili da definire. Inutile andare alla ricerca di modificazioni improvvise,
su larga scala e miracolose per render conto della complessità «kegli organismi.
I mostri sono deviazioni notevoli e improvvise della strut- tw con scarse
possibilità di sopravvivenza e di riproduzione. Nella terza di un organismo,
possa essere trasmessa ereditariamente, “almeno per alcune ge- nerazioni” (p.
113). 48 Anatomia di una rivoluzione edizione, rovesciando l'argomento centrale
della teologia naturale e dall’ar- gomento del disegno, aggiunge questa frase:
Quasi tutte le parti degli esseri organici sono così meravigliosamente in re-
lazione con le Icro complesse condizioni di vita, che appare improbabile che
ciascuna di esse possa essersi improvvisamente prodotta già nella sua forma
perfetta, così come non appare probabile che una macchina complessa possa
essere inventata dall’uomo giù in un perfetto stato. (p. 114)* La selezione
artificiale viene posta davanti a tutto, in OdS, perché rap- presenta
l’esperimento in condizioni controllate del meccanismo centrale della graduale
evoluzione darwiniana. È il contesto nel quale il processo di selezione può
essere osservato direttamente, mentre agisce e produce strut- ture complesse.
Ma la selezione artificiale è anche il modello di partenza: se essa riesce a
ottenere certi cambiamenti nel lasso di tempo umano degli allevatori, per
estrapolazione potremo comprendere di quali trasformazio- ni sarà capace un
meccanismo analogo operante sui tempi lunghissimi del- la storia naturale. La
selezione naturale viene quindi inferita da quella arti- ficiale. In entrambi i
casi il combustibile è dato dalle “piccole differenze individuali”, che sono
della massima importanza perché costituiscono il materiale (materials) su cui
agiscono i processi selettivi: Si possono chiamare differenze individuali
quelle piccole differenze che compaiono nei discendenti dai medesimi genitori,
o che si possano presumere tali perché appartengono alla stessa specie e
convivono in una stessa e circo- scritta località. Nessuno pensa che tutti gli
individui della stessa specie siano proprio usciti dallo stesso stampo. Queste
differenze individuali assumono per noi la massima importanza perché sono
spesso ereditarie, come tutti sapranno, e perché forniscono il materiale su cui
la selezione può agire, accumulandol: proprio allo stesso modo con cui l'uomo
accumula, in una determinata direzio- ne, le differenze individuali nelle sue
produzioni domestiche. (p. 114)* Negli organismi esistono anche differenze
macroscopiche di struttura indipendenti dalla variazione (come fra i due sessi,
fra le varie caste di fem- mine sterili o operaie negli insetti, fra gli stadi
immaturi o larvali — p. 116), ma è la variazione individuale a permettere in
ultima analisi la gradazione delle varianti anche all’interno delle specie
dimorfiche o polimorfiche. At- traverso l’estrapolazione uniformitarista dalla
selezione artificiale, Darwin ha così descritto il propellente necessario per
far girare il motore della se- lezione naturale. rovesciando diametralmente i
presupposti dell'essenziali- smo biologico allora prevalente e inaugurando
quello che Ernst Mayr defi- nì “pensiero popolazionale” (1963): un approccio al
mondo biologico non Uwtone e selezione: il nocciolo della teoria darwiniana 49
piu per “essenze” o “tipi” senza tempo, ma basato sulla diversità di singoli
«nyinismi all’interno di popolazioni in divenire. La variazione individuale
«nette di essere la deviazione da una norma standard, un’aberrazione pas-
«epyera, oppure una malformazione in parti marginali della struttura (p. 11%),
e diventa al contrario il fattore centrale della realtà naturale, il com-
Iunubile di ogni cambiamento. “Piccole differenze individuali”: è la svol- ta
popolazionale. {Juesta impostazione ha una conseguenza rilevante sul piano
dell’onto- lupin biologica. La variazione individuale è così onnipresente e
cumulativa «lu vendere sfumate le distinzioni fra varietà e specie. La nozione
di queste ultime come “tipi ideali” viene quindi abbandonata a favore di una
defini- svn meramente convenzionale delle specie come etichette provvisorie e
swiluirarie per nominare “gruppi di individui molto somiglianti fra loro”. Non
c'è insomma soluzione di continuità tra varianti individuali, popola- «un
divergenti, sottospecie e specie incipienti: si tratta di un continuum
juucessuale senza interruzioni e senza salti. Sorprendentemente la distin- ele
tra varietà e specie finisce per diventare in ultima analisi arbitraria: Na
queste osservazioni risulta che io considero il termine di specie come
upplicato arbitrariamente, per ragioni di convenienza, a gruppi di individui
molto somiglianti fra loro, e che esso non differisce sostanzialmente dal termi-
ne varietà, il quale è riferito a forme meno distinte e più variabili. Anche il
ter- mine di varietà, rispetto alle semplici differenze individuali, è
applicato arbi- trariamente e per ragioni di comodità. (p. 123)* In prima
approssimazione, dunque, le specie ‘non sono altro che varie- {n liwtemente
marcate e permanenti” (p. 126)*. In questa visione continu- twin «elle entità
biologiche, sono proprio le numerose specie dubbie, quel- e molto simili ad
altre forme oppure “strettamente legate ad esse da yuulizioni intermedie” (p.
117), le più interessanti da analizzare per l’evo- lurronista, perché
permettono di fotografare in fieri i caratteri intermedi, vive 1 dire il
processo di trasformazione mentre sta avvenendo*. La classi- Iiuuzione come
specie o come varietà sarà congetturale, soprattutto se le {wwe intermedie sono
nel frattempo estinte: “non esiste un criterio infal- tilule per distinguere le
specie dalle varietà” (p. 127). Bisogna ricorrere all'esperienza sul campo del
naturalista, a giudizi (approssimati per analo- xi.) sull'insieme delle
differenze tra due popolazioni. e in definitiva al I Poco oltre Darwin usa
un'espres cesso di nascita delle specie: use the expression" (p. 126) ione
metaforica significativa per definire il pro- “the manufactory of species”,
precisando “if we may so Anatomia di una rivoluzioné consenso dei più:
nell’incertezza, “la decisione sia presa a maggioranza dai naturalisti” (p.
117). È una rivoluzione metodologica per i sistematici; scriverà nelle
conclusioni, perché finalmente “ci saremo liberati dalla vana ricerca
dell’essenza, non scoperta e non scopribile, del termine spe- cie” (p. 550). La
“vana ricerca dell’essenza”: in questa espressione si incentra un pila- stro
fondamentale della rivoluzione darwiniana. Anche Wallace era dello stesso
avviso e aveva individuato quattro gradazioni sfumate (forme varia- bili, forme
locali caratteristiche, razze geografiche o sottospecie, specie
rappresentative) da valutare caso per caso senza un criterio oggettivo (p.
118). La scoperta di forme intermedie, la distanza geografica, la stabilità
delle variazioni divergenti e la difficoltà di incrocio sono indizi importanti
ma non sufficienti, perché Darwin vede in essi comunque una gradazione continua
di “legami intermedi” (intermediate links) e molte eccezioni, so- prattutto nel
mondo delle piante (p. 119)f. Perfino chi ha esaminato in ogni dettaglio casi
specifici — come Alphonse de Candolle per le querce — si è dovuto arrendere
alla sfumata ed evasiva delimitazione delle specie (p. 121).Anzi, più si
approfondisce lo studio di un settore del mondo naturale e più il concetto
sembra svanire. E più una specie appartiene a un genere grande, più
assomiglierà a una varietà (p. 127). Notiamo così un paradosso cruciale nella
teoria, poiché il titolo (The Origin of Species) utilizza una categoria, la
specie, che Darwin mette pro- fondamente in discussione, negandole una
specifica realtà biologica di- screta (come invece aveva fatto nei Taccuini) in
virtù del suo pensiero po- 5 È interessante notare che oggi, pur avendo a
disposizione una nozione discreta dell’oggetto-specie (cioè la “definizione
biologica di specie come insieme di po- polazioni riproduttivamente chiuso,
proposta da Ernst Mayr), i problemi di conti- nuità sollevati da Darwin stanno
tornando alla ribalta. La definizione biologica di specie incontra infatti
numerose eccezioni nel mondo animale e si rivela forte- mente inadeguata per
piante e microrganismi, al punto che è stata avanzata una pluralità di
definizioni, talvolta complementari, di che cosa sia una “specie” (Coyne, Orr,
2004). Le “specie ad anello” sono un esempio molto elegante di come una
successione di varietà geografiche interfeconde possa tradursi, ai due estremi
dell'anello, in una impossibilità di incrocio tra le due popolazioni apical Fra
queste ultime esiste © non esiste una barriera riproduttiva che le caratterizzi
come specie distinte? Questione insolubile, perché in una direzione dell'anello
la barriera esiste, nell'altra direzione no. Similmente. sulla scorta delle
osservazioni di Wallace sulle farfalle dell'arcipelago malese, Darwin notò
nella quarta edizio- ne di OdS che due forme. che sembiano chiaramente una
coppia di specie distin- te in una certa isola, in un'altra isola possono
essere connesse da una serie conti- nuativa di varietà interfeconde (p. 116).
Ciò che ci appare oggi discreto è in realtà il frutto di un processo
continuativo. \wiuzione e selezione: il nocciolo della teoria darwiniana SI
jviluzionale anti-essenzialista e del suo gradualismo stretto. Il problema
intutti è che le disinvolte attribuzioni dello statuto di “specie” erano
tipiche «lv sostenitori delle creazioni speciali: “Il termine di specie diventa
in que- at caso una pura e inutile astrazione, che implica ed afferma un atto
sepa- into di creazione” (p. 120, frase aggiunta nella terza edizione). La
continu- Ma «lel cambiamento e “l’estrema generalità del principio della
variazione” tp 122) conducono quindi Darwin a una definizione meramente conven-
atonale delle “specie”. Nel passaggio senza soluzioni di continuità tra
differenze individuali, piccole varietà, sottospecie e specie, “le differenze
si fondono l’una nell’al- un (blend into each other) per gradi insensibili (in
an insensible series); e l'amwervazione di una serie suggerisce l’idea di una
trasformazione reale tun actual passage)” (p. 122). Grazie all’azione
cumulativa della selezione naturale (di nuovo anticipata qui prima della sua
trattazione nel capitolo «uarto), tutto comincia con le differenze individuali
e poi di passo in pas- «o, un grado di differenza dopo l’altro, si arriva alle
varietà ben distinte, «le sonoa tutti gli effetti “specie nascenti” o specie
potenziali in via di for- umzione (p. 123). Queste relazioni tra varietà e
specie sarebbero del tutto Inesplicabili se si considerassero “le specie come
il risultato di creazioni in- «lipendenti” (p. 129): è sempre presente, sullo
sfondo, la teoria rivale. Naturalmente, un concetto vago e una definizione
imprecisa non impli- «ino che l'oggetto della discussione non esista: tutti le
categorie scalari «wwe ricco/povero, calvo/capelluto, basso/alto,
varietà/specie) presentano un ximile problema, ma non per questo diciamo che
non esistono individui vulvi o ricchi. Quindi è ovvio che le specie individuali
esistono in natura {xt Darwin (Sloan, 2009), tuttavia quello di “specie” non è
il concetto cen- tale di Ods, nonostante il titolo. Come ha notato acutamente
Elliott Sober, il problema del “mistero dei misteri”, cioè l'origine delle
specie, viene da I»urwin non risolto, ma in un certo qual modo “dissolto”,
perché viene tol- tw nn confine preciso all’oggetto di cui dobbiamo spiegare le
origini (So- Iw:1, 2011). Sarebbe stato meglio intitolare il libro, secondo
Sober, “l’origi- ne della diversità per mezzo della selezione naturale” (ibid.,
p. 16), winmesso e non concesso che vi sia in filosofia della biologia un
accordo {iu stringente (rispetto a‘“specie’’) sui concetti di “origine” e di
“diversità”. Quanto alle cause di questa variazione fine e omnipervasiva, la
conget- tw. diarwiniana — da prendere come tale, poi ripresa con maggiore
esten- “tune nel capitolo quinto — è che il sistema riproduttivo sia “altamente
sen- «lule i cambiamenti nelle condizioni di vita” (p.84): in pratica. prima
che avvenga l'unione, gli “elementi sessuali” di maschi e femmine verrebbero
«lniurbati da influenze esterne accidentali e ciò determinerebbe la ‘“condi- 52
Anatomia di una ri Reariona zione variabile o plastica che si riscontra nella
prole”. Non conoscendo lei sistenza del materiale genetico, è una discreta
intuizione osservativa circa l’inesattezza della riproduzione. Qualunque siano
le leggi della variazione — Darwin aggiunge poi il principio lamarckiano
dell’uso e del disuso (pi 86), le correlazioni di sviluppo, l’azione diretta
delle condizioni esterne - ciò che conta è che a ogni generazione nella prole
emergano piccole varia- zioni “casuali”, altro termine foriero di
fraintendimenti. Darwin usa infatti il concetto di “caso”, associato alle
variazioni, in un modo esplicito e in un modo implicito. La prima accezione,
più ristretta, è di tipo epistemologico: definiamo le variazioni “casuali”,
scrive Darwin all’inizio del capitolo quinto, perché non conosciamo le cause
della com- parsa di ciascuna nuova variante in una popolazione (p. 197). Il
caso (chan- ce, che definisce “espressione scorretta”) è insomma soltanto una
misura della nostra ignoranza (o indifferenza) circa le cause dell’insorgenza
della diversità individuale. Ma le variazioni in Darwin sono “casuali” anche
nel senso più generale, e squisitamente anti-lamarckiano, che esse non compa-
iono negli organismi in virtù degli effetti, positivi o negativi, che avranno
sui loro portatori. E questo è per lui un dato di fatto osservativo. Le varia-
zioni non emergono perché utili, emergono e basta, presentandosi come un
materiale grezzo di costruzione che poi viene plasmato di volta in volta dalla
selezione naturale, secondo la felice metafora (introdotta in Variazio- ne
delle piante e degli animali allo stato domestico, del 1868) dell'architet- to
che costruisce un edificio utilizzando le pietre, di forma casuale, trovate ai
piedi di un precipizio. Quali che siano le accezioni di “caso” adottate. Darwin
è molto preciso nel ribadire che il “mero caso” (mere chance, p. 173) da solo
non può spie- gare il cambiamento in natura. La “mera accumulazione casuale di
varia- zioni simili per molte successive generazioni” (p. 174) non è
sufficiente. Occorre un principio di cernita della variabilità, di successo
differenziale di una parte della variazione ereditaria. Dunque nella sfera
della casualità dar- winiana rientra la materia prima del processo evolutivo.
che è senz'altro in- dispensabile ma non coincide con la totalità del processo.
È dunque scor- retto affermare che per Darwin l'evoluzione avviene per puro
caso. 4. La grande battaglia della vita Abbiamo dunque acquisito inizialmente
un dato osservativo analitica- mente consolidato: la permeanza della variazione
individuale ereditaria nelle popolazioni biologiche. Ora serve il contesto
ecologico. instabile. se- \iwt:ione e selezione: il nocciolo della teoria
darwiniana 53 vero: la lotta per l’esistenza (struggle for existence),
descritta nel terzo ca- pitolo, quello malthusiano (p. 133). Come si passa
infatti dalla variabilità unlividuale alla bellezza degli adattamenti di cui è
piena la natura? Come si sono perfezionati (perfected) tutti gli squisiti
adattamenti (exquisi- te adaptations) di una parte dell'organismo a un’altra, e
alle condizioni di vita, «© i rapporti di un organismo vivente con un altro? Il
picchio e il vischio ci of- trono gli esempi più chiari di questi bei
co-adattamenti, e altri esempi, forse un po' meno chiari, ci sono offerti dal
più umile parassita che si insedia nel pelo «li un quadrupede o nelle penne di
un uccello; dalla struttura del coleottero che vi tuffa nell'acqua; dal seme
alato che viene trasportato dalla brezza più leg- xera; insomma, troviamo begli
adattamenti dovunque e in ogni parte del mon- «do organico. (p. 130)* Il tono
sembra quasi degno di un William Paley, ma l’imminente rove- x nmento della
spiegazione sarà piuttosto brusco. Come si sviluppano «uiesti mirabili
adattamenti e come si differenziano le specie? (il duplice wplanandum
darwiniano che ritorna). Attraverso la “lotta per la vita” {vruggle for life).
Non ci sono risorse né spazio per tutti: nascono troppi Iigli a causa della
costante fecondità naturale. Le popolazioni biologiche, xe lasciate a se stesse
(Darwin immagina i casi della specie umana, di una pianta e degli elefanti),
finirebbero per saturare ogni ambiente a causa del- lu “rapida progressione con
cui tutti gli esseri viventi tendono a moltipli- c«arsi” (p. 132): la fecondità
naturale è tendenzialmente una iper-fecondità talvolta promossa proprio
dall'evoluzione come strategia riproduttiva)”. Il «ullasso per saturazione
tuttavia non avviene quasi mai* perché esistono li- unti invalicabili di
sostenibilità e processi di equilibrio che, pur fra conti- = Darwin si
ripromette in OdS di trattare più estesamente in un futuro lavoro, come merita,
l'argomento della lotta per la vita (p. 131). In realtà non dedicherà alcun
saggio specifico al tema negli anni seguenti. * — Iarwin distingue le due
principali strategie riproduttive, dalle quali non dipende però il numero medio
degli individui di una specie (p. 135). La prima strategia è quella di produrre
e di disseminare una grande quantità di semi o di uova, per poi non occuparsene
più e contare sulla sopravvivenza di alcuni. la seconda strategia è quella di
produrre pochissimi semi o uova. ma di investire molte energie nella loro
protezione. La prima è utile, nota Darwin, quando le risorse oscillano molto,
in condizioni difficili. MU Darwin cita come esempi di progressione geometrica
i successi di specie animali e vegetali portate dai colonizzatori, che trovano
condizioni di vita particolarmen- te favorevoli e invadono rapidamente il nuovo
ambiente, a danno delle specie au- toctone (p. 134). Ancora oggi queste “specie
invasive” sono una delle principali cause di drastica riduzione della
biodiversità in molte regioni del globo. 54 Anatomia di una rn nue
fluttuazioni, impediscono l’esplosione numerica delle popolazioni. I freni
malthusiani sono dati dalla competizione di specie nemiche (sopratà tutto a
danno degli individui giovani), dalla predazione, dalla disponibilità di
nutrimento, dal clima e in particolare dalla “periodica ricorrenza di sta»
gioni molto fredde o molto secche” (p. 137), dalle epidemie (cioè dalla; “lotta
fra il parassita e la sua vittima”, p. 138). La dottrina di Malthus sulla
progressione geometrica delle popolazioni quindi si applica “con molta maggiore
forza all’intero regno animale e ve- getale” perché non possono esserci
soluzioni di ingegneria sociale per ag-' girarla (aumento artificiale di cibo,
controllo delle nascite, e così via) (p. 133). In natura il meccanismo è
inevitabile: nascono più individui di quan-; ti ne possano sopravvivere, quindi
“deve necessariamente esistere una lot- ta per l’esistenza” (ibid.). Non va mai
dimenticato che ogni essere vivente tende sempre al massimo accrescimento
numerico; che ognuno vive in virtù di una lotta sostenuta in qualche periodo
della sua vita; che gravi distruzioni colpiscono inevitabilmen- te giovani e
vecchi, sia durante ogni generazione, sia a intervalli periodici. Se uno di
questi freni si allenta, se la distruzione si attenua, anche per poco, il nu-
mero degli individui della specie si accrescerà senza misura, quasi istantanea-
mente. (p. 135) Qui Darwin introduce la celebre metafora dei cunei, ma solo
nella prima edizione (dalla seconda in poi la toglie): La faccia della natura
può essere paragonata a quella di una superficie pie- ghevole, con diecimila
cunei affilati ammassati l'uno vicino all’altro e confic- cati dentro da colpi
incessanti, con un cuneo che ogni tanto viene colpito, e al- lora un altro
viene spinto con maggior forza. La natura tende alla saturazione e ciò produce
secondo Darwin compe- tizione. Inoltre, le variazioni fra individui (dato
osservativo già consolida- to) determinano capacità di
sopravvivenzadifferenziali. da cui discendono tassi di riproduzione differenti.
Lievi variazioni vantaggiose comparse ca- sualmente, se ereditabili, hanno più
probabilità di diffondersi nella popola- zione grazie al successo riproduttivo
dei loro portatori, che si ritrovano leg- germente meglio adattati al variare
delle circostanze ambientali. Se la cavano meglio nelle incombenze della
sopravvivenza (mimetizzandosi nei confronti delle prede. sfuggendo ai
predatori. trovando più cibo e acqua, eccetera) e hanno più probabilità di
raggiungere l’età riproduttiva e di ac- coppiarsi. Se i discendenti ereditano i
tratti che hanno favorito una miglio- re sopravvivenza dei genitori. la
popolazione subirà una graduale trasfor- \uwriucione e selezione: il nocciolo
della teoria darwiniana 55 mwzrone. È dunque un processo che avviene anche tra
specie diverse ma inincipalmente all’interno di ciascuna specie, in condizioni
di permanente wnuria di risorse rispetto alla tendenza naturale di ogni
popolazione ad ac- «iescersi in progressione geometrica. Nel suo argomento
malthusiano Darwin ha unito tre concetti fondamen- tulì.
variazioneomnipervasiva; ereditarietà dei tratti favorevoli; permanen- t
scarsità di risorse e lotta per la sopravvivenza. Il risultato è che alcuni ca-
«unteri cambiano la loro frequenza nella popolazione a causa dell’influenza «Ie
hanno avuto sull’adattamento degli organismi: In virtù di questa lotta per la
vita, le variazioni, per lievi ch'esse siano e da «ualsiasi causa provengano,
purché siano utili in qualche modo agli individui di una specie nei loro
rapporti infinitamente complessi con gli altri organismi e con le condizioni
fisiche della vita, tendono alla conservazione di questi individui, e a
trasmettersi ai loro discendenti. Anche questi ultimi avranno così maggiori
probabilità di sopravvivere, perché, tra i molti individui che nascono
periodica- mente da ogni specie, soltanto un piccolo numero può sopravvivere.
(p. 131) Quindi l'evoluzione non è il risultato di un rapporto diretto tra
l’organi- «mo e il suo ambiente, come in Lamarck. Il clima rigido non fortifica
diret- nmente i sopravvissuti, ma fa sì che sopravvivano gli individui
portatori di «uratteristiche che li rendono più resistenti. Il meccanismo che
genera il «nnbiamento è dato in primo luogo dalle relazioni tra organismo e organi-
"no (le più importanti, anche rispetto alle condizioni ambientali — p.
542), «n riferimento alle risorse non infinite offerte da un ambiente comune, e
in secondo luogo dalla presenza o meno di specie rivali. Non importa se le
iazioni sono lievi e per quale causa siano insorte: la catena causale che porta
alla variazione incontra la catena causale che attribuisce a questa va-
iuwzione un effetto utile per il suo portatore, nella trama di relazioni “infi-
itamente complesse” che legano gli organismi tra loro e con le condizioni
ambientali. Il risultato non è una certezza di sopravvivenza, ma una mag- giore
o minore probabilità di riprodursi. Per analogia con la selezione ope- tinta
dall'uomo, Darwin chiama questo meccanismo “selezione naturale”, unche se.
aggiunge nella quinta edizione di OdS, ‘l’espressione spesso usa- tn da Herbert
Spencer, ‘sopravvivenza del più adatto’ (Survival of the Fit- tesr), è più
accurata e talvolta è egualmente conveniente” (p. 131)*. Dun- «que
l'espressione per la quale Darwin è universalmente noto. “opravvivenza del più
adatto”, non è farina del suo sacco e compare in (xIS solo nella quinta
edizione del 1869. Ora Darwin adotta metafore gladiatorie come “la grande
battaglia della vita”. descrivendo uno scenario di lotte mortali. di massacri.
di guerre tra 56 Anatomia di una rivoluzion& specie per moltiplicarsi e per
prevalere. La selezione naturale “è una forza sempre pronta all’azione,
incommensurabilmente superiore ai deboli sfore zi dell’uomo, così come le opere
della Natura sono superiori a quelle dell’Arte” (p. 131)*. Ogni essere vivente
è cibo per qualcun altro. La com- petizione è ovunque, tanto nella foresta
lussureggiante quanto nel deserto, Se il numero di individui di una specie
diminuisce troppo, le risorse non permettono una ripresa e aumentano gli
incroci tra individui strettamente imparentati: l'estinzione è dietro l'angolo.
Sembra riecheggiare i poemi più cupi di Alfred Tennyson. Dietro “il volto della
natura splendente di fe- licità” (p. 131) si nascondono distruzione, spreco e
carestia. Perché quando si abbatte una foresta in America la vegetazione che
ri- cresce nel primo periodo successivo è così diversa? A cosa si devono i tipi
e il numero di organismi che ripopolano una ripa rigogliosa (enrangled bank)? Non
certo a ciò che chiamiamo “caso” (chance). Una foresta vergi- ne è figlia di
una lotta “perpetuata nel corso di lunghi secoli fra le diverse e numerose
specie di piante” (p. 142). E poi: Quale guerra tra insetto e insetto, tra
insetti, lumache e altri animali contro gli uccelli e gli animali da preda!
Tutti tendenti a moltiplicarsi, tutti divoranti- si a vicenda o traendo
alimento dagli alberi, dai loro semi e germogli e dalle altre piante che prima
rivestivano quel terreno, ostacolando in tal modo lo svi- luppo degli alberi!
(p. 142) Lotta e dipendenza convivono nelle ambivalenze della natura. Talvolta
si manifestano tra individui molto lontani tra loro, come una locusta e un
mammifero erbivoro, nota Darwin (p. 142). Ma la lotta più cruenta è quel- la
che si realizza tra individui o tra varietà della stessa specie, perché sfrut-
tano le stesse risorse, hanno gli stessi nemici, vivono nelle stesse regioni:
in sintesi, “occupano quasi lo stesso posto nell'economia della natura” (p.
143). Economy of nature è un'espressione prediletta da Darwin. Il compe- titore
più insidioso è quello che ti sta accanto e se tra due varietà molto si- mili
una delle due prende il sopravvento, anche leggermente. per l'altra il declino
demografico prelude all'estinzione. Eppure. il naturalista inglese usa la
famigerata espressione “sopravvivenza del più forte” soltanto in for- ma
indiretta e metaforica alla fine del capitolo ottavo, quando scrive che la
legge generale dell'evoluzione produce il cambiamento dei viventi, la loro variazione
e moltiplicazione, ma anche la vita del più forte e la scomparsa del più debole
(ler he strongest live and the weakest die, p. 338, fin dalla prima edizione).
Vw tnzione e selezione: il nocciolo della teoria darwiniana 57 AI termine di un
capitolo pieno di lotta, Darwin sente l’obbligo di offri- tv ul lettore una
consolazione: Quando riflettiamo su questa lotta, possiamo consolarci con la
piena con- vinzione che la guerra della natura non è incessante, che la paura è
sconosciu- tu, che la morte è in genere rapida, e che gli individui vigorosi,
sani e felici vo quelli che sopravvivono e si moltiplicano. (p. 145)* 4.
“Legati da una trama di relazioni complesse”: l'evoluzione è ecologia (Queste
tinte fosche hanno affascinato molti lettori di Darwin. È bene |w10
sottolineare che la lotta per l’esistenza non è sinonimo di selezione na- imule
tout court: è piuttosto il contesto ambientale e demografico che ga- inntisce
le condizioni di possibilità per la selezione. Poi servono anche la xwazione,
l’ereditarietà, le relazioni tra varietà e specie. L'argomento inulthusiano non
è in relazione con la discendenza comune (non ci dice chi © più © meno
imparentato con chi) e non spiega quali tratti specifici si sia- u» evoluti per
selezione, perché e quando. Offre soltanto lo scenario di alimcdo entro il
quale il dramma di svolge. Sarà poi il processo selettivo a «lvcretare la
trasformazione di una popolazione, o la sua estinzione, o la sua «livergenza
nei caratteri. l’er questo Darwin tenne a precisare che “lotta per l’esistenza”
era da in- “in un senso lato e metaforico” (p. 132), giacché non implica ne-
«essariamente una “guerra” in senso antropomorfico, bensì “la reciproca
«lipendenza degli esseri viventi” e le rispettive capacità di vivere bene e di
lusciare discendenza in un regime di competizione biotica (con altre spe- «le)
cabiotica (in habitat difficili). Dunque “lotta per l’esistenza” ha un’ac-
«ezione estesa, che include a sua volta diversi significati. È un concetto
“ecologico” (prendendo a prestito un termine che Darwin non conosceva e «lie
verrà introdotto da Haeckel anni dopo). Per intenderci, è “lotta” per la
sopravvivenza anche quella di una pianta solitaria che “combatte” la sua
Imttaglia contro la siccità ai margini del deserto. Si lotta tra individui all’in-
tecno di una popolazione per accaparrarsi il cibo, sopravvivere e riprodur- i.
ma si lotta anche tra individui di specie diverse, tra gruppi, tra specie af-
{im in competizione, tra individui e condizioni fisiche esterne. Si tratta
dunque di un contesto ampio di relazioni e di interdipendenze tun “rete di
rapporti complessi”, di “relazioni reciproche fra i vari esseri viventi” che
spesso restano ancora oscure), non sempre di una sanguinosa wieni gladiatoria.
Quale che sia l’effetto di una variazione anche lieve, ciò 58 Anatomia di una
rivoluzioné [ che conta non è “essere il migliore” o “il più adatto” in
assoluto, ma averg “maggiore probabilità di sopravvivere e di essere, in tal
modo, naturalmen- te selezionato” (p. 80). Notiamo così l'impianto intrinsecamente
ecologica e probabilistico della spiegazione darwiniana, che viene illustrato
attraver- so alcuni splendidi esempi del capitolo terzo, raramente riportati
nel dibat- tito sull’eredità darwiniana. Darwin descrive con grande lucidità
ciò che noi oggi definiamo un “eco- sistema”, un insieme di vincoli e di
relazioni: “Molti casi mostrano quanto si- ano complessi e imprevisti (complex
and unexpected) i controlli e i rapporti tra gli esseri viventi che devono
lottare insieme in uno stesso paese” (p. 139)*. L'introduzione di una sola
specie di alberi, gli abeti di Scozia, in ter- reni cintati, produce nello
Staffordshire due nicchie ecologiche completa- mente diverse, con molte più
specie di piante, di insetti e di uccelli insettivo- ri dove crescono gli abeti
e le mandrie non possono accedere (ibid.). Le catene di relazioni ecologiche
sono ancora più intricate nel caso del bestiame in Paraguay: bovini ed equini
non tornano allo stato selvatico a causa di una mosca che infetta i loro
cuccioli allo stato brado; ma la presenza della mosca è ostacolata da altri
insetti parassiti, che a loro volta sono cacciati da certi uc- celli
insettivori; pertanto, se il numero di uccelli diminuisce (per esempio a causa
della caccia), il risultato sarà una maggiore probabilità che il bestiame torni
allo stato selvaggio (meno uccelli, uguale più insetti antagonisti delle
mosche, e dunque più bestiame rinselvatichito); ma se un maggior numero di
bovini ed equini torna libero, la vegetazione ne risentirà, con essa varierà an-
che il numero degli insetti, e di conseguenza dei loro predatori, gli uccelli.
E così via, “abbiamo cominciato questa serie con gli uccelli insettivori e
abbia- mo finito con loro” (p. 140)*. Piante e animali, anche lontanissimi fra
loro, sono “legati insieme da una trama di relazioni complesse” (bound together
by a web of complex re- lations) (p. 141). Può succedere per esempio che la
presenza di un felino determini la frequenza di certi fiori. Alcune specie di
piante (la viola del pensiero e il trifoglio violetto) devono la loro
sopravvivenza alla presenza di insetti specifici. i bombi, la cui visita è
necessaria per il trasporto del pol- line e, quindi. per la fecondazione. Altri
insetti, pur simili ai bombi. non possono svolgere la stessa funzione per quelle
specie vegetali, a causa del- la loro forma e del loro peso rispetto alla
struttura dei fiori di quei vegeta- li. È una danza meravigliosa di
co-adattamenti estremamente specializzati. Ma i bombi sono cacciati dalle
arvicole, e queste a loro volta dai gatti. Per- tanto. più gatti significa meno
arvicole. più bombi e dunque più piante: “Perciò è verosimile che la presenza
in gran numero di un felino possa de- \nii:nme e selezione: il nocciolo della
teoria darwiniana 59 wa nunare in una regione la frequenza di certi fiori,
mediante l’intervento in junio luogo dei topi e poi delle api!” (p. 141). Ul
cosa tiene insieme il felino, il bomboe il trifoglio violetto? Una rete sli
relazioni ecologiche. La natura si regge su equilibri instabili, su bilancia- uwuti
di forze ed eventi contingenti: la lotta entro la lotta è un fenomeno sempre
ricorrente e con esito variabi- le; tuttavia, nel corso del tempo le forze
finiscono con il bilanciarsi così bene «he il volto della natura si mantiene
uniforme per lunghi periodi, benché sia in- «lubitabile che la circostanza più
insignificante potrebbe assicurare la vittoria «i un organismo su di un altro.
(p. 140)* l'estinzione di una specie non è dovuta al caso, o a cataclismi, o a
leggi «lie determinano la durata intrinseca di vita di una specie, bensì a
rapporti w olugici e a contingenze che spesso ignoriamo: La nostra ignoranza,
però, è così profonda, e così grande è la nostra pre- vunzione che ci
meravigliamo quando sentiamo parlare dell'estinzione di una forma organica e,
non ravvisandone la causa, pensiamo a cataclismi distrutto- ri del mondo e
inventiamo leggi sulla durata delle forme viventi! (ibid.)* ta soluzione di
questi problemi non è equiparabile a quella di un siste- mu fisico descritto da
equazioni, tale è “la nostra ignoranza circa i recipro- «4 rapporti che
esistono fra tutti gli esseri viventi, convinzione che è tanto necessaria
quanto difficile da acquisire” (p. 145): Se lanciamo in aria una manciata di
piume, tutte ricadranno al suolo obbeden- «o a leggi definite; ma quanto è
semplice il problema della loro caduta se confron- tuto con quello delle azioni
e delle reazioni delle innumerevoli piante e degli ani- muli che nel volgere
dei secoli hanno determinato i numeri in proporzione e le tipologie degli alberi
che ora crescono sulle antiche rovine indiane! (p. 142)* lito è vero, ammette
Darwin, che “forse in nessun caso saprei dire con inecisione perché una specie
abbia riportato la vittoria su un’altra nella yiunde battaglia per la vita” (p.
143). La distinzione epistemologica con le aienze fisico-matematiche tornerà in
altri esempi cari a Darwin. Ciò che «nta, per il momento, è notare la forte
accentuazione ecologica della sua jnoposta teorica, che da un lato smitizza
l'immagine di un Darwin asserto- we della guerra generalizzata tra i viventi e
dall'altro rivaluta l’ambivalen- na tn competizione e dipendenza, tra lotta per
le risorse e couperazione. in un. rete intricata di relazioni tra fattori
biotici e abiotici. Dalla lotta per l'e- 60 Anatomia di una rivoluziong
sistenza discende, in ultima istanza, “un corollario della massima impore
tanza” che riguarda anche i singoli caratteri delle specie: La struttura di
ogni essere organico è correlata, nel modo più essenziale ma anche spesso
difficile a scoprirsi, con quella di tutti gli altri esseri viventi con l quali
viene a trovarsi in competizione o per il cibo o per la dimora, o con quella
degli esseri da cui deve difendersi o di quelli che sono sua preda. (p. 144)* È
da questa trama di relazioni ecologiche che nasce la celebre immagi- ne della
“ripa lussureggiante” (rangled bank) della chiusa di OdS: È interessante
contemplare una ripa lussureggiante, rivestita da molte pian- te di vari tipi,
con uccelli che cantano nei cespugli, con vari insetti che ronza- no intorno, e
con vermi che strisciano nel terreno umido, e pensare che tutte queste forme
costruite in modo così elaborato, così differenti l'una dall'altra, e
dipendenti l’una dall'altra in maniera così complessa, sono state prodotte da
leggi che agiscono intorno a noi. (p. 553)* Il mondo di Darwin è un mondo di
relazioni, concorrenziali o di interdi- pendenza, plasmate dal tempo.
Nell’artiglio di una tigre, come nella zam- pa di un coleottero o in un seme
alato, sono scritte storie sedimentatesi per migliaia di generazioni. 6. Un
sottotitolo fuorviante In tale contesto, non è ben chiaro perché Darwin abbia
allora accettato il sottotitolo proposto in fase di revisione dall’editore
Murray: “la conservazio- ne delle razze favorite nella lotta per la
sopravvivenza”. Molti hanno cercato strumentalmente in questa espressione il
“lato oscuro” dell'evoluzione dar- winiana, la possibile giustificazione
storica e scientifica di atrocità su base razziale ed etnica. In realtà la
teoria discussa da Darwin in OdS è ben lonta- na da un'idea di guerra tra
“razze”. La competizione è prevalentemente tra individui singoli. non tra
gruppi. Ancor meno essenziale è che questi gruppi siano “razze” o non piuttosto
tribù e famiglie. Circa le “razze umane” in par- ticolare, Darwin ha parecchi
dubbi persino sulla loro oggettiva esistenza, dato che gli studiosi le hanno
classificate nei modi più diversi, e considera il termine troppo vago. A p.
108. paragona la razza al “dialetto di una lingua”. Per il resto. le razze
umane in OdS sono citate raramente e incidentalmente, come casi aggiuntivi. per
esempio alla fine del capitolo dodicesimo a propo- sito di gruppi umani molto
isolati in zone montuose (p. 458). Vur-ione e selezione: il nocciolo della
teoria darwiniana 6l l'unico esempio di lotta fra “razze” è riportato, molto
più estesamente in / ‘origine dell’uomo che in OdS, a proposito del divario tra
le nazioni eu- wc civilizzate e i popoli delle altre parti del mondo: una
concessione allo «|into imperiale dell'Inghilterra vittoriana, che stride
peraltro con le con- vinzioni di Darwin circa l’unità universale del genere
umano. Il desiderio «li mettersi in sintonia con il clima dell’epoca forse
spiega la scelta edito- unle del sottotitolo (tutti a quel tempo parlavano di
razze e varietà, umane v «lvmestiche), ma non certo i contenuti scientifici
dell’opera. Accusare OdS di essere un’istigazione alla legittimazione del
razzismo «i lentilico è dunque quanto di più fuorviante si possa sostenere sul
piano storico e filosofico. Darwin lottò per tutta la vita contro l’istituzione
della x liavitù e contro la discriminazione su base razziale. Mentre formulava
le aut idee evoluzionistiche, discuteva per lo più di abolizione della tratta
de- yli schiavi, della buona impressione avuta dagli amici di colore, delle
infa- uu crudeltà perpetrate dai padroni, dei governi corrotti che le
tolleravano, ili chi giustificava questa brutalità invocando l’origine distinta
delle “raz- 4" © addirittura delle “specie” umane, e soprattutto delle
campagne di fi- umuziamento e di sensibilizzazione — insieme alle agguerrite
sorelle e alle «nigine Wedgwood - affinché la Gran Bretagna si emancipasse da
questi uwuffici proclamando l’uguaglianza e la libertà di tutti gli esseri
umani (De- anond, Moore, 2009, ed. it. 2012). In fatto di schiavitù, Darwin era
pronto a prendersela persino con i suoi nuestri, come Charles Lyell, o con gli
amici più fidati come Joseph Hoo- kei e Thomas H. Huxley, che erano più timidi
sull'argomento. L’evoluzio- mista riluttante che pubblicò solo in tarda età,
quando ormai costretto dagli «venti, aveva in realtà in mente la fratellanza
dell'intero genere umano, e con essa di tutti i viventi, già dai primi
frammentari taccuini della giovinez- #u, prima nella libera Edimburgo, quindi
nella più compassata Cambridge, pi nel corso del viaggio del Beagle e ancora
nei febbrili anni londinesi del utorno. Finì poi per sostituire all'origine
adamitica la materialistica discen- «lenza comune, come fondamento scientifico
dell’abolizionismo, combat- tendo senza posa ogni teoria pluralista o
poligenista che prevedesse crea- nni separate o genealogie parallele delle
razze umane. Come hanno evidenziato due tra i maggiori storici della scienza
inglesi vil esperti di Darwin, Adrian Desmond e James Moore, questa battaglia
leale. la sua “sacra causa”. non fu soltanto un retaggio culturale dell’am-
Inente progressista e umanitario delle due famiglie intrecciate dei Darwin «
«lei Wedgwood — immerse nel cuore pulsante della vita culturale e politi- 1.1
inglese di quei decenni, tra radicali, conservatori e dissenzienti — bensì
t'xlesione a una concezione generale delle relazioni tra i gruppi umani che 62
Anatomia di una rivoluzione condizionò poi la struttura stessa della teoria
dell'evoluzione. Secondo i due autori, negli scritti giovanili l’ unità del
genere umano sotto l’egida del- la discendenza comune fu il brodo di coltura
per l'elaborazione del grande modello dell’“albero della vita”. Questo primo
caposaldo dell’impresa dar- winiana si salda al secondo, la selezione naturale mutuata
dalla selezione artificiale, con l'analogia tra razze umane e razze di animali
domestici (en- trambe discendenti da un ceppo comune), culminando nella
proposta di una “seconda causa” selettiva (la selezione sessuale, che vedremo
tra poco comparire nel capitolo quarto) capace ad avviso di Darwin di far
divergere le razze l’una dall’altra, dopo che erano nate dallo stesso antenato
africano. I gusti estetici le avevano diversificate, e non una gerarchia
prestabilita in- scritta nelle forme del cranio o in altre invenzioni
frenologiche. In ciascuna razza, grazie all’universale capacità di “patire
insieme” (la categoria darwi- niana centrale della sympathy), troviamo il seme
dell'umanità, del senso mo- rale e del miglioramento possibile. Dai piccioni
alle orchidee, la natura in Darwin è un crogiuolo disordinato di diversità che
si dispiegano continuati- vamente nel tempo e nello spazio, soggette a
circostanze accidentali e a rima- neggiamenti contingenti, e ciò vale anche per
l'evoluzione umana, a discapi- to di ogni classificazione rigida delle razze
umane. La genealogia umana sarebbe stata dunque, secondo Desmond e Moore, la
spiegazione-prototipo dell'evoluzione attraverso discendenza comune e selezione
naturale. Tra le righe di OdS possiamo allora cogliere anche il peculiare e del
tut- to personale “darwinismo sociale” di Darwin: motivato dalla sua intenzio-
ne di applicare la selezione naturale al mondo sociale umano; inasprito dai
pregiudizi di genere e di classe tipici di un gentleman vittoriano; ma al con-
tempo profondamente condizionato dal suo umanitarismo e dalla convin- zione
nell’unità evolutiva di tutte le razze umane. Notiamo così quella che oggi ci
appare una contraddizione latente, che sfocia pubblicamente soltan- to nel 1871
ne L'origine dell’uomo, tra le durezze maltusiane e il rifiuto di qualsiasi
discriminazione razziale sulla base di una visione dell’evoluzione umana
centrata sulla parentela genealogica di tutti i viventi e sulla compas- sione
come lievito della socialità umana. Può così capitare di trovare in OdS
malferme dicerie sul cannibalismo dei fuegini. che durante le carestie
avrebbero mangiato “le loro vecchie donne. che considerano di minor va- lore
che non i propri cani” (p. 106). e al contempo leggere appassionate di- fese
dell'unità di discendenza di tutti i viventi. Nel capitolo settimo, a pro-
posito di questioni insolubili dovute alle contingenze dell'evoluzione,
sostiene che nessuno può spiegare perché due razze di selvaggi abbiano
raggiuntodiversi gradi “nella scala della civilizzazione”. a riprova di quan-
to non credesse in disparità innate fra le razze umane (p. 279). \niu:tone e
selezione: il nocciolo della teoria darwiniana 63 tduesta miscela teorica di
indulgente filantropia e di individualistica «inupetizione (tipica di molti
whig del tempo) ha fatto sì che Darwin venis- «i Irato per la giacchetta, o
attaccato, da fronti contrapposti che gli attribu- nano idee edulcorate non sue
o viceversa gli imputavano le più ingiuriose supe (fra tutte, quella di essere
stato il padre dell’eugenetica e del razzi- «uno novecenteschi). Dopo
l’accurata ricostruzione di Desmond e Moore 14119), e prima di molti altri
studiosi (La Vergata, 2009), diventa davvero Impossibile continuare ad
associare ancora oggi acriticamente Darwin al inzzismo scientifico. Il vescovo
Samuel Wilberforce, anch'egli antischiavista ma per tutt’al- ue ragioni, accusò
Darwin di tradire la causa umanitaria descrivendo lo «« lviavismo persino tra
le formiche (pp.318-321): dalla Formica sanguinea «lell'Inghilterra meridionale
che schiavizza le formiche nere ma divide con lino i compiti di mantenimento
della comunità, alla Formica rufescens che « «diventata completamente
dipendente dai suoi schiavi. Ma le formiche achiaviste e le formiche
obbedienti, precisò Darwin, sono tali per un invin- «ibile istinto naturale
(sviluppatosi per selezione naturale a partire dall’oc- «usionale
immagazzinamento di pupe di altre specie di formica come cibo), entre gli
esseri umani privano i loro simili della libertà per una scellerata «litudine
culturale di cui sono pienamente responsabili. Quindi, nessuna Incile
giustificazione biologica: Tuttavia le formiche agiscono per mezzo di istinti
ereditari e per mezzo di organi o strumenti ereditati, mentre l'uomo agisce per
mezzo di conoscenza ac- quisita e di strumenti fabbricati. (p.336) Nel capitolo
ottavo, sull'evoluzione degli istinti, aggiunge una notazio- 1 fondamentale per
capire il suo modo di intendere l’unicità (ma non l’ec- vezionalità, dato che
Darwin attribuisce ‘facoltà mentali” anche agli ani- mali) della specie umana:
Quanti atti abituali eseguiamo inconsciamente, non di rado in senso contra- rio
alla nostra volontà consapevole! Tuttavia essi potrebbero essere modifica- ti
dalla volontà 0 dalla ragione. (p. 305) Dunque volontà e ragione (alimentate da
conoscenze acquisite) sono in prado di controbilanciare i nostri moti
istintuali (compresi i peggiori). i quali evidentemente nella nostra specie
hanno perso la cogenza che hanno nelle formiche e in altri insetti sociali. 64
Anatomia di una rivoluzione 7. Il lento scrutinio della natura: la selezione
naturale Completata la fase ascendente e descritto il contesto ecologico della
lot- ta per la sopravvivenza, è il momento per Darwin di enunciare il nucleo
della sua teoria, la legge generale, presentata nel capitolo quarto con dovi-
zia di esemplificazioni, reali e immaginarie (come a p. 148), a riprova di
quanto Darwin apprezzasse, come già nei Taccuini, i modelli e gli esperi- menti
ideali. Altri pregevoli e ingegnosi esperimenti ideali sono: nel capi- tolo
ottavo (p. 324 e p. 329), sulla costruzione dei favi in specie diverse di api e
bombi; nel capitolo decimo (pp. 389-391), su quanto poco fossilizze- rebbero le
specie dell'arcipelago malese; nel penultimo capitolo, sugli ef- fetti che avrebbe
la ricomparsa di tutte le specie estinte (pp. 499-500). È tempo ora di unire le
tessere del puzzle: 1) “il numero infinito di lievi va- riazioni e differenze
individuali”, sia allo stato domestico sia allo stato di natura, che si
accumulano autonomamente; 2) la forza della “tendenza ere- ditaria”; 3) la
lotta per l’esistenza (p. 146). Se vengono al mondo più individui di quanti ne
possano sopravvivere, se gli individui che godono di un certo vantaggio, sia
pur minimo, in virtà di una loro differenza ereditaria hanno una maggiore
probabilità di soprav- vivere e quindi di riprodursi (sempre in quest'ordine in
Darwin: prima so- pravvivenza, poi riproduzione), allora: La conservazione
delle differenze e delle variazioni individuali favorevoli e la distruzione di
quelle nocive sono state da me chiamate “selezione naturale” o “sopravvivenza
del più adatto”. (p. 147) Con la precisazione immediata che possono esistere
variazioni neutrali: Le variazioni che non sono né utili né nocive non saranno
influenzate dalla selezione naturale, e rimarranno allo stato di elemento
fluttuante (flucwating element), come si può osservare in certe specie
polimorfe, 0, infine, si fisseran- no per cause dipendenti dalla natura
dell'organismo o da quella delle condi- zioni. (ibid.)* La “selezione naturale”
(già citata nel primo capitolo di OdS a p. 107 e poi nei due capitoli
successivi per sprazzi) è un meccanismo demografico, statistico. automatico.
che non implica alcuna scelta cosciente da parte de- gli esseri viventi e che
non si limita a sopprimere gli individui aberranti per preservare i “tipi
ideali” della creazione (come sostenevano già i teologi naturali). ma a lungo
andare conserva. estingue. accumula. diffonde e fa fluttuare le variazioni.
trasformando le specie. Non è solo un carnefice che Unione e selezione: il
nocciolo della teoria darwiniana 65 «Imma gli organismi che deviano da essenze
fisse, ma un processo che at- iinnmente plasma le morfologie e modifica le
popolazioni biologiche, a mutire da un materiale (le varianti) generato
indipendentemente. Non è in- Intl il processo selettivo a produrre le
variazioni: ... la selezione comporta soltanto la conservazione delle
variazioni non ap- pena compaiano e siano vantaggiose all’individuo nelle sue
particolari condi- “toni di vita. (ibid.) «ui “lo studioso dei cirripedi,
l'amante dei colombi, lo sperimentatore stelle piante e il collezionista del
Beagle si stava avvicinando al suo obiet- ino" (Browne, 2006, trad. it.
cit. p.82). Darwin parte dall’analogia con la selezione artificiale: ciò che
avviene nell’aia o nella serra trova un suo cor- ilnpettivo analogico in
natura, dove un continuo scrutinio delle variazioni In «i che lentamente le
popolazioni biologiche vengano plasmate e trasfor- mule in base alle cangianti
condizioni di vita organiche e inorganiche. { me nella domesticazione, dove un
nuovo tratto viene plasmato nel cor- «di molte generazioni favorendo la
riproduzione degli individui portatori «li piccole variazioni (una mela più
dolce, una mucca più prodiga di latte), «esi in natura una nuova variante può
gradualmente crescere di frequenza all'interno di una popolazione se i suoi
portatori ne traggono un vantaggio \n termini di sopravvivenza, e quindi di
riproduzione. La selezione natura- lr, rispetto a quella artificiale, ha molto
più tempo ed è assai più potente (p. 1-18). In un celebre passo, che inizia con
una metafora, il naturalista ingle- se descrive così la sua scoperta: Si può
dire, metaforicamente, che la selezione naturale sottoponga a seruti- nio,
giorno per giorno e ora per ora, le più lievi variazioni in tutto il mondo,
scartando ciò che è cattivo, conservando e sommando tutto ciò che è buono; si-
lenziosa e impercettibile essa lavora quando e ovunque se ne offra l'opportu-
nità per perfezionare ogni essere vivente in relazione alle sue condizioni
orga- niche e inorganiche di vita. Questi lenti cambiamenti noi non li
avvertiamo quando sono in atto, ma soltanto quando la mano del tempo ha segnato
il lun- uo volgere delle età, ma così imperfette sono le nostre cognizioni
delle remote ere geologiche che ci è soltanto dato di vedere che le forme
viventi attuali sono diverse da come erano una volta. (p. 150) Anche se la
selezione naturale può fissare modificazioni che a loro vol- ta generano
effetti collaterali imprevedibili, dato che l'organismo è un tut- to
organizzato (p. 151). la novità biologica che emerge per mutazione è in {xarwin
solitamente leggera. un’infinitesimale differenza di modulazione 66 Anatomia di
una rivoluzione in caratteristiche già esistenti. Il processo selettivo
modifica a volte carat- teri marginali e all'apparenza insignificanti, ma in
realtà decisivi nello sta» bilire una piccola differenza rispetto ad altri?.
Nel capitolo ottavo anche gli istinti animali'!° verranno trattati come risultato
del continuo accumulo di numerose, piccole e utili variazioni sottoposte a
selezione, con “molte gra- dazioni che conducono agli istinti più complessi”
(p. 307), per esempio ne- gli istinti migratori e nelle variazioni ereditarie
degli istinti negli animali domestici (pp. 309-313). La selezione naturale
rende permanenti abitudini accidentali, vantaggiose per i loro possessori.
Dunque la selezione agisce attraverso l'accumulo graduale e uniforme (proprio
come nei cambiamenti geologici per Charles Lyell) di numerose e piccole
variazioni: Come la geologia moderna ha ormai ripudiato ipotesi quale quella
dell'esca- vazione di una grande valle ad opera di un'unica ondata diluviale,
così la selezio» ne naturale bandirà la credenza della creazione continua di nuovi
esseri viventi, o di qualsiasi grande e improvvisa modificazione della loro
struttura. (p. 161) La macina di questo mulino lavora incessantemente e non
sembra avere limiti, ribadisce nelle conclusioni della sesta edizione: Non vedo
alcun limite a questo potere di adattare lentamente e magnifica- mente ciascuna
forma alle più complesse relazioni della vita. La teoria della selezione
naturale, anche se non abbiamo guardato più lontano di così, mi sembra
probabile al massimo grado possibile". (p.535)* Ne deriva la conferma del
“canone della storia naturale”. quel motto “Natura non facit saltum” che
tornerà a più riprese in OdS: 9. Il celebre esempio su come un quadrupede
ungulato “possa essersi convertito in una giraffa” dal lungo collo (utile per
raggiungere riserve supplementari di cibo, ma anche per avvistare predatori e
per difesa), attraverso una lenta selezione na- turale di individui ciascuno
differente e non per volontà dell'animale o per eredi- tarietà dei caratteri
acquisiti, è spiegato nel capitolo settimo, nelle risposte alle obiezioni (p.
276). 10 Provvisoriamente definiti come “atti abituali eseguiti inconsciamente”
o, nel caso dell'istinto del cuculo a migrare e a deporre le uova nei nidi di
altri uccelli (pp. 313-317), così: “un’azione che per noi richiede l’aiuto
della riflessione e della pratica è considerata istintiva quando è compiuta da
un animale molto giovane e privo di esperienza, oppure da molti individui nello
stesso modo, senza che essi ne conoscano lo scopo” (p. 305) Il Si noti il riferimento
darwiniano non a certezze o verità, ma a livelli di probabili- tà. il più alto
nel caso della selezione naturale \wwazione e selezione: il nocciolo della
teoria darwiniana 67 Poiché la selezione naturale agisce solo accumulando
variazioni leggere, vuccessive e favorevoli, essa non può produrre
modificazioni grandi o improv- vive; può agire soltanto con passi brevi e
lenti. Perciò, l'assioma “Natura non Juvit saltum”, che ogni nuova aggiunta
alla nostra conoscenza tende a confer- mare, è, secondo questa teoria,
comprensibile. (p. 537) Vin natura “è prodiga di varietà, sebbene avara di
innovazioni” (ibid.): il untore della storia è dato dalle leggere peculiarità
individuali. AI centro del « ujitolo quarto, Darwin aggiunge poi una terza
tipologia di processo seletti- vo falla quale stava lavorando da alcuni anni e
che era già stata intuita da suo un mno Erasmus), dopo la selezione artificiale
e quella naturale. Si tratta del- In "selezione sessuale”, cioè di una
competizione all’interno della specie non in la sopravvivenza bensì
direttamente per la riproduzione: Questo tipo di selezione dipende non dalla
lotta per l'esistenza contro altri «xseri viventi o contro le condizioni
esterne, ma dalla lotta degli individui di un wesso, generalmente maschi, per il
possesso delle femmine. Il risultato di que- via lotta non è la morte del
vinto, ma la mancanza di discendenti o lo scarso unmero di essi. La selezione
sessuale è quindi meno rigorosa della selezione naturale. (p. 154) In quanto
meno rigorosa, tollererà più variabilità, soprattutto nei caratte- 1 sessuali
secondari (p. 216). Tale meccanismo si realizza, in una prima ca- ivporia,
nelle “guerre” tra maschi rivali per il possesso delle femmine, ge- tando per
selezione sessuale una quantità di “armi” per le dispute (corna, ajeroni,
zanne, scudi, e così via, racconta Darwin). Ma vale anche per una avvonda
categoria di competizioni, in cui i maschi non si scontrano diretta- nente ma
rivaleggiano sul piano estetico per indurre le femmine a sceglier- ll vome partner,
come nei canti e nelle esibizioni di molti uccelli. Qui av- 4iene che ... le
femmine degli uccelli possono ottenere un effetto notevole, scegliendo nel
corso di migliaia di generazioni i maschi più belli e dal canto più melodio-
«o, a seconda del proprio ideale di bellezza. (p. 155) Alla selezione sessuale
e alla scelta femminile Darwin attribuisce gran par- te «elle differenze tra i
sessi all’interno delle specie e, nell'Origine dell’uomo, win he la
differenziazione fra le razze umane nel globo. È grazie a essa che la maturi è
così traboccante di bellezza (p. 537). Ma è un argomento che introdu- se in OS
solo brevemente per completezza (ripetendolo anche nelle conclu- «Irwn), avendo
in mente di trattarlo per esteso in un’opera successiva. 68 Anatomia di una
rivoluzione 8. La contingenza della selezione Chiariti i tre processi
selettivi, nel descrivere i rapporti tra selezione natu- rale e scenari
biogeografici Darwin immagina vere e proprie realtà alternati- ve, esperimenti
mentali o “esempi immaginari” (p. 156): lupi e cervi in com- petizione, con
cambiamenti fisici nella regione, oscillazioni demografiche e modificazioni dei
rispettivi caratteri; piante che imparano a sfruttare le visite degli insetti
per la fecondazione, a partire dalla secrezione, per tutt’altre ra- gioni
iniziali, di una linfa zuccherina; invasioni di specie britanniche in Nuo- va
Zelanda, con grande successo e sterminio delle specie autoctone, che al
contrario non sopravvivrebbero alla competizione con le europee (p. 422). Se
l’ambiente pone esigenze di sopravvivenza (o “pressioni selettive”, diremmo
oggi) analoghe, è possibile che animali non strettamente impa- rentati
sviluppino adattamenti simili, per “convergenza dei caratteri” (tema su cui
torna lungamente nel capitolo sesto, pp. 246-250).Tuttavia essa sarà sempre
superficiale, perché troppi sono gli elementi di unicità e di irrever- sibilità
di ogni percorso evolutivo: La forma di un cristallo è determinata unicamente
dalle forze molecolari, e non è sorprendente che sostanze dissimili assumano
talvolta la stessa forma; ma per gli esseri viventi dobbiamo tener presente che
la forma di ciascuno di- pende da una infinità di complessi rapporti, cioè
dalle variazioni che sono sor- te, dovute a cause troppo complesse per poter
essere rintracciate; dalla natura delle variazioni che sono state conservate e
selezionate, e ciò dipende dalle condizioni fisiche ambientali, e in misura
ancora superiore dagli organismi circostanti coi quali ciascun essere è entrato
in concorrenza, ed infine dalla eredità (elemento di per sé fluttuante)
ricevuta da innumerevoli antenati, i qua- li tutti sono stati determinati a
loro volta da rapporti ugualmente complessi. (p. 191, aggiunta della sesta
edizione) Alla luce di tutti questi motivi non ha senso chiedersi perché, se
l’allun- gamento del collo è stato favorevole per la giraffa. tale adattamento
non si sia realizzato anche nelle altre specie di ungulati. o chiedersi perché
le scimmie non sono diventate intelligenti come noi: troppe sono le condizio-
ni contingenti e al contorno (interne ed esterne) che interferiscono e che
rendono ogni percorso evolutivo unico (pp. 276-279). La storia evolutiva di una
specie è un “processo altamente complesso” e come tale irreversibi- le (p.
278). La selezione naturale abbisogna, oltre che di tempo. di “molte
modificazioni coordinate” e di un “concorso di condizioni” che non sem- pre si
realizza (p. 300). Attraverso una serie di “congetture” e di esperimen- ti
ideali, Darwin nel capitolo settimo, rispondendo alle obiezioni alla teo-
\iwuxsione e selezione: il nocciolo della teoria darwiniana 69 ti, mostra come
raramente nell’evoluzione si torni sui propri passi, perché tu «uwmpetizione di
altre specie e l'occupazione di un posto nell'economia lella natura lo
impediscono: gli struzzi non si mettono a volare, troppo di- «uindioso;
pipistrelli e foche non occupano nicchie terrestri sulle isole, iwrehé già
occupate (p. 279). tZuando invece gli organismi di due o più specie evolvono
gli uni in re- Inzione agli altri, si ha una “co-evoluzione”’, con produzione
di “co-adatta- menti”. Le pregevoli descrizioni darwiniane si concentrano in
particolare nulle danze di coadattamenti, di divisioni del lavoro e di
specializzazioni awwiproche tra piante e insetti (l’ape domestica con il trifoglio
rosso, i bom- Wi con il trifoglio violetto, i bombi e le orchidee): Un fiore e
un'ape possono, o simultaneamente o uno dopo l’altra, modifi- cursi poco a poco
e adattarsi reciprocamente nel modo più perfetto, grazie alla «continua
conservazione di tutti gli individui che offrono lievi deviazioni di viruttura
reciprocamente favorevoli all'uno e all'altro. (p. 161) La selezione naturale
però, al contrario di quella artificiale, non prevede In tutto ciò alcuna
scelta conscia e intenzionale. Non è coinvolto alcun spente dotato di mente e
di progetti. Per questa ragione nella quinta edizio- ue di OdS Darwin accetta
il consiglio di Wallace di utilizzare il termine al- ternativo di
“sopravvivenza del più adatto” (survival of the fittest), più meccanico e descrittivo
rispetto a “selezione”, essendo focalizzato più sul uocesso che sull’esito. Lo
mette anche nel titolo del capitolo: “Selezione naturale o sopravvivenza del
più adatto”. In realtà sta cadendo dalla padel- ln nella brace, perché
l’utilizzo di quel superlativo e l’introduzione dello scivoloso aggettivo di
“atto” o “adatto” non lo aiuteranno per nulla. Darwin ha dunque un problema
linguistico, perché si sente costretto a «lescrivere la selezione naturale in
modo antropomorfico (come un agente intenzionale, come un impersonale
allevatore naturale che finisce per asso- unigliare troppo a un surrogato del
divino progettista) ma sa benissimo che in questo modo rischia di ricadere in
un linguaggioteleologico tipico della tcologia naturale. Nella corrispondenza privata
ammette la difficoltà e per evitare di attribuire alla selezione naturale le
stesse caratteristiche di un in- yegnere celeste si ripromette di individuare
un altro termine ancora, più usellico. come “conservazione naturale”. che poi
non adottò mai. È così preoccupato del possibile fraintendimento da aggiungere.
dalla terza edi- zione in poi, un lungo passo difensivo sull'uso delle metafore
e sulla termi- nologia. nel quale si appella al normale utilizzo di espressioni
simili (im- precise ma necessarie) in chimica e in fisica: 70 Anatomia di una
rivoluzione Indubbiamente, nel senso letterale della parola, il termine
selezione naturale è erroneo; ma chi ha mai criticato i chimici quando parlano
di affinità elettive dei vari elementi? Tuttavia non si può dire in senso
stretto che l'acido elegga la base con cui si combina meglio. Si è detto che io
parlo di selezione naturale come di una potenza attiva o di una divinità, ma
chi mai muove obiezioni a un autore che disserta sull'attrazione della gravità come
dellaforza che regola i movimen- ti dei pianeti? Tutti sanno che cosa
significano e implicano tali espressioni meta- foriche, che sono quasi
necessarie per ragioni di brevità. (p. 147) Ma la difficoltà è più generale e
riguarda la personificazione della Natu- ra, con la maiuscola, che aveva usato
nelle precedenti edizioni come sino- nimo di “conservazione naturale” o
sopravvivenza del più adatto (p. 149), una natura che “vede” i più minuti
cambiamenti, aggiusta e migliora, o ad- dirittura “si prende cura” dei singoli
organismi (p. 149): È altresì molto difficile evitare di personificare la
parola Natura, ma per Natura io intendo soltanto l’azione aggregata e il
risultato di numerose leggi naturali, e per leggi la sequenza di eventi da noi
accertati. Per chi ha un mini- mo di familiarità con l’argomento tali obiezioni
superficiali saranno del tutto trascurabili. (ibid.)* Sciogliendo la parziale
circolarità della definizione, per Darwin “natura” è l’insieme dei fenomeni e
degli effetti prodotti da sequenze regolari di eventi accertati
scientificamente (dette “leggi naturali”). In un tale contesto, non si dà mai
perfezione assoluta, ma solo un costante perfezionamento: Non è possibile
citare una regione in cui tutti gli abitanti autoctoni siano così perfettamente
adattati gli uni agli altri e alle condizioni fisiche in cui vivo- no che
nessuno di essi possa adattarsi meglio o perfezionarsi. (p. 149) La natura è
cambiamento, senza direzioni prestabilite, non più deposito di essenze ideali o
strumento per la realizzazione di cause finali. 9. Una radicale separazione tra
natura e teleologia Esattamente in questa discussione terminologica e
filosofica, meno tra- scurabile di quanto appare a prima vista, si nasconde la
specificità radical- mente anti-teleologica del concetto di selezione naturale.
Darwin vuole di- fenderla a ogni costo. come si evince dalla sua corrispondenza
di quegli anni con Asa Gray. Il nocciolo esplicativo della sua teoria è un
incontro \unazione e selezione: il nocciolo della teoria darwiniana 71 »
utingente fra due catene causali indipendenti l’una dall’altra: quella in- wi
delle variazioni individuali non direzionate, da una parte, e quella «lelle
condizioni di esistenza esterne, anch'esse mutevoli, dall’altra. La se- lezione
naturale non dà luogo alle variazioni, si è detto, ma “comporta sol- tnnito la
conservazione delle variazioni non appena compaiono e siano van- inggiose
all’individuo nelle sue particolari condizioni di vita” (p. 147), Mlullottata
fra queste due fonti di contingenza, una interna e una esterna, l'evoluzione
non può certo nascondere alcun piano preordinato, non può avere direzioni già
scritte: è un'esplorazione contingente di possibilità, volta per volta,
dipendente dagli accidenti ambientali. Ne risultano tratti e ««wmportamenti
adattativi che si trasformano incessantemente nelle popola- ami, per via del
lento scrutinio delle “più lievi variazioni” fra individui, al vuriare delle
circostanze accidentali. Ciò non significa, come Darwin scriverà nelle lettere,
consegnare l’evo- Iuzione al puro caso, alla semplice insignificanza di
infinite fluttuazioni ca- suali. Ci sono precise regolarità e leggi in azione,
ma non tali da rendere il processo nel suo insieme prevedibile e determinato.
Né tali da indirizzare l'evoluzione lungo percorsi o tendenze intrinseche. È un
complesso di idee tunto semplice quanto difficile da digerire, per una ragione
precisa: l’in- «mero contingente di due catene causali indipendenti (la
variazione indivi- iluale nelle popolazioni e le condizioni esterne di esistenza,
tra specie e specie, o tra specie e ambienti) ha sue ragioni specifiche, ma
esclude che il «umbiamento evolutivo in sé possa essere canalizzato verso un
fine né tan- Inmeno progettato da una mente intenzionale. L'esito attuale non
era ne- cessario, ma uno fra i tanti possibili. Come scrive Janet Browne, a
differenza di Lamarck, ma anche del suo nonno proto-evoluzionista Erasmus:
“Darwin si differenziava soprattutto perché non prevedeva per i suoi organismi
alcun obiettivo futuro, alcuna teleologia o potere divino che li spingesse in
avanti, alcuno sforzo interio- re o atto di volontà che potesse guidare i
cambiamenti adattativi in dire- nni specifiche. Nella sua visione, le
variazioni dipendono dal caso. Un vrganismo ben adattato potrebbe essere estremamente
semplice. L'adatta- mento di un insetto è meraviglioso quanto quello di un
uomo” (2006, ed. n. cit. p.85). Non vi è dunque alcuna tendenza necessaria in
natura a diventare più grandi, più alti, più duri, più veloci, più soffici o
più intelligenti. Dipende solo e soltanto dalle circostanze, senza alcuna
sequenza pre-programmata «li passaggi dal più semplice al più complesso come in
Lamarck. È una rot- tura filosofica che va ben al di là della confutazione
della dottrina delle cre- iizioni speciali e che giustifica molte delle più che
ventennali ritrosie. Sta 72 Anatomia di una rivoluzione andando non soltanto
contro un universo religioso (che ancora oggi acco- glie, neghittosamente, la
realtà dell'evoluzione per selezione naturale, ma non le sue conseguenze
antifinalistiche), ma anche filosofico e ideologico più generale. Come scrisse
Emst Mayr, “si era in un’epoca singolare, visto che i filosofi della scienza
inglesi — Herschel, Whewell e Mill — da un lato sostenevano a spada tratta una
metodologia scientifica rigorosa e dall’altro credevano tutti fermamente nelle
cause finali” (1991, ed. it. 1994, p. 68). Dunque persino i suoi riferimenti
metodologici più autorevoli, disposti a concedere un ruolo alla mano di Dio in
natura, non lo avrebbero seguito nella sua tagliente confutazione di ogni
teleologia, così espressa nell’ Auo- biografia: Dopo la scoperta della legge
della selezione naturale, cade il vecchio argo- mento di un disegno nella
natura secondo quanto scriveva Palev. argomento che nel passato mi era sembrato
decisivo. Non si può più sostenere, per esem- pio, che la cerniera perfetta di
una conchiglia bivalve debba essere stata idea- ta da un essere intelligente,
come la cerniera della porta dall'uomo. Un piano che regoli la variabilità degli
esseri viventi e l'azione della selezione naturale non è più evidente di un
disegno che predisponga la direzione del vento. Tutto ciò che esiste in natura
è il risultato di leggi determinate. (p. 69) Si noti l'incipit normativo: “non
si può più sostenere”. È irrazionale e insensato continuare a sostenere che in
natura esiste un disegno. Ma non basta: quasi a voler anticipare sul nascere
certe interpretazioni teistiche concilianti, è contro ogni evidenza anche
asserire che il piano divino agisca per mezzo delle variazioni e della
selezione naturale (come pen- sava per esempio l'amico botanico di Harvard Asa
Gray). È un punto di svolta.Inizia la descrizione integrale della natura in
evoluzione in quan- to priva di qualsiasi disegno e di cause finali. In un passo
del capitolo ot- tavo che sembra rivolto espressamente ai teologi naturali e ai
teorizzato- ri di fantomatiche leggi interne della forma, Darwin concede che
sia difficile immaginare la meravigliosa complessità degli adattamenti
(esemplificata dalla matematica perfezione del favo) come risultato di pochi
meccanismi di base. ma questo è proprio ciò che si suggeriscono le evidenze:
Ottuso deve essere colui che può esaminare la squisita fattura di un favo, così
perfettamente adatta al suo scopo, senza provare un sentimento di entusia-
stica ammirazione. I matematici ci insegnano che le api hanno praticamente
risolto un astruso problema, quello di dare alle celle la forma atta a
contenere la quantità massima di miele, con il minor consumo possibile di preziosa
cera perla costruzione. È stato osservato che un abile operaio, fornito degli
utensi- \uriazione e selezione: il nocciolo della teoria darwiniana 73 li e
misure esatte, avrebbe grande difficoltà a costruire celle di cera di forma
«ppropriata, come quelle costruite da miriadi di api che lavorano in un oscuro
alveare. Ammettete tutti gli istinti che volete: sembra inconcepibile a tutta
pri- ma che le api possano fare tutti i necessari angoli e piani, e persino
accorger- xi quando sono fatti esattamente. Tuttavia la difficoltà non è così
grande come può sembrare a prima vista: e credo si possa dimostrare che tutto
questo ma- gnifico lavoro è il risultato di pochi e semplici istinti. (p. 322)
Il ‘“metodo di lavoro della Natura” consiste nel “grande principio della
gradazione” (ibid.), cioè modificazioni di istinti per selezione naturale, “una
lunga e graduale successione di istinti architettonici modificati” (p. +28), in
una serie continuativa di soluzioni adattative che vanno dalle celle
rudimentali dei bombi alla perizia costruttiva del favo piramidale a celle
«esagonali delle api domestiche, passando per le celle sferiche imperfette
«lella Melipona domestica (pp. 322-324). La “pressione selettiva” (cioè il
vantaggio arrecato ai portatori di leggere modificazioni ereditarie di istin-
ti) è data dall'economia di lavoro, di cera e di tempo. 10. L'egoismo
imperfetto della selezione È interessante verificare anche un altro aspetto
riguardante le modalità «i azione della selezione naturale. Un lungo e vivace
dibattito evoluzioni- stico sul livello gerarchico esatto al quale agirebbe la
selezione naturale si è infatti protratto fino a oggi e non smette di dividere
gli esperti. La sele- zione favorisce tratti alivello di individuo singolo o
anche di gruppi e di specie? Il vantaggio è sempre del singolo o può essere
anche della comu- nità? In OdS Darwin non sembra avere dubbi: i tratti
adattativi sono sele- zionati perché favoriscono la sopravvivenza e la
riproduzione di organi- smi individuali. Il rifiuto di meccanismi selettivi che
non siano strettamente individuali è inalcuni passaggi moltonetto. La selezione
non fin mai il bene delle specie, ma solo degli individui. Anzi, la scoperta di
tratti di una specie che siano vantaggiosi per un'altra sarebbe una confuta-
zione della teoria: La selezione naturale non può produrre modificazioni in una
specie esclusi- vamente a vantaggio di un'altra specie; benché nella natura una
specie conti- nuamente si avvantaggi e si approfitti della struttura di altre.
... Se si potesse provare che una qualsiasi parte della struttura di una specie
è stata formata per esclusivo beneficio di un'altra specie. ciò distruggerebbe
la mia teoria, poiché quella parte non potrebbe essersi prodotta attraverso la
selezione natu- rale. (p. 259) 74 Anatomia di una rivoluzione Anche quando
sembra che il vantaggio sia collettivo, sottosotto la ragio- ne ultima della
sua insorgenza per selezione naturale è il vantaggio indivi- duale. Il sonaglio
del serpente può avvisare in anticipo le prede, ma è co- munque funzionale per
spaventare potenziali nemici (p. 260). Il principio del “bene individuale” è
prevalente. Ciò vale per i tratti strutturali come per gli istinti: gli afidi
“che cedono volontariamente alle formiche le loro escre- zioni zuccherine” non
stanno facendo un favore gratuito a un’altra specie, ma ne ricavano un
vantaggio (pp. 307-308). Nella dettagliata ricostruzione del caso dell’istinto
egoista e “odioso” del cuculo (pp. 313-317), che depo- sita le sue uova nei
nidi di altri uccelli e i cui giovani spingono fuori dal nido e uccidono i
fratelli adottivi, Darwin non dice nulla del vantaggio che dovrebbe avere la
specie che subisce un simile comportamento: l'egoismo del cuculo prevale ed è
sufficiente che la vittima del sopruso non venga sterminata (p.317), così come
accade per le formiche rese schiave da altre formiche “tiranne” (p. 320).
Potranno esserci scambi di interessi reciproci e compromessi tra vantag- gi e
svantaggi, ma alla fine ogni carattere dovrà offrire un’utilità prevalen- te,
altrimenti verrà cassato dalla selezione: La selezione naturale non produrrà
mai in un essere una qualsiasi struttura che sia più dannosa che benefica per
detto essere, poiché la selezione natura- le agisce soltanto mediante il bene e
per il bene di ciascuno. ... Se si facesse un equo bilancio del bene e del male
causato da ciascuna parte, si troverebbe che ciascuna è nel complesso
vantaggiosa .(p. 260) Che l’interesse individuale sia l’opzione primaria di
Darwin si nota an- che dal modo in cui spiega come possa la selezione favorire
per gradi suc- cessivi la sterilità fra gli individui di due varietà che stanno
diventando due specie distinte. È un altro problema della spiegazione per
selezione: come può essa favorire un tratto anti-riproduttivo di questo tipo,
dove la prole si indebolisce sempre di più e diventa sterile? Wallace aveva
affrontato il tema dell’ibridismo considerandolo un adattamento a livello della
specie (che preserva così la sua integrità), una soluzione inaccettabile per
chi come Darwin vedeva di norma l'agente della selezione nel singolo organi-
smo e non in entità di livello superiore. Il rifiuto di questa ipotesi basata
sull’interesse della specie è netto: ...la sterilità delle specie dopo il primo
incrocio, e quella della loro discen- denza ibrida, non possono essere state
acquisite, come dimostrerò, con la con- servazione di gradi successivi e
vantaggiosi di sterilità. Essa è un risultato ac- cidentale di differenze nel
sistema riproduttivo delle specie progenitrici. (p.339) Variazione e selezione:
il nocciolo della teoria darwiniana 75 Il passo è rimaneggiato più volte nelle
sei edizioni e Darwin è incerto sulla natura di queste differenze nei sistemi
riproduttivi. A suo avviso la sterilità dei primi incroci e degli ibridi nelle
specie incipienti non era da considerare una proprietà innata delle specie
stesse, né un adattamento di- retto frutto di selezione, bensì un effetto
collaterale incidentale di altri trat- ti adattativi divergenti, in particolare
nei sistemi riproduttivi delle varietà in l'ase di separazione e nelle loro
leggi di sviluppo. Ne consegue (“dopo ma- tura riflessione” — p. 353) che la
sterilità dei primi incroci e degli ibridi non è frutto della selezione
naturale. Il vantaggio sarebbe infatti esclusivamen- te dell'intera specie o
della varietà (p. 352), ma ciò non è possibile perché dobbiamo comunque prima
passare dalla sopravvivenza degli individui nelle popolazioni e non riusciremmo
a spiegare il successo iniziale di indi- vidui incipientemente sterili: Che
cosa potrebbe favorire la sopravvivenza di quegli individui che fossero dotati
di una reciproca sterilità un po' più pronunciata, avvicinandosi così, di poco,
alla sterilità assoluta? (p. 353) Non c’è vantaggio né diretto per l'individuo
né indiretto per la comuni- tà, dunque la selezione non può agire (p. 354). Il
beneficio della specie, nel caso della sterilità degli ibridi, è fortuito e il
processo in questo caso non è selettivo, ammette con una certa riluttanza il
naturalista inglese (ripetendo che è giunto a questa conclusione dopo molte
riflessioni e tornando sul pro- blema anche nelle conclusioni, nella sesta
edizione, a testimonianza di quanto lo ritenesse importante — pp. 527-528). La
questione tuttavia non è generalizzabile in contorni così semplici e Darwin non
rinuncia tanto facil- mente al ruolo della selezione naturale in altri casi. Si
accorge però di non poter spiegare efficacemente, in termini di esclusiva
selezione individuale, la comparsa di caratteri e di comportamenti (diffusi in
natura) che sono fa- vorevoli per un gruppo di organismi ma svantaggiosi per il
singolo. Queste forme di socialità, di altruismo e di sacrificio per la
comunità dovrebbero essere eliminate dalla selezione e invece sono diffuse. Ne
L'origine dell'uomo, spaziando dall'evoluzione delle caste sterili negli
insetti eusociali allo sviluppo della moralità umana, accoglierà alcune si-
gnificative obiezioni all’*egoismo individuale” della selezione, aprendo alla
possibilità di una competizione e quindi di una selezione tra famiglie, tribù e
gruppi. Il tema traspare già in OdS e sembra lasciar trapelare chia- ramente la
possibilità che in alcuni casi possa operare in natura non sol- tanto una
selezione individuale. ma anche una “selezione tra gruppi” (group selection).
76 Anatomia di una rivoluzione Darwin sta riflettendo sul caso peculiare del
pungiglione dell’ape, la cui conformazione anatomica è tale da portare alla
morte l’insetto quando at- tacca un nemico e lo punge. L'espulsione del
pungiglione, a causa dei den- telli rivolti all’indietro, porta infatti alla
lacerazione dell'addome dell’in- setto e alla perdita dei suoi visceri. Come
spiegare un tratto così imperfetto, così stranamente suicida e controproducente
sul piano individuale? Perché le api prive di questa caratteristica mortale non
hanno avuto il sopravven- to? Evidentemente, risponde Darwin, il pungiglione
nasce per altre funzio- ni in remoti progenitori e viene poi riadattato per il
suo scopo attuale. Af- finché persista, non resta che richiamare una qualche
“utilità per la comunità”; Poiché se in complesso la capacità di pungere
risulta utile alla comunità so- ciale, essa soddisferebbe tutti i requisiti
della selezione naturale, sebbene pos- sa causare la morte di alcuni membri.
(p. 261) Da questo punto di vista le api e le vespe che pungono il nemico si
sacri- ficano per la comunità e si comportano in modo altruista nei confronti
del gruppo. Darwin è quindi consapevole della distinzione tra la selezione che
agisce all’interno dei gruppi e la selezione tra gruppi. Lo stesso principio si
applica a specie i cui gruppi sono solitamente costituiti da individui stretta-
mente imparentati fra loro, come gli insetti eusociali (api. vespe, formiche,
termiti). Anche in questo caso Darwin non ha dubbi sul ruolo della comu- nità
come unità di selezione. Come spiegare altrimenti l'evoluzione di in- tere
caste sterili di lavoratrici in molte di queste specie e la produzione di
migliaia di fuchi? Si tratta di individui che disobbediscono all’imperativo
darwiniano della riproduzione e dunque dovrebbero sfuggire a ogni logica
selettiva individuale. Anche la regina, che dà “selvaggiamente” la caccia alle
giovani regine, sue figlie. lo fa “indubbiamente per il bene della comu- nità”
(ibid.). In effetti, ammette Darwin nel capitolo sugli istinti, questa difficoltà
“mi sembrò dapprima insormontabile e davvero fatale alla mia teoria” (p. 331)*,
tanto da richiedere il ricorso alla comunità come referente del van- taggio
indiretto di un comportamento individuale. Sarà così riaffermato “il potere
della selezione naturale” per risolvere “la difficoltà specifica di gran lunga
più grave incontrata dalla mia teoria” (p. 336). Sappiamo dalla corri-
spondenza privata che Darwin si sta arrovellando su questo problema dal 18:18 e
che la soluzione si fa strada nella sua mente non prima del 1858, quando sta
lavorando a Natural Selection. La risposta a cui giunge è diver- sa da quella
relativa alla sterilità degli ibridi. cioè individui di due specie in
Variazione e selezione: il nocciolo della teoria darwiniana n fuse di separazione.
Qui infatti gli individui sterili sono all’interno della diessa specie.
Prendiamo il caso delle formiche operaie, sterili, scrive Darwin. Evidente-
mente i formicai che contenevano alcuni individui occasionalmente sterili
{tutto comincia, anche qui, con variazioni spontanee accidentali), ma mag-
giormente al servizio della comunità, hanno ottenuto un vantaggio competiti- vo
rispetto ai formicai in cui tutti gli individui erano fertili, ma meno sociali.
Vuò essere un vantaggio se alcuni rinunciano alla procreazione in cambio di un
più intenso lavoro per la comunità. E fino a questo punto, non vi sono “par-
ticolari difficoltà ad ammettere che ciò sia avvenutoattraverso la selezione
na- turale” (p. 332). Tra le righe, implicitamente ha già scritto che la
competizio- ne non è tra formiche singole, bensì tra formicai. Dalla comparsa
occasionale «li individui sterili si passa alla loro utilità sociale: non hanno
esigenze di pro- creazione e si mettonoal servizio dell’alveare. Il successo
del loro gruppo farà si che in una specie questa percentuale di individui
sterili si stabilizzi. Il problema però si aggrava quando consideriamo il fatto
che le caste sterili, nelle formiche come nelle api, presentano notevoli
differenze di struttura rispetto a maschi e femmine fertili. Le operaie
sembrano insetti completamente diversi. Come è possibile? Se sono sterili, come
fanno a trasmettere questa loro diversità? Senza contare che se un individuo è
ste- rile non può diffondere alla discendenza nemmeno il suo carattere social-
mente favorevole. Anche nella conclusione il caso delle formiche viene
presentato tra quelli “di speciale difficoltà” (p. 527). Qui Darwin mutua però
dalla selezione artificiale una soluzione teorica assai ingegnosa, oggi
iampiamente corroborata: la selezione naturale non agisce tanto sulla steri-
lità e sulla fertilità in sé, quanto sulle differenti strategie riproduttive
dei genitori. Alcuni di questi in passato avranno avuto l’intera prole fertile,
mentre altri avranno avuto un mix di figli fertili e di figli sterili, con van-
taggi sociali per sé e per la comunità. Questa difficoltà, sebbene appaia
insuperabile, si riduce 0, come credo, scompare, quando si ricordi che la
selezione può applicarsi alla famiglia, così come all'individuo, e può così
raggiungere lo scopo desiderato. (p. 332) L'allevatore che uccide un animale
per provarne la carne sa che quell’a- nimale non potrà più riprodursi, ma se la
carne è di qualità potrà favorire la riproduzione dei suoi genitori, svolgendo
così una “selezione familiare”: “la selezione esplica la sua azione sulla
famiglia e non sull’individuo. al line di raggiungere un risultato vantaggioso”
(p. 333). Allo stesso modo la lavoratrice sterile non si riproduce. mentre i
genitori fertili che l'hanno 78 Anatomia di una rivoluzione messa al mondo si
riprodurranno più degli altri'. Il bene in questo caso è sia individuale sia di
gruppo, perché i figli sterili aiutano sia i loro parenti sia l’alveare nel suo
complesso (anche se le due condizioni in parte si sovrap- pongono: oggi
sappiamo che negli imenotteri eusociali. con l'eccezione delle termiti, il
grado di comunanza genetica è altissimo). Possiamo perciò concludere che lievi
modificazioni di struttura o di istinto, in correlazione con la condizione di
sterilità di alcuni membri della colonia, si sono dimostrate vantaggiose";
di conseguenza maschi e femmine fecondi! hanno prosperato e trasmesso alla loro
discendenza feconda una tendenza a produrre individui sterili con le stesse
modificazioni. Questo processo deve es- sersi ripetuto molte volte, fino a dar
luogo a quella prodigiosa somma di diffe- renze tra le femmine sterili e le
femmine feconde della stessa specie, che ri- scontriamo in molti insetti
sociali. (p. 333)* Viene dunque a crearsi una sopravvivenza differenziale tra
comunità, non tra individui, con il maggior successo di “comunità con femmine
che produ- cono il più gran numero di individui neutri aventi tali vantaggiose
modifica- zioni” (p. 334). All’interno della stessa specie, le popolazioni
sterili di ope- raie e di soldati possono poi differire grandemente al loro
interno e specializzarsi in caste diverse (per dimensioni, organi della vista,
mandibo- le, etc), fra le quali esisteranno però sempre insensibili gradazioni
(pp. 333- 336). La divisione del lavoro all’interno di una comunità può infatti
miglio- rarne molto l'efficienza (p. 336). Il tutto sempre attraverso la
sopravvivenza differenziale non degli individui sterili ma dei progenitori che
li generava- no, comprese le loro progressive differenziazioni in caste
specializzate. La differenza tra le due soluzioni proposte da Darwin per la
sterilità de- gli ibridi (effetto incidentale, senza vantaggi selettivi per la
specie in sé) e per la sterilità delle caste di lavoratrici negli insetti
eusociali (selezione di gruppo) lascia supporre che egli abbia in mente due
criteri precisi per ipo- tizzare che la selezione agisca non soltanto a livello
individuale: coloro che sacrificano i loro interessi individuali devono
apportare benefici ad altri in- dividui della comunità (e dunque, di riflesso.
a se stessi): la dinamica deve prevedere una competizione tra gruppi, con
strategie riproduttive e adatta- 12. Spostando la spiegazione sul successo
riproduttivo dei genitori, questa soluzione esclude che vi possa essere stata
un’infuenza delle abitudini, dell'esercizio, dell'uso e del disuso da parte
delle operaie sterili. È quindi un processo genuina- mente selettivo che si
contrappone alla “ben nota teoria delle abitudini ereditate, avanzata da
Lamarck" (p. 336). 13 Nella prima edizione aveva scritto “vantaggiose per
la comunità” 14 Nella prima edizione aveva scritto “maschi e femmine fecondi
della stessa comunità”. \uriazione e selezione: il nocciolo della teoria
darwiniana 79 menti diversi, all’interno della stessa specie (e non con la
specie in sé come unità di selezione). Le due condizioni non sono soddisfatte
nel caso della sterilità degli ibridi, lo sono invece per le caste sterili
negli insetti. In ultima istanza, per Darwin, il beneficio del gruppo (che legittima
pos- sibili processi di group selection in almeno tre casi) deve riflettersi in
un be- neficio per tutti gli individui che ne fanno parte (Sober, 2011). Dunque
ha un approccio sostanzialmente individualista, ma ciò non gli impedisce di es-
sere pluralista circa i possibili livelli di selezione qualora ve ne sia la
neces- sità per spiegare i tratti che favoriscono la socialità. Potremmo
definire la sua posizione “egoismo imperfetto”. Ciò che sicuramente non è
possibile, precisa Darwin, è che una specie si modifichi senza alcun vantaggio,
“ma volo per l’utile di un’altra specie” (p. 152). Per il resto, non è mai
drastico. Esiste poi lo scenario ecologico che giustifica spesso una lotta non
solo tra individui, ma anche tra gruppi di esseri viventi. Ciò fa sì, per
esempio, che alcune specie di piante (le più diffuse tra regioni differenti e
le più co- muni per numero di individui in una regione) siano più variabili di
altre e «dunque abbiano “maggiore probabilità di lasciare una discendenza la
qua- le, sebbene lievemente modificata, erediti ancora quei vantaggi che hanno
permesso alla specie madre di prendere il sopravvento sulle altre specie in-
«digene” (p. 124). Dunque in taluni passaggi persino le specie sembrano
soggetti attivi a tutti gli effetti del gioco darwiniano, essendo alcune più
prospere (most flourishing) e pertanto più “evolvibili” di altre, nel senso che
contengono più varietà interne.!“ Nel capitolo secondo Darwin si lan- cia
addirittura in un confronto tra generi più grandi e generi più piccoli nel- le
piante, sostenendo l’esistenza, pur con eccezioni significative, di interi
gruppi di specie più prolifici di altri (perché producono mediamente più va-
rietà interne, cioè specie in via di formazione). Come per molte altre
questioni, insomma, Darwin non aderisce dogma- ticamente ad alcun monismo
esplicativo e anche per questo la lettura di OdS continua a essere attuale per
gli evoluzionisti. Elliott Sober ha notato che nelle successive versioni di una
frase particolare di OdS si nota, dal 1859 al 1872, un progressivo favore nei
confronti della selezione di grup- po. Così scrive nel 1859 (Sober, p. 82): 15
Darwin, tuttavia. non si spinse mai fino alla teori ione di un processo di
cerni- ssendovi sempre un'estrapolazione a partire dal livel- iduali. lo delle
differenze indi 80 Anatomia di una rivoluzione Negli animali sociali la
selezione adatterà la struttura di ciascun individuo per il bene della
comunità, se ogni individuo di conseguenza riceverà un van- taggio dal
cambiamento selezionato. (p. 152)* Qui il criterio finale dirimente è il
vantaggio individuale, da cui deriva fortuitamente in alcuni casi quello di
gruppo. Nella quinta edizione, del 1869 (quando già stava lavorando a L'origine
dell’uomo e la selezione tra gruppi compare come parte cruciale della
spiegazione dell’evoluzione del senso morale umano), la frase cambia
leggermente: Negli animali sociali la selezione adatterà la struttura di
ciascun individuo per il bene dell'intera comunità, se questo di conseguenza
trarrà vantaggio dal cambiamento selezionato. (p. 152)* Nell'edizione finale
del 1872 rimane soltanto il beneficio della comuni- tà e la selezione di gruppo
descrive compiutamente l’intero processo. Solo in presenza di un vantaggio per
la comunità vi sarà il cambiamento selezio- nato: Negli animali sociali la
selezione adatterà la struttura di ciascun individuo per il bene dell'intera
comunità, se la comunità stessa trarrà di conseguenza vantaggio dal cambiamento
selezionato. (p. 152)* Nel capitolo sugli istinti, dopo aver descritto le
gradazioni che rendono sempre più efficienti (per solidità e per risparmio di
tempo e di cera) le ar- chitetture dei favi nelle api, ancora una volta il
vantaggio acquisito in termi- ni di ereditarietà e di lotta per l’esistenza non
è fra individui ma fra sciami: Quel determinato sciame che in tal modo avrà
costruito le migliori celle con il minimo lavoro e il minimo consumo di miele
nella secrezione della cera avrà avuto più successo e avrà trasmesso i suoi
istinti economici recentemente ac- quisiti a nuovi sciami, che a loro volta
avranno avuto le migliori possibilità di successo nella lotta per l'esistenza.
(p. 330) 11. // principio di divergenza A questo punto Darwin deve finalmente
saldare il suo impianto esplica- tivo centrale (la selezione naturale) con la
seconda componente essenziale della sua teoria, la discendenza comune, lo
schema genealogico rappresen- tato dall'albero unificato della vita (Sober.
2011). Da un processo ecologi- Variazione e selezione: il nocciolo della teoria
darwiniana 81 co continuativo e cieco di concorrenza individuale derivano
infatti per Dar- win anche l’estinzione (pp. 172-173) e l’approfondirsi di
divergenze tra interi gruppi tassonomici, sia nello stesso ambiente sia in
ambienti separa- ti, lino al punto di moltiplicare le specie e i generi che
sono in grado di ap- profittare delle risorse di quello che oggi chiameremmo un
“ecosistema”. «ui l’autore deve insomma mostrare che la selezione naturale non
si limi- tu a produrre piccoli cambiamenti microevolutivi all’interno di una
specie, ma è anche il motore dei cambiamenti evolutivi su larga scala che hanno
strutturato la biodiversità attuale. Non esistono muri insuperabili tra specie
v “tipi” di individui, come obiettavano i creazionisti di allora (e come
«biettano ancora, ignorando ostentatamente sia il senso dell'argomentazio- ue
darwiniana sia le sue conferme di un secolo e mezzo di ricerca). La selezione
naturale ha quindi bisogno di un'estensione fondamentale, che non troviamo nei
Taccuini e negli scritti preliminari, essendosi palesa- ta nella mente di
Darwin a suo dire intorno al 1850: il “principio di diver- genza”, l'architrave
della teoria secondo David Kohn (in Ruse, Richards, 2009), o più precisamente
“il principio del vantaggio derivato dalla diver- genza dei caratteri (p. 180).
Qui Darwin si cimenta in una generalizzazio- ne ardita. Gli ambienti naturali
tendono a essere il più densamente abitati possibile (entro i limiti dati dalle
risorse disponibili e dalle condizioni fisi- che) da popolazioni in continua
crescita, diffusione e differenziazione. Due varietà della stessa specie o due
specie dello stesso genere avranno più pro- lubilità di persistere se si
allontaneranno dalle forme medie della loro spe- vie o del loro genere. Nel
naturalista inglese è sempre presente l’idea che tn contesto ecologico, sia
esso selvaggio o addomesticato come un campo «li grano, sarà tanto più sano e
robusto quante più varietà e specie distinte conterrà (p. 175): diffidare delle
monocolture, perché impoveriscono l’eco- sistema e lo rendono alla lunga meno
produttivo. In tutto ciò egli ravvede una sorta di legge di natura universale a
benefi- vio della massima diversità e della divergenza dei caratteri. Le
varietà gra- «lualmente divergono e diventano specie distinte. Dato che “una
maggiore «juantità di vita può essere sostenuta da una grande differenziazione
nella struttura” (p. 178), la diversificazione competitiva è sempre vantaggiosa
per le specie: .. quanto più i discendenti di una qualsiasi specie si
differenziano per strut- tura, costituzione e abitudini, tanto meglio saranno
in grado di occupare nell'economia della natura numerosi posti molto diversi, e
così saranno in gra- do di aumentare di numero. (p. 175) 82 Anatomia di una
rivoluzione Per “posti” da occupare (places in the polity of nature) Darwin
intende il nutrirsi di un tipo particolare di preda, il frequentare certi
luoghi (alberi, acque, praterie, eccetera), l'avere certe abitudini e
strutture, lo specializzar- si in coadattamenti con altre specie, il tutto
all’interno di un ecosistema in- tegrato. È quindi un concetto molto vicino a
ciò che oggi definiamo “nic- chia” ecologica. Più le strutture e le abitudini
sono differenziate, in un regime di concorrenza, più gli ambienti saranno in
salute e ricchi di specie. Ne consegue che i discendenti di ogni specie, in
fase di trasformazione o quando si naturalizzano in un nuovo ambiente,
cercheranno di assicurarsi “il maggior numero possibile di luoghi il più
possibile diversificati nell’e- conomia della natura” (ibid.), anche a scapito
degli altri, scalzandosi a vi- cenda come cunei conficcati nel legno. Per le
stesse ragioni Darwin concepì il lato negativo ma indispensabile del
cambiamento, l’estinzione, come un processo graduale di declino nella
competizione biotica (con sostituzione finale da parte di altre specie) o più
raramente nella competizione abiotica (soprattutto se l'habitat cambia trop- po
rapidamente), rifiutando risolutamente l'ipotesi di cataclismi improvvi- si o
di ecatombi di massa, troppo vicina al catastrofismo discontinuista di George
Cuvier, e associando l’estinzione a un’inadeguatezza adattativa e competitiva.
Nelle conclusioni ribadirà che l'evoluzione è una successione continuativa, mai
spezzata in passato da cataclismi che abbiano devastato il mondo intero (p.
553). Le specie non hanno un orologio interno, ma per varie ragioni “quasi mai
persistono per più di un periodo geologico” (p. 214). L’estinzione di specie
discende quindi direttamente dal principio del- la selezione naturale, laddove
“forme antiche sono soppiantate da forme nuove e perfezionate” (p. 540). Quando
le condizioni di esistenza vengono a mancare, e gli organismi non trovano più
nella loro variabilità una risorsa per riprendersi, subentra inesorabile
l’estinzione. Se la concorrenza in ambienti affollati è il fuoco che tempra le
specie e porta a continui turnover, gli animali che invece sono riusciti a
resistere all'estinzione e sono rimasti pressoché simili a se stessi per
lunghissimi periodi di tempo (Darwin li definisce “fossili viven- ti”. ma
specificando che si tratta di un termine fantasioso — p. 551) diven- tano casi
particolari dovuti all’adattamento ad aree ristrette e a una minore
competizione. Dunque la spiegazione darwiniana. per quanto gradualista, può
prevedere anche fenomeni di prolungata stasi evolutiva. sempre in un contesto
di tipo selettivo. Le nuove varietà sostituiranno le vecchie e gli abitanti di
quell'ambien- te finiranno per divergere nei loro caratteri e comportamenti.
dando origi- ne a graduali separazioni di linee evolutive negli “alberi di
discendenza” Variazione e selezione: il nocciolo della teoria darwiniana 83
«lei viventi, come quelli resi poi immortali nelle opere dello zoologo ed em-
Iriologo tedesco Emst Haeckel, che Darwin cita con ammirazione, dalla «juinta
edizione, nel penultimo capitolo di OdS: Il professor Haeckel, nella sua
Morfologia generale e in diversi altri lavori, si è di recente applicato con
tutto il peso delle sue cognizioni e della sua capa- cità a far fare dei passi
avanti a ciò che egli chiama filogenesi (phylogeny), o linee di discendenza di
tutti gli esseri viventi. Per ricostruire le diverse serie egli si affida
soprattutto ai caratteri embriologici, ma si serve anche degli or- gani
omologhi e rudimentali, nonché dei periodi successivi in cui si crede che le
diverse forme di vita siano comparse per la prima volta nelle nostre forma-
zioni geologiche. Egli ha dunque fatto un primo audace tentativo e ci insegna
come la classificazione sarà trattata in futuro. (p. 501) Come Darwin aveva già
anticipato a p. 128, la somma delle piccole diffe- renze esistenti tra le
varietà tende ad aumentare ‘fino a dare origine alle gran- «i differenze che si
riscontrano tra le specie”. Più in alto nella gerarchia del vivente, “i generi
più grandi tendono anche a suddividersi in generi minori. 1: così, in tutto
l’universo, le forme di vita si suddividono in gruppi che sono subordinati ad
altri gruppi” (p. 129). Torna dunque, ma ora soltanto a poste- riori rispetto
alla presentazione del suo nocciolo teorico e filtrata dal princi- pio
gradualista, la grande metafora descrittiva dell’albero della vita, che era
stata la sua vibrante illuminazione di esordio del luglio 1837. Questa volta
però Darwin ci è arrivato per via indiretta, attraverso il motore del cambia- mento
evolutivo, la selezione, e il principio gradualistico di divergenza.
Discendenza comune e selezione naturale da qui in poi cominciano a marciare
insieme per spiegare la grande “filogenesi” unificata della vita. Rispondendo a
un’obiezione del 1867, Darwin sottolinea che la variazione (seppur di lieve
entità) e la selezione non incontrano limiti nel modificare lentamente una
specie, la quale certo oppone resistenza in virtù delle sue strutture
preesistenti ma è indefinitamente plasmabile dal lento mutare del- le
condizioni di vita: ... non vedo limite alla quantità dei cambiamenti, alla
bellezza e alla com- plessità dei coadattamenti di tutti gli esseri viventi fra
di loro e con le condizio- ni fisiche di esistenza, che possono essersi
effettuati nel lungo corso del tempo attraverso il potere di selezione della
natura, cioè per mezzo della sopravvi- venza del più adatto. (p. 172) Molte
pagine del capitolo quarto sono poi dedicate al problema della di- spersione
delle variazioni. cioè al fatto — notato da alcuni commentatori — che una
piccola differenza individuale favorevole rischierebbe ogni volta 84 Anatomia
di una rivoluzione di venire diluita nella discendenza, a causa degli incroci
con individui che non la posseggono. Per salvare il gradualismo cumulativo
della selezione, Darwin si difende sostenendo che forse alcune variazioni si
ripresentano spesso (a causa di influenze ambientali simili) e che gli
individui modifica- ti tenderanno a formare piccoli gruppi locali, generando
una varietà, ripro- ducendosi fra loro ed espandendosi sempre di più. Tuttavia,
è consapevole che l’incrocio tra individui distinti è essenziale per
rimescolare le variazio- ni (l’autofecondazione non può essere illimitata, p.
162) e che al contrario la riproduzione in piccoli gruppi di organismi simili e
imparentati è sfavo- revole. La risposta alle obiezioni solleva insomma
ulteriori contraddizioni, perché Darwin è ormai vincolato a un principio
teorico forte e non ha per le mani una valida teoria dell’ereditarietà. Nella
seconda parte del capitolo quarto (pp. 176-177) compare l’unico diagramma di
OdS, il celebre cono di diversità crescente raffigurante la graduale
moltiplicazione e sostituzione delle specie per divergenza dei ca- ratteri a
opera della selezione naturale. Natura e storia, lette in un quadro coerente,
albero della conoscenza e della vita insieme: Variazione e selezione: il
nocciolo della teoria darwiniana 85 Da undici ceppi iniziali (che si
assomigliano in modo diseguale) si svi- luppano nuove varietà, nel corso di quattordici
passaggi (ognuno dei quali inppresenta mille o più generazioni). Molte linee di
discendenza di estin- guono senza lasciare eredi (B, C, D, G, H, K, L). Altre
perdurano a lungo venza produrre varietà (E). Altre ancora (F) rimangono
stabili per tutta la «lurata del processo, senza ramificazioni, e sopravvivono
inalterate. Soltan- to due ceppi antenati (A e I), due specie molto diffuse e
varianti, dotate di im'enigmatica “tendenza ereditaria alla variabilità” (p.
180) e capaci di soppiantare le specie a loro più affini, danno inizio a una
lussureggiante di- versificazione di leggere varietà discendenti, che si
dipartono come ramo- scelli. Le variazioni più divergenti si conservano di più.
Da queste numero- se divergenze, se utili e selezionate, nascono nuove varietà
(in lettere minuscole piccole). Altre invece si estinguono, soppiantate da rami
limitrofi più competiti- vi, e così sparisce la gran parte degli antenati e
delle forme intermedie (p. 183), generando quelle lacune che possiamo colmare
soltanto attraverso i tussili. Dopo 14.000 generazioni, quattordici varianti
discendenti e modifi- cate sopravvivono fino all'ultimo passaggio, che potrebbe
rappresentare la biodiversità attuale di un certo genere di animali o di piante
in una data re- gione. Le specie odierne (lettere minuscole grandi in cima)
sono quindi ‘«liscendenti modificati” (modified descendants), attraverso i
numerosi gradini delle variazioni divergenti, delle due forme iniziali A e I.
L'evolu- zione è discendenza con modificazioni. Darwin aggiunge linee
tratteggiate convergenti sotto le lettere maiuscole delle undici specie di
partenza, per- ché anch'esse, in tempi anteriori, avranno avuto antenati
comuni. Lo sche- ma può dunque valere anche alla scala dei milioni di anni,
mostrando la formazione di famiglie e ordini nel corso delle ere geologiche (p.
185). Si sta aprendo il grande scenario darwiniano. La storia della vita è un
unico grande albero di discendenza: È un fatto veramente meraviglioso — anche
se non ce ne rendiamo conto per- ché troppo consueto — che tutti gli animali e
tutte le piante, attraverso il tempo e lo spazio, siano collegati gli uni agli
altri per gruppi, subordinati ad altri gruppi, nella maniera che osserviamo
ovunque. (p. 195) Il digramma finale è pur sempre uno schema pluralista
(contiene stabili- ti. estinzione, diversificazione, speciazione, convivenze
tra progenie e pro- nitori), ma ben diverso dal “corallo” o “albero
irregolarmente ramifica- to” dei Taccuini. dove le specie erano entità discrete
che si moltiplicavano in modi e tempi differenti. con zone più ricche di rapide
diversificazioni e 86 Anatomia di una rivoluzione zone di maggiore stabilità.
Qui la speciazione appare come una lenta e uni- forme separazione di
ramoscelli, attraverso una moltitudine di varianti di- vergenti a partire da un
ceppo ancestrale. Ne discende un'immagine di di- versificazione graduale e
regolare. Tuttavia, rimane centrale il principio di proporzionalità fra il
grado di differenza tra due specie (inteso come som- ma dei caratteri divergenti)
e l’antichità dell’antenato comune: due specie sopravvissute saranno tanto più
affini fra loro quanto più è recente il loro antenato comune, cioè il nodo di
partenza dei loro due rami (p. 184). Nell’introdurre il secondo pilastro della
sua teoria, la discendenza co- mune, Darwin è in qualche modo costretto a
sottolineare il più possibilela continuità e la gradualità del cambiamento. Le
morfologie dei discendenti sono versioni modificate degli antenati, in un
processo continuativo di tra- sformazione del complesso dei loro caratteri,
come accade per piante e ani- mali addomesticati dall’ uomo.
L’estrapolazionismo darwiniano pretende il suo prezzo teorico. Darwin è per
esempio disposto ad ammettere che ogni tanto in natura vi siano “grandi distruzioni”
accidentali (p. 153), ma è suf- ficiente che vi sia il combustibile della
variabilità e alla fine, tra i supersti- ti, “gli individui più adatti
tenderanno a moltiplicarsi in numero maggiore degli individui meno adatti,
sempreché vi sia una certa variabilità in senso favorevole” (ibid.). Anche il
meccanismo di speciazione che ha in mente ora è diverso da quello dei Taccuini.
A p. 168 ammette l’importanza dell'isolamento geo- grafico, ma principalmente
per rispondere all’obiezione della dispersione della variazione: in territori
isolati e remoti, la selezione naturale tenderà insistentemente a produrre una
variante geografica distinta e la variazione non si disperderà nell’incrocio
con gli abitanti di zone circostanti. L'isola- mento è utile per compattare la
variazione, ma riduce la pressione seletti- va'9. In un’aggiunta della quinta
edizione, Darwin però dissente dal natura- lista Moritz Wagner (ibid.) quando
asserisce che migrazioni e isolamento sarebbero condizioni necessarie per la
speciazione. L'isolamento può esse- re talvolta un fattore facilitante (perché
favorisce la separazione di nuove 16 Oggi sappiamo che non è così. L'isolamento
geografico è responsabile di una grande quantità di processi di speciazione,
allorquando la barriera fisica si trasfor- mi in una barriera riproduttiva,
come peraltro il giovane Darwin aveva intravisto nei Taccuini. Dato che la
selezione naturale e la deriva genetica agiscono su una popolazione più
ristretta, l'intero processo di speciazione può concludersi in modo rapido.
Tuttavia, queste speciazioni “puntuazionali” sono compatibili con la
spiegazione darwiniana perché durante l'isolamento sono proprio i meccanismi
darwiniani classici, più la deriva, a produrre la separazione biologica delle
popo- Jazioni Variazione e selezione: il nocciolo della teoria darwiniana 87
varianti, dando loro il tempo di consolidarsi), ma se la popolazione isolata ©
troppo piccola c'è meno competizione, non c'è spazio per variazioni fa-
vorevoli e dunque nemmeno per la selezione naturale. Nel capitolo dodicesimo
(sulla distribuzione geografica) isolamento e migrazione sembrano avere una
maggiore importanza. Tuttavia è chiaro in um passo di quel capitolo che la
nascita di nuove specie non avviene a par- tire “da una coppia o da un
ermafrodito”, bensì da una popolazione inizia- Ie i cui individui (comunque
numerosi) si incrociano fra loro e accumulano tutti insieme modificazioni
divergenti (p. 436). Darwin sta optando per un modello di speciazione che oggi
definiremmo “parapatrica”, cioè in grandi urce contigue instabili
ecologicamente, con tante specie in competizione, una selezione che agisce
lentamente, senza necessariamente isolamento geografico netto di una
popolazione dalla specie madre: Sebbene l’isolamento abbia molta importanza
nella produzione di nuove specie, in complesso sono propenso a credere che
l'ampiezza di una regione sia ancora più importante specialmente per la
produzione di specie capaci di perpetuarsi per un lungo periodo e diffondersi
ampiamente. Una regione gran- de e aperta non offre solamente migliori
possibilità di variazioni favorevoli grazie al gran numero di individui della
stessa specie che l’abitano, ma offre condizioni di vita assai più complesse a
causa del gran numero di specie già esistenti. (p. 169) È proprio la minore
concorrenza in aree piccole a spiegare secondo Dar- win l’esistenza di specie
rimaste molto stabili per tantissimo tempo, le qua- li. “come fossili,
collegano in una certa misura ordini attualmente assai di- stanti nella scala
naturale” (p. 170). Alcune delle forme più anomale di animali, come
l’ornitorinco!”, sono in realtà “fossili viventi”, cioè “forme conservate fino
a oggi perché hanno abitato un’area limitata e perché sono slate esposte ad una
concorrenza meno varia e, di conseguenza, meno «ura”' (ibid.). In un altro
senso, esse sono “specie aberranti”, perché di ori- gine molto antica, con
tutte le specie affini estinte e dunque rimaste isolate in una collocazione
intermedia rispetto a molte forme attuali (p. 498). Si noti che per Darwin l'evoluzione
non è un fenomeno necessario: date cer- te circostanze che indeboliscono i
fattori di cambiamento (variazione e se- lezione), l'evoluzione rallenta a tal
punto da dare l'apparenza di una stasi. 17 Alla fine del capitolo equiparato a
“un pollone che spunta da una biforcazione po- sta alla base” del grande albero
della vita, un germoglio favorito dalla sorte e an- cora vivo alla sommità
dell'albero, sicché risulta intermedio tra due rami molto distanti dell'albero
(p. 195) 88 Anatomia di una rivoluzione È ciò che accade alla specie F nel
diagramma, quella di origine più antica e meno strettamente affine alle due
specie dominanti A e I. 12. /rregolarità o pienezza della natura? È
interessante notare qui che gli attuali “alberi filogenetici” delle spe- cie
(la metafora ha avuto successo duraturo ed è la stessa dopo un secolo e mezzo)
— ottenuti oggi attraverso metodi di comparazione di dati mole- colari,
morfologici e paleontologici — sono molto più simili all’irregolare corallo
darwiniano giovanile che allo schema di diversità crescente della maturità,
basato sul principio di divergenza e moderato dalle esigenze te- oriche del
gradualismo. Noi oggi infatti sappiamo che la continuità della discendenza
comune e l’azione della selezione naturale non sono pregiu- dicate in alcun
modo dal riconoscimento di una molteplicità di processi speciativi, non
necessariamente lenti e graduali, e non soltanto di tipo pa- rapatrico.
Tuttavia, precisa Darwin poche righe dopo, quasi presagendole critiche, Ma
debbo qui rilevare che non credo che il processo si svolga sempre così
regolarmente come è rappresentato nel diagramma, sebbene in questo sia già
alquanto irregolare, né che proceda continuativamente; è molto più probabile
che ciascuna forma rimanga inalterata per lunghi periodi e che poi nuovamen- te
si modifichi. (p. 181). Si tratta di un’annotazione cruciale. La selezione è un
meccanismo eco- logico fluttuante e locale, lento e intermittente (p. 171), il
cui protagonista è l’organismo immerso in un ambiente attivo. Ciò che occorre è
un riforni- mento costante di variazione, una dose permanente di cambiamento
am- bientale e il principio di massima divergenza delle popolazioni. Ma poi le
contingenze degli eventi e i “rapporti infinitamente complessi” (ibid.)
all’interno degli ecosistemi rendono ogni schema irregolare, producendo- anche
linee senza varietà divergenti, stabili nel tempo come E e F nel dia- gramma.
In una delle rare occasioni in cui Darwin si lancia in visioni sul futuro,
sostiene che la predizione più probabile è che i gruppi di esseri viventi oggi
più diversificati e dominanti continuino a prevalere, proprio perché già ben
differenziati. portando all’estinzione una moltitudine di generi più piccoli,
tuttavia subito aggiunge: \uriazione e selezione: il nocciolo della teoria
darwiniana 89 Ma nessuno può predire quali gruppi infine prevarranno, poiché
sappiamo che molti gruppi, in precedenza sviluppati al massimo, sono
attualmente estin- ti.(p. 187) Si intravede un conflitto tra l’indomabile e
imprevedibile irregolarità «lella natura e la ricerca darwiniana di una legge
unificante. A desso la sele- none naturale diviene causa diretta di tutti i
fenomeni principali presenti nell'albero della vita: le ramificazioni o
divergenze di nuove specie; la loro tulvolta apparente stabilità; le “potature”
sotto forma di estinzione, cioè il meccanismo di controllo, anch'esso
selettivo, che impedisce il proliferare infinito delle specie (pp. 194-196). Su
questo puntello teorico, che fa da ponte verso la seconda e la terza parte di
OdS, Darwin sembra però consa- pevole del fatto che si tratta di una
generalizzazione “macroevolutiva” un j° più speculativa. Essa infatti
presuppone una tendenza generale al con- tinuo incremento della quantità totale
di viventi in una data regione, dovu- tu alla progressiva diversificazione a
ventaglio delle specie che vanno a “ri- empire” tutte le lacune disponibili
massimizzando il rendimento complessivo. È il vetusto principio della “pienezza
della natura” — che già faceva ca- polino nella metafora dei cunei fittamente
conficcati nell'economia della natura e che ritroviamo anche nei frequenti
riferimenti darwiniani alla “scala della natura” — o anche se vogliamo
un’ingegnosa trasposizione bio- lvgica del principio della divisione del lavoro
e dei vantaggi della specia- lizzazione teorizzato da Adam Smith. Darwin
infatti ammette che è un principio analogo a quello della “divisione
fisiologica del lavoro negli or- pani nel singolo individuo” illustrato da
Milne-Edwards (p. 179, e poi p. 274). La “tendenza naturale a moltiplicarsi” e
a specializzarsi porta a diver- sificare abitudini, strutture e nicchie
ecologiche, in competizione con altre specie. In un gioco a somma zero (che
vale per Darwin soprattutto per spe- cie affini e limitrofe), se qualcuno ha
successo e si diffonde, qualcun altro è destinato a soccombere. Ricordiamo che
l’exp/anandum di Darwin in OdS è duplice: deve spie- gare in termini di
selezione naturale gli adattamenti degli esseri viventi, così vividamente
descritti dai teologi naturali inglesi, e la diversificazione delle specie a
partire da antenati comuni. Allora, proprio come nell’econo- mia politica
individualistica di Smith, temendo di dover introdurre agenti causali di
livello superiore o altre interferenze esterne Darwin insiste nel ri- condurre
divergenza e pienezza della natura alla sola azione cumulativa della selezione
naturale operante attraverso la lotta tra singoli organismi. È |xertanto
costretto a ipotizzare che in una specie in espansione il processo 9% Anatomia
di una rivoluzione di selezione, nell’assortimento di variazioni casuali,
favorisca sempre le varianti più estreme e più divergenti (come fanno gli
allevatori quando de- vono avviare la separazione di una nuova razza, p. 174),
quelle cioè adat- tate alle nicchie più periferiche, in un processo di
specializzazione che poi condurrà alla sostituzione delle specie progenitrici.
Ecco perché nel dia- gramma di OdS le due specie di partenza che lasciano
discendenti sono verso gli estremi della configurazione: In un qualsiasi
genere, le specie che già sono molto differenti le une dalle altre nel
carattere, tenderanno generalmente a produrre il più gran numero di discendenti
modificati, poiché esse avranno la migliore probabilità di occupa- re posti
nuovi e assai diversi nell'economia della natura. (p. 183) In realtà, come
vedremo qui nel capitolo quinto, selezione naturale e di- scendenza comune
possono davvero stare insieme solo se: 1) ipotizziamo, come in effetti Darwin
fa, che la selezione naturale non sia onnipotente, ma abbia bisogno
dell’integrazione di altre cause del cambiamento, e 2) diamo alla teoria
evoluzionistica una veste pluralista, con più ritmi e più livelli possibili di
cambiamento. 9l II LA CINTURA DIFENSIVA Evocata poeticamente alla fine del
capitolo quarto (p. 195) la similitudi- ne del “grande albero della vita”
(grea: Tree of Life)- “che riempie con i suoi rami morti e spezzati la crosta
terrestre e ne copre la superficie con le sue sempre nuove e meravigliose
ramificazioni” (ever-branching and be- uutiful ramifications) (p. 196)* — la
seconda parte della struttura argomen- tativa di OdS è dedicata in parte alle
“prove di fatto” (p. 194) e in parte all’innalzamento delle opportune difese
teoriche. Si inizia con la trattazione delle leggi della variazione, “l’altro
lato” del suo lungo ragionamento, le cui leggi “molto complesse” (dirà nella
conclu- sione, p. 533) sono la crescita correlata, la compensazione,
l’accresciuto iso e disuso delle parti, l’azione dei condizionamenti
ambientali. Si prose- gue con l’approfondimento delle condizioni al contorno
che permettono ‘l’inconsapevole processo” (ibid.) della selezione naturale nel
separare le specie, come la sterilità dei primi incroci e degli ibridi,
“risultato acciden- tale di differenze nel sistema riproduttivo delle specie
progenitrici” (p. 339) e con l’estensione delle sue applicazioni, per esempio
ai comporta- menti istintuali e alle facoltà mentali, nel capitolo ottavo, dove
discute a lungo degli insetti eusociali. Molte pagine sono poi dedicate alla proposta
«ii ipotesi ausiliarie che permettano di superare alcune obiezioni potenzial-
mente critiche per la teoria: i capitoli sesto e settimo, principalmente cen-
trati sugli stadi incipienti di strutture complesse; e il capitolo decimo,
sulla “imperfezione della documentazione geologica” e sull’improvvisa com-
parsa di interi gruppi di specie affini. Si tratta per certi aspetti della
parte più disomogenea e difensiva. dove cerca sia di proteggere il suo nucleo
teorico (variazione ereditabile, lotta per l'esistenza, selezione naturale) e
le assunzioni di base (l'organismo sin- polo come livello causale primario,
l’esternalismo e il continuismo), sia di «anticipare le prevedibili mosse degli
avversari contro il suo gradualismo «tretto, ora esteso anche alla scala del
tempo geologico. Nel riassunto fina- lc del capitolo ottavo fa un passo
indietro per poi attaccare: 92 Anatomia di una rivoluzione Non pretendo che i
fatti segnalati in questo capitolo rafforzino notevolmen- te la mia teoria: ma
mi pare che nessuna delle difficoltà riferite sia tale da di-
struggerla.(p.337) Poi però rilancia mostrando come le imperfezioni degli
istinti, le loro gradazioni, la sopravvivenza differenziale di individui e
gruppi, come an- che il canone della storia naturale “Natura non facit saltum”
applicabile agli istinti come a ogni struttura corporea, tutto ciò “è
chiaramente spiega- bile sulla base della precedente teoria, altrimenti è
inspiegabile: tutto tende a corroborare (corroborate) la teoria della selezione
naturale” (ibid.)*. Nel- le conclusioni, abbondantemente rimaneggiate nel corso
delle sei edizioni, ribadirà questo concetto (p. 533). 1. L'altro lato del
lungo ragionamento È significativo che in OdS Darwin descriva l'evidenza della
variazio- ne nei primi due capitoli, come una delle premesse fondamentali del
suo ragionamento, ma poi senta il bisogno di tornarvi nel capitolo quinto, di-
scutendo delle “leggi” della variazione (termine alquanto impegnativo — p.
197), come per difendere da potenziali obiezioni il pilastro empirico che sta a
monte della struttura esplicativa della selezione naturale. È il punto della
sua architettura dove si sente meno sicuro, lo dice chiara- mente: così per
compensazione sommerge induttivamente il lettore di nudi fatti e discute
modelli alternativi per interpretarli. Capisce che la variabilità in natura è
la sorgente fondamentale di ogni cambiamento e di ogni novità evolutiva, ma gli
mancano le basi per capirne gli ingra- naggi interni. Ha innalzato il suo
edificio teorico a partire da dati osser- vativi robusti, ma di cui non
conosceva le cause, come una casa costrui- ta a partire dal tetto e non dalle
fondamenta. È dunque ancor più stupefacente che le basi molecolari del vivente,
scoperte (e riscoperte) decenni dopo la sua morte, agli inizi del nuovo secolo.
fossero proprio le fondamenta corrispondenti della casa che lui aveva costruito
e non di un’altra. Il sistema riproduttivo era per lui un orizzonte osservativo
assai difficile da travalicare. Non seppe infatti districarsi fra i problemi concettuali
solle- vati dalla sua teoria, errata, circa le cause di trasmissione dei
caratteri. Non sapendo che cosa fosse un gene o un crumosoma. né intuendo le
leggi del- la trasmissione ereditaria particellare (i lavori di Gregor Mendel
degli stes- la cintura difensiva 93 si anni passarono pressoché inosservati e
non attirarono la sua attenzione'), era convinto che l’ereditarietà avvenisse
per “pangenesi”, cioè attraverso il mescolamento di gemmule nel sangue.
Ipotizzando questa fusione di parti- celle riproduttive però — gli fecero
notare — qualsiasi novità adattativa che emergesse in una popolazione verrebbe
subito “diluita” negli incroci con gli altri e si perderebbe a causa della
riproduzione sessuale. Anche il fatto che la variazione fosse “casuale” era
allo stadio di intuizio- ne osservativa: le cause interne della variazione gli
apparivano oscure, dun- que “casualità” ha un significato epistemologico di
“ignoranza sulla causa di vgni variazione particolare” (p. 197), ma la
condizione stringente affinché la selezione naturale non perdesse il suo valore
di meccanismo direttivo era che la variazione derivasse da un’insorgenza
spontanea e autonoma, non istruita direttamente dall'ambiente. Le pressioni
adattative non fanno emergere au- tomaticamente variazioni all'uopo, secondo
percorsi preferenziali o tenden- «e, ma è la sopravvivenza differenziale che
filtra varianti di per sé intrinseca- mente non direzionate. Dunque la
variazione doveva essere per Darwin ilbbondante, di lieve entità, isotropica e
non direzionale. Tuttavia, per dare più incisività alla variazione stessa non
disdegnò di re- cuperare a più riprese le idee di Lamarck sugli effetti
ereditabili dell’uso e del disuso (p. 199). Nelle lunghe risposte alle
obiezioni aggiunte nella sesta edi- zione, al capitolo settimo, attribuisce
addirittura a se stesso e al libro sulla va- riazione del 1868 il miglior
trattamento scientifico degli “effetti dell’aumen- tato uso e non uso delle
parti” (p. 274). Non mancano i casi, decisamente confusi agli occhi di un biologo
contemporaneo, in cui Darwin ipotizza che un'abitudine acquisita in età
avanzata “sia stata successivamente trasmessa illa discendenza, in una età più
precoce” (p. 289), per esempio l'istinto di succhiare alla mammella nei neonati
dei mammiferi o la tecnica di rottura dell’uovo da parte del pulcino. Anche
nell’evoluzione degli istinti in genera- le. l'abitudine potrebbe aver avuto un
ruolo (è possibile che “un’azione abi- tuale divenga ereditaria” — p. 306), ma
tutto sommato “di secondaria impor- tanza” rispetto all’accumulo di gradazioni
per selezione naturale. Quando tratta l'evoluzione delle caste sterili negli
insetti approda invece, come abbia- mo visto, a una soluzione puramente
selettiva che si contrappone apertamen- | Secondo Jonathan €. Howard, ciò che
impedì a Darwin di comprendere le leggi cell ereditarietà fu, oltre alla sua
minore dimestichezza con la matematica e con la la focalizzazione sulle piccole
variazioni quantitative come materiale di base per i processi selettivi.
Concentrandosi su variazioni scalari e continuative (che oggi sappiamo essere
causate da complesse interazioni genetiche che som- mano i loro effetti). non
notò il carattere discreto dell'ereditarietà. Stava guardan- do nel posto
sbagliato (Howard, 2009). 94 Anatomia di una rivoluzione te a Lamarck: “Sono
meravigliato che nessuno abbia finora proposto questo caso dimostrativo degli
insetti neutri contro la ben nota teoria delle abitudini ereditate, avanzata da
Lamarck” (p. 336). Il rapporto con il francese resta ambiguo e contrastato.
Quando descrive l’evoluzione degli uccelli inetti al volo o degli occhi
atrofizzati delle talpe, nel corso di numerose successive generazioni, sembra
intendere il “prolun- gato non uso” come una normale pressione selettiva (p.
200 e poi p. 522) oppure come un effetto combinato di selezione e non uso (p.
202 e p. 313 sugli istinti di animali selvatici e domestici). Eppure troviamo
numerose concessioni alla trasmissione di caratteri acquisiti (in casi
patologici e non solo) e al ruolo delle “condizioni di vita” nel modulare
direttamente la va- riabilità degli organismi (per quanto sottoposta comunque
in ultima anali- si, è bene ricordare, al vaglio della selezione naturale).
Darwin non ha pro- blemi ad accettare l’idea che, in caso di variazioni “di
lievissima utilità” (nel pelo, nei colori del piumaggio, e così via), il clima
e l'ambiente posso- no far variare gli organismi di una stessa specie in virtù
di una loro plasti- cità di struttura (p. 198). Ritiene però più importante la
“ordinaria tenden- za a variare”, una forza interna di cui tuttavia “ignoriamo
completamente le cause”. Sta chiaramente barcamenandosi in una dimensione del
mondo vivente di cui gli sfuggono le leggi fondamentali. Non mancano anche qui
intuizioni osservative notevoli. Animali e pian- te, nota Darwin, sono dotati
di una “grande e congenita flessibilità di costi- tuzione” (innate flexibility
of constitution) (p. 205) che permette loro, per esempio, di acclimatarsi in
regioni con temperature diverse. Il processo di acclimatazione avverrà per un
misto di “abitudine” (cioè uso e non uso) e di selezione naturale. che
avvantaggia gli individui provvisti di una costi- tuzione più flessibile.
Dunque la selezione può interagire anche con il gra- do di plasticità (oggi
diremmo “fenotipica”) degli organismi. Potranno quindi esistere adattamenti
subitanei dovuti a tale flessibilità (per esempio in piante capaci di
sopravvivere in climi eterogenei) e adattamenti lunga- mente sedimentatisi per
selezione naturale. Nonostante i tentennamenti circa l’ereditarietà, l’idea che
la variazio- ne emergente nelle popolazioni di organismi fosse “non
direzionata” nel senso di priva di un piano preordinato. e che dunque non fosse
rintraccia- bile nella storia naturale alcun disegno provvidenziale e alcun
principio finalistico, era sempre ben salda nella sua mente e lo si nota dalla
sua cor- rispondenza privata. Le variazioni hanno cause (fisico-chimiche) e
corre- lazioni di sviluppo. ma non scopi. La cintura difensiva 95 Il tema della
variazione viene definito da Darwin, nell’ultimo capitolo di OdS, come “the
other side of the argument”, l’altro lato del suo lungo ra- gionamento (p.
533): un lato più scivoloso, certamente, ma non per questo meno interessante;
di sicuro, il lato meno noto e meno studiato dell'opera del naturalista
inglese. Le variazioni individuali degli organismi allo stato domestico (con
gli allevamenti casalinghi di colombi, gli studi nella serra e l'indagine a
vasto spettro sui meccanismi della selezione artificiale), allo stato di natura
(con i suoi otto anni di immersione nel variegato universo dei cirripedi) e
negli stati intermedi erano state il suo principale fuoco di in- teresse, al
limite dell’ossessione, nella seconda metà degli anni quaranta e per tutti gli
anni cinquanta. Qualunque sia la causa specifica di ciascuna leggera variazione
(e non la conosciamo, ripete Darwin) “il costante accu- mularsi di differenze
vantaggiose” (p. 226) è ciò che ha portato alle più im- portanti modificazioni
della struttura degli organismi, in relazione all’am- biente in cui vivono e
sono vissute. Come nell’uniformitarismo di Lyell, traslato in biologia, da una
somma di piccoli cambiamenti, attraverso il se- tuccio della selezione, si
ottengono le maggiori trasformazioni. Dal meccanismo di selezione naturale
Darwin deduce, con grande acu- tezza, anche i requisiti necessari affinché la
variazione possa fungere in tal modo da combustibile del cambiamento evolutivo
(e non viceversa). Essa deve in primo luogo venir prodotta a ogni passaggio
generazionale in modo ibbondante, incessante e sicuro, poiché la selezione non
la genera da sé e ne ha bisogno come di un materiale grezzo. La variabilità,
per Darwin, non può dunque avere limiti rigidi: se il rubinetto della
variazione si chiude, la selezione naturale si inceppa. Le variazioni però,
nella loro pervasività e capillarità, devono in secon- do luogo essere di
piccola entità (come “un grano sulla bilancia” capace, sommandosi ad altri, di
spostare l’equilibrio, p. 534), cioè non in grado di produrre da sole tratti
complessi o addirittura nuovi piani corporei. In caso contrario, la variazione
interna diverrebbe la forza primaria del cambia- mento (come sosterranno
saltazionisti e macromutazionisti ai primi del Novecento, ma come già pensavano
alcuni avversari contemporanei di Darwin), generando salti evolutivi
occasionalmente di successo e relegan- «db la selezione al ruolo marginale di
ratifica di un cambiamento già avve- nuto altrove. In diversi passaggi di OdS
Darwin spiega, appoggiandosi all’analogia della selezione artificiale. che
“variazioni grandi e improvvi- se” (p. 302) sono improbabili allo stato di
natura, perché: 1) si presentano troppo di rado (e dunque scompaiono negli
incroci successivi): 2) sono quasi sempre negative. come le mostruosità occasionali.
proprio a causa «lei loro effetti troppo vasti sull'organismo: 3) per fissarsi
in una popolazio- 9% Anatomia di una rivoluzione ne dovrebbero comparire
contemporaneamente in molti individui. Specie e varietà, così come strutture
differenti fra loro, sono legate sempre in Dar- win da una serie indefinita di
“gradazioni numerose e straordinariamente sottili” (ibid.). Qui entra però in
gioco il tipico pluralismo darwiniano, alimentato dal suo spirito di
osservazione. Benché le variazioni debbano essere di portata limitata, il
soggetto che varia in Darwin è sempre l’organismo, cioè un tutt'uno integrato,
e quindi le variazioni hanno sempre un valore relaziona- le. Ne deriva
l’importanza delle variazioni correlate e delle correlazioni di crescita (correlations
of growth), che sono indipendenti dall’utilità e perciò dalla selezione
naturale (p. 207). Per variazione correlata (correlated va- riation) si intende
... che le diverse parti dell'organismo sono così strettamente collegate du-
rante l'accrescimento e lo sviluppo, che quando compaiono, in qualsiasi par-
te, leggere variazioni, e si accumulano per selezione naturale, le altre parti
su- biscono modificazioni. Questo è un argomento di grande importanza, molto
imperfettamente compreso, e in cui senza dubbio classi di fatti completamente
differenti possono facilmente essere confuse l'una con l’altra. (p. 206) A
volte le correlazioni sono dovute all’eredità di precedenti strutture a loro
volta selezionate (p. 209), che diventano caratteri generici poco varia- bili
(p. 216), come cristallizzazioni del passato figlie della discendenza co- mune,
ma è pur vero che la selezione naturale può avere effetti collaterali del tutto
privi di funzioni, dovuti ai vincoli di struttura degli organismi e ai vincoli
dello sviluppo embrionale®, che legano talvolta in modo oscuro par- ti diverse
degli animali (come notò Isidore Geoffroy Saint-Hilaire studian- do la
frequenza di certe malformazioni e l'assenza di altre — p.207). In que- sto
caso l'impronta dell’inutilità di alcune strutture può persino essere utile ai
sistematici per caratterizzare le specie: Perciò le modificazioni della natura,
ritenute di grande valore dai sistema- tici, possono essere completamente
dovute alle leggi della variazione e della correlazione, senza essere, per
quanto ci è dato di giudicare, minimamente uti- li alla specie. (p. 209) n
Un'interessante annotazione darwiniuna circa l'evoluzione dello sviluppo è che
le “parti multiple” o ripetute degli organismi (come le vertebre nei serpenti e
gli sta- mi in alcuni fiori) siano più soggette a variazione delle altre,
ovvero che siano un terreno favorevole per la sperimentazione di innovazioni
evolutive (p. 211) la cintura difensiva 97 Pertanto in natura possono esistere
modificazioni strutturali permanen- ‘ che non sono di alcuna utilità, cioè non
hanno alcuna funzione e non sono state selezionate. Non è vero, dunque, che
nella visione darwiniana wgni carattere deve servire a qualcosa. Anzi,
anticipando sul piano delle morfologie un tema “neutralista” divenuto di grande
attualità nella gene- tica degli anni settanta del Novecento, sono proprio le
strutture più rudi- mentali e soprattutto quelle non funzionali a variare di
più, perché in «quanto inutili “la selezione naturale non ha avuto possibilità
di controlla- re le deviazioni di struttura” (p. 211)*. Alla fine del capitolo
quinto ripete: ‘(ili organi rudimentali, essendo inutili, non sono controllati
dalla selezio- ne naturale e sono perciò variabili” (p. 225). Dunque inutilità
significa maggiore variabilità (p. 522). Anzi, nel capitolo settimo Darwin si
spinge n ipotizzare che all’inizio “le differenze morfologiche che consideriamo
importanti” siano comparse “in molti casi come variazioni fluttuanti” (p. 273).
Da questo nesso fra non-funzionalità e variabilità discende “uno strano
risultato” che per Darwin è della massima importanza per comprendere i rapporti
non banali tra discendenza comune e selezione naturale: cioè che proprio “i
caratteri di lieve importanza vitale sono i più significativi per i sistematici”
(p. 273)*. I caratteri meno soggetti a selezione, come vedre- mo, sono i più
diagnostici in termini di discendenza comune, i più affida- ‘ili per
ricostruire le parentele tra gli esseri viventi. 2.1 segreti sfuggenti
dell’ereditarietà Ciò detto, per Darwin, di norma, la selezione presiede il
processo, aven- do il sopravvento sui differenti gradi di variabilità degli
organi*, e macina lentamente variazioni di lieve entità, accumulando effetti
impercettibili che sul lungo periodo, secondo il principio uniformitarista, si
traducono in grandi cambiamenti senza presupporre forze o eventi speciali. Ne
discen- «lono logicamente non soltanto il rifiuto di qualsiasi discontinuità
del cam- \ Darwin per esempio inferisce che una parte molto sviluppata in una specie
avrà una maggiore tendenza a variare, rispetto alla stessa parte in specie
affini, perché altrimenti la selezione non avrebbe avuto modo di modificarla
fino a quel punto (pp. 211-214). Le parti variate di recente tenderanno ancora
a variare di più. Tra variabilità intrinseca (e tendenza alla reversione) e
selezione Darwin vede spesso una dialettica. con la selezione che alla fine
lentamente prevale. Tuttavia, la sele- zione non è onnipotente e gli organismi
per molti caratteri possonorestare "in una condizione fluttuante” (p.
213). 98 Anatomia di una rivoluzione biamento e la riaffermazione
dell’esistenza di una dinamica storica ininter- rotta (la continuità
evolutiva), ma anche un gradualismo piuttosto stretto circa i modi e i ritmi
della trasformazione, che un perplesso Thomas H. Huxley, commentando il motto
“Natura non facit saltum” presente in OdS, definirà “una difficoltà inutile”.
L'ereditabilità delle nuove varianti era un presuppostoaltrettanto crucia- le,
perché qualsiasi variazione non ereditaria, per quanto utile, sarebbe
ininfluente per il meccanismo di selezione naturale. Ipotizzato che le cau- se
della variazione potessero risiedere nelle perturbazioni accidentali ester- ne
sul processo di riproduzione, negli effetti degli incroci o in una misterio- sa
tendenza interna a variare (compresa la tendenza a variare in modo analogo, p.
494) — barcamenandosi così tra influssi esterni e vincoli inter- ni, ma senza
mai mettere in discussione il fatto che la selezione non produ- ce da sé le
variazioni — restava da chiarire come questi “errori di trasmis- sione” fossero
poi a loro volta ereditati. Dato che la variazione è onnipresente, le leggi che
presiedono alla sua ereditarietà dovevano basar- si, secondo Darwin,
sull’unificazione esplicativa di tutti i fenomeni della riproduzione, animale o
vegetale che fosse (per via sessuata, oppure vege- tativa, per rigenerazione,
per variazioni somatiche in specifiche parti, e così via), inclusa quella
umana. Il capitolo quinto di OdS è un saggio su come un sagace naturalista di
metà Ottocento — tra errori, pregiudizi infondati e buone intuizioni osserva-
tive — poteva ragionare sulle “leggi” della variazione senza conoscere mi-
nimamente la genetica. In Variazione, Darwin introdurrà tre capitoli sulle
“leggi dell’eredità” (12-14) e soprattutto un capitolo finale, il ventisettesi-
mo, che rappresenta l’unica teoria compiuta priva di corrispettivi già pre-
senti o accennati in OdS, benché ci stesse ragionando dagli anni quaranta: la
dibattuta (già al suo tempo) “ipotesi provvisoria” della “pangenesi”’, vol- ta
alla spiegazione integrata di ereditarietà e variazione. Ad avviso del na-
turalista inglese — influenzato dai trattati di Prosper Lucas sull’eredità na-
turale usciti alla fine degli anni quaranta e dalle prime enunciazioni della
teoria cellulare — ciascuna parte elementare o unità fondamentale dell'or-
ganismo produrrebbe una propria gamma di entità corpuscolari con funzio- ne
ereditaria, le “gemmule”. di cui si postula l’esistenza benché non siano mai
state osservate. Questi micro-ovuli si moltiplicano (per divisione e per
emissione di granuli). si diffondono producendo cellule simili a quelle da cui
provengono, e si aggregano per affinità reciproche dando così ciascuno
“rappresentanza" della propria porzione corporea nelle gemme e negli ele-
menti sessuali. Inoltre. si possono trasferire alla discendenza nel corso del-
la fecondazione e della riproduzione: la trasmissione può dare origine al lu
cintura difensiva 9 loro sviluppo immediato nella prole, oppure restano silenti
per più genera- zioni e se non si disperdono prima possono ricomparire. Su
questi presup- posti si fonderebbero, seguendo Lucas, “le leggi della
somiglianza del fi- glio con i suoi genitori”, che valgono anche nel caso di
unione di due individui appartenenti a varietà diverse (p. 368). Le gemmule
manifestano i loro effetti per Darwin anche nei processi di ilccrescimento, di
rigenerazione, di riproduzione asessuata. È una sorta di proprietà generativa
globale (pan-genesi) degli organismi, presente nello sviluppo individuale ed
ereditabile. Così una mutilazione non è ereditaria (p. 200), perché le gemmule
della parte lesa si sono già formate durante lo sviluppo dell’individuo e
vengono ancora ereditate dai suoi discendenti. Se però la mutilazione si
infetta, le gemmule vengono distrutte nel tentativo di riparare il danno e non
si trasmettono più: così un carattere acquisito (ma solo perché patologico)
verrebbe ereditato. Dunque la modificazione delle gemmule (da cui dovrebbe
derivare la variazione) avviene a causa del mu- tare delle condizioni di vita
che incidono sull’organizzazione di un organi- smo e sul suo sistema
riproduttivo, a causa dell’uso e del disuso, di corre- ioni variazionali e di
altri fattori di perturbazione che mantengono sia un carattere interno sia un
carattere esterno. Darwin discute poi i casi di trasmissione limitata (per
sesso o periodo di vita), di reversione a tratti presenti nelle generazioni
precedenti o nello sta- tv primitivo dell’antenato comune di un gruppo (pp. 219-224:
dove discu- te il caso della frequente ricomparsa di striature di colore nel
mantello de- gli equini), della preponderanza di caratteristiche portate da uno
dei due genitori, degli effetti nocivi della consanguineità (per lui, sposato
con una cugina di primo grado, era diventato un motivo di costante
preoccupazione per la salute dei suoi figli). Gli incroci fra individui troppo
strettamente im- parentati sono causa per Darwin anche della sterilità
progressiva degli ibri- «i fra due specie distinte, che continuano ad
accoppiarsi fra loro. Ne deriva un principio generale indubbio: Da una parte,
l'incrocio occasionale con un individuo o con una varietà di- stinta aumenta il
vigore e la fecondità della discendenza e, dall'altra, gli incro- ci fra
consanguinei diminuiscono il loro vigore e la fecondità. (p. 342) Ogni
carattere vecchio o nuovo manifesta dunque la tendenza a essere trasmesso, a
meno che fattori di irregolarità non introducano disturbi. l ‘incrocio. da par
suo. gioca un ruolo ambiguo, perché ricombina i carat- teri e sbiadisce le
razze esistenti, ma può anche far sorgere nuove varian- li favorite dalla
selezione e dunque nuove varietà incipienti. È tutto un 100 Anatomia di una
rivoluzione gioco di antagonismi fra le inerzie della trasmissione e le novità
della va- riazione, in un quadro in cui convivono l’esistenza di “particelle”
eredi- tarie, il loro mescolamento ma anche la costante produzione di variazio-
ni divergenti nelle popolazioni. La pangenesi, oltre a non convincere molti
genuini darwiniani come Huxley e Joseph Hooker, era esposta alla critica
pertinente secondo la qua- le l'eredità per mescolamento di gemmule avrebbe
vanificato l’azione del- la selezione naturale su qualsiasi insorgente
variazione favorevole (subito “diluita” nella discendenza). Critiche
circostanziate alla pangenesi giunse- ro anche dal botanico italiano Federico
Delpino, i cui saggi furono letti e annotati con attenzione dal naturalista
inglese. Francis Galton aveva cerca- to le “gemmule” nel sangue dei conigli, mescolandole
fra razze diverse per trasfusione, ma senza alcun effetto, ancor meno di tipo
ereditario. Darwin rintuzzò a più riprese le obiezioni sostenendo che la
dispersione poteva non essere per via sanguigna o linfatica ma direttamente nei
tessuti, che l’ere- dità non avveniva solo per fusione in caratteri intermedi,
ma anche per combinazione di caratteri eterogenei, vecchi e nuovi, trasmessi
dalle parti- celle ereditarie. Più aggiungeva ipotesi ausiliarie e più le
difficoltà empiri- che aumentavano*. Tuttavia, a dispetto di quanto si potrebbe
intuire, è proprio la disparità fra queste incongruenze e la duratura solidità
dell'impianto teorico darwi- niano a sbalordire. Ciò che conta, infatti, al di
là di queste schermaglie è che le due catene causali della variazione e della
selezione sono indipen- denti e qui sta la ragione della refrattarietà del
nocciolo darwiniano alla confutazione definitiva della teoria della pangenesi
che arriverà alcuni anni dopo. Il dato sorprendente è che la confusione circa i
meccanismi dell’ere- ditarietà non inficiava il nucleo variazione-selezione: la
variazione fluttua in tutte le direzioni, qualunque ne siano le cause, mentre
la selezione stabi- lizza, rinforza, fa prevalere una varietà, ne fa divergere
una nuova. L’eredi- tabilità della variazione è per lui un dato osservativo, il
combustibile del cambiamento, e ciò che conta è che esso alimenti senza sosta
il processo plasmante della selezione naturale. 4 Nell'Aurobiografia sembra
quasi arrendersi e a proposito della “denigrata ipotesi della pangenesi”
conclude: “Un'ipotesi non verificata ha un valore scarso o nullo, ma se in
futuro qualcuno sarà condotto a fare osservazioni che possano dar fonda- mento
a qualche ipotesi del genere, la mia opera non sarà stata inutile, perché un'enorme
quantità di fatti isolati potranno essere l'un altro collegati e divente- ranno
comprensibili” (op. cit. p. 112) lu cintura difensiva 101 3. Il guazzabuglio
della sterilità e della fertilità Nel capitolo nono, dedicato all’ibridismo,
deve invece fare i conti con gli effetti teorici del suo gradualismo stretto,
che non prevede cesure di alcun tipo tra specie e varietà. Deve spiegare come
si forma lentamente la sterilità Tra le specie e come permane la fecondità che
invece si registra quasi sempre tra le varietà. Lo fa mettendo in dubbio che la
sterilità tra specie sia davvero un discrimine assoluto (o una legge universale
della natura), e ha buon gioco i mostrare le complicate e talvoltaconfuse
gradazioni di sterilità che si osser- vano tra le piante (pp. 340-344). La
fertilità degli ibridi e dei meticci è com- promessa dagli scambi tra
consanguinei, eppure in molti casi gli organismi figli di questi primi incroci
restano fecondi per molte generazioni. L'elenco di animali ibridi perfettamente
fecondi (dai fagiani alle farfalle, da lepri e co- nigli alle oche, fin
soprattutto alle razze domestiche, anche quelle discenden- ti da più specie
selvatiche) fa il paio con i confini labili tra le piante. Conclu- de allora
che un certo grado di sterilità, nei primi incroci come negli ibridi e nei
meticci, è diffuso, ma non è da considerarsi assolutamente universale. Inoltre,
presenta molte sfumature e gradazioni, anche tra forme diverse della stessa
specie. Pertanto, “né la sterilità né la fecondità forniscono un criterio
sicuro di distinzione fra specie e varietà” (p. 341, e poi p. 365). Il
principio di continuità e di gradualità è salvo, ma al prezzo di uno smi- nuito
ruolo delle barriere riproduttive nel separare le specie in natura. Per questa
ragione Darwin ha dubbi sul fatto che fecondità versus sterilità sia li
discriminante essenziale per separare le varietà (interfeconde) dalle vere
specie (non interfeconde). Con un sottile argomento epistemologico, fa no- tare
che i naturalisti utilizzano proprio la sterilità come marcatore delle specie,
quindi è ovvio che le varietà saranno quelle interfeconde, ma si trat- ta di un
circolo vizioso (p. 362). La discriminante è decisa a priori (ancora una volta,
è convenzionale), ma non tiene conto delle gradazioni tra sterili- tà e
fertilità, delle eccezioni (varietà poco o nulla feconde tra loro) e della
casistica assai confusa. Pertanto si conferma che “non esiste una distinzio- ne
essenziale fra specie e varietà” (p. 368), tanto è vero che gli sperimenta-
tori arrivano a conclusioni opposte nel classificare gli esseri viventi in base
al criterio della sterilità. Questa continuità è spiegata dal fatto che le
specie «derivano dalla lenta trasformazione divergente di precedenti varietà.
Facendo leva sulla sapienza pratica degli orticoltori e dei giardinieri in-
terpellati per anni. nonché sulle sue sperimentazioni domestiche in serra.
Warwin sa che occorre distinguere la difficoltà di avere un primo incrocio tra
due specie distinte (sterilità delle specie) dalla sterilità degli ibridi che
ne risultano: due ordini di fenomeni differenti. con casistiche che presenta-
102 Anatomia di una rivoluzione no molte combinazioni possibili, dalle due
specie pure che si uniscono fa- cilmente ma producono ibridi del tutto sterili,
alle specie che al contrario si accoppiano molto difficilmente ma che poi
generano ibridi fecondi. Anche “il rapporto fra l’affinità sistematica e la
facilità dell’incrocio non è affatto rigoroso” (p. 347), così come non lo è con
il grado di somiglianza esterio- re. A volta l’attitudine all'incrocio non è
simmetrica: vale per una specie A verso una specie B, ma non viceversa, e
cambia tra maschi e femmine. La domesticazione prolungata sembra ridurre la
sterilità (p. 363). Meticci e ibridi sono più variabili (pp. 366-368). Gli
ibridi possono avere una confor- mazione intermedia oppure assomigliare molto a
una delle due specie pro- genitrici, con gradazioni di fecondità. Insomma,
quanto a sterilità e fecon- dità c’è di tutto in natura (soprattutto fra le
piante, anche a causa dei loro polimorfismi — pp. 358-362) e Darwin non trova
leggi universali che met- tano ordine alla materia, ma soltanto una congerie di
“regole complesse e singolari” (p. 350)* (poco oltre definite anche curious and
complex laws - p.352). Questo ginepraio di casistiche eterogenee, tra incroci
reciproci e innesti vegetali, e le incongruenze fra sterilità delle specie e
sterilità degli ibridi (dovute a cause diverse, interne ed esterne, che
ostacolano la fecondazione e lo sviluppo — pp. 354-358) portano Darwin a
concludere, come abbiamo visto, che le specie non hanno l’innata propensione a
essere sterili fra loro al fine di non confondersi in natura, come pensava
Wallace. La sterilità “non è una proprietà di cui le specie siano
particolarmente dotate” (p. 350), bensì un effetto collaterale incidentale
(variabile di caso in caso) di diffe- renze per lo più sconosciute nei
rispettivi sistemi riproduttivi ed elementi sessuali (p. 352)5. Non è la
selezione naturale a produrla. essa è bensì la ri- caduta contingente di altri
meccanismi che interferiscono sulla fecondità. 4. L'assenza di prove non è la
prova di un'assenza La fenomenologia complessa dei gradi di sterilità e di
fecondità negli in- croci tra varietà e tra specie, con molteplici forme di
ibridi e di meticci, non avrebbe alcun senso se ipotizzassimo “creazioni
speciali” (p. 368). Tutta- 5 Darwina più riprese ammette “la nostra profonda
ignoranza relativamente all'a- zione normale o anormale del sistema
riproduttivo” (p. 363). anche se ipotizza che i sistemi riproduttivi siano
molto sensibili alle forti modificazioni delle condizio. ni esterne di vita (da
qui le difficoltà per esempio di far riprodurre molti animali in cattività. un
tema ripreso anche nelle conclusioni. p. 528) la cintura difensiva 103 via,
come abbiamo visto, pone alcune limitazioni anche alla teoria della se- lezione
naturale (nella formazione della sterilità fra specie), e reclama il suo prezzo
se la incorniciamo in una visione strettamente gradualista. Un problema analogo
sorge alla scala più ampia della storia naturale. Il lento accumulo di
variazioni ereditarie, di piccola entità, sottoposte allo scrutinio
continuativo della selezione naturale, è in contraddizione con quanto i pa-
Icontologi dell’epoca già notavano a proposito della “comparsa improvvi- sa di
nuove e distinte forme di vita nelle nostre conformazioni geologiche” {p. 303)
e Darwin ne è ben consapevole. Si tratta però di evidenze che a suo avviso non
convalidano l’ipotesi di uno sviluppo improvviso delle specie, a causa di
creazioni speciali o di mi- steriose forze interne. Torna quindi, lungo tutto
il capitolo decimo, l’argo- mento difensivo già sperimentato nei Taccuini: la
svalutazione delle prove paleontologiche, che per i periodi remoti della storia
della Terra sono fram- mentarie e imperfette, “come molti geologi asseriscono
categoricamente” (ibid.). La comparsa improvvisa di nuove faune è soltanto
un’apparenza in- gannevole. La tesi è forte e Darwin sa che deve argomentarla
dettagliatamente. Il fatto che le forme odierne non siano collegate da
“innumerevoli legami di transizione costituisce una difficoltà molto evidente”
(p. 371), che si può tuttavia superare. Le specie di transizione sono scomparse
per tre ragioni possibili e concomitanti: le condizioni di vita sono nel
frattempo cambiate; le varietà intermedie sono generalmente meno numerose e
soccombono più facilmente; le nuove varietà prendono il posto delle
progenitrici per sele- zione naturale. Dunque, attualmente sarà ben difficile
trovare ancora in vita le forme di transizione del passato. Inoltre, è bene
ricordare che in una visione ramificata dell’evoluzione non esistono, oggi,
esseri viventi direttamente intermedi, per esempio, fra un cavallo e un maiale.
Esisteranno piuttosto le forme intermedie fra cia- scuna delle due specie e il
loro sconosciuto antenato comune, vissuto nelle profondità del tempo geologico.
A sua volta questo antenato sarà stato le- gato “a forme più antiche, e così
via, risalendo e convergendo sempre ver- so il comune antenato di ciascuna
grande classe” (p. 373). A causa della competizione e della selezione,
raramente vediamo oggi in vita una specie © la sua antenata diretta, perché
quest'ultima sarà stata gradualmente sosti- tuita. In ogni caso. è certo —
sottolinea Darwin - che deve essere esistito un numero “inconcepibilmente
grande” di antiche forme di transizione. La hiodiversità attuale è soltanto
l’ultima tappa di una lunghissima vicenda di diversificazioni precedenti e la
grandissima parte delle specie vissute sulla Verra è ormai estinta. 104
Anatomia di una rivoluzione Ecco allora delineato il problema principale: se
l'evoluzione trabocca di innumerevoli forme intermedie, che oggi non troviamo
più ma che popola- no il passato, perché non le vediamo nemmeno nei fossili?
Forse il proge- nitore, essendo diverso da tutti i suoi discendenti modificati,
è difficilmen- te riconoscibile (p. 372). Ma il problema per Darwin è ben più
generale e riguarda l’estrema imperfezione della documentazione paleontologica.
“Che le nostre collezioni siano imperfette, è universalmente ammesso” (p. 378),
ma la loro lacunosità lascia stupiti: Tuttavia neanche io avrei mai immaginato
che così povera fosse la docu- mentazione dei settori geologici meglio
conservati, se l'assenza di innumere- voli forme di transizione tra le specie
che vissero all’inizio e alla fine di ogni formazione non avesse esercitato una
così forte pressione sulla mia teoria. (p.391)* L'argomento è ben noto®, ma
raramente vengono approfondite le cause che Darwin (il Darwin geologo qui) adduce
per giustificare questo suo giu- dizio e che riguardano un tema di vitale
importanza per la sua teoria: l’in- stabilità della superficie terrestre.
Quanto dinamica fosse la sua visione del pianeta in trasformazione si evince da
passi come questo: ... i grandi oceani sono tuttora, fondamentalmente, aree di
abbassamento, i grandi arcipelaghi aree di oscillazioni di livello, e i
continenti aree di solleva- mento. Ma non abbiamo motivo di supporre che le
cose siano sempre rimaste così fin dall'inizio del mondo. (p. 398) Dove oggi ci
sono oceani un tempo potevano esserci continenti, e vice- versa. I fossili
quindi sono sballottati qua e là in un mondo in continua me- tamorfosi. La
documentazione geologica è così frammentaria perché cono- sciamo pochi esemplari
di ciascuna specie fossile e perché solo una piccola porzione della superficie
terrestre è stata esplorata. Le parti molli degli or- ganismi non si
conservano”. Il suolo troppo acido e caldo decompone rapi- damente ogni
carcassa, prima che possa fossilizzarsi. I resti che vengono se- 6 Nel
riassunto finale, rincara: “il numero delle specie e degli individui conservati
nei nostri musei equivale assolutamente a niente se confrontato con il numero
del- le generazioni che debbono essere esistite durante una sola formazione
geologica” (p.+425) 7 Nei decenni successivi si scoprirà che in condizioni
molto fortunate può invece succedere che si conservino tracce fossili anche
delle parti molli. Darwin però in- tuisce che una situazione particolarmente
favorevole è quella di bassi fondali ric- chi di risorse, con lento
abbassamento del fondale e continua deposizione la cintura difensiva 105 polti
sono poi spesso oggetto di deformazioni e di distruzioni a causa dell’attività
geologica della Terra: erosione sui fondali marini profondi, di- lavamenti
sulle coste, innalzamenti e abbassamenti del suolo, modificazio- ni nella
composizione mineralogica, denudamenti, effetti degli agenti atmo- sferici,
metamorfismo delle rocce. Bisogna poi considerare i grandi cambiamenti geografici,
le modificazioni delle terre emerse, le oscillazioni climatiche. La Terra è un
pianeta in movimento, che scompagina incessan- temente le carte della
documentazione fossile (pp. 378-391). Le specie poi in tempi passati hanno
migrato e si sono spostate a causa del clima, creando evidenti lacune nella
deposizione in certe regioni a scapito di altre. Dunque anche la migrazione si
aggiunge come importante fattore evolutivo: ...le migrazioni hanno avuto una
parte importante nella prima comparsa di nuove forme in ogni area e in ogni
formazione. (p. 425) L'interruzione della documentazione fossile di una specie
in una regio- ne, o viceversa la sua comparsa rapida in un’altra, potrebbero
quindi non dipendere da estinzioni o speciazioni rapide (e ancor meno da
creazioni im- provvise), ma da migrazioni e spostamenti (p. 384). Il risultato
finale è che la documentazione paleontologica è discontinua e intermittente, il
che non corrisponde a ciò che realmente è accaduto nel corso del tempo. La
conti- nuità delle trasmutazioni delle specie non viene registrata
adeguatamente. A queste difficoltà va aggiunto, nota Darwin anticipando
problemi che affliggeranno a lungo la paleontologia, il fatto scomodo che non
abbiamo regole infallibili per distinguere le specie dalle varietà, nel
presente e a maggior ragione nel passato (p. 387). Quindi rischiamo di
classificare come specie separate quelle che in realtà sono varietà di una
stessa specie, o viceversa*. Inoltre, per aggiungere spiegazioni
dell’intermittenza della documentazione fossile, nella quarta edizione Darwin
fa propria un’anno- tazione del paleontologo Hugh Falconer che sembra
contraddire l’unifor- me gradualità del cambiamento delle specie, in favore di
un'alternanza di lunghe fasi di stabilità e di brevi fasi di trasformazione che
assomiglia sor- prendentemente alla moderna visione “punteggiata”
dell'evoluzione: 8 Il problema si pone ancora oggi per esempio in
paleoantropologia. dove l'effetti- vo numero delle specie che compongono
l'albero della filogenesi degli ominini è in discussione e in continuo
aggiornamento. L'utilizzo di evidenze convergenti (morfologiche, molecolari,
biogeografiche, morfometriche) permette tuttavia una valutazione sempre più
precisa delle attribuzioni di specie (Pievani. 201 1a; Man- z4,2007; Wood,
2005) 106 Anatomia di una rivoluzione Vi è una considerazione ancora più
importante ... che è stata recentemente sottolineata dal Dr. Falconer, che cioè
i periodi durante i quali ogni specie ha subito modificazioni, sebbene assai
lunghi se valutati in numero di anni, sono stati probabilmente brevi se
comparati con i periodi durante i quali queste stes- se specie sono rimaste
senza alcun cambiamento in corso. (p. 388)* Naturalmente Darwin si guarda bene
dal concludere che “la geologia non offre alcuna forma di transizione” (p.
389), come erroneamente soste- nevano già allora gli antievoluzionisti (“è
questa l’obiezione più comune- mente sollevata contro la mia teoria”, ibid.) e
come ancora oggi sentiamo ripetere dai fondamentalisti religiosi creazionisti.
La tesi è semmai quella opposta, e cioè che non dobbiamo aspettarci serie
paleontologiche fine- mente graduate che stabiliscano una connessione tra tutte
le specie esi- stenti e quelle estinte (“in un'unica lunga e ramificante catena
di vita”, one long and branching chain of life — p. 391), perché troppi sono
stati i fatto- ri di disturbo della sedimentazione. Quella “catena ramificante”
di forme è esistita e ne abbiamo le prove, ma i suoi dettagli meravigliosi sono
an- dati in gran parte perduti nell’oceano del tempo profondo. Così Darwin ri-
assume le cause dell’imperfezione dei documenti geologici con un esperi- mento
ideale ambientato nell’arcipelago malese, con la sua ricca diversità di forme
animali e vegetali, l'irregolarità geografica, l'instabilità geologi- ca e
dunque le scarse possibilità che anche solo una minima parte delle specie che
vi abitano riescano a fossilizzarsi: il paleontologo del futuro troverà
purtroppo una ben misera traccia della sua lussureggiante biodi- versità (pp.
389-391). Il fatto che non vi siano testimonianze di molte forme di transizione
non significa quindi che esse non siano esistite. Il principio metodologico
delle prove negative e delle prove positive è espresso con chiarezza da Darwin:
“Tutti i casi di prove paleontologiche positive sono attendibili; le prove ne-
gative sono senza valore, come l’esperienza ha tanto spesso dimostrato” (p.
392). L'assenza di prove non è la prova di un’assenza. Se leggiamo un li- bro
saltando da un capitolo all’altro, è ovvio che la storia ci apparirà inter-
mittente, ma è solo perché non conosciamo le pagine intermedie. Ripren- dendo
un'efficace metafora di Lyell. Darwin illustra così il suo argomento in
conclusione del capitolo decimo: Considero i dati geologici come una storia del
mondo tramandata imperfet- ta e scritta in un mutevole dialetto: storia di cui
possediamo solo l’ultimo vo- lume, limitato a due o tre regioni. Di questo
volume si è conservato solo qua e là un breve capitolo: e di ogni pagina solo
qualche riga ogni tanto. Ogni paro- la di questa lingua, che varia lentamente,
più o meno diversa nei successivi ca- La cintura difensiva 107 pitoli, può
rappresentare le forme di vita, che sono sepolte nelle nostre forma- zioni
successive, e che erroneamente sembrano esservi state repentinamente
introdotte. Con questa ipotesi, le difficoltà sopra discusse si attenuano di
mol- to 0 persino scompaiono. (p. 400) I fossili sono brevissime istantanee di
una storia lunghissima, scorci di luce in un lungo corridoio buio. Le formazioni
geologiche, quindi, non rap- presentano “un nuovo e completo atto di
creazione”, ma soltanto “una sce- na presa a caso in un dramma lentamente
variabile” (p. 403). IV IL COMPLESSO DELLE PROVE EMPIRICHE La terza parte,
dall’undicesimo capitolo in avanti, affronta finalmente il fenomeno
dell'evoluzione nella sua vastità ed eterogeneità di evidenze em- piriche, da
leggersi ora attraverso la chiave esplicativa offerta dal nucleo centrale:
variazione, lotta per la sopravvivenza e selezione naturale. Qui si ipprezza il
carattere genuinamente interdisciplinare di OdS e della teoria dell’evoluzione
fin dai suoi albori, cioè di un programma di ricerca scien- tifico capace
ancora oggi di spaziare dall’infinitamente piccolo delle mole- cole che
compongono il DNA alle vastità della biosfera, dai tempi brevis- simi di una
generazione di batteri vista sul bancone da laboratorio ai milioni di anni dei
fossili. I dati che Darwin presenta tra il 1859 e il 1872 appartengono a
quattro ca- tegorie principali. In primo luogo, documenti paleontologici, cioè
specie fos- sili estinte e specie viventi a confronto, con particolare
attenzione per la com- parsa di specie simili ma non identiche nella stessa
zona in ere geologiche differenti, segno palese di una loro parentela (capitolo
undicesimo). La mag- gior parte delle specie si diffondono, si spostano e così
cambiano: due capito- li interi (il dodicesimo e il tredicesimo, un’eccezione
significativa) sono dedi- cati alle distribuzioni geografiche, con una lunga
trattazione sui mezzi di trasporto attraverso i quali gli organismi partendo
dai continenti possono co- lonizzare le isole e lì evolvere in forme nuove a
causa delle differenze ambien- tali. dati biogeografici, in particolare gli
schemi di vicinanza di forme tra loro simili, frutto di discendenza comune e di
successivi spostamenti e dispersio- ni, come anche l’occupazione di nicchie
ecologiche simili da parte di animali © piante diversi, sono considerati della
massima importanza da Darwin e co- stituiscono la seconda categoria
fondamentale di evidenze. L'evoluzione non si legge soltanto nel tempo. ma
anche nello spazio ecologico e geografico. In terzo luogo. abbiamo i dati
embriologici. affrontati nel capitolo quat- tordicesimo (rivisto in bozza da
Thomas H. Huxley), cioè le somiglianze «egli stadi precoci di sviluppo
embrionale in animali differenti. indizio per Darwin del fatto che l'embrione
di un animale evolutosi più recentemente “richiama”. nei suoi primi stadi di
trasformazione. i caratteri di animali più 110 Anatomia di una rivoluzione
antichi nell’albero della vita (come pesci, anfibi e poi rettili rispetto ai
mammiferi). Infine, buoni ultimi, a conferma della struttura logica inverti- ta
di OdS, vengono presentati nel quindicesimo capitolo i dati più impor- tanti',
quelli morfologici o strutturali, il fatto cioè (già peraltro ben noto) che gli
essere viventi presentano omologie di struttura molto marcate (per esempio
negli arti di tutti vertebrati), con superficiali modificazioni suc- cessive,
come se la natura ricorresse a un insieme limitato di schemi mor- fologici
fondamentali e apportasse poi soltanto variazioni sugli stessi temi La
spiegazione per tutto ciò non può che essere per Darwin genealogica, cioè la
discendenza con modificazioni: le strutture omologhe non sono mo- delli
astratti né l’espressione di un piano divino, come pensavano naturali- sti del
calibro di Louis Agassiz, bensì sono la prova di una provenienza da forme
ancestrali comuni, sulle quali ha poi agito la selezione naturale al va- riare
delle condizioni ambientali contingenti. Come anche nel caso dei trat- ti
trascinatisi per inerzia o vestigia, si tratta di somiglianze concrete, frutto
di una discendenza comune, segni di una storia contingente di parentela
universale di tutti i viventi. 1. La discendenza con modificazione vista nella
profondità del tempo La sontuosa immagine paleontologia dell'evoluzione è per
Darwin quel- la di “un grande albero che si ramifica a partire da un solo
ceppo” (the branching of a great tree from a single stem) (p. 404), nel quale
le varietà si trasformano lentamente e gradualmente in nuove specie, come
previsto dal principio di divergenza. Allargando ulteriormente lo sguardo. il
natura- lista inglese ritiene che l'andamento di sviluppo dei generi e delle
famiglie di specie sia generalmente sempre lo stesso: un graduale aumento
numeri- co di specie, fino al raggiungimento di un massimo, e poi
un’altrettanto graduale diminuzione fino all’inevitabile estinzione. Non sono
previste rotture in questo schema (cioè comparse o scomparse improvvise), se
non in casi eccezionali. Né esistono “leggi fisse di sviluppo” capaci di
determi- nare repentini cambiamenti. Tutto dipende dall’accumulo di piccole
varia- zioni per selezione naturale. Ù Sappiamo che Darwin li ritiene i più
importanti perché nel riassunto del penulti- mo capitolo chiude sostenendo che
alla luce delle evidenze morfologiche, embrio- logiche e dei tratti vestigiali
la sua teoria sarebbe sufficientemente corroborata, asse su altri fatti o
argomenti” (p. 525) “anche se non pi Il complesso delle prove empiriche ul
Così, il cambiamento simultaneo di molte forme di vita in tutto il mon- «lo
(osservato dai paleontologi per alcuni periodi, soprattutto nelle specie
marine) sarà dovuto per Darwin al successo selettivo e alla diffusione geo-
grafica delle specie dominanti e dei loro discendenti (pp. 409-413). Se in
«erti continenti, come il Sud America e l’ Australia, osserviamo una succes-
sione di specie affini di mammiferi, la causa non risiede nelle condizioni
ambientali ma nella parentela stretta, con modificazioni, tra le specie estin-
te e le specie viventi? (pp. 423-425). Le affinità tra le specie estinte, e tra
«queste e le specie viventi, illustrano il grande “principio della discenden-
za”. In generale, quanto più una specie è antica tanto più differirà dalle for-
me attuali, tuttavia ... le specie estinte possono essere tutte incluse nei
gruppi ancora esistenti e collocate tra di essi. Che le forme estinte di vita
aiutino a colmare gli inter- valli tra generi, famiglie e ordini esistenti, è
indubbiamente vero. (p.413) La scoperta di specie estinte permette di coprire
le lacune nel grande al- hero della discendenza, svelando gli infiniti “legami
intermedi e di connes- sione” (ibid.) che uniscono tutte le specie. Possiamo così
colmare di grado in grado gli intervalli che separano i mammiferi tra loro, gli
uccelli e i ret- tili (attraverso il proto-uccello Archaeopreryx e i
dinosauri), i pesci e i ret- tili (pp.414-415).Secondo una proporzione che è
ancora oggi alla base del calcolo delle relazioni filogenetiche (pur con
l’integrazione dei dati geneti- ci), Darwin capisce che la quantità di
caratteri divergenti tra due gruppi sarà proporzionale all’antichità del loro
antenato comune, e che gli antichi membri dei due gruppi differiranno fra loro
un po’ meno di quelli attuali (p. 415). Pur con le dovute eccezioni, tanto più
antica sarà una forma scoperta nei fossili tanto più tenderà a collegare un
maggior numero di gruppi di- scendenti attuali. È venuto dunque il momento di
esplicitare, al cuore del capitolo undicesimo, la “teoria della discendenza con
modificazioni”. Darwin lo fa riprendendo il diagramma semplificato della fine
del capi- tolo quarto e rileggendolo in chiave paleontologica. Ora
rappresentati sul grafico sono i grandi generi e le linee orizzontali sono le
formazioni geolo- 2 Anche se non è detto che il bradipo. l'armadillo e il
formichiere discendano diret- tamente dal megaterio - o i marsupiali
australiani attuali da qualche specifica for- ma di marsupiale gigantesco del
passato - perché secondo Darwin le specie più grandi sono scomparse senza
lasciare discendenza mentre altre forme affini. ora estinte, sono state i
progenitori delle attuali (p. +24). Il modello di riferimento è sempre quello
di una discendenza ramificata. con molti generi e gruppi di specie dai destini
differenziati 112 Anatomia di una rivoluzione giche sui milioni di anni. Il
“principio della tendenza continuata alla diver- genza dei caratteri” (p. 415)
è la norma e i fossili di due formazioni conse- cutive saranno in genere più
affini fra loro dei fossili di due formazioni lontane, ma lo schema può anche
contemplare l’eccezione di forme parti- colarmente stabili e poco ramificanti
(la FI4). Inoltre i gruppi potranno es- sere più o meno ricchi di specie e di
forme intermedie, con durate di vita eterogenee. Ci saranno estinzioni,
migrazioni, intervalli fra le successive formazioni. Un quadro complicato, che
a maggior ragione sarà difficile ri- costruire conoscendo soltanto alcuni
fossili sporadici. Il modello generale, nella sua efficacia, non impedisce però
a Darwin di comprendere che in natura non tutte le specie evolvono con lo
stesso ritmo. Per quanto a lungo andare debba sempre esserci qualche
modificazione, pena l’estinzione, alcune forme variano più rapidamente (quelle
di terra e con strutture più complesse, secondo Darwin) e altre più lentamente
(le specie marine e le specie più primitive). Queste differenze nel modo di
evolvere (suggerite dal paleontologo Falconer) sono dovute alle “moltepli- ci
complesse contingenze” che rendono il processo evolutivo irreversibile, ovvero:
la natura vantaggiosa delle variazioni, la libertà di incrocio, i lenti cambia-
menti delle condizioni fisiche della regione, l'immigrazione di nuove colonie,
e la natura degli altri abitanti con cui le specie che variano entrano in
concor- renza. (p.402) Nell’evoluzione della vita, non ci si immerge mai nello
stesso fiume. Il potere delle circostanze è sempre presente. Per le stesse
ragioni, l’e- stinzione è un evento senza ritorno, nel quale la catena delle
generazioni si spezza: una specie una volta estinta non potrebbe mai
riapparire, anche se si ve- rificasse un ritorno di identiche condizioni di
vita, organiche e inorganiche. (p. 403) Le variazioni sarebbero infatti ogni
volta diverse. e così i caratteri ere- ditati. La perdita di una specie è
un’evenienza irrimediabile: chi la sosti- tuirà sarà in qualche modo un’altra
forma di vita. L'estinzione delle spe- cie per Darwin obbedisce a due proprietà
generali: è lenta (più lenta rispetto alla formazione di nuove specie e
preceduta da un lungo decli- no); è dovuta a una sostanziale inadeguatezza
della “vittima” (soppianta- ta da altre specie. secondo il principio dei cunei,
o soccombente per pro- Il complesso delle prove empiriche 113 prie debolezze,
come talvolta succede per chi cresce troppo di stazza’). Nella pienezza della
natura, l’estinzione, preceduta dalla rarità, diviene l’altro lato della
speciazione. Senza la scomparsa dei perdenti, non ci sa- rebbe spazio ecologico
per i nuovi arrivati. In questa dinamica graduali- sta e funzionalista, il
catastrofismo di Cuvier e di altri è archiviato da Warwin come anticaglia del
passato: La vecchia opinione della completa distruzione di tutti gli abitanti
della Ter- ra per opera di catastrofi in successivi periodi è stata
generalmente abbando- nata‘, anche da quei geologi ... le cui opinioni generali
dovrebbero ovviamen- te portarli a questa conclusione, (p. 405) Tuttavia, è
possibile in rari casi (per esempio quando una barriera si rompe e in una
regione irrompono nuove forme più competitive, come è successo tra Nord America
e Sud America) che l’estinzione sia più dram- matica e rapida. A volte interi
gruppi scompaiono all’improvviso, come le ammoniti, e occorre spiegarlo
(ibid.). Dunque Darwin non ritiene impossi- bile di per sé il fenomeno, ma lo
valuta come molto raro, essendo dovuto nella grande maggioranza dei casi
all'effetto ingannevole dell’imperfezio- ne della documentazione fossile.
Inoltre, a differenza di quanto pensava nei l'accuini giovanili, Darwin è ora
convinto che non vi sia alcuna legge fissa che regoli “la lunghezza del tempo
in cui una singola specie o un singolo genere può durare” (p. 405).
L’estinzione del singolo. con la sua durata quasi definita di vita, non è dunque
una perfetta analogia per l'estinzione 1 Nellaterza edizione Darwin cita come
specie indebalite dalle proprie dimensioni - divenute troppo esigenti in
termini di risorse e di energie da impiegare per la ri- produzione - il
mastodonte e i dinosauri, di cui si cominciava a discutere in Inghil- terra
dopo le prime spettacolari monografie di Richard Owen. 4 Questo rifiuto totale
del catastrofismo da parte di Lyell e di Darwin ebbe una du- ratura influenza
nelle scienze della vita e nelle scienze della Terra, fino a pochi anni fa. In
un quadro teorico completamente rinnovato, cioè in versioni che non hanno nulla
a che vedere con creazionismo o antidarwinismo, oggi è rientrato for- temente
nel dibattito un “neo-catastrofismo” scientifico, che sottolinea l'impor- tanza
dei ripetuti episodi di “estinzione di massa” che nel passato hanno condi nato
fortemente la storia naturale e che non erano dovuti, come pensava Darwin, ai
difetti della documentazione paleontologica. Queste periodiche e improvvise
ecatombi del passato. causate da sconvolgimenti ecologici su larga scala
(eruzio- ni vulcaniche parossistiche. oscillazioni climatiche, impatti di
asteroidi), sono fe- nomeni reali e bruschi che hanno mietuto molte vittime.
Inoltre. Darwin non avrebbe apprezzato la scoperta che la dinamica di
sopravvivenza dopo queste ca- tastrofi non fu sempre di tipo selettivo (sia
concesso rimandare a Pievani. 2012b, capitolo quarto) 114 Anatomia di una
rivoluzione delle specie, alcune delle quali sono straordinariamente longeve
(grazie a condizioni di vita isolate e poco concorrenziali), al contrario di
altre che passano come comete nella storia naturale. In conclusione, “le leggi
e i vari fatti relativi alla successione geologica degli esseri viventi” (p.
401) si accordano meglio con la lenta e graduale modificazione per variazione e
selezione naturale, in un grande albero di discendenza che affonda le sue
radici nelle oscurità del tempo profondo, piuttosto che con qualsiasi altra
ipotesi (immutabilità delle specie, creazio- ni speciali, leggi interne di
sviluppo). 2. La discendenza con modificazione vista nel grande scenario
geografico Ma la discendenza comune non si legge soltanto nel tempo, in quella
di- mensione sempre privilegiata da tutti i commentatori, essendo la storia na-
turale un intreccio di storie di trasmutazione e di parentele genealogiche.
L'evoluzione si regge anche su un secondo asse interpretativo, di solito ne-
gletto ma altrettanto fondamentale: lo spazio geografico, il contesto territo-
riale, fisico ed ecologico della vita, con i suoi vincoli, i suoi capricci e le
sue opportunità. Vi è un sorprendente parallelismo nelle leggi della vita nel
tempo e nelto spazio: le leggi che governano la successione delle forme nei
tempi passati sono quasi le stesse che oggi governano le differenze nelle
diverse aree. Lo vediamo in molti fatti. ... Secondo la nostra teoria, questi
diversi rapporti nel tempo e nello spazio si possono comprendere perché, se
consideriamo sia le forme di vita affini che si sono modificate nelle epoche
successive, sia quelle che si sono modificate dopo essere migrate in lontane
regioni, costatiamo che in entrambi i casi esse sono connesse dal medesimo
processo di normale riproduzione; in entrambi i casi le leggi della variazione
sono le stesse, e le modificazioni si sono accumulate per opera della selezione
naturale. (pp. 479-480) A questa dimensione “orizzontale” del processo
evolutivo Darwin dedi- ca non a caso ben due capitoli, il dodicesimo e il
tredicesimo. perché in essa ritrova alcune delle evidenze più limpide della sua
teoria. Già nei Tac- cuini giovanili abbiamo visto come l'intreccio di prove
paleontologiche “verticali” (i fossili. le specie estinte, le somiglianze con
quelle attuali) e di prove biogeografiche “orizzontali” (le aree di distribuzione
di piante e ani- mali. le analogie e le differenze tra zone geografiche e
climatiche rispetto alle flore e alle faune che le abitano, l’importanza degli
arcipelaghi. la dia- Il complesso delle prove empiriche 115 lettica tra
migrazione e isolamento) fosse stato il brodo di coltura originale della
visione darwiniana. In OdS la raffinata biogeografia darwiniana viene
sistematizzata secon- do tre evidenze ricorrenti (tre pattern) e una causa
unificante. La prima evi- denza è che “non è possibile spiegare completamente
la somiglianza o la dissomiglianza degli abitanti delle varie regioni con il
clima o altre condi- zioni fisiche” (p. 429). Viaggiando nelle Americhe da nord
a sud troviamo una grande varietà di condizioni climatiche, spesso parallele a quelle
del Vecchio Mondo, eppure le specie sono completamente diverse (fatta ecce-
zione per l’Artico, dove però c’è continuità territoriale). Se confrontiamo le
flore e le faune dell’Australia, del Sudafrica e del Sudamerica, alle stes- se
latitudini e spesso con condizioni fisiche simili, troviamo tre mondi in-
dipendenti in quanto a esseri viventi (anche se non del tutto, come vedre- mo).
Le specie della punta meridionale del Sudamerica sono più affini a quelle
gradatamente più settentrionali nello stesso continente, piuttosto che a quelle
di un altro continente. Il secondo “fatto saliente” è che “tutte le barriere o
ostacoli, che si frappongono a una libera migrazione, sono in stretto rapporto
con le dif- ferenze che esistono fra le produzioni delle diverse regioni” (p.
430). Continenti separati generano famiglie e gruppi di specie distinti. Dove
invece c'è libera circolazione troviamo affinità graduali e somiglianze. È un
equilibrio antagonistico fra isolamento fisico (che produce diversità) e
migrazione, che rimescola le carte. Quindi le catene montuose, i deser- ti, i
grandi fiumi, i mari aperti sono barriere che fanno proliferare la di- versità,
per graduale divergenza attraverso la selezione naturale. Ciò vale per gli
organismi di terra e per quelli di mare: il fatto che a est e a ovest
dell’istmo di Panama il 30% della fauna marina sia identico significa, per i
naturalisti, che il congiungimento dei due continenti è avvenuto di re- cente
(ibid.). Gli ostacoli fisici possono essere più o meno insormontabi- li. ma
tenderanno sempre a produrre divergenze. In tal senso anche la profondità del
braccio di mare che separa due terre — come nel caso ecla- tante della “linea
di Wallace” nell'arcipelago malese, che separa due fau- ne di mammiferi molto
diverse — è un parametro importante, perché la presenza di un canale profondo
significa che le due sponde non sono mai state unite in tempi recenti (p. 469).
Il terzo pattern, complementare ai precedenti e di massima generalità, è
l'affinità delle produzioni di uno stesso mare o continente, sebbene le spe-
cie stesse siano differenti nei diversi punti o stazioni” (p. 431). Le diversi-
ficazioni all’interno della stessa area esistono. ma sono più leggere, e testi-
moniano di una maggiore affinità. Il nandù meridionale (torna così 116 Anatomia
di una rivoluzione l’esempio primario discusso nel Red Notebook molti anni
prima) e quello più settentrionale sono due specie distinte ma dello stesso
genere, mentre entrambi hanno ben poco a che vedere con lo struzzo africano e con
l’emù australiano. Due specie in un arcipelago sono più affini tra loro che non
en- trambe rispetto ai loro cugini sul continente. Ritorna quindi nella
dimensio- ne spaziale la stessa continuità che regna in quella temporale.
Queste tre categorie di evidenze, illustrate ciascuna da “innumerevoli esempi”,
sono spiegate da una sola causa unificante, cioè dalla discenden- za comune con
modificazioni per selezione naturale, il legame che tutto tiene, nello spazio e
nel tempo: Questi fatti denotano l'esistenza di qualche profondo legame
organico (deep organic bond), nello spazio e nel tempo, nelle stesse distese di
terra e di mare, indipendentemente dalle condizioni fisiche. Poco intelligente
sarebbe quel naturalista che non fosse portato a investigare la natura di tale
legame. Il legame è semplicemente l'eredità, quella causa che sola, per quanto
ne sappia- mo positivamente, produce organismi del tutto simili l'uno
all'altro, o quasi si- mili, come abbiamo visto nel caso delle varietà. (p.
432)* È “l'eredità con modificazioni” a spiegare tutto. Dove la migrazione e
l’incrocio sono impediti, si producono lentamente dissomiglianze in base ai
diversi rapporti tra organismi e organismi e tra organismi e condizioni
ambientali. La vicinanza alla biogeografia di Wallace e alle intuizioni del
collega è ammessa (anche se sempre più tiepidamente al succedersi delle
edizioni): Questo punto di vista sui rapporti tra le specie di una regione con
quelli di un'altra non differisce molto da quello di Wallace, che conclude che
“ogni spe- cie ha avuto un'origine coincidente per tempo e luogo con un'altra
specie pre- esistente strettamente affine”. E oggi è noto che egli attribuisce
questa coinci- denza alla discendenza con modificazione. (p. 436) Il motore di
fondo resta la selezione, giacché “né la migrazione né l’iso- lamento hanno, in
quanto tali, il potere di determinare modificazioni” (p. 433), pur restando le
imprescindibili condizioni al contorno che “stabili- scono nuovi rapporti” tra
gli organismi e gli ambienti. Alcuni organismi avranno maggiori capacità di
propagazione (potendo affrontare competito- ri in altri luoghi). ma a parità di
adattamento tenderanno a rimanere nella loro nicchia (come succede ai
fringuelli delle Galapagos — p. 474). Notia- mo qui ancora una volta. dalla
“rete che tutto unisce” evocata nei Taccuini fino a OdS. il carattere
profondamente ecologico della teoria darwiniana, Il complesso delle prove
empiriche 117 che si basa su trame di relazioni fra organismi tra loro e fra
organismi e contesti ambientali, posto che la lotta per la vita è “la più
importante di tut- te le relazioni” (rhe most important of all relations, p.
432). 3. Isolamento e migrazione: il grande fiume della vita Darwin non si
sottrae nemmeno in questo caso dall'analisi delle possibi- li obiezioni: per
esempio, trovare organismi identici in posti lontani del mondo. Se troviamo
specie molto simili in contesti geografici tanto diversi, caso di per sé raro,
significa a suo avviso che hanno avuto un progenitore comune recente e che a
partire da quello si sono poi diffuse per migrazione {p. 433). Anche se non è
sempre facile ricostruire questa dinamica nel tem- po e nello spazio, l'ipotesi
alternativa dei “centri separati di creazione” è da respingere se non altro per
un principio metodologico di parsimonia: Tuttavia, la semplicità dell'ipotesi
che ogni specie si sia prodotta inizial- mente in una regione unica, è molto
seducente. Colui che la respinge, respinge la vera causa (in latino
nell'originale) della generazione ordinaria con succes- siva migrazione, e
chiama in causa l'intervento di un miracolo. (p. 434)* È per difendere questa
“seducente semplicità” della vera causa esplica- tiva5, contrapposta
all’irrazionale resa al miracolo, che Darwin dedicherà tinto tempo allo studio
dei mezzi di dispersione e di trasporto di piante e animali, con pluriennali
esperimenti di ogni tipo a Down House, in partico- lire sulla resistenza di
semi galleggianti e di uova di molluschi terrestri in icqua di mare. Era il suo
modo di confutare la dottrina delle creazioni spe- ciali, mostrando la
possibilità (non solo teorica, ma empiricamente verifi- cata) di ampie
disseminazioni di specie simili (soprattutto piante, ma anche pesci e
molluschi) nel globo. I mezzi occasionali di dispersione sono dati dalle
correnti oceaniche (attraverso le quali i semi di molte piante possono
percorrere anche 1500 km e poi essere ancora in grado di germinare), dai
tronchi e dalle radici degli alberi che trattengono terra e sassi vagando per i
mari, dai cadaveri degli uccelli con il loro ultimo pasto, dagli uccelli vivi e
dai loro escrementi, ma anche dagli sciami di locuste, dagli iceberg, dal- li
terra trasportata occasionalmente sulle zampe e sul becco dei migratori e «egli
uccelli acquatici (pp. 437-444). Considerando questi mezzi di diffu- sione, più
il vento e le inondazioni, smette di essere un mistero l'ampia dif- “Vera
causa" è una citazione. abbiamo visto. delle riflessioni epistemologiche
gio vanili influenzate da Herschel e Whewell 118 Anatomia di una rivoluzione fusione
delle stesse specie d’acqua dolce (pesci e molluschi) in laghi e si- stemi
fluviali lontani fra loro (pp. 459-463). Ciò che altri imputavano a creazioni
speciali per Darwin è il frutto del lavoro occasionale di un uccel- lo d’acqua
dolce che fa traslocare uova e semi da uno stagno all’altro (p. 463). Inoltre,
è sempre possibile per Darwin che terre emerse limitrofe fosse- ro un tempo
unite (come Inghilterra e resto dell'Europa), o viceversa che terre oggi
contigue fossero un tempo separate, a causa dei “cambiamenti di livello del
terreno” e dei mari (p. 437). Le isole sono diventate penisole, le penisole
nuovamente isole. Fiumi e laghi si sono fusi insieme, per poi se- pararsi.
Nella sua visione la superficie terrestre, pur senza le “rivoluzioni
geografiche” a cui pensava Edward Forbes (p. 438), è sempre in movimen- to e
sui tempi lunghi della geologia tutto è instabile. Quindi la distribuzio- ne in
passato continua di una specie può essere oggi discontinua, senza con ciò
escludere che vi sia stata inizialmente migrazione da un unico luogo di origine
(p. 435). Una specie con già una vasta distribuzione su un’area con- tinua
potrebbe infatti essersi estinta nelle zone intermedie. 1 cambiamenti di clima,
in particolare le oscillazioni tra periodi glaciali e interglaciali, hanno del
resto alimentato continue migrazioni, tali da me- scolare estesamente le flore
e le faune su tutto il mondo. Le alternanze di caldo e freddo hanno infatti
spostato le fasce di vegetazione e gli habitat. facendo convergere verso l’equatore
ora le specie boreali ora quelle austra- li, e poi facendole ritirare di nuovo
verso i poli. Le specie adattate al fred- do, durante la ritirata, avranno
cercato rifugio sulle catene montuose e que- sto spiega perché si trovano
organismi molto simili alla sommità di zone di montagna lontanissime fra loro,
dall’ Asia alle Americhe (p. 444). Una montagna è come un’isola sulla
terraferma (p. 456) e conserva le tracce di antiche migrazioni. Anche le terre
circumpolari (artiche e antartiche) han- no avuto un ruolo nella
disseminazione, perché durante i cicli glaciali da |) si sono irradiate
popolazioni della stessa specie verso continenti diversi (per esempio, America
meridionale, Sudafrica e Australia da un centro di diffusione antartico®). Lo
stesso vale per le modificazioni conseguenti del- le correnti oceaniche. calde
e fredde, con migrazioni, dislocamenti e isola- menti delle faune marine. Il
quadro è speculativo e non spiega tutto, am- mette Darwin (p. 457), ma ciò che
conta è il grande scenario geografico ed 6 Darwin ripete in tre occasioni che a
suo avviso l'Antartide, prima dell'ultimo pe riodo glaciale verde e abitato da
animali. Il continente ora ghiacciato potreb be quindi essere stato il luogo di
origine delle specie comuni tra Sudamerica, Su dafrica e Australia (p. 472). Il
complesso delle prove empiriche 119 ccologico dell'evoluzione, quella corrente
della vita che fluisce sulla su- perficie terrestre: Il fiume della vita
durante un periodo è fluito da nord e durante un altro da sud, per raggiungere in
entrambi i casi l'equatore; ... Come la marea lascia strati di detriti che
raggiungono altezze maggiori sulle coste dove la marea è più alta, così la
corrente della vita ha lasciato il suo deposito vivente sulle cime dei nostri
monti (p. 458) la concezione darwiniana incontra così un altro fattore
essenziale: la “te- vria della migrazione”, con i suoi effetti sulle
distribuzioni geografiche (in- «lotti principalmente dai cambiamenti climatici,
in particolare le glaciazioni) « la successiva modificazione e moltiplicazione
di forme nuove (p. 478; prin- cipio poi ripreso nelle conclusioni, p. 529).
Unendo migrazione e discenden- zx con modificazione (e non prima di essere
giunti al capitolo dodicesimo!) si capiscono finalmente in modo limpido casi
come quello delle Galdpagos: Per esempio, un'isola vulcanica, sollevata e
formata a poche centinaia di miglia da un continente, riceverebbe probabilmente
da questo, nel corso del tempo, un piccolo numero di coloni i cui discendenti,
sebbene modificati, sa- rebbero ancora affini per eredità agli abitanti di quel
continente. (p. 436) A questo punto diventa un caso da manuale di evoluzione
per selezione naturale, ma comprensibile solo considerando una molteplicità di
ingre- «lienti: instabilità geologica (si forma per emersione un arcipelago
vulcani- co): dispersione e migrazione di esseri viventi dal continente;
separazione sulle varie isole (barriere fisiche e differenti rapporti tra
organismi e orga- nismi, e tra organismi e condizioni ambientali, producono
differenze); di- vergenza per selezione naturale (anche se non necessaria: una
specie può unche diffondersi su tutto l’arcipelago senza modificazioni);
discendenza «on modificazione. Le contingenze della migrazione e dei rapporti
tra or- ganismi e organismi fanno sì che “forme di vita molto differenti
abitino «spesso due regioni caratterizzate da condizioni fisiche quasi
identiche” (p. 478). Il modello (che si può applicare alle isole come a una
catena montuosa, a un lago o a una palude) permette a questo punto di avanzare
precise pre- «lizioni sulle caratteristiche degli “abitanti delle isole
oceaniche” (pp. 463- 167): 1) ci saranno meno specie in senso assoluto (perché
difficili da rag- yiungere, e più remote sono meno specie ci saranno): 2) ci
sarà però un maggior numero di specie endemiche, a causa dell'isolamento: 3)
intere «lassi di animali, meno abili nel migrare. potrebbero non avere alcun
rap- 120 Anatomia di una rivoluzione presentante, perché non è mai approdato
sull’isola un colonizzatore di quel tipo (così alle Galdpagos il posto dei
mammiferi? è occupato dai rettili e in Nuova Zelanda dai grandi uccelli atteri,
e sarà più difficile in media trova- re sulle isole rane, rospi e salamandre);
4) alcuni tratti, soprattutto le di- mensioni, possono subire modificazioni
peculiari a causa delle diverse re- lazioni tra organismi (per esempio assenza
di predatori o di competitori), così succede che alcune piante erbacee
sudamericane alle Galdpagos di- ventino arbusti e alberi; 5) infine, una “legge
quasi universale”, ovvero “le produzioni endemiche di un’isola sono in rapporto
con quelle del più vici- no continente o grande isola” (p. 472). I fatti
relativi alle province botaniche e zoologiche note confermano queste cinque
predizioni, in particolare l’ultima, cioè l'affinità, pur con dif- ferenze,
rispetto alle forme del più vicino continente. Le Gal4pagos presen- tano
condizioni di vita completamente diverse da quelle del vicino Suda- merica,
eppure tutte le loro specie sono chiaramente di origine sudamericana, con successive
modificazioni. Le Isole di Capo Verde sono abitate da specie di origine
africana. I due arcipelaghi, Galfpagos e Capo Verde, si assomigliano molto
nelle condizioni ambientali, eppure non han- no la benché minima comunanza di
flore e di faune. La ragione di questa distribuzione è una sola: la discendenza
con modificazioni, a partire da specie geograficamente vicine approdate sulle
isole grazie a mezzi occa- sionali di trasporto. Discendenza comune e selezione
naturale emergono quindi anche dai dati geografici: .. tutte queste relazioni
sono inspiegabili con la teoria della creazione indi- pendente di ogni specie;
sono invece comprensibili se si ammette la colonizza» zione dalla sorgente più
vicina o più accessibile. insieme ad un conseguente adattamento degli immigrati
alle loro nuove dimore. (p. 477)* 7 Darwin nota con accuratezza che non
esistono mammiferi terrestri su isole oceu- niche che distino più di 300 miglia
dal continente o dall'isola continentale più vi. cina. Per tratti di mare più
stretti, restano comunque pochissimi (la volpe delle Falkland ne è un esempio).
| pipistrelli sono invece molto diffusi, con numerose specie endemiche in isole
oceaniche. Dato che è dimostrata |” ottima a capacità dei mammiferi di
adattarsi alle isole (dove anzi diventano spesso invasivi, quando in trodotti
dall'uomo), queste evidenze, oltre a essere incomprensibili in termini di
“creazioni speciali”, si accordano perfettamente con “la tesi della efficacia
di mezzi occasionali di trasporto” (p. 469). È sufficiente un canale profondo.
come la linea di Wallace nell'arcipelago malese, per separare due faune
distinte di mam- mifleri terrestri Il complesso delle prove empiriche 121 4.
Evoluzione e sviluppo: i meravigliosi “fatti dell’embriologia” | due pilastri
del nucleo darwiniano (discendenza comune e selezione anturale) si manifestano
tanto nei vasti scenari esterni agli organismi, quan- 1» nelle loro minute
conformazioni interne, e in particolare nelle modalità «li crescita e di
sviluppo. La dualità verrà presto a estendersi e diverrà una «lialettica tra
fattori strutturali (nel polo della discendenza comune) e fatto- n funzionali
(nel polo della selezione naturale). Il modo in cui il naturalista inglese fa
interagire lo sviluppo individuale e l’evoluzione delle specie — nella terza
categoria di fatti comprovanti la discendenza comune con mo- «ilicazione, dopo
quelli paleontologici e quelli biogeografici — è molto più uffinato rispetto
alle usuali letture, di tipo “progressionista”, che circonda- no questo argomento.
Nell’ Aurobiografia Darwin assegna all’embriologia n posto d’onore in OdS e si
rammarica di non averle dato sufficiente spa- zio, con il risultato che il
merito per queste ricerche è riconosciuto mag- giormente a Fritz Miiller e a
Emst Haeckel: Nel corso del mio lavoro per l’Origine nessun argomento mi diede
tanta soddisfazione quanto la spiegazione della grande differenza esistente in
molte classi fra l'embrione e l’animale adulto, e della grande somiglianza fra
gli em- hrioni degli animali di una stessa classe. (ed.it. cit. p. 107) Nel
paragrafo del capitolo quattordicesimo dove sono discussi “i fatti
«lell'embriologia”, la sottolineatura è ripetuta: “È questo uno degli argomenti
più importanti in tutto il dominio della storia naturale” (p. 506, e poi p.
517). | e straordinarie metamorfosi degli animali nel corso del loro sviluppo
(mute, stidi larvali, generazioni alternate) rappresentano per Darwin un’altra
meravi- glia del mondo naturale. Parti dello stesso individuo che sono
identiche in un periodo embrionale precoce si differenziano gradualmente nello
stato adulto, andando ad assumere funzioni diverse (torna qui l’idea della
divisione del la- voro) (p. 507). Ma soprattutto, i naturalisti sanno che gli
embrioni di specie as- «iti diverse fra loro nello stadio adulto (come
mammiferi, uccelli e rettili) sono molto simili. E più la fase di sviluppo è
precoce, più sono simili (p. 508). Come spiegare questa “legge della
somiglianza embrionale”? Perché l’embrione sembra “un documento delle passate
condizioni del- li specie”. essendo rimasto quasi inalterato rispetto alla
discendenza suc- cessiva (p. 303)? La risposta darwiniana contempla un
ingrediente lamar- chiano. il “principio dell'eredità in età corrispondente”
(p. 515): 122 Anatomia di una rivoluzione Tutti i tipi di somiglianza
embriologica si spiegano con il fatto che gli ante» nati delle nostre specie
attuali sono cambiati dopo la loro prima giovinezza, e hanno trasmesso i loro
nuovi caratteri acquisiti ai loro discendenti, a una età corrispondente. (p. 303)
Dunque la spiegazione è centrata sull’ipotesi che i cambiamenti evoluti- vi
subentrati in un’età della vita avanzata (la forma adulta) vengano tra- smessi
ai discendenti in corrispondenza con la stessa età. Se una variazio- ne appare
per la prima volta a una certa età nei genitori, ricomparirà nei discendenti a
un’età corrispondente. L'embrione non viene toccato da que- sti cambiamenti e
rimane inalterato, come testimone dei primi stadi di svi- luppo delle specie
antenate: ... l'adulto differisce dall’embrione a causa di variazioni
sopravvenute in età non precoce, che sono state ereditate dai discendenti
all’età corrisponden- te. Questo processo, mentre lascia l'embrione quasi
inalterato, differenzia in misura sempre maggiore l’adulto, nel corso di successive
generazioni. L’em- brione resta così come una sorta di ritratto, conservato
dalla natura, della con- dizione precedente e meno modificata della specie. (p.
422) Più precisamente, l’embrione è “un ritratto più o meno sbiadito del pro-
genitore, sia allo stato larvale che a quello adulto, di tutti i membri della
stessa grande classe” (p. 517). Quindi le evidenze dell’embriologia sog-
giacciono a due principi centrali: Questi due principi, cioè la generale
comparsa di lievi variazioni in un pe- riodo non molto precoce, e il fatto che
esse vengano ereditate in età corrispon- dente, spiegano, secondo me, i
fondamentali fatti dell’embriologia. (p.512) La differenziazione negli stadi
adulti fa sì che specie oggi molto diverse (come per esempio mammiferi e pesci)
condividano le prime fasi dello svi- luppo embrionale, sulle quali il processo
selettivo non ha alcun interesse a intervenire. L'effetto di “ricapitolazione”
che riscontriamo nello sviluppo individuale è dovuto al sommarsi, nel corso
dell’evoluzione, di differenze divergenti negli stadi più avanzati della
crescita e non in quelli giovanili, pur con molte eccezioni (che subentrano
tutte le volte in cui è necessario che gli stadi larvali o giovanili
sopravvivano alle stesse condizioni di vita degli adulti — p. 514). Se invece è
l’adulto ad adattarsi a condizioni in cui certe strutture non sono più
necessarie (per esempio a causa di un compor- tamento da parassita). la
metamorfosi sarà regressiva e gli stadi giovanili saranno più “avanzati” di
quelli adulti. Nello strano caso del coleottero Si- Il complesso delle prove
empiriche 123 turis, parassita delle api, le regressioni e gli avanzamenti si
alternano in modo peculiare (p. 515). Anche Agassiz aveva notato che gli
animali antichi allo stadio adulto as- somigliano per certi aspetti agli
embrioni di animali attuali della stessa clas- se (p. 517). AI netto di tutte
le irregolarità ed eccezioni, le somiglianze em- briologiche rappresentano
quindi un’altra fonte di prove della discendenza comune, con quel loro
“andamento quasi parallelo alla successione geologi- ca delle forme estinte”
(p. 422), benché non sia facile raccogliere prove in tal senso nei fossili. È
assai probabile, scrive Darwin, che “in molti animali gli stadi embrionali o
larvali rappresentino, più o meno completamente, lo stadio adulto del
progenitore del gruppo” (p. 516), come succede per le lar- ve a forma di
nauplio nei crostacei o per gli embrioni che richiamano adat- tamenti alla vita
acquatica nei mammiferi, negli uccelli, nei rettili e nei pe- sci. Ne discende
un principio metodologico generale: la comune struttura embrionale rivela la
comune discendenza, ma non viceversa. Se due o più gruppi di animali, per
quanto possano differire per struttura e abitudini allo stato adulto, passano attraverso
stadi embrionali molto simili, possiamo essere certi che essi discendono tutti
da un antenato comune, e sono di conseguenza strettamente imparentati. La
comune struttura embrionale ri- vela dunque la comune discendenza; ma la
dissomiglianza nello sviluppo em- brionale non prova il contrario, perché in
uno dei due gruppi gli stadi di svi- luppo possono essere scomparsi, 0 possono
essere stati talmente modificati dall'adattamento a condizioni nuove di vita,
da non essere riconoscibili. (p. 517) L’embriologia è per Darwin un serbatoio
di evidenze anche a favore del- la gradualità. ] “gradi impercettibili” con cui
si sviluppa ogni particolare della struttura di un organismo fin dallo stato
embrionale dimostra che nel passato non vi sono state modificazioni né di
grande entità né rapide né im- portanti, bensì un lento accumulo di piccole
variazioni per selezione natu- rale (p. 304). Tuttavia, non è detto che lo
sviluppo rappresenti necessaria- mente un “progresso” nell’organizzazione: Nel
corso dello sviluppo l’embrione generalmente cresce in termini di orga-
nizzazione; uso questa espressione pur sapendo come sia quasi impossibile de-
finire che cosa si intenda per organizzazione superiore o inferiore. Ma proba-
bilmente nessuno vorrà negare che l'organizzazione di una farfalla sia
superiore a quella di un bruco. Tuttavia in alcuni casi l'animale adulto si può
considerare inferiore alla sua larva, come per esempio accade nel caso di cer-
ti crostacei parassiti. (p. 509)* 124 Anatomia di una rivoluzione Anche nei
cirripedi gli stadi di sviluppo attraversano, senza progressio- ne, livelli
molto diversi di complessità: le loro larve rivelano che sono cro- stacei,
benché nella forma adulta assomiglino molto di più a molluschi (p. 517). Nei
“maschi complementari” di alcuni pesci — ridotti a contenitori di liquido
seminale per la riproduzione, senza bocca, stomaco e altri organi - lo sviluppo
ha fatto retrocedere drasticamente la complessità dell’organiz- zazione (p.
510). In altre forme, come ragni e afidi, il giovane non è molto dissimile
dall'adulto. Ancora una volta, Darwin descrive una casistica ete- rogenea di
soluzioni, in tutta la sua irreprimibile pluralità di strategie pos- sibili.
L'embriogenesi non è una marcia di avvicinamento alla forma adul- ta, ma un
altro terreno di sperimentazione per la selezione naturale. I tratti
embrionali, non adattativi rispetto alle esigenze di vita dell’adul- to8 e
ricchi di strutture vestigiali, sono anche particolarmente diagnostici per le
classificazioni (p. 492), come sosteneva Haeckel (p. 501). Infatti: 1 punti
della struttura in cui gli embrioni di animali molto diversi apparte- nenti
alla stessa classe si assomigliano non hanno spesso alcun rapporto diret- to
con le loro condizioni di vita. (p. 508) Sono quindi tratti “omologhi”, come
vedremo tra poco. i più utili secon- do Darwin per tracciare le discendenze.
Nella sesta edizione, nel paragra- fo sui modi di transizione del capitolo
sesto, Darwin aggiunge un interes- sante capoverso nel quale prende in seria
considerazione come modalità di formazione di strutture complesse quelle che
oggi noi chiamiamo “etero- cronie” e che a quel tempo lui definisce
“accelerazione o ritardo del perio- do della riproduzione” (p. 245). Infatti le
caratteristiche della specie cam- bierebbero considerevolmente se a causa di
queste alterazioni nei tempi di riproduzione si perdesse, per esempio, “lo
stato adulto di sviluppo”. Dar- win ipotizza infatti che l’età della
riproduzione incida sui caratteri eredita- ti dalla progenie: un genitore più
giovane o più vecchio trasmette i suoi ca- ratteri giovanili o senili. Dato che
gli stadi larvali sono spesso molto diversi dalle forme adulte.
un’anticipazione della riproduzione potrebbe rappresentare un “modo di
transizione relativamente subitanea” (ibid.). Può avvenire anche il contrario:
lo sviluppo si prolunga anche nell’età ma- tura (in particolare nei mammiferi).
l’età della riproduzione ritarda e “le fasi anteriori e primitive dello
sviluppo in qualche caso verrebbero accele- 8 Comei girini di una salamandra di
montagna che hanno le branchie e possono vivere in acqua. benché essi non ne
abbiano mai bisogno nella loro vita terrestre (p.518). Il complesso delle prove
empiriche 125 rate e infine si perderebbero” (ibid.). A volte la selezione può
favorire un'accelerazione dello sviluppo, altre volte un rallentamento (p.
514). AI di lù delle ipotesi specifiche, è evidente che Darwin considera i
tempi e i rit- mi dello sviluppo come un terreno di sperimentazione
dell’evoluzione, la quale definisce sì gradualmente le differenze tra giovane e
adulto, e tra adulto e vecchio, ma può anche modificare le tempistiche
complessive del- lo sviluppo, anche eliminando i primi stadi di sviluppo (p.
511). Allora l'evoluzione agisce anche sul processo di sviluppo e sui suoi
meccanismi di differenziazione. Da un lato, Le mostruosità delle piante ci
forniscono spesso la prova diretta della pos- sibilità che un organo si
trasformi in un altro, e negli stadi precoci o embrio- nali dello sviluppo dei
fiori, nonché dei crostacei e di molti altri animali, pos- siamo vedere una
perfetta somiglianza fra organi che, quando hanno raggiunto il completo
sviluppo, sono estremamente differenti. (p. 504) Dall’altro, anche se non
sappiamo come i corpi degli organismi si siano divisi in segmenti (forse per
moltiplicazione cellulare e suddivisione — ibid.), nel processo di discendenza
con modificazione la selezione naturale potrebbe aver lavorato proprio su
queste “omologie seriali e laterali” di tipo strutturale, trasformando e
diversificando organi primordiali (come vertebre e zampe) in crani e mascelle
(p. 506). Allo stesso modo, se uno stadio larvale deve provvedere a se stesso
per sopravvivere (come in alcu- ni insetti), si modificherà per selezione
naturale, disobbedendo alla legge della comune somiglianza embrionale (p. 509).
Tra “ontogenesi” (sviluppo individuale) e “filogenesi” (discendenza comune
delle specie) esistono dunque legami profondi, la cui ragion d'essere sta nel
fatto che le esigenze funzionali devono trovare di volta in volta compromessi
con i vincoli strut- turali e di sviluppo dei modelli corporei degli organismi.
5. Unità di tipo e condizioni di esistenza Generalizzando queste evidenze circa
l’esistenza di una dualità di f'atto- ri (funzionali e strutturali), nota Darwin
alla fine del capitolo sesto e poi nel quattordicesimo, “unità di tipo” (le
strutture morfologiche ereditate) e “condizioni di esistenza” (le pressioni
selettive esterne) rappresentano le “due grandi leggi” del cambiamento
evolutivo (p. 264), laddove sono però soltanto le prime a garantire la
possibilità di affidabili classificazioni siste- matiche dei viventi.
L'omologia morfologica è niente meno che “l'anima 126 Anatomia di una
rivoluzione della storia naturale”, la quarta categoria di fatti comprovanti la
discenden- za comune: Cosa può esservi di più singolare del fatto che la mano
dell'uomo, formata per afferrare, quella della talpa per scavare, la zampa del
cavallo, la natatoia del delfino e l'ala del pipistrello, siano costruite sullo
stesso modello, e com- prendano ossa simili, nelle stesse posizioni relative?
(p. 501) Darwin sembra apprezzare in numerosi passaggi il valore squisitamente
formale degli esseri viventi, per esempio le “simmetrie” della crescita che
rendono così belli i “minuti astucci silicei delle diatomee” (p. 258), le “leg-
gi di costruzione” omologhe della bocca degli insetti e di altri organi così
ben descritte da Geoffroy Saint-Hilaire (p. 502), le omologie seriali all’in-
terno del piano strutturale di un organismo (pp. 503-506). Ecco dunque la prima
grande legge, Unity of Type, la conformità di tipo riconducibile alla
discendenza comune e all’eredità da un antenato comune: Unità di tipo significa
quella concordanza fondamentale nella struttura che vediamo negli esseri
viventi della stessa classe, e che è del tutto indipendente dalle loro
abitudini di vita. Secondo la mia teoria, l’unità di tipo è spiegata dal- la
unità di discendenza. (p. 264) In questo dominio di caratteri, non hanno alcuna
voce in capitolo né l’u- tilità né “la dottrina delle cause finali” (p. 502)*.
Quello che i naturalisti continentali di scuola strutturalista chiamavano
“archetipo” diventa in Dar- win l’antenato comune (p. 503) — per esempio tra
mammiferi, uccelli e ret- tili — ovvero il portatore di un modello comune, che
poi la selezione può far evolvere solo lentamente e per piccole modificazioni.
Ecco perché ritrovia- mo ancora la costruzione omologa degli arti: il processo
selettivo agisce sul materiale esistente, compresi i suoi vincoli, e ci vuole
molto tempo prima che la struttura di partenza più profonda venga alterata fino
al punto di non riconoscerla più. Sul versante opposto, i parallelismi. le
convergenze di adattamenti si- mili (come gli occhi evolutisi per almeno sei
volte separatamente) e le “somiglianze analogiche” funzionali sono ingannevoli.
perché sembrano testimoniare una parentela stretta fra due specie quando invece
si sono sviluppati indipendentemente in rami non contigui dell’albero della
vita: sono della massima importanza per il benessere dell'individuo, ma pres-
soché prive di valore per i sistematici (p. 493). Questa distinzione fra so-
miglianze funzionali superficiali e affinità strutturali profonde. fra tratti
di base e caratteri derivati, è ancora oggi uno dei principi (insieme alla Il
complesso delle prove empiriche 127 condivisione di innovazioni evolutive)
delle ricostruzioni filogenetiche?. Darwin vi dedica larga parte del penultimo
capitolo, il quattordicesimo, dove elenca numerosi e variegati esempi di
somiglianze analogiche, dai mimetismi agli organi di senso e di difesa, resi
come ulteriori esempi dell’efficacia a volte sorprendente del processo
selettivo (pp. 492-497). L'“unità di tipo” è il segno della discendenza
inscritto nelle strutture profonde dei viventi e nelle loro correlazioni di
sviluppo. In questa catego- ria cadono tutti quei caratteri cristallizzatisi da
lungo tempo e divenuti mol- to meno variabili (p. 215). Le “condizioni di
esistenza” esterne, attraverso la selezione naturale, plasmano invece di volta
in volta adattamenti funzio- nali, che coprono i segni della storia precedente
e producono caratteri spe- cifici, ancora oggi più variabili (p. 216). Non
denotano affinità reali, ma adattamenti convergenti (p. 492). Ecco dunque la
seconda grande legge, Conditions of Existence, riconducibile alla selezione
naturale: L'espressione delle condizioni di esistenza, su cui così spesso ha
insistito l’illustre Cuvier, è interamente compresa nel principio della
selezione natura- le. Infatti la selezione naturale agisce o adattando oggi le
varie parti di ogni essere alle sue condizioni organiche e inorganiche di vita;
o avendole adattate in periodi passati: gli adattamenti essendo in molti casi
aiutati dall’aumentato uso o non uso delle parti, influenzati dalla diretta
azione delle condizioni ester- ne di vita, e sottoposti in tutti i casi alle
diverse leggi dello sviluppo e della va- riazione.(p. 264) Il dualismo di
omologie e analogie permette a Darwin di avanzare pre- dizioni scientifiche
molto eleganti. Se troviamo “lo stesso organo in diver- si membri della stessa
classe” e questi hanno abitudini di vita molto diffe- renti, possiamo prevedere
che la presenza di quell’organo sia dovuta “all’eredità ricevuta da un
progenitore comune, e la sua assenza in alcuni membri alla perdita dovuta al
non uso o alla selezione naturale” (p. 247). Se lo stesso organo è posseduto da
specie non imparentate tra loro. dobbia- mo aspettarci che osservando meglio la
sua struttura interna si notino dif- ferenze sostanziali di costituzione e di funzionamento,
dovute al diverso materiale di partenza su cui ha lavorato il processo
selettivo. Se specie non affini hanno lo stesso organo, dobbiamo invece
prevedere che vivano nelle stesse condizioni ambientali e abbiano necessità
adattative analoghe. Se 4 Nella sesta edizione Darwin adotta la terminologia
proposta da Edwin Ray Lan- caster, che chiama “omogenee” le strutture che si
assomigliano in animali diversi a causa della discendenza comune e
“omoplastiche” le somiglianze funzionali su- i (p. 505). 128 Anatomia di una
rivoluzione una singola specie, come la viscaccia tra i roditori, presenta
maggiori somi- glianze con un gruppo del tutto diverso, come i marsupiali,
significa che ha trattenuto un maggior numero di caratteri dell’antenato comune
fra rodito- ri e marsupiali (p. 498). Dunque non vi è alcuna difficoltà nel
fatto “che un organo apparente- mente uguale si trovi in varie specie
lontanamente affini” (p. 247), come supponeva lo zoologo St George Mivart. Non
è certo necessario ricorrere a creazioni speciali quando sappiamo che esistono
fenomeni di convergenza funzionale per selezione naturale, come nel caso degli
occhi dei cefalopo- di e dei vertebrati, evolutisi indipendentemente: Come due
uomini hanno talora fatto indipendentemente la stessa invenzio- ne, così nei
numerosi casi predetti è evidente che la selezione naturale, operan- do per il
bene di ogni essere, e traendo vantaggio da tutte le variazioni favore- voli,
ha prodotto organi simili, per quanto riguarda la funzione, in esseri viventi diversi,
la cui struttura comune non dipende dall'eredità ricevuta da un comune
progenitore. (p. 248) L’analogia sarà comunque imperfetta, perché quelle due
forme di oc- chio, nei cefalopodi e nei vertebrati, sono figlie di due processi
di variazio- ne distinti (“la variabilità non sarebbe stata esattamente la
stessa”, p. 249) e soprattutto perché il processo selettivo ha lavorato su
“materiali” di par- tenza differenti: Di conseguenza la selezione naturale
avrebbe operato su materiali o varia- zioni differenti, per arrivare allo
stesso risultato funzionale; le conformazioni così acquisite, quasi
necessariamente, sarebbero state diverse. Secondo l’ipo- tesi di atti separati
di creazione l’intero caso è incomprensibile. (p. 249) La somiglianza tra due
specie che vivono in ambienti simili, ma molto di- stanti fra loro (per esempio
due caverne buie, in America e in Europa — p. 202), è per Darwin dovuta alle
analogie di struttura prodotte dalla selezione naturale (occhi atrofizzati in
entrambi i casi). Tuttavia, anche per confutare la “vecchia concezione
tradizionale” delle creazioni indipendenti (p. 203), al naturalista inglese
preme sottolineare che esisteranno sempre profonde diffe- renze e unicità.
dovute alla maggiore affinità che le specie cavernicole han- no con le diverse
forme rispettivamente americane ed europee con cui sono più strettamente
imparentate. Le somiglianze sono superficiali, ciò che con- ta sono le
differenze dovute alle diverse genealogie. Se il nostro obiettivo è valutare le
parentele genealogiche. la discendenza comune (manifesta sotto forma di
omologie) prevale sulla convergenza adattativa o somiglianza per Il complesso
delle prove empiriche 129 inalogia (che anzi può confondere le idee a chi deve
classificare gli esseri vi- venti in un'ottica evoluzionistica). Le successive
interpretazioni “adattazio niste” della teoria darwiniana, tutte centrate sul
potere della selezione natura- le di produrre convergenze funzionali
progressive, si discostano dunque da questo caposaldo dell'approccio darwiniano
originale. Nella dialettica tra unità di tipo (omologie e vincoli strutturali
preesisten- ti) e condizioni di esistenza (analogie e adattamenti funzionali),
in termini di rilevanza esplicativa generale è vero che la conclusione teorica
di Darwin — che rimane in questo fedele alla tradizione funzionalista inglese —
è che la priorità causale vada tutto sommato alle condizioni di esistenza (la
“legge più alta”), perché i vincoli strutturali ancestrali sono a loro volta
quasi sempre fi- gli di adattamenti anteriori ereditati, e dunque le unità di
tipo vanno alla fine ricomprese entro una spiegazione storica di tipo
funzionale. ... la legge delle condizioni di esistenza è di fatto la legge più
alta, poiché comprende, attraverso l'eredità delle variazioni e degli
adattamenti anteriori, quella delle unità di tipo. (p. 264) Darwin ritiene
“un’obiezione molto seria” quella di chi pensa che l’evo- luzione avvenga per
“una tendenza innata verso uno sviluppo progressivo” o per qualche altra legge
interna della forma (oggi diremmo, legge di “au- to-organizzazione”) (p. 268).
La disposizione delle cellule nei tessuti, del- le foglie nel fusto, le
divisioni numeriche nelle parti del fiore, la posizione degli ovuli, la forma
dei semi, le simmetrie, altre regolarità formali: possi- bile che sia tutto
frutto della selezione naturale? Proprio tutto no, risponde Darwin, perché
contano anche le correlazioni di crescita, le interazioni tra le parti e altri
fattori strutturali (pp. 270-272), tuttavia l'utilità funzionale resta la causa
prevalente del cambiamento evolutivo (a volte insospettabi- le. come per la
lunghezza delle orecchie e della coda in molti mammiferi) e l’unica in grado di
spiegare “le innumerevoli strutture così bene adattate alle abitudini di vita
di ciascuna specie” (p. 268). Il principio metodologico darwiniano è chiaro:
prima di sostenere che una struttura è del tutto inutile, o è “puramente
morfologica”, o è bizzarra come i fiori di certe orchidee, ci vuole l’onere
della prova. Si scoprono in continuazione le funzioni di tratti che non
capivamo. Eppure, quella che nei dibattiti pre-darwiniani era un’opposizione
tra principi pressoché in- conciliabili di spiegazione delle forme organiche
diventa ora una dialettica storica tra funzioni e strutture. con priorità
causale assegnata alle prime. Dalle citazioni di OdS si arguisce chiaramente
che Darwin ha ben presente la tradizione biologica strutturalista continentale,
che non solo rispetta ma 130 Anatomia di una rivoluzione considera foriera di
intuizioni feconde. Antichi adattamenti diventano oggi vincoli strutturali. A
loro volta, i vincoli strutturali possono essere ingag- giati nello svolgere
nuove funzioni adattative. La convergenza funzionale non è mai profonda e
talvolta Darwin sembra attribuirne la causa non sol- tanto ai vincoli omologici
della discendenza comune ma anche “alla conse- guente tendenza a variare in
modo simile” (p. 218). Vediamo insomma all’opera il doppio asse della
spiegazione darwiniana: discendenza comune (storia, strutture, omologie) e selezione
naturale (funzioni, caratteri speci- fici, analogie). Se è così, significa che
la selezione naturale deve scendere a compro- messi con il materiale a
disposizione, che è pieno di vincoli interni e di li- miti fisici'°. Dato che
la materia di partenza non è la stessa, le somiglianze analogiche non sono mai
perfette (p. 494). Inoltre, una pressione selettiva può perturbare strutture
preesistenti, generando effetti collaterali dovuti alle trame di variazioni
correlate e di correlazioni di sviluppo presenti ne- gli organismi (pp.
206-209). Un utile adattamento può quindi avere strasci- chi non funzionali in
parti correlate. La selezione in definitiva può “miglio- rare” gli organismi
solo rispetto a “condizioni organiche e inorganiche di vita” contingenti e solo
rispetto a un quadro di vincoli ereditati, non ambi- re a una perfezione
ingegneristica ottimale. Il passato lascia i suoi segni sotto forma di
imperfezioni e di stranezze. Lo testimoniano anche i numerosi tratti
rudimentali o vestigiali, atrofizza- ti e abortiti (descritti nell'ultimo
paragrafo del penultimo capitolo) che per- sistono nelle morfologie organiche
pur recando “l’impronta dell’inutilità” (p. 517): mammelle maschili, abbozzi di
arti posteriori e di pelvi nel Boa constrictor, denti nei feti di balena,
petali rudimentali. A volte un organo con due funzioni diventa rudimentale per
una e rimane efficiente per l’al- tra, oppure, come vedremo nel prossimo
capitolo, diventa rudimentale per una funzione e ne acquisisce un’altra (p.
519). Occhi atrofizzati e ali di- smesse sono un altro segno della storia,
l'inerzia di parentele lontane (che Darwin chiama “forza dell’eredità”, p.
519), indizi di omologie, strutture in 10 Darwin è quindi disponibile a
considerare l'importanza dei fattori strutturali, ma senza mai spingersi a
eccessive generalizzazioni in tal senso. Per esempio, ritiene che la legge
della compensazione o della “economia della crescita”, proposta an- che da
Goethe, per cui il maggior sviluppo di una parte dell'organismo si tradur- rebbe
simmetricamente nella riduzione di un'altra adiacente v correlata. per quan- to
plausibile sia di difficile applicabilità. La selezione naturale può infatti
atrofizzare un organo divenuto superfluo senza con ciò ipertrofizzarne un altro
adiacente, e viceversa (p. 210). Ciò che conta è che il processo selettivo. al
netto dei vincoli che incontra. agisca sulla base di criteri di economicità Il
complesso delle prove empiriche 131 disuso che i processi di selezione naturale
tollerano oppure riutilizzano, modificandoli per nuove funzioni!!. Con una
bellissima metafora tratta dalla linguistica, Darwin spiega i tratti vestigiali
così: Gli organi rudimentali possono essere paragonati alle lettere di una
parola, che pur essendo conservate nella grafia sono diventate inutili per la
pronuncia, ma servono come chiave per l'etimologia. (p.523) 6. “Evoluzione”, un
termine scomodo Difficile ravvisare in tutto ciò un piano di intelligenza
progettuale divi- na o una trionfale marcia di progresso. Gli organi vestigiali
non sono stati creati “per amore della simmetria” (p. 521). Sono piuttosto
un’altra eviden- za della discendenza comune. Ciò che per “la vecchia dottrina
della crea- zione” era una difficoltà (il tema dell’imperfezione in natura),
diventa ad- dirittura una predizione: qualcosa cioè che “si sarebbe persino
potuto prevedere, in armonia con i principi qui spiegati” (p. 523). Se dunque
la metafora più calzante per la selezione naturale non è l’ingegneria, ma il
bri- colage artigianale, e il marchio di fabbrica della storia naturale è
l’imperfe- zione, un altro tassello fondamentale della teologia naturale viene
a cadere. Darwin era a tal punto sicuro della necessità di scindere la sua
teoria da qualsiasi coloritura finalistica che il termine stesso “evoluzione” —
nella prima edizione usato una volta soltanto, come verbo, nell’ultima frase di
OdS (have been, and are being, evolved, p. 554) e poi ripreso un’altra vol- ta
in un’aggiunta della sesta edizione — lo lasciava perplesso, essendo già stato
adottato tecnicamente alla metà del Settecento per descrivere lo “svi- luppo”
dell’individuo in senso preformistico, qualcosa cioè che si srotola o svolge
(dal latino evolvere) lungo una direzione programmata. “Evoluzio- ne” era usato
anche per indicare il manifestarsi di strutture embriologiche ignote. Un
dispiegamento di forme già inscritte fin dall’inizio, e con un esi- to adulto
necessario, era esattamente l’idea che voleva evitare per descrive- re le
trasformazioni delle specie (Gould. 1977). Come abbiamo visto, per Darwin nemmeno
lo sviluppo embrionale rispetta un’universale legge di iccrescimento
dell’organizzazione (p. 509). HI Come nel caso dell'ala del pinguino, che funge
da pinna. Darwin acutamente fa però notare che a volte è difficile distinguere
organi rudimentali in disuso, organi rudimentali riadattati e organi nascenti
(p. 519). Bisogna affidarsi all'analogia con altre specie 132 Anatomia di una
rivoluzione Preferì sempre i termini più neutrali di “trasmutazione”,
“mutamento” o “discendenza con modificazioni”, anche perché negli anni in cui
scrive- va le sue opere l’uso comune della parola “evolution” in Inghilterra
era as- sociato proprio al succedersi progressivo di forme lungo un processo di
perfezionamento dal semplice al complesso. Sarà infatti poi Herbert Spen- cer
il principale propagandista del termine “evoluzione”, in un senso pro-
gressionista che avrà poco di darwiniano e molto di lamarckiano. Era sta- to lo
stesso Spencer, del resto, a inventare quell’espressione “sopravvivenza del più
adatto” che avrà un'enorme fortuna soprattutto fra i magnati dell’industria
inglese e nordamericana come metafora della giungla del mercato. Darwin non si
esime dal rimarcare (p. 190) quanto si- ano “inutili” le “speculazioni” di
Spencer sulle origini della vita e sulla sua tendenza a progredire. Benché
Darwin condividesse nella sostanza la visione competitiva della libera impresa
(come scriverà chiaramente ne L'origine dell’uomo), mostrò sempre una certa
diffidenza nei confronti dei tentativi, spesso maldestri, di applicare le sue
teorie alla società umana, all'economia e a tutto lo scibile umano, come fecero
in maniere diverse Spencer ed Haeckel. Il fatto che il padre della “teoria
dell'evoluzione” non volesse usare il termine “evolu- zione” è un chiaro
indizio della sua convinzione che nella spietata storia naturale non vi fosse
alcuna direzione né alcun piano preordinato. bensì un gioco di compromessi fra
leggi generali e dettagli contingenti: La selezione naturale, o la
sopravvivenza del più adatto, non include neces- sariamente uno sviluppo
progressivo: essa unicamente si avvantaggia delle va- riazioni che sorgono e
che sono utili a ciascuna creatura nelle sue complesse relazioni di vita. (p.
189). Non vi è infatti alcunché di direzionale né nella variazione né nei muta-
menti ambientali. La selezione naturale fa quello che può in circostanze
contingenti e locali. A volte sembra favorire tratti apparentemente insulsi
(come la coda scacciamosche della giraffa — p. 253). ma chi può dire che cosa
sia realmente insignificante nell'evoluzione? Una lieve variazione vantaggiosa
(nella resistenza agli attacchi degli insetti, per esempio) può fare la
differenza. Se differenze individuali favorevoli non sorgono o non c'è tempo
abbastanza, il grado di organizzazione non avanza (p. 190). Inol- tre, precisa
Darwin. “i naturalisti non hanno ancora definito in modo sod- disfacente per
tutti che cosa significa un avanzamento (advance) nell'orga- nizzazione” (p.
187)*. Non esiste insomma un criterio condiviso per definire la nozione di “progresso”
nell'evoluzione. né al tempo di Darwin Il complesso delle prove empiriche 133
né oggi. “Fino a qual punto l’organizzazione tende a progredire” è il titolo di
un paragrafo del capitolo quarto (p. 187) in cui il naturalista inglese nel- la
terza edizione di OdS condensa tutti i suoi dubbi sul “molto intricato” ar-
gomento. L’analogia con lo sviluppo individuale (la “evoluzione”, appun- to)
non funziona, perché in alcune specie le parti mature sono meno perfette di
quelle larvali. La selezione tende sì a diversificare e specializzare le parti
di un organi- smo, ma può anche farlo retrocedere “nella scala
dell’organizzazione” ren- dendo superflui alcuni organi. Anche se in linea
generale la selezione ten- de a far avanzare il grado di organizzazione dei
viventi, diventare più complessi non è una necessità evolutiva, come dimostrano
lombrichi, an- fiossi e vermi intestinali (p. 189). Ciò è tanto vero che “forme
basse e sem- plici perdureranno a lungo se bene adatte alle loro semplici
condizioni di esistenza” (p. 193) e animali che hanno raggiunto elevati stadi
di comples- sità possono persino accomodarsi a condizioni più semplici di vita
se ciò ri- sulta vantaggioso in termini di selezione naturale. Ma si potrà
obiettare, come mai, se tutti gli esseri viventi tendono a elevar- si nella
scala naturale, ancora esiste una moltitudine di forme inferiori;e per- ché, in
ogni grande classe, alcune forme sono molto più altamente sviluppate di altre?
Perché le forme più altamente sviluppate non hanno dovunque sop- piantato e
sterminato quelle inferiori? (p. 188) La “tendenza innata e inevitabile verso
la perfezione in tutti gli esseri vi- venti” è argomento lamarckiano dal quale
vuole distanziarsi. ] parassiti, nota Darwin, si sono evoluti da organismi
ancestrali che vivevano liberi e hanno perso nel corso del processo organi e
abilità, adattandosi a una mo- dalità di vita più semplice ma parimenti
efficiente. Dunque la maggiore complessità'* non è un esito inevitabile
dell'evoluzione, ma dipende dalle condizioni iniziali, dalle circostanze e
dall’'esplorazione contingente di nuove possibilità. Il processo selettivo è
indifferente a parametri astratti di semplicità e complessità. Preferisce
piuttosto una spiccia economicità, evi- tando costosi sprechi di risorse: “la selezione
naturale si sforza continua- mente di risparmiare in ogni parte
dell’organizzazione” (p. 210)*. 12 Darwin ritiene che una misura della
“complessità” di un organismo sia data dalla “quantità delle differenziazioni
delle sue parti” o dalla “compiutezza della di ne del lavoro fisiologico” (p.
187). Oggi diremmo: dal numero di parti e di rela- zioni tra le parti,
unitamente alla loro specializzazione funzionale. Il perdurare l'ino a oggi dei
dibattiti su questa controversa nozione mostra però quanto avesse ragione
Darwin nel definirlo “un tema oscuro” (obscure subject). 134 Anatomia di una
rivoluzione Dunque il “perfezionamento” prodotto dalla selezione, anche se a
volte (come nei coadattamenti tra orchidee e insetti) raggiunge vette di pura
me- raviglia, è sempre relativo: La selezione naturale rende solamente a
rendere ciascun essere vivente al- trettanto perfetto, o un po’ più perfetto,
degli altri abitanti della stessa regione con cui entra in concorrenza. E
vediamo che questo è il livello di perfezione che si raggiunge in natura. (p.
260)* Le specie autoctone della Nuova Zelanda sembrano perfette per il luogo,
ma poi vengono soppiantate da specie invasive, segno che la perfezione as-
soluta in natura non esiste. In uno dei passaggi più memorabili di Od$, Darwin
scrive: La selezione naturale non produrrà la perfezione assoluta, né
ritroviamo mai, per quanto possiamo giudicare, questo alto standard in natura.
(ibid.) Nemmeno gli istinti sono “assolutamente perfetti” (p. 308), nemmeno
forse il favo delle api domestiche (p. 324) e nemmeno l’occhio umano, così
perfetto all'apparenza, lo è del tutto: ci sono inesattezze e incon- gruenze,
che scuotono l’idea di un’armonia prestabilita delle forme orga- niche. Nelle
conclusioni, in un passo molto efficace, ribadisce che l’im- perfezione
dovrebbe essere la norma in natura e che dovremmo semmai meravigliarci di non
trovarne di più. Il mondo naturale è pieno di spreco, di odio istintivo, di
crudeltà, di bruttezza (dai serpenti velenosi a certi mostruosi pipistrelli):
Non dobbiamo meravigliarci se tutti gli espedienti della natura non sono, per
quanto ci è dato di giudicare, assolutamente perfetti, come persino nel caso
dell'occhio umano, o se alcuni di essi ripugnano alle nostre idee sull’adatta-
mento. Non dobbiamo meravigliarci che il pungiglione, quando è usato dall’a- pe
contro un nemico, provochi la morte dell’ape stessa; che i maschi degli in-
setti siano prodotti in così gran numero per compiere un solo atto e che siano
successivamente massacrati dalle loro sterili sorelle; né dobbiamo meravi-
gliarci dell'enorme spreco di polline da parte dei nostri pini; dell'odio
istinti vo dell'ape regina per le sue figlie feconde; degli icneumonidi che si
nutrono entro il corpo viventi dei bruchi: e di altri casi simili. La
meraviglia invero è, in base alla teoria della selezione naturale, che non
siano stati individuati casi più numerosi di mancanza di assoluta perfezione.
(p. 538)* Eppure. rimanendo sulla Nuova Zelanda come esperimento mentale,
Darwin ipotizza che se le specie “superiori” inglesi si naturalizzassero in Il
complesso delle prove empiriche 135 massa da quelle parti avrebbero un grande
successo e sterminerebbero le specie autoctone. Al contrario, le specie
neozelandesi non avrebbero alcu- na fortuna in Europa. Dunque una qualche idea
di progresso rimane na- scosta nella sua mente, pur fra mille dubbi. Poche
pagine dopo il passo prima citato, nelle conclusioni, Darwin scrive che
“nell’insieme” le forme più recenti sono superiori alle forme antiche “nella
scala dell’organizza- zione” (scale of organisation), perché le prime hanno
soppiantato le se- conde (p. 541). Nella cavalcata trionfale della chiusa di
OdS si lascia prendere la mano: Possiamo dunque guardare con qualche fiducia
verso un futuro avvenire di grande durata. E poiché la selezione naturale
lavora esclusivamente median- te il bene e per il bene di ciascun essere, tutte
le qualità del corpo e della men- te tenderanno a progredire verso la
perfezione (progress towards perfection). (p.553) Come abbiamo visto, alcune
concessioni all’irresistibile metafora del progresso vittoriano compaiono
quando Darwin descrive gli adattamenti più ingegnosi oppure quando solleva lo
sguardo sugli scenari ecologici più ampi delle trasformazioni delle specie,
dove talvolta fanno capolino i rife- rimenti a progressioni e “tendenze verso
la perfezione”. Alla fine del capi- tolo settimo, Darwin nel 1872 aggiunge che
la selezione “generalmente” produce un avanzamento nell'organizzazione (advance
in organisation), in pochi casi una regressione (retrogression). Nel paragrafo
del capitolo undi- cesimo dedicato al tema del progresso sulla scala
paleontologica, scrive che “la selezione naturale tenderà a specializzare e
perfezionare l’organiz- zazione di ogni individuo e a renderlo in questo senso
più elevata” (p.419). Ma subito aggiunge: ... può tuttavia lasciare a molti
esseri strutture semplici e non perfezionate, adatte a condizioni elementari di
vita, e in alcuni casi può addirittura sempli- ficare e degradare gli
organismi, pur lasciando questi esseri degradati più ido- nei al loro nuovo
genere di vira. (ibid.) La selezione naturale viene in più occasioni paragonata
a “un'opera di miglioramento (improvement)” (p. 148). cui effetti sono
direttamente pro- porzionali al livello di concorrenza in una regione. Ciò è
dovuto al ruolo centrale affidato dal naturalista inglese ai processi di
specializzazione fun- zionale. di divisione del lavoro e di competizione
biotica (all’interno di una specie e tra specie diverse). in ambienti saturi di
esseri viventi che concor- rono per le risorse e per lo spazio (il principio
dei “cunei): un continuo 136 Anatomia di una rivoluzione movimento per restare
al passo dell’ambiente e dei propri simili, come in- segna la Regina Rossa di
Lewis Carroll. Ne discende la possibilità di pre- figurare l'evoluzione come un
successo differenziale di specie “più progre- dite”, con un “miglioramento”
costante nell’organizzazione delle forme di vita più recenti e vittoriose.
Quindi le forme moderne, se messe in compe- tizione con le forme più antiche,
dovrebbero sempre prevalere (p. 420). Ma poi subentrano subito le cautele:
questo presunto progresso su larga scala è solo una “sensazione vaga e mal
definita”, e in ogni caso non vi è “alcun modo per verificare questo tipo di
processo” (p. 148). La superiori- tà delle forme moderne è solo un'ipotesi,
difficilmente verificabile persino tra specie della stessa famiglia: I
documenti geologici, sempre imperfetti, non risalgono abbastanza indietro per
poter stabilire con assoluta chiarezza se, entro i limiti della storia cono-
sciuta del mondo, l’organizzazione abbia subito avanzamenti su larga scala. (p.
420)* Non resta che concludere: “Stabilire se l’organizzazione nel suo insieme
sia avanzata è questione in ogni modo eccessivamente intricata” (p.421)*.
L’avanzamento nell’organizzazione (Darwin non usa frequentemente il termine
progress) in definitiva è una possibilità, non una condizione neces- saria.
Anche in questo caso, si tratta di uno schema possibile, più o meno frequente nella
documentazione evoluzionistica, e non di una legge univer- sale di natura. La
selezione naturale non obbliga al progresso: ‘non esige che gli organismi,
arrivati a uno stadio determinato, debbano ulteriormen- te progredire” (p.
420). Ecco perché Darwin, quando descrive in OdS la selezione naturale, in-
troduce spesso l’avverbio “metaforicamente”. Il nostro è un linguaggio te-
leologico e antropomorfico, spia a sua volta di vincoli cognitivi profondi, che
mal si attaglia al funzionamento della selezione. Possiamo concedere a esso
spazio per farci comprendere, come quando diciamo (con Daniel Den- nett e
altri) che l'evoluzione è un processo di “ricerca e sviluppo” su larga scala o
“progetto senza progettista”, purché sia chiaro che ne facciamo un uso metaforico
e potenzialmente fuorviante. La selezione non è un'entità che agisce,
perfeziona. progetta. È un complesso di processi contingenti e non direzionati,
ma capaci di sospingere l'evoluzione lungo percorsi che in alcuni casi portano
a esiti di stupefacente e ammirevole (con occhi umani) complessità strutturale.
e in altri a una durevole. malleabile e resistentissi- ma semplicità. It
complesso delle prove empiriche 137 “Selezione naturale”, “sopravvivenza del
più adatto” o “conservazione naturale”? “Adattamento” o “ingegnosità”?
“Evoluzione”, “discendenza con modificazioni” o “trasmutazione”? Come nota
giustamente Janet Browne, “Darwin doveva lottare continuamente con il suo
vocabolario. La lingua di cui disponeva era quella di Milton e di Shakespeare
imbevuta di teleologia, non l’obiettiva, concreta terminologia richiesta dalla
scienza” (2006, trad. it. 2007, p. 79). 139 V DALL’ORIGINE DELLE SPECIE A OGGI:
IL PLURALISMO DARWINIANO Il programma di ricerca darwiniano ha ricevuto, nel
secolo e mezzo che ci separa dalla pubblicazione di OdS, conferme sperimentali
provenienti da tut- te le scienze della vita ed è oggi la pietra angolare del
pensiero biologico. OdS è stato a pieno titolo “uno dei principali artefici
della trasformazione del pen- siero occidentale” (Browne, 2006, ed. it. cit. p.
153). Il libro ha superato la prova del tempo come raramente accade per altri
saggi scientifici. Il nocciolo esplicativo darwiniano — per quanto aggiornato,
rivisto ed esteso — può essere considerato un’acquisizione scientifica
corroborata oltre ogni ragionevole dubbio. Ciò è avvenuto anche se, come
abbiamo visto nel terzo capitolo, Dar- win non aveva le idee chiare sulle cause
della variazione e sui meccanismi dell’ereditarietà, l’altro lato del suo lungo
ragionamento che si ricomporrà so- lamente negli anni trenta del Novecento con
la genetica di popolazioni. Le evidenze a favore non sono oggi più soltanto di
tipo paleontologico- storico e anatomico-comparativo, ma anche di tipo
molecolare e sperimen- tale. L'evoluzione si vede nei fossili, lungo i milioni
di anni, e nelle miglia- ia di generazioni di batteri osservabili in un mese in
laboratorio. Naturalmente, come ogni programma di ricerca scientifico in
espansione, ha dovuto affrontare riforme profonde a causa del vastissimo e
radicale ar- ricchimento della sua base empirica, in particolare nei campi
della geneti- ca, della biologia dello sviluppo e dell’ecologia. A tal
proposito è importan- te notare che, rispetto ad alcuni “indurimenti” teorici a
senso unico degli cpigoni novecenteschi, l'originale formulazione della teoria
darwiniana in OdS presenta un particolare pluralismo esplicativo su base
probabilistica che si rivela oggi di forte attualità. 1. La selezione:
principale, ma non unica, causa dell'evoluzione Darwin non usa mai argomenti di
esclusività. nemmeno per la selezione naturale, preferendo affidare le sue
spiegazioni a una miscela di schemi plurali e valutando poi caso per caso la
frequenza relativa di un modello 140 Anatomia di una rivoluzione esplicativo rispetto
a un altro. È una metodologia di notevole modernità, oggi divenuta prevalente
dopo ripetuti tentativi di cristallizzare la teoria evoluzionistica attorno a
pochi principi forti. L'introduzione di OdS si con- clude con un’affermazione
particolarmente sentita (dato che è ripetuta più volte anche nella
corrispondenza privata) e per certi aspetti sorprendente, secondo la quale: “la
selezione naturale è stata il più importante, ma non l’esclusivo mezzo della
modificazione” (p. 81)* (rhe most important, but not the exclusive, means of
modification). Nella sesta e ultima edizione del 1872, appena terminata la
sintesi fina- le della sua teoria nelle conclusioni, Darwin aggiunge una dura
risposta a quei critici che lo avevano accusato di sottovalutare il ruolo di
variazioni che in natura sopravvivono indipendentemente dalla selezione
naturale. Così ripete a dodici anni di distanza la non esclusività della
selezione: Sembra che io abbia in precedenza sottovalutato la frequenza e il
valore di queste ultime forme di variazione, come conducenti a permanenti
modificazio- ni della struttura indipendentemente dalla selezione naturale. Ma
poiché le mie conclusioni sono state di recente molto travisate, e si è
affermato che io at- tribuisco la modificazione delle specie esclusivamente
alla selezione naturale, mi si permetterà di far notare che nella prima
edizione di quest'opera e succes- sivamente ho posto nella posizione più
evidente — cioè alla fine dell'introduzio- ne — le seguenti parole: “Sono
convinto che la selezione naturale è stata il più importante, ma non
l'esclusivo mezzo della modificazione”. Ciò non ha valso. Grande è il potere di
un interpretazione pertinacemente erronea (steady misre- presentation); ma la
storia della scienza dimostra che fortunatamente tale for- za non persiste a
lungo. (p. 545)* Darwin insistette molto sulla priorità causale ma anche sulla
non esclusi- vità della selezione naturale, non soltanto per ragioni di
prudenza metodo- logica ma anche perché la spiegazione evoluzionistica a suo avviso
richie- deva schemi plurali, ciascuno con una propria importanza e frequenza
relativa. Le ragioni della non esclusività della selezione naturale sono state
lungamente sottostimate. ma oggi appaiono centrali sia per capire l'impian- to
darwiniano sia per interpretare la biologia evoluzionistica contempora- nea. In
quella non esclusività (posta circolarmente in OdS nell’introduzione e nella
conclusione) si condensa infatti il nucleo bipartito del programma di ricerca
darwiniano: selezione naturale e discendenza comune. In alcuni casi. come
quello della sterilità dei primi incroci e degli ibridi tra due specie
distinte. abbiamo visto che Darwin semplicemente rinuncia alla selezione
naturale come causa. perché non ci sono i presupposti del suo funzionamento (un
vantaggio diretto individuale o indiretto per la comuni- tà). Quei caratteri
sono sorti come effetti collaterali casuali di moditicazio- Dall’origine delle
specie a oggi: il pluralismo darwiniano 141 ni avvenute altrove, nei sistemi
riproduttivi. In altre circostanze Darwin sembra però incline ad ammettere che
esistano veri e propri “principi indi- pendenti dalla selezione naturale” (p.
354), cioè modalità alternative di fis- sazione dei tratti. Le “altre cause”
alle quali sta pensando sono principalmente tre (Sober, 2011, pp. 19-21). In
primo luogo, come abbiamo visto, in talune circostan- ze può valere per Darwin
il meccanismo dell’uso e del disuso, con eredita- rietà successiva (in alcuni
casi lamarckiana, in altri per selezione naturale): “il non uso delle parti ne
determina la riduzione, e il risultato è ereditario” (p. 522). In secondo
luogo, è assai frequente il mantenimento, nei discen- denti, di tratti
ancestrali non più adattativi o persino disadattativi, come una sorta di
inerzia evolutiva o “influenza ancestrale”, riscontrabile per esem- pio in
strutture rudimentali rimaste come vestigia del passato (nella specie umana, le
ossa “caudali” in fondo alla colonna vertebrale e molti altri) (p. 521). Anche
la migrazione, per esempio su un'isola, può generare strutture non adattative,
perché tratti un tempo utili smettono di esserlo e non ven- gono rapidamente
dismessi: i semi uncinati di alcune piante insulari (senza più la pelliccia di
alcun quadrupede per trasportarli) o “le ali rudimentali sotto le elitre
saldate di molti coleotteri insulari” (p. 466). In terzo luogo — ed è forse la
causa alternativa più importante del cambiamento per Darwin dopo la selezione
naturale — gli organismi sono pieni di strutture inutili frutto della
correlazione con caratteri adattativi, i quali hanno trascinato con sé effetti
collaterali neutrali rispetto alla selezione o talvolta persino deleteri. La
selezione dunque non è l’unica causa di evoluzione, il che significa peraltro
che non è onnipotente: tollera non soltanto altri meccanismi causa- li, ma
anche la presenza di frequenti caratteri non adattativi, di inerzie, di
ridondanze. Già nel capitolo secondo Darwin definiva le “variazioni disor-
dinate” nei generi polimorfici, in particolare nei brachiopodi, come “né uti- li
né dannose alle specie” (p. 116) e dunque bellamente ignorate dalla sele- zione
naturale. Le correlazioni strutturali mostrano anche un altro fatto ri-
levante, che abbiamo già sottolineato: per Darwin gli esseri viventi non sono
collezioni di tratti distinti, divisibili in unità separate come lo sono le
molecole in atomi. L'azione graduale della selezione naturale su una parte
dell'organismo si ripercuote sulle altre. producendo effetti sistemici che al-
terano l’organizzazione complessiva dell'organismo. A volte in OdS troviamo
passi in cui a questi processi non selettivi vie- ne assegnata una tale
importanza da mettere in dubbio persino l'idea che la selezione sia la
principale causa del cambiamento. In realtà. la priorità esplicativa della
selezione si basa sull'impianto teorico prevalentemente 142 Anatomia di una
rivoluzione funzionalista di Darwin: i meccanismi selettivi sono quelli che
spiegano con maggiore frequenza l’evoluzione di un tratto nelle popolazioni
biolo- giche (dunque è il pattern con maggiore frequenza riscontrata,
osservazio- ne valida ancora oggi); la selezione è anche più potente e
pervasiva, rispet- to alle altre cause, nel fissare i tratti adattativi
principali degli organismi (negli organi di senso, di movimento e di
comunicazione, nelle strategie predatorie e antipredatorie, e così via);
infine, i meccanismi non selettivi come l’influenza ancestrale spiegano più che
altro il mantenimento di cer- ti caratteri e non il loro effettivo cambiamento
(che è il precipuo explanan- dum evoluzionistico). 2. La classificazione
genealogica e il “principio di Darwin” Esiste però un’altra ragione che rende i
caratteri non adattativi così im- portanti in Darwin: essi garantiscono al
sistematico le evidenze necessarie per desumere la discendenza comune tra
specie diverse nell’albero della vita. I tratti adattativi, spiega Darwin
ribadendo la differenza tra analogie e omologie, producono somiglianze anche
tra animali non strettamente im- parentati, a causa del fatto che devono
sopravvivere in condizioni di esi- stenza similari, e dunque falsano le
classificazioni. Le analogie adattative (“caratteri analogici o adattativi”,
adaprive or analogical characters) sono somiglianze esteriori che ingannano: Si
potrebbe pensare (e si pensava un tempo) che quelle parti della struttura che
determinarono le abitudini di vita e il posto generale di ogni essere nell’e-
conomia della natura debbano avere grande importanza nella classificazione.
Niente di più falso. Nessuno considera di qualche importanza la somiglianza
esterna di un topo con un toporagno; di un dugongo con una balena, di una ba-
lena con un pesce. (p. 483) Il concetto appena enunciato, che Elliott Sober ha
definito “Darwin’s Principle” (2011. p. 25), gode della massima universalità. è
una regola ge- nerale: Si può anche considerare come una regola generale il
fatto secondo cui quanto meno una parte dell'organizzazione riguarda
particolari abitudini, tanto più è importante dal punto di vista della
classificazione. NE; Si è già detto che sono proprio le omologie di caratteri
non adattativi — come le vestigia. gli organi rudimentali e atrofizzati. i
tratti correlati, le so- Dall’origine delle specie a oggi: il pluralismo
darwiniano 143 miglianze embriologiche, certe vicinanze biogeografiche — a
fornire le pro- ve della discendenza comune, come mostrerà anche Ernst Haeckel
in quegli anni nella sua “Morfologia generale” (p. 501). Sembra un parados- so,
ma è esattamente ciò che sfugge alla selezione naturale a indicare le vere
affinità in natura (p. 484). Per la classificazione sono importanti ‘i ca-
ratteri insignificanti”, o ancor meglio un insieme correlato di caratteri insi-
gnificanti (p. 485). La ragione della loro importanza sta nel fatto che è mol-
to più probabile che essi siano stati ereditati da un comune progenitore e che
dunque svelino reali parentele. Qui notiamo ancora una volta un aspetto
cruciale della teoria darwinia- na: selezione naturale e discendenza comune
sono logicamente indipen- denti. Addirittura, empiricamente antagoniste in
questo caso: succede in- fatti che proprio il carattere non selettivo di un
tratto morfologico lo renda un’evidenza forte per provare la discendenza
comune. È la persistenza di tratti non adattativi nelle linee di discendenza a
svelare una storia comune. Dove al contrario la selezione naturale è più
potente troviamo somiglianze adattative (per esempio tra il sonar dei
pipistrelli e il sonar dei guaciari su- damericani) che sono spesso
indipendenti dal grado di parentela fra due specie (in questo caso un mammifero
e un uccello). È a questo punto che Darwin reinterpreta radicalmente, nel
capitolo quattordicesimo, il significato della classificazione linneana. La
struttura gerarchica delle affinità tra gli esseri viventi (il “grande fatto
della subordi - nazione naturale degli esseri viventi in gruppi e sottogruppi”
— p. 482) non è puramente arbitraria, “come il raggruppamento delle stelle in
costellazio- ni” (p. 481) o come i vari sistemi quinari, quaternari e altri
proposti (p. 494). Non è neppure una catalogazione di essenze senza tempo,
definite una volta per tutte: L'esistenza di gruppi avrebbe avuto un
significato molto semplice, se ci fos- se stato un gruppo atto esclusivamente a
vivere sulla terra, e un altro nell’ac- qua; uno a cibarsi di carne, un altro
di sostanza vegetale, e così via; ma la re- altà è del tutto diversa: infatti è
noto come comunemente membri anche dello stesso gruppo hanno abitudini
differenti. (p.481) Anche una terza interpretazione è però esclusa da Darwin: e
cioè che la classificazione sia una descrizione formale delle affinità tra
gruppi di spe- cie, ottenuta individuando i caratteri comuni (come si fa con i
minerali o con le sostanze elementari — p. 481). Il “sistema naturale” non è
soltanto uno schema di raggruppamento di somiglianze.utilizzato per dirci che
cosa anno in comune i mammiferi. e poi solo i carnivori, e poi solo il cane:
144 Anatomia di una rivoluzione Ma molti naturalisti pensano che il termine
Sistema Naturale significhi qualcosa di più; essi credono che riveli il piano
del Creatore, ma, a meno che non si specifichi che per “piano del Creatore” si
intende l'ordine nel tempo o nello spazio, o entrambi, o qualche altra cosa,
sembra a me che nulla esso ag- giunga alle nostre cognizioni. (p. 483) Quando
Linneo scrive che non sono i caratteri a fare il genere, ma è il ge- nere a
fare i caratteri, sta rivelando qualcosa di fondamentale, “un legame più
profondo della semplice somiglianza” (p. 483). Questo legame profondo che tiene
insieme le classificazioni inclusive è la “comunanza di discendenza”. Ora
Darwin ha gioco facile nel ricordare che le varietà sono specie incipien- ti,
che le specie vanno a occupare “il maggior numero possibile di luoghi dif-
ferenti nell’economia della natura” (p. 481), che il principio di divergenza
tende a separare i loro caratteri. Basta dunque rileggere il diagramma ramifi-
cato alla fine del capitolo quarto (richiamato a p. 482)? per rendersi conto
che è proprio “la successione genealogica” a spiegare la classificazione
inclusiva in generi, sottofamiglie, famiglie, ordini, classi, cioè gruppi
tassonomici su- bordinati a (oggi diremmo: inclusi in) altri gruppi sempre più
ampi. Nel si- stema naturale non vi è alcun “ignoto piano di creazione” né un
semplice “schema per enunciare proposizioni generali” di somiglianza: “il
sistema na- turale non essendo altro che un ordinamento genealogico” (p. 487).
Ecco perché i caratteri più diagnostici per operare buone classificazioni sono
quelli non adattativi: derivano da un antenato comune e rivelano rea- li
affinità genealogiche. Sono le spie del “legame nascosto che i naturalisti sono
andati inconsciamente cercando” (p. 488). Non ci interessa affatto che un
carattere sia trascurabile, ... ma se prevale in molte e diverse specie, e
specialmente in quelle che hanno abitudini molto diverse di vita, esso assume
grande valore; infatti non possiamo spiegare la sua presenza in tante forme con
abitudini tanto diverse, se non con l'eredità da un comune progenitore. (p.491)
Se poi numerosi caratteri trascurabili sono associati in un gruppo di spe- cie
con abitudini differenti allora possiamo essere certi che derivino da un I
Darwin sostiene a più riprese che i naturalisti precedenti già usavano,
inconscia- mente, un criterio genealogico, che tuttavia non era esplicitato
come collante del “sistema naturale” (p. 524). Si noti che l'unico diagramma di
OdS vicne richiamato nei capitoli successivi in due occasioni cruciali: nel
capitolo undicesimo, per tratteggiare il grande scenario della discendenza
comune a livello paleontologico: nel capitolo quattordicesimo, per rileggere
l'opera di Linneo in chiave evoluzionistica mm Dall'origine delle specie a
oggi: il pluralismo darwiniano 145 antenato comune. I tratti di scarsa
importanza tradiscono un legame e han- no il massimo valore classificatorio, in
particolare quelli embriologici (nel- le conclusioni Darwin ribadisce il suo
principio, a p. 543): Possiamo dire che la natura si è sforzata di rivelare per
mezzo di organi ru- dimentali, di strutture embrionali e omologhe, il suo
schema di modificazione, ma noi siamo troppo ciechi per comprenderne il
significato. (p. 544) Detto in altri termini: il fatto che vi sia un tratto
adattativo in comune tra due specie spesso dice poco sulla loro parentela;
viceversa, se il tratto non è adattativo abbiamo molte più probabilità di
trarre spesso informazioni utili sulla loro discendenza comune. La clausola di
frequenza, “spesso”, non va mai tralasciata. Darwin stesso avverte che anche le
classificazioni risentono dell’irregolarità dei percorsi evolutivi, oltre che
di difficoltà spe- cifiche come quelle di individuare le differenze tra i sessi
(può capitare di catalogare come specie diverse quelli che in realtà sono
individui dei due sessi all’interno della stessa specie) o tra gli stadi
larvali e l'adulto di uno stesso animale. È spesso difficilissimo “sbrogliare
l’inestricabile matassa delle affinità fra i membri di una classe” (p. 501)?.
Soprattutto, due rami dell’albero della vita possono differire grandemente
nonostante abbiano lo stesso grado di parentela rispetto a un comune
progenitore, perché i gruppi divergono con ritmi e modi differenti. Si può
dunque incorrere nell’errore di considerarli meno strettamente imparentati di
quanto in realtà siano. Bi- sogna valutare caso per caso i gradi di differenza
e inserire gli organismi nelle categorie tassonomiche, considerando il
carattere convenzionale di queste ultime (per esempio tra varietà, specie e
generi). Già dalla prima edizione del 1859 Darwin illustra questa metodologia
con uno splendido esempio tratto dalla linguistica, che merita di essere citato
per esteso: Vale la pena di illustrare questa visione della classificazione con
l'esempio delle lingue. Se possedessimo una perfetta genealogia dell'umanità,
una dispo- sizione genealogica delle razze dell'uomo offrirebbe la migliore
classificazio- ne delle varie lingue che oggi si parlano nel mondo; e se tutte
le lingue estinte, e tutti i dialetti intermedi e lentamente mutevoli vi
fossero inclusi, una tale si- stemazione sarebbe l’unica possibile*. Tuttavia
potrebbe darsi che alcune lin- gue antiche si fossero alterate assai poco e
avessero dato origine a poche lin- 3 È qui che Darwin. nella quinta edizione,
affida a Haeckel c alla sua “filogenesi” il compito di fondare le
classificazioni del futuro (p. 501). 4 La modernità di questa visione
genealogica delle parentele linguistiche, legata alla formazione dello schema
di discendenza delle popolazioni umane a partire da un ceppo comune, è stata
sottolincata dal genetista Luigi Luca Cavalli Sforza, che 146 Anatomia di una
rivoluzione gue nuove, mentre altre si fossero alterate considerevolmente a
causa della diffusione, dell’isolamento, e delle condizioni di civiltà delle
diverse razze tut- te discendenti dallo stesso ceppo, e avessero in tal modo
dato origine a molti nuovi dialetti e lingue. I vari gradi di differenza fra le
lingue dello stesso cep- po sarebbero espressi da gruppi subordinati ad altri
gruppi; ma la sistemazio- ne appropriata, anzi la sola possibile, sarebbe
ancora sempre quella genealo- gica, che sarebbe altresì rigorosamente naturale,
in quanto collegherebbe fra loro tutte le lingue, estinte e recenti, mediante
le più strette affinità, e ci dareb- be la filiazione e l'origine di ogni
lingua. (p. 489)* Pur con le irregolarità provocate dai differenti modi e tempi
di diver- genza, la classificazione più “naturale” è dunque quella genealogica.
Dato che la spiegazione evoluzionistica è di tipo probabilistico, il “prin-
cipio di Darwin” presenta oggi però alcune eccezioni significative (So- ber, 2011).
Vi sono caratteri neutrali o disadattativi, fissatisi casualmente nelle
popolazioni biologiche per deriva genetica, che a lungo andare non danno più
alcuna informazione sulla discendenza comune. Lo stesso vale per caratteri
neutrali che sono effetti collaterali di tratti adattativi (come il colore del
sangue rispetto alla sua composizione): né gli uni né gli altri forniscono
evidenze di antenati comuni. Viceversa, alcune caratteristiche adattative sono
strettamente legate alla discendenza comune: per esem- pio quando numerosi
adattamenti, indipendenti l’uno dall’altro, sono presenti tutti insieme in due
specie (improbabile che siano tutte conver- genze adattative parallele; Darwin
sfiora questo concetto a p. 493 quan- do nota che le somiglianze tra specie
dello stesso gruppo, come gli arti a forma di pinna fra le balene, possono
rivelare reali affinità); oppure quando due popolazioni si trovano sullo stesso
picco adattativo fra molti possibili (più probabile che il loro antenato comune
già fosse lì); o anco- ra quando la presenza di un adattamento dipende dalla
sua frequenza ini- ziale nella popolazione. In tutti questi casi, la selezione
naturale offre evidenze per la discendenza comune. Come vedremo tra poco, vale
an- che il reciproco: la discendenza comune fornisce spesso la cornice di ri-
ferimento entro la quale verificare ipotesi riguardanti l’azione della sele-
zione naturale. In generale l’eccezione vale quando più specie hanno condiviso
all’ini- zio un loro adattamento congelato”, pur in presenza di molte altre
struttu- re adattative possibili: la selezione naturale successivamente lo
stabilizza, perché discostarsi da esso diventa costoso e disadattativo. La
storia natura- ha lungamente lavorato proprio sul parallelismo tra l'albero dei
popoli e l'albero delle lingue (Cavalli Sforza. 1996) Dall'origine delle specie
a oggi: il pluralismo darwiniano 147 le ha quindi fissato un vincolo che
canalizza i percorsi successivi. In tal caso un tratto adattativo “inerziale”
condiviso da più specie è prova di di- scendenza comune. Proprio questa è la
ragione per cui tutti gli esseri viven- ti sulla Terra condividono un codice
genetico quasi universale (quello che Francis Crick ha definito un “accidente
congelato”). 3. Il problema degli stadi incipienti Questo approccio
probabilistico e flessibile si applica, in Darwin, in mi- sura diversa: ai
ritmi del cambiamento, ai processi di speciazione, alle uni- tà di evoluzione,
e soprattutto all’intreccio di fattori funzionali e strutturali nel definire
l'adattamento. È questa la matrice originaria di quel “plurali- smo darwiniano”
che ad avviso di Stephen J. Gould rappresenterebbe an- cora oggi,
opportunamente declinato nei linguaggi tecnici della scienza contemporanea, il
modo più corretto di intendere la struttura della teoria dell’evoluzione
(Gould, 2002). Qui sta anche la ragione dell’utilizzo, in questa sede, non
dell'edizione originaria del 1859 ma della sesta e ultima edizione di OdS del
1872. Que- sta trabocca sì, come le precedenti, di descrizioni di “finissimi adattamen-
ti” e di co-adattamenti fra gli organismi, ma presenta altresì una novità te-
orica importante. Il mondo naturale è pieno di stupefacente complessità, poiché
la selezione è in grado di agire sulle più minute “sfumature di diffe- renze”
nelle strutture e nei comportamenti: ‘“l’impronta di un’arte” analo- ga, ma di
gran lunga superiore, a quella degli allevatori. Tuttavia, il concet- to
pre-evoluzionistico, e di etimologia tendenzialmente teleologica, di
“ad-attamento” (una forma mirabilmente “atta a” svolgere una funzione)
nascondeva un’insidia teorica, che preoccupava Darwin a tal punto da in- durlo
ad aggiungere nel 1872 l’equivalente di quasi due interi capitoli solo per
questa ragione. Incalzato sia dai critici sia da chi cercava improbabili compatibilità
con la teleologia, Darwin tra il 1859 e il 1872 è alle prese con un problema
te- orico fondamentale. L'adattamento funzionale è il fenomeno centrale
dell’evoluzione. segno tangibile dell’azione modellante della selezione, ma non
è quantificabile e va maneggiato con cura se non si vuol ricadere in
interpretazioni finalistiche tipiche della teologia naturale di William Paley.
che usava proprio l'adattamento come argomento principe a favore di un disegno
intenzionale in natura. È il primo di una serie di problemi aperti che
trapelando dalle righe di OdS illuminano dibattiti contemporanei. 148 Anatomia
di una rivoluzione Abbiamo appena visto, grazie al “principio di Darwin” circa
i rapporti tra discendenza comune e selezione naturale, che una concezione iper-
adattazionista della teoria darwiniana (come quella proposta, fra gli altri, da
Daniel Dennett) non solo rappresenta un’interpretazione fuorviante di quanto
scritto in OdS, ma è anche lontana dal suo nocciolo teorico portan- te. Ma il
concetto di ad-attamento presentava anche altri problemi spinosi. Per anni
Darwin si arrovellò nel tentativo di capire, in particolare, in che modo la
selezione naturale potesse render conto degli stadi incipienti di or- gani
utili e complessi (incipient stages of useful structures — p. 298), come un
occhio o un’ala, secondo la famosa obiezione dello zoologo, suo ex so-
stenitore, il cattolico St George J. Mivart (l’unico al quale Darwin non con-
cede l’onore delle armi nell’Autobiografia, accusandolo di malafede, ma al
quale dedica più pagine che a ogni altro avversario, in particolare nel capi-
tolo settimo, p. 274 e seguenti). Ne venne fuori con un'ipotesi continuista e
pluralista che oggi si è rive- lata vincente. Darwin comprese la delicatezza
della questione dell’adatta- mento (risalente, ricordiamo, alla sua prima
lettura entusiastica di Paley negli anni di studi a Cambridge) e concentrò il
suo impegno di osservatore sui particolari curiosi, sugli “espedienti” e su
quelle strutture evolutesi in modo bizzarro da forme ancestrali differenti. La
scoperta della straordina- ria ingegnosità della natura nel riciclare i
materiali organici disponibili di- verrà un tratto distintivo del naturalista
inglese, che nel suo studio analiti- co sulle orchidee del 1862 elencherà un’incredibile
varietà di espedienti (contrivances) elaborati da questi vegetali per attirare
su di sé gli insetti e garantire la fecondazione incrociata. Né mera casualità
né un disegno, scri- verà ad Asa Gray in quei mesi, ma pura contingenza
storica: è “un attacco al fianco del nemico”, cioè la teologia naturale di
Paley, con il suo uso fi- nalistico del concetto di adattamento. Il concetto di
“più adatto” era scivoloso e ambiguo anche perché sem- brava designare sia il
processo di graduale accomodamento alle circostan- ze ambientali per opera
della selezione naturale sia il prodotto provvisorio di tale processo, cioè il
singolo “tratto” adattativo. Mescolare processo e prodotto può ingenerare
confusioni. Inoltre, un’accezione troppo stringen- te di adattamento
progressivo rischiava di porre in contraddizione fra loro due principi
altrettanto indispensabili per la teoria dell'evoluzione: da una parte. la
continuità graduale del cambiamento. che si accumula di genera- zione in
generazione: dall'altra, la presenza costante e necessaria di una ra- gione
funzionale per ciascuna struttura di fase in fase. che sia “visibile” dalla
selezione e offra un “vantaggio”. per quanto infinitesimale. Dall’origine delle
specie a oggi: il pluralismo darwiniano 149 Com'è possibile infatti che
ingranaggi così sofisticati e delicati come quelli di un occhio possano essere
stati costruiti, passo dopo passo, dalla selezione naturale? A che cosa poteva
servire l’inizio di un occhio o il 5% di un’ala, visto che l’uno non permette
di vedere né l’altro di volare? Il 5% di una mimetizzazione non serve certo a
nascondere una preda al suo pre- datore. Era forse necessario rinunciare alla
gradualità ipotizzando che que- sti adattamenti si fossero sviluppati tutti
d'un colpo, a causa di una forza in- terna o seguendo certi piani strutturali
prefissati (di tipo ortogenetico), come pensava Mivart? Oppure immaginare che
la natura fin dall’inizio vo- lesse costruirli proprio in quel modo in vista
della loro utilità futura, rein- troducendo così surrettiziamente le cause
finali nell’evoluzione? 4. Perfezionamento graduale: le prima soluzione
darwiniana alla “maggiore difficoltà di tutta la mia teoria” Si trattava di due
risposte egualmente inaccettabili per lo scopritore della selezione naturale.
La prima negherebbe la continuità e la gradualità del cambiamento evolutivo
(ipotesi “improbabile al massimo grado” — p. 301). La seconda il suo carattere
non teleologico. Nel capitolo sesto di OdS, intito- lato “Difficoltà della
teoria”5, Darwin nel 1872 isola un intero paragrafo su- gli “organi di estrema
perfezione e complicazione”’(organs of estreme perfec- tion and complication),
nel quale ammette onestamente il problema, per poi tornarci lungamente nel
capitolo settimo. Come farà notare nuovamente il paleontologo statunitense
Edward D. Cope nel 1887, la selezione naturale sembra incapace di render conto
dell’evoluzione degli stadi incipienti di strutture particolarmente elaborate,
dove molte parti devono interagire fra loro in un’“organizzazione” e dove la mancanza
di un componente rischia di far fallire qualsiasi vantaggio adattativo. Come
può aver inizio quel magnifi- co mimetismo che porta alcuni insetti ad
assomigliare perfettamente a un ra- metto, a una foglia o all’escremento di un
uccello? $ PerDarwinsitratta di obiezioni gravi, ma non in grado di inficiare
la sua architet- tura teorica: “Alcune sono così serie che non posso ancor oggi
riflettervi senza ri- maner colpito dalla loro importanza; ma esse, per quanto
mi è dato di giudicare, in massima parte sono soltanto apparenti e quelle
fondate ritengo che non siano fatali alla mia teoria" (p. 227). Alle fine
del capitolo settimo, in un passo aggiui to nella sesta edizione, conclude che
tali obiezioni gli hanno permesso di definire meglio alcuni aspetti della sua
teoria (in particolare, il cambiamento di funzione di strutture utili.
attraverso gradazioni intermedie), ma che in definitiva esse non minacciano la
solidità del suo impianto esplicativo (p. 298). 150 Anatomia di una rivoluzione
Che questa potesse essere “la maggiore difficoltà di tutta la mia teoria” —
cioè spiegare come la selezione avesse trasformato le strutture organizza- te
“conservando le relazioni fra le loro parti” — il naturalista inglese lo ave-
va peraltro già scritto, abbiamo visto, nel Taccuino C del 1838. Quel passo in
OdS diventa: Supporre che l’occhio con tutti i suoi inimitabili congegni
(contrivances) per l'aggiustamento del fuoco a differenti distanze, per il
passaggio di diverse quantità di luce, e per la correzione dell’aberrazione
sferica e cromatica, pos- sa essersi formato per selezione naturale, sembra, lo
ammetto francamente, del tutto assurdo. (p. 239) Nel Taccuino E, riflettendo
sui “curiosi meccanismi di respirazione dei crostacei”, si era lasciato
attrarre da uno spunto contenuto nella “Storia na- turale dei crostacei” di
Henri Milne-Edwards del 1834, dove l’autore fa no- tare che in questi casi è
meglio non ipotizzare che “un organo nuovo sia stato introdotto ad hoc”, bensì
che un’appendice di formazione più antica sia stata “in parte deviata dalla sua
destinazione ordinaria e leggermente modificata nella sua conformazione per
divenire capace di adempiere alle sue nuove funzioni”. Milne-Edwards aveva
peraltro teorizzato una specia- lizzazione funzionale nella fisiologia degli
organismi che Darwin usò come modello per il suo principio di divergenza. Erano
dunque trascorsi decenni di meditazioni su questo punto e final- mente nel 1872
Darwin avanza in OdS alcune ipotesi esplicative, per la precisione tre, che si
riveleranno molto interessanti per quanto speculative fossero al suo tempo. La
prima spiegazione possibile è la più prevedibile ed è preceduta da ‘la ragione
mi dice che”. Dopo aver ammonito che il det- to “vox populi vox dei” non si
applica alla scienza, che è spesso controin- tuitiva, sostiene che la selezione
procede nella costruzione dell'organo at- traverso una lunga serie di
trasformazioni continue, di variazioni ereditarie e di stadi intermedi di
evoluzione, ciascuno dei quali utile a chi lo possie- de. Così si passa.
attraverso “numerose gradazioni”. da un occhio semplice e imperfetto a uno
complesso e perfetto. In uno dei passi più tormentati da Darwin nelle edizioni
successive, alla fine si arriva a questa formulazione nel 1872: La ragione mi
dice che se si può dimostrare l'esistenza di numerose gra- dazioni da un occhio
semplice e imperfetto a uno complesso e perfetto, essen- do ogni grado utile
per chi lo possiede, come è certamente il caso; che se inoltre l'occhio varia
sempre e le variazioni sono ereditarie, fatto altrettanto vero. e che se queste
variazioni sono utili a un animale in condizioni mutevo- Dall'origine delle
specie a oggi: il pluralismo darwiniano 151 li di vita, allora la difficoltà di
ammettere che un occhio perfetto e comples- so si formi per selezione naturale,
sebbene insuperabile per la nostra imma- ginazione, non deve essere considerata
come sovvertitrice della nostra teoria. (p. 239) Si notino le molteplici e
impegnative clausole che devono essere rispet- tate affinché il processo abbia
successo: le gradazioni devono essere (1) numerose, (2) ciascuna utile al
possessore, (3) in presenza di variabilità co- stante, (4) con variazioni
ereditarie, (5) a loro volta utili ai possessori. Solo in presenza di questi
cinque criteri la selezione naturale può funzionare e implementare gradualmente
una struttura funzionale. Si tratta in tal caso di un “perfezionamento”
(perfecting): da aggregati di cellule pigmentate a un nervo ottico circondato
da cellule pigmentate, poi l’avvolgimento con una membrana trasparente, quindi
una proto-lente, una cornea, e così via attra- verso una moltitudine di
esperimenti e di specie estinte. Rispondendo a un’obiezione che oggi prende il
nome di “complessità irriducibile” e che viene reiterata a un secolo e mezzo di
distanza dagli imperterriti sostenitori della dottrina antidarwiniana
dell’Intelligent De- sign®, Darwin precisa che è errato sostenere che queste
strutture articola- te e così ingegneristicamente sofisticate necessitino di
molti cambiamen- ti simultanei (p. 267): in presenza di modificazioni
“estremamente lievi e graduali” il processo selettivo può erigere meravigliosi
edifici di com- plessità in modo cumulativo, a partire dal basso, rimaneggiando
ora in un punto ora nell'altro le componenti dell’organizzazione (p. 241),
proprio come fanno gli allevatori. Il risultato, di volta in volta, non è mai
quello “assolutamente perfetto”: è quello possibile, e funzionale, date le
circo- stanze. Questa prima risposta è la più coerente rispetto al nucleo
bipolare dar- winiano composto da discendenza comune e selezione naturale.
Darwin infatti usa la discendenza comune per rispondere a questioni riguardanti
l’azione della selezione naturale (Sober, 2011, p. 36). Gli antenati in linea
retta degli organismi che oggi possiedono occhi complessi sono estinti, non
abbiamo la macchina del tempo e la paleontologia (sulla quale Dar- win è sempre
pessimista) ci offre dati frammentari e incompleti. Dobbia- mo quindi ricorrere
a un’altra fonte di evidenza, più sicura, cioè alla com- parazione con specie
viventi dello stesso gruppo e di altri gruppi, per osservare in che modo la
struttura oculare si sia trasformata a partire dal- le forme progenitrici: ©
Sia lecito rimandare al riguardo a: Pievani, 20062. 152 Anatomia di una rivoluzione
Nella ricerca delle gradazioni attraverso le quali un organo di una specie
qualsiasi è stato perfezionato, dovremmo considerare esclusivamente i suoi
progenitori diretti (lineal ancestors); ma difficilmente ciò è sempre
possibile, e siamo costretti a considerare altre specie e generi dello stesso
gruppo, cioè di- scendenti collaterali (collateral descendants) della stessa
forma progenitrice, per vedere quali sono le gradazioni possibili e quale la
probabilità che alcune di esse si siano trasmesse in condizioni inalterate o
lievemente alterate. Ma lo stato di uno stesso organo in classi distinte può
incidentalmente fare luce sui gradi che hanno portato alla perfezione. (p. 239)
È un altro passo rimaneggiato più volte da Darwin nelle sei edizioni. Grazie alla
discendenza comune possiamo allargare ulteriormente lo sguar- do, giacché le
caratteristiche degli occhi dei non vertebrati di oggi hanno buone probabilità
di fornire informazioni utili per inferire le caratteristiche dell’occhio
posseduto dall’antenato comune dei vertebrati attuali. Darwin sta ragionando in
termini di “cuginanza” nel grande albero della vita. I ver- tebrati sono un
sotto-insieme di animali che hanno sviluppato occhi com- plessi con una camera
interna, ma il principio di parsimonia suggerisce che siano ancora vivi
organismi che discendono da porzioni dell’albero della vita in cui non è
avvenuta questa modificazione. Se infatti un intero grup- po di specie possiede
lo stesso tratto, l’ipotesi più semplice è che quel trat- to fosse presente nel
loro antenato comune. In definitiva, le proprietà dei discendenti collaterali
permettono di fare inferenze sugli antenati diretti. Come si passa dunque da un
animale terrestre a uno acquatico? Attraver- so stadi di transizione, che sono
ancora oggi visibili in alcune specie (le po- che sopravvissute ai loro
successori). Darwin fa l'esempio del visone nor- damericano che ha abitudini
acquatiche d’estate e terricole d'inverno, con relativo mix di caratteri. Più
difficile obiettivamente spiegare “come un quadrupede insettivoro si sia potuto
trasformare in un pipistrello” (p. 233), ma il principio è lo stesso e queste
difficoltà empiriche hanno “scarso peso”. Laddove non si conoscano gradazioni
intermedie, come negli orga- ni elettrici dei pesci e negli organi luminosi
degli insetti (pp. 246-247), ma strutture simili sono comparse in specie non
strettamente affini, si può fa- cilmente concludere che si tratta di analogie
funzionali prodotte dalla sele- zione naturale. In ogni caso, “sarebbe
estremamente arduo sostenere che non siano possibili transizioni vantaggiose
attraverso le quali questi organi possono essersi gradualmente sviluppati” (p.
246). Un insetto stecco sarà stato preceduto da antenati con “somiglianze
grossolane e accidentali” a un ramo morto, è pur tuttavia vantaggiose per
sfuggire ai predatori (p. 280). Nello stesso modo (ma anche con l’aiuto
occasionale dell'abitudine, dell'uso e del disuso) si può capire per Darwin
l'evoluzione dello scoiat- Dall'origine delle specie a oggi: il pluralismo darwiniano
153 tolo volante, del lemure volante e dei pesci volanti, dei becchi per
filtra- re l’acqua, dei fanoni delle balene della Groenlandia (p. 281), della
coda prensile delle scimmie (ma non di Cercopithecus — p. 288), delle ghian-
dole mammarie nei mammiferi, o la stupefacente migrazione graduale degli occhi
sullo stesso lato del corpo nella sogliola e in altri pesci piatti (p. 286).
Gli animali per sopravvivere sperimentano, cambiano abitudini e strutture, o
entrambe le cose, prime le une e poi le altre o viceversa. A volte si
diversificano le abitudini, mentre le strutture permangono (uccel- li con piedi
palmati, divenuti nel frattempo terrestri, o viceversa). In uno dei suoi più
celebri esperimenti ideali (presente solo nella prima edizio- ne e poi tolto)
Darwin immagina che un orso bruno — avvistato realmen- te mentre si ciba di
insetti nuotando con la bocca spalancata “quasi come una balena” — in
determinate condizioni (molto tempo, riserva di insetti costante, nessun
competitore) possa gradatamente sviluppare per selezio- ne naturale tratti
sempre più acquatici fino ad assomigliare effettivamen- te a una balena (p.
236). L'adattamento è una strategia di sopravvivenza, momentaneamente di
successo: come soluzione “non è necessariamente la migliore possibile in tutte
le possibili condizioni” (p. 235), ma a lungo andare da un mammifero ancestrale
possono venir fuori una balena, un orso e un pipistrello. S. Cooptazione
funzionale: la seconda soluzione darwiniana alla “maggiore difficoltà di tutta
la mia teoria" Darwin, tuttavia, non sembra del tutto soddisfatto. Deve
salvare la con- tinuità del processo, l’idea che gli organi si formino
attraverso gradazioni transitorie. Nella prima risposta all’obiezione di
Mivart, l’utilità attuale (distinguere luce e ombra, vedere, orientarsi nello
spazio) e l’origine stori- ca coincidono, ma forse non è necessario che ciò
avvenga sempre. Quel che conta è che vi sia una continuità nel successo
riproduttivo differenzia- le. cioè nell’azione della selezione naturale sulle
popolazioni di organismi, c non tanto una continuità nella funzione assunta dal
singolo organo. Nella quarta edizione stacca un paragrafo nuovo. “Modi di
transizione”, dove enuclea una seconda soluzione. Un’ala allo stadio di abbozzo
potrebbe benissimo aver svolto una fun- zione diversa da quella del volo ed
essere stata quindi ‘“pre-adattata” (come si dirà nel Novecento), e non
direttamente adattata, al volo. Darwin illustra questa seconda ipotesi
ausiliare con l'esempio della vescica natatoria nei pesci: 154 Anatomia di una
rivoluzione L'esempio della vescica natatoria nei pesci è particolarmente
appropria- to, perché dimostra chiaramente un fatto molto importante: che un
organo originariamente costruito per uno scopo, cioè la funzione idrostatica,
può es- sere convertito in (converted into) un organo capace di una funzione
comple- tamente diversa, cioè la respirazione. La vescica natatoria in certi
pesci si è trasformata anche in un accessorio dell'organo dell'udito. Tutti i
fisiologi ammettono che la vescica natatoria è omologa, o “idealmente simile”,
per la posizione e la struttura, ai polmoni dei vertebrati superiori: perciò
non v'è ragione di dubitare che la vescica natatoria si sia realmente
trasformata nei polmoni, cioè in organi usati esclusivamente per la
respirazione. (pp. 243- 244)* L'utilità attuale di un carattere viene quindi
scissa dalla sua origine storica. Gli stadi incipienti di una struttura devono
aver portato un qual- che vantaggio riproduttivo ai loro possessori, che poi è
stato “convertito” Opportunisticamente in un beneficio differente al mutare
delle condizioni locali di specie in specie. È dunque possibile che gli stadi
primitivi e in- termedi di strutture attuali non avessero la funzione che poi
hanno assun- to”. Per passare dalla mera possibilità teorica di questa
conversione fun- zionale alla sua verifica effettiva nelle linee di discendenza
bisogna ricorrere alla discendenza comune e ad altri dati”. La riprova anche in
questo caso potrà venire per Darwin comparando specie attuali e inferen- do le
caratteristiche dell’antico prototipo” di tutti i vertebrati. Come suggeriscono
anche la vicinanza di esofago e trachea, e la comparsa di strutture simile alle
branchie nelle prime fasi dell’embriogenesi dei ver- tebrati terrestri: ... si può
concludere che tutti i vertebrati provvisti di veri polmoni discen- dono per
generazione ordinaria da un antico prototipo sconosciuto, provvisto di un
apparato idrostatico, 0 vescica natatoria. (p. 244) Questa seconda soluzione
viene seguita da un corollario non meno inte- ressante: se le funzioni
cambiano, significa che nell’evoluzione non è scon- tato che vi sia una stabile
corrispondenza “uno a uno” fra una struttura e una funzione. Meglio tollerare
una certa ridondanza. In certi casi (segue 7. Conil nome di “ex-aptation” (cioè
utile a partire da una struttura preesistente), questo concetto darwiniano di
cooptazione funzionale verrà ripreso e ampliato dai paleontologi Stephen J.
Gould ed Elisabeth Vrba in due saggi del 1982 e 1986. Si veda: Gould, Vrba,
2008. AR Sui problemidi applicazione della distinzione fra caratteri adattativi
e caratteri co- Optati, sia lecito rimandare a: Pievani. Serrelli. 2011
Dall'origine delle specie a oggi: il pluralismo darwiniano 155 elenco degli
esempi, dai pesci con doppia respirazione ai tre modi di arram- picarsi delle
piante), una singola funzione potrà essere svolta da più orga- ni, di modo che,
all’occorrenza, uno di questi possa essere “cooptato” e specializzato per nuovi
utilizzi senza che la fitness complessiva dell’orga- nismo ne risenta: Due
organi distinti, o lo stesso organo in due forme molto diverse, possono
compiere contemporaneamente la stessa funzione nello stesso individuo, e que-
sto è un modo molto importante di transizione. ... In tali casi uno dei due
orga- ni potrebbe facilmente modificarsi e perfezionarsi in modo da compiere
tutto il lavoro, essendo aiutato durante il processo di modificazione
dall’altro organo; poi quest'altro organo potrebbe essere modificato per un
altro scopo del tutto differente (modified for some other and quite distinct
purpose), oppure scom- parire completamente. (p. 243)* Viceversa (segue elenco
di esempi, dalla libellula a un pesce, a certe piante), un singolo organo potrà
espletare più funzioni, alcune soltanto marginali, ma pronte per essere
“reclutate” all’occasione: In tali casi la selezione naturale potrebbe
specializzare per una sola funzio- ne, se qualche vantaggio fosse in tal modo
acquistato, un organo o una parte di un organo che in precedenza esplicava due
funzioni, così da modificare con- siderevolmente la sua natura attraverso gradi
insensibili. (p. 243) È chiaro infatti che la transizione di funzione, per
evitare buchi tempo- rali nel processo di selezione, deve prevedere
sovrapposizioni di utilità diverse: Nella famiglia delle anatre, le lamelle
furono dapprima usate come denti, poi in parte come denti e in parte come
apparato di filtrazione, e infine esclu- sivamente per quest'ultimo scopo. (p.
299) Dunque la natura in Darwin ha margini di “ridondanza”, come mostrano i
casi in cui “lo stesso scopo è raggiunto con i mezzi più diversi”: una “re-
gola generale in natura” veramente degna di attenzione, sottolinea (p. 250).
Anche quando descrive gli stupefacenti coadattamenti tra le orchidee e i loro
impollinatori (pp. 251-252), lo fa per mostrare gli straordinari “espe- dienti”
(contrivances, un termine che gli è molto caro e che ripete spesso) di cui sono
pieni i processi evolutivi. Regola generale della natura è “l’in- finita
diversità di struttura per raggiungere lo stesso scopo” (p. 263). La ri-
dondanza si accompagna alle inerzie ereditate, come i piedi palmati dell'o- ci
di montagna o della fregata: 156 Anatomia di una rivoluzione Organi che oggi
hanno una scarsa importanza sono probabilmente stati in alcuni di grande
importanza in un antico progenitore, e, dopo essersi lenta» mente perfezionati
in un periodo anteriore, si sono trasmessi quasi nello stes- so stato alle
specie esistenti, pur essendo attualmente di utilità molto limitata; ma
qualsiasi deviazione, effettivamente dannosa nelle loro strutture, sarebbe
stata naturalmente impedita dalla selezione naturale. (p. 254) Ciò vale anche
per tutti i caratteri omologhi ereditati, che non sono di particolare utilità
per i loro portatori, come “le ossa similari del braccio del- la scimmia, della
zampa anteriore del cavallo, dell’ala del pipistrello, e del- la pinna della
foca” (p. 257). La ridondanza e le inerzie aprono possibilità per riutilizzi
ingegnosi: Una coda ben sviluppata, che si sia formata in un animale acquatico,
può in seguito essersi modificata per ogni sorta di usi, come scacciamosche,
come or- gano di presa, come ausilio per girarsi, come nel caso del cane,
sebbene l’au- silio in quest’ultimo caso deve essere minimo poiché la lepre,
che è quasi pri- va di coda, si può girare ancora più rapidamente. (ibid.) È
grazie a questo argomento delle artigianali contrivances che Darwin cerca di
difendere una spiegazione continuativa e graduata della formazio- ne di organi
di estrema (apparente) perfezione. Anche il pungiglione dell’a- pe, abbiamo
visto, è per Darwin il frutto di una cooptazione funzionale, con vantaggio
finale per la comunità e non per il singolo (p. 261). Il pipistrello si sarà
formato per selezione naturale ‘da un animale che dapprima era ca- pace
soltanto di volo planato” (p. 262). Dal volo planato al volo battuto, è la
continuità che Darwin vuole salvaguardare, attraverso i concetti di ri-
dondanza e di cooptazione funzionale?. Il capitolo settimo si conclude non a
caso con una tirata difensiva proprio su quella che Darwin nel 1872 defi- nisce
“la teoria dell'evoluzione graduale” (rheory of gradual evolution) (p. 302). La
natura non fa “salti improvvisi da una struttura ad un’altra”, come dovremmo
aspettarci sia dalla teoria delle creazioni separate sia dalle im- 9 Sul
principio di cooptazione funzionale Darwin discusse in quegli anni in partico-
lare con il biologo marino tedesco Anton Dohm, fondatore della Stazione Zoolo-
gica di Napoli, che Darwin tenne in grande considerazione e che finanziò perso-
nalmente. Fu Dohrn a suggerirgli che lo slittamento di funzione era un
principio evoluzionistico cruciale. Darwin nel 1872 riprende il tema alla fine
del capitolo settimo, definendo il fenomeno delle “gradations of structure
often associated with changed functions” come “an important subject” che “non
avevo trattato con ‘ampiezza sufficiente nelle precedenti edizioni di
quesUopera” (p. 298). Si veda la corrispondenza tra Darwin e Dohrm (ed. it.
1982). Dall'origine delle specie a oggi: il pluralismo darwiniano 157 provvise
trasformazioni interne ipotizzate da Mivart'°, ma attraversa nu- merosi
passaggi graduali: È vero che organi nuovi che sembrano essere stati creati per
qualche scopo speciale appaiono raramente o mai in qualsiasi essere; come in realtà
è dimo- strato da quel vecchio, e in qualche modo esagerato, canone della
storia natu- rale “Natura non facit saltum”. ... In base alla teoria della
selezione naturale possiamo chiaramente comprendere perché la natura non faccia
questo: infat- ti la selezione naturale agisce soltanto approfittando di lievi
variazioni succes- sive; essa non può mai fare un salto grande e improvviso, ma
deve avanzare a passi brevi e sicuri, benché lenti. (p. 253)* La situazione
ideale per Darwin è quella in cui si verificano due condi- zioni: a) tutte le
gradazioni della cooptazione funzionale sono vantaggiose; b) tutti o quasi i
possibili gradi intermedi fra la struttura di partenza e la struttura finale
sono ancora presenti e visibili nelle diverse specie soprav- vissute di una
classe. È il caso dei contenitori di polline nei fiori delle or- chidee, delle
chele dei crostacei (dove “tutte le gradazioni si possono effet- tivamente
rintracciare” — p. 292) o anche delle pedicellarie dei ricci di mare, delle
stelle marine e di altri echinodermi, che sono “aculei modifica- ti” con
funzioni successive e sovrapposte di difesa, di movimento e di prensione (un
elegante esempio aggiunto nella sesta edizione per risponde- re a un'obiezione
sempre di Mivart — pp. 290-291). Tuttavia, laddove non si abbiano dati così
completi sulle gradazioni (come avviene per lo più), “non ne consegue affatto
che tali stadi di modificazione non siano esistiti” (p. 292). Anche qui
l'assenza di prove non è prova di un’assenza. Dal legame teorico stretto fra
contrivances e gradualismo (nelle parole di Darwin: “gradazioni di strutture
spesso associate a cambiamenti di fun- zioni” — p. 298) si può comprendere come
sia infondato associare la coop- tazione funzionale o l’odierna exaptarion a
spiegazioni discontinuiste o ad- dirittura antidarwiniane (come troviamo fra
gli altri in Dennett, 1995). Si noti inoltre quella cautela, persino sul
gradualismo, che Darwin introduce dalla seconda edizione di OdS, definendo il
canone “Natura non facit sal- tum” come somewhat exaggerated. La citazione poco
sopra riportata è una di quelle maggiormente rimaneggiate da Darwin, a più
riprese, nelle sei 10. A proposito di quest’ultimo, Darwin conclude
sarcasticamente che le speculazio- ni da affastellare per dire che “una forma
antica si sia improvvisamente cambiata per una forza o tendenza interna” sono
talmente numerose, improbabili e assurde che ammettere tutto questo, come fa
Mivart, “equivale ad abbandonare il campo della Scienza per entrare in quello
del miracolo (rhe realms of miracle)” (p. 304). 158 Anatomia di una rivoluzione
edizioni di OdS. Incalzato dai dubbi di Huxley su questo punto, evidente- mente
è tormentato dall’estensione di validità del gradualismo e alla fine opta per
una clausola limitante, tipica del suo pluralismo teorico. Quel ca- none è
corretto (anzi “rigorosamente vero”, p. 264, poi ribadito a p. 337) e si
comprende grazie alla selezione naturale (p. 264), ma come ogni altro schema
darwiniano non va estremizzato"'. 6. Non tutto è adattamento: la terza
soluzione darwiniana alla “maggiore difficoltà di tutta la mia teoria” In
questa modificazione per altre funzioni, anche del tutto differenti, tor- na
sotto altra forma la dicotomia fondamentale fra “unità di tipo” interne e
“condizioni di esistenza” esterne. La selezione naturale non agisce dal nul-
la, ma a partire dal materiale esistente. Anche se a prevalere è sempre il
principio di utilità funzionale (p. 257), parti dell’organismo selezionate per
una certa funzione ancestrale vengono “riadattate”’ o cooptate per funzioni
nuove, eventualmente incrementando la loro complessità strutturale. Fin qui la
continuità funzionale è salva, perché è plausibile che la funzione an- cestrale
continui a essere soddisfatta anche quando la nuova funzione sta subentrando, e
poi prevalendo, in virtù di nuove pressioni selettive. L’ipo- tesi di Darwin è
quindi che sia fondamentale considerare la “probabilità di conversione da una
funzione in un’altra” (p. 244). un argomento della mas- 11 Si nota qui una
contraddizione nell'opera darwiniana, perché da un lato ambisce ‘apertamente a
trovare le “leggi naturali" alla base dell'evoluzione (fin dalla prima
citazione di Whewell in esergo), ma dall'altro pone condizioni limitanti a
tutte le possibili candidate a divenire tali “leggi”, inclusa la selezione
naturale e il gradua- lismo. Le leggi che Darwin propone non sembrano avere mai
validità universale (date certe condizioni) come le leggi della fisica. Si
tratta piuttosto di regolarità “simili a leggi” (lawlike, come le ha definite
Niles Eldredge) con un dominio di applicazione e di frequenza variabile, non
incompatibile con la presenza di rego- larità alternative. La spiegazione
darwiniana si fonda quindi su un insieme flessi- bile di patrern (fra i quali
la selezione naturale e il gradualismo spiccano come i più importanti, ma non
gli unici), ciascuno con una propria frequenza empirica, che rendono conto di
volta in volta della complessità dei fenomeni evolutivi. Que- sta duttilità
teorica è un'eredità ancora attuale dell’opera darwiniana, perché dopo molti
tentativi di irreggimentare la teoria dell'evoluzione entro un rigido quadro
assiomatico. il pluralismo darwiniano è tornato a essere per alcuni un
riferimento (Eldredge, 1995: Gould, 2002; Pievani, 2011b). Il problema aperto
sta nel defini re l'unitarietà della struttura complessiva del programma di
ricerca evoluzionisti coe la compatibilità dei differenti partern emersi
Dall’origine delle specie a oggi: il pluralismo darwiniano 159 sima importanza
che si accorge di non aver trattato con sufficiente ampiez- za nelle edizioni
precedenti di OdS (p. 298). Rispondendo in definitiva a Mivart, né il 5% né il
100% di un'ala si è evoluto “per” volare (come spesso sentiamo invece dire nei
racconti divul- gativi sull’evoluzione), e meno che meno la struttura alare è
comparsa all'improvviso pronta all’uso. È stata piuttosto convertita più volte
attra- verso ingegnosi e contingenti riusi, dalla termoregolazione al
bilanciamen- to della corsa, al volo planato, e da questo al volo battuto. La
funzione adat- tativa può però anche essere andata persa recentemente, come è
successo per tutti gli uccelli inetti al volo e per le loro ali atrofizzate,
dagli struzzi al cormorano nero delle Gal4pagos, ai pinguini. Il quadro delle
risposte alle obiezioni sembra completo, ma Darwin ha in serbo una terza
possibilità, che è emblematica del suo pluralismo esplicativo. È a questo punto
del capitolo sesto (e poi nel settimo) che subentra un terzo possibile scenario
esplicativo, più sorprendente perché non prevede in questo caso il
soddisfacimento continuo di una funzione adattativa. Di nuovo Darwin ricorre
all’albero della vita e ai discendenti collaterali per inferire proprietà degli
antenati comuni diretti. Capita infatti di pensare, scrive, che le suture del
cranio siano un ottimo adattamento per il parto nei mammiferi (favorendo esse
la flessibilità in uscita), e che si siano evolute come tali. Scopriamo però
che le suture sono presenti anche in rettili e uc- celli, i quali devono
soltanto uscire da un uovo rotto. Dunque un tratto, che ci sembrava adattativo,
è presente in molte specie che non ne fanno alcun uso. Come spiegarlo? Ci
rendiamo conto - prosegue Darwin — che quella caratteristica deve essersi prima
formata per ragioni legate alle “leggi del- la crescita” (laws of growth) e
solo in seguito è stata “ingaggiata” nei mam- miferi come adattamento
secondario per il parto: Le suture nel cranio dei giovani mammiferi sono state
prospettate come un bell'adattamento per facilitare il parto, e senza dubbio
esse l'agevolano, 0 pos- sono essere indispensabili per quest'atto; ma poiché
le suture si riscontrano anche nel cranio di giovani uccelli e rettili, che
hanno soltanto da uscire da un uovo rotto, possiamo inferire che questa
struttura è sorta dalle leggi della cre- scita ed è stata utilizzata per il
parto negli animali superiori. (p. 255)* Le suture quindi vengono prima dei
mammiferi e noi lo sappiamo per- ché le troviamo anche nei rettili e negli
uccelli attuali, cioè anche negli al- tri discendenti di quell’antico antenato
comune che evidentemente doveva già possedere le suture. Anche qui la
discendenza comune permette di fare ipotesi legate al carattere adattativo o
meno di una struttura. Darwin con- templa pertanto la possibilità che anche la
comparsa di un certo tratto pos- 160 Anatomia di una rivoluzione sa
frequentemente essere non adattativa, bensì dipendere da vincoli struttu- rali,
da effetti collaterali, dalle correlazioni di crescita e da tutte quelle
“variazioni che non sono né utili né nocive” (e proprio per questo attestano la
discendenza comune tra le specie). Anche il mimetismo degli insetti sarà
cominciato da una “accidentale somiglianza con qualche oggetto comune" (p.
298). La capacità di torsione delle piante rampicanti, alla quale si lega- no poi
la capacità di avvolgimento e la sensibilità al contatto (con gradazio- ni e
combinazioni diverse di pianta in pianta), potrebbe essersi evoluta “in-
gaggiando” a scopi di arrampicata il movimento di rotazione dei giovani steli,
che di per sé è frutto di un vincolo fisico e non ha alcuna utilità: Possiamo
capire che se gli steli di queste piante fossero stati flessibili, e se fosse
stato loro utile, nelle condizioni a cui sono esposti, di salire più in alto,
l'abitudine di compiere movimenti rotatori piccoli e irregolari sarebbe aumen-
tata e sarebbe diventata utile per opera della selezione naturale, fino a
trasfor- mare queste piante in specie perfettamente rampicanti. (p. 296) La
conferma è data dal fatto che il prerequisito della rotazione (come an- che la sensibilità
delle foglie e dei piccioli) si ritrova allo stato nascente an- che in piante
che non sono poi divenute rampicanti. Il nutrito elenco delle sorgenti di
strutture non adattative, in seguito convertite a usi funzionali, include in
Darwin: variazioni spontanee, tendenza alla reversione, effetti delle
“complesse leggi della crescita”, correlazioni, compensazioni, varia- zioni
omologhe, pressione esercitata da una parte su un'altra, selezione sessuale di
caratteri utili a un sesso ma condivisi anche dall'altro sesso ben- ché inutili
(p. 255). Si tratta di un vero e proprio repertorio di strutture non fissatesi
per selezione naturale, disponibile per la cooptazione: Ma le strutture così
indirettamente acquisite, benché a tutta prima non van- taggiose a una specie,
possono in seguito essere utilizzate dai suoi discendenti modificati, in nuove
condizioni di vita e con nuove abitudini acquisite. (p. 255) Ciò non significa
che tali strutture siano state “create semplicemente per bellezza, per il
diletto dell’uomo o del Creatore (quest’ultimo punto, però, è al di là del
campo della discussione scientifica) o per puro amore di va- rietà” (p. 257),
il che sarebbe “assolutamente fatale alla mia teoria”, nota Darwin. Tuttavia,
non deve nemmeno valere una determinazione funziona- le stretta per ogni
singolo carattere. Nello stesso capitolo sesto troviamo al- tri esempi di
tratti che sono adattativi in alcune specie. ma si trovano anche disconnessi
dalla loro presunta funzione in altre specie (la testa calva dell’avvoltoio e
del tacchino maschio). Gli uncini di piante come la palma Dall'origine delle
specie a oggi: il pluralismo darwiniano 161 potrebbero aver avuto uno
slittamento funzionale dalla difesa dai quadru- pedi (funzione primaria)
all’arrampicata (funzione secondaria). La verifica dell’ipotesi di cooptazione
funzionale sta per Darwin nelle parentele con altre specie e nella
distribuzione geografica: Una palma rampicante dell’arcipelago malese si
arrampica sugli alberi più alti con l’aiuto di uncini mirabilmente costruiti e
disposti all’estremità dei rami, e senza dubbio questo meccanismo è della più
alta utilità per la pianta; ma poiché osserviamo uncini pressoché simili in
molti alberi che non sono rampicanti e che, come vi è ragione di credere in
base alla distribuzione delle specie spinose nell'Africa e nell’America
meridionale, servono come difesa dai quadrupedi, così gli aculei nella palma
possono originariamente essersi svi- luppati per questo scopo, e
successivamente essersi perfezionati ed essere sta- ti utilizzati dalla pianta,
allorché essa subì ulteriori modificazioni e divenne rampicante. (p. 255) Ma
non sempre deve esserci una funzione attiva. Il bambù rampicante della Malesia
possiede grappoli di uncini molto utili per attaccarsi ai rami degli alberi.
Dovremmo concludere che li ha sviluppati per tale funzione. Tuttavia esistono
uncini simili in altre piante che non sono rampicanti. La risposta di Darwin è
la stessa delle suture del cranio, cioè leggi di sviluppo. Dunque gli uncini
non si sono evoluti per facilitare l'arrampicata, ma c’e- rano già prima?
Trattandosi di un gruppo di specie molto più strettamente imparentate rispetto
a mammiferi, rettili e uccelli, è possibile che qui Dar- win sottovaluti una
seconda ipotesi più semplice, che proprio una valuta- zione filogenetica in
termini di discendenza comune potrebbe suggerire. Se le piante con gli uncini
residui ma non rampicanti fossero più recenti delle altre e con un solo
antenato comune, vorrebbe dire che gli uncini si sono sì evoluti per l'arrampicata,
ma poi alcune specie hanno perso secondaria- mente la funzione originaria pur
trattenendo ancora il tratto (come le ali ve- stigiali dei pinguini di cui
sopra). La funzione ha preceduto il tratto inizial- mente, ma poi in alcune
specie è andata persa. Dunque la cooptazione funzionale di un tratto
inizialmente non adattati- vo e la perdita secondaria sono due ipotesi
alternative per spiegare l’esi- stenza di specie che conservano strutture prive
di funzione. Il grado di pro- babilità di un’ipotesi rispetto all’altra è
spesso dato dall’analisi filogenetica delle parentele tra le specie, da cui si
inferisce un ordine cronologico di comparsa e scomparsa di tratti e funzioni
connesse. L'analisi darwiniana, in ogni caso, non prevede in alcun modo che la
funzione debba sempre pre- cedere. necessariamente. il tratto. A volte le
modificazioni sono il risultato diretto di meccanismi non funzionali (leggi
della variazione o dello svilup- 162 Anatomia di una rivoluzione po, vincoli
fisici e strutturali) e poi vengono sovente ingaggiate “per il bene della
specie in nuove condizioni di vita” (p. 263). È anche possibile che una
struttura inizi a variare per prima, a causa per esempio di correlazioni con
altre parti, e che le abitudini dell'animale cambino di conseguenza, e non
viceversa come ci aspetteremmo secondo un rigido funzionalismo: un “graduale
cambiamento di struttura” può condurre a “mutate abitudini istintive” (p. 331).
7. Il pluralismo di Darwin e le sue predizioni rischiose Si tratta di una
visione complessiva dell’evoluzione e delle sue strategie di cambiamento di
notevole modernità anche rispetto alle conoscenze at- tuali, improntata com'è
all’interazione tra forze interne ed esterne, all’in- treccio di fattori
molteplici, non soltanto selettivi. Darwin ora appare sod- disfatto delle sue
ipotesi aggiuntive, al punto da impegnarsi (anche troppo) in una predizione
rischiosa iper-gradualistica: Se si potesse dimostrare l’esistenza di un
qualsiasi organo complesso che non possa essersi formato attraverso modificazioni
numerose, successive, lie- vi, la mia teoria dovrebbe assolutamente cadere. Ma
non riesco a trovare alcun caso simile. (p. 242). Attorno a questa predizione
si sono concentrate per generazioni le mag- giori speranze di creazionisti e
antidarwiniani (due categorie non necessa- riamente coincidenti). Oggi sappiamo
infatti che mutazioni non così “nu- merose, successive e lievi” sono
un’importante realtà evoluzionistica, soprattutto se legate ai processi di
sviluppo. Ecco dunque provata la confu- tazione finale della teoria darwiniana?
Niente affatto, e questo è un punto cruciale attorno al quale si sono
recentemente condensati molti fraintendi- menti: come mostrano i dati
sperimentali, la selezione naturale non perde la sua centralità e la teoria non
deve “assolutamente cadere” a causa di quelle mutazioni “non lievi”. Semmai va
rivista, ed estesa, la base su cui agisce la selezione naturale. Dunque Darwin
sbaglia due volte in questa predizione: a) sbaglia nel merito, perché
all'evoluzione di strutture com- plesse possono aver contribuito anche
mutazioni che non sono né numero- se né lievi: b) sbaglia per eccesso di
severità teorica verso se stesso. poiché la scoperta di queste variazioni di
grosso calibro non confuta la sua teoria, ma impone di rivederla e di
estenderla in senso pluralista. Alla radice dei due errori di valutazione sta
la spropositata importanza che Darwin affida, Dall’origine delle specie a oggi:
il pluralismo darwiniano 163 rispetto alla sopravvivenza della sua teoria,
all'estrema gradualità di ogni cambiamento. Quella della complessità di organi
come gli occhi non è la sola predizio- ne osservazionale o la sola
retrodizione' in cui si cimentò Darwin: predis- se che sarebbe stato scoperto
un “proto-uccello” di transizione e in effetti nel 1863 fu annunciato il
rinvenimento a Solnhofen in Germania dell’Ar- chaeopteryx, un rettile con
caratteristiche da uccello (Darwin ne parla, nel- la quarta edizione, come di
uno “strano uccello” con coda da lucertola — p. 394); inferì l’esistenza di una
falena mai osservata prima in Madagascar a partire dallo studio della
morfologia di un’orchidea custodita ai Kew Gar- dens di Londra (e la falena fu
effettivamente scoperta, proprio con le fattez- ze che aveva previsto,
quarant'anni dopo la sua morte). Lo schema esplica- tivo del ‘“co-adattamento”
tra due specie, insetto e pianta, lo aveva portato in questo caso a predire
l’esistenza di una forma di vita mai osservata pri- ma. In altri frangenti le
sue retrodizioni e predizioni rischiose, e dunque popperianamente
falsificabili, servirono per rispondere alle obiezioni e per rimarcare quelle
che considerava le parti costitutive, e indispensabili, della sua architettura
teorica. Con alterni risultati, ma sempre con onestà intellet- tuale, portava
fino in fondo le conseguenze delle sue argomentazioni, an- che quando si
rivelavano impegnative per sé e per gli altri. OdS contiene molte altre
predizioni rischiose. Abbiamo già visto la ple- tora di predizioni che derivano
dall'analisi delle parentele tra specie attra- verso i concetti antagonisti di
omologia strutturale e analogia funzionale (pp. 247-249). Non meno documentate
sono le cinque predizioni biogeo- grafiche relative agli “abitanti delle isole
oceaniche” (pp. 463-467). Gli stessi organi vestigiali sono per Darwin una
previsione corroborante, per- ché la loro presenza avrebbe potuto essere
“anticipata” dalla teoria (p. 523 e p. 525). A volte le predizioni sono
scontate perché riferite alla dottrina ri- vale delle creazioni speciali:
immaginare che gli esseri viventi siano stati 12 Si potrebbe erroneamente
pensare che, mirando la teoria evoluzionistica alla rico- struzione della
storia naturale passata, essa possa soltanto avanzare “retrodizioni””, da
verificare attraverso prove indiziarie di natura paleontologica o di anatomia
comparata. In realtà, come cerchiamo di argomentare in questo paragrafo, già
OdS è ricca di genuine predizioni osservazionali, cioè predice la scoperta di
fatti non ancora noti e che riguardano il presente. Come tali, sono predizioni verifica-
bili o falsificabili da altri naturalisti (come in effetti avverrà). Oggi, un
secolo c mezzo dopo. la teoria evoluzionista vanta un'enorme quantità non
soltanto di re- trodizioni e di predizioni osservazionali, ma anche di
predizioni sperimentali con- trollabili in laboratorio e di predizioni
filogenetiche ottenute dall'incrocio di dati molecolari e paleontologici. 164
Anatomia di una rivoluzione creati belli per diletto dell’uomo o del Creatore è
chiaramente un’afferma- zione sovvertitrice della teoria (p. 258), alla quale
Darwin contrappone la selezione sessuale come fattore di diversificazione degli
ideali di “bellez- za” in natura. Alla fine del capitolo sesto aveva affermato
che la scoperta di “una qualsiasi parte della struttura di una specie formatasi
per esclusivo be- neficio di un’altra specie” (p. 259) sarebbe stata una
confutazione diretta della sua teoria. La selezione di gruppo, per il bene
della comunità, è una risposta all’obiezione circa lo sviluppo di caste sterili
negli insetti sociali e ha il carattere di una predizione da verificare o
falsificare. A p. 126 Darwin riferisce che se si scoprisse che tutti i generi
più gran- di sono molto più variabili e dunque aumentano sempre, mentre quelli
più piccoli non crescono, ciò “sarebbe fatale alla mia teoria”, perché
nell’evo- luzione anche i generi più grandi arrivano al loro massimo sviluppo e
poi decadono e scompaiono (un accenno forse alle estinzioni su larga scala, qui
intese in modo gradualista, come una parabola interna di vita) mentre i gruppi
più piccoli possono sempre avere una chance di successo. All’inizio del
capitolo ottavo aggiunge lo sviluppo dei meravigliosi istinti degli ani- mali
come possibile difficoltà capace di demolire la sua teoria (p. 305) e dedica un
intero capitolo al tentativo di disinnescarla, equiparando gli istin- ti ai
tratti strutturali evolutisi per gradazioni selezionate'?. Le caste sterili
negli insetti, con le loro macroscopiche differenze di struttura, sono ritenu-
te una difficoltà potenzialmente letale per la teoria (p. 331), la più grave di
tutte (p. 336), eppure superata dalle ipotesi esplicative addotte'*. A propo-
sito dell’imperfezione della documentazione geologica, per difendere an- cora
una volta il suo gradualismo, Darwin avanzerà due altre predizioni
particolarmente rischiose, come vedremo tra poco. Darwin è consapevole del
carattere controintuitivo della sua teoria. In cer- ti frangenti, in OdS sembra
quasi nutrire un sentimento di comprensione in- dulgente nei confronti di
coloro che faticano a capire la sua spiegazione an- tifinalistica. Sa che la
sfida al senso comune e ai nostri vincoli cognitivi profondi è ardua, quasi che
ragione e immaginazione entrino in conflitto a ogni passaggio. Sempre a
proposito dell'evoluzione dell'occhio. scrive: 13"... questi casi debbono
essere accetta la selezione naturale”, p. 316 14. Darwin si mostra
particolarmente compiaciuto per la soluzione dell’enigma delle caste sterili:
“Si penserà invero che io abbia una presuntuosa fiducia nel principio della
selezione naturale. quando non ammetto che tali straordinari e ben costanti
fatti annichilino immediatamente la mia teoria” (p. 33+* o respinti unitamente
all'intera teoria del- Dall’origine delle specie a oggi: il pluralismo
darwiniano 165 Tuttavia per arrivare ad una giusta conclusione sulla formazione
dell’oc- chio, con tutti i suoi caratteri meravigliosi sebbene non
assolutamente perfetti, è indispensabile che la ragione vinca l'immaginazione;
ma io ho sentito trop- po acutamente queste difficoltà per essere sorpreso
dell’altrui esitazione a estendere così largamente il principio della selezione
naturale. (p. 241). È infatti “quasi inevitabile” per noi paragonare l’occhio
al telescopio, cioè a un artefatto intenzionale: siamo “portati naturalmente”,
nota Dar- win, a stabilire questa analogia fuorviante. Abbiamo insomma menti
teleo- logiche e la spiegazione darwiniana, così impregnata di dettagli
contingen- ti e di leggi non deterministiche, è difficile da accettare!5: È
quasi inevitabile confrontare l'occhio con il telescopio. Noi sappiamo che
questo strumento è stato perfezionato dai ripetuti sforzi dei più elevati
intellet- ti umani; e siamo portati naturalmente a concludere che l’occhio si
sia forma- to con un processo analogo. Ma questa deduzione non sarà forse
presuntuosa? (p. 241) Ma non può certo gettare la spugna adesso: è dagli anni
trenta che sta pensando al suo “delitto” di lesa maestà. Darwin sa che la forza
del suo ra- gionamento risiede nella potenza chiarificatrice del meccanismo
scoperto (la selezione naturale), nella sua estrapolazione al tempo profondo e
nella convergenza di induzioni eterogenee che da campi diversi — biogeografia,
paleontologia, embriologia, morfologia (Darwin le definisce “classi indi-
pendenti di fatti”’) - concordano nel suggerire che lo schema più parsimo-
nioso e attendibile per capire la fenomenologia naturale è la discendenza con
modificazioni, l’albero della vita. Per capire l'evoluzione dell’occhio abbiamo
bisogno di questi ingredienti: variazione, piccole modificazioni vantaggiose,
riproduzione, ereditarietà, selezione naturale, milioni di anni di tempo,
milioni di individui ogni anno, per milioni di tentativi (p. 242). È una
spiegazione totalmente a-teleologica, contro-intuitiva, ma ben com- prensibile
seguendo il suo “lungo ragionamento”. Nel capitolo finale am- mette di nuovo le
difficoltà ma sembra più fiducioso: A prima vista niente può sembrare più
difficile che il credere che i più com- plessi organi e istinti si siano
perfezionati non con mezzi superiori, sebbene analoghi, alla ragione umana, ma
per l'accumulazione di innumerevoli lievi 15. Sucome questa tema sia divenuto
oggi di stretta attualità nei campi dell'etologia cognitiva e della psicologia
del pensiero, e su come possa essere alla base di mol- te incomprensioni circa
la spiegazione evoluzionistica, sia lecito rimandare a: Gi- rotto. Pievani,
Vallortigara, 2008. 166 Anatomia di una rivoluzione variazioni, ciascuna utile
al loro possessore individuale. Ciononostante, que- sta difficoltà, per quanto
insuperabilmente grande possa apparire alla nostra immaginazione, non può
considerarsi reale, se ammettiamo le seguenti propo- sizioni ...(p. 526)
Attraverso esperimenti mentali ed esercizi controfattuali, oltre che una mole
di fatti corroboranti condensati negli ultimi capitoli, ha poi gioco fa- cile
nel concludere che questa è la struttura esplicativa in grado di render conto
di una tale vastità di fenomeni e di generare predizioni affidabili, al
contrario di ciò che accadeva per la teoria delle creazioni speciali, che era
compatibile con qualsiasi corso degli eventi e dunque infalsificabile. Come già
nei Taccuini, per vincere la corrente contraria dell’immaginazione intu- itiva
(e non soltanto, quindi, un programma di ricerca rivale), Darwin me- scola in
modo peculiare: argomentazioni ipotetico-deduttive (con conse- guenti
predizioni osservazionali da verificare o falsificare); induzioni convergenti
(il suo “mettere ordine tra fatti sparsi”); e inferenze verso la spiegazione
migliore (cioè nel suo caso la scelta di un pattern esplicativo in mezzo ad
altri, sulla base del principio del parsimonia e dell’analogia con schemi
simili). Non è quindi preciso catalogare Darwin né tra gli ipotetico-
deduttivisti né tra gli induttivisti, perché le sue ipotesi non sono del tipo
“bianco o nero” ma conferiscono un certo grado di probabilità (anche ele- vato)
a determinati risultati osservazionali. Facciamo un esempio per comprendere
questo nodo probabilistico della teoria darwiniana. Le vestigia di
quadrupedismo presenti nella fisiologia delle balene, per esempio le ossa
rudimentali del bacino, non devono ne- cessariamente esserci in virtù del fatto
che le balene sono strettamente im- parentate con i mammiferi terrestri (quelle
vestigia avrebbero potuto anche scomparire del tutto). Viceversa. se le balene
per assurdo non avessero una discendenza comune coni mammiferi, non sarebbe
necessaria l'assenza di quelle vestigia (avrebbero potuto ereditarle da altri
animali, per esempio rettili). Piuttosto, la probabilità che quelle similarità
vestigiali tra balene e altri mammiferi siano dovute a una discendenza comune è
molto maggio- re, alla luce di tutto ciò che sappiamo induttivamente circa la
fisiologia del- le balene. rispetto a qualsiasi altra ipotesi esplicativa.
Dunque si tratta di una metodologia spuria, con un mix di componenti
ipotetico-deduttive e induttive che rendono conto di una spiegazione
probabilistica basata su una pluralità di pattern differenti. Il pluralismo di
Darwin quindi non è additivo. non è la giustapposizione di schemi esplicativi
diversi. poiché le spiegazioni e le ipotesi che avanza sono interrelate. Le sue
idee sono state poi accolte sì in modo spaiato. ma Dall'origine delle specie a
oggi: il pluralismo darwiniano 167 la storia del pensiero evoluzionistico ha mostrato
dati alla mano che aveva- no una loro stretta coerenza. Alcune asserzioni
(costituenti il nucleo varia- zione — selezione — discendenza comune) sono
essenziali per il manteni- mento della struttura portante della teoria, mentre
ad altre (come il gradualismo stretto) si può rinunciare senza con ciò negare i
fondamenti della sua spiegazione. Il nucleo è dato da pattern esplicativi la
cui frequen- za e probabilità li rende corroborati oltre ogni ragionevole
dubbio. Per que- ste ragioni è più corretto sostenere che Darwin ha fondato non
soltanto una “teoria”, ma un “programma di ricerca scientifico” composto da
asserzioni osservative e da generalizzazioni teoriche, da pattem plurali dotati
ciascu- no di frequenze relative, disposto secondo un nucleo centrale
indispensabi- le e una cintura protettiva più fluida (Pievani, 2011b). Una
struttura siffat- ta può essere soggetta a revisioni ed estensioni anche
profonde, che modulano la probabilità di un pattem rispetto a un altro, ma che
sono pur sempre coerenti con il suo nocciolo esplicativo centrale. 8. Due
significative omissioni Darwin avverte che la sua spiegazione, per quanto goda
di un'altissima probabilità di essere corretta, non è in grado di padroneggiare
completa- mente la multiformità dei processi naturali che pure ha osservato: ci
sono fenomeni anomali, rispetto alle sue previsioni, ed enigmi ancora da deci-
frare. Sapeva, per esempio. che i primordi della vita in quanto tale sfuggi-
vano alla sua analisi e che sul tema si potevano soltanto avanzare conget- ture
e rischiose “analogie”, benché di gran moda negli anni settanta dell'Ottocento.
Questo atteggiamento faceva parte della sua allergia ai pro- blemi “ultimi” e
alle domande relative alle “origini prime” dei fenomeni evolutivi (fossero essi
le capacità mentali primordiali, o la sensibilità alla luce, o il senso della
bellezza, o la variazione stessa): Come un nervo sia diventato sensibile alla
luce non ci riguarda più del modo come la vita stessa si sia originata. (p.
239) E all’inizio del capitolo nono: Non ho la pretesa di voler ricercare
l'origine delle facoltà mentali più di quanto non abbia quella di cercare
l'origine della vita stessa. (p.305) Attraverso una raffinata analogia con la
forza di gravità. Darwin spiega per- ché origine della vita ed evoluzione della
vita sono due explananda differenti: 168 Anatomia di una rivoluzione Non è
obiezione valida il fatto che la scienza non ha finora fatto luce sul problema
di gran lunga superiore dell'essenza o dell'origine della vita. Chi può
spiegare qual è l'essenza della forza di gravità? Nessuno oggi rifiuta di
accettare i risultati conseguenti a questo ignoto elemento della forza, nono-
stante che Leibniz abbia in passato accusato Newton di introdurre “qualità oc-
culte e miracoli nella filosofia”. (p. 545) L'evoluzione ha a che fare con la
diversità, con il cambiamento e con i processi che lo sottendono, non con i
presunti inizi assoluti di un tratto o di una specie. Vi è dunque una
contraddizione implicita nel titolo abbreviato suggerito dall'editore John
Murray, giacché non è propriamente di “origi- ne” che il libro tratta, ma di
trasformazione o trasmutazione. Ancora oggi molti sono convinti, erroneamente,
di riscontrare un problema nella spiega- zione evoluzionistica perché essa non
sarebbe in grado di mostrare l'inizio assoluto di una qualsivoglia novità. In
realtà quella di Darwin non è una fuga, ma un’opportuna distinzione di
metodologie, ancora oggi valida. L’e- voluzione presuppone già l’esistenza di
unità (siano esse specie o popola- zioni) in trasformazione, mentre l’origine
della vita, explanandum biochi- mico, tratta del passaggio da ingredienti
abiotici ai primi organismi viventi dotati di autonomia. Circa l'“origine” in
sé della vita e le congetture al riguardo, la generazio- ne spontanea non aveva
agli occhi di Darwin alcuna prova a sostegno, tutta- via non poteva contare su
scenari alternativi plausibili. La vita doveva esse- re nata da qualche parte
in un tiepido brodo primordiale, non appena le condizioni di raffreddamento
della crosta terrestre lo avevano permesso, ma Darwin oscillò fra timide
ipotesi poligeniste (quattro o cinque progenitori per gli animali, e pochi di
meno per le piante, o molti di più ma poi in gran parte estinti — p. 549) e
ipotesi monogeniste più radicali basate sull’analogia (che però può essere una
“guida ingannevole”): un solo antenato comune univer- sale, come “prototipo”
per le forme viventi e possessore primigenio di ciò che tutte hanno in comune,
cioè struttura cellulare, chimica di base e leggi di sviluppo (oggi
aggiungeremmo il materiale genetico). Esistono peraltro for- me elementari di
vita che sembrano intermedie tra piante e animali (Darwin sta ricordando qui i
primi studi a Edimburgo con Grant), lasciando supporre l’esistenza di una sola
specie primordiale antenata di entrambi (ibid.). Dato che i due modelli in
versione aggiornata riguardanti le radici dell’al- bero della vita — forse non
soltanto ramificate, si pensa oggi. ma anche reti- colate — si contrappongono
né più né meno come allora e che il problema di per sé non è evoluzionistico
(giacché la spiegazione darwiniana presuppone già l’esistenza di unità di
evoluzione) bensì biochimico, le prudenze del na- Dall'origine delle specie a
oggi: il pluralismo darwiniano 169 turalista inglese in materia appaiono più
che giustificate. Così, opportuna- mente, OdS finisce per non contenere alcuna
teoria esplicita circa le “origi- ni” primordiali della vita. Il problema di
Darwin non è trovare il numero esatto degli antenati primigeni, bensì mostrare
che tutti gli esseri viventi, presenti ed estinti, possono essere ricondotti a
uno o pochi progenitori nel grande albero della vita. Il nodo focale è la
metodologia di ricostruzione, all’indietro nel tempo, delle parentele (oggi
diremmo “filogenetiche”’) tra le specie, non individuare un fantomatico
antenato comune universale. L'auto- re sa che al riguardo non ha in ogni caso
la pur minima evidenza osservati- va e per questo omette quasi del tutto
l'argomento: troppo speculativo. Inu- tile lanciarsi in ipotesi strampalate
come fa Herbert Spencer (p. 190)'9. In una lettera a Hooker del 1863 ribadisce
che discutere di origine della vita e origine della materia è una totale
perdita di tempo (rubbish). Un'altra celebre omissione di OdS riguarda le
origini della specie uma- na. Compare soltanto un fugace cenno nelle
conclusioni: “si farà luce sull’o- rigine dell’uomo e sulla sua storia” (light
will be thrown on the origin of man and his history)!, giusto una riga, subito
dopo aver trattato brevemen- te della psicologia umana, “che sarà sicuramente
basata sulle fondamenta già poste da Herbert Spencer, quelle della necessaria
acquisizione di ciascu- na facoltà e capacità mentale per gradi” (p. 552). In
realtà, Darwin utilizza a più riprese esempi umani per illustrare temi biologici
generali: lo fa per esempio nel primo capitolo (pp. 91 e 106) e poi di sfuggita
in altri passaggi. Inoltre, compare quel termine “razze” nel sottotitolo, che
tutti a quell'epoca avrebbero associato alla specie umana (Desmond, Moore,
2009). Dunque non vi è alcun dubbio che in OdS dia per scontato che l’evolu-
zione umana non fa eccezione rispetto al suo impianto esplicativo naturali-
stico e rigorosamente non finalistico. Così era, del resto, già dai Taccuini
giovanili'*. Il riferimento fugace venne aggiunto, a detta di Darwin, per
“evitare che mi si potesse accusare di aver voluto nascondere il mio pensie-
ro” (Autobiografia, ed. it. cit. p. 112). Decide però di non mettere troppa
carne al fuoco delle polemiche e di tenere l'argomento per una trattazione 16
“Nessuno deve meravigliarsi che molto resti tuttora inspiegato sull'origine
delle specie, se si tiene in debito conto la nostra profonda ignoranza sulle
reciproche re- lazioni degli abitanti del mondo al tempo presente, e ancor più
durante le età pas- sate” (p. 191). 17. Dettaglio significativo: nel 1872
aggiunge “molta luce sarà fatta...” (much light). Era già uscito da un anno
L'origine dell'uomo. 18. “Non appena mi convinsi, nel 1837 o ‘38, che le specie
erano mutabili, non potei fare a menodi credere che l'uomo dovesse essere
regolato dalla stessa legge” (At- tobiografia, ed. it. cit., p. 112). 170
Anatomia di una rivoluzione successiva, forse anche a causa della scarsità di
dati (così si schermisce in alcune lettere), o per insicurezza e prudenza
scientifica: “Sarebbe stato inu- tile e dannoso al successo del libro far
sfoggio delle mie opinioni sull’ori- gine dell’uomo senza dame alcuna prova”
(ibid.). L’opera doveva insomma avere una focalizzazione precisa, non discute-
re di evoluzione biologica e al contempo trattare di storia del cosmo o di
origini della vita o di futuro della specie umana, come era successo con il
vituperato libro di Chalmers nel 1844. Ciò non esclude che egli abbia co-
munque paura delle reazioni dei suoi avversari, come Louis Agassiz ad Harvard,
e dei suoi mentori, in particolare di Lyell, il quale gli aveva espresso
perplessità circa la completa naturalizzazione dell’uomo ma che poi finirà in
parte per anticiparlo pubblicando nel 1863 The Antiquiry of Man, un libro sulla
preistoria umana che però deluderà Darwin. Lo stesso anno uscirà The Man's
Place in Nature di Thomas Henry Huxley, con la demolizione delle teorie di
Owen. Bisognerà invece attendere rispettivamente il 1871 e il 1872 per le due
opere antropologiche darwiniane, cioè i due volumi de L'origine dell’uomo e la
selezione sessuale (tema, quest’ultimo, non trattato per esteso in OdS) e
L'espressione delle emozioni nell'uomo e negli animali: dodici anni in cui
erano comparse nuove evidenze (i primi fossili umani, spesso fraintesi, come
quelli provenienti dalla valle del Neander in Germania; l’arrivo negli zoo
d'Europa dei primi gorilla) e in cui erano già uscite opere sull’evolu- zione
umana a firma di naturalisti non soltanto inglesi. Nel frattempo si era anche consumato
nel 1869 lo scontro con Wallace sulla presunta eccezione della mente umana
rispetto alla spiegazione per selezione naturale ed era maturato il tempo di
esporre per esteso le sue idee integralmente naturali- stiche anche riguardo
all’evoluzione degli esseri umani e di tutte le loro “facoltà superiori” (dal
linguaggio al senso morale e religioso): “quando vidi che molti naturalisti
accettavano completamente la dottrina dell’evo- luzione delle specie, mi sembrò
opportuno sviluppare i miei appunti e pub- blicare un trattato a sé
sull’origine dell’uomo” (ibid., p. 113). 9. L'antico fraintendimento degli
“anelli mancanti" Tra omissioni diplomatiche e altre prudenze. Darwin
rintuzzò forse con minore efficacia le critiche di chi gli faceva notare
l'assenza, nella docu- mentazione paleontologica. di quella estrema gradualità
di cambiamento e di successione di ‘forme di transizione” che lui ipotizzava.
ricorrendo all’i- potesi ad hoc. già inaugurata nei Taccuini. secondo cui la
mancanza di gra- Dall'origine delle specie a oggi: il pluralismo darwiniano 171
dualità era da imputare all’imperfezione e alla frammentarietà dei dati geo-
logici (tema su cui si dilunga in OdS nel capitolo decimo). Questa penuria di
forme intermedie gli appare tuttavia come “forse la più evidente e la più seria
obiezione che può essere mossa alla mia teoria” (p. 371)*. La geologia infatti
“non rivela una tale catena organica perfettamente graduata” (ibid.): Perché,
se le specie derivano da altre specie attraverso impercettibili gra- dazioni,
non vediamo ovunque innumerevoli forme di transizione? Perché nel- la natura
non v'è confusione e esistono invece, come ci è dato di osservare, specie ben
definite? (p. 227) I fossili dovrebbero pullulare di forme intermedie, in un
numero immen- so, e invece questi legami non si vedono se non raramente. Le
forme inter- medie in effetti si possono osservare quando specie affini abitano
in terri- tori limitrofi, essendo derivate da un comune antenato (il caso dei
nandù da cui tutto era cominciato nei Taccuini). Tuttavia, le forme intermedie
sono rare oggi perché, ovviamente, sono state sostituite e condannate
all’estin- zione dalle forme più recenti: “Così estinzione e selezione naturale
proce- dono di pari passo” (p. 228). Ciò vale sia nel tempo sia nello spazio
geogra- fico!*. Le specie tendono infatti ad avere, secondo Darwin, aree
definite di insediamento: le forme adattate a regioni intermedie tra due specie
distinte tendono a estinguersi, a causa della scarsità di individui e di
spazio, nonché della concorrenza delle due specie più numerose vicine. Ecco
perché le specie, nonostante derivino continuativamente da varietà in fase di
diver- genza, “non si confondono l’una con l’altra attraverso gradazioni
insensi- bili” (p. 230) ma si presentano in modo definito e discreto a livello
geogra- fico (pur con aree di sovrapposizione, dove però restano a tutti gli
effetti distinte). La distribuzione delle due specie di nandù argentini viene
così ora spiegata senza più ricorrere a “salti”, come nel Red Notebook, ma te-
nendo insieme continuità di cambiamento e separazione biogeografica. Il fatto
che le forme intermedie siano così transitorie geograficamente può anche
spiegare perché è tanto difficile trovarle nei fossili: occuparono aree
ristrette, furono in piccolo numero e per poco tempo. Oppure in una certa
regione non si sono realizzate le condizioni affinché la selezione na- 19 Nelle
conclusioni il principio viene generalizzato, come “teoria della distruzione di
una infinità di legami di connessione fra gli abitanti viventi e quelli estinti
del mondo, e, in ogni periodo successivo, fra le specie estinte e quelle ancora
più an- tiche” (p. 530). 172 Anatomia di una rivoluzione turale potesse
agire°°. Ma è un'ipotesi sufficiente questa per spiegare per- ché ne troviamo
davvero così poche, insiste Darwin? No, bisogna anche supporre, come abbiamo
visto, che la documentazione geologica sia estre- mamente imperfetta e lacunosa
(sia cioè “molto più incompleta di quanto non creda la maggior parte dei
geologi”, p. 530). In altri termini, è discon- tinua, mentre il processo
evolutivo è continuo. Torna così l'argomento di- fensivo inaugurato alla fine
dei Taccuini: I documenti geologici sono incomparabilmente meno completi di
quanto ge- neralmente si suppone. La crosta terrestre è un grande museo, ma le
collezio- ni naturali sono state fatte in modo incompleto, e solo a lunghi
intervalli di tempo. (p. 228) Non aveva molte alternative al suo tempo per non
considerare l’adagio di Leibniz e di Linneo “Natura non facit saltum” — evocato
nel capitolo se- sto, nell’ottavo e poi in quello conclusivo — come una
condizione necessa- ria affinché la selezione naturale conservasse il suo
potere di setacciare e accumulare piccole variazioni. Non gli bastava più la
continuità storica del cambiamento evolutivo (senza salti o creazioni
speciali): si convinse di do- ver ipotizzare un gradualismo stretto non più
soltanto nelle trasmutazioni tra stadi intermedi a livello di generazioni, ma
anche alla scala massima del tempo geologico: in pratica, un uniforme, lento
ritmo di trasformazione a tutti i livelli. Se questa gradualità non si
riscontrava nella documentazione fossile la colpa poteva essere attribuita,
oltre che all’imperfezione dei dati paleontologici, anche all'effettiva rarità
degli organismi di transizione, che li rende elusivi. Questo “assunto
negativo”, in parte valido ancora oggi, so- stiene quindi che, essendo
altamente improbabile (ma non impossibile) tro- varne, la loro assenza
provvisoria non confuta in alcun modo la teoria ge- nerale. Darwin trovò
ipotesi ad hoc anche per la subitanea comparsa delle pri- me faune
pluricellulari nel Cambriano, sostenendo che la loro “esplosione” era solo
apparente. un artefatto della documentazione dovuto al fatto che 20 Darwin
ricorre a questo argomento per rispondere all’obiezione sugli animali egi-
ziani, di cui si discuteva molto in quegli anni. Perché gli animali mummificati
tre o quattro millenni fa sono pressoché identici a quelli attuali, senza alcun
segno di evo- luzione? In primo luogo, perché il lasso di tempo è troppo corto
(meglio verificare, propone Darwin, se gli animali sono cambiati dopo la fine
dell'ultima glaciazione, al mutare delle condizioni climatiche). In secondo
luogo, perché probabilmente in Egitto. in un ambiente uniforme, non si sono
realizzate condizioni di vita tali da ren- dere necessarivun cambiamento per
selezione naturale (p. 266). Il naturalista ingle se aveva già affrontato la
questione nei Taccuini della trasmutazione Dall'origine delle specie a oggi: il
pluralismo darwiniano 173 gli antichi continenti delle epoche antecedenti al
Cambriano sono andati distrutti per via delle metamorfosi geologiche (p. 426).
Anche in questo caso la predizione scientifica è precisa e, in caso di
confutazione, “fatale”: Se molte specie, appartenenti agli stessi generi o alle
stesse famiglie, fosse- ro realmente apparse improvvisamente, questo fatto
sarebbe fatale alla teoria dell'evoluzione per selezione naturale. (p. 392) Che
fosse un’obiezione fatale alla teoria lo pensavano illustri paleonto- logi come
Louis Agassiz, influente cattedratico ad Harvard e grande esper- to di pesci
fossili. Invece per Darwin l’imperfezione della documentazio- ne, per le cause
già elencate, spiega perché non vediamo una lunga fase di preparazione graduale
prima di queste improvvise comparse di molte spe- cie. Forse “le formazioni più
antiche di quelle attualmente conosciute giac- ciono sepolte sotto i grandi
oceani” (p. 532). Non possiamo quindi essere sicuri, come Agassiz, che i pesci
teleostei siano comparsi d’improvviso nell’emisfero boreale all’inizio del
Cretaceo, perché ne conosciamo già di più antichi e non abbiamo fossili
dall'emisfero australe (p.395).I mammi- feri non sono comparsi d’un colpo
all’inizio del Terziario, perché se ne stanno trovando di più antichi e se ne
troveranno ancora (p. 393). Lo stes- so vale per le scimmie, che risalgono già
al Miocene (ibid.). La nostra “li- mitata conoscenza degli abitanti primitivi
della Terra” (p. 394) ci porta a pensare che gli uccelli siano comparsi solo
nell’Eocene, e invece scopria- mo in Nord America impronte fossili molto più
antiche di animali gigante- schi simili a uccelli (p. 393: fanno qui capolino i
primi rinvenimenti di quelli che Richard Owen ha battezzato nel 1842 “dinosauri
”’). Se invece un paleontologo crede nella compiutezza dei suoi dati, allora
non potrà accet- tare la teoria dell’evoluzione per selezione naturale: Coloro
che credono che i documenti geologici siano in un certo modo per- fetti,
respingeranno senza esitazione la mia teoria. (p. 399) Darwin sa di avere
l'opposizione di molti paleontologi e geologi: nella prima edizione cita fra
gli altri Cuvier, A gassiz, Falconer, Forbes, Sedgwick, Murchison (p. 399).
Tuttavia illustri studiosi, come Lyell, che prima soste- nevano l’immutabilità
delle specie, ora mettono sul tavolo il peso della loro autorità per difendere
la tesi contraria, e “la maggioranza dei geologi e dei paleontologi sono molto
meno certi delle loro precedenti convinzioni" (ibid.). Nuove scoperte si
accumulano e di edizione in edizione (dalla quar- ta in poi) Darwin rafforza la
sua fiducia nell’appoggio di Lyell e di molti altri. calcando sulle trasi
precedenti. Alla luce di questa “rivoluzione nelle 174 Anatomia di una
rivoluzione nostre idee paleontologiche” (p. 395), la frecciata contro Agassiz
prende la forma di un paradosso: ... dogmatizzare sulla successione delle forme
organiche sulla Terra è al- trettanto azzardato quanto sarebbe per un
naturalista, sbarcato per pochi mi- nuti soltanto in un punto deserto dell'Australia,
mettersi poi a discettare sul numero e sulla distribuzione delle produzioni
naturali australiane. (p. 395) Quanto alla presunta “comparsa subitanea” di
esseri viventi pluricellu- lari negli strati inferiori del Cambriano, l’ipotesi
è la stessa: Se la teoria è vera, è indiscutibile che prima del deposito degli
strati inferio- ri del Cambriano siano passati lunghi periodi, della durata
corrispondente o anche molto superiore all'intervallo fra il Cambriano e
l'epoca presente; e che durante questi lunghi periodi il mondo formicolasse di
esseri viventi. (p. 396) Forse (ammettendo però che non è una risposta
soddisfacente) non si trovano resti precambriani perché non si sono
fossilizzati, a causa di as- senza di parti molli o a causa di grandi
cambiamenti geografici (pp. 398- 399). Fatto sta che “il problema è attualmente
insolubile e può essere un valido argomento contro le opinioni qui esposte” (p.
398). Le conoscenze attuali ci dicono che l’ipotesi nello specifico non era
corretta, anche se è plausibile che l’esplosione cambriana sia stata preceduta
da esperimenti più antichi di diversificazione. Inoltre, è un’intuizione
formidabile quella secondo cui prima del Cambriano vi sarebbero stati lunghi
periodi di pre- cedente evoluzione (per la precisione, oggi sappiamo che dal
primo orga- nismo fossile conosciuto ai primi pluricellulari cambriani passano
tre mi- liardi di anni). Anche qui volle però rischiare fino in fondo e giunse
a predire che, nel caso in cui si fosse eventualmente scoperto che l’imperfe-
zione della documentazione fossile pre-cambriana non esisteva, l’intera sua
teoria sarebbe stata confutata: Chiunque si rifiuti di ammettere l’imperfezione
dei documenti geologici do- vrà respingere tutta la mia teoria. Perché costui
si domanderà invano dove sono le infinite forme di transizione che in passato
devono aver collegato le specie strettamente affini o rappresentative che si
sono trovate nei livelli suc- cessivi della stessa grande formazione. (p.426).
In realtà. anche in questo caso (come per le innumerevoli e lievi varia- zioni
necessarie per arrivare a un organo complesso) si sbagliava due vol- te: in
primo luogo perché i dati paleontologici. nonostante i capricci della
fossilizzazione. non erano affatto come le poche pagine strappate da un li- Dall'origine
delle specie a oggi: il pluralismo darwiniano 175 bro, ma stavano raccontando
la verità (oggi sappiamo che le transizioni ra- pide di faune, le speciazioni
“punteggiate” e le estinzioni di massa catastro- fiche non sono affatto
illusioni, ma si stagliano nella storia della natura come imponenti fenomeni
reali); in secondo luogo, si sbaglia perché la continuità di azione della
selezione naturale, da una parte, e l’esistenza di alcune tipologie di
speciazione rapida e di estinzioni trasversali, dall’altra, non sono in
contraddizione e non richiedono di “respingere tutta la sua te- oria”, bensì di
rivederla e di integrarla con nuovi fattori. Il fatto è che Darwin non poteva
conoscere i meccanismi genetici della speciazione, nonostante avesse scelto come
titolo proprio “l’origine delle specie”. Questa ignoranza circa le modalità di
nascita effettiva di una nuo- va forma vivente a livello genotipico lo portò a
considerare come inconci- liabili la comparsa rapida di una specie, intesa come
entità discreta, e la lenta azione continuativa della selezione naturale. In
realtà i due processi possono convivere e anzi spesso si integrano. La
concezione nominalistica di specie lo porta invece a sottovalutare quella
connessione tra isolamento geografico e isolamento riproduttivo che pure aveva
intravisto nei Taccui- ni (suggerita poi anche dal naturalista Moritz Wagner,
citato nel capitolo quarto) e che oggi sappiamo essere alla base della nozione
biologica di spe- cie (cioè la specie intesa come un insieme di popolazioni
riproduttivamen- te chiuso, un ramoscello separato dagli altri da una barriera
riproduttiva, pur con molte eccezioni). Se l'evoluzione non è una scala di
progresso lineare, con la specie più “avanzata” che sostituisce le più
“arcaiche”, bensì un albero fittamente ra- mificato, con specie cugine che
convivono in ogni epoca, allora è proprio la metafora dell’“anello mancante” a
essere fuorviante. Chi ne denuncia l’assenza come una confutazione della teoria
mostra di non aver compreso, già ai tempi di Darwin e fino a oggi (con
argomenti invariati), il succo del- la spiegazione evoluzionistica. Nella
storia naturale non esistono tanto anelli mancanti, quanto ramoscelli mancanti,
e le transizioni avvengono at- traverso un mosaico di specie, ciascuna con propri
adattamenti. Non esisto- no forme odierne “direttamente intermedie fra un
cavallo e un tapiro”, spiega Darwin, ma “forme intermedie fra ciascuna specie e
un comune ma sconosciuto progenitore; e il progenitore generalmente avrà
differito in qualche aspetto da tutti i suoi discendenti modificati” (p. 372).
L'evoluzio- ne è un albero. Ecco perché è difficile trovare una fatidica specie
singola che rappresenti precisamente la “forma di transizione” o il sicuro
antenato comune di un gruppo di specie discendenti. Ciò che possiamo fare è
raffi- nare sempre di più la ricostruzione degli alberi di discendenza. 176
Anatomia di una rivoluzione 10. Più tempo, più tempo per l'evoluzione Ma la
predizione più rischiosa di tutte fu senz'altro quella relativa all’e- tà della
Terra, perché dovette sfidare la maggiore autorità delle scienze dure
britanniche, il matematico e fisico scozzese William Thomson, poi noto come
Lord Kelvin. I calcoli del tempo trascorso dalla formazione del pianeta e dalla
sua solidificazione fino a oggi portavano infatti i fisici dell’epoca a cifre
incompatibili con i lunghissimi eoni geologici previsti dall’uniformitarismo di
Lyell, e di riflesso dal continuismo gradualista di Darwin. Si tratta, ammette
il naturalista inglese nella quinta edizione, di una “formidabile obiezione”
(p. 396). Valutando i ritmi di raffreddamento per irradiazione del calore nello
spazio esterno, la Terra non poteva essere più vecchia di 400 milioni di anni
(da 20 a 400 milioni) e probabilmente non aveva più di cento milioni di anni
d’età (da 98 a 200 milioni). Tutto ciò era incompatibile, secondo Lord Kelvin,
con un processo lento di discen- denza con modificazioni per opera della
selezione naturale. Nel 1866 sen- tenziò quindi — con tutto il suo peso di
fisico, ma anche influenzatodall’an- tievoluzionismo del presbiterianesimo
scozzese — che la teoria doveva essere rigettata, e con essa l’uniformitarismo
gradualista di Lyell. Storicamente i rapporti tra la teoria darwiniana e i
fisici non furono mai molto cordiali. Che si potesse definire “scienza” un
miscuglio anomalo di dati osservativi. di analogie e di inferenze, privo di
certe dimostrazioni ma- tematiche, non li convinceva affatto. Questo sguardo
sospettoso perdura tuttora anacronisticamente in alcuni esponenti delle scienze
fisico-mate- matiche, nonostante la mole impressionante di prove sperimentali
che il programma evoluzionistico ha accumulato, ben superiore a quella di molte
teorie fisiche che non hanno retto l’urto del tempo. Anche John Herschel, il
padre del “mistero dei misteri” da cui siamo partiti in questo libro, si
espresse alla fine contro ogni teoria della trasmutazione e bollò la selezio-
ne naturale come “teoria della confusione’, ma del resto lui credeva in una
suprema intelligenza divina nascosta nelle leggi della natura e nella pre-
sunta semplicità di un cosmo razionale"'. Il naturalista inglese fu
compren- sibilmente indigesto anche per questa categoria di scienziati
innamorati dell'ordine e allergici al caso. 21 Darwin contrappone invece la mera
casualità della classificazione delle stelle nel- le costellazioni alla sua
sensata classificazione genealogica delle forme viventi (p. 481). Sembra con
ciò voler rivendicare il fatto che la sua teoria, lungi dall'essere una
sommatoria di curiosità naturalistiche, ambisce a una trattazione scientifica
unificante della storia e della diversità nella vita Dall'origine delle specie
a oggi: il pluralismo darwiniano 177 Darwin accusò il colpo infertogli da
Thomson (lo ammette anche nel capitolo conclusivo di OdS) e cercò di sottrarsi
all’“odioso spettro” con ipotesi ad hoc un po’ malferme, sostenendo che forse
le specie per evol- versi non avevano avuto bisogno di così tanto tempo come
supposto. Nel- la sesta edizione sembra persino disposto a fare un’eccezione
all’unifor- mitarismo: È tuttavia probabile, come insiste nel dire Sir William
Thompson, che in un periodo molto antico il mondo fosse esposto nelle sue
condizioni fisiche a cam- biamenti più rapidi e violenti (more rapid and
violent changes) di quelli attua- li; e tali cambiamenti avrebbero operato nel
senso di produrre modificazioni corrispondentemente più rapide negli organismi
allora esistenti. (p. 396)* Nel capitolo quarto, aggiunge nella terza edizione
una nota difensiva dove asserisce che “Ia sola durata di tempo di per sé non fa
nulla, né pro né contro la selezione naturale” (p. 169), perché non ci sono
leggi innate di cambiamento ma solo un variare di circostanze: il tempo serve
“soltanto” per dare possibilità alle variazioni vantaggiose di emergere. Tuttavia,
è lo sfondamento del tempo profondo a livello geologico, per centinaia di mi-
lioni di anni, ciò di cui ha bisogno. A p. 229 azzarda persino un'ipotesi sul-
le antiche frammentazioni e ricomposizioni dei continenti, che possono aver
affiancato oggi territori abitati da specie separate da lunghissimo tem- po
(un’altra ragione per la mancanza di forme intermedie). E poi le misure dei
fisici hanno scarti troppo ampi, segno che i dati sono ancora incerti. Fece
anche qualche timido tentativo di proporre calcoli alternativi di tipo
geologico, basandosi sui valori medi di sedimentazione o sull’erosio- ne
annuale di alcune scogliere”, senza troppo successo: anche le sue misu- razioni
erano troppo generiche. Alla fine concluse che la durata reale del tempo, per
quanto a suo avviso immensa, era una questione irrisolta e che occorrevano dati
migliori. Del resto, la difficoltà di percezione del tempo profondo di Lyell è
a suo avviso una delle principali cause del ritardo con cui naturalisti e
geologi si sono accorti della mutabilità delle specie: “sia- mo sempre lenti ad
ammettere grandi cambiamenti di cui non vediamo i gradi” (p. 546). Nell’ultimo
capitolo, nella sesta edizione. la risposta a quella che resta “probabilmente
una delle più gravi obiezioni fin qui solle- vate” prende questa forma:
...posso soltanto dire, in primo luogo, che non conosciamo con quale ritmo,
misurato in anni, le specie cambiano, e in secondo luogo che molti filosofi non
22 InOdSne parla alle pp. 373-377 178 Anatomia di una rivoluzione sono ancora
disposti ad ammettere che noi conosciamo abbastanza della costi- tuzione
dell'universo e dell'intero nostro globo per giudicare con certezza del- la sua
età. (p. 532) Tuttavia, con la sua solita precisione e con ardita onestà
intellettuale, ‘ammise che un potente sfondamento all'indietro dell’età della
Terra (varie volte superiore ai cento milioni di anni scarsi calcolati da
Thomson) era in- dispensabile per tenere in piedi la sua specificateoria, che
altrimenti sareb- be stata da abbandonare. Né 60 milioni né 140 milioni di anni
(secondo due ipotesi correnti) erano sufficienti per giustificare le
trasformazioni degli es- seri viventi dal Cambriano a oggi (p. 396). La
selezione opera lentamente e gradualmente, dentro uno scenario geologico antichissimo,
perché le va- riazioni individuali sono piccole, si accumulano a ritmi bassi e
i posti nell’economia della natura si liberano con difficoltà. L'evoluzione
dunque ha bisogno di centinaia di milioni di anni, anche se “sfortunatamente
non abbiamo alcun modo per determinare in anni la lunghezza del periodo ne-
cessario a modificare una specie” (p. 377). Capire poi che cosa significa “un
milione di anni” è quasi tanto difficile quanto “afferrare l’idea di eter-
nità” (p. 376 e poi p. 546). Giustificazioni a parte, delle due l’una: o aveva
ragione Kelvino aveva ra- gione lui. Ne va della salvezza della sua intera
teoria e lo scrive con durezza: Chi legge la grande opera di Sir Charles Lyell
sui Principi di Geologia (1830), che lo storico futuro riconoscerà aver
prodotto una rivoluzione nelle scienze naturali, e tuttavia non ammette quanto
ampio è stato il periodo di tem- po trascorso può chiudere senz'altro questo
volume. (p. 373) Si portò questo cruccio nella tomba, ma la predizione si
rivelerà corretta, perché agli albori del nuovo secolo la scoperta della
radioattività permette- rà ai fisici di correggersi, come sempre nella scienza,
e di capire che la pre- senza di una sorgente interna di calore doveva far
retrodatare di molto l’ar- co di vita del pianeta. Così la Terra riconquistò
non milioni, ma miliardi di anni di età e lo scenario maestoso del “tempo
profondo” spalancò i suoi spa- zi di possibilità per l'evoluzione darwiniana.
Quasi fosse una premonizione, nella chiusa di OdS la velata contrapposizione
polemica tra l’appassionante evoluzione delle infinite e meravigliose forme di
vita, da una parte, e la no- iosa ripetizione delle orbite dei pianeti sempre
uguali a se stesse. dall'altra, è apparsa a molti evidente. Oggi che con
l'evoluzione dell'universo e della materia devono fare i conti persino i
cosmologi e i fisici delle particelle. gli epigoni di Darwin possono assaporare
una succosa rivincita. Dall’origine delle specie a oggi: il pluralismo
darwiniano 179 11. /l posto di Dio ne L'origine delle specie Nei passi finali
riguardanti il numero dei progenitori iniziali, nella se- conda edizione di
OdS, dietro suggerimento del reverendo riformatore an- glicano Charles Kingsley
(convinto che l’intelligenza divina si esplicasse nelle leggi della scienza),
Darwin inserisce alcuni riferimenti finali al “Creatore” come ispiratore del
soffio iniziale della vita. Nella prima edi- zione aveva invece descritto la
comparsa dell’ipotetica forma primigenia come un processo esclusivamente
naturale. A testimonianza delle sue in- certezze nel dare a OdS un’impronta
deistica, nella terza edizione elimina di nuovo una delle due occorrenze
“teologiche” che aveva introdotto nel- la seconda edizione, ma ne lascia altre
due (laws impressed on matter by the Creator — p. 553; e il celebre inciso
della chiusa di OdS messo nella seconda edizione, originally breathed by the
Creator into a few forms or into one — p. 554). Interpellato sulla possibilità
di conciliare l'evoluzione con un deismo dai contorni annacquati o con
panteismi cosmici, la pro- spettiva non lo appassionava ma non se la sentiva di
escluderlo. È chiara- mente combattuto. Nella seconda e terza edizione
aggiunge, nelle conclusioni, alcuni passi concilianti. Anche la legge di
gravità fu da taluni intesa come eretica, ma poi per fortuna il tempo passa:
Non vedo alcuna ragione per pensare che le opinioni esposte in questo vo- lume
debbano turbare la fede religiosa di chicchessia. È soddisfacente, come prova
per dimostrare quanto transeunti sono queste impressioni, ricordare che la più
grande scoperta che l'uomo abbia mai fatto, cioè la legge dellaforza di
gravità, fu altresì attaccata da Leibniz “come sovversiva della religione natu-
rale e conseguentemente della religione rivelata”. (p. 545) Cita persino un
teologo compatibilista”, ma senza specificare se ne con- divide le posizioni:
Un celebre autore e teologo mi ha scritto di aver “gradualmente imparato a
vedere che è una nobile concezione della Divinità il credere che Essa abbia
creato poche forme originali, capaci di proprio sviluppo in altre e necessarie
forme, così come il credere che Essa ricorse a un nuovo atto di creazione per
colmare i vuoti causati dall'azione delle Sue leggi.” (p. 546) 23. Darwin
stronca i tentativi di alcuni naturalisti di tenere insieme una spiegazione
evoluzionistica (per alcune specie) e una creazionista (per altre) come esempi
di “cecità di idee preconcette” (p. 547). 180 Anatomia di una rivoluzione La
concessione alla terminologia religiosa, che ritorna in altri passaggi di OdS,
è ritenuta dagli storici una mossa di cautela diplomatica, per attu- tire le
possibili reazioni (Browne, 2006). Darwin infatti nega al suo non meglio
definito“creatore” qualsiasi ruolo attivo nel processo biologico e i richiami
appaiono con tutta evidenza come formule retoriche di circostan- za per non
associare direttamente il libro alle campagne ateistiche di alcu- ni suoi
contemporanei. Alla fine però rimpiangerà quella scelta accomo- dante, perché
darà la stura alle più stravaganti interpretazioni deistiche e teistiche che
gli vengono proposte, per lettera, da numerosi commentatori negli anni della
vecchiaia (Desmond, Moore, 2009). In questa corrispondenza degli ultimi anni
ripete spesso che ciò in cui credeva o meno quando scriveva OdS “non aveva
alcuna importanza per nessuno eccetto me stesso”, dato che si trattava di un
dominio di questioni irrisolte che spettano alla “coscienza interiore”. Dal suo
punto di vista, l'i- potesi di Dio non era necessaria nello studio
dell’evoluzione, il che è cosa diversa dal dire che essa sia ontologicamente e
necessariamente falsa per via scientifica o logica. Sta dicendo che la sua
teoria è semplicemente in- differente alla questione. Darwin rispettò sempre un
sostanziale naturali- smo metodologico, senza pronunciarsi sul naturalismo
metafisico o ontolo- gico. Parimenti, la tesi secondo cui la scienza non può
escludere definitivamente l’esistenza di Dio perché si tratta di un’entità
sovrannatu- rale, né può ergersi a spiegazione ultima della realtà, gli pareva
una trincea difensiva piuttosto precaria (e in continuo arretramento): ciò che
riusciamo a spiegare senza ricorrere a Dio aumenta costantemente. 1 due
approcci intuitivamente più forti per inferire nonostante tutto un pro-
gettista intelligente gli sembravano quello della “causa prima” (per cui la
scienza studia solo le “cause secondarie” — p. 553) e quello del rifiuto del
puro caso, ma se poi essi siano “argomenti di reale valore” è tutta un’altra
storia. A conti fatti, su queste materie restò sempre profondamente agnostico,
esercitando un prudente scetticismo a riguardo di tutte le credenze non suf-
fragate da prove e non argomentabili, comprese le sue. Non è però del tutto
corrispondente al vero sostenere, come fece lo stesso Darwin in una lettera,
che OdS non ha “relazione alcuna con la teologia”. Il nome del Creatore compare
a più riprese, dalla prima citazione di Whewell alla chiusà, e i rife- rimenti
teologici non sembrano mera retorica. Il suo naturalismo metodolo- gico non
corrispondeva quindi a una totale astensione dal fare affermazioni
sull'esistenza e sulle proprietà di entità sovrannaturali (Sober. 2011). E non
poteva essere altrimenti: la teoria rivale in OdS era infatti quella delle
crea- zioni speciali. che a quelle entità ricorreva come suo principio
esplicativo, e Dall'origine delle specie a oggi: il pluralismo darwiniano 181
Darwin la sostituisce con un programma di ricerca integralmente naturalisti-
co. Nella pars destruens, dunque, Darwin fa esplicitamente ricorso ad af-
fermazioni teologiche e filosofiche, come il problema del male e l’esi- stenza
di una causa prima. La cornice è data dalle citazioni deistiche di apertura
(con Whewell) e di chiusura: Dio non si immischia nelle vicen- de di dettaglio
della storia naturale, cioè nelle cause secondarie che stu- diano gli
scienziati. L'intera materia di OdS è dunque indipendente da considerazioni
riguardanti l’esistenza e l’azione di un’eventuale entità divina. La ricerca
scientifica può procedere autonomamente. Su un piano diverso, di tipo
filosofico, ciò che possiamo al massimo fare è ipotizzare che il Creatore
all’inizio si sia limitato a “imprimere nella materia” le leggi fondamentali
della natura. Qui capiamo che il deismo darwiniano non è soltanto una
concessione diplomatica: è un argomento teologico di base contro ogni teoria di
intervento divino diretto in natura, a comincia- re da quella delle creazioni
speciali e dall’intera teologia naturale (oggi diremmo Intelligent Design). È
una mossa preliminare nella confutazio- ne della sua teoria rivale. Quando poi Darwin
entra nel merito di altre proprietà del Creatore, in chiave di demolizione
dell’idea di creazione speciale, il deismo di par- tenza sembra sbiadire, a
favore di posizioni decisamente più agnostiche in senso lato. La teoria
darwiniana predice infatti che la natura sia traboc- cante di imperfezioni, di
stranezze, di tratti ridondanti, di compromessi contingenti. Se ogni forma
vivente fosse stata creata proprio così da un progettista divino, dovremmo
concludere che si tratta di un demiurgo pa- sticcione o incompetente. In questo
caso è implicita un’assunzione teologica in merito alle finalità e alle
capacità che un Dio creatore avrebbe se esistesse. Lo stesso vale per
l’osservazione riguardante l’esuberante e disordinata diversità della vita: i
figli non assomigliano del tutto ai genitori; alcuni generi hanno al loro in-
terno una miriade di varianti; spesso le aberrazioni sono foriere di novità
future; le contingenze della geografia moltiplicano le specie, per esempio
sugli arcipelaghi; alcuni caratteri si ripresentano dopo molto tempo: e così
via. La discendenza comune e la selezione naturale sono in grado di dare un
senso a tutti questi fatti sparsi. Nel penultimo capitolo, abbiamo visto,
l’intero “Sistema Naturale” viene emancipato da qualsiasi “piano del Cre-
atore” (p. 483), a meno di non considerare l'evoluzione stessa, con tutte le
sue caratteristiche di contingenza e di neutralità morale. come il piano di un
Creatore (ma in tal caso nulla verrebbe aggiunto “alle nostre cognizioni”).
Affermare però apoditticamente che tutto ciò sarebbe stato voluto proprio 182
Anatomia di una rivoluzione così, dettaglio dopo dettaglio, da un Creatore
significa abdicare da qualsi- asi spiegazione scientifica: Ammettere questa
ipotesi mi sembra equivalga a rinunciare a una causa re- ale per una irreale, o
almeno per una sconosciuta. Ciò vorrebbe dire conside- rare l'opera di Dio come
uno scherzo e un inganno. Preferirei piuttosto crede- re, insieme agli antichi
e ignoranti autori di cosmogonie, che le conchiglie fossili non appartengono ad
animali vissuti in passato, ma sono state create nella roccia per imitare i
molluschi viventi sulle coste del mare. (p. 224) La teoria delle creazioni
speciali, in sostanza, non è predittiva: è vacua sul piano esplicativo e non ha
alcun valore scientifico. È mera tautologia, una ri- nuncia dell’intelletto: le
cose stanno così perché Dio, o qualsiasi altro potere imponderabile, le ha
volute così “per amore di varietà”: “quasi come i giocat- toli in un negozio;
ma una tale concezione della natura è inammissibile” (p. 250). Allora tanto
varrebbe rassegnarsi all’ignoranza degli antichi. Ogni cor- so ipotetico
dell’esperienza può accomodarsi a questa assunzione dogmatica. Siamo cioè nel
dominio della più pura infalsificabilità: Secondo l’opinione corrente della
creazione indipendente di ogni essere, possiamo dire soltanto che così stanno
le cose; dire che piacque al Creatore costruire tutti gli animali e tutte le
piante di ogni grande classe secondo un pia- no uniforme; ma questa non è una
spiegazione scientifica. (p. 503)* È detto a più riprese in OdS che ciò che
risulta strano, incomprensibile e improbabile alla luce delle supposizioni
creazioniste diviene comprensibi- le, normale e probabile alla luce della
teoria dell'evoluzione: è il tema di fondo che Darwin assegna al capitolo
finale (p. 536, pp. 539-540, pp. 542- 544). Nella sesta edizione, a chi gli
obiettava che questo argomento per op- posizione non fosse un metodo corretto
di ragionamento, rispose: . è il metodo usato per giudicare i comuni eventi
della vita, ed è stato spesso usato dai più grandi filosofi della natura. Con
questo metodo si è arri- vati alla teoria ondulatoria della luce; e la credenza
nella rotazione della ter- ra intorno al suo asse fino ai tempi recenti non era
appoggiata da prove diret- te. (p. 545) î Ai naturalisti che tentavano di
spiegare gli organi vestigiali, imperfetti e inutili, come creazioni “per amore
di simmetria” e di completamento degli schemi della natura. Darwin risponde che
questa non è una spiegazione ma “una semplice conferma del fatto”: Dall'origine
delle specie a oggi: il pluralismo darwiniano 183 Che cosa si penserebbe di un
astronomo il quale sostenesse che i satelliti de- scrivono intorno ai loro
pianeti orbite ellittiche, “per amore di simmetria”, giacché i pianeti ruotano
in tal modo intorno al sole? (p. 521) Non nutre speranze di convincere i
naturalisti che hanno la mente in- gombra di pregiudizi radicati: È così facile
nascondere la nostra ignoranza sotto espressioni quali il “pia- no della
creazione”, l'“unità di disegno”, ecc..., e pensare di aver dato una
spiegazione, quando invece non si fa che ripetere un fatto. (p. 546) L'unico
reale “piano della creazione” è la genealogia universale dei vi- venti, per
discendenza con modificazioni (p. 551). Filosoficamente, per Darwin la teoria
delle creazioni speciali è quindi falsa sia che Dio esista siu che Dio non
esista. Sarebbe poi molto presuntuoso, aggiunge, pensare di conoscere le
modalità attraverso le quali si esprimono i poteri intellettuali di
un'ipotetica entità divina. Se definiamo Dio come un ente radicalmente diverso
da noi, per poter in tal modo preservare alcuni concetti teologici. non
possiamo poi usare questo essere sommamente trascendente per tappi re i buchi
di ciò che ancora non conosciamo come esseri umani o per sosti tuire
consolidate spiegazioni naturalistiche. Ma è proprio l’immagine di questo Dio
che fa scherzi e inganni a por re il problema più serio: “Abbiamo forse qualche
ragione per pensare che il Creatore operi con gli stessi poteri intellettuali
dell’uomo?” (p. 241). Il deismo vacilla soprattutto quando Darwin affronta il
problema del male naturale. Il caso degli sfecidi, simili a vespe, che
nascondono nella tana la preda paralizzata destinata al nutrimento delle larve
(p. 317), era stato al centro delle sue attenzioni per la particolare crudeltà
del comporta- mento. Come potrebbe un Creatore volere tutto questo? Non è una
dedu- zione logica, nota, ma è molto più soddisfacente immaginare che il Cre-
atore non abbia previsto direttamente le infinite situazioni di sofferenza, di
spreco, di inaudita crudeltà, di terrore e di morte che l'evoluzione per
selezione naturale prevede come norma e che possiamo osservare in ogni anfratto
del mondo naturale (descritte nello splendido passo delle conclu- sioni già
citato, sull’imperfezione come marchio di fabbrica della sele- zione naturale —
p. 538). L’istinto orribile delle larve degli icneumonidi, che si nutrono
dall’interno del corpo ancora vivo dei bruchi, quello delle formiche schiaviste
o del cuculo che uccide i suoi fratelli adottivi vanno intesi 184 Anatomia di
una rivoluzione ...non come istinti appositamente creati o equipaggiati nei
rispettivi anima- li, ma come piccole conseguenze di una legge generale, che
porta all’avanza- mento di tutti gli esseri viventi, cioè alla loro
moltiplicazione, alla variazione, al fatto che il più forte vive e il più
debole soccombe. (p. 338)* Questo passaggio è stato salutato da alcuni
autorevoli evoluzionisti cre- denti (Ayala, 2007) con un sollievo che rischia
però di essere filosofica- mente rischioso. Le leggi generali sarebbero state
progettate da una mente superiore, mentre i dettagli macabri sarebbero affidati
al caso, come effetti indesiderati. Ciò significa che chi ha pensato a quelle leggi
non era in gra- do di prevedere tutto il resto, cioè quella “mancanza di
assoluta perfezio- ne” (p. 538) che reca così tanto dolore? Dunque la Causa
Prima, di cui Dar- win parla quando nell’Autobiografia si definisce un
“teista”, non sarebbe onnisciente. Darwin stesso sottolinea questa difficoltà
logica in una lettera ad Asa Gray del 1866. Oppure quegli effetti negativi non
sono casuali, ma discendono proprio dalle leggi. Allora, se le ragioni di
questo smisurato do- lore naturale si annidano come conseguenze indirette delle
leggi di natura (moltiplicarsi, variare, lottare per la sopravvivenza), e se
queste leggi di na- tura sono state davvero impresse da un Creatore nella
materia, non abbia- mo semplicemente spostato il problema senza risolverlo?
Perché il grande architetto non ha scelto leggi differenti? Darwin sottolinea a
più riprese che non si tratta di una deduzione logica e che la materia è assai
confusa. Il pro- blema infatti è che la teodicea non nasce certo in Darwin®*,
ma con Darwin si radicalizza, perché scopriamo che quel male e quel dolore
(insieme alla felicità e al piacere, che a suo avviso in ultima analisi
prevalgono) sono proprio il contesto che ha permesso alla selezione naturale di
fare evolvere imperfettamente gli organismi, noi compresi. Ma è soprattutto il
suo naturalismo coerente, unito al suo razionalismo scettico, a porlo in rotta
di collisione con gran parte dei tentativi di ren- dere le sue idee compatibili
con le credenze religiose. Queste ultime del resto, scrive nell’Awurobiografia,
si sono evolute come consolazioni adat- tative dalle quali ora è difficile
liberarsi, sono istinti antichi che vengono ora inculcati e trasmessi dai
genitori attraverso l'educazione: così i bam- bini trovano arduo “liberarsi
dalla fede in Dio, così come è difficile per una scimmia liberarsi dalla paura
e dall'odio che nutre istintivamente per 24 “Questo antichissimo argomento” —
scrive nell'Auzobiografia — “che si vale del dolore per negare l’esistenza di
una causa prima dotata di intelletto, mi sembra molto valido" (p. 72)
Dall’origine delle specie a oggi: il pluralismo darwiniano 185 il serpente” (p.
75)?5. Il sentimento religioso, scrive poco prima, è decli- nato in ogni
cultura in modo diverso e in forme inconciliabili come mo- noteismi e politeismi.
Se leggiamo OdS insieme alla corrispondenza privata di quegli anni e
all’Awurobiografia, al netto di tutte le sue ritrosie nei confronti di
questioni filosofiche o “metafisiche”, notiamo che probabilmente Darwin oscillò
tra due forme contraddittorie di agnosticismo, optando poi per la seconda. In
certi passaggi sembra aderire a un agnosticismo deistico: dopo la sua rinun-
cia totale al Cristianesimo (“odiosa dottrina” della punizione eterna per i
miscredenti?), non crede in alcun Dio personale né nell’immortalità dell’a-
nima, ma non esclude in linea teorica (forse condizionato dalla cultura uni-
tariana in cui era cresciuto) che una Causa Prima inattingibile razionalmen- te
possa aver dato inizio a tutto ciò che vediamo. La difficoltà a concepire l'universo
e l’uomo come figli “di un mero caso o di una cieca necessità”, ...mi costringe
a ricorrere a una Causa Prima dotata di un’intelligenza in certo modo analoga a
quella dell'uomo; e mi merito così l'appellativo di tei- sta. Questa
conclusione, a quanto ricordo, era ben radicata nella mia mente al tempo in cui
scrissi l'Origine delle specie; ma in seguito, dopo molti alti e bas- si, si è
gradualmente indebolita. (p. 74) Si noti che le righe da “questa conclusione”
in avanti, informa Nora Bar- low, sono state aggiunte di proprio pugno da
Darwin dopo il 1876. È dun- que evidente che in passaggi successivi egli
predilige invece un agnostici- smo totale, in senso moderno: la questione di
Dio e le domande ultime (compresa l’esistenza o meno di una Causa Prima) non
trovano alcuna ri- sposta possibile in termini di evidenze e di argomentazione
razionale, dun- 25 La moglie Emma chiese al figlio Francis di non pubblicare
queste righe dell’ Auto- biografia nell'edizione del 1887, in quanto troppo
dure, insieme a quelle in cui Darwin definisce la dottrina della dannazione
eterna dei miscredenti come suo pa- dre e suo fratello “un’odiosa dottrina”, La
censura familiare su questi brani cadde grazie alla nipote di Darwin, Nora
Barlow, che pubblicò l'edizione integrale diret- tamente dal manoscritto del
nonno nel 1958: “È tempo ormai di pubblicare lc par- ti soppresse nel 1887. La
severità di certi passi consigliò di censurarli, settant'anni fa, per un segno
di rispetto ai sentimenti di alcuni amici: ma ormai quelle osserva- zioni
appaiono inoffensive, e tanto più degne di essere conosciute in quanto getta-
no una luce rivelatrice sul passato” (p. XXIX). L'ottimismo di Nora Barlow non
prevedeva che il successo del fondamentalismo religioso nel XXI secolo rendesse
quelle righe darwiniane nuovamente oggetto di “tempeste scientifico-religiose”.
Sulla figura di Emma Wedgwood Darwin si veda: Ceci, 2012. 26 Autobiografia.ed.
it. cit. p. 69. 186 Anatomia di una rivoluzione que restano insolubili e
completamente al di là dei limiti dell’intelletto umano. OdS rientra quindi
nella fase di agnosticismo deistico, che poi abbando- na negli anni successivi
a causa della sua manifesta incoerenza logica. Quando Darwin scrive di non
voler escludere l’esistenza della Causa Pri- ma lo sta facendo sulla base di un
prudente naturalismo metodologico: re- stando sul piano scientifico, non può
dimostrarne né l’esistenza né la non esistenza; sul piano filosofico, la
materia è indecidibile. Poi prevale invece un naturalismo più radicale. È
illogico credere in qualcosa che non si può capire o che “per natura sua è
inintelligibile” (Autobiografia, p.38). È con- tro ogni evidenza pensare, come
Asa Gray, che il piano divino si manifesti indirettamente attraverso variazione
e selezione. Anche questa presa di po- sizione fa quindi parte del suo rifiuto
del deduttivismo filosofico chiacchie- rone e infondato, contro il quale si
scaglia nell’ Autobiografia. Sta insom- ma dicendo che, esclusi ogni
creazionismo e ogni teologia ingannevolmente finalistica, sia chi propone
teismi compatibilistici confu- si sia chi brandisce OdS come manifesto di
militanza ateistica lo fa sovrap- ponendo propri principi filosofici a una
materia scientifica (il che è legitti- mo, ma non lo riguarda). Meglio a suo
avviso attenersi a un'etica naturalistica e a uno scetticismo razionalista (p.
77) di tipo agnostico. 12. “Non sono fatto per seguire ciecamente la guida
degli altri" Resta il fatto, ben descritto da Giuseppe Montalenti
nell’introduzione all’edizione italiana 1967 di OdS, che “il creazionismo, così
com'era inte- so prima di Darwin, e l’evoluzionismo, così com’è stato formulato
dal Dar- win, non sono teorie limitate a un ristretto problema biologico, ma
rispon- dono a due diverse concezioni del mondo e dell’uomo, a due diverse filosofie”
(p.9). L'effetto di OdS sulla cultura dell’epoca fu, secondo Mon- talenti,
addirittura “apocalittico”: “lo sfacelo della struttura filosofica e re-
ligiosa tradizionale” impregnata di aristotelismo e tomismo (p. 17). Come
abbiamo visto, OdS non fu soltanto un libro, ma la prima grande controver- sia
scientifica internazionale nelle scienze della vita, un appello a genera- zioni
future di “giovani ed emergenti naturalisti‘ (p. 547) affinché prendes- sero il
testimone di un nuovo modo di fare scienza e liberassero l'argomento
dell’evoluzione dal ‘fardello di pregiudizi” che gravava su di esso (ibid.).
Nel 1872. dieci anni prima di morire. aggiunge alcune note ottimistiche nelle
conclusioni della sesta edizione di OdS. Mentre all'uscita della prima Dall’origine
delle specie a oggi: il pluralismo darwiniano 187 edizione nessun naturalista
ammetteva apertamente la mutabilità delle spe- cie, scrive Darwin (sminuendo
così il ruolo degli anticipatori elencati nel troppo generoso compendio
storico), “oggi la situazione è completamente cambiata, e il grande principio
dell’evoluzione (evolution) è ammesso da quasi tutti i naturalisti” (p. 548).
Il lungo ragionamento è stato persuasivo e la campagna culturale dei darwiniani
ha avuto successo. Altri naturalisti cercano ancora cause miracolose per la
comparsa improvvisa di grandi mo- dificazioni, ma ci sono “prove schiaccianti”
contro le loro tesi. Pazientemente, dopo venti anni di attesa, e ora dopo
dodici anni di dibat- titi seguiti alla prima edizione di OdS, è riuscito a far
passare la sua “rivo- luzione”. È lui stesso a usare questo termine,
prospettando metodi del tutto innovativi per i sistematici del futuro grazie
alle sue scoperte (e a quelle di Wallace, aggiunge nella seconda edizione):
Quando le opinioni esposte da me in questo volume, e da Wallace, o quan- do
opinioni analoghe sull'origine delle specie saranno generalmente ammes- se,
possiamo prevedere che vi sarà una considerevole rivoluzione nella storia
naturale. (p. 550) Regole più semplici metteranno ordine nel lavoro dei
sistematici. Gran- di e inesplorati campi di ricerca si apriranno, a cominciare
dalle leggi del- la variazione e dello sviluppo (p. 551). Faremo luce
sull’antica geografia delle specie nel globo, e anche sull’evoluzione della
specie umana. L'uni- ca “nobile scienza” a “perdere gloria” (p. 552) è la
geologia, a causa dell’imperfezione della documentazione (ma avrà modo di
rifarsi un seco- lo dopo). Evidenze convergenti confermeranno la teoria
dell’evoluzione per selezione naturale. Le ultime pagine di OdS dettano con
determinazio- ne e lungimiranza l’agenda di un programma di ricerca nel quale
siamo an- cora immersi. Nell’Autobiografia Darwin confessa: “A quanto pare non
sono fatto per seguire ciecamente la guida degli altri.”. E prosegue: Ho sempre
cercato di tenermi libero da idee preconcette, in modo da poter rinunciare a
qualunque ipotesi, anche se molto amata (e non so trattenermi dal formularne
una per ogni argomento), non appena mi si dimostri che i fatti vi si oppongono.
Non mi è dato di agire diversamente ...(ed.it. p.123) Anche se forse non ha
sempre rispettato questo principio, talvolta inna- morandosi oltre misuradelle
proprie ipotesi come succede a tutti è proprio questo atteggiamento di
indipendenza intellettuale che possiamo definire “scientifico” nel senso più
nobile del termine (ma anche, perché no, “filo- sofico”) a restituire alla
figura di Darwin tutta la sua attualità. Qui abbiamo 188 Anatomia di una
rivoluzione voluto rintracciare questo insegnamento soprattutto nella sua
flessibilità esplicativa, che fa del suo programma di ricerca ancora dopo un
secolo e mezzo una fabbrica di idee, di ipotesi e di dibattiti, tra robuste
conferme, estensioni, aggiornamenti e revisioni. Poche pagine prima, parlando
con orgoglio delle molte traduzioni estere di OdS, si era concesso una
predizio- ne lusinghiera: “la risonanza del mio nome dovrebbe durare per alcuni
anni” (p. 121). Altro che: alcuni secoli ormai. Nonostante le tante preoccu-
pazioni figlie della sua mitezza, Darwin fu un uomo libero, un esempio di
intellettuale civile dentro la tempesta di emancipazione che aveva prodot- to,
oggetto di quelli che definiva “i violenti attacchi degli ortodossi” reli-
giosi. Rileggiamo il suo capolavoro innanzitutto perché è ancora oggi un’a- genda
aperta sul futuro. “Intanto questo è un principio”, aveva scritto a Hooker nel
1869, e così è stato. Qui”” abbiamo cercato di raccontarne l’in- tricata
genesi, il metodo innovativo e la peculiare struttura interna. 27 L'autore, che
si assume ogni responsabilità su quanto scritto, rivolge un sincero
ringraziamento a Giuseppe Fusco e ad Alessandro Minelli per l'attenta lettura
cri- tica del manoscritto 189 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI 1. Principali biografie
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Codice Edizioni. Torino. 2008. Riferimenti bibliografici 195 Telmo Pievani
(1970) è professore associato presso il Dipartimento di Biologia
dell'Università degli studi di Padova, dove insegna Filosofia delle Scienze
Biologiche. Dal 2001 al 2012 è stato in servizio presso l’Università degli
studi di Milano Bicocca. Filo- sofo e storico della biologia ed esperto di
teoria dell'evoluzione, è autore di nume- rose pubblicazioni nazionali e
internazionali nel campo della filosofia della scien- za, fra le quali:
Introduzione alla filosofia della biologia (Laterza, Roma-Bari, 2005); La teoria
dell'evoluzione (Il Mulino, Bologna, 2006 e 2010); Creazione senza Dio
(Einaudi, Torino, 2006, finalista Premio Galileo e Premio Fermi); /n di- fesa
di Darwin (Bompiani, Milano, 2007); Nati per credere (Codice Edizioni, To-
rino, 2008, con V. Girotto e G. Vallortigara); La vita inaspettata (Raffaello
Cortina Editore, Milano, 2011; finalista Premio Galileo; Premio Serono Menzione
Specia- le 2012); Homo sapiens. La grande storia della diversità umana (Codice
Edizioni, Torino, 2011, con L.L. Cavalli Sforza); Introduzione a Darwin
(Laterza, Roma-Ba- ri, 2012); La fine del mondo. Guida per apocalittici
perplessi (Il Mulino, Bologna, 2012). Alcuni di questi volumi sono tradotti e
in corso di traduzione in lingue stra- niere, fra le quali inglese, spagnolo e
portoghese. Fa parte del Comitato Etico e del Comitato Scientifico della
Fondazione Umberto Veronesi per il progresso delle scienze, per la quale
collabora ai comitati di pro- gramma delle conferenze mondiali “The Future of
Science” e “Science for Peace”. Socio corrispondente dell'Istituto Veneto di
Scienze, Lettere e Arti per la classe di Scienze, membro della Società Italiana
di Biologia Evoluzionistica, componente del Direttivo dell'Istituto Italiano di
Antropologia, fa parte dell'Editorial Board di riviste scientifiche
internazionali come Evolutionary Biology e Evolution: Educa- tion and Outreach.
È direttore di Pikaia, il portale italiano dell'evoluzione. È com- ponente del
Consiglio Scientifico del Festival della Scienza di Genova. Insieme a Niles
Eldredge e lan Tattersall ha curato l'edizione italiana rinnovata della mostra
intemazionale “Darwin.1809-2009” (Roma-Milano-Bari 2009-2010). Insieme a Luigi
Luca Cavalli Sforza è curatore del progetto espositivo internazio- nale “Homo
sapiens: la grande storia della diversità umana” (Roma, Palazzo delle
Esposizioni, 2011-2012; Trento, 2012-2013; Novara, 2013). Collabora con //
Corriere della Sera e con le riviste Le Scienze, Micromega e L'In- dice dei
Libri.Dietelmo Pievani. Telmo Pievani. Pievani. Keywords: il maschio, maschile,
maschilita, maschilita fascista, fascist masculinities, il concetto di maschio,
dysmorphismo sessuale – sessualita e mascolinita, il maschio – uso del maschio
in opposizione a sostantivi astratti come mascolinita, o maschilita. i macchi,
homosociale, Romolo Enea l’antenato. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Pievani” –
The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Piovani: la ragione
conversazionale d’Enea, l’eroe al portico, o l’implicatura conversazionale
assente – la scuola di Napoli -- filosofia campanese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Napoli,
Campania. Grice: “Like Austin, and then again like me, Piovani could invent
lingo. The whole point of ordinary-language philosophy was an attack on
‘philosophical language,’ and there we are, Austin, Grice and Piovani INVENTING
unordinary philosophical language! In
Piovani’s case is ‘assenzialismo’!” –Studia a Napoli. Insegna a Trieste,
Firenze, Roma, Napoli. Dei lincei. Scrive su alcuni fogli del regime. La sua
ricerca filosofica ha avvio all'indomani immediato della tragica conclusione
della seconda guerra mondiale e di ciò porta i segni anche nell'elaborazione
della propria caratterizzazione etico-politica, presto approdata alle ragioni
del liberalismo democratico. Dinanzi alla drammatica conclusione dell'esito
volontaristico dell'attualismo, la necessità di ripensare il modello
idealistico lo induce ad un'intensa riflessione sul significato e sul valore
dell'individuo nel suo farsi persona. Spazia dalla filosofia del diritto alla
filosofia del concetto, soprattutto a quello meridionale, ricopre incarichi
nelle più importanti accademie italiane. Fonda il centro di studi vichiani.
Pratica una fenomenologia dell'individuale. Per il pensatore napoletano
l'individuo non è concepito come un'entità chiusa ed ego-istica tendente
all'assolutizzazione ma, al contrario, accettando egli la sua natura di vivente
limitato, afferma sé stesso nella responsabilità della propria azione.
Concorrono elementi esistenzialistici, l’analisi dell’esperienza comune. Di ciò
è documento “Norma e società” (Napoli, Jovene). Utilizza anche temi della prima
azione blondeliana. La necessità di fondare la persona grazie a un criterio o
norma, che è la ragione dell’agire e del pensare -- la logica della vita morale
-- fa scoprire il tema di fondo della
filosofia morale. Il soggetto è un volente non volutosi -- vale a dire
che il soggetto, per quanto approfondisca il proprio essere che è il suo
esistere, deve arrestarsi dinanzi alla constatazione di essere dato, di non
essersi voluto. L’alternativa esistenziale dell’accettazione della vita ne riscatta,
con la volontà di essere a fronte della possibilità contraddittoria del
suicidio, l’originaria datità. Ma questa accettazione, che è la sola possibile
fondazione della vita morale, rifiuta ogni ostinazione singolaristica e
comporta che la vita è vita di relazione, dove questa non è conquista ma
condizione consustanziale del soggetto che si accetta e dunque accetta l’altro,
a iniziare dalla propria alterità rispetto a se stesso. L’essenziale
instaurazione personalitaria consente la fondazione del diritto e della morale.
Entrambe formazioni storiche, fondate dinamicamente in quanto capaci di
comprendere ogni forma in cui si sostanzi l’attivo desiderio dell’uomo di
soddisfare l’insaziabile bisogno di valori, anch'essi costruiti dalla scelta
esistenziale dei soggetti storici. Sostiene che l'essere umano non possa fare
affidamento su alcun tipo di fondamento poiché, essendo un essere limitato e
storico, è di fatto costretto a fondare continuamente i suoi punti di
riferimento. A questo proposito assumono appunto un ruolo primario il valore, considerate non come assoluto
bensì prodotto della specificità individuale. Del resto proprio il valore
esalta la responsabilità dell'azione degl’individui, che, altrimenti, verrebbe
mortificata nel riferimento obbligato a qualcosa di assoluto. Si può dunque
parlare di un pluralismo etico che non significa relativismo ma relatività e,
dunque, rispetto. Una posizione che sembra chiaramente riprendere il pensiero
di Kant e, in particolare, il tema dell'agonismo etico. Per il ricorrere di
questi temi, la sua filosofia può riassumersi nella formula tra esistenzialismo
ri-pensato e storicismo ri-novato. Tra questi, un numero di “Gerarchia”, su cui
scrive riferendosi alla partecipazione
emotiva degl’italiani al conflitto. Questo modo di sentire e di interpretare
gl’eventi deve essere posto in luce perché esso indica che un ventennio di
regime fascista è riuscito a dare agl’italiani almeno quel senso di
pre-occupazione della tutela e della difesa dei propri interessi, che è il presupposto
indispensabile per la formazione di una autentica e completa coscienza
imperiale. Roma e Tirana, in Gerarchia, Evoluzione liberale, in Biblioteca
della libertà, P,, Enciclopedia filosofica di Gallarate, Bompiani, Milano.
Altre saggi: “Il significato del principio di effettività” (Milano, Giuffre);
“Morte e tras-figurazione
dell'Università” (Napoli, Guida);“Teo-dicea sociale” (Padova, Milani);
“Linee di una filosofia del diritto” (Padova, MILANI); “Gius-naturalismo ed
etica moderna” (Bari, Laterza); “Filosofia e storia delle idee” (Bari,
Laterza); “Conoscenza storica e coscienza morale” (Napoli, Morano); “Principi
di una filosofia della morale” (Napoli, Morano); “Oggettivazione etica ed
assenzialismo” (Napoli, Morano) – l’implicatura assente; “La filosofia nuova di
VICO” ((Napoli, Morano); “ Per una filosofia della morale” (Milano, Bompiani);
Tra esistenzialismo e storicismo: la filosofia morale (Napoli, Morano);
Tessitore, Napoli, Società nazionale di scienze lettere e arti, Jervolino,
Logica del concreto ed ermeneutica della vita morale. Newman, Blondel, Napoli,
Morano, Acocella, Idee per un'etica sociale. Soveria Mannelli, Rubbettino,
Amodio, degli scritti su P., Napoli,
Liguori, Lissa, Anti-ontologismo e fondazione etica (Napoli, Giannini); Nieddu,
Norma soggetto storia: saggio sulla filosofia della morale (Napoli, Loffredo);
Nieddu, Incontri blondellani”; “Volontà, norma, azione” (Cagliari, Editore);
Perrucci, L'etica della responsabilità” (Napoli, Liguori); Morrone, La scuola
napoletana: lettura critica e informazione bibliografica, Roma: Edizioni di
Storia e Letteratura (Sussidi eruditi); Olivetti, Enciclopedia, Appendice,
Roma, Istituto dell'Enciclopedia, Etica Enciclopedia, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia, Centro di studi
vichiani del Cnr di Napoli. La lezione etica più che mai attuale di Tessitore,
Il Messaggero, di Tessitore, Napoli, 1 studi vichiani. Filosofo italiano della
morale e del diritto; muore a Napoli; prof. a Trieste, Firenze, Roma, Napoli;
socio corrispondente dei Lincei. Sensibile ai problemi del soggetto nella
società (Normatività e società), vide nel diritto il segno della mediazione tra
particolare e universale (Linea di una filosofia del diritto; La filosofia del
diritto come scienza filosofica). Affronta poi temi tipici dello storicismo
critico proponendo una esistenzializzazione della storia insieme con una
storicizzazione dell'esistenza (Filosofia e storia delle idee; Conoscenza
storica e coscienza morale; Principi di una filosofia della morale). Tra le
altre opere: Il significato del principio di effettività; La teodicea sociale
di Rosmini-Serbati; Giusnaturalismo ed etica moderna; Oggettivazione etica e
essenzialismo. Pietro Piovani. Piovani. Keywords: “i principi metafisici di
Vico”, Vico, principio. Luigi Speranza, “Grice e Piovani: I principi metafisici
di Vico”, filosofia nuova di VIco, la Gerarchia, Roma e tiranna – colletivo,
guerra, esperienza condivisa, ventennio del regime – il debito di Vico a Roma
--- la Roma di Vico e la Roma antica – interpretazione filosofica – idealismo,
Hegel, implicatura assente, assenzialimso --. The Swimming-Pool Library, Villa
Speranza.
Luigi Speranza --
Grice e Piralliano: la ragione conversazionale del gruppo di gioco
dell’accademia – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A philosophical
acquaintance of Elio Aristide. Accademia.
Luigi Speranza -- Grice e Pirandello: all’isola
-- la ragione conversazionale -- e dov’è il copione? è in noi, signore – il
dramma è in noi -- siamo noi – I ciclopu – identita personale, l’uno, nessuno, decadentismo
– reduzione siciliana – la scuola di Girgenti -- filosofia siciliana –
filosofia italiana -- Luigi Speranza (Girgenti). Filosofo
italiano. Girgenti, Sicilia. Grice: “Pirandello would say he is no philosopher,
but then I’m a cricketer!” --. Medaglia del Premio Nobel Premio Nobel per la
letteratura. Grice: “I quoted Brecht! I should have called Pirandello!” -- Per
la sua produzione, le tematiche affrontate e l'innovazione del racconto
teatrale è considerato tra i più importanti drammaturghi del XX secolo. Tra i
suoi lavori spiccano diverse novelle e racconti brevi (in lingua italiana e
siciliana) e circa quaranta drammi, l'ultimo dei quali incompleto. Io son
figlio del Caos. E non allegoricamente, ma in giusta realtà, perché son nato in
una nostra campagna, che trovasi presso ad un intricato bosco denominato, in
forma dialettale, Càvusu dagli abitanti di Girgenti, corruzione dialettale del
genuino e antico vocabolo greco Kaos. Figlio di Stefano Pirandello e Caterina
Ricci Gramitto, appartenenti a famiglie di agiata condizione borghese, dalle
tradizioni risorgimentali, nacque in contrada Càvusu a Girgenti..Nell'imminenza
del parto che dove avvenire a Porto Empedocle, per un'epidemia di colera che
stava colpendo la Sicilia, il padre decide di trasferire la famiglia in
un'isolata tenuta di campagna per evitare il contatto con la pestilenza. Porto
Empedocle, prima di chiamarsi così, era la Borgata Molo. Quando si decide che
la borgata diviene comune autonomo. La linea di confine fra i due comuni venne
fissata all'altezza della foce di un fiume essiccato che taglia in due la
contrada chiamata u Càvuso o u Càusu, pantalone. Questo Càvuso appartene a metà
alla Borgata Molo e l'altra metà a GIRGENTI. A qualche impiegato dell'ufficio anagrafe
parve che non e cosa che si scrive che qualcuno e nato in un paio di pantaloni
e cangia quel volgare càusu in caos. Il padre, partecipa alle imprese
garibaldine. Sposa Caterina, sorella di un suo commilitone, Rocco Ricci
Gramitto. Il suo nonno materno, Giovanni Battista Ricci Gramitto, e tra
gli esponenti di spicco della rivoluzione siciliana e, escluso dall'amnistia al
ritorno del Borbone, fuggito in esilio a Malta dove muore. Il bonno paterno,
Andrea Pirandello, e un armatore e ricco uomo d'affari di Pra', ora quartiere
di Genova. La famiglia vive in una situazione economica agiata, grazie al
commercio e all'estrazione dello zolfo. La sua infanzia e serena ma, come
lui stesso racconta, caratterizzata anche dalla difficoltà di comunicare con
gli adulti e in specie con i suoi genitori, in modo particolare con il padre.
Questo lo stimola ad affinare le sue capacità espressive e a studiare il modo
di comportarsi degli altri per cercare di corrispondervi al meglio. Fin
da ragazzo soffre d'insonnia e dorme abitualmente solo tre ore per notte. E molto
devoto alla Chiesa cattolica grazie all'influenza che ebbe su lui una domestica
di famiglia, che lo avvicinò alle pratiche religiose, ma inculcandogli anche
credenze superstiziose fino a convincerlo della paurosa presenza degli spiriti.
La chiesa e i riti della confessione religiosa gli permettevano diaccostarsi ad
un'esperienza di misticismo, che cercherà di raggiungere in tutta la sua
esistenza. Si allontanò dalle pratiche religiose per un avvenimento
apparentemente di poco conto: un prete aveva truccato un'estrazione a sorte per
far vincere un'immagine sacra al giovane Luigi; questi rimase così deluso dal
comportamento inaspettatamente scorretto del sacerdote che non volle più avere
a che fare con la Chiesa, praticando una religiosità del tutto diversa da
quella ortodossa. Dopo l’istruzione elementare impartitagli privatamente,
fu iscritto dal padre alla regia scuola tecnica di Girgenti, ma durante
un’estate preparò, all’insaputa del padre, il passaggio agli studi classici. In
seguito a un dissesto economico, la famiglia si trasfere a Palermo. Frequenta
il regio ginnasio Vittorio Emanuele II e dove rimase anche dopo il rientro dei
suoi a Porto Empedocle. Si appassiona subito alla letteratura. Scrive “Barbaro",
andata perduta. Aiuta il padre nel commercio dello zolfo, e puo conoscere
direttamente il mondo degl’operai nelle miniere e quello dei facchini delle
banchine del porto mercantile. Studia a Palermo e Roma. Studia filologia sotto
Monaci. Studia Bücheler, Usener e
Förster. Scrive “Foni ed evoluzione fonetica del dialetto della provincia
di Girgenti.” Si trasfere a Roma, dove poté mantenersi grazie agli assegni
mensili inviati dal padre. Qui conobbe L. Capuana che lo aiutò molto a farsi
strada nel mondo letterario e che gli aprì le porte dei salotti intellettuali
dove ebbe modo di conoscere giornalisti, scrittori, artisti e critici. Un
allagamento e una frana nella miniera di zolfo di Aragona di proprietà del
padre, nella quale era stata investita parte della dote di Antonietta, e da cui
anche Pirandello e la sua famiglia traevano un notevole sostentamento, li
ridusse sul lastrico. Questo avvenimento accrebbe il disagio mentale, già
manifestatosi, della moglie di P., Antonietta. Ella era sempre più spesso
soggetta a crisi isteriche, causate anche dalla gelosia, a causa delle quali o
lei rientrava dai genitori, o Pirandello era costretto a lasciare la casa. La
malattia prese la forma di una gelosia delirante e paranoica, che la porta a
scagliarsi contro tutte le donne che parlassero col marito, o che lei pensava
che volessero avere un qualche tipo di rapporto con lui; perfino la figlia
Lietta susciterà la sua gelosia, e a causa del comportamento della madre
tenterà il suicidio e poi se ne andrà di casa. La chiamata alle armi di Stefano
nella Grande Guerra peggiorò ulteriormente la sua situazione mentale. Solo
diversi anni dopo, egli, ormai disperato, acconsentì che Antonietta fosse
ricoverata in un ospedale psichiatrico. Morirà in una clinica per malattie
mentali di Roma, sulla via Nomentana. La malattia della moglie lo porta ad approfondire, portandolo ad avvicinarsi
alle nuove teorie sulla psicoanalisi di Freud, lo studio dei meccanismi della
mente e ad analizzare il comportamento sociale nei confronti della malattia
mentale. Spinto dalle ristrettezze economiche e dallo scarso successo
delle sue prime opere letterarie, e avendo come unico impiego fisso una cattedra
di stilistica dove impartire lezioni private di italiano e di tedesco,
dedicandosi anche intensamente al suo lavoro letterario. Inizia anche una
collaborazione con il Corriere della Sera. Il suo primo grande successo fu
merito del romanzo Il fu Mattia Pascal, scritto nelle notti di veglia alla
moglie paralizzata alle gambe. La critica non diede subito al romanzo il
successo che invece ebbe tra il pubblico. Numerosi critici non seppero cogliere
il carattere di novità del romanzo, come d'altronde di altre opere di P..
Perché P. arrivasse al successo si dovette aspettare a quando si dedica
totalmente al teatro. Lo scrittore siciliano aveva rinunciato a scrivere opere
teatrali, quando l'amico N. Martoglio gli chiese di mandare in scena nel
suo Minimo presso il Metastasio di Roma
alcuni suoi lavori: Lumie di Sicilia e l'Epilogo. Acconsente e la rappresentazione
dei due atti unici ebbe un discreto successo. Tramite i buoni uffici del suo
amico Martoglio anche A. Musco volle cimentarsi con il teatro pirandelliano:
Pirandello tradusse per lui in siciliano Lumie di Sicilia, rappresentato con
grande successo al Pacini di Catania. Cominciò da questa data la collaborazione
con Musco che incominciò a guastarsi dopo qualche tempo per la diversità
di opinioni sulla messa in scena di Musco della commedia Liolà nel novembre al
teatro Argentina di Roma: «Gravi dissensi» di cui Pirandello scrive al figlio
Stefano. La guerra fu un'esperienza dura per Pirandello; il figlio venne
infatti imprigionato dagli austriaci, e, una volta rilasciato, ritorna in
Italia gravemente malato e con i postumi di una ferita. Durante la guerra,
inoltre, le condizioni psichiche della moglie si aggravarono al punto da
rendere inevitabile il ricovero in manicomio dove rimase fino alla morte. Dopo
la guerra, lo scrittore si immerse in un lavoro frenetico, dedicandosi soprattutto
al teatro. Fonda la Compagnia del Teatro d'Arte di Roma con due grandissimi
interpreti dell'arte pirandelliana: Marta Abba e Ruggero Ruggeri. Con questa
compagnia cominciò a viaggiare per il mondo: le sue commedie vennero
rappresentate anche nei teatri di Broadway. Nel giro di un decennio
arrivò ad essere il drammaturgo di maggior fama nel mondo, come testimonia il
premio Nobel per la letteratura ricevuto per il suo ardito e ingegnoso
rinnovamento dell'arte drammatica e teatrale. Degno di nota fu lo stretto
rapporto con Abba, sua musa ispiratrice, della quale Pirandello, secondo molti
biografi e conoscenti, era innamorato forse solamente in maniera
platonica. Molte delle opere pirandelliane cominciavano intanto ad essere
trasposte al cinema. Pirandello andava spesso ad assistere alla lavorazione dei
film; andò anche negli Stati Uniti d'America, dove famosi attori e attrici di
Hollywood, come Garbo, interpretavano i suoi soggetti. Nell'ultimo di questi
viaggi andò a trovare, su invito, Einstein a Princeton. In una conferenza
stampa difese con veemenza la politica estera del FASCISMO, con la guerra
d'Etiopia, accusando i giornalisti statunitensi di ipocrisia, citando il
colonialismo contro i nativi americani. Pirandello e la politica: l'adesione al
fascismo. Non aveva mai preso specifiche posizioni politiche, tranne
l'ammirazione per il patriottismo garibaldino di famiglia, unica certezza in
un'epoca di crisi. La sua idea politica di fondo e legata principalmente a
questo patriottismo risorgimentale. Una sua lettera apparsa sul Giornale di
Sicilia testimonia gli ideali patriottici della famiglia, proprio nei primi
mesi dallo scoppio della Grande Guerra durante la quale il figlio e fatto
prigioniero dagli austriaci e rinchiuso, per la maggior parte della prigionia,
nel campo di concentramento di Pian di Boemia, presso Mauthausen. Non riuscì a
far liberare il figlio malato neppure con l'intervento di Benedetto XV. Nella
sua vita condivise alcune delle idee dei giovani fasci siciliani e del
socialismo; ne I vecchi e i giovani si nota come la sua idea politica e stata
oscurata dalla riflessione umoristica. Per Pirandello, i siciliani hanno subìto
le peggiori ingiustizie dai vari governi italiani -- è questa l'unica idea
forte che ci presenta. Nella prima guerra mondiale e un interventista,
anche se avrebbe preferito che il figlio non partecipasse in prima linea alla
guerra, cosa che invece fa, arruolandosi volontario immediatamente e rimanendo
ferito e prigioniero degli austriaci, situazione che e estremamente angosciosa
per lo scrittore. Nel primo dopoguerra non adere subito ai fasci di
combattimento, tuttavia pochi anni dopo esplicita l'adesione al fascismo, ormai
istituzionalizzato. E ricevuto da Mussolini a Palazzo Chigi. Chiese
l'iscrizione al partito fascista inviando un telegramma a Mussolini, pubblicato
subito dall'agenzia Stefani. Eccellenza, sento che questo è per me il momento
più proprio di dichiarare una fede nutrita e servita sempre in silenzio. Se
l'E.V. mi stima degno di entrare nel partito nazionale fascista, pregerò come
massimo onore tenermi il posto del più umile e obbediente gregario. Con
devozione intera. Il telegramma arriva in un momento di grande difficoltà per
il presidente del consiglio dopo il ritrovamento del corpo di Matteotti. Per la
sua adesione al fascismo e duramente attaccato da alcuni intellettuali e
politici fra cui il deputato liberale G. Amendola che in un a saggio arriva a
dargli dell'accattone che voleva a tutti i costi divenir senatore del Regno. Pur
non ritrovandosi caratterialmente con Mussolini e molti gerarchi, che ritiene
persone troppo rozze e volgari, oltre che poco interessati al teatro, non
rinnega mai la sua adesione al fascismo, motivata tra le altre cose da una
profonda sfiducia nei regimi social-democratici, così come non si interessa mai
del marxismo, solo ne “I vecchi e i giovani” mostra un leggero interesse per il
socialismo -- regimi nei quali si andano trasformando la democrazia liberale,
che ritene a loro volta corrotta, portando ad esempio gli scandali dell'età
giolittiana e il trasformismo. Pova inoltre un deciso disprezzo per la classe
politica che avrebbe voluto vedere, nichilisticamente, cancellata dalla vita
del Paese, e una forte sfiducia verso la massa caotica del popolo, che anda istruita
e guidata da una sorta di monarca illuminato. E tra i firmatari del Manifesto redatto
da GENTILE. La sua adesione al FASCISMO e per molti imprevista e sorprende anche
i suoi più stretti amici. Sostanzialmente egli, per un certo conservatorismo
che comunque ha, guarda al duce come ri-organizzatore della società. Un'altra
motivazione addotta per spiegare tale scelta politica è che il fascismo lo
riconduce all’ideale patriottico ri-sorgimentale di cui e convinto sostenitore,
anche per le radici garibaldine del padre. Vede nelli una idea originale, che
dove rappresentare la forma dell'Italia destinata a divenire modello. Puo apparire
un punto di contatto colli fasci il sostenuto relativismo filosofico di
entrambi. Ben diverso pero è il relativismo morale dei fasci, fondato sull'attivismo
e il suo relativismo esistenziale che si richiama allo scetticismo razionale. Si
fa interprete di un relativismo pessimistico, angosciato, negatore di ogni
certezza, incompatibile con l'ansia attivistica o il relativismo ottimistico
dei fasci Sempre nel solco di Amendola e dei critici anti-fascisti vi è anche
un commento più pragmatico alla sua iscrizione al Partito fascista, la quale
avrebbe avuto origine nel suo ricercare finanziamenti per la creazione della
sua compagnia di teatro, che ha così il sostegno del regime e le relative
sovvenzioni. Il governo fascista, pero, perfino dopo il Nobel, gli prefiere
sempre Annunzio e Deledda, anche lei vincitrice del premio, come letterati
ideali del regime. Ha molta difficoltà a re-perire i fondi statali, che
Mussolini spesso non vuole concedergli. Non sono infrequenti suoi scontri
violenti con autorità fasciste e dichiarazioni aperte di a-politicità. Sono a-politic.
Mi sento soltanto uomo sulla terra. E, come tale, molto semplice e parco. Se
vuole potrei aggiungere casto. Clamorosoe il gesto narrato da C. Alvaro in cui a Roma
strappa la sua tessera del suo fascio davanti agli occhi esterrefatti del
Segretario Nazionale. Nonostante ciò, una rottura aperta col fascismo non
si onsume mai. Si conclude senza troppa fortuna l'esperienza del Teatro
d'Arte. Dopo lo scioglimento, in tacita polemica con il regime fascista che a
suo avviso era troppo parco di sostegno ai suoi progetti teatrali, si ritira. Forse
a parziale compensazione di questo mancato sostegno, e uno dei primi trenta accademici,
nominati direttamente da Mussolini, della neo costituita Reale Accademia
d'Italia – i reali italiani! In nome del suo ideale patriottico, partecipa
alla raccolta dell'oro per la patria donando la medaglia del premio Nobel. Questa
scelta di adesione ai fasci è stata spesso sia minimizzata sia accentuata dalla
critica. L’ideologia fascista non ha mai parte nella sua vita o nel suo teatro,
abbastanza avulse della realtà politica, così che non fu in grado di vedere e
giudicare la violenza dei fasci. Il contenuto anarchico, corrosivo, pessimista
e quasi sempre anti-sistema del suo teatro e guardato con sospetto da molti
uomini del partito. Non lo considerano una vera "arte fascista". La
critica non lo esalta, spesso considerando il suo teatro non conformi all’ideale
fascista. Vi si vede una certa insistenza e considerazione della borghesia
altolocata che i fasci condanno come corrotta e decadente. Gl’arzigogoli
filosofici dei personaggi dei suoi drammi borghesi sono considerati quanto di
più lontano dall'attivismo fascista. Anche dopo l'attribuzione del Nobel
parecchi teatro e accusato dalla stampa di regime di disfattismo tanto che
anche fine tra i controllati speciali dell'OVRA. Nonostante i suoi elogi al
capo del governo, il Duce fa sequestrare l'opera “La favola del figlio” cambiato,
per alcune scene ritenute non consone, impedendone le repliche. A lui e imposta,
per contrasto, la regia dell'opera dannunziana La figlia di Jorio! Le sue volontà
testamentarie, che negavano ogni funerale e celebrazione, metteranno in
imbarazzo i fascisti e lo stesso Mussolini, che ordina così alla stampa che non
ci fanno troppe celebrazioni sui quotidiani, ma che ne fanno data solo la
notizia, come di un semplice fatto di cronaca. Il rifugio di Soriano nel Cimino
ama trascorrere ampi periodi dell'anno nella quiete di Soriano nel Cimino, un'amena
e bella cittadina ricca di monumenti storici e immersa nei boschi del Monte
Cimino. In particolare rimase
affascinato dalla maestosità e dalla quiete di uno stupendo castagneto situato
nella località di "Pian della Britta", a cui volle dedicare
un'omonima poesia, che oggi è scolpita su una lapide di marmo posta proprio in
tale località. Ambienta a Soriano nel Cimino (citando luoghi, località e
personaggi realmente esistiti) anche due tra le sue più celebri novelle Rondone
e Rondinella e Tomassino ed il filo d'erba. A Soriano nel Cimino, è rimasto
vivo ancora oggi il suo ricordo a cui sono dedicati monumenti, lapidi e
strade. Frequenta anche Arsoli per molti anni, soprattutto durante i
periodi estivi, dove amava dissetarsi con una gassosa nell'allora bar Altieri
in piazza Valeria. Il suo amore per il paese si ritrova nella definizione che
egli stesso diede ad Arsoli chiamandola La piccola Parigi. Appassionato di
cinematografia, mentre assiste a Cinecittà alle riprese di un film tratto dal
suo romanzo Il fu Mattia Pascal, si ammala di polmonite. Ha già subito due
attacchi di cuore. Il suo corpo, ormai segnato dal tempo e dagli avvenimenti
della vita, non sopporta oltre. Al medico che tenta di curarlo, disse. Non
abbia tanta paura delle parole, professore, questo si chiama morire. La malattia
si aggrava e muore. Per lui il regime fascista vuole esequie di stato. Viene nvece
rispettate le sue volontà espresse nel testamento. Carro d'infima classe,
quello dei poveri. Nudo. E nessuno m'accompagni -- né parenti né amici. Il
carro, il cavallo, il cocchiere e basta. Bruciatemi. Per sua volontà il corpo,
senza alcuna cerimonia, e cremato, per evitare postume consacrazioni
cimiteriali e monumentali. Le sue ceneri furono deposte in una preziosa anfora
greca già di sua proprietà e tumulate nel cimitero del Verano. Camilleri e
altri quattro dettero il via a un lento e travagliato adempimento delle sue
ultime volontà (in caso non fosse stato possibile lo spargimento). Far
seppellire le ceneri nel giardino della villa di contrada Caos, dove e nato. Ambrosini
trasporta l'anfora in treno, chiusa in una cassetta di legno. A Palermo il
corteo funebre venne però bloccato dal vescovo di Agrigento Peruzzo. Camilleri
si reca al vescovo, che rimase inamovibile. Propose allora con successo l'idea
di inserire l'anfora in una bara, che venne appositamente affittata. Il corteo,
per un breve tratto a piedi e poi a bordo di una littorina, giunse a Girgenti. Dopo
una cerimonia religiosa, l'anfora con le ceneri e estratta dalla bara e riposta
nel Museo Civico di Agrigento, in attesa della costruzione di un monumento nel
giardino della villa. Solo dopo parecchi anni dalla morte, realizzata una scultura
monolitica di R. Mazzacurati, artista vincitore del concorso indetto,
costituita principalmente da una grossa pietra non lavorata, le ceneri vennero
portate nel giardino e versate in un cilindro di rame inserito nel terreno, che
venne chiuso da una pietra sigillata con del cemento. Una parte rimanente
delle ceneri, trovata anni dopo attaccata ai lati interni dell'anfora, non
essendo più contenibile nel cilindro ri-colmo e ri-aperto per l'occasione,
venne dispersa, rispettando il desiderio originario di lui stesso. Davanti agli
occhi di una bestia crolla come un castello di carte qualunque sistema
filosofico. (L. Pirandello, dai Foglietti). E convinto che qualunque filosofia e
fallita di fronte all'insondabilità dell'uomo quando in lui prevale la bestia
-- l'aspetto animalesco e irrazionale. La sua e una teoria della pluralità
dell'io. Pubblica i saggi “Arte e Scienza” e “L'umorismo” -- caratterizzati da
un'esposizione di stile colloquiale, molto lontana dal consueto discorso
filosofico. I due saggi sono espressione di un'unica identita artistica ed
esistenziale che ha coinvolto lo scrittore siciliano che vede come centrale
proprio la poetica dell'umorismo. In “L'umorismo” confluiscono idee, brani di
scritti e appunti precedenti. Sue varie chiose e annotazioni a L'indole e il
riso di Pulci di A. Momigliano e parti dell'articolo di Cantoni nella «Nuova
Antologia». Il suo umorismo si inserisce in un rigoglioso e più che secolare
campo di meditazione e ricerca sull'omonimo tema; e rappresenta il momento ri-epilogativo
probabilmente più soddisfacente di una serie di acquisizioni teoriche che la
cultura ha chiare e consolidate . Bisogna infatti aspettare il saggio di Genovese,
“Il Comico, l’Umore e la Fantasia o Teoria del Riso come Introduzione all’Estetica”
(Bocca, Torino) per avere un saggio di ampia informazione e documentazione, di
solido spessore speculative pur nell'ispirazione idealistica da cui prende le
mosse. Tecnicamente persuasivo, insomma, e con ben altre fondamenta teoretiche,
praltro, in un panorama di non rara fossilizzazione culturale, va detto che
l'opera di Genovese è stata appaiata forse soltanto dal coraggioso saggio, e
Homo ridens. Estetica, Filologia, Psicologia, Storia del Comico” (Firenze,
Olsckhi). Distingue il comico dall'umoristico. Il comico e definito come avvertimento
del contrario, nasce dal contrasto tra l'apparenza e la realtà. Vedo una
vecchia signora, coi capelli ritinti, tutti unti non si sa di qual orribile
manteca, e poi tutta goffamente imbellettata e parata d'abiti giovanili. Mi
metto a ridere. "Avverto" che quella vecchia signora è il contrario
di ciò che una rispettabile signora dovrebbe essere. Posso così, a prima giunta
e superficialmente, arrestarmi a questa espressione comica. Il comico è appunto
un "avvertimento del contrario. L'umorismo, il "sentimento del
contrario", invece nasce da una considerazione meno superficiale della
situazione. Ma se ora interviene in me la riflessione, e mi suggerisce che
quella vecchia signora non prova forse piacere a pararsi così come un
pappagallo, ma che forse ne soffre e lo fa soltanto perché pietosamente,
s'inganna che, parata così, nascondendo le rughe e le canizie, riesca a
trattenere a sé l'amore del marito molto più giovane di lei, ecco che io non
posso più riderne come prima, perché appunto la riflessione, lavorando in me,
mi ha fatto andar oltre a quel primo avvertimento, o piuttosto, più addentro. Da
quel primo *avvertimento* del *contrario* mi ha fatto passare a questo *sentimento*
del contrario. Ed è tutta qui la differenza tra il comico e l'umoristico. Quindi,
mentre il comico genera quasi immediatamente la risata perché mostra subito la
situazione *evidentemente contraria* a quella che dovrebbe normalmente essere,
l'umoristico nasce da una più ponderata ri-flessione che genera compassione e
un sorriso di comprensione. Nell'umoristico c'è il senso di un *comune sentimento*
della fragilità dell’uomo da cui nasce un compatimento per la debolezze dell’altro
che e anche la propria. L'umoristico è meno spietato del comico che giudica in
maniera immediata. Non ci fermiamo alle apparenze, ciò che inizialmente ci
fa ridere adesso ci fa tutt'al più sorridere, o piantare. La filosofia dell'umoristico in nasce già quando pubblica
le due premesse de Il fu Mattia Pascal dove richiamandosi al “Copernico” di
Leopardi riprende l'ironia che attribusce l’eliocentrismo alla pigrizia del sole
stanco di girare attorno ai pianeti. Si vede una notazione dell’umoristico
nella contrapposizione di due sentimenti opposti. Dopo l’accettazione
dell’eliocentrismo, i terrestri accetano di essere una parte infinitesimale
dell'universo e nello stesso tempo la sua capacità di
compenetrarsene. L'analisi dell'identità condotta da lui lo porta a
formulare la teoria della crisi dell'io. Il nostro spirito consiste di
frammenti, o meglio, di elementi distinti, più o meno in rapporto tra loro, i
quali si possono disgregare e ricomporre in un nuovo aggregamento, così che ne
risulti una nuova personalità, che pur fuori dalla coscienza dell'io normale,
ha una propria coscienza a parte, indipendente, la quale si manifesta viva e in
atto, oscurandosi la coscienza normale, o anche coesistendo con questa, nei
casi di vero e proprio sdoppiamento dell'io. Talché veramente può dirsi che due
persone vivono, agiscono a un tempo, ciascuna per proprio conto, nel medesimo
individuo. Con gli elementi del nostro io noi possiamo perciò comporre,
costruire in noi stessi altri individui, altri esseri con propria coscienza,
con propria intelligenza, vivi e in atto. Paradossalmente, il solo modo per
recuperare la propria identità è la follia, tema centrale in molte opere, come
l'Enrico IV o come Il berretto a sonagli, nel quale inserisce addirittura una
ricetta per la pazzia: dire sempre la verità, la nuda, cruda e tagliente
verità, infischiandosene dei riguardi, delle maniere, delle ipocrisie e delle
convenzioni sociali. Questo comportamento porta presto all'isolamento da parte
della società e, agli occhi degli altri, alla pazzia. Abbandonando le
convenzioni sociali e morali l'uomo può ascoltare la propria interiorità e
vivere nel mondo secondo le proprie leggi, cala la maschera e percepisce se
stesso e l’altro senza dover creare un personaggio, è semplicemente “persona”. Esemplare
di tale concezione è l'evoluzione di Vitangelo Moscarda, protagonista di Uno,
nessuno e centomila. Ancora sulla crisi dell'identità del singolo
impotente con la sua razionalità di fronte al mistero universale che lo
circonda, in Il fu Mattia Pascal, espone metaforicamente la sua filosofia del
lanternino, tramite il monologo che il personaggio di Anselmo Paleari rivolge
al protagonista Mattia Pascal, in cui la piccola lampada rappresenta il
sentimento umano, che non riesce ad alimentarsi se non tramite le illusioni di
fede e ideologie varie ("i lanternoni"), ma che altrimenti provoca
l'angoscia del buio che lo circonda all'uomo, l'animale che ha il triste privilegio
di "sentirsi vivere. Nella lanternisofia, il lanternino che proietta tutto
intorno a noi un cerchio più o meno ampio di luce, di là dal quale è l'ombra
nera, l'ombra paurosa che non esisterebbe se il lanternino non fosse acceso in
noi, ma che noi purtroppo dobbiamo credere vera, fintanto ch'esso si mantiene vivo
in noi. Spento alla fine da un soffio, ci accoglierà la notte perpetua dopo il
giorno fumoso della nostra illusione, o non rimarremo noi piuttosto alla mercé
dell'Essere, che avrà soltanto rotto le vane forme della nostra ragione? (Il fu
Mattia Pascal, Il lanternino) La sua sfiducia verso la fede religiosa
tradizionale lo porta ad accentuare così il proprio vuoto spirituale, che cercò
di riempire, come il citato personaggio del Paleari, con l'interesse personale
verso l'occultismo, la teosofia e lo spiritismo, che tuttavia non gli daranno
la serenità esistenziale. Il contrasto tra vita e forma Luigi Pirandello svolge
una ricerca inesausta sull'identità della persona nei suoi aspetti più
profondi, dai quali dipendono sia la concezione che ogni persona ha di sé, sia
le relazioni che intrattiene con gli altri. Influenzato dalla filosofia
irrazionalistica di fine secolo, in particolare di Bergson, Pirandello ritiene
che l'universo sia in continuo divenire e che la vita sia dominata da una
mobilità inesauribile e infinita. L'uomo è in balia di questo flusso dominato
dal caso, ma a differenza degli altri esseri viventi tenta, inutilmente, di
opporsi costruendo forme fisse, nelle quali potersi riconoscere, ma che
finiscono con il legarlo a maschere in cui non può mai riconoscersi o alle
quali è costretto a identificarsi per dare comunque un senso alla propria
esistenza. Se l'essenza della vita è il flusso continuo, il perenne divenire,
quindi fissare il flusso equivale a non vivere, poiché è impossibile fissare la
vita in un unico punto. Questa dicotomia tra vita e forma, accompagnerà
l'autore in tutta la sua produzione evidenziando la sconfitta dell'uomo di
fronte alla società, dovuta all'impossibilità di fuggire alle convenzioni di
quest'ultima se non con la follia. Solo il folle, che pure è una figura
sofferente ed emarginata, riesce talvolta a liberarsi dalla maschera, e in
questo caso può avere un'esistenza autentica e vera, che resta impossibile agli
altri in quanto non è fattibile denudare la maschera o le maschere, la propria
identità (Maschere nude è infatti il titolo della raccolta delle sue opere
teatrali). Questa riflessione, che si rispecchia nelle varie opere con accenti
ora lievi ora gravi e tragici, è stata, ad opera soprattutto dello studioso
Adriano Tilgher, interpretata come un sistema filosofico basato sul contrasto
tra la Vita e la Forma, che talvolta ha fatto esprimere alla critica un
giudizio negativo delle ultime opere precedenti al "teatro dei miti",
accusate a volte di "pirandellismo", cioè di riproporre sempre lo
stesso schema di lettura. Il relativismo psicologico o conoscitivo «La verità?
è solo questa: che io sono, sì, la figlia della signora Frola Ah! E la seconda
moglie del signor Ponza Oh! E come? Sì; e per me nessuna! nessuna! Ah, no, per
sé, lei, signora: sarà l'una o l'altra! Nossignori. Per me, io sono colei che
mi si crede. Ed ecco, o signori, come parla la verità. -- Dialogo finale di
Così è (se vi pare)). Dal contrasto tra la vita e la forma nasce il relativismo
psicologico che si esprime in due sensi: orizzontale, ovvero nel rapporto inter-personale,
e verticale, ovvero nel rapporto che una persona ha con se stessa. Gl’uomini
nascono liberi ma il caso interviene nella loro vita precludendo ogni loro
scelta. L’uomo nasce in una società pre-costituita dove ad ognuno viene
assegnata una parte secondo la quale deve comportarsi. Ciascuno è
obbligato a seguire il ruolo e le regole che la società impone, anche se l'io
vorrebbe manifestarsi in modo diverso. Solo per l'intervento del caso può
accadere di liberarsi di una forma per assumerne un'altra, dalla quale non sarà
più possibile liberarsi per tornare indietro, come accade al protagonista de Il
fu Mattia Pascal. L'uomo dunque non può capire né l’altro né tanto meno
se stesso, poiché ognuno vive portando consapevolmente o, più spesso,
inconsapevolmente, una maschera dietro la quale si agita una moltitudine di
personalità diverse e inconoscibili. Queste riflessioni trovano la più
esplicita manifestazione narrativa nel romanzo Uno, nessuno e centomila. Uno
perché ogni persona crede di essere un individuo unico con caratteristiche
particolari. Centomila perché l'uomo ha, dietro la maschera, tante personalità
quante sono le persone che ci giudicano. Nessuno perché, paradossalmente, se
l'uomo ha centomila personalità diverse, invero, è come se non ne possedesse
nessuna, nel continuo cambiare non è capace di fermarsi nel suo io". Il
relativismo conoscitivo e psicologico su cui si basa la sua filosofia si
scontra con il conseguente problema dell'incomunicabilità tra i siciliani. Ogni
personaggio siciliano ha un proprio modo di vedere la realtà. Non esiste
un'unica realtà oggettiva, ma tante realtà quante sono i siciliani che credono
di possederla. Dunque, ognuno ha una propria verità. Questa incomunicabilità
produce quindi un sentimento di solitudine ed esclusione dalla società e
persino da se stesso. Proprio la crisi e frammentazione dell'io interiore crea un
altr’ io diverso e discordante. L’io consiste di frammenti che ci fanno
scoprire di essere -- uno, nessuno – molti -- centomila --. Il personaggio come
il Vitangelo Moscarda di “Uno, nessuno e – molti centomila e i protagonisti
della commedia ‘a fare’, “Sei personaggi in cerca di autore” di conseguenza
avverte un sentimento di “estraneità” –
alienazione o alterita – strano – etimologia -- dalla vita che lo fa sentire
forestiero della vita, nonostante la continua ricerca di un senso
dell'esistenza e di un'identificazione di un proprio ruolo, che vada oltre la
maschera, o le diverse e innumerevoli maschere, con cui si presentano al
cospetto della società o delle persone più vicine. Il peronaggio accetta
la maschera, che lui stesso ha messo o con cui gl’altro tende a identificarlo. Prova
ommessamente a mostrarsi per quello che lui crede di essere. Incapace di
ribellarsi, pero, o deluso dopo l'esperienza di vedersi attribuita una nuova
maschera, si rassegna. Il personaggio vive nell'infelicità, con la coscienza
della frattura tra la vita che vorrebbe vivere e quella che laltro lo fa vivere
per come esso lo vede. Il personaggio accetta alla fine passivamente il ruolo
da recitare che lui si attribuisce sulla scena dell'esistenza. Questa è la
reazione tipica del personaggio più deboli come si può vedere nel romanzo “Il
fu Mattia Pascal”. Il soggetto non si rassegna alla sua maschera. Accetta pero il
suo ruolo con un atteggiamento ironico, aggressivo o umoristico. Ne fanno
esempio varie opere come: Pensaci Giacomino, Il giuoco delle parti e La
patente. Rosario Chiàrchiaro è un uomo cupo, vestito sempre in nero che si è
fatto involontariamente la nomea di iettatore e per questo è sfuggito da tutti
ed è rimasto senza lavoro. Il presunto iettatore non accetta l'identità che gl’altro
gli ha attribuito ma comunque se ne serve. Va dal giudice e, poiché tutti sono
convinti che sia un menagramo, pretende la patente di iettatore autorizzato. In
questo modo ha un lavoro: chi vuole evitare le disgrazie che promanano da lui
dovrà pagare per allontanarlo. La maschera rimane – ma almeno se ne ricava un
vantaggio. L'uomo, accortosi del relativismo, si rende conto che l'immagine che
di sé non corrisponde in realtà a quella che l’altro ha di lui e cerca in ogni
modo di carpire questo lato inaccessibile del suo io. Vuole togliersi la
maschera che gli è stata imposta e reagisce con disperazione. Non riesce a
strapparsela e allora se è così che lo vuole il mondo, egli e quello che l’altro
credono di percipere in lui e non si ferma nel mantenere questo suo
atteggiamento sino all’ultima e drammatica conseguenza. Si chiude in una
solitudine disperata che lo porta al dramma, alla pazzia o al suicidio. Da tale
sforzo verso un obiettivo irraggiungibile nasce la voluta follia. La follia è
lo strumento di contestazione per eccellenza della forma fasulla della vita
sociale, l'arma che fa esplodere la convenzione e il rituale, riducendoli
all'assurdo e rivelandone l'inconsistenza. Solo e unico modo per vivere,
per trovare l’io, è quello di accettare il fatto di non avere un'identità, ma
solo frammenti -- e quindi di non essere uno ma nessuno -- accettare
l'alienazione completa da se stesso. Tuttavia il colletivo non accetta il
relativismo. Il soggeto chi accetta il relativismo viene ritenuto pazzo dal
colletivo. Esemplari sono i personaggi dei drammi Enrico IV, dei Sei personaggi
in cerca d'autore, o di Uno, nessuno e centomila. Divenne famoso proprio
grazie al teatro che chiama “teatro dello specchio”, perché in esso viene
raffigurata la vita vera, quella nuda, amara, senza la maschera dell'ipocrisia
e delle convenienze sociali, di modo che lo spettatore si guardi come in uno
specchio così come realmente è, e diventi migliore. Dalla critica viene definito
come uno dei grandi drammaturghi. Scrive moltissime opera, alcune delle quali
rielaborazioni delle sue stesse novelle, che vengono divise in base alla fase
di maturazione dell'autore: Prima faseIl teatro siciliano Seconda faseIl
teatro umoristico/grottesco Terza fase Il teatro nel teatro (meta-teatro)
Quarta fase Il teatro dei miti. Generalmente si attribuisce il suo interesse
per il teatro agli anni della maturità, ma alcuni precedenti mostrano come tale
convinzione necessiti di una rivalutazione. Compose alcuni lavori teatrali,
andati perduti poiché da lui stesso bruciati (tra gli altri, il copione de Gli
uccelli dell'alto). In una lettera alla
famiglia, si legge. Oh, il teatro drammatico! Io lo conquisterò. Io non posso
penetrarvi senza provare una viva emozione, senza provare una sensazione
strana, un eccitamento del sangue per tutte le vene. Quell'aria pesante chi vi
si respira, m'ubriaca: e sempre a metà della rappresentazione io mi sento preso
dalla febbre, e brucio. È la vecchia passione chi mi vi trascina, e non vi
entro mai solo, ma sempre accompagnato dai fantasmi della mia mente, persone
che si agitano in un centro d'azione, non ancora fermato, uomini e donne da
dramma e da commedia, viventi nel mio cervello, e che vorrebbero d'un subito
saltare sul palcoscenico. Spesso mi accade di non vedere e di non ascoltare
quello che veramente si rappresenta, ma di vedere e ascoltare le scene che sono
nella mia mente: è una strana allucinazione che svanisce ad ogni scoppio di
applausi, e che potrebbe farmi ammattire dietro uno scoppio di fischi! -- da
una lettera ai familiari. È in questa dimensione che si parla di teatro
mentale: lo spettacolo non è subito passivamente ma serve come pretesto per dar
voce ai "fantasmi" che popolano la mente dell'autore (nella
prefazione ai Sei personaggi in cerca d'autore Pirandello chiarirà di come la
Fantasia prenda possesso della sua mente per presentargli personaggi che
vogliono vivere, senza che lui li cerchi). In un'altra missiva, spedita
da Roma, sostiene che la scena italiana gli appare decaduta: «Vado spesso
in teatro, e mi diverto e me la rido in veder la scena italiana caduta tanto in
basso, e fatta sgualdrinella isterica e noiosa -- da una lettera ai familiari. La
delusione per non essere riuscito a far rappresentare i primi lavori lo
distoglie inizialmente dal teatro, facendolo concentrare sulla produzione
novellistica e romanziera. Pubblica l'importante saggio Illustratori,
attori, traduttori dove esprime le sue idee, ancora negative, sull'esecuzione
del lavoro dell'attore nel lavoro teatrale: questi è infatti visto come un mero
traduttore dell'idea drammaturgica dell'autore, il quale trova dunque un filtro
al messaggio che intende comunicare al pubblico. Il teatro viene poi definito
da P. come un'arte "impossibile", perché "patisce le condizioni
del suo specifico anfibio":: un tradimento della scrittura teatrale, che
ha di contro "il cattivo regime dei mezzi rappresentativi, appartenenti
alla dimensione adultera dell'eco. È in questo momento che Pirandello si
distacca dalla lezione positivista e, presa diretta coscienza
dell'impossibilità della rappresentazione scenica del "vero"
oggettivo, ricerca nella produzione drammaturgica di scavare l'essenza delle
cose per scoprire una verità altra (come è spiegato nel saggio L'Umorismo con
il sentimento del contrario). Fondò la compagnia del Teatro d'Arte di
Roma con sede al Teatro Odescalchi con la collaborazione di altri artisti: il
figlio S. Pirandello, O. Vergani, C. Argentieri, A. Beltramelli, G. Cavicchioli,
M. Celli, P. Cantarella, L. Picasso, Renzo Rendi, M. Bontempelli e G.
Prezzolini -- tra gli attori più importanti della compagnia figurano Marta
Abba, Lamberto Picasso, Maria Letizia Celli, Ruggero Ruggeri. La compagnia, il
cui primo allestimento risale con Sagra del signore della nave dello stesso
Pirandello e Gli dei della montagna di Lord Dunsany, ebbe però vita breve: i
gravosi costi degli allestimenti, che non riuscivano ad essere coperti dagli
introiti del teatro semivuoto costrinsero il gruppo, dopo solo due mesi dalla
nascita, a rinunciare alla sede del Teatro Odescalchi. Per risparmiare sugli
allestimenti la compagnia si produsse prima in numerose tournée estere, poi fu
costretta allo scioglimento definitivo, avvenuto a Viareggio. Prima faseTeatro
Siciliano Nella fase del Teatro Siciliano P. è alle prime armi e ha ancora
molto da imparare. Anch'essa come le altre presenta varie caratteristiche di
rilievo; alcuni testi sono stati scritti interamente in lingua siciliana perché
considerata dall'autore più viva dell'italiano e capace di esprimere maggiore
aderenza alla realtà. La morsa e Lumìe di Sicilia Roma, Teatro Metastasio,
Il dovere del medico, Roma, Sala Umberto, La ragione degli altri, Milano,
Teatro Manzoni, Cecè, Roma, Teatro
Orfeo, Pensaci, Giacomino, Roma, Teatro Nazionale, Liolà, Roma, Teatro
Argentina, Seconda fase: Il teatro umoristico/grottesco. Pirandello e Marta
Abba Mano a mano che l'autore si distacca da verismo e naturalismo,
avvicinandosi al decadentismo si ha l'inizio della seconda fase con il teatro
umoristico. Presenta personaggi che incrinano le certezze del mondo borghese:
introducendo la versione relativistica della realtà, rovesciando i modelli
consueti di comportamento, intende esprimere la dimensione autentica della vita
al di là della maschera. Così è (se vi pare), Milano, Teatro Olimpia, Il
berretto a sonagli, Roma, Teatro Nazionale, La giara, Roma, Teatro Nazionale, Il
piacere dell'onestà (Torino, Carignano) La patente, Torino, Alfieri, Ma non è
una cosa seria, Livorno, Rossini, Il
giuoco delle parti, Roma, Quirino, L'innesto, Milano, Manzoni, L'uomo, la bestia
e la virtù, Milano, Olimpia, Tutto per bene, Roma, Quirino, Come prima, meglio
di prima, Venezia, Goldoni, La signora Morli, una e due, Roma, Argentina. Nella
fase del teatro nel teatro le cose cambiano radicalmente. Il teatro deve
parlare anche agli occhi non solo alle orecchie, a tal scopo ripristinerà una
tecnica teatrale di Shakespeare, il palcoscenico multiplo, in cui vi può per
esempio essere una casa divisa in cui si vedono varie scene fatte in varie
stanze contemporaneamente. Inoltre il teatro nel teatro fa sì che si assista al
mondo che si trasforma sul palcoscenico. Abolisce anche il concetto della
quarta parete, cioè la parete trasparente che sta tra attori e pubblico. In
questa fase, infatti, tende a coinvolgere il pubblico che non è più passivo ma
che rispecchia la propria vita in quella agita dagli attori sulla scena. Ha
un incontro con Filippo. Conseguenza,
oltre alla nascita di un'amicizia e che Filippo sente come accadde in passato
per lui, il bisogno di allontanarsi dal regionalism dell'arte verista pur
conservandone però le tradizioni e le influenze. Incontra Eduardo, Peppino
e Titina De Filippo. Sei personaggi in cerca d'autore, Roma, Valle, Enrico IV,
Milano, Manzoni, All'uscita, Roma, Argentina, L'imbecille, Roma, Quirino, Vestire
gli ignudi, Roma, Quirino, L'uomo dal fiore in bocca, Roma, Degli Indipendenti,
La vita che ti diedi, Roma, Quirino, L'altro figlio, Roma, Nazionale, Ciascuno
a suo modo, Milano, Dei Filodrammatici, Sagra del signore della nave, Roma, Odescalchi,
Diana e la Tuda, Milano, Eden, L'amica delle mogli, Roma, Argentina, Bellavita,
Milano, Eden, O di uno o di nessuno,
Torino, di Torino, Come tu mi vuoi, Milano, dei Filodrammatici; Questa sera si
recita a soggetto, Torino, di Torino, Trovarsi, Napoli, dei Fiorentini, Quando
si è qualcuno, Buenos Aires Odeón, La favola del figlio cambiato, Roma, Reale
dell'Opera, Non si sa come, Roma, Argentina, Sogno, ma forse no, Lisbona, Teatro
Nacional. Alla fase del teatro dei miti ase si assegnano solo tre opera. La
nuova colonia Lazzaro I giganti della montagna Romanzi Copertina de Il
turno, Madella. Scrive sette
romanzi: L'esclusa, a puntate su La Tribuna (Milano, Treves); Il turno (Catania,
Giannotta); l fu Mattia Pascal, Roma, Nuova antologia. Suo marito, Firenze,
Quattrini. (poi Giustino Roncella nato Boggiolo, in Tutti i romanzi, Milano,
Mondadori, I vecchi e i giovani, Milano, FTreves. Quaderni di Serafino Gubbio
operatore, Firenze, R. Bemporad et figlio. Uno, nessuno e centomila, Firenze,
Bemporad; Novelle. Le novelle sono considerate le opere più durature. I critici
hanno cambiato tale opinione ritenendo le opere teatrali più degne di essere
ricordate. Fare distinzione tra il contenuto di una novello o romanzo e un dramma è difficile. Molte novelle sono
state messe in opera a teatro. “Ciascuno a suo modo” deriva dal “Si gira”. “Liolà”
ha il tema preso da “Il fu Mattia Pascal”; “La nuova colonia” e presentata in “Suo
marito”. Analizzando le novelle si puo renderci conto che ciò che manca è una
delineazione tematica, una cornice. Sono presenti un crogiolo di personaggi ed
eventi. Il tempo in cui una novella e ambientata non è definito. Alcune si svolgono nell'epoca umbertina, poi
giolittiana e del dopo-giolitti. Diversamente accade nella novella siciliana. Iil
tempo non è fissato. E un tempo antico, di una società che non vuole cambiare e
che è rimasta ferma. I paesaggi della novellistica sono vari. Per quella detta
siciliana si ha spesso il tipico paesaggio rurale. In alcune si trova il tema
del contrasto tra le generazioni dovuto all'unità d'Italia. Altro ambiente
delle novelle è la Roma umbertina o giolittiana. Il protagonista e sempre
alla presa con il male di vivere, con il caso e con la morte. Non si trova mai
rappresentanti dell'alta borghesia, ma quelli che potrebbero essere i vicini
della porta accanto: il sarto, il balie, il professore, il piccolo proprietario
di negozi che ha una vita sconvolta dalla sorte e dal dramma familiare. Il personaggio
ci viene presentato così come appaie. E difficile trovare un'approfondita
analisi psicologica. La fisionomia e spesso eccentrica. Per il sentimento del
contrario, il personaggio ha un carattere *opposto* a come si presenta. I
personaggi conversano nel presentarsi per come essi *sentono* di essere. Ma
alla fine, e sempre preda del caso, che li farà apparire diverso e cambiato.
Novelle per un anno -- è uno dei più grandi scrittori di novelle, raccolte
dapprima nell'opera Amori senza amore. In seguito si dedica maggiormente per
tutta la sua vita, cercando di completarla, alla raccolta Novelle per un anno,
così intitolata perché il suo intento e quello di scrivere 365. Novelle per un
anno, Firenze, Bemporad; Milano, Mondadori); Scialle nero (Firenze, Bemporad); La
vita nuda, Firenze, Bemporad, La rallegrata, Firenze, Bemporad, L'uomo solo,
Firenze, Bemporad, La mosca, Firenze, Bemporad, In silenzio, Firenze, Bemporad,
VII, Tutt'e tre, Firenze, Bemporad, Dal naso al cielo, Firenze, Bemporad, IX,
Donna Mimma, Firenze, Bemporad); Il
vecchio Dio, Firenze, Bemporad, La giara,
Firenze, Bemporad, Il viaggio, Firenze, Bemporad, Candelora, Firenze, Bemporad,
Berecche e la guerra, Milano, Mondadori, Una giornata, Milano, Mondadori). Si
svolge la produzione letteraria di Pirandello meno conosciuta dal grande
pubblico, quella delle poesie che, contrariamente alla composizione teatrale,
non esprimono alcun tentativo di rinnovamento sperimentale estetico, e seguono
piuttosto le forme e i metri tradizionali della lirica classica, pur non
rimandando a nessuna delle correnti letterarie presenti al tempo dello
scrittore. Nell'antologia poetica Mal giocondo, pubblicata a Palermo, ma
la cui prima lirica risale quando P. aveva appena tredici anni, emerge uno dei
temi dell'ultima estetica pirandelliana del contrasto tra la serena classicità
del mito e l'ipocrisia e la immoralità sociale della contemporaneità. Sono
presenti, come nota lo stesso P., anche toni umoristici, specie quelli derivati
dal suo soggiorno a Roma. “Mal giocondo” (Palermo, Libreria Internazionale
Pedone Lauriel); Pasqua di Gea, Milano, Galli (dedicata a Schulz-Lander, di cui
si innamora a Bonn, con una chiara influenza della poesia di Carducci. Pier
Gudrò, Roma, Voghera, Elegie renane, Roma, Unione Cooperativa) -- il cui
modello sono le Elegie romane di Goethe); Elegie romane, traduzione di Goethe,
Livorno, Giusti, Zampogna, Roma, Società Editrice Dante Alighieri, Scamandro,
Roma, Tipografia Roma, Fuori di chiave, Genova, Formiggini, Pirandello nel
cinema Inizialmente Pirandello non amava molto il cinema, considerato inferiore
al teatro, e questo interesse maturò lentamente, negli anni. Il rapporto tra P.
e il cinema fu complesso, ambiguo, conflittuale, a volte di totale rifiuto,
altre volte di grande curiosità. E fu certamente la curiosità per questa nuova
modalità di narrazione per immagini, che si era già strutturata come industria
cinematografica, che lo spinse a scrivere il romanzo Si gira, poi ripubblicato con
il titolo Quaderni di Serafino Gubbio operatore. In questo romanzo il suo
giudizio sul cinematografo è spietato sia quando teme che il pubblico abbandoni
i teatri per correre a vedere su uno schermo "larve evanescenti"
prodotte in maniera meccanica e fredda, sia quando descrive il mondo della
produzione cinematografica popolato di personaggi volgari impeg confezionare
prodotti commerciali per soddisfare il palato delle masse e gli interessi degli
uomini d'affari. Nello stesso tempo la struttura stessa del racconto letterario
e l'ipotesi, da lui stesso formulata, di trarne un film prefigurano un'idea di
linguaggio cinematografico di grande modernità: il film nel film. Momento
cruciale per la storia del cinema, nei primi decenni del suo sviluppo, fu
l'avvento del sonoro. Anche in questo caso ad un iniziale rifiuto seguì una
svolta significativa. In una lettera a Marta Abba, Pirandello scrisse. L'avvenire
dell'arte drammatica e anche degli scrittori di teatro è adesso là. Bisogna
orientarsi verso una nuova espressione d'arte: il film parlato. Ero contrario,
mi sono ricreduto" Pirandello sul set de Il fu Mattia Pascal con Pierre
Blanchar e Isa Miranda Il lume dell'altra casa di Ugo Gracci. Il crollo di M.
Gargiulo, Lo scaldino di Genina. Ma non è una cosa seria di Augusto Camerini, La
rosa di Arnaldo Frateili Il viaggio di Gennaro Righelli Il fu Mattia Pascal di
Marcel L'Herbier La canzone dell'amore di
Gennaro Righelli, primo film sonoro italiano è tratto dalla novella In
silenzio. Come tu mi vuoi di George Fitzmaurice con Greta Garbo Acciaio di
Ruttmann. Il fu Mattia Pascal di Pierre Chenal, Questa è la vita di Giorgio
Pàstina, Aldo Fabrizifilm a quattro episodi, tutti tratti da una novella: La
giara, Il ventaglino, La patente e Marsina stretta. Come prima, meglio di prima
di J. Hopper Liolà di A. Blasetti Il viaggio di Vittorio De Sica Enrico IV di
Marco Bellocchio Kaos di P. e Taviani, adattamento da Novelle per un anno, Le due
vite di Mattia Pascal di Monicelli Tu ridi di P. e Taviani, adattamento da
Novelle per un anno; La balia di Bellocchio, adattamento da Novelle per un anno;
P. nell'opera lirica La favola del figlio cambiato di Gian Francesco Malipiero,
Liolà di Giuseppe Mulè, Six Characters in Search of an Author di Hugo Weisgall,
Sagra del Signore della Nave di Michele Lizzi, Sogno (ma forse no) di Luciano
Chailly. Altre opere: Mal giocondo, Palermo, Libreria Internazionale Pedone
Lauriel); A la sorella Anna per le sue nozze, Roma, Tipo-Litografia Miliani e
Filosini, Pasqua di Gea, Milano,
Galli, Amori senza amore, Roma,
Bontempelli); Pier Gudrò, Roma, Voghera, Elegie renane, Roma, Unione
Cooperativa; Traduzione di Goethe, Elegie romane, Livorno, Giusti, Zampogna,
Roma, Società Editrice Alighieri, Beffe della morte e della vita, Firenze,
Lumachi, Lontano. Novella, in "Nuova Antologia", Quand'ero matto....
Novelle, Torino, Streglio, Il turno, Catania, Giannotta); Beffe della morte e
della vita. Firenze, Lumachi, Notizia letteraria, in "Nuova
Antologia", Dante. Poema lirico di G. Costanzo, "Nuova
Antologia", Bianche e nere. Novelle, Torino, Streglio); Il fu Mattia
Pascal, Roma, Nuova Antologia, Erma bifronte. Novelle, Milano, Treves); Prefazione
a Giovanni Alfredo Cesareo, Francesca da Rimini. Tragedia, Milano, Sandron, Studio
preliminare a A. Cantoni, L'illustrissimo. Romanzo, Roma, Nuova Antologia, Arte
e scienza. Saggi, Roma, Modes, L'esclusa, Milano, Treves, Umorismo, Lanciano,
Carabba); “Scamandro” (Roma, Tipografia); “La vita nuda” (Milano, Treves); “Suo
marito, Firenze, Quattrini); “Fuori di chiave, Genova, Formiggini, Terzetti,
Milano, Treves); “I vecchi e i giovani, Milano, Treves); Cecè. In "La
lettura", Le due maschere, Firenze,
Quattrini, Erba del nostro orto” (Milano, Studio Lombardo); “La trappola” (Milano,
Treves); “Se non così” "Nuova Antologia", Si gira ( Milano, Treves);
“E domani, lunedì” (Milano, Treves); “Liolà” ( Roma, Formiggini); Se non così Con
una lettera alla protagonista, Milano, Treves); “Un cavallo nella luna” (Milano,
Treves); Maschere nude, Milano, Treves, Pensaci,
Giacomino, Così è (se vi pare), Il piacere dell'onestà, Milano, Treves); Il
giuoco delle parti. Ma non è una cosa seria. Milano, Treves, Lumie di Sicilia.
Il berretto a sonagli. La patente. Milano, Treves, L'innesto. La ragione degli altri, Milano, Treves, Berecche e la guerra, Milano, Facchi, Il
carnevale dei morti. Firenze, Battistelli, Tu ridi. Milano, Treves); Pena di
vivere così, Roma, Libreria nazionale, Maschere nude” (Firenze, Bemporad); Tutto per
bene. Firenze, Bemporad, Come prima meglio di prima. Firenze, Bemporad); “Sei
personaggi in cerca d'autore -- commedia da fare” (Firenze, Bemporad); Enrico
IV (Firenze, Bemporad); L'uomo, la bestia e la virtù” (Firenze, Bemporad, La
signora Morli, una e due. Firenze, Bemporad, Vestire gli ignudi. Firenze,
Bemporad, La vita che ti diedi. Firenze, Bemporad, Ciascuno a suo modo.
Firenze, Bemporad, X, Pensaci, Giacomino! Firenze, Bemporad, Così è (se vi
pare). Firenze, Bemporad, Sagra del signore della nave, L'altro figlio, La
giara. Firenze, Bemporad); Il piacere dell'onestà. Firenze, Bemporad, Il berretto a sonagli. Firenze, Bemporad, Il giuoco delle parti. Firenze, Bemporad, Ma
non è una cosa seria. Firenze, Bemporad, L'innesto Firenze, Bemporad, La
ragione degli altri. Firenze, Bemporad, L'imbecille, Lumie di Sicilia, Cecè, La
patente.Firenze, Bemporad, All'uscita. Mistero profano, Il dovere del medico.
La morsa. L'uomo dal fiore in bocca.
Dialogo, Firenze, Bemporad, Diana e la Tuda. Firenze, Bemporad, L'amica delle mogli. Firenze, Bemporad, La
nuova colonia. Firenze, Bemporad, Liolà. Firenze, Bemporad, O di uno o di
nessuno. Firenze, Bemporad, Lazzaro (Milano, Mondadori); “Questa sera si recita
a soggetto” (Milano, Mondadori); “Come tu mi vuoi” (Milano, Mondadori); “Trovarsi”
(Milano Mondadori); “Quando si è qualcuno” (Milano, Mondadori); “Non si sa come”
(Milano, Mondadori); “Novelle per un anno, Firenze, Bemporad, Milano,
Mondadori, I, Scialle nero, Firenze, Bemporad, La vita nuda, Firenze, Bemporad,
La rallegrata, Firenze, Bemporad, L'uomo solo, Firenze, Bemporad, La mosca, Firenze, Bemporad, In silenzio,
Firenze, Bemporad, Tutt'e tre, Firenze, Bemporad, 1Dal naso al cielo, Firenze,
Bemporad, Donna Mimma, Firenze, Bemporad, Il vecchio Dio, Firenze, Bemporad, La
giara, Firenze, Bemporad, Il viaggio, Firenze, Bemporad, Candelora, Firenze,
Bemporad, Berecche e la guerra, Milano,
Mondadori, Una giornata, Milano,
Mondadori, Teatro dialettale siciliano, 'A vilanza, Cappiddazzu paga tuttu, con
Nino Martoglio, Catania, Giannotta, Prefazione a N. Martoglio, Centona.
Raccolta completa di poesie siciliane con l'aggiunta di alcuni componimenti
inediti, Catania, Giannotta, Quaderni di Serafino Gubbio operatore, Firenze,
Bemporad, Uno, nessuno e centomila, Firenze, Bemporad, Prefazione a E. Levi,
Lope de Vega e l'Italia, Florencia, Sansoni, Introduzione a S.D'Amico, Storia
del teatro italiano, Milano, Bompiani); In un momento come questo, in "Nuova
Antologia",Giustino Roncella nato Boggiolo, in Tutti i romanzi, Milano,
Mondadori, Tutti i romanzi, Milano, A. Mondadori, Novelle per un anno, Milano,
A. Mondadori, Maschere nude, Milano, A. Mondadori); Lettere a Marta Abba,
Milano, Mondadori, Saggi e interventi, Milano, A. Mondadori. Oltre al Nobel
ricevette diverse onorificenze: Cavaliere di Collare dell'Ordine equestre
del Santo Sepolcro di Gerusalemme nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere di
Collare dell'Ordine equestre del Santo Sepolcro di Gerusalemme Arcade Minore
della Secolare Accademia del Parnaso Canicattinesenastrino per uniforme
ordinariaArcade Minore della Secolare Accademia del Parnaso Canicattinese —
Canicattì Intitolazioni. A lui è stato dedicato un asteroide. Enciclopedia
Italiana Treccani alla voce Girgenti. In A. Camilleri. Biografia del figlio
cambiato, Milano, Lettere da Palermo e da Roma, Bulzoni, Roma, Il risorgimento familiare.
Medicina e Insonnia. in.. Riferimenti autobiografici a questo problema che
affligge si trovano in numerose sue opere: Il turno, L'amica delle mogli, Il fu
Mattia Pascal, L'uomo solo, La trappola, La giara G. Bonghi, Biografia di P.., Edizione dei
classici italiani A. Camilleri, In
effetti, afferma in un lettera ai familiari da Roma. I professori di questa
università, nella facoltà mia, sono d’una ignoranza nauseante (Lettere giovanili
da Palermo e da Roma Bulzoni, Roma, difese pubblicamente durante una lezione un
suo compagno rimproverato ingiustamente dal rettore. M. Manotta, L. Pirandello, Pearson Italia
S.p.a., Da Album Pirandello, I Meridiani
Mondadori, Milano, A. Camilleri, Biografia del figlio cambiato, BU. La storia
di Luigi e Antonietta è infatti quella di un matrimonio di una Sicilia di fine
'800, combinato per interesse, da parte di due soci nel commercio dello zolfo.
Antonietta porta la dote che assicura ai giovani sposi sbarcati da Girgenti in
continente e approdati a Roma, una vita tranquilla e permette a Luigi di
affermarsi come scrittore. Il matrimonio d'interesse è sublimato grazie alla
letteratura e diventa un matrimonio d'amore con la moglie ideale (in Anna Maria
Sciascia, Il gioco dei padri. Pirandello e Sciascia, Avagliano, S. Guglielmino,
H. Grosser, Il sistema letterario Milano, Principato, Storia, G. Mazzacurati,
Introduzione e biografia, dalla Prefazione a Il fu Mattia Pascal, Einaudi; Vita
di Pirandello; Pirandello e la moglie Antonietta, G. GiudiceTipografico Torinese,
M. Manotta, Pearson Paravia Bruno Mondadori, L. P., S. P., A. P., Il figlio
prigioniero: carteggio tra L. e S. Pirandello durante la guerra Mondadori, Motivazione del Premio Nobel per la
Letteratura. TUTTI I NO DI MUSSOLINI A P.. L'arci-fascista non piace al Duce; G.
Afeltra, Mia cara Marta, l'amore platonico di Pirandello Tra Pirandello e M. Abba ottocento lettere di
emozioni Einstein e l'invito. Lo scontro
che nessuno vide L. Lucignani,
Pirandello, la vita nuda, Giunti, Pirandello e la prima guerra mondiale. Chiede
di entrare nei Fasci (La Stampa); F. Sinigaglia, I volti della violenza a teatro,
Lucca, Argot. Non e l'unico filosofo che si iscrive al partito fascista nel
pieno della vicenda Matteotti. Ungaretti si iscrisse appena nove giorni dopo il
funerale di Matteotti (Stato matricolare di Ungaretti, Università "La
Sapienza" di Roma. La sua adesione al fascismo, G. Giudice, Pirandello (POMBA
Torino); Pirandello e la politica, su atutta scuola. G. Lagorio, Troppi
idiotic. E P. partì; P., nudità e FASCISMO; P.. Gli anni del fascismo; Mussolini,
Nel solco delle grandi filosofie -- relativismo e fascismo, in Il popolo
d'Italia. Le idee di Mazzini e di Sorel influenzano profondamente il fascismo
di Mussolini e GENTILE (S. Zamponi, Lo spettacolo del fascismo, Rubbettino. Sorel
è veramente il notre maître (Mussolini, Il Popolo in Opera Omnia); Interviste:
parole da dire, uomo, agl’altr’uomini, Rubbettino; riportato da Giudice. Prefazione
alle Novelle per un anno, Milano, Storie dalla storia, L'oro alla patria Il
Sole 24 ORE M. Sambugar, Letteratura
italiana per moduli, Incontro. R. Dombroski, L'esistenza ubbidiente – la
filosofia sotto i fasci (Guida); L'Ovra a Cinecittà di Marino, Boringhieri, Il Post); I giganti della montagna,
taote. Così, in una bara in affitto,
riportammo a Girgenti le sue ceneri. Malgrado i divieti prima del gerarca, poi
del pre-fetto, e infine del vescovo. In Camilleri e lo strano caso delle ceneri
di Pirandello. N. Borsellino, Il dio di Pirandello: creazione e sperimentazione,
Sellerio, R. Alajmo, Le ceneri di Pirandello, Drago, in Saggi poesie, scritti
varii Mondadori, Milano). I filosofi hanno il torto di non pensare alle bestie
e davanti agl’occhi di una bestia crolla come un castello di carte qualunque
sistema filosofico. D. Marcheschi, L'umorismo, Milano, Oscar Mondadori, X. Marcheschi rivela che copia intere pagine del
saggio da opere precedenti di Dumont, Binet, Séailles, Negri, Marchesini,
nonché dalla Storia e fisiologia dell'arte di Ridere di Massarani. Vedi
articolo de Il Giornale, in “Caro P., ti ho beccato a copiare. P., L'umorismo e altri saggi, Giunti; S.
Guglielmino, H. Grosser, Il sistema letterario Milano, Principato, TP.: guida
al Fu Mattia Pascal, Carocci, Scrittori sull'orlo di una scelta spiritista
Sambugar, La sua filoofia s'inserisce in un contesto culturale in cui è
presente il concetto di relativismo: la teoria della relatività di Einstein, il
Principio di indeterminazione di Heisenberg, la teoria quantistica di M. Planck.
Simmel fonda il suo relativismo sulla convinzione che non esistono leggi
storiche obiettivamente valide. Dizionario di filosofia). E nelle arti
figurative il relativismo è ripreso dal cubismo caratterizzato da una
rappresentazione dell'oggetto considerato simultaneamente da diversi punti di
vista. S. Guglielmino, H. Grosser, Il sistema letterario Milano, Principato, Maschere
nude, Zorzi, Newton Compton); Providenti, Epistolario familiare giovanile Quaderni
della Nuova Antologia, Le Monnier, Firenze, Roberto Alonge, Pirandello,
Laterza, Bari, Elio Providenti, Luigi Pirandello. Epistolario, Quaderni della
Nuova Antologia, Le Monnier, Firenze); U. Artioli, L'officina segreta di
Pirandello, Laterza, RomaBari, Luigi Pirandello, una vita da autore, repubblicaletteraria.
C. Vicentini, Il disagio del teatro (Marsilio, Venezia). La prima
rappresentazione della commedia La morsa si ha a Roma, al Metastasio, ad opera
della Compagnia del "Teatro minimo" diretta da N. Martoglio che la
mise in scena assieme all'atto unico Lumie di Sicilia. Cedendo alle insistenze
di Martoglio acconsentì a che La morsa e Lumie di Sicilia sono rappresentate
nella stessa serata. I due atti unici hanno diverso esito presso il pubblico,
che accolge con favore La morsa, mentre non grade Lumie di Sicilia (in
Interviste, Parole da dire, uomo, agli altri uomini" di I. Pupo, Rubettino,
Legato a ricordi della fanciullezza di
Pirandello. Da. Savio, Il carnevale dei
morti. Sconciature e danze macabre nella narrative, Novara, Interlinea. l mio
primo libro fu una raccolta di versi, “Mal giocondo”. In quella prima raccolta
di versi più della metà sono del più schietto umorismo, e allora io non so
neppure che cosa e l'umorismo ("Le lettere"); “Il cinema di Amedeo
Fago P. NASA. Enrico 4., Firenze, Bemporad e figlio, Esclusa, Milano, Fratelli
Treves, Fu Mattia Pascal, Milano, Treves, I P.. La famiglia e l'epoca per
immagini, E. Zappulla, Catania, la Cantinella, R. Alonge, Roma-Bari, Laterza, U.
Artioli, L'officina segreta” (Bari, Laterza); Barilli, La linea Svevo-P.,
Milano, Mursia, E. Bonora, Sulle novelle per un anno in Montale e altro
novecento, Caltanissetta-Roma, Sciascia, N. Borsellino, Ritratto e immagini, Roma-Bari,
Laterza, N. Borsellino e W. Pedullà (diretta da), Storia generale della
letteratura italiana, Il Novecento, La nascita del Moderno, Milano, Motta, Michele
e Rössner, L’identità italiana, Atti del Convegno internazionale di studi pirandelliani,
Graz Pesaro, Metauro, Arcangelo Leone De Castris, Storia di Pirandello (Bari,
Laterza); A. Benedetto, Verga, Annunzio, Pirandello (Torino, Fògola); L. Lugnani,
L'infanzia felice (Napoli, Liguori); Macchia, “La stanza della tortura, Milano,
Mondadori, Pirandello e dintorni,
Catania, Maimone, F. Medici, Il dramma di Lazzaro. Asprenas, A. Pagliaro,
“U ciclopu, dramma satiresco d’Euripide ridotto in siciliano (Firenze,
Monnier); G. Podestà, "Humanitas",
F. Puglisi, L'arte; Messina-Firenze, D'Anna, F. Puglisi, P. e la sua lingua,
Bologna, Cappelli, Puglisi, P., Milano, Mondadori, F. Puglisi, P. e la sua
opera Catania, Bonanno, C. Salinari, Miti e coscienza del decadentismo
italiano. D'Annunzio, Pascoli, Fogazzaro, P.” (Milano, Feltrinelli); A. Sichera,
Ecce Homo!Nomi, cifre e figure di P. (Firenze, Olschki); Scrivano, La vocazione
contesa (Roma, Bulzoni, Taffon, Il gran teatro del mondo, in Maestri
drammaturghi nel teatro italiano. Tecniche, forme, invenzioni, Roma, Laterza, G.
Venè, “Fascista. La coscienza borghese tra ribellione e rivoluzione” (Venezia,
Marsilio); Veronesi (Napoli, Liguori); Vicentini, “Il disagio del teatro” (Venezia,
Marsilio); R. Vittori, Il trattamento cinematografico dei 'Sei personaggi' (Firenze,
Liberoscambio); Zappulla, P. E LA FILOSOFIA SICILIANA, Catania, Maimone, Filosofi
siciliani del secondo dopoguerra, Catania, Maimone. Casa d Fabbri Lanterninosofia
su Pirandello Treccani Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Conferenza Episcopale Italiana. nobelprize. Audiolibri
di Luigi Pirandello, su LibriVox. di P.,
su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff.:etteratura fantastica,
Fantascienza. Movie
L., su Internet Broadway Database, The Broadway League. P., su
filmportal.de. Centro Nazionale Studi Pirandelliani, su cnsp. Istituto
di studi pirandelliani allo Studio P.. E. Licastro, Pirandello fra Spengler e
Wittgenstein. GIRGENTI(das alte AGRIGENTVM), einer der sieben Haupt- orte, in
welche sich Sicilien politisch teilt, liegt wenige Kilo- meter von der
südlichen Küste der Insel und zählt etwa 20 000 Einwohner. Gegen Norden
erstreckt sich seine Provinz bis Cammarata, westlich bis Sciacca, gegen Osten
bis an den Flufs Maroglio, und umfalst die Gegenden Aragona, Favara, Naro,
Canicattí, Casteltérmini, Cianciana, Cammarata, S. Stéfano, Ribera, Sciacca,
Bivona, Re- calmuto, Raffadali, Licata u. a. Die mundartlichen Grenzen
entsprechen aber nicht genau den Verwaltungs-Grenzen; wir finden deshalb, dals,
während es zwischen GIRGENTI und den kleinen es umgebenden Gegenden, wie z. B. PORTO
EMPEDOCLE, Siculiana, Montaperto, Aragona, Recalmuto, Favara, aufser einer
gewissen Dehnung der Aussprache nur sehr seltene oder fast keine
Verschiedenheiten giebt, man das- selbe von den Gegenden, die sich mehr von ihm
entfernen, nicht sagen kann. So z. B. Canicattí und Casteltérmini nähern sich
mehr der mundartlichen Gruppe des Innern der Insel (Caltanissetta), wo die
Aussprache im allgemeinen sehr gedehnt ist, und in ihren Gegenden bemerkt man
besonders die Diphthongierung des e (g, e) und des o (e, ?), welche in Girgenti
(Hauptort) und an den Küsten ganz unbekannt ist. So nähert sich auch Licata
etwas den Mundarten der Südost- spitze, namentlich in der Entwickelung des kz
(aus pl, cl, tl) zu et (canu, occu, veciu, wie in Noto, Múdica); ferner gehört
Sciacca fast ganz zu der mundartlichen Gruppe der westlichen Küste der Insel,
da in ihr die Hauptmerkmale selbst, die ge-wöhnlich in der ganzen Provinz sind,
fehlen: /+ Hiati =gy, statt =/ (filiu = figgyu, agrig. fitu); Perfekt -avit =
áu statt ú (purtáu, purtá); 9+a, 0, u=j: jammi, jaña (agrig. gammi, gaña) u. s.
w. Bei der Verfertigung dieser Arbeit habe ich besonders die folgenden Werke
benutzt: F. Diez, Grammatik der romanischen Sprachen. Meyer-Lübke, Grammatik
der romanischen Sprachen. Italienische Grammatik. Leipzig 1890. H. Schneegans,
Laute und Lautentwickelung des sicilianischen Dialektes. Strafsburg; Hüllen,
Vokalismus des alt- und neusicilianischen Dialektes. Bonn; Giovanni, Cinquanta
Canti, novelline, sequenze e scritti popolari siciliani. Palermo; Giovanni,
Venticinque Canti e novelline popolari siciliane. Palermo] und manche andere,
die ich in derselben nicht unterlassen habe zu citieren. Sehr viel aber hat es
mir auch geholfen, dals ich aus der Provinz GIRGENTI gebürtig bin und in mir
selbst die beste Grundlage meiner Arbeit gefunden habe. Für die gütige
Teilnahme an der Arbeit sage ich Foerster hiermit meinen herzlichsten Dank;
ferner mufs ich auch dem Herrn Prof. E. Monaci, meinem hochver- chrten Lehrer
in Rom, danken und den Freunden Prof. E. Si- cardi von Palermo, Dr. Giovanni
Taormina von Siculiana für die mir liebenswürdig gesandten Nachrichten. Laute und
Lautentwickelung der Mundart von GIRGENTI. Halle a. S.,
Druck der Buchdruckerei des Waisenhauses. Foerster in dankbarer
Verehrung gewidmet. GIRGENTI (das alte AGRIGENTVM), einer der sieben
Hauptorte, in welche sich Sicilien politisch teilt, liegt wenige Kilometer von
der südlichen Küste der Insel und zählt etwa 20 000 Einwohner. Gegen Norden
erstreckt sich seine Provinz bis Cammarata, westlich bis Sciacca, gegen Osten
bis an den Flufs Maroglio, und umfalst die Gegenden Aragona, Favara, Naro,
Canicattí, Casteltérmini, Cianciana, Cammarata, S. Stéfano, Ribera, Sciacca,
Bivona, Recalmuto, Raffadali, Licata u.a. Die mundartlichen Grenzen entsprechen
aber nicht genau den Verwaltungs-Grenzen; wir finden deshalb, dafs, während es
zwischen Girgenti und den kleinen es umgebenden Gegenden, wie z. B.
Porto-Empe-docle, Siculiana, Montaperto, Aragona, Recalmuto, Havara, aufser
einer gewissen Dehnung der Aussprache nur sehr seltene oder fast keine
Verschiedenheiten giebt, man dasselbe von den Gegenden, die sich mehr von ihm
entfernen, nicht sagen kann. So z. B. Canicattí und Casteltérmini nähern sich
mehr der mundartlichen Gruppe des Innern der Insel (Caltanissetta), wo die
Aussprache im allgemeinen selir gedehnt ist, und in ihren Gegenden bemerkt man
besonders die Diphthongierung des e (g, e) und des o (8, p), welche in GIRGENTI
(Hauptort) und an den Küsten ganz unbekannt ist. So nähert sich auch
Licata etwas den Mundarten der Südost-spitze, namentlich in der Entwickelung
des liz (aus pl, c, tl) zu c (canu, ou, veccu, wie in Noto, Módica); ferner
gehört Sciacca fast ganz zu der mundartlichen Gruppe der westlichen Küste der
Insel, da in ihr die Hauptmerkmale selbst, die ge-wöhnlich in der ganzen
Provinz sind, fehlen: /+ Hiat i = gy, statt = 1 (filiu - figgyu, agrig. fitu);
Perfekt -avit = áu statt (purtáu, purtá); 9+a, 0, u-j: jammi, jaña (agrig. gammi,
gana) u. s. w. Bei der Verfertigung dieser Arbeit habe ich besonders die
folgenden Werke benutzt: F. Diez, Grammatik der romanischen
Sprachen. Meyer-Lübke, Grammatik der romanischen Sprachen; Italienische
Grammatik. Leipzig; Schneegans, Laute und Lautentwickelung des sicilianischen
Dialektes. Strafsburg Hüllen, Vokalismus des alt- und neusicilianischen
Dialektes. Bonn. Giovanni,
Cinquanta Canti, novelline, sequenze e scritti popolari siciliani. Palermo; Giovanni,
Canti e novelline popolari siciliane. Palermo] und manche andere, die ich
in derselben nicht unterlassen habe zu citieren. Sehr viel aber hat es
mir auch geholfen, dals ich aus der Provinz GIRGENTI gebürtig bin und in
mir selbst die beste Grundlage meiner Arbeit gefunden habe. Für die
gütige Teilnahme an der Arbeit sage ich Foerster hiermit meinen herzlichsten
Dank; ferner mufs ich auch dem Monaci, meinem hochverehrten Lehrer in Rom,
danken und den Freunden Sicardi von Palermo, Taormina von Siculiana
für die mir liebenswürdig gesandten Nachrichten.Diakritische Zeichen.*
Vokalismus. ç = offenes e, e = geschlossenes r, i = sehr offenes i,
beinahe e, a = sehr offenes u, beinahe o, !. Halbvokale. Konsonantismus.
*Kons. = gedehnte Aussprache des Anlautes: dumama, decottu, bannera, ve,
"Roma, k? = fl: zuri (flore), xmmi (flumen), % = ts:
carraratu, 2= ds: vurza, i = palat. c, g = palat. g, J2
= ital. gh in ghiotto, $ = franz. ch in „cheval", del = Il (es
wird bei uns nicht mit Schneegans gebildet, „in-dem man die Zungenspitze nicht
wie bei d gegen die obere Zahnreihe drückt, sondern gegen die Gaumen-höhle,
nachdem man sie nach hinten umgeschlagen hat"; denn es ist nicht das
Gaumen-d der Sarden, klingt vielmehr palatal: es ist ein mit dem Zungen-rücken
auf dem Mittelgaumen hervorgebrachtes g, wobei die Zungenspitze den Rand über
den oberen Alveolen berührt, 4 = mouilliertes / (ital. gl), ñ =
mouilliertes n (ital. gn), += ti + Vok. - ist die stimmlose zu der
stimmhaften d!, Sf = sti+ Vok. — wobei die Zungenspitze sich gegen den
Mittelgaumen mehr nähert als bei s, i — faukales n in sanu
(sangue), le = ital. ch + Vok. im Hiat (liy = liz), 'm)
'n) = Vokm, Vok.n. *) Man entschuldige die Ungleichartigkeit
ciniger Zeichen mit dem Fehlen entsprechender Zeichen im Vorrat der
Druckersi. A bleibt in der Regel sowohl in GIRGENTI (Hauptort) als in der
Provinz unverändert: capu (caput); fava (faba); lizavi (clave); amu (hamu);
vraca (braca); lagu (lacu); paci (pace); vaggu (radiu); maju (maju); gratu
(gratu); gradu (gradu); nasu (nasu); manu (manu); bañu (*baneu); "raru
(raru); ala (ala); pata (palea); cavaddu (caballu); annu (annu); gattu (cattu);
passu (passu); parti (parte); arcu (arcu); árbulu (arbor); ama (arma); marba
(malva); áutu (altru); cáudu (caldu); fúusu (falsu); canta (cantat); canca
(cambiat); santu (sanctu); latte (lacte); matressa (metaxa); labbru (labru);
pati (patre). Besondere Fälle - lat. mälum. Im allg. Sicilianischen fehlt
die entsprechende Form zum ital. melo aus griech. melon (u82ov); statt ihrer
findet sich nur pumu; ammilatu, d.h. „del sapore o del colore d'una mela"
ist aus ital. melo geholt und wird metaphorisch wie in „parlari ammilatu"
gebraucht. Mu-luni (aus Angleichung des i an das tönende u) ist der ital.
mellone. Lat. gravis (ital. grave und greve, cf. Canello, Arch. glott. ital.)
ist allg. siz. gravi adjektivisch und ad-verbial, aber gelehrt, z. B. „casu
gravi, malatu gravi"; zun ital. greve „con valore puramente
materiale" entspricht agrig. gravisu; sonst hat *grevis in grevu
„geschmacklos" „dumm" und „pesante nello scherzo", deshalb
grizanza, und in grevia „mal' umore, pesantezza di spirito" seine Stelle
ein-genommen. Lat. alacer hat sich nur im Sinne von „pronto, attivo,
vivace" im ital. alacre, alacrità, alacremente, aber ge-lehrt und
entlehnt, erhalten; im Sinne von „lustig, fröhlich, freudig, heiter" ist
vulglat. *alécrus an seine Stelle getreten: ital. allegro, allg. siz. allegru,
oft bei dem Volke: allégiru, mit i - Einschiebung. Lat. ceraseus hat sich
im ganzen Sicilianischen sing. crasa, plur. crasi erhalten; cf. sard. kerasa,
neap.-röm. ierasa, ¿erase (nicht ierase, wie Meyer-L., Ital. Gram. schreibt).
Lat. Suffix -aria, -arius erscheint im allg. Sic. und im Agrig. als -ara, -aru;
als ara, -are; als -cra, -eri; als -er, - ergu. Beispiele:
panaru, picuraru, nutaru, vurdunaru, azaru, jin-naru, frivaru, murtaru u. a.
(echt volkstümlich); sigritarzu, calanar, ssafalaru, mancataru,
nivis-sargu u. a.; 1) vueri, giseri, camperi, lucanneri, luktigeri u.
a.; rifrigger, maggisterzu, virser u. a. Doppelformen: abbirsarm
entgegenstehend und virseru Widersacher, Teufel, adversarius; arginteri
Silberarbeiter und Argintaru Name eines Berges aus argentarius; cavaddaru
Führer der Lastpferde und cavaleri (die Landbewohner nennen cavalera eine
Mandel, die harte Schale hat) aus *caballarius; galera (auch galia Galere)
Gefängnis, z. B. „mannari 'ngalera" zur Zwangsarbeit verurteilen und
gallaría (?), cf. Canello, aus calaria von sãñov; quartara Krug „la quarta
parte d'un barile" und quarteri Stadtviertel aus quartarius; cannilaru
Lichtzieher und cannileri Leuchter aus *candela-rius u.a. Man konnte hier auch
svarzu, sbar (ital. svago) Belustigung und sgarru, sbatu (ital. sbaglio) aus
*ex-varius, varius = Badeós, cf. Canello, hinzufügen. Die volkstümliche
Entwickelung von -arius ist aber nur -aru, wie Schneegans gut erklärt
hat; - arzu ist besonders ital. Einfuhr, v. g. calendario, proprietario,
segretario, locatario „colvi che prende a pigione casa, bottega etc.",
Fan-fani, Voc. ital. neben locandiere „padrone d'una locanda" (statt
lucataru oder lucataru findet sich aber agrig. lucateri neben lucanneri in
demselben Sinne wie im Ital.); - eri, - eru sind besonders französisch oder
italianisierend auf franz. Ur-sprung, vgl. boucher, agrig. vucteri, altfrz.
jusier, agrig. giseri, prov. campier, agrig. camperi u. a. Allg. sic.
jittari, jetta, jittatu dürfte nicht auf ejéctat beruhen (Meyer-L., Ital.
Gramm.), sondern, wie im franz. *jecère, a durch j beeinflufst
sein. Lat. natare (ital. notare, nuota) ist in Girgenti natari, nata in
der Regel geblieben, und so auch aqua — acqua; caseu - cau (s + Hiat i). Zu dem
calab. miercu (Meyer-L.) entspricht agrig. mercu (ital. marco, marchio
Zeichen), miercu in Casteltermini, Canicatti, mircari (cf. altfranz. merc,
merchier). Lat. habeo = aju, neben e, eju; darüber ist zu bemerken:
a) e kann einfache Kontraktion von aju sein, vgl. t'e mannatu, l'e amatu
Licata = t'aju mannatu, l'aju amatu) e= aju a + Infinitiv (von aj'a...,
cf. franz. j'ai à ...). Die einfachen Formen des FVTVRVM sind in GIRGENTI
mundartlich ganz und gar ungewöhnlich: t'e fari moriri, t'e mannari a
"Roma = t'aj'a "fari moriri, t'aj'a mannari a "Roma (ital. ti
faró morire, ti manderó a Roma); y) die Form eju = aju, speziell aus
Casteltermini, kann so gebildet sein: zwischen e (gewöhn-liche, einfache
Kontraktion von aju) und a + Infin. ist ein j vorgekommen, vgl. z. B.
affirratu e janci (e = ai Artikel und hanéi, anci von ganci, ital.
gancio); ej a jiri = e a jiri; später wird ej a zu eja, wie in m'eja
namurari = m'aiu a "na- murari, danach wird eja zu aju analogisiert
eju. Sehr häufig ist ferner a von aju a, besonders in der Stadt Girgenti und an
den Küsten: m'a namurari, m'a fari 'stu piacri = mai a fari stu piaciri; d) die
literarischen Formen aja, ajamu, ajati, ajanu sind mundartlich ungewöhnlich;
nur in einer verwünschenden Ausrufung - "mannagga! (mal ne abbia) findet
sich agga von habea. Agrig. lizovu, covu in Licata, aus clavus ist nicht
klar; aber vielleicht läfst es sich aus clavr = clau-u = clau-v-u erklären. -
Lat. sapio (ital. so) ist in GIRGENTI saie (p+i im Hiat = ē) regelrecht
geworden. - Muncu (ital. monco) aus mancu ist nicht volkstümlich; statt seiner
sagt das Volk: ¿uncu (cf. ital. cionco), oder „sen:a manu", aber
mancari,mancu, mancanza (für monco neben manco im Ital., of. Canello). Suffix -abilis =
abili, abuli: curabili, maniatuli; öfters aber hat ital. -evole seine Stelle
eingenommen: ludevuli, cum- passiunevuli, durevuli u. a.
Suffix-aticum = aggu; cumpanaggu (ital. companatico); sarvaggu
(silvaticu) u. a. Gelehrtes -aticu is geblieben in: stallaticu (ital.
stallatico, auch stallaggio), viaticu, estaticu. Mlat. amandola (ital.
mandorla) giebt ménnula (cf. occ. amenlou). Neben kuarke (ital.
qualche) aus qualeque, findet sich uft, auch in agrig. lorki, vielleicht aus
*kaurki; möglich finde ich es, weil ich viele Male kaurkidunu (ital.
qualcheduno), be-sonders in Porto-Empedocle, gehört habe, obwohl das k sonst
immer u an sich zu ziehen pflegt; vgl. kuatela von kautela (auch
cotela). Endlich, der betonte Vokal a, sowohl in offener als in
geschlossener Silbe, wird in einigen Mundarten der Provinz, besonders in
Aragona und Recalmuto, nach Guttur, und Lab. in ua diphthongiert, z. B. guaddu,
cuani, curcuari, puani. §2. e @ (= è litt. lat.) bleibt gewöhnlich in GIRGENTI
(Hauptort) und im allgemeinen an den Küsten. Im Innern der Provinz, und
besonders in einigen Gegenden, wie z. B. Casteltermini, Canicatti, wird e
zum Diphthong ie. e bleibt: crepa (crepat); leva (levat); tema (tremit);
prega (precat); nega (negat); deci (decem); peju (pejus); meti (metit); pedi
(pede); sedi (sedit); teni (tenit); seru (seru); feli (fel); peta (petra);
lebbru (lepore); nela (nebula); merlu (merulu); ecklqu (vetulu); metu
(melius); teña (teneat); menzu (medius); ferru (ferru); beddu (bellu); pettu
(pectus); setti (septe); sé sex); vespa (vespa); festa (festa); jinessa
(genestra), erba (herba); certr (certu); perdi (perdit); sempri (semper);
centu (centí). frieri, wieni, tieri, nierier, miete, mienzu, viers,
viene, bieni, liévitu, miévula, mierlu, mienzu, viersu u.s. w.
(Casteltermini, Canicatti). Dieser Diphthong findet sich immerim Munde des
Volkes, und er ist das bemerkbarste Kennzeichen dieser Gegenden. Dafs die
gebildeten Stände beim Spre- chen versuchen ihn zu vermeiden, versteht
sich, weil er immer einem Ohre, das an gebildetes Sprechen gewöhnt ist,
unangenehm auffällt. Und so wird es kommen, dals eine gebildete Person, nehmen
wir an in Casteltermini selbst, um nicht mit dem Volke: „viersu, mienzu,
mierlu" zu sagen, „versu, menzu, merlu" sagen wird, was dann nicht
die Mundart von Casteltermini, sondern gewöhnliches Sicilianisch ist, das von
jedem Gebildeten in Sicilien gesprochen wird. Die Leute aus dem Volke, die die
Wörter am meisten dehnen, sprechen: „viersu, miensu, mierlu" in einer noch
mehr offenen und gedehnten Weise aus, als die besser Gebildeten, welche die
Diphthongen doch immer aussprechen, aber in einer weniger unangenehmen Weise.
Damit will ich sagen, dals die Diphthongierung des e existiert in einigen
Gegenden des Innern der Provinz, abgesehen von der Affektation und der Dehnung,
mit welchen sie ausgesprochen werden kann; und dals es, nach meiner Meinung,
unverantwortlich ist, aus der einfachen That-sache, dals die Gebildeten diesen
Diphthong zu vermeiden suchen, zu schliefsen, wie jemand es gethan hat, dals es
die blofse Wirkung affektischer Rede sei. Dals der Vokal, welcher
die folgende Silbe schliefst, einen Einfluls auf das e ausübt, finde ich sicher
(cf. neap. und calab.). Wir finden ½ B.: piettu, liettu,
frummiente, priezza, lamientu, bieddu, mienzu, viellzu, bieni, pietti, lamienti
u.s.w. - und: erba, beddo, petta, picuredda, palummedda, cublizaredda, petta,
testa, terra, ichliga u. s. w. Wenn wir hierauf keine Rücksicht
neh- men, wie können wir die zwei Formen: „bieddu" und
„bed-da", „pietti" und „petta", „vieklizu" und
„velkza", „patum-mieddi" und „palummedda" erklären?
Anmerkungen. Linnina aus lens, lendis, mit den calab. lindine, campob. linenc
(dagegen im ital. lendine) scheint auf ein et zurückzugehen. Vestice aus
bestia (ital. bestga) würde zu Gunsten eines g sprechen, ist aber nicht
volkstümlich entwickelt. Lat. HERI (ital. ieri) ist agrig. ajeri, wie im ganzen
Sicil. (cf. span. ayer = ad heri). Bei múntua (ital. méntova) ist e
nach m zu a geworden. Ital. scendere, allg. sic. sinniri aus lat. descendere
(kaum vermischt mit discindere, wie Meyer-L., Ital. Gramm.). 'Ntinna (wie
das ital. antenna) scheint auf ein lateinisches zurückzuführen. e zu i im
Hiat.: diu, auch "di (Deus): „Di nun móta" Gott behüte; „pi
l'amuri di di" um Gottes willen; miu (meus); in Casteltermini findet
sich ma = miu, mia (vgl. ia = iu) „ma pati", „ma mati", in der
ganzen Provinz aber auch me frati, me mati, und fraturzu me neben fraturäll
miu; endlich riu aus reus. § 3. alls vulglat. e = a) è, B) i, y)
vulglat. i = kl. lat. i wird agrig. i. a) aus lat. è: mi (me); ti (se);
si (se); sivu (sebu); fici (fecit); liggi (lege); sita (seta); cridi (credit);
pisu (pesu); vini (renes); sira (sera); tila (tela); cannila (candela).
Besondere Fälle: Volkstümlich (aber meist ital. Einflufs) e statt i
zeigen die Wörter: statera, neben statía (cf. ital. sta-dera); veru (veru);
fera (feria); tettu (tectu), sirenu, Unbe-wölktheit, heiterer Himmel (ital.
sereno); kuatela (cautela); iercu, cerki, cerca, cercanu, v. cercare; nettu
(ital. netto); tirrenu (terrenu); -emu (-emus); vulemu, facemu u. s. w.; ie
(-U, i) in Casteltermini, Canicattí: buliemmu, jemmu; vieru, niettu u. s. w.
Ferner kuetu (quietus) vgl. ital. queto, das Canello, Arch. glott. ital.
„forma semi-popolare" nennt. Findet sich auch e statt i in den folgenden
ital. Lehn-wörtern: re (re); spera (spera); velu (velo); frenu (freno); reñu
(regno); sigretu (segreto); prufeta (profeta); debitu (debito); sinceru
(sincero); eredi (erede); cullega (collega); essemu (estre-mo); misteru
(mistero); ecu (eco); -esimu (-esimo); primavera (primavera). aus lat. I:
ficatu (ficatu); liga (ligat); siti (siti); vidua (vidua); pilu (pilu); mitr
(miliu); sajitta (sagitta); pinna (pinna); friddu (frigidus); siklza (sitla);
ssita (strigile); nivru (nigru); vitu (vitru); pudditu (pullitru); vinti
(viginta); capissu (ca-pistru); massu (magistru); virga (virga); pasi (pisce);
viscu (viscu); rissa (rixa). Besondere Fälle. e statt i zeigen auch
hier die Wörter: veci und 'mmeci = in + vice, ital. invece (vice); stelu,
gelehrt (stilu); selva, gelehrt (silva) - ital. stelo, selva; fermu
(fir-mu) wohl Eintlufs des r; ferner vor n in menta (mintha); ssega aus ital.
strega (striga); lenza (lintea); menu (minus); cumenia (aber auch 'ncuminia);
tenta (triginta): die Form tinta ist mir ganz und gar unbekannt. Die niedrigen
Leute zählen immer nach zwanzigen und sagen z. B.: 'na vintina e deci, di
vintini, du vintiari e deci, ti bintini, um tenta, quaranta, cinquanta,
sissanta zu sagen. E statt i zeigen auch empru (impiu) gelehrt; vérgini, neben
virgini als kirch-licher Ausdruck: Vergini Maria. Neben rissa (rixa), findet
sich ressa, gelehrt, wie im Ital. (Canello); dema- nu gelehrt - Besitztum
- neben duminzu ebenso gelehrt - Herrschaft -, Doppelformen aus dominium.
Dagegen i zu a oder ai, etwa durch das franz., in ammáru, ammáina, aus adminare
(altfranz. amaine), heute amène, ist einfach unmöglich und mufs
andern Ursprung haben, vgl. Flechia Arch. Glott., Meyer-Lübke it. Gr.)
aus lat. i: ripa (ripa); lisía (lixiva); lima (lima); amicu (amicu); fatiga
(fatiga); radici (radice); viti (vite); nidu (nidu); ritu (risu); vinu (vinu);
carina (carina); suspira (su-spirat); filu (filu); viña (vinea); milli, oft
auch mirza (mille, milia); faidda (favilla), scrittu (scriptu), lintikhzu
(lentiscu); cincu (quinque). Anmerkungen. Es fehlen in Girgenti die
entsprechenden Formen zu den ital. trebbia (durch Vermischung von
tribulum und tribula, Meyer-Lübke, op. cit. § 52), merxo (wenn es zu mitis
gehört), segala, elce, stegola (stivula, stiva Caix, Studi 595, wenn man nicht
mit Mussafia Beitrag 111, 1 zu hasticula stellt); vetrice, artetico (s.
Meyer-L.): finden sichaber in der Regel crisima, carina, lítica, ital. cresima,
carina, letica (von litigare). In Recalmuto, besonders bei den
Landbewohnern, wird i fast zu e, mit groser Dehnung ausgesprochen: decu
(dicu); felu (tidu); venu (vinu); veña (viña); durena (duzzina).
$4. 8. ! (= ö litt. lat.) bleibt o in Girgenti und im allgemeinen
an den Küsten; wird in Casteltermini, Canicattí in -uó- diph-thongiert.
Beispiele: tova (*tropat); prova (proba); novu (novu); vo (bovef); omu
(homo); coc (cocu); jocu (jocu); coct (cocit); rota (rota); sonu (sonu);
soru (soror); scola (scola); ópira (opera); sóggiru (soceru); folu
(foliu); córe (coriu); oggi (ho- die); okhiz (oclu), coddu (collu); fossa
(fossa); notti (nocte); cosa (coxa); postu (posto); nossu (nostru); forti
(forte); corda (corda); or (ordeu); corpu (corpu); corvu (corvu); porcu
(por-cu); cornu (cornu); morsu (morsu); sonnu (somnu); lonu (lon- gu) -
und: uokki, suonnu, suonu, tuovu, ruoppu, muoddu, muortu, juornu,
buonu, suoru, tistimuoni, cuoddu, cuornu, I. S. w., aber immer tova,
¿oppa, modda, morta, "bona, cor-na, picotta, cosa, fora, u. s. w.
Besondere Fälle. Agrig. munti, frunti, funti (seltener fonti) scheinen
auch auf ein vulglat. ont zurückzugehen (im span. aber ?). Purpu, gruncu
und gulfu, urma, gelehrt, ent-sprechen den ital. polpo, grongo, golfo, orma;
aber tornu, oni, forsi, corpu ital. torno, ogni. forse, colpo (s. Meyer-Lübke
Ital. Gramm. § 65). Zu bemerken sind auch arrustu cf. sard. arrustu;
atturru (torreo) cf. calab. atturru, sursu, neap.-calab. sursu, ital. smso,
aber grossu (sard. russu), sorba (calab. surba, lecc. survia) - lat. cofinu
(ital. cófano) ist agrig. cufinu, durch die Versetzung des Accents vortonig und
ge- schlossen geworden. Lat post, po in Girgenti, unterliegt in
Casteltermini energischer Diphthongierung: à zu úa, pua. Endlich a statt o
zeigen die Wörter: nannu, nanna (Grofsvater, Grofsmutter), = ital. nonno,
nonna, und vassa = ital. costra signoria, „vassa si ni va", vassa
veni ca'". - Schnec- gans erklärt das durch die mit der Häufigkeit
des Gebrauches sich einstellenden Lässigkeit der Lautbildung.Aus vulglat.
o = a) litt. lat. ü, 8) i, d) vulglat. e = litt. lat. u wird agrig. u. a)
aus lat. ö: pumu (pomu); duga (doga); vuci (voce); nute (votum); cuti (cote);
rudi (rodit); spusu (sposa); via (hora); zzuri (flore); curuna (corona); curti
(corte); sulu (solu); tuttre (*tottus); furma (forma); curca (collocat, vgl.
altfranz. colche, ital. corica). Anmerkungen. O statt u zeigen die
gelehrten Wörter vittora, groba (gloria), códici, nonu, nobili (nobuli bei den
Volke), mobili und doti, divoto, sacerdoti (sacardoti) schon volkstümlich
geworden. Neben ura (HORA) findet sich gra aus há hora, Zeitadv., z.
B. „pra veñu" (ital. ora vengo), „gra -¿i vajr" (ital. ora ci
vado). - Besonders zu bemerken ist auch "nomu (NOMEN, ital. nome), cf.
Romania. O ist auch in: prdini, firçõi, prontu, conta, 'Roma, "Ragona,
ripasu, pilu, tonaca, testimonu bemerkbar, und in den ital. Lehnwörtern
flora, votu, dom, conti, nodu (nicht mit p, wie Schneegans sagt; -
überhaupt ist die Aussprache ganz im Süden charakteristisch immer offen und
gedehnt). - -Onem, -ionem, mundartlich zu -uni: añuni (angone); rub-buni
(von robba Priestermantel); 'mrzacuni (von 'mracu, ebriacu); raguni, caguni,
staguni u. s. w., bleiben bei gelehr-ten Wörtern als -igni: lustioni (ital.
quistione), naxioni, pas-sioni, tintazioni, suggizioni, affizzioni, uccasioni
u. a. Neben forma Gestalt, gelehrt, findet sich regelrecht furma, aber nur im
Sinne von „Leiste". Dem ital. uovo (aus (vum) entspricht agrig. quu.
Auffällig ist endlich culossa (colostrum, s. Meyer-Lübke, Gramm. d. rom.
Spr.). 8) aus litt. lat. й: lupu (lupu); cuva (cubat); guritu
(cubita); guva (juvat); gúvini (juvene); jugu (jugu); fuji (fugit); cruci
(cruce); cútica (cutica); furza (furia); gula (gula); сии (cuneu); rugga
(rubia); puzzu (puteu); calunma (calumnia); uti (utre); supra (supra); duppe
(duplu); gulutu (glutu); stuppa (stuppa); russu (russu); turri (turre);
savurra (suburra); cunnuttu (con- 1) So Meyer-Lübke, Fanfani hat
corica.ductu); vucca (bucca); musta (mustu); crusta (crusta); curtu (curtu);
furca (furca); gurgu (gurge); turtura (turtura); surcu (sulcu); vurpi
(vulpe); súrfaru (sulphur); prúvuli (pulver); curpa (culpa); sunnu
(sunt); unna (unda); tuncu (truncu); runca (runcat); kumm (plumbu); unnici
(undeci). Anmerkungen. — ? statt u zeigen auch hier: docca (ductia);
satoll (satullu); lonta (ital. lontra) alle gelehrt, und die ital. Lehnwörter:
tossicu (tosco); lotta (lotta); conzu (conio, neben ruñu); vrigña (vergogna);
culonna (colonna); gottu (auch" bottu: un bottu d'acqua) ital. gotto. Moli
aus mulier (ital. moglie) ist gelehrt und sehr selten, ebenso gobbu aus gublus
(ital. gobbo); nozzi aus nuptias (ital. nozze); das Volk sagt: muléri
(muliére), jimmu, nguayyu oder spusalizzu. Zu bemerken ist Izoviri, lovi
(pluere - plovere, Grundform plovia, of. Foerster, Zs. f. R. Ph. III.): to, so
(tuus, suus — vgl. ital. tuoi, suoi, aus tü-i, sũ-i für tui, sui, Schneegans).
Colobra und colubra ist mir ganz und gar unbekannt. Unklar ist jornu aus
diurnus (Analogie zu notti? Mussafia). Zu dem ital. scuo-tere (excutere)
entspricht agrig. scotiri. Auffällig ist Suffix -uru)lum = okku
cunokka, finokkau, pidokku, gunoklizu. Fommu (fuimus), foru (fuerunt) und
die Formen des Condit. fora, foratu, fora, foramu, foravu, faramu sind nicht
klar. Zusatz. In Casteltermini, Canicattí wird dieses ó (+ u, i) in nó
diphthongiert: juornu, aber Plur. jorna, vollizu, nolli, Tinuokkau, piduokhau;
fuommu, tuoru u. s. w. y) aus vulg. lat. u = litt. lat. u: fumu (fumu);
sucu (sucu); suca (sugat); lue (luce); mutu (mutu); crudu (crudu); fus
(fusu); una (una); muru (muru); mulu (mula); purci, puer (pullice); guñu
(juniu); lulu (juliu); gula (acuc|ulla); gustu (gustu); fruttu (fructu);
nuddu (nullu), susu (sursum). Anmerkungen. - Statt -itu Partizipendung
findet sich fast immer -utu: tradutu, finutu, zzurutu, partutu,
sintutu. Ganz selten ist o statt y: unklar ist gró aus gruem; ebenso lordo
aus luridus, was Ovidio (Grundr.) als Anlehnung an sordo (?) erklärt. 1)
Die Landbewohner sagen junettu, wie altfrz. juignet.§ 6. griech. v.
Griechisch i, i wird meist durch u, seltener durch i wie-dergegeben; doch
manchmal findet sich auch o und e statt u, i, wie im Ital. Beispiele: vurza,
grutta, cutuñu, tunnu, tuffu (mustárau, crókkmula, mit Versetzung des Accents);
aber torsu (ital. torsu, thyrsus), martorzu geistliches Schauspiel in einigen
Gegenden der Provinz während der Passionswoche, neben martirz, gelehrt
(Doppelformen aus martirium, wie im Ital., cf. Canello, op. cit. 32f.); lonxa
gelehrt (cf. ital. lonza); tollu (ital. stollo); brutiru, aber libezin,
ménnulr, cémmalu, gettu, die zwei letzteren gelehrt. In tapúnu (toúravor) kann
das a vom Verbum tapanari verschleppt sein (Meyer-L., Ital. Gram. § 16, 16)
oder aus Angleichung an den folg. lat. Vokal: - tepúnu - tapinn. § %. ae,
oe (schon vulglat. e) sind agrig. als et behandelt: celu, fenu, fetu, neu
(naevum); ¿ena, grecu, ebreu (Abbreu, Abbré), juden (judé), prestu, seralu,
spera, tedmo, fería, preda, eru, die vier letzteren gelehrt. (Foedus, laetus,
suepes, taeda, perit, quaesi, caccus fehlen). - In Casteltermini, Canicattí
wird dieses g in -ic- diphthongiert: fienu, fictu, griecu. lat. au.
Es ist nicht leicht, eine bestimmte Regel für die Entwickelung des lat. au
festzustellen. Man kann im allgemeinen sagen, dals im Sicil. LAT. AV, sowohl
primär als sekundär beibehalten ist, jedoch Ausnahmen fehlen nicht, obwohl
viele durch ital. Einflufs gebildet worden sind. Primäres au bleibt au:
táuru, addaure, vaucu, CAVSA (neben “cosa”, Doppelformen wie im Ital., cf.
Canello), lausu (neben lodi gelehrt), pause, gelehrt; canlu, Niculau, öfters
bei Anreden Niculá.Zusatz. — an wird oft zu aru agu verdehnt: túgurn, addáguru,
cávusa, rúcule u. s. w. au — 0: oca (ital. oca); robba (ital. roba), bei
den Landbewohnern ist robba das Landhaus; cos (ital. cosa); pocu, neben picca
(ital. pocn); póriru (ital. povero); cotu kann aus cautus kommen, obgleich es
keine entsprechende Form zu ital. chiotto, neap. hipte,' aus quietus |cf. Diez
(kaum) durch franz. coit] ist; oru (ital. oro); o (ital. 0, aut); goja (ital.
gioja); nolu (ital. nulo), godu, júdivi, neben udiri (ital. godo), lodi gelehrt
(ital. lode), lodr, loda, lúdane (ital. lodo, loda, lodano) - tisore, auch
fisoru, tisole bei dem Volke (ital. tesuro); parole, palore (ital. parola);
frori gelehrt (ital. frode), lúnare (ital. lodola), foci, gelehrt (ital. foce);
clanstrum, anru, unsu, planta, guute fehlen. Zusatz.
o diphthongiert in no: prore, cuotu: (Casteltermini, Canicatti, puoru
auch in Recalmuto). « - ar (ital. al) vor m: rarma (sacua, ital. calma),
sarme (sauma, ital. salma aus oágua). Sckundäres - aut (Perfect - avit)
ist in Girgenti (Haupt-ort) und in der ganzen Provinz, aufser von Sciacca
(-au), - geworden: amú, purtú, currú, mannú etc. Das sekundäre aus
al entstandene an hat in der Provinz von GIRGENTI eine mehrfache Behandlung. Es
ist merkwürdig. wie man in einer Gegend selbst, nehmen wir an, in der Stadt GIRGENTI,
zwei oder drei verschiedene Entwickelungen des al hören kann: z. B. autu,
ácute, neben utu, antu; srauzu, siu-vuzu, scuzu, scanzu; sautu, sautu, satu,
santu u. a. - Die volkstümliche Entwickelung des al ist aber au: autu, scruzi;
sautu, fausn, caudu u. s. w., das Zerdehnen des an zu avu ist ganz gewöhnlich;
die Formen atu, satu, scazu u.s. w. entstanden aus áu, «(u) (autu = atu);
wichtig ist die Form untu, santu, scanzu u.s.W., wo l zu n geworden ist. Diese
Form findet sich nur bei dem niedrigen Volke, besonders Landbewohnern. Meyer-Lübke,
Ital. Gram., er- 1) Ovidio (Arch. glott.) erklürt das neap. kiuote aus
dem lat, plotus, und Canello das ital, chiotto aus dem neap. kivote.klürt die
Form antu (altru) aus der Verbindung unaltro; aber das, glaube ich, kann nicht
auf fanzu, canza, santu u. s. w. bezogen werden. Merkwürdig ist auch an aus
unbet. au in anceddi (Casteltermini). Vgl. altfrz. ancun. In callu neben caudu
(ital. caldo), falla (ital. falda), nur bei den niedrigen Leuten zu finden, ist
Id zu ll geworden. In
Cianciana wird al vor d zu ai: caidu, faida, so auch ale: caidára, caichúri. -
S. Kons. Unbetonte Vocale. Vortonige. Ohne Einflufs von Kons. bleibt
a bewahrt als a: für die unter i und u zusammengefallenen Vocale (e, e, й, 0,
й, й) ist zu bemerken, dafs diese i- und u-Laute (sowohl vortonig als
nachtonig) nicht immer ein ganz reines i und u sind, sondern ein Mittellaut (i,
4) zwischen e und i, o und u, cf. Meyer-Lübke, Ital. Gram., Schneegans. Doch
dieses Schwanken finde ich nicht so ausgebreitet und zuchtlos, wie Schneegans
leicht annehmen lassen würde. Auf die gewöhnliche Schreibung des sicil.
Dialektes mufs man sich im allgemeinen sehr wenig verlassen, und die selbst von
Schneegans dargereichten Texte zeigen es deutlich; in der That: uno, subito,
solito, danno, anno, successo (in den Cicalate), impiegato, Municipio, saluto
(„le Maschere"), tanto, spartavano, ognun, mode (bei Papanti), mio,
argento, mano, lo esercixio, pavento, eccidio, campo, immenso, obboé, dire,
contento, dente, allegria, mascherati, verità sind keine sicil. Wörter mehr,
sondern ganz und gar italienische, mit italienischer Schreibung. Wenn ich
also kein Gewicht auf diese ungenaue Schreibung lege, und mich nur an den
echten Volksausdruck und meine natürliche Aussprache halte, so finde ich,
besonders in der Provinz von Girgenti: 1. dals i und u im Auslaut den reinen
und bestimmten Laut des i und u wirklich nicht mehr haben, sie sind unklar,
offen und fast lautlos: ital. anno ist sicil. weder anno, noch annu, sondern
annu; dals dieser Mittellaut zwi-schen e und i, o und « besonders in gelehrten
und italienischen Lehnwörtern mit e und o zu bemerken ist, z. B. alligrin,
prisenti, filici, riggimentu, sicunnu, cmlentu, prepositu u. a. Formen
wie scordatille machen keine Ausnahme, weil es ein zusammengesetztes Wort ist
(scorda+ti+ lu, vgl. ital. scorda+ te+lo) und das o von seinem Accent (córda)
aufgehalten ist, sonst scurdári, scurdústi, scurdátu. Teátu (Schneegans) neben
tijatu ist gelehrt (ital. teatro), ebenso mascherati volkstümlich mascarati
(durch Einflufs des r). Lat. au ist als au bewahrt geblieben in den
Wörtern aurikki, Laurenzu (oft zu Lagurenzu, daher Lagrenzu bei dem Volke,
besonders Landbewohnern), ferner in audaci, au-tunnu, rumentu, nauszatu,
cautela (neben cotela s. unten) gelehrt und Lehnwörter; sonst wird es zu a:
agustu, ascuta, ascutari, agur (wie schon im Vulglat. agustus, ascultare,
agurium), Agustinu, aceddu (anceddu Casteltermini); arikkini (ital. orecchini,
Ohrringe), xzatari (flautare), ladari, ladatu Castel-termini, Cianciana. Neben
aurikli, arikki, arilkini, Laurenzu, areddu, finden sich oft auch oribli,
orillini, Lorenu, oceddi, wohl vom Ital., wo anl. o unverändert blieb, während
es inl. zu u werden mufste in: pusari, ripusari, purureddu, gudiri (neben
gódir), lydari, rubári. - Beachte au in auliva, aulivi. Romanisches au
entstanden aus al-Kons. bleibt au, wie in autirra (altezza), oder durch
Einflufs des l, das u an sich zieht, wird au zu va in kuadara (caldaia),
kuacina (calcina), luadári (caldicare), aus kaudara, lavina, kaudzari; neben diesen
finden sich aber auch die Formen callara, callari, fal-laru, fallarinu (deriv.
v. falda), caidara, caidiari, faidduzza in Cianciana, fadali aus au verkürzt.
In cotela aus cautela und cocina aus caucina (calcina) ist au (primär und
sekundär) zu o geworden. Vor Labialen wird al nicht zu au, sondern zu ar:
par-ment (palmento), marva, arbulu, sara. Ferner in Girgenti vor Dentalen:
artaru (altare); farsari (falsare). Unter Einflufs von Kons. - Der Übergang der
unbetonten Vocale a, e, i zu a vor oder nach einer Labialis(s. Schneegans,
Meyer-L.) ist in Girgenti (Hauptort) sehr selten. Beispiele:
cannavi, nie cánnuru (cannabis), carrabbina, livari, rimita, rimiteddu,
seltener rumitu, rumiteddu (here-mita); birritta, carnalivari, arristitari, misura,
misurari, dimannari, addimanna neben dumannari, dumanna, aubi-
dienti, disublidienti, assimitari, súbitu, úrtimu, annivuricúri, simenza,
siminari, ammintuari, ammintuatu, addiminari, milincana, rivirsari; aber duviri
(debere); dumani (demane), cf. ital. dovere, domani. Dagegen findet sich häufig
u vor oder nach Labialis in einigen Gegenden der Provinz, besonders in Licata,
z. B. luvanti (levante); luvari, buvatuvilla (ital. levare, levátevelo),
rumitu, rumitedde, dumanna, burritta, pu-naru (ital. paniere), musura (misura);
ammuntuari, sulnitu (subitu); mulungana (melengiana), annuvricari
(anivricari), car- rubbina, sumenza, fumurar (fimus + ariu), sduvacari
(deva-care) - in Casteltermini: Musummulisi (die Bewohner von Mussomeli),
vutieddu (vitellu) u. a. Durch Einflufs des folg. p ist a an die Stelle
von urspring-lichem vortonigen e getreten in sapurtura (ital. sepoltura);
sre- purcru (ital. sepolcru). Einflufs des v: a) e, seltener i, o +
i= a + v: faraci (ferace); sarbari (servare); kuarela (querela); sacardoti
(sacerdote); arsira (hersera); Arasimu (Erasmus) Cianciana; Sarafina
(Seraphina); sarüzzu (ital. esercizio); viparedda (ital. vi-perella); arruri
(errore); carzaratu (ital. carcerato); purcaría (ital. porcheria); massaria
(ital. masseria); Castartermini (Castel-termini), viklareddu (ital.
vecchierello), battaria (batteria); sarvaggu (silvaticu); maravila (mirabilia);
arreprensilli (ital. irreprensibile); arasiluli (irascibile); marabinenne
(moribondo); tartuca (tortuca); partualle (Portogallo). Anmerkung.
In GIRGENTI, wie im allgemeinen im ganzen SICILIA, kann auch hier von den
Formen des Futurums keine Rede sein, weil keine eigentliche Form des Fut.,
sondern nur die Verbindung des Infinitivs mit den Verben aju, seltener rotu,
sich noch ganz deutlich in seinen zwei Teilen findet. - Formen wie arir, amiró,
saró u. a. sind Einfuhr der Schrift-sprache; doch habe ich manchmal amaró,
avaró (ameró, avró) gehört. 8) i, e + I = u + r in GIRGENTI: GURGENTI (Girgenti),
survigzu (servizio). p) r + e, seltener o = v + a: rapprisintari (v.
represen- tare); racenti (recente); raclúta (ital. recluta); raccoliri
(recol-ligere); valogu (horologiu); forasteri, Lehnwort (forestieri) u.
a. Dieses a wird zu ü in manchen gelehrten Wörtern, rütturi (rettore),
rüdattu (redatto), rütipunte (ital. dietropunto, retro-puntu), rättorica
(retorica). Einflufs des k auf au. Das k zieht u an sich: liun-dara,
kuacina, lundiari, kuatela. Einflufs des n: e, i + n werden a + n: antari
(ENTRARE), anconta (incontra), anutuli (inutile); ancumenãa (incomincia),
ssanuto (ital. sternuto), manziornu, manzió (ital. mezzogiorno); vorñ: añuranti
(ignorante), añumina (ignominia), añranza (ignoranza). Sporadische Veränderung:
suluczu sulusiari von singultu, singultare. otn=atn: eamusu, camsiri,
ermasatu (cognoscere); anuri (honore) ricanusenza (riconoscenza), disanuratu
(deshonoratu); anniputenti (omnipotente). Vor der Gruppe mm wird i zu a:
ammattutu (ital. imbattuto); masate (ital. imbasciata); cmenagrute (ital.
immagrito); Ammaculata (Immacolata). Vor m wird e zu i in: mümorga
(memoria) Lehnwort. Nachtonige. Ohne Einflufs von Kons. bleibt
nachtoniges a in-und auslautend bewahrt: stómacu, timpanu und tégula,
"rose, cosa, badda, cuda, canta, puma; für die unter i und «
4u-sammenfallenden Vocale (ẽ 7, i, 0, й, ù) s. Vorton. Kein auslautendes e in
cincu (quinque, ital. cinque); agrig. sunca (cf. altital. dunqua) bestätigt ein
schon im Vulglat. dun-qua aus dunque in Anlehnung an unquam. Ferner zu bemerken
sind puru (ital. pure); comu (ital. come, cf. senes. como): conta, fina =
cont'a, fin'a; fora = foras (ital. fuori und fuora); manu bleibt manu
auch im Plur. (cf. altital. le mano). Aus-laut. ae wird i: curuni, culonni;
auffillig ist die tonlose Par-tikel ca = ital. che (dafs) und ca — quae Pron.,
wie z. B.: Sacêu di tértu ca | du soru siti, Ca státi emmernu
'nrémmula abitati (Giov. Canti etc.
Cianciana.) und „vó ca veñu" (ital. vuoi che venga) u. dgl. -
Für die Weglassung einer Endsilbe Unter Einflufs von Kons. - Vor r wird
e, seltener o zu a: númaru (numeru); cámmara (camera); vipara (vipera);
ruccaru (ital. zucchero); vómmaru (vomere); Gásparu, neben Gaspinu
(Gaspero); Luñfaru (Lucifero); bifara (biffera); gámmaru (ital. gambaro);
misara Casteltermini (misera), cán-taru (ital. cantero); cólara (xohepa);
jüniparu (juniperu); Ettari (Ettore); Cristófaru (Cristoforo); cárcari (ital.
carcere) - nach i: érramu (onuos). Labialis +e, i = Lab. +u:
pruvuli (pulvere); murula (nubila); simuli (similis), súltu, urtumu,
Licata (subitu, ultimu); und Suffix -couli, -abuli, -ibuli (-abile,
-ibile). L verlangt u vor sich: áttula (dactilus, ital. dattero);
utuli (utilis), ácula (aquila), ménnula. Vor e findet sich a für i,
seltener o: calacu (calice), ca-nonacu, tonaca, cronaca, mantacu, sinnacu, monacu,
monaca, parracu, funacu, aber kúvica («f. ital. chiavica) neben cluuca
gelehrt, ital. cloaca - nie vor n: pampina, guvini, cufinu (ital. cófano);
órfan ist Lehnwort. Für den Schwund des tonlosen Mittelvokales. Die
Aphärese ist in Sicil. sehr häufig, weil alle Würter vokalisch
auslauten: a-Aphärese in einzelnen Wörtern: cttula, Castel-termini
(kleine Axt, ital. accetta); Ragona (Aragona), Gur-gentz (Agrigentum), sañaturi
Licata (lasañaturi, Rollholz, von lasaña); rina (arena), gula, Nadel (acucula),
ramu (aeramina), pretia (apotheca); sparau, sporaci (asparagus); - @) bei mit «
anlautenden Femininis, die mit den Artikeln la, 'no (una)zusammentreffen:
la'ffizioni (la affezione); la icetta (la accetta), 'na marena (una
amarena); - y) vor Nasalen: 'mmátula (am-matula, Adver. umsonst, von griech.
uárnv?) 'Ntonia,
'Ntuniktiza (Antonia, Antonietta), 'nüddi Porto-Empedocle (ital.
anguille), 'ncina (ital. angina); 'ncinala (ital. anguinaglia),
neuviceddi Porto-Empedocle (ital. acciughine); 'naría (ital angaria), 'narsári
(ital. angariare); 'mmasaturi (ital. ambasciatore); 'mminsilatu,
'mminsitari (amminsitatu, amminsitari, it. vezzeggiare); 'nusari (angosciare);
'ncunza (ital. ancudine); 'ntinna (antenna). i-Aphärese. a) in einzelnen
Wörtern: munnizza (im-monditia); rinnina (hirundina, aber hier scheint
Umstellung zu sein: hurindina statt hirundina); Nazzu (Ignatiu); - 8) bei
Verben, vor Nasalen: 'mmarazzari (ital. imbarazzare), 'mmarrari
(ital. imbarrare), 'mmasari (invasare); 'mmástiri (imbastire); 'ncarcari
(incalcare); 'nzzammari (inflammare); 'mpinciri (im-pingere) und 'nnucienti
(innocente); 'mmastu (ital. imbarazzo, impaccio); 'mmernu (inverno); 'mmeru (in
verso, verso, circa); mmesta (v. vesta, ital. federa); 'mminzioni (inventione);
'nien-tivre (incentivo); 'nienzu (incenso); 'néura (ingiuria); - y) in
formalhaft gewordenen präpositionalen Verbindungen: 'mpuntu (in puntu); 'mpresa
(in prescia); mpiñu (in pegno); 'mparu (in pare); 'mpixzu (in + pizzu, in
punta); 'mpró (in pro); 'ncapu (in capo, sopra); 'nkzaru (in chiaro); 'nima (in
cima) 'ncostre (accosto, in + costu); 'ncoddu (in collo); 'ncanir (in
cambio); 'nfunnu (in fondo); 'uninari (in denari); 'noceu (in cio'che) u.
a. 3. c-Aphäresc. a) in einzelnen Wörtern: rumitu, rimita (eremita),
rumitorzu, rimitorzu (eremitoriu), vispicu (episcopu), -réticu (ereticu),
limósina (Elenuocion); cillenza cillen:asi (eccellenza, eccellenza si); sarczzu
(esercizio); kgesa (ecclesia); ¿angel (evangeliu); - 8) vor Nasalen:
'mpiña (frz. empeigne) 'mmracu, mmracari (ebriacu). 0-Aphärese in:
spitali (hospitale), riganu (origanu), ralogu (horologiu), auch roggu
([lo]roggu); micidaru (homi-cidariu); miupáticu (omeopatico); la 'bbidienza
obbe-dienza). 1- Aphärese in: vindicu (umbilicu), 'na (una); napocu
(una + poco = etwas, z. B. nap d'acqua etwas Wasser,cf. una picca
Messina); lu 'ffizzu (lo ufficio); vor Nasalen 'nyuentu
(unguento). ae-Aphärese in: rúggini, rugga (aerugine); ram
(acramina), stimari (aestimare). Die Anreden und die Vornamen erleiden
oft stärkere Aphärese: ñuri und nu, ñura, ña von siñuri, sinura (Herr und
Herrin). Es ist aber zu bemerken, dafs diese zwei For- men sich nicht für
einen wirklichen Herrn und für eine wirk-liche Herrin passen, sondern für einen
Mann und ein Weib aus dem Volke. Ferner: ñuri taugt als Anrede eines
Kut-schers; 'mpari von cumpari (ital. compare), z. B. 'mpari Pé (compare
Giuseppe); - ñursi, murnó und nasi, nanó (Signor si, signor no). Die Eigennamen
erleiden fast immer Aphärese: Minicu (Domenico), Peppi (Giuseppe, cf.
ital. Beppe), Sare (Rosario), Tanu (Gaetano); Vanni (Giovanni) u. a
Besonders ist zu bemerken: mu, mullu gieb mir, gieb es mir (von dammi, dammelo:
dammüllu); sutu = nisutu (aus nesiri = ital. uscire, uscito); ncavà also (von
dunca, unca, 'nca + va, 3. Pers. Praes. Ind. von andare); emu (habemus);
tidicari kitzeln (von ital. titillare und solleticare, *(ti]tillicare); mótaca
(von una vota ca = ital. una volta che ...); tellia Cianciana (=
tantilika, ital. un tantino); ña! (von dunca, anca); ici, ña (dunca von
donique, cf. Foerster, R. E.). Die a-Prothese ist besonders von den mit ad
erweiterten Verben gebildet, die oft den Urverben, des Sinnes wegen,
an-geglichen worden sind; dadurch ist es entstanden, dafs dies a anderen Verben
vorgesetzt wird und endlich den Substantiven, auf welche sie Bezug haben (cf.
Meyer-L., Gramm. d. rom. Spr.). Wir haben also mit arl anlautende Verben, bei
welchen die Präposition nd einen reellen Wert hat, sogar oft ihren lateinischen
Wert: ldummisiri und dórmiri (cf. oudormisco und dormo); appurtari und purtari
(of. affero und fero); abbanuri cintauschen und riñari wässern, baden; uurnari
tagen von jornu, all'aymur-nute bei Tagesanbruch; aldumari Licht machen von
lumi;2. und Verben, bei denen die aus Angleichung vorge- kommene
Präposition ad ganz und gar schmarotzerisch ist: accumenta neben cumenia,
abballari neben ballari, addi-mannari neben dimannari, assapiri neben sapiri,
addifén- niri neben difenniri u. a. Substantive, auf welche diese
Verben Bezug haben: abballu, addimanna, addimanneri u. s. w. Ajeri,
apprima könnten auch ad einschlielsen. Die Resonanz des et entwickelt oft
ein a: arridiri (ridere); arriparu (riparu); arrinésiri (riuscire); arripezzu
(rappezzo): arraccuntari (raccontare) - fast alle Volksnovellen beginnen:
si cunta e s'arraccunta ...; arrazzimi (von razza); arrisettu (risettu);
arriccamari (ricamare); arriccamu (ricamo). ite bei Verben wird fast
immer zu ar, arra: arraccóliri (recolligere); arraccumannari (ital.
raccomandare); arrassumi-tari, arritiniri (retinere); arrispúnniri
(respondere); arristai (restare) u. a. Besonders ist zu bemerken:
ad attia Aragona (a lia = ital. a tc); unquániki Aragona = ital. qualche,
aber sicher von un + qualche; a-Prothese bei den femin. Substantiven auch ohne
Einfluls des Artikels la: aggenti, abbili, amenta, addan-nazioni; artá (etá);
ferner abboné = bonum est; accussi = cosi; abbasta = basta; accura = cura
findet sich nur in der Verbin- dung duna accura = ital. datti cura, es kommt
aber gewifs ron duna a + cura = ital. prendi a cura. Die Synkope
ertolgt sehr selten und nur unter Einflufs des halbrokalischen v. So wird es
kommen, dals, wenn das / zu et werden kann, die Synkope erfolgt, sonst nie, ½.
B. póllici (pollice) und purci, puci. Ein schönes Beispiel giebt
uns »salicem" mit seinen zwei Formen: sálair; gelehrt, neben sarcu;
surer (sorice); spirda (spiriti); purpu (polpo). Inlautendes ¿ aus e
fällt vor r ab: o(i)ritá (veritá); pri-culu (pericolo); oprari (operare);
disperdri (disperdiri); krilhia (chierica); mráculu (miraculu); tati (tirati);
tari (tirare); vita-teddi Cianciana (ritirateddi); dettu (dettiru); mitti
(mettiri); vittu(vittiru) Licata. Auffällig ist in érramu (ital. ermo) e vor i
zu n geworden. Abfall des inlautenden u vor r: sapritu (sapuritu)
Licata; cruna (curuna); 'ncrunatu (incurunatu); frusteri (forestiere);
crusu (curiusu) Licata. Bei den Formen des Infinitivs + le (lo pronom.
Artikel) erfolgt die i-Syncope immer: mannarlu (= mannari + lu, ct. ital. mandarlo);
purtarlu (= purtari + lu, cf. ital. portarlo) u.s.w. Die Kontraktion ist
sehr häufig, besonders unter Auf-hebung des Hiats. Es ist hier zu bemerken,
dals dic Artikel lu, la, li nach da, di (de), pi (per); a ihr / verlieren
und dadurch haben wir: do = da lu von da 'u, du = di lu von
di 'u, da = di la von di'a, da = da la von da 'a, pa= per la
von pi(r) 'a, pu — per le von pi(r) 'u, pj = per li von pi(r) 'i,
U= a lu von a 'u, e= a li von a 'i. Beispiele: Do munti = da lu munti
(ital. dal monte); du mari = di le mari (ital. del mare); da mati = di la
mati (ital. della madre); pa genti — pi la genti (ital. per la gente);
pre menu = pi lu menu (ital. per lo meno); scupittinu pj denti = pi
li denti (ital. spazzolino pei denti); u forti ca = a lu forti ca...
(ital. una volta che ...); e vintunu = a li vintunu (ital. al ventuno
...). Für e, eju = aju. Fina, conta sind aus finu ta, contu + a (cf.
ital. contra, oltra) gezogen; ebenso sa aus sia, ava aus avía: „sa ladatu
"diu" ital. sia lodato dio; „ava jutu" = avia jutu (ital. era
andato) in Cianciana; ma aus miu und mia: „ma pati, ma mati " in
Casteltermini, Licata; au, za aus xiu, xia (ital. zio, zia). Ferner jencu
aus juvencu; orallannu = ora è l'annu; vosenia= vostra eccellenza; cossía,
vossa = ¿ostra signoria; Saru aus Saria (Rosario). Es ist zu hemerken,
dals der durch einen ausgefallenen Kons. hervorgerufene Hiat dagegen durch j
be-hoben wird in majisi (magese); pajisi (pagese); majulda (cf. ma-
gida); sajitta (sagitta); fajida (favilla); projiri (porrigere); fri-jüri
(frigere); rijuddu (regillu); fújiri (fugere) - beachte noch castzari
(castigare); und oj (hodie); raja (radia) - ferner frúula (fragola); aber
paúni (pavone). Sehr häufig bei der Proklise: a list' ura, a 'st'
ura =« ista ora; em' a-fari = emu « fari; aj", ej a + Infinitiv = ju
a, eju a etc:; $) nach betontem Vokale: di = dui (ital. due); jü
=jiu, in (ego); mi = mei (ital. noi); qua' = guai; Di = Diu (Deus); me' =
mcu, „me' pati, me' frati", auch me'= mea, „me' mati" und „fratursu
me'"; po'= puoi und poi (potes und post); -a'=-au (-avit): purta', liga,
curca; -i =-iu (-ivit): jiuniï, curri, muri; se'= sci (sex); assa'= assai
(satis); d) bei Anreden und Eigennamen: rumpa' (cumpari, ital.
compare); cura' (curatulu, ital. cur- torc, castaldo); piccil (picciliddi
Kinder); nu (nuri Kutscher): do, don (donnu: "do Matteu, don Cola,
aber donnu Mi- nicu); Sa und San (Santu: Sa Lenardu, Sa Luigi, Sa Lenil,
San Franiscu, San Petu, aber Sannu Minicu, sannu statt santu, wenigstens so in
manchen Texten geschric- ben, ich glaube aber, dals man San Numinicu =
San Duminicu (Domenico) lesen mufs, in der That wird nd immer zu un, vgl.
cannila = candela; ebenso vielleicht auch oben mufs donnu Minicu = don
Numinicu sein); pa, tr' (papa, tata); mả' (mama'); Li (Lina); Ti' (Tina);
Ste' (Stefanu); Anne' (Ametta); Nute' (Nuien u, 'Innocen:o); Ro' (Roccu);
Pe (Peppi) u. a.; d) besondere Fälle: in Licata statt voli
(ital. vuole); je Cianciana statt jeva (ital. giva): Giufa li je' mittennu
(Giovanni, Canti et cet. Cianciana); mide statt milemma (ital. mede-simo).
i-Epenthese zwischen Labiale + r: Sittemmiru, Ottúviru, Nevémmiru, Diemmiru
neben Sittemri, Otturru, Nuemru, Duemii; úmmira neben ummra (umbra); piruni
(prunu); 'mmirazza neben 'mmraxza (in brachiis); () 9+r: sóggiru, soggira schon
in früher Zeit socerus, ital. suocero; mágiru statt magru findet sich in
Girgenti sehr selten; allégiru neben allegru; s + m bei fremden Wörtern: Cósimu
(Cosmo); cataplasima (nataháoua); biasimu; spasimu; asima neben d) 9+1:
'ngilisi (inglese); Ingilitterra (Inghilterra) Casteltermini. Zusatz. Der
Einschub eines 2, wie er in ital. inchiostro, chioma, älter * inclaustrum,
*cloma vorliegt, findet sich nie in Girgenti: inlzossu, koma sind ganz gelehrte
Wörter; das Volk sagt inca, coma nur im Sinne von „sopore, disposizione al
sonno", z. B. „coma 'ntesta"; ferner scuma neben spuma (ital.
schiuma), rifutari, favu, furina (lat. fuscina, ital. fiócina). 2.
u-Epenthese, durch Guttural hervorgerufen, zwischen «) guranu (grano), néguru
(nigru), gulutu (gluttu); 8) c+*: neuruc, curucifissu (croce, crocetisso),
'ncgrustari (incrostare), curudu (crudo), curucelone (corbello). Die
Formen aut -ati, -uti an Stelle der ital. Substantiva auf -á, -ú (roci tronche)
sind nicht epithetisch. Sie kommen gerade von dem lat. vierten Falle auf -
ate(m), - ute(m) her: piatati (pietate), voluntati (voluntate); caritati
(caritate), cirtuti (virtute). In GIRGENTI sind diese Formen sehr selten, nur
bei dem Volke findet sich oft die Form auf -ái (von -«(1)i): aitai,
nicissitai (etú, necessitá). 2. Die Formen auf -aju, -au bei Verben
(ital. -ó, -o) sind auch nicht epithetisch: aju = habeo, saccu = sappio,
seju = sedeo; — staju, daju sind analogisch zu aju — neben daju findet
sich auch duñu analogisch zu suñu (sum).3. Die a-Epithese ist sehr häufig:
Neben Lúnidi, Már-tidi, Mércuri, Jóvidi, Vénniri, Silbatu, Dúminica (Namen der
Wochentage) finden sich: Lunidia, Martidia, Mercuridía, Juridia,
Venniridia, Sabbatulia, Duminicadia, cf. dia = dies span., prov.
Bei Pronomen: In Licata, Casteltermini findet sich jia von ji (ego), mia, tia
statt mi, ti — me, te (zur Vermeidung des Hiats mija, tija). - Gewöhnlich, bei
dem Volke, ist die Form Dia, Dija = Dii, Dei, Dee. In Casteltermini
findet sich ada = ad; vgl. sardisch. 1. Sehr häufig, immer bei dem Volke,
ist auch die ni- Epithese nach betonten Vokalen: a) bei Verben: eni
= é (est); pinsni = prinsú (ital. pensó); curcani = curcú (coricó), addivintani
= addivintá (diventú), funi = fu (fuit); $) bei Pronomen und Zahlwörtern:
jini = ji (iu ego), tini, seni, Casteltermini, — ti, sé (tre, sei): d)
bei Adverbien und Konjunktionen: nuni = line (plus); rucussini - accussi
(cosí); cúni — cú (qua); lani = da (lá): pirioni (öfter pirco(n)i) =
pirió (perció). Siddu, seddu in Licata = si †ildu (ital. s'egli, si +
illu). Vokalzusatz am Wortende zeigt auch das Sicil. bei kon-sonantisch
auslautenden Fremdwörtern: tammi (Tram), onni-bussi, lapisi, gassi (gas), wie
toscan. - c. Sonderbar und wichtig ist die Weise, in der das Volk das
geistliche Lateinisch in Gebeten ausspricht: „Stababat matri ilclorosa | iusta
croce lacrimusa | ed abbatti filiussu" (Dum pendebat Filius),
Casteltermini - „Oi cruxisi vada spissonia passionama tempori | piassi cuci
graxia | Reixi de la china" Casteltermini (Text: O Crux, ave spes unica, -
Hoc Passionis tempore - Plis adauge gratiam - Reisque dele crimina) „Posuarenti supra caputti causanti rexi o
scrittu Jesusi Naxia-renu rexi joduro omini (Text: Posuerunt super caput ejus
causam ipsius scriptam: Jesus Nazarenus, Rex Judaeorum), Giovanni, 50 Canti et
cet. u. a.; Giovanni, Canti et cet. Angleichung des anlautenden Vokals an
den betonten Vokal: a - á: piatá (daher piatusu), matassa, gazanti
(gigante), valanza neben vilanza (bilancia), cf. altirz. garant, frz.
balance — aquali (equale), aquannu (hoc annu). i - i: birritta
(baritta), filinza (fuligine?), ficili (fucile). U —ú: ruñuni, sutuzzu
aus *si(n)glutiu. f) Angleichung des nachtonigen Vokals an den betonten:
á — a: ánasu (anisu), cálacu, párracu, ássacu. i - i: tírici (tiraci),
pítila (pigliala) Licata. ù - U: disituti, anútui. %) Der pronom. Artikel
lu (lo) bei den Verbalformen hat den Wandel von unbetontem sekundären i zu u
hervorgerufen: facitulu, luvátulu, mittitulu, maritatulu (Licata). Ferner
ist die Angleichung des unbetonten sekundären Vokals an den Endvokal u
besonders in Licata sehr häufig: avissur, vitturu, avissumu, scannulu.
Zusatz. Aus Angleichung an die 1. Pers. Praes. (-4) findet sich in Licata: appu
statt appi (ital. ebbi), vittu statt vitti (ital. vidi), persu statt persi
(perdetti), vinnu statt vinni (venni) — in Girgenti aber appi, vitti u.s.
w. Der Vokal a drängt sich oft an die Stelle eines anderen anlautenden
Vokals: aserätu (esercito), assequiu gelehrt (osse-quio), assirvari
(osservare), asistiri (esistere): „un assisti "li" (non esiste piu),
afennir (ofiendere), affiru, gelehrt (officio), arcasioni (occasione), aduri,
adurari (odore, odorare), abbré, abbreu (ebreo), aternu (eterno), ammitu (invito)
u. a., s. Die Veränderungen, die der Konsonantenanlaut im Satz-innern erleidet,
hat schon Schneegans § 24, S. 145-50 sehr fleissig nachgewiesen und erklärt. Es
steht fest, dafs besonders ki (quid); a (ad); pi (per); e (et); "kau
(plus); fa (facit); va (vadit); sta (stat); si (es); é (est); ddú (illac); ti
(tres); 'nla (intra), wie übrigens alle vokalisch anlautenden Oxytona, die
Dehnung von p, 6, m, f, c, 9, d, t, n, s und die artiku-latorische Verschiebung
(wie Schneegans schreibt), von v - sowohl primär als sekundär — zu b; j zu ge;
d aus gi zu i;."— aus d— wieder zu d; n+j=n; n+o;n+6 = m+ b = mm;
bewirken: Beispiele - nach Schneegans loc. cit. Labiale: p: = i
ppezau di pani! a ppala:zu la ppinnin, a pperru a ppexsul. b: — s.
unten § 26. m: — pi mmati (per matrem) latti e mmeli. f: - si
ffoddi, ti fimmini. Gutturale: c: = ki ccosa: a ccasa! g: - a gyamm
a l'aria: Dentale: d: - dittu pi dditta; é dduci - s. unten. t: — a
ttia, é Hoppu — (é troppo). n: — ti notti, é menti. 8: — ddá
ssupra, lii ssonnu! (sowohl primäres als secundäres aus et entstandenes
wird b: uncora é biru; ste binenme; lizu bicinu; ...j wird zu ge = ti gudici;
te gorna, á grunta. ¿' aus gr entstanden wird zu vr: La mmidia di li
ggenti é rranni assá (GIRGENTI). mis donn in wie sei migans meint:
Imfermu mi la vita bedeutet nicht: Imfermu nni la vita, sondern: mi
liidda (illa, ital quella) vita; pri ddi junini, nicht pri li juvini, sondern
pri kiddi éuvini; trattamu a ddu siñuri! = a kiddu siñuri! pri ddi mobili = pri
liddi mobili. n tj=ñ: u ñardinu (un jardinu) u ñornu (un jormi); do
Nakinu (don Jakinu) u ñocu (un jocu). 1+01=m+6= mm: 'mmarca (in barca);
'mmucca n + 11 (in bocca) mmita (in vita) ni mmeñe (non vengo). Doch
eine wichtige Anmerkung habe ich bei Schneegans nicht gefunden; nämlich, dals
einige Konsonanten, besonders 6, d, r, g, manchmal auch m, n, et schon im
Anlaut eine gedehnte Aussprache haben, und dafür im Satzinnern nicht mehr
verstärkt werden. Das d, z. B. von decottu, duman-na, dannatu, dugana, ist
nicht dasselbe wie in deci, duñu, domu, dormiri, doti, dori, durz; während
dieses im Satz-innern verdoppelt wird: a deci, a deci (ich schreibe im Anlaut d
= dd) u. s. w.; bleibt jenes ganz und gar wie wenn es isoliert gesprochen
würde, weil es schon für sich selbst gedehnt ist. - Zwischen decottu, so
vereinzelt ausgesprochen, und decottre (ddecottu) in E mmi vinni decotti
Pi dormiri la notti giebt es gar keinen Unterschied. Immer als *Ъ
(bb) lautet das anlautende b: Tritturi, batia, buttana, bestia, bagganc u. s.
w. nur in Indienan, budienti, Aphärese aus ubbudienza, ubirdienti u. dergl.
findet sich das einfache b; wie obiges et verhält sich auch i: "ie,
riggina, veñu, rumitu, robba (in ranni, rossu, arusa ist das et aus gi
entstanden); g: gelu, genti, "genti, gilu, "golu;"
nur in nome, nappa, norea, sonst nu (nos), masiri, nespule n. s. W.; m
nur in mermcar (marner)miraculu, mraculu, merda (ital. merda), sonst mennula,
menu, mari, munti u.s. w.; et nur in rippu, sonst Ciccu, ruffu, celu, cima u.
s. w. Über die Konsonanten im Auslaut ist wenig zu sagen, da im
allgemeinen das Sicil. sich hierin wie das Ital verhält. Auffällig ist suñu =
sum (vgl. neap. songo, donyo, stonyo, calab. sonyo, *ponyo, *donyo).
Lat. non findet sich als nun, oft 'un: "'un ci volu jiri, un
aju lii ti fari", im Satzinnern wird das n t j zuñ: „pirli nu ñoki?"
(ital. perché non giochi?), n + 0 = mb = mm „nu meñu (non venio) - aber
no, Verneinungswort; in ist ni geworden, ada = ad findet sich in
Cianciana, „ada mia, ada tia" (ital. a ma, a te), con wird cu. In
einsilbigen Wörtern bleiben 1, &, nehmen aber wie im Italienischen
ebenfalls einen Vokal an: feli, meli. sali, cori, aber pj = per (pri, durch
Umstellung er — ve tindet sich nie in GIRGENTI), in mehrsilbigen Wörtern bleibt
i nur in crru, marmaru, sonst frati, soru, ebenso 1, bar-came (aus baccanal
Ovidio Arch. Glott.. - Iu sempri, quattu (wie schon im Vulglat.) findet sich
die Umstellung -er, re, welches oft nach st fällt, nicht nur in nossu,
vossu, die doch bei dem Volke ofters zu nosu, vosa werden; sondern auch
in capissu, maissu, aber auch masu. S fällt in einsilbigen Wörtern ab: nu, vu,
ti, ve, "lu, po, sé, ha, da' (neben duna) str; die Formen mit i: nui, rui,
poi, sei. hai, düi sind nicht volkstümlich (vgl. ital. noi, voi, poi, sei, has,
das); -aut (avit) = -á in GIRGENTI: purtá, amú, curcú; est =é, oft eni bei dem
Volke; -nt verliert sein t nur bei 3te Pers. Praes. amanu, vidina,
lodane; sonst fallt es ganz: amaru, rittira, ludar. Labiale. §1. P
- a) Anlautend wird gewühnlich beibehalten: passu, pati, puru, ponti, pilu,
peta, pirnici (perdice), putia ([a)potheca); puse (pulsu); pirani (prunu);
pifania (epiphania): - wird = 1 in badda, baddóttule (ital. palla,
vallottola),-busa (pasciá); ballaccuni (ital. pollaccone); bizzocca (ital.
pinzochera); buttana, buttaneri (ital. puttana, puttaniere); — wird o in
vastunaca (ital. pastinaca); vispicu (episcopu) durch Dissimilation (bemerken
auch die Umstellung vispicu statt piscopu, vgl. span. obispo). Inlautend
bleibt p: ripa, capu, lapa (apis + Artikel / zusammengewachsen); pipi, lupu,
scupa, sapiy in varvasapiu (zusammengesetztes Wort: varva-sapiy, vgl. ital.
barbas-súro) — wird = bb in cubbu (cupu z. B. arz cubbo = it. aere cupo),
cúbbula (cupola); lebbru, lebbiru (lepore); lebbra (lepra) - wird = v in
pouru, puritá - durch Binfluls des folgenden r, cf. Meyer-L. Cons. riciri
(recipere, cf. ital. ricevere). Vor dem Tone — e nur in arrivari, sti-
rari, cuverta Fläche des Schiffes, neben cuperta Decke, sti-vari ist auch zum
Seewesen gehöriges Wort — y mit f vertauscht in gulfu (ital. golfo), tufeu
(ital. trofeo), alle beide gelehrt. p +, im Hiat = ¿c: sicca (sepia), saccu
(sapio), arca (apium, apia), saccenti (sapiente); bleibt im Anlaut in
ital. Lehnwörtern piatusu, piaté, tempu, pir, duppre, impiassu, piuma,
esempiu u. a. • pp bleibt pp: stuppa, ssuppre (struppu); cippu (rip-pu);
lippu, puppa, scoppu. &) in Verbindung mit Kons. y + Dent. wird
gewöhnlich an diesen assimiliert in: pt = tt: attu (aptu); rutta
(ruptu); accatta (captat); setti (septe); grutta (crupta); cattivu (captivu),
volkstümlich nur im Sinne von „Witwer", cattiva, Witwe, vgl. dasselbe im
Sard. battíu, battía. - In pt, griech. Anlaut, füllt p ab: tisana (ptisana). ps = ss: jissu (gipsu); kissu
(eccum ipsum); scrissi (scripsi); = s in casa (capsea); - nach et fällt y ab:
scarsu (excarpsus) — im Anlaut sarmu (psalmus). /: crapa (CAPRA); grúpiri
(APRIRE); — wird zu 2 nurin liereri (cani livreri) gelehrt. vgl. ital.
lerriere, sonst supra, suprana, sapro u. s. v. Durch Einflufs eines
Nasals wird p oft zu l in Castel-termini: cumbitu (ital. compito), cambana
(campana), esembir (exemplu), timiniluni statt timpuluni (Maulschelle), bleibt
in Girgenti, tempu, rumpiri, tempru. Sporadisch sp - se in scantari, daher
scantu, scantusu, nach Traina, Sicil. Wtb. 872,viene da *spantari, che a sur
volta à scorciato de sparin-tari"; vgl. sard. ispantu, ispantusi; und
siche Schneegans S. 69. - Scattusu (nicht scuttica, wie Schneegans
schreibt) kommt nicht von dispettoso, sondern von scattari, ef. Traina.
Sic. Wtb. scattu 880, vgl. ital. schiattosn. Für rascari, neben
raspari, scuma neben spuma, vgl. ital. raschiare neben raspare, schiuma neben
spuma. Sonst sp bleibt: respa, vi- spanni, cripu, nespola, spata,
spalda, spissu, spusa, spusa U. S. W. Spl findet sich nur in
splumenti, splénnite, spleniri, splmuri, gelehrt und Lehnwörter, sehr selten im
Volksmunde, der shrannenti, sblémitu, sblemi, solénniri, shamári
aus-spricht. § in Verbindung mit 1. pl = lit: lzanu, laga, lattu, kummu,
lizazza, lioviri, lau, lizuma, culkia. - Volkstümlich in PORTO-EMPEDOCLE ist
„plaga" im Sinne von Erdstrich - Ufer - pilaija geworden, neben
kraga, Wunde. Mundartlich in Licata pl = c: canu (planu), caja
(plaga), ñummu (plumbu), coriri (plovere), canziri (plangere) u. s.
w. Zusatz. Scola (scoplus) mufs ital. Lehnwort sein (vgl.
scoglio). Pruculi ist nicht aus pluvure, sondern aus pur- ruli, mit
Metathesis des v. In entlehnten und gelehrten Wörtern bleibt pl: plausibili
(ital. plausibile); placari (ital. pla-care); plebi, cumplimente (rumblimentr
in Casteltermini): plácitu (ital. placido) u. a., - «) Anlautend, mit starker
und gedehnter aus-sprache, bleibt 1, in: "beddu, bedde, bon, bone,
boutire, bañn, bena, batia, batissa, basta, bastari, hitlivi, ballari; - bleibt auch in
entlehnten und fremden Wörtern, wie: hallakkinu, bagasa, battisimu, tuggacca,
bajunetta, balena,
baruni, battatuni, basalicó, 'bastardu, battaria, bannera, barrera, bamminu, botta,
-benna, borza, bar- cuni; - wird = e in vo (bove); vivu, viviri (bibere);
vucca (bucca); vancu, rastuni (bastone); vilanza (bilancea); vasari
(basiare); varca (barca); vasu (basso); vutti (botte); vestza (bestia); varba
(barba); varbarottu Kinn; vastasu (von BaGrá(u); vucceri (frz. boucher)
u. s. w. - wird = m: matu, mia- tiddu (beatu, beatu + illu); muniuré (t.
bot. stirax benzoin, ital. belgiuino). Inlautend, bleibt und wird
verdoppelt in den Lehn-wörtern: robba, nóbbili, débbuli, súbbatu, cible, (aber
vollis-tümlicher civu „pasto degli uccelli"), plebbi (plebe); sebba,
rabina, neben volkstümlichem ragga (ital. rabbia); parab-bula (parabula), aber
parola, palora - nach r: varba (barba); erba (herba); orbu (orbu); arbulu -
wird volkstümlich = 2: cuvari, cavaddu, duviri, lavuru, maravita, pru-
vari, aviri, cannavu, nuvula, fava, sivu, viviri, scrivu (ar-vule, neben
arbulu, ist sehr selten); guvitu, suvaru (suber). Von diesem o geht et oft
in u auf, wenn nach et ein u steht: neula (nebula); taula (tabula); diaulu
(diabolu); faula (fabula); parola, palora = paraula (parabula). - Auffällig ist
jimmu (gibbus); mmiucr (ebriacu), vgl. ital. imbriaco: calab. imine (gibbus);
rogu, gelehrt (rubus) entspricht dem ital. rogo - fabbro fehlt im allg. sic.;
ebenso ove (ubi); unni kommt von unde her. B wird zu m in ssúmmula neben dem
häufigen tottula (orgoußos), durch Einflufs des vorhergehenden m. - Sporadisch
/ -- f in vifardu, ital. ribaldo. (ital. nebbia, nibbio) können sich nur
durch Abfall des b erklä-ren: neha, mihus (miblius vgl. Wölflins Arch.),
affiliari (ital. affibbiare) von *affilare. - et + u = pp: «ppi (habui);
appimu, appiru, rippi (*bibui); cippi (bibuit); rippine, minppire. in
Verbindung mit Kons. bt = tt: suttirrangu (subterraneu); suttili (subtile);
detta (deb'tu); sutta (subtu). les := ss: assenti (absente); assólviri, gelehrt
fällt vor st, se: sustanzn, astiniri (abst.); scuru (obsc.); entlehnt osenu
(obscoenu). - mb = mm: tumma (tromba); gamma (gamba); rummáttivi
(combattere); kumm (plumbu). - hr = vi volkstümlich: uraco (braca); vraxzu (brachiu);
aber labra, labbru, gelehrt, in frevi, frivaru (febris, februarius) ist die
Umstellung des i zu bemerken. In Verbindung mit 1: Il = j in Sciacca
janru, jan- lizz:a; in GIRGENTI: Inancu, hiankia (vgl. ital. bianco,
bian-chezza); agrig. gastima (blasphema) ist mir nicht klar. Bl bleibt in
fremden und gelehrten Wörtern: blannu (blandu): ble, oft bili (frz.
bleu); blusa (frz. blouse); problema (pro-blema); aber Iunnu (ital. biondo).
Volkstümlich in Porto-Empedocle findet sich pilorca, pilotili? (ital. blocco,
blocchi), pilaja (plaga). f. - im Anlaut bleibt f: filu, fava, fusu, fim-
mina, furnu, ferru, focu u. s. w. — wird sporadisch zu b in -burietta,
Iurcittata, hurcittuni (it. forchetta, forchettata, for-chettone).
buffet). Tafánu (ital. tafano, aus tabanus) ist nicht volkstüm- lich. — f
zu bo in carabba (arab. garâfi, ital. caraffa), spora-disch. Im Inlaut findet
sich f verdoppelt in: riffa (cast. rifa), goffa (cast. gafa). Schneegans; aber “mafia,”
ital. “matfia”. - Cunortu, cunurtari, wohl von rum-hortari, nicht von
conforto, confortare. In Verbindung mit Kons. - fi bleibt fr: frenu,
fra-pula, frati, friddu, frana, frunna u. s. w. - f sogar zieht oft das et an
sich: frevi (febris), frivaru (februarius), friscari (fistulare, *fisclare,
*fiscrare, - friscari), frummicula, neben furmicula, sfrazcu (ital. sfarzo). -
sf wird oft sp: spilari, spolatura = sfilare, sfilatura; spunnari =
sfunnari; spu- yari = sfogare; spogu = sfogo; spari = sfare; spatte
=sfatto. — of bleibt in Girgenti: 'nfami, nfunnu (in fondo); cunfusu; nfattu
(in fatto), 'nfernu (inferno) etc. — wird zu mp in PORTO EMPEDOCLE: 'mpunnu (in
fondo), 'mpami (in fame); 'mpattu (in fatto) 'mpernu (infernu) - zu mb in
Casteltermini: mbami, mbiernu, mbrimmitati (infirmitate), 'mbattu. d) In
Verbindung mit 1: f = x, mit starker Aspiration bei dem Volke, beinahe $
im gebildeten Stande: xamma (flamma); xzatu (flatu); zuri (flore); xzumi
(flumen); xzumara (flumara), xasc (flascu), x2águr (v. flagrare) etc.,
sporadisch zu ke in gunkari, gunkratu (ital. gonfiare, gonfiato) neben
vun-curi, vuncatu. In gelehrten Wörtern bleibt fl: femma, flim-máticu, flussu,
riflussu, flora, floridu, fluidu, fluttu, flas-sioni, flaggellu, flotta,
flautu. Anlautend, bleibt v: ventu, vuci, vucca, vernu, vuturu, orddan,
indir - mit einer sehr weichen Aussprache. - Wird = m in mascu (vascu),
minnitta (vin- dicta), minniña, minniñari bei dem Volke, neben vinniña,
vinniñari (vindemia, vindemiare), macabbunne (ital. vagabondo), mocaveña neben
vocaveña (vo + ca + veña, vuoi che venga, ital. viavai). - Das deutsche w
findet sich durch gu wieder-gegeben, aber schon als gu, wie Schneegans richtig
bemerkt, ist es aus dem Ital. nach Sicilien gekommen: guerra neben verra
Kinderwut, guastu, quastari, quai, guardari gelehrt, guadañari, guadañu; - VAGINA,
ital. guaina, ist aber agrig. vajina. Im Inlaut bleibt v: navi,
vivu, lavi, nivi, moviri, cava, favu, lavari, novi (nove), leva (levat), novu
(novu) - juvini (juvene) ist gelehrt (ital. giovine), ebenso brevi
(breve); - o schwindet in neu, vo (bove), pau (pavo), pauni (pavone),
paura, fauri (favore), Guanni (Giovanni); fajulda, jina (avena), lisa (lixiva).
- Übergang des o zu g in núgula neben nu-vula, annugulatu neben annuvulatu,
ragatusu (ravitosu); grugini (juvene), purguli, pogir in Casteltermini; neben
pau, paum, fauri, faurire finden sich oft pagu, pagun, fagur, seltener pagura,
Giuganni, wo sicher au zu agu verdehnt wird, vgl. taguru (tauru),
addaguru (lauru), Lagu-renzu (Laurentiu), agulivi (aulivi). Unklar ist sinzli
(gingiva) männlich, statt * sincia (sard. sinzia), vgl. lisin; saliva fehlt im
allgemeinen Sicil., statt seiner findet sich spu-taxza; auch rivu fehlt. In
addiminari (ital. indovinare) ist der Einflufs des Nasallautes, der oft
teilweise Assimilation aus-übt, i -n zu m-n (vgl. minnitta, vindicta) zu
bemerken. d) In Verbindung mit Kons. n+o=mm (durch ne):mmintari (inventare) 'mmidiari, 'mmidguse (invidiare, invi-dioso),
'mmidia (invidia), 'mmersu (inversus), cumméniri (con-veníre) 11. s. w. d
+ 0 = bb (durch 22): abbente (adventu), abbirsarzu (ad- versariu).
r+ i=*+b: sérbiri, sirbútu (servíre, servito), sarbari, sarbatu (servare,
servato). s+ x=s+0: sutar, sointariar (v. venter, ital. sven-trare),
sbummicari (s + vomicare, vomitare), sbinari, sbinatu ital. svenaro, senato,
shinniri (ital. svendere) u. s. w. § 5. m. - a) Anlautend bleibt m:
minutu, maturu, munita, maravita, mira, in marmaru, merda, mraculi (ital.
miracolo) hat m die gedehnte Aussprache des Anlautes — m zu 2, durch Dissimilation, in videmma,
vidé, neben midemma, midé (ital. medesimo) - sporadisch zu b in minaca (nach
Avolio 42, von arab. menaca) - m zu n in nespula (mespilu) gemeinrom.; nillza
(mitulu), cf. ital. nicchio, niechia, also wie in nite = ital. nibbio, worüber
bereits gehandelt worden ist. Im Inlaut bleibt m: nomu, ramu (ramu); fumu
(fumu); premi (premit); lima (limo); “amari” (AMARE) — wird sogar häutig
verdoppelt: fimmina, cummedia, cummidianti, com-maru, tommaru, nummaru,
cucummaru, cámmaru. 8) mti =ñ: vinniña (vindemia), vinniñari
(vindemiare); • siña, neben sima gelehrt (simia), sparañari (ital.
risparmiare); aber lmia (ital. lumia) neben limuncellu. scanneddu,
culouna, anniputenti, autunnu, sonnu; vgl. ital. ogni; balénu (BéDEuvOS, Diez,
ital. baleno) ist gelehrt.ml, nd = nt, un: contari, conti, sinteri gelehrt
(ital. sentiero, sem'tariu); nur nach Synkope des inneren
Vokales; sonst limitu (limitu); linnu, Ercumaru, circunnari. om bleibt rm: furmicula, furma,
furmari, fermu, firmari. Gutturale und Palatale. c. I. c ta, 0, U.
Anlautend bleibt gutturales c: cavaddu, casa, cornu, cantari, cantunera, cura,
cori, conta, cútina, cóppula etc. - wird zu y in: gattu, gámmaru, júvitu,
guvitata (neben vúvitu, cuvitata durch Assimilation), garófalu, garrubba,
ganiu, gamma, jagga (ital. gabbia, fi. cage, cf. Wölffins Arch.). - gulfu
(Ró2os) ist ge-lehrt, ital. golfo. Die Wörter cantu, piania, peria, piriari,
scurcari zeigen keine Palatalisierung des c vor a, sondern erklären sich, wie
schon Schneegans gesagt hat, aus französischer Herkunft: cantu (chantre),
piania (planche), perca (perche); piriari (percher); scuriari (ecorcher). ¿armu (charme), iar-mari (charmer) fehlen in
Girgenti; aus cheminée erklärt sich riminia. Franzosische Worter sind
ebenso tabare und tasen, taskettu, wo das c (cabaret, casque) zu t
geworden ist. - Famiari neben camiari „riscaldare il forno" ist nicht
klar; es kann keine Angleichung an flamma sein, da fl immer zu 2 wird
(flamma = xiamma); vielleicht aber an fum. P) Inlautend bleibt e nach dem
Accent: spica, littica, lattuca, fastuca, tartaruca, locu, focu, pocu, jocu,
sucu, dieu, ficatu; lagu (lacu) ist gelehrt (ital. lago), pregu (precor), pagu
nach Schneegans aus Angleichung an den Infinitiv prigari, pagari.
Inlautendes e vor dem Accent zu g: pagari, prigari, arrigurdari, arrigurdanti,
lagusta, addugari (adlocare); Sira-yusa; aber carricari, vucari (ital. vogare),
affucari (adfaucare, ital. affogaro), asucari (exsucaro, ital. asciugare),
cicala (cicada), sicuru (securu), jucari. - C schwindet in putia. II.
c+e, i = ie, ci. a) Im Anlaut: centu, cerou, cra, cmiri, ¿erca, cincu,
cimici, riveddu, ccir, tima, cu,cirasa etc. - è wird zu g in fremden und
gelehrten Wörtern: ginisi (span. ceniza), gileccu (span. chaleco), gitá, Licata
(cittá), gafaluni (cefaglione). Inlautend bleibt ic, ii: viünu,
radici, paci, nuüi, dei, pici, cuci, cruci ete. Unklar ist kirkiri (ital.
cicerchia = cicercula, nach Avolios wahrscheinlich richtiger Erklä-rung Rest
der alten gutturalen Aussprache des c, vgl. sardisch). Sporadisch è zu et
in babalusi, Licata (span. baba + lueir, ital. lumaca). — è zu et in sóggiru,
sóggira, wohl weil Propar- oxytonon (soceru). Ee, e im Hiat. = ix:
aaru, fasia (facio), laziu (laceu), mustarola, abbracari, eraru, risu
(ericiu), jarill (glacies); ¿occu (ecco hoe), -axu (-accus): ramurazza,
ca- tinain, vista, gintari, sicca,u, mula:u, cudar:u; - ux21
(-uceus): sanguzzu, santurru, curviäu, piduzau ete; aber face (facies),
minacer gelehrt. In Verbindung mit Kons. c+f(-x-) = ss: matassa,
rissr, tossicu, tessiri, fissu, lissu, lassari; - wird -s in Lisannaru,
Lisannara (Alexandru, Alexandria), lisia (lixiva), nésiri (exire), cosa (coxa):
seliri (exeligere), salari (exh.), asu- rari (exsuc.), masidda, - als s
findet sich in esempru, spiri-mentu (exper.), esilu gelehrt (vgl. ital.
esempio, esperimento, esilio). c+t=It: fattre, notti, otte, pettu,
fruttu, dotta, di- fette, aspettu, vettr etc. c+*= gr: grassu,
gradila, gridari, cunsagrari, sigri- tarm, sigretu; nach dem Accent in
agru, magru, sagru, aber auch agru, magre, sagiru. né = ni: cunzari
(ital. conciare) ammunciddlari (amon- cellare), dun«ellu (do'n'cella),
vilanza (bilancia), lanza (lancea), unza (uncia). In Verbindung mit
1 + Vok. cl = liz: ohkzu, lizovu, logavi, kesa, kzaru, lanu, lavi,
lugiri, finokkzu, kizamari ete. Mundartlich wird è in Licata (vgl. et in
Noto, Modica); anu, caru, cesa, covu, cav, camar, speciu (speclujlu), macca
(macla) etc. In einigen gelehrten Wörtern bleibt cl: clamurusu,clamuri,
clavicula, aber lizossu; cli, clac zu 1: quali, spirali, juli, graditi, armiti,
nie zu ye: quayga, gradigga, vie z. B. in Palermo. §7. qu. a) Im
Anlaut bleibt qu in quattu, quaranta, quannu, quantu, quinnici. Vor o wird oft
zu cu, cutilan (quotidian). - Für corki neben quarki, corkidunu, auch
cor- runu neben quarkidunu, quarkunu, s. 1, § 1. Vor e, i bleibt qu
nur in gelehrten Wörtern: quarela, questura, questurinu, quistioni, querannari
u. a. Das Volk sagt aber oft: curela, custura, custioni. Auffallig ist quetu,
volkstümlich. QVID (ital. che) ist lie' geworden; cu muls, wie Schneegans gut
bemerkt, auf cui Dat. beruhen. Qu durch DISSIMILAZIONE zu è in cersu, úncu,
cinquanto. Inlautend bleibt qu in gelehrten Wörtern: ossequzu, ossequari,
equipaggu; wird aber zu y in cunsiyuiri (ital. conseguire), cunsiguenza (ital.
conseguenza), aguali (ital. eguale). Mit verdoppelter Tenuis findet es
sich in acqua (ital. acqua). “qv” zu “c” in “acula”, “aquila”, sicutari
(sequitari); niculizia (ital. liquirizia), cincu (cinque), cocu (coquus),
licori (liquore), anticu, sunca (dunqua) — vor e zu è in cociri, toriri. §8.. I. y +0,
0, U: a) im Anlaut bleibt ya, go, yu: gaddu, gaddina, gódiri, yustu, yula
etc. Nur im Satzinnern wird y manchmal zu h: ¿aju hustu, piccatu di la hula
be-sonders in Licata; jaddu, jaddina, justu (gustu); jabbari, jabbatre,
jabbillotu (von gabella), nur in den Mundarten von Sciacca und
Casteltermini. Häufig auch in Girgenti, wie in vielen anderen Mundarten der
Insel, findet sich die Prothese des y vor gutturalen Vokalen: gunu, juna (unu,
una), gómini (omini), gavutu, yavutizia (altu, altezza); in li gulivi (autivi),
li yuriklie, könte aber in letzterem Fall Aphärese des a sein, of. au zu ayu
verdehnt. In grapu, grapi, grapiri, graputu (von aperire) ist auch die
Metathesis des i zu bemerken. Inlautend wird y +«, o, u in GIRGENTI
gewöhnlich beibehalten: ruga, laya, fayu, magu, fragula, liya, ligaturi,
juyu, prigatoru, prigari (von preyare aus precare), rinneyu,rinnigate,
rinnigari, rigale, arrigulari, annegu, annigari, figura, figurine, figurari.
Seltene Fälle: allg. sieil. ist h aus g in litica (litigat), wie ital. lética;
in PORTO EMPEDOCLE findet sich pilaja (Erdstrich, Ufer) neben lzaga (plaga) und
in GIRGENTI gayanti neben gaganti (gigante). Ego (nach Schneegans) wird zuerst
zu eju, dann eu (wie z. B. in Ribera), dann, mit j-Prothese jec, und aus jeu
—jüu, wie Deu--Diu, meu, miu. In GIRGENTI findet sich nur in (ef. ital. io),
mit vanni, 50 und 25 Canti etc.) auslautend u mit a vertauscht. - Auf
älteres et führt garn „blafs", vgl. ital. giallo, wie denn auch im span.
portug. ein lautwidriges et vorausgesetzt wird; nur im fiz. jaune ist es
berechtigt. II. y te, i = ge, gi. a) Im Anlaut wird y to, i volkstümlich
zu j: jenniru (generu), jissu (gipsu), jimmu (gibbu), jinessa (genista); bleibt
ge, gi in gelehrten und fremden Wör- tern: genti, genu, goa,
gilatina, "gilatu, gebbia, giru, galle, gestu, gergu, ginia, gilusía,
gilusu, gelu, géniri, ginirali u.a. Auffällig ist agrig gunokly, gunoklya,
ayyunik-lizari, agyunilhzatu (also älteres *gunuclu durch Vokalharmonie) neben
dinokkzu (DISSIMILAZIONE bei Ähnlichkeit y - k zu d - li). Sporadisch zu
s in sincili (gingiva), cf. sard. sinzia. 8) Inlautend schwindet y te, i
und wird i zu j: majisi, majissu, majidda, pajísi, sajimi, sajitta, jitr
(digitu), projii, rigiri (regere), frigri (frigere); fujiri (fugere), fuj
(fugit), rigiddu (regillu), bleibt als de, gi in gelehrten Wörtern: priguni,
vir-gini, virginitá, virtiggini, riggissu, riggissari, greggi, leg-giri,
riggina, magissatu, furmagiu, tragie u. a. d) In Verbindung mit Kons. n +
g nach dem Ton = i: saiu (sangue); staña (stanga); linua (lingua); gana
Zahn; fanu (fango); loir (longu); zu ñ aber in añuni (angone); zu ni nur in
san- csuca (sanguisuga) - n+ ge, gi = ni: kjanciri (plangere);
ssincri (stringere); tinciri (tingere); finüri (fingere); nura (in-giuria);
ancilu (angelu); munciri (mungere); nicñu (ingeniu); funca (fungea). Nur in
Licata bleibt ng: mungiri, pungiri, punigusu, ligangiri, tiniiri u.s. w.g + n
verbindet sich zu ñ: puñu, mañu (magnu), reñu, sinu, añeddu, liñu, stañu,
cuñatu, piñu, diñu. Canusiri (ef. ital. conoscere) kommt von dem vulglat. *
conoscere, cf. Meyer-L. — ngi zu ni in sponia, nzunza (ital. spugna, sugna). -
ngl zu i in ciña, uña, ciñali, gelehrt (ital. cigna, ugna,
cignale). yin = mm: domma, enimma, frammentu, flemma, gelehrt. go
bleibt go: griddu, granatu, granula, grecu, gro (grue), gradu, gren, grivanza -
manchmal fällt y in gra: ranni, raufa, ravusu, rasta (grasta), radu,
ranatu. Im Inlaut, neben agru, mayru, allegru, findet sich agiru,
mayiru, alle- giru, s. § 18; ferner nigure, xaguru (nigru,
flagrore). gl. = t: lommaru (glomere); alannara (glande), abuttiri
(glutire); qualari, vilari, ssiari, ssia, - ylobu, ylora sind gelehrt, ebenso
giarza, ital. ghiaccio. j. Anlautend bleibt j: jencu (juvencu); jiniparu
(juniperu), jittari, jettitu, jittena (s. jecere), jugu, jocu, ju-culanu,
jucari, jucata, jovidi, jumenta, juntri, judici etc. - In gelehrten
entlehnten Wörtern wird j zu g: ga (jam), guvini (juvene); gustu, gustizza
(justu, justitia), gudixm, gu-dicari, gurari neben jurari, volkstümlich. Für
Gesú, Gesuziu, Guvanni, ital. Gesù, Giovanni. In den Mundarten von Cian-ciana
und Casteltermini (manchmal auch in GIRGENTI) findet sich statt j: grugini
Casteltermini (juvene), gustizia, gustu, garnu, grattena, agruccu, agruccatu,
agruccari (v. guccu) (vgl. frz. juc). - So wird j - ge auch in den
adverbialen Verbindungen, wie z. B. a gocu, a giettito, a grunta, pi giunta u.
s. w. Inlautend wird j volkstümlich auch als j bewahrt: peju neben
peigu (pejus) gelehit, majuri neben magguri (ital. mag-giore); maju (maju),
dijunu, dijunari. - Von dem golehiten et wird durch Einflufs des n, zu è in
'niuga (ital. ingiuria).Dentale. Sowohl im Anlaut als im Inlaut bleibt t
gewöhnlich unverändert: tantu, tauru, tu, tortu, tila, tempu, talari, tizzuni;
- viti, vita, latu, cuntata, batia, putia, ba-tissa, legitimu, ssata, siti,
rota etc. Tonloses t
vor dem Tone =d nur in padedda, gridari, rudeddu, gradita (vgl. ital. pa-della,
gridare, budello, gradella); gelehrt ist grada, cf. ital. grada
(grata); tt bleibt tt: gatta, sajitta, batti (battit), gutta neben
yuccia, cf. ital. goccia (*guttea). - It gekürzt in t: matinu (ital. mattino).
ut statt it findet sich in mintiri, minti, mintutu (mittere) durch Einflufs des
Nasals des Anlauts. y) in Verbindung mit Kons. it bleibt rt: porta,
marteddu, morti, murtaru, mur-tidda etc. - wird zu rd in spirdi
(spiriti). ut=nt: lisantu, lianta, cente, frunti, munti, funti ete.
st = st (nie st): agustu, mustu, gustu, testa, castedu etc. ti=t: pati,
mati, vite, tovati, quattu, metu, uti etc. str = ss: ssata, assu, massu,
nossu, rossu, culossa ete.; bei den niedrigen Leuten findet sich manchmal
et statt $$: masu neben massu (maistru), noss (nostru), voss
(vostru), ásacu neben ássacu (astracu, ital. terrazzo). t=lil:
veklzu, silliza, niklia; in fist'lare (ital. fischiare) ist das l zu r
geworden: fiscrare und dann durch TRASPOSIZIONE o Metathesis friscari statt
fishzari. Mundartlich in Licata i =й: vei, sicia, nicca; cf. cl, pl=. t,
volkstümlich = iñ: peru, maxa, ssaari (ex-tractiare), palar, prezal,
accarizari. Suffix - antia = spiranza, luntananza, crianza, mancania a.sV
entia - crsa: prisenza, sensa, sintenza, simenza, cusenza, pruvidenza; -
itia = ira: duczza, cuntintizia, frankirza; - atium = azzU:
minurza, palazau; - itiun = irzu: timulizzu, capizzu u. s. w. (s.
Schneegans). - (angustiare), ef ital. angosciare. Rasuni, stasuni u. dgl.
sind, wie Schneegans gut bemerkt, eine Popularisierung der fremden Form mit et -
doch hört man sie sehr selten - Sir-vizu neben sirvizzu, prisenza neben
prisenza, stazioni neben stazzuni, oxzu, privinzioni sind alles gelehrte
Wörter. Unklar sind paien:a (patientia, ital. pazienza), wobei Schnee-gans
an eine volksetymologische Ableitung von paci denkt, und scorca (scortea), das
Avolio von écorce ableiten möchte. d: Im Anlaut bleibt gewöhnlich d: donu,
duru, deci, dormiri, dinari, durari, doti, dari, mit weichem Ausdruck im
Gegensatz zu decottu, dugana, duguneri, dannari, dumannu, s. II: Cons. -
Sporadisch d zu t in tusellu (span. dosel); zu s in sunca (dunqua); fällt in
attula (dactylus). f) inlautend wird d auch beibehalten: nidu, nudu,
gra-du, fidi, pedi, cuda, sehr weich ausgesprochen, aber nie in ? übergehend -
doch manchmal verstärkt es sich in t, bes. bei Proparoxytona: tispitu, stúpitu,
ácitu, vgl. ámitu. - D zu n, durch Dissimilation in lónara ([alaudula),
sporadisch zu / in ricala (vgl. ital. cicala, franz. cigale); schwindet in
'ncúnia (incudine). dd zu on in rénniri, vgl. ital. rendere. d) in
Verbindung mit Kons. dr = t in quatu, citu (ital. quadro, cedro). id bleibt id:
tardu, pirdutu, pérdiri, virdi u. s. w. Id = Il in calle (caldu),
calliari ('caldicare), falla, ful- larr, fallarinu (v. falda); callara,
callaruni (caldaja), nur bei den niedrigen Leuten. nd = nn: camila, funu, quann, bunnu,
cunfún-niri, mannari u. s. W. &) in Verbindung mit Hiat. i: de
volkstümlich = j: jorme (diurnu), seju (sedeo), viju (video), raja (sing. raju
sehr selten, radiu), criju, ligeju (cludeo); oji (hodie); caju, appoju,
appu-jari (v. podiu). - In gelehrten, entlehnten Wörtern bleibt dị: darule,
dialugu, dialette, mediu, rimedre u. a. Segga (sedia), Keine Umstellung
des d findet sich in mpatidiri, da es nicht von impallidiri, wie Meyer-L. (It.
Gram.) glaubt, sondern von patedde (Schalmuschel) kommt, das heisft,,restringersi,
per paura o per freddo, coma und patella."raggu, gurnali, gurnalista,
gurnaleri sind ital. Wörter, ebenso pranzu, manzu (mandium), roxzu, shixzu,
frizzu. - Auffällig ist orzu (ordeu) volkstümlich. In menzu, mazzornu, man-inó
(mezzo giorno) ist der Einflufs des Nasales des Anlautes zu finden. s. a) im
Anlaut bleibt s gewöhnlich: sali, sucu, siti, sonu, se (sex), soru, suitta,
sudari, simen:a, sava, surfaru, sampuña (sambagna), sirina ete. - wird zu et nur
in sorba (sorba), salbara (arab. sebbara). - Simia, neben siña, siroceu sind
ital. Lehnwörter. - Nur st, sp, sc, nie et () inlautend wird s auch beibehalten: risu,
fusu, casa, rasu, spusu, misi, cosa, rosa ete. Die Form riciñolu, Nach-tigall,
ist in Girgenti unbekannt, statt seiner findet sich vi-siñol, gelehrt (cf.
ital. rosignuolo). y) ss bleibt ss: russu, grossu, passaru, passu, grassi,
missa, passari etc. - Porau (possum) mufs, wie Schneegans bemerkt, analogisch
zu fazu sein. Vasu, grasa, nisun beruhen auf si. in Verbindung mit Kons.
sc vor oder nach Palatal-vokalen =$: camúsiri etc.. rs bleibt rs: ursu,
cursa, scarsu, pirsuna, pirsuasu etc. - wird zu rz in vurza (bursa). ns =
nz: pinzari, 'nzémmula (insimul), lunitu, 'nziñari, 'ncusu (insursum),
'nzumma (in summa) etc. &) in Verbindung mit Hiat. i. Schneegans hat
kaum recht, nach meiner Meinung, zu sagen, dafs s + Hiat. i = e
(ital. g) wird. Diejenigen Beispiele, die er giebt, beweisen die Thatsache
nicht; denn occasionem, prehensionem, phasianus lauten nicht cacuni, pricuni,
facani, sondern prisuni, casuni, fasanu, alle drei sind aber aus dem Ital.,
prigione, cagrone, fagiano, entlehnt und sehr wenig gebraucht. Camisia lautet
nicht camica (wie im Ital.), sondern cammisa; *asium (ital. agio) nicht au,
sondern asu. Also lautet von allen Beispielen bei Schneegans nur caseus =
cazu und dieses ist auch gelehrt (vgl. ital. cacio), da das Volk statt seiner
immer tumaxzu sagt.Welches ist nun die volkstümliche Entwickelung von s + Hiat
i? Ich lasse es bei den Beispielen bewenden: cam-misa (camisia); vasu (basiu);
vasari (basiare); ginisi (cinisia); ¿irasa (cerasea); lizesa (ecclesia);
riversu (ital. rovescio); fasola fasoli (phaseolus) alle volkstümlich; dann cau
gelehrt, asu, rasune, fasam, prisuni Lehnworter) im Anlaut wird n
beibehalten: nodu, nasu, nudu, novu, niguru (nigru), nidu, natali etc.; —
schwindet gewöhnlich in nun (non): „un sacõu nenti, un ti ni volu dari, un ti
porzu ajutari, un et é bersu" u.s. W. - Zusatz eines n findet sich in
nesiri (exire), nguanta (ital. guanto), nita Geschwür, nxiru (seria). - Für
nomu, "nappa, "nocca siehe II. inlautend, bleibt n auch fast
immer: luna, gaddina, fini, lana, manu, pani, jina, fenu, bona, finessa,
minutu, finokkau. etc. - N-n, durch Dissimilation, in 1-n in vi-lenu,
cunfaluni; n-m zur -m in arma (anima), armali (animale) – DISSIMILAZIONE [cf.
H. P. GRICE, ‘soot’, ‘suit’ – DISTINCTIVE FEATURES]. 8) in Verbindung mit
Kons. n vor s schwindet, wie allg. rom. isula, misura, spusu, spusa, misi etc. d) nn
bleibt nn: annu, pinna, nannu, nanna, pannu etc. 8) nị =ñ: cuñu, suñu,
duñu, tiña, viñu. - In gelehrten Wörtern bleibt n: calunma, crimoma, querimonia
u. a. Auffällig ist ssamu, ssamari, ssamatu (von extraneu), volkstümlich. l. a)
im Anlaut: liu, loda, lumi, locu, liggi, lattuca, luntanu, littica etc. - l zu
g durch Dissimilation in gitu, golu (aber schon vulglat. jilium, jolium). - I
zu et in rimarra (limarra von limu), rusiñolu (cf. ital. rosignuolo). B)
inlautend bleibt l zwischen Vokalen: gula, pala, mula, pilu, gelu, cuturi,
pilucca etc. - Wechsel des / und et miteinander in palora (parola), grola
(gloria), ¿artiri (barile), acqua-loru (acquarolo), rogu aus lorogu (horologu).
- 1- 1 zu r-1 in fragelle (flagellu), caramedda (frz. chalemel). - I zu t in
úmitre (amylum), cf. ital. ámido. - 1-1 zun - 1 in canollia (aber schon
volkslat. conucla); Filmena (für Filumela).d) Il = dd [für die Aussprache s.
Diakr. Zeichen]: idda (illa), -beddu, -ada (bellu, -a), sedda (sella); midudda
(medulla); cipudda (cepulla), nuddu (nullu), griddu (grillu), cavaddu
(ca-ballu), foddi (folle), peddi (pelle), stidda (stella) etc. - In ge-lehrten,
italianisierenden Wörtern wird Il beibehalten: bell, bella, billia neben beddu,
bedda, biddixza, pullu, satollu, valli, aber vadduni, abbaddatu (ital. vallone,
arvallato), villa (villa), aber viddanu, sogar milli (mille); beim Volke findet
sich aber öfters mira (milia). Ferner balla (frz. balle) neben badda. (ital.
palla Kugel), fratellu Klosterbruder neben frateddu Vetter; coll Last neben
coddu Hals (s. Schneegans). U—1 zu un - 1, durch DISSIMILAZIONE, in pinnula
(ital. pillola). d) I vor Kons., im Silbenauslaut. I + Labialis zu r:
tarpa (talpa), purpa (pulpa), corpu (colpu), curpa (culpa), purpu (polpu),
sarpari (salpare), vurpi (vulpe); arba (alba), sarvaggu (silvaticu); sariza
(salvia), sarvari (salvare); surfaru (sulfaru), parmentu (palmentu), parma
(palma), ermu (elmo). In pru-vuli ist die TRANSPOSIZIONE o Metathesis des r
(aus / + Lab.) zu bemerken. l + Gutturalis zu r: arcova (ital. alcova);
surcu (sulcu); sapurcru (sepuleru); carcañu (calcaneu); 'ncarcari (incalcare);
barcuni (balcone); quarki, corki (qualisque, ital. qualche); curcari
(collocare) - cravaccari von cavarcari (cavalcare). 1+c= r in purci (pulce);
sarõu (salice); farci (falce). - l+ ¿ vocalisiert in caucu (ital. calcio);
quacina (aus caucina calcina). - I + et schwindet in puci neben purci, duci
(dulce), ducizza (dulcitia); - l+i = n in fanci (falce) bei den
Landbewohnern. l + Dental. 1. l + Dent. = v: artaru (altare); Marta
(Malta); Car- taggiruni (Caltagirone); surdatu (soldato); sordu (soldo);
ger-suminz (gelsomino); farsari (falsare); sarsa (salsa); nurtu (insultu);
garnu (afrz. jalne). Anmerkung. Wenn jemand aus dem Volke, der einen
Anstrich von Bildung hat, entweder durch Schulbesuch oder Dienstzeit, mit einem
aus höherem Stande spricht, wird er immer liardu (caldu), mortre (molto), artu
(altru), martempu (maltempo), farda (falda), sarsica (salsiecia), sarte
(saltu),sartari (saltart) u.s. w. sagen, in der Meinung italienisch, oder
wenigstens ein feines Sicil. zu sprechen. - Wirklich volkstümlich ist aber
artaru (altare), nie otaru, neben ataru; die anderen Wörter sind entlehnt und
fremd. 2.1 + Dent. vocalisiert: autu (altu), autu (altru), sau-tari
(saltare), sautu (saltu), fauda (falda), fausu (falsu), ceusa
(gelsu), meusa (milsa). - In diesem Fall ist die Einschiebung des o, 9 sehr häufig:
avutu, avutu, sagutu, cavudu, favusi, cevusu. In Cianciana findet sich / +
Dent. in ¿ vokalisiert: fúida (falda), caidára (caldaja), cáidu (caldu),
caidiari (caldi-care), caidiatu caldic + atu) - nur bei den niedrigen Leuten
geht / + d in ll über, wie in falla, fallaru, fallaririnu, callu, calliári,
callara, callaruni. - Formen wie atz, atu, satu, satari, sasixxa, caxi
sind sicher contrahiert (ar = (), ebenso in pusu (pulsu), vuturu
(vulture), voxi (volsi), ascutari (auscultari), cuteddu (ital. coltello).
1. bei dem niedrigen Volke, besonders Landbewohnern, wird / + Dent. zu n: antu
(altu), antu (altru), santu (saltu), santari (saltare), fanzu (falsu), canzi
(calx), ascunta (auscul-tat), punsu (pulsu), sanzizza (salsiccia), monta
(volta), auch mota. / + Hiat. i. h = 7 in der ganzen Provinz, ausser
von Sciacca und Ribora: fitu, mitu, gitu, golu, mutúri, pita, tata, vota,
cun-rilu, famila, olu, melu u. s. w. ohne Ausnahme. r - a) im Anlaut findet
sich nur als scharf gerolltes alveolares y (v): re, renniri, ridiri, russu,
ris-tari, rasu, Roma, rosa u. s. w.; - ranni, varusu, rat-tari sind aus gr
entstanden. 8) inlautend, bleibt et gewühnlich als weiches
ungerolltes vaibberi (barbierc), feimmu (fermu) - nach Labialen schwindet
o in derselben Mundart: fevi (sicil. frevi), firaru (sicil. frivuru), pimu
(primu), pivari (privare). - Aus Dissimilation schwindet i aber in der ganzen
Provinz in crivu (vgl. kalab.neap. krivu). Zutritt eines &, fast immer bei
auslautendem t erfolgt in: anata (cf. ital. anatra), inhiossa, gelehrt, (ct.
ital. inchiostro), cilessi (ef. ital. vilestre), jinessa (genista) - nach
anlautendem t in tisolu (tesauru), tuniari, vgl. Diez Wtb. trono. - /-zur
- 1, durch Dissimilation in: arbulu (arbore), in- ruca, rasola (rasoriu).
Sporadisch et zu n in Gaspanu (Gaspar), fisini (viscere); r zu l in siloccu
neben siroccu. Metathesis der y in: prevula (pergula), sfrazzu (ital.
star. 20), ssanutu (stirnutu), scravalu (scarabeu), vrigoña (ital.
vergogna), friscari (fiserare), prevuli (purvure), tubbu (torbido), proji
(porrigere), prummettiri (ital. permettere), cravuni (carbone) - crapa (capra),
crastu (castru), frevi (febris), frivaru (februariu), graniu (cancru),
catteda (cathedra). - Dagegen stehen furmentu (frumentu), purpama (propagine),
tirdinari (tredenari). d) or bleibt er: ferru (ferru), terra
(terra), carrettu (v. carTu), cord (currit), turri (turre) u. s.
w. 0) / + Hiat. i. 1? + Voc. =• + Voc: argu= arus. §1 - fera
(feria), munaster (monasteriu), cannilaru (*candelaria), syarra (*ex-
variu), axxaro, jinnaru, fricara, murtare, panare, nularu, rurdunaru,
panaru u. s. w. In gelehrten Wörtern bleibt : coru, sigritarn, mug-
gisterzu, messaru, rifriggerne u. a. — Auffallig ist virsérge (adversariu)
volkstümlich.-Im letzten Augenblicke, als ich eben diesen meinen ersten kleinen
Versuch nicht ohne einiges Bangen in die Welt hinausschicken und den
Fachgenossen vorlegen wollte, langte in Bonn eine neue Arbeit über die
sicilianischen Mundarten an von meinem durch eine Reihe sprachvergleichender
Arbeiten hochverdienten Landsmann, Gregorio aus Palermo, unter dem Titel, Appunti
di fonetica siciliana, Palermo. Indem ich dieses Zusammentreffen als einen
besonders günstigen und glücklichen Umstand betrachte und nicht wenig darauf
stolz bin, dals meine süfse Muttersprache Gegenstand einer solch vertieften und
andauernden Forschung zu sein gewürdigt ist, so habe ich noch andere Gründe,
mich des Erscheinens dieses wichtigen Buches zu freuen. Ich sehe nämlich, dafs
wir nicht nur in fast allen Punkten, wo wir uns mit unserem unmittelbaren
Vorgänger, der vortrefflichen Arbeit von Heinrich Schneegans, dieselbe
stellenweise berich-tigend, beschäftigen, jedesmal zusammentreflen, was sich
durch unsere Kenntnis des Sicilianischen als Muttersprache ohne weiteres
erklärt, sondern obendrein wir uns beide in demselben Gedanken begegnet sind,
unsere Arbeiten Foerster) Die Hindernisse, die das endliche Erscheinen des nach
dieser Jahreszahl offenbar schon länger als ein Vierteljahr fertiggedruckten
Buches so lange verzögert haben, sind in der Einleitung nicht angedeutet. Durch
die Güto des Foerster konnte ich das oben eingetroffene Wid-mungsexemplar
sofort benutzen. - Meine Arbeit wurde bei der hohen philosophischen Fakultät
der Universität Bonn als Doktor-dissertation eingereicht und angenommen. Die
Korrektur des letzten Bogens erhielt ich in Bonn zu widmen, der bereits vor
acht Jahren die erste wissenschaftliche Bearbeitung des Sicilianischen nach den
in Deutschland allein erreichbaren Schriftdenkmälern veranlalst hat in der
Bonner Dissertation von Hüllen und welcher der Untersuchung der Mundarten
unserer beiden grofsen italienischen Inseln seit Jahren liebevoll seine Kräfte
widmet. Durch die bis jetzt erschienenen Arbeiten steht die Laut-Ichre
des heutigen Sicilianischen im grofsen und ganzen fest und fertig da; allein
bei der unendlichen Mannigtaltigkeit der Lautentwickelung, die fast mit jedem
Orte wechselt, ist es klar, dals ein vollständiger Aufbau erst dann wird
vorgenommen werden können, wenn eine möglichst grofse Anzahl von
Einzelnuntersuchungen über die lautlich irgend wichtigeren Punkte unserer
herrlichen Insel, und zwar möglichst von Sicilianern, erschienen sein werden,
wozu ich mit dieser Arbeit mein bescheidenes Scherflein beizutragen gewagt
habe. Auf eine eingehendere Würdigung der Arbeit Gregorio's kann ich mich hier
nicht einlassen. Ich bemerke nur nebenhin, dals ich in einigen Punkten, wie
Erklärung des grevia von graivius - ai kann sicil. unter diesen Bedingungen nie
e geben -, der analogischen Erklärung des - oklin aus uculu durch Anlehnung an
culu, Ableitung von bruicetta von broccus - ich kenne nur burietta, das ja
irgendwo in brucetta umgestellt sein könnte, das aber von furca kommt und dem
ital. forchetta genau entspricht, während natürlich brocca zu broccus gehört -,
Anwendung des Zeichens ti statt des einfachen t für lat. ti (ich wenigstens
kenne es blols als einen einzigen Laut !, welcher bestimmt der stimmlose zu dem
stimmhaften da ist), die Annahme, dals lat. -ss- allein et geben könnte in
grasu u.s.f. - meiner Ansicht nach ist
stets ein folgendes i im Spiel, auch in casa, vgl. frz. causse, portug. caixa
-, die Ableitung des porzu von possum (statt von potio, die Auwendung des
Doppelzeichens ij statt des einfachen n, da man nach ñ nichts einem / ähnliches
hören kann, u.ä; nurin einem Punkte möchte ich, weil es meine Heimat betrifft,
wiedersprechen: Auf wird gesagt, dals in GIRGENTI sich manchmal die
Diphthongierung des et und des p findet, was aber nie der Fall ist.
Thatsächlich sind nämlich caétuóf-fuli, suoddi keine agrig. Wörter; statt ihrer
sagt man immer und nie anders als cacóciuli, sordu, sordi. Bonn. L. P.Luigi Pirandello. Pirandello. Keywords: e dov’è il
copione? è in noi, signore – il dramma è in noi -- siamo noi – R Chiede
d’entrare nei fasci, La Stampa, Gentile e Sorel, Mussolini e Nietzsche,
Mussolini e Sorel. – ridotto in siciliano. U ciclopu, decadentismo, identita
personale, l’io e la societa, il collettivo, l’intersoggetivo. Refs: Luigi
Speranza, “Grice e Pirandello” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza -- Grice e Pirro: la ragione
conversazionale e l’implicatura conversazionale rovesciata nel’idealismo di
Gentile – la scuola di San Severo -- filosofia pugliese -- filosofia italiana –
Luigi Speranza (San Severo).
Filosofo italiano. San Severo, Foggia, Puglia. Studia a Roma sotto SPIRITO (si
veda). Studia ALLMAYER sotto PLEBE. Insegna a Perugia e Palermo. Studia GENTILE
(si veda). Pubblica “L'attualismo di GENTILE e la religione” (Sansoni, Firenze).
Fra i suoi saggi si ricordano anche “Filosofia e politica in CROCE” (Bulzoni,
Roma). Si interessa alla ricerca storio-grafica e svolse numerosi saggi su Terni.
Esponente di spicco della vita culturale della città umbra, studia gl’aspetti
poco indagati di quella che fino ad allora era una città ancorata ad una
dimensione prettamente industriale. Sotto la giunta di Ciaurro, co-ordina il
progetto per la realizzazione di un museo archeologico nel convento di S. Pietro
sotto. Peroni. Nei suoi studi di storia ricostrusce prima della
pubblicazione de Il sangue dei vinti di PANSA, episodi della guerra civile tra
cui l'assassinio del sindacalista CARLONI e del dirigente d'azienda CORRADI.
Fonda il "Centro di studi storici", un'associazione culturale di
ricerca storica a cui viene collegata la rivista “Memoria” L'obiettivo di
“Memoria” è quello di porre fine
all'amnesia organizzata, facendo conoscere a tutti le vicende di una città
figlia non solo dell'industrializzazione. Accanto ad un nuovo sguardo per le
vicende passate “Memoria” inaugura una stagione di storiografia libera da
condizionamenti ideologici e basata sulle fonti. Suscita critiche per la
ricostruzione d’alcuni episodi di violenza avvenuti durante la resistenza anti-fascista,
critiche di storici locali, che lo accusano di revisionismo. In realtà il suo lavoro
è sempre suffragato dalla presenza della fonte documentale. Le vicende
ricostruite, come ad esempio quella dell'uccisione di CORRADI o URBANI, ad opera
dei partigiani non sono mai trattate dalla storio-grafia ufficiale. Consigliere
dell'stituto per la storia dell'Umbria e dell'stituto di cultura della storia
dell'impresa Momigliano, dell’istituto per la storia del risorgimento. Il
saggio “Regnum hominis: l'umanesimo di GENTILE”
fa parte della collana della Fondazione SPIRITO e FELICE di Roma. Un saggio dedicato
al risorgimento pubblicato da Morphema intitolato “Risorgimento.” Un saggio "Dopo
GENTILE dove va la scuola italiana" (Firenze, Lettere). Il consiglio comunale
di Terni delibera di dedicare la sala Tacito di Palazzo Carrara in Terni a P..
Con l'occasione si presenta il carteggio "La vita come Ricerca, la vita
come Arte, la vita come Amore", titolo riferito all’omonimo saggio di SPIRITO
In occasione delle celebrazioni della fondazione del Liceo Tacito di Terni, gli
viene dedicate nell'atrio della scuola, una targa con una dicitura tratta da
una poesia di Gibran. Altre saggi: "Italia e Germania", raccolta
di saggi da “Studi Politici". Pubblica una raccolta di memorie di scritti
di garibaldini intitolata "Corre l'anno” “Terni e l'affrancamento di Roma
nelle memorie dei garibaldini; il saggio "Filosofia e Politica e GENTILE"
(Aracne). Il comune di Terni delibera la posa di una targa in memoria presso la
dimora di P.. La soprintendenza archivistica
dell'Umbria e delle Marche dichiara il suo archivio di notevole interesse culturale
ai sensi del T.U. dei beni cultural. Viene scoperta sulla casa a Piazza Clai a
Terni una targa commemorativa. Viene pubblicato da Intermedia "L'unica
via è il Pensiero: scritti in memoria". Altre saggi: “Una missiva a SPIRITO”“Filosofia
e politica in GENTILE” (Firenze, Sansoni); “La riforma GENTILE e il Fascismo”, Giornale
critico della filosofia italiana” (Firenze, Sansoni); La politica dell’idealismo
italiano” (Firenze, Sansoni); “La prassi come educazione nella gentiliana
interpretazione di Marx” (Firenze, Sansoni); “Cultura e politica” (Firenze,
Sansoni); “Filosofia e politica: il problematicismo” (Roma, Bulzoni); “La
repubblica fascista”; “Per una storia dell'Umbria durante la repubblica
fascista” (Perugia, IRRSAE); “Terni nell'età rivoluzionaria e napoleonica,”Arrone,
Thyrus, Terni e la sua Provincia durante
la repubblica sociale” (Arrone, Thyrus); Ugolini, Petroni, dallo Stato
Pontificio all'Italia unita” (Scientifiche, Napoli); “Interamna Narthium materiali
per il museo archeologico di Terni” (Arrone, Thyrus); Le acque pubbliche gl’acquedotti
di derivazione e l’utilizzazioni idrauliche del territorio di Terni nei sommari
riguardi: tecnico, legislativo e storico” (Terni-Giada, ICSIM); Una scuola una
città: il liceo ginnasio di Terni” (Arrone, Thyrus); “Terni nel risorgimento” (Arrone,
Thyrus); “Sull'avvenire industriale di Terni, scritti di L. Campofregoso;
Perugia: CRACE/ICSIM, “Garibaldi visto da GENTILE” (Roma, Istituto per la
storia del Risorgimento Italiano); "Per Garibaldi" (Arrone, Thyrus);
“I giustizieri, La brigata GRAMSCI tra Umbria e Lazio, di Marcellini, Mursia,
Regnum hominis, L'Umanesimo di GENTILE” (Collana Scientifica Fondazione SPIRITO
e FELICE, Roma, Nuova Cultura); “Scritti sul Risorgimento” (Furiozzi), Terni,
Morphema); La vita come ricerca, la vita come arte, la vita come amore” (Terni,
Morphema); “Italia Germania” Saggi di Filosofia Politica, Amazon, Filosofia e
Politica in GENTILE” (Aracne, Roma); Carloni: Storia e Politica (Intermedia, Orvieto);
Manifesto del convegno su Petroni; Garibaldi Terni Mostra documentaria e
pubblicazione Istituto della storia del risorgimento Petroni, Dallo Stato
Pontificio all'Italia unita. Convegno di Studio Terni, La Rivoluzione Francese,
Terni, La nascita della Repubblica e gl’anni della ri-costruzione”; Biblio-media-teca,
Terni, 7ricerca storico documentaria; sezione della mostra in collaborazione
con archivio di stato di Terni e Biblioteca comunale di Terni; in
collaborazione con centro per la promozione, istituto per la storia dell'Umbria
contemporanea (Arrone, Thyrus); Intorno alle miniere di ferro e alle ferriere
dell'Umbria meridionale, scritti di Vaux et al.; Terni: CRACE/ICSIM; Passavanti,
Atti del Convegno di studi (Terni) (Arrone: Thyrus); Convegno dei lincei (Terni),
Cesi e i primi lincei in Umbria, atti del Convegno dei lincei: Terni” (Arrone: Thyrus);
dei lincei, “MAZZINI nella cultura italiana:”, atti del Convegno di studi,
Terni” (Arrone: Thyrus); Magalott, erudito, giureconsulto, docente di diritto” (Arrone:
Thyrus); “Per Garibaldi” (Arrone: Thyrus); Valentino patrono di Terni, atti del
Convegno di studi: Terni (Arrone: Thyrus); “La vita come arte” (Sansoni,
Firenze); “La vita come amore” (Sansoni Firenze); “La riforma della scuola” (Sansoni,
Firenze); “Il problema dell'unificazione del sapere”; “Dal mito alla scienza” (Sansoni,
Firenze); “La mia ricerca” (Sansoni, Firenze); “Dall'attualismo al problematicismo”
(Sansoni, Firenze); di GENTILE; Il
concetto di “pedagogia, in Scuola e Filosofia” (Sandron Palermo); “Giornale critico
della filosofia italiana” (Sansoni, Firenze); “La scuola laica” (Vallecchi, Firenze);
“Sistema di logica’ (Laterza, Bari); “La scuola” (Vallecchi, Firenze); “Che
cos'è il fascismo”; Discorsi e polemiche” (Vallecchi Firenze); “Saggi critici”
(Vallecchi, Firenze); Scritti pedagogici” (Treves, Milano); “Origini e dottrina
del fascismo” (Istituto Fascista, Roma); di Croce Contributo alla critica
di me stesso (Napoli); Conversazioni critiche (Laterza, Bari); “La letteratura
d’Italia” (Laterza, Bari); “Cultura e vita morale” (Laterza, Bari); “Etica e
politica” (Laterza, Bari); “Pagine sparse” (Laterza, Bari); “La guerra civile”;
“Memoria” (Thyrus, Arrone); “La storia rovesciata” – cf. PISONE – implicatura
rovesciata -- ; “L'umanesimo di GENTILE”
(Cultura, Roma); “L'uomo e la storia” (Thyrus, Arrone). Il percorso storico,
"Regnum hominis". L'ospite di passaggio, la difesa. Sull'avvenire
industriale di Terni; Rassegna storica del Risorgimento. La vita come ricerca,
la vita come arte, la vita come amore. Vincenzo
Pirro. Pirro. Keywords: l’idealismo di Gentile, Istituto Nazionale Fascista,
Origini e dottrina del fascismo, che cosa e il fascismo – discorsi e polemiche
vallecchi, Firenze, Mazzini, per una storia dell’umbria durante la repubblica
fascista, la repubblica fascista, gentiliana interretazione di Marx; la
filosofia di Gentile, filosofia e politica in Gentile, Gentile nella grande
guerra, il partito ha un capo che e dottrina vivente, Gentile e Mussolini, il
concetto di stato, il concreto di Mussolini nel astratto dello stato, Pirro
interprete di Gentile – la universita fascista di Bologna, la formazione dei
dirigenti del regime – la repubblica fascista, storia e filosofia, la critica
de Pirro alla damnatio memoriae di Croce, lo studio della filosofia nel
veintennio fascista, l’origine del fascismo filosofico – Gentile, filosofo del
fascismo – dizionario filosofico del fascismo, stato, spirito nazionale,
italianita, romanita, propaganda, democrazia, repubblica, Italia, stato
italiano -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Pirro” – The Swimming-Pool Library.
Luigi Speranza --
Grice e Pirrone: la ragione conversazionale della diaspora, da Crotona a Meta-ponto
– Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean, cited
by Giamblico.
Luigi Speranza --
Grice e Pisone: la ragione conversazionale del portico dell’orto – il gruppo di
gioco del Vesuvio -- Roma -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Ricordato come seguace della filosofia del
portico un Pisone, che si è identificato con Lucio Calpurnio P. *FRUGI*,
tribuno della plebe, pretore e console della repubblica romana, combatte la
rivolta degli schiavi in Sicilia e la doma. P. ottenne la censura. P. lascia un’opera storica -- "Annales"
-- che si estende dalle origini. In essa, P. combatte le tendenze che si
introduceno in Roma e il ri-lassamento morale. Della gente Calpurnia. Politico,
militare e storico romano. Talora detto
Censorino – cf. P. Cesorino -- tribuno della plebe, si fa promotore della lex
Calpurnia de repetundis, la prima legge romana che vuole punire l’estorsioni
compiute nelle province dai governatori. Pretore. Dopodiché, eletto console con
PUBLIO MUZIO SCEVOLA (si veda) e gli fu comandato dal senato di restare in
Italia per domare una rivolta di schiavi. P. riusce a sconfiggerli, senza però
ottenere una vittoria definitiva e dove passare il comando a PUBLIO RUPILIO. Autore
di “Annales”, un'opera in almeno VII libri, che andava dalle origini e che sono
tra le fonti precipue di LIVIO (si veda) e Dionigi d'Alicarnasso. Gl’Annales --
di cui restano una quarantina di frammenti -- si propone di descrivere la
pretesa onestà dell'epoca antica, contrapponendola alla contemporanea
corruzione operante a Roma. Che si tratta però di un'opera a tesi pre-costituite
lo dimostra il fatto che, durante il suo consolato, avvenne l'assassinio di TIBERIO
GRACCO, e che, nonostante l'estrema gravità del crimine -- che tra l'altro
viola il sacro obbligo dell'incolumità personale che s'accompagnava alla
tribunicia potestas – P. e l'altro console non prendessero alcun provvedimento
in merito. Smith, Dictionary
of Greek and Roman Biography and Mythology, Boston: Little, Brown and Company. Cicerone,
Brutus; In Verrem, De officiis, Catalogo Perseo; Cornell-Bispham, The fragments
of roman historians, Oxford, Historicorum Romanorum reliquiae, Hermann Lipsiae,
in aedibus Teubneri; discussione su vita, opere e frammenti). Treccani Enciclopedie Istituto dell'Enciclopedia, Dizionario
di storia, PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute, Predecessore Console
romano Successore Gaio Fulvio Flacco e Publio Cornelio Scipione Emiliano II con
Publio Muzio Scevola Publio Popilio Lenate e Publio Rupilio V · D · M Storici
romani, Portale Antica Roma Portale
Biografie Categorie: Politici romani, Militari romani Storici romani Militari, Storici,
Consoli repubblicani romani Calpurnii. P. is the father-in-law of GIULIO CESARE and spends
years of his political life trying to prevent the civil war. He is a follower
of L’ORTO, under Filodemo’s tutelage. Filodemo lives in P.’s villa at
Herculaneum -- his library has been discovered there. Pisone – Roma – filosofia italiana
(Herculaneum). Pisone Cesonino. When he moves to Rome, Filone becomes friends
with Pisone Cesonino, who gives Filodemo a room at his villa at Herculaneum in which to live. At the villa, Filodemo co-ordinates P.’s ‘gruppo di
gioco’. Filodemo composes
poems and a history of philosophy. After he died, Filone’s parchments remain in
P.’s villa, where they were subsequently buried by the eruption of Vesuvio. With
the excavations, a number of parchments from the library are recovered. More remain buried. Lucio Calpurnio Pisone Cesonino. Lucio
Calpurnio Pisone Censorino. Lucio Calpurnio Pisone Frugi. Kewyords: Portico.
Luigi Speranza --
Grice e Pisone: la ragione conversazionale del DE FINIBVS o del lizio romano –
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma) Del Lizio, con mescolanze del portico e
dell’accademia -- cioè eclettico -- trionfa della Spagna, ed e console. Detto eloquentissimo e
dottissimo, scrive V libri "DE FINIBVS" He is a friend of CICERONE,
although they eventually fall out. Cicerone uses him in his ‘On moral ends’ to
articulate the philosophy of the Portico. P.’s tutors had been Antioco and STEASEA
di Napoli. Marco Pupio Pisone Calpurniano. Marco
Pupio Pisone Frugi Calpurniano.
Luigi Speranza --
Grice e Pitea: la ragione conversazionale della filosofia ligure -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Roma). Filosofo
italiano. He settles in Marseglia, and achieves fame as a philosopher.
Luigi Speranza --
Grice e Pitodoro: la ragione conversazionale della la setta di Velia -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza
(Velia). Filosofo italiano. Velia, Campania. A pupil of Zenone – il Velino. Grice: “We know who
Parmenide’s lover – beloved – was: Zenone. And P. is Zenone’s. Cf. Grice,
“Aristotle – and the LIZIO – on the multiplicity of BEING.” IZZING.
Nella bimillenaria tradizione filosofica occidentale il termine essere ha
giocato un ruolo decisivo, e questo ha contribuito a rendere a poco a poco del
tutto incomprensibile il significato originario dei frammenti che ci restano
del poema di Parmenide di VELIA e suoi scolari, Zenone, e P.. Ho già notato che
la contrapposizione folkloristica di Parmenide di VELIA, guru dell'essere
e d’Eraclito, guru del divenire, è degna dei giochi televisivi a quiz, ed ha lo
statuto epistemologico della canzoncina della Vispa Teresa. Tuttavia, è
bene ricordare al lettore almeno alcuni significati principali assunti
dal termine essere nel pensiero occidentale dalle origini ad
oggi. Trascurando qui gli antichi Greci, il primo significato rilevante d’essere
è quello che lo identifica prima con l’uno dei neoplatonici e poi con il divino
monoteista. Si tratta di una vera e propria onto-teologia unificata, come dice
poi Heidegger. A questa onto-teologia unificata, mirabilmente
sistematizzata d’AQUINO (si veda) e dalla teologia domenicana medioevale
— che risacralizza così in forma razionale l’unità ontologica del macrocosmo
naturale e del microcosmo sociale —, reagì fortemente prima il nominalismo sia
laico (Abelardo) che religioso (Guglielmo di Occam), e poi il panteismo
rinascimentale (Bruno). Il periodo storico della costituzione formalistica
del soggetto, da Cartesio a Kant, è un periodo di declino storico della
onto-teologia, e questo non certo a caso, in quanto l’onto-teologia
consacra in quel periodo storico il dominio simbolico delle vecchie classi
signorili e tardo-feudali, e la borghesia nascente era interessata ad
infrangere razionalmente il nucleo metafisico di questa onto-teologia, e
cioè l’unità delle categorie dell'essere e delle categorie del pensiero.
Il grande filosofo Kant infranse questa unità ontologica, sostituendo la
nuova religione gnoseologica borghese alla vecchia religione onto-teo-logica
tardo-feudale e signorile, e si acquistò così la riconoscenza perenne di tutto
il nuovo clero universitario. La restaurazione della categoria d’essere
da parte di Hegel è basata sull’attribuzione all'essere di una genericità
assoluta, che si concretizza e si determina progressivamente mediante una
logica dialettica (Scienza della logica, ecc.). Per Marx e poi per Lukécs
il termine essere non può che significare l’insieme pensabile concettualmente
della totalità espressiva della società e della storia. L'uno-tutto non è
però più declinato in modo religioso e bimondano - come per Plotino ed i
neoplatonici - ma è costruito concettualmente con l'intreccio della permanenza
ontologica -- ciò che è, ed è eternamente -- e della determinatezza storica: il
proprio tempo appreso nel pensiero. È questo l’unico possibile ritorno a
Parmenide di VELIA, non certo la ripetizione ieratica e sapienzale (più
esattamente: pseudo-jeratica e pseudosapienziale) secondo cui è da pazzi (e
tutto il mondo moderno sarebbe pazzo, al di fuori di un professore
universitario in pensione di Brescia) ritenere che le cose possano mutare
nel tempo. Parmenide, di cui presuppongo qui l'appartenenza alla scuola di
CROTONE nella CALABRIA, già ampiamente attestata dalle fonti classiche, pensa
radicalmente un numero solo, il numero uno. Sostenendo la cosiddetta
sfericità dell'essere, non bisogna pensare che alluda ad una sorta di
palla splendente in cielo. Il termine sfairikòs significa infatti
congiuntamente sferico ed anche congiuntamente globale, totale e
“complessivo”. In greco moderno, duemila e cinquecento anni dopo Parmenide di
VELIA (la non conoscenza del greco moderno, custode semantico
incomparabile dei significati originari della filosofia classica, rappresenta
uno dei più pittoreschi elementi di ignoranza dei professori europei di
filosofia), il termine sfairikòs continua ad avere lo stesso doppio
significato semantico. Ssi dice, ad esempio, un'idea globale del problema
-- mia sfairikì andilipsi tou provlimatos. Non avrei fatto questa
deviazione semantica se non avessi voluto sottolineare il fatto che il termine
parmenideo di sfericità dell'essere non allude ad un gigantesco pallone
aerostatico in cielo, ma metaforicamente connota semanticamente e
concettualmente lo stesso oggetto teorico che Hegel e Marx (senza contare anche
Adorno, Marcuse e Lukacs) hanno più tardi connotato in termini di
totalità espressiva. Certo, sarebbe sbagliato attualizzare eccessivamente
questa analogia, perché da un lato Parmenide di VELIA non puo ancora
isolare l'essere sociale dall'essere naturale, ma li pensava in
strettissima unità ontologica -- questo isolamento, parzialmente anticipato dal
LIZIO, dovve aspettare l’illuminismo borghese per poter essere concettualizzato
e sviluppato -- e dall'altro non puo ovviamente ragionare sulla base
della distinzione kantiana e della successiva ridefinizione hegeliana di
intelletto – Verstand -- e di ragione -- Vernunft. È quindi chiaro che il
concetto di sfericità di Parmenide di VELIA ed il concetto di totalità in Hegel
e Marx non ricoprono esattamente lo stesso spazio teorico. E tuttavia,
pur non ricoprendolo, sono largamente comparabili, e questa comparabilità deve
essere messa alla base del ragionamento. Ma qual è l'esatta
natura storico-genetica ed ontologico-sociale del concetto parmenideo d’essere?
Di quale sfericità, cioè di quale totalità è il riflesso astrattizzato?
Ammetto che non possiamo saperlo con certezza. Non possiamo arrivarci con il
metodo deduttivo diretto, e neppure con il metodo induttivo indiretto. Dovremo
arrivarci con quello che Peirce chiama il metodo abduttivo, e cioè non il
metodo del LIZIO -- la deduzione -- o il metodo di Mill -- l’induzione --,
ma il metodo di Sherlock Holmes e di Hercule Poirot. Succede X, un fatto
straordinario ed inesplicabile. Se però Y è vero, X smette di essere
straordinario ed inesplicabile, e diventa invece razionalmente
spiegabile. L'essere di Parmenide di VELIA è un tipico esempio di
sfida all'abduzione. È infatti straordinario decidere di chiamare essere
la totalità sferica di tutto ciò che può essere pensato. È allora
plausibile che ci sia un sostrato sociale che fa da riferimento materiale a
questa concettualizzazione ideale. Si tratta di discutere spregiu- [L'Essere
di Parmenide come metafora della stabilità e della permanenza nel tempo della
buona legislazione] dicatamente tutte le ipotesi che ne possono essere date,
scartare le meno plausibili, ed accettare la più plausibile. Rethel,
che è stato uno dei grandi fondatori del metodo della deduzione sociale delle
categorie filosofiche (e che appunto per questa ragione è oggi trascurato
e dimenticato), cerca di dare una spiegazione materialistica della
categoria parmenidea di’essere. Rethel nota acutamente che il concetto d’essere
in Parmenide di VELIA è caratterizzato da una totale genericità indeterminata --
è infatti indeterminato come l’apeiron d’Anassimandro --, e si chiede allora
che cosa possa aver causato questa indeterminatezza astratta assoluta. Se
infatti io penso in modo astratto — sostiene Rethel — ci vorrà qualcosa
di astratto che faccia sì che io pensi astrattamente. E Rethel ritiene di
individuare la sorgente materiale e sociale di questa astrattezza nella
moneta coniata, moneta coniata originatasi prima in Lidia, poi passata
dalla Lidia alle isole greche di Chio e di Egina, e progressivamente diffusasi
in tutto lo spazio economico e culturale greco. La moneta implica il
passaggio dal baratto concreto allo scambio astratto, perché con una
moneta si possono comprare le cose più diverse, indipendentemente dai
materiali con cui sono costruite. Non c'è dubbio che la
moneta, insieme con la fusione dei metalli (e del ferro in particolare),
abbia giocato un ruolo decisivo nella costituzione materiale della
civiltà greca a VELIA, nella CAMPANIA d’ITALIA. La moneta è stata anche un
fattore primario per il sorgere dell’economia schiavistica antica, perché ha
permesso di comprare gli schiavi come si comprano tutte le altre merci, mentre
prima ci volevano guerre di conquista di tipo assiro-babilonese. E
tuttavia a mio avviso Rethel si sbaglia. E si sbaglia di grosso,
nonostante il fatto che almeno ci ha provato, e gli sciocchi che continuano a
proporre un concetto indefinibile, ieratico, sapienziale, sacerdotale e falsamente
profondo, come dice Hegel, d’essere non gli arrivano neppure alle
caviglie. Chi ci prova può sbagliare, ma chi non ci prova neppure rest asempre
a pestare sul suo quadratino di terra, come un tempo facevano i soldati nel
cortile delle caserme. Rethel sbaglia perché proietta nel lontano
passato della CAMPANIA dell’ITALIA – a VELIA -- l’importanza che la forma
merce— e quindi il denaro come merce astratta per eccellenza - ha assunto
nell’Europa, importanza che ha determinato prima l'economia politica di
Smith e poi la critica dell'economia politica di Marx. Per gl’anticihi, ed in
particolare per i Greci del tempo di Parmenide di VELIA, ciò che conta
non era la forma astratta del valore di scambio e della moneta coniata
che ne era la portatrice astratta, ma era proprio l'esatto contrario, e cioè la
buona legislazione comunitaria che ne permette la limitazione e la sua
sottomissione al metron. Come si vede, la realtà storica e concettuale è
invertita rispetto a come se la rappresenta Rethel. Il
concetto generale ed astratto d’essere, infatti, presumibilmente non
deriva dalla proiezione della funzione mercantile-astratta della moneta
coniata, la cui introduzione nel mondo greco equivale appunto (e qui
Sohn-Rethel ha ragione) all’irruzione del Nulla nel mondo dell'essere, ma
proprio al contrario, e cioè dal concetto di buona legislazione
comunitaria, che essendo “buona” è pensata come non migliorabile e non
modificabile, e quindi eterna, stabile e permanente. Parmenide allude
certamente alla sua polis di VELIA, ed i suoi frammenti descrivono proprio
le cavalle che salgono sulla akropolis della sua città per un sentiero
erto e difficile. E sono queste cavalle concrete le portatrici materiali
del concetto astratto d’essere inteso come proiezione metafisica della
buona legislazione comunitaria, dotata per ciò stesso di stabilità e di
permanenza, e quindi d’eternità. Riflettere su Parmenide di VELIA in
modo ieratico-sapienziale, destoricizzato, desocia- lizzato (e quindi
privato di ogni chiave di interpretazione semantica) e pomposo-
giornalistico non serve a niente, se non ad incrementare quella particolare
forma di idiozia presente in molti filosofi di professione fondata
sull'idea che meno ci si fa capire, più si è profondi. Se invece ci si
accosta a Parmenide di VELIA in modo storico-genetico ed ontologico-sociale,
allora si guadagnano molti punti di vista illumi- nanti, nuovi ed
inediti. In primo luogo, che i filosofi classici pensano in modo
sferico, sulla base cioè dell'idea di totalità espressiva, e questo modo
sferico è esattamente quello che verrà poi restaurato in forma storica da
Hegel e da Marx. In secondo luogo, che la permanenza e la stabilità
eterna della buona legislazione comunitaria sta alla base dell'idea
sociale d’eternità della cultura occidentale. In terzo luogo, che tutte
le forme di sensismo e di empirismo non possono giungere a questo tipo di
comprensione, e nonostante si presentino come più concrete sono paradossalmente
molto più astratte della stessa idea d’essere, perché questa idea allude
alla cosa più concreta di tutte, e cioè all'idea della coesione sociale e
comunitaria, mentre l’empirismo sacralizza invece concettualmente la
dispersione caotica degli atomi sociali individualizzati. In quarto
luogo, infine, che il concetto d’uno non ha bisogno necessariamente di un
supporto teologico per essere pensato (il Dio monoteistico), perché l’uno
stesso è del tutto au- tonomo ed autofondato in modo logico ed
ontologico. Bisogna quindi rispettare l'onto-teo-logia, ed io la rispetto
mille volte di più dell’empirismo e del sensismo, ma essa non può essere l’ultima
parola di una trattazione ontologica dell’essere. In quanto a Parmenide
di VELIA (ed affermo volutamente una cosa paradossale e provocatoria!) la sua
trattazione dell'essere socia- le del suo tempo è filosoficamente del
tutto omogenea alla trattazione che ne farà Lukécs (e sulla sua scia, ma
più modestamente, chi scrive) nel suo tempo. In entrambi i casi, l'essere
sociale è pensato in modo unitario con una categoria sferica. La differenza
ovviamente sta nel fatto che in Parmenide di VELIA non può esistere la
storia, intesa come concetto universalistico di tipo
trascendentale-riflessivo (concetto sorto nell’Europa sulla base di una
genesi ideologica borghese), e per questa ragione la buona legislazione
comunitaria, concepita in modo pitagorico, viene rappresentata nella
forma della stabilità, della permanenza e della eternità temporale. Oggi,
sulla scorta d’Eraclito, sappiamo invece che il polemos non si può
esorcizzare. Pitodoro. Keywords: VELIA, VELINO. Pitodoro.
Luigi Speranza -- Grice e Pizzi: la ragione
conversazionale e la regola conversazionale di Boezio – la causa della cosa – alla
memoria di Wrigley, del Trinity -- adduzione e prova – filosofia lombarda --
filosofia italiana -- Luigi Speranza (Milano).
Filosofo italiano. Milano, Lombardia. Grice: “About time an Italian philosopher
takes ‘la regola di Boezio’ seriously!” Studia a Milano. Grice: “At Oxford, the Wykeham
professorship of logic is hardly considered philosophy – recall that in the
middle ages, logic was part of the Faculty of Arts – hence required study for
lawyers, etc. – not necessarily philosophers. Oxford now has the Sub-Faculty of
PHILOSOPHY – and Logic is actually studied WITHOUT (not WITHIN it) at the
“institute of mathematical logic” on St. Giles. ‘He is a logician” implicates,
as mucas “he is a theologian” does – that he is NOT a philosopher. I
distinguish between logic and PHILOSOOPHICAL LOGIC. But a philosophical
logician is (via grammtical trasformation) a PHILOSOPHER who philosophises on
what people (non-philosophers) are doing at the Institute of Logic at St.
Giles! Studia il condizionale contro-fattuale.
Insegna a Calabria e Siena, “Logica della prova” a Milano. Cura Hughes e
Cresswell, ed offre una panoramica completa e aggiornata della logica
intensionale. Ampliando questa linea di ricerca, compila due antologie con
introduzioni. Una dedicata al tempo e una dedicata al condizionale (se-ismo).
Compone una serie di saggi in cui viene introdotta una logica dell'implicazione
consequenziale. Il scopo della logica dell’implicazione con-sequenziale è
riformulare le basi della logica connessiva nel quadro della logica modale.
Questa traduzione consente di assiomatizzare un sistema G-HP che risulta
complete e decidibile mediante tableaux con un sviluppo verso una
generalizzazione di questi risultati. Altri temi di ricerca sono il problema
della definizione a della reduzione della necessita ai termini di contingenza,
l'applicazione del quadrato dell’opposizione e del cubo dell’opposizione al modo,
l'approccio al modo in termini di multi-imodo, cioè mediante l'impiego di un
linguaggio base avente come primitivi una moltitudine d’operatori modali –
contro la tesi dell’aequi-vocita di Grice. Nel campo della scienza il tema su
cui filosofa in modo preminente è stato quello del contro-fattuale della causa,
a cui dedica saggi destinati a un pubblico interessato all'epistemologia
giudiziaria alla Hart/Honoré– causation in the law. If you are looking for the
cause of what he did, what he did was very wrong – implicature! Sempre in questo settore compone un saggio
sull’adduzione, dove analizza un caso giudiziario controverso, il disastro di
Ustica. Sul tema di Ustica compone un saggio che contiene una discussione
metodologica delle indagini ancora aperte sul caso, in merito alle quali cura
attualmente un blog. Altre saggi: “Introduzione alla logica modale”
(Saggiatore, Milano); “La logica del tempo” (Boringhieri, Torino); “Leggi di
natura, modalita, ipotesi” (Feltrinelli, Milano); “Eventi e cause: na prospettiva
condizionalista” (Giuffre, Milano); “Diritto, abduzione e prova” (Giuffre,
Milano); “Ripensare Ustica, Createspace); “Implicazione logica”; “Causalità
(filosofia) “Adduzione”; “Strage d’Ustica, claudio pizzi it. wordpress.com. The
kind of implicature – “implicazione conversazionale” -- known as connerive
implication has been the focus of an original research program. The main formal contributions
in this area are due to Robert Angel and Storrs McCall (8), but the basic idea
of connexive implication was clearly outlined by Everett Nelson in the Thirties
(13). Nelson was critical of the so-called law of simplification, viz. the
principle that, for every p and every 4, the conjunction of p with q implies
each one of the conjuncts. Clearly inferences of this form are valid when p and
q are jointly consistent. But what should we say when they are not, for
instance when q is just -p or when q is -(P→P), which states that p cannot
imply itself'? The idea of connection which Nelson was trying to capture is
characterized by the property that, if we have the truth of A - B (where
"-" relation of connexive implication) we cannot also have the truth
of A 4 -B. If we accept the logical principle A → B- -(A → -B) - which we shall
name “LA REGOLA DI BEOZIO” following Kielkopf?- along with unrestricted
substitution, then this leads to a rejection of Simplification in the form
(p^q) → q. If we had, in fact, (pAg) → g as a law of logic, we would have by
Uniform Substitution both (pAp) - p (asan instance of A → B) and also (pA-p) -
-p (as an instance A → -B), a result: which is incompatible with LA REGOLA DI
BOEZIO, If we assume that p → pis a valid formula, and there seems no reason
not to do so, and we accept it as an instance of A - B, then by applying
Boethius Rule we obtain what is known as Aristotle's Thesis: -(p - -p).
Aristotle's Thesis is the cornerstone of connexive implication, since it states
a new version of the Principle of Non-Contradiction. Indeed, in connexive logic
p — -p is the paradigm contradiction. If L is a symbol for an arbitrary
contradiction, then it follows from Aristotle's Thesis that L- p cannot be a
connexive thesis since p could be exactly L, that is, an arbitrary tautology
(Henceforth we will symbolize an arbitrary tautology by T). It is thus clear
that connexive logies are "non-Scotian" in the sense that in such
logics contradictions can imply only contradictions while tautologies are
implied only by tautologies. What is the correct formulation of Boethius' Rule
in the object language? In the first papers written by Angell and MeCall we
find the law : (p → q) - -(p → -g)-Angell's original system PAI (see (1]) was
axiomatized as follows. (p→4)→(19→7→0p→7) (р→ -(gA)) - ((дЛр) → пг)) (р - q) → ((рАг) → (г Л)) (рА (q Аг)) → (дА (рАг)) (р → q) → -(р → -q) -(pA-(p/p)) (p → q) - -(p→ 7g) (g→p)→(p→g пр - р Transformation Rules: RL. IfF SandPS → S' then I S'
R2. If S and F S' then FS NS' R3. If S and v is a propositional variable
occurring in S, and S' is obtained by Uniform Substitution of any t for u, t S'
RA If S, and S' is got by replacing any part, or all, of S by an erpression
equivalent through rules of abbremation, then 5' It should be noted that Modus
Ponens is formulated in terms of "—" and the same holds for R4, which
amounts to a Rule of Replacement for - -equivalents. Axiom 3 is a strong
version of the so-called Factor Law (Factor for short). If we define S and = as
usual in terms of A, - and V; we obtain the standard propositional calculus PC
as a sub-system. Notice that Axiom 5 is equivalent to (p → q) → (pD 9). Thus,
thanks to R1, any theorem of the form A - B also holds in the weaker form A B.
We then have at our disposal the derived rule A ++ B/A = B, but we do not have
the converse rule, which would amount to having as a rule Replacement of Proved
Material Equivalents. This restriction leads to some paradoxical results, for
example that (pAp) cannot be replaced by p since (pAp) - p is not a theorem of
PAL (Note that we cannot derive this wff by using (pAg) - q since the latter is
not a theorem of connexive logic).McCall's system CC1 (see (9]) turns out to be
equivalent. to a system obtained by extending PAI with the following axioms: p
- (pAp) Ap) (pAp) - ((p- p) - (pAp)) ((p → q) → q) - g) (q Aq) - (р - р) pV (((p→ p) → p) V ((gq) → p))) For a detailed
criticism of PAI and CC1 the reader is referred to (11]. These criti-cisins
were accepted by Angell (see [2]), but the attempt to overcome the difficulties
pointed out by Montgomery and Routley involves extending the formal language of
connexive logic as it was initially formulated, McCall's recent reformulation
of connexive logic - named CFL in 9) - also requires a reformulation of the
language of the original formal system since its formation rules prohibit wifs
with iterated 2. Analytic and synthetic consequential implication The logic of
consequential implication (see [15]) differs from the logic of connex-ive
implication in a number of respects, which can be outlined as follows: Firstly.
The rule of BOEZIO (that great Italian master!) is represented in the object
language by (p → q) D -(p - -q) and not by (p → g) - -(p → -q). We will
distinguish these two wits by calling the first the Weak Boethius' Thesis (WBT)
and the second the Strong Boethius' Thesis (SBT). Secondly, Factor holds only
in the following weakened form: (WWE)→(T→ →PAT))→((p→9)3(p^r)→(qAr)). Thirdly, a distinction is
drawn between the logic of "analytical" and "syntheti-cal"
conditionals. The latter are conditionals whose truth depends on a set of true
statements which are contextually understood but not explicitely stated.
Counter-factual conditionals are paradigm examples of context-dependent
statements, and so they should be formalized as synthetical consequential
conditionals. However, intuitions concerning the logical properties of
synthetical conditionals are not clear. It appears that in ordinary language
such as Oxonian, or ITALIAN as spoken at BOLOGNA, we have a whole family of
different condition-als, whose logical properties we frequently confuse. To
clarify the situation we can state two minimal properties of the so-called
"circumstantial operator «**, which can be read as "ceteris
paribus" ("other things being equal") or "rebus sie
stantibus" ("things being thus and so")%. The minimal
requirements for the logic of this operator are axiomatized as fol- lows: (i) (i) (*ート)3 (p→上). The most natural definition
of a synthetical conditional is A > B = D/ *A - B. But many other
definitions are possible which satisfy the properties required forconsequential
implication. The weakest connective of this family is defined as fol-lows: 1
> B = D/ (T → (*A 5 В)) A (-(Т → -В) Л-(Т→ - * А)) 3. Translations between logics of consequential
implication and standard modal logics If we want to stress the similarities
between connexive implication and consequential implication, we should note
that they are both compatible with Nelson's informal treatment of implication.
Historically speaking they both have a com-mmon ancestor in Chrysippus
conception of conditionals and so may be called Chrysippean conditionals'. If,
however, we want to stress the differences, apart from the
analytical/synthetical distinction which is mirrored by the proposed extension
of the object language, the most important difference between the two formal
theories is just their attitude toward Factor. Intuitions about Factor are not
clearly related to Aristotle's Thesis and Beethius' Rule and they should be
subjected to a specific analysis. Indeed it may be claimed that Factor is
implausible in the light of the underlying motivations for introducing the
notion of connexivity. To see why consider the following argument. Suppose that
p→ q stands for "If Smith is a bachelor is a male" pAr stands for
"Smith is a bachelor and married" gAr stands for "Smith is a
male and is married". Then p → q stands for a statement describing a
necessary connection and pAr stands for a contradiction, while q Ar stands for
a contingent statement. Since the conjunction of p and r in this particular
example is consistent, deriving r by application of Simplification is
connexively sound. So along with (p - q) D ((pA) → (gr)) (Factor), we have also
(gAr) → r and so, by transitivity of *-*", (p +q) → ((р\т) - r). So assuming the necessary statement p - q we
conclude that "Smith is bachelor and married" (pAr), connexively
IMPLICATES (via “implicazione conversazionale”) "Smith is married"
(r). But this result is connexively unsound, since the conjunction symbolized
by pAr is inconsistent while r is not. This argument could of course be
questioned since it relies on the presupposition that some instances of
Simplification should be accepted. Now it does seem plausible that at least the
following weakened version of simplification should be a theorem of connexive
logic, since it states that Simplification holds provided the antecedent is not
equivalent to a contradiction and the consequent is not equivalent to a
tautology: (WS) (-(IHPAS)AT(TAT))3(0Ar)-) In fact, this law can be proved even
in the weakest calculus of consequential implication in the class of systems
which will be introduced in the next section".It should be pointed out
that consequential implicature (“implicazione conversazionale”) has different
origins from connexive implication since it originated in modal logic as a
variant. of strict implication. Given that contradictions may imply and be
implied only by contra-dictions, and tautologies imply and are implied only by
tautologies, the key idea of consequential implication can be expressed by
saying that it connects two propositions A and B when we have: A strictly
implies B: 0(A B) (ii) A and B have the same modal status. The sense of (ii) is
that if A → B is to hold then A and B are both necessary, or both impossible,
or both possible, or both not-necessary. Summing up, a relation of
consequential implication holds between A and B when we have C(A > B) A(0A =
0В) A (0A = 0В) A (-DA = -OB) A (-0A =
-OB), which is equivalent to •(AD B) A (DA = OB) A (04 = 0B), a wif which in
normal modal systems equals the simple D(AS B) A (OBS DA) A (OB O QA). The
equivalence between A → B and the latter formula suggests that we look for a translation
between the languages of modal logie and consequential implication. At this
point it is useful to set out some results about the interrelations between
modal systems and systems of consequential implication. For sake of simplicity
we will confine ourselves to the analytical fragment of logics of consequential
implica- Let Lo be the set of wifs resulting from standard combinations of
propositional variables p, q.r, parentheses (.), the primitive functors {L, 5,
) and the standard definitions of -, A, v. 0. Let L. be a language which is
like Lo with the only difference that replaces Let us define two mappings: @
from L.., to Lo and a from Lu to L., by the following conditions: 1a, pip)=p 28.中( )=上 3a. o(AD B) =・A)コo(B) 1a. 0(4-B)=0((A) (B)^
(0(B)>0())^(0(B)0(A) 1b. 4(p) = p 2b. (上) 上 36.2(A3B)=4(4)つ(B) 4b. 0(0A)=T= 0(A) A normal
system in L_ is a set X C L containing all the truth-functional tautologies and
the wiis derived from the following axioms: (PC). All the theorems of the
classical propositional calculus PC (a) (p→q4→r))(pir) (b) (T → (рал -(Т → -р) Л -(Т → 9)) Р (р → q) (с) - (Т → - (рАг)) > ((р→ g) Р ((рАт) → (дЛг)) (d) (Jp→g)2(9→ (p → 1) D (1→p) (1→ p)D
(p→L) p. - p The rules are Uniform Substitution (US), Modus Ponens (MP) and
Replacement of Proved Material Equivalents (Eq). We shall call the smallest
normal system of consequential implication CIw. If we add the Weak Boethius
Thesis (p - q) D -(p → -q) (WBT) to CIw then we obtain a system which we shall
call CI, and if we add (p → q) (pS q) we obtain another system which we shall
call CIO. Let us now consider the weakest normal system of modal logic, i.e.
the well known system K which is axiomatized by adding to the standard propositional
calculus PC K1. 0(p)q D (Op 3 0g) with MP,US, Nec (F A → - DA) as the only
rules of inference. We now define a translation between the systems X C L. and
between Y C Lo as follows: We say that X translates Y when, for every A € L...
we have A € X iff ф(A) € Y. We will say that (A) is the modal counterpart
of A. We say that Y translates X when, for every A € Lo, we have A € Y iff 4(A)
€ X. 4(A) will be called the consequential counterpart of A. Using these
definitions we can prove the following metatheorems [19]): If Y translates X
and X is normal in L.., then Y is normal in Lo. If Fk 4 then Fciw #(A) If X
translates Y and Y is normal in La then X is normal in L... If FCiw A then Fk
(A) For all A € L, Fciw A = 4(ó(A)) For all A € La, Fa A =ф(@(A)) K translates CIw and CIw translates K If X is normal in L., and Y
is normal in L, then X translates Y iff Y translates X. Suppose that X° C L..,
Y" C Lo and X is the smallest normal system L_, such that X" § X; Y
is the smallest normal system in Lo such that Y° CY; (a) € Y whenever a €
X"; 4(a) € X whenever a € Y. Then X and Y translate each other. The
proposition states that and induce a one-one embedding between the theses of
any normal system of modal logic and the theses of the system of consequential
implication which translates it. Hence we can show that there is a one-one
translation between CI = CIw + (p → q) D -(p→ -g) and K + Op 3 Op (ie. the
deontic system KD) and also a one-one translation between CIO = CIw + (p → 9)
D(pOg) and K+Op 3 p, i.e. KT. Since -(p → -p) is equivalent to (p→q) D-p→ ng),
CI is the weakest system containing Aristotle's Thesis®.These results about
translations provide us with a decision procedure for all extensions of CIw
whose modal translation is decidable. Tableaux methods which are appliable to
normal modal logics turn out to be practical methods to test the validity of
consequential wifs. A remarkable by-product of this modal translation is that
it provides us with a tool for analyzing typically connexive wifs, and for
studying the properties of systems which are intermediate between systems of
connexive implication and systems of consequential implication. An example of
the kind of investigation which can be carried out in this way concerns what we
labelled earlier the Strong Boethius' Thesis SBT (which is axiom 8 of Angell's
PAI). The first question to ask is, of course, whether SBT is a theorem of the
basic systems of consequential implicature – “implicazione conversazionale” --
CIw, CI, and CI.O. This question was anwered negatively. In fact, the system KT
has the so-called double cancellation property (DCP), which we can state as
follows: (DCP) If X is a normal modal system, -x CA = OB and -x 0A = B, then -x
A = B. Let us suppose that (p → q) - -(p- -g) is a theorem of CI.O; then, by
Reductio, in KT we should have @(p → q) 3 (-(p → -q)) as a theorem, hence also
(T - p) = (-(T → -p)), which we know to be impossible, since the latter wif is
equivalent to the non-theorem Op = Op. The Strong Boethius' Thesis SBT cannot then
be a theorem of any system at least as strong as CIO. Let us call e-normal
every normal modal system such that the "erasure transformation"
yields valid PC-wffs (see [4], P. 23). Then, since Op Op is consistent with
every e- normal modal system, SBT is also consistent with any consequential
system which translates an e-normal modal system. The next question is: since
SBT is consistent with CIw, which is the modal system translating CIw + SBT?
The answer is as follows. Let us call the required system CIw- and let us call
the smallest fragment of La which contains the following Kdf: (1D) OT (2F) 00p
3 00p The semantic properties of Kdf are obtained by standard correspondence
theory and can be described as follows: Quasi-seriality: Wwva(wRy 3y aRy)
ofunctionality Vutzty (wRy AaRya(ヨr(wRがへ♥ぱRつ2=3))The latter wif is equivalent
to the simpler VwVrVy(wRy AzRy AaRa 52 =By an application of the Henkin
technique for completeness proofs, we obtain the following completeness result:
THEOREM. A is a theorem if and only A holds at all the frames which are quasi-serial
and O-functional. This characterization result allows us to find a quasi-serial
and (Q-functional frame which refutes the converse of SBT. We have thus:
THEOREM. -(p → ~g) → (pq) is not a CIw→ theorem. This result is not a trivial
one, since in the light of the application of (DCP) we have, for system CI.O.
(a) Fcio A - Biff Icio B = A from which it follows by replacement of material
equivalents that (b) Fcto A → Biff Icio B → A. We thus have the rather
unwelcome result that if SBT were added to CI.O the system would contain its
converse as well, and also the equivalence + (A → B) - -(A → -B). Even if not
strictly trivial, Ciw→ has properties which throw a negative light on the
Strong Boethius Thesis. For example, it can be proved that the Denecessitation
Rule (- DA → A) is admissible in any modal system X iff Modus Ponens for + (If
Fcro A → B and Fcio, Fcro B) is an admissible rule of its consequentialist
translation. Now in Kdf we have a proof of the wff (Op = p), while (Op = p) is
refuted (see (18)). This proves that Kdf does not admit denecessitation, and
hence that CIw- does not admit Modus Ponens for →. But it can be proved that
every extension of CIw- which admits Modus Ponens for -, (such as CI.O)
contains the undesirable equivalences (p → q) = (g - p) and (p → q) = -(p →
-q). Having Modus Ponens for "—" means the possibility of
interpreting "—" as an implication connective, but this destroys the
very possibility of entertaining non-trivially the Strong Boethius Thesis. It
can also be proved that adding the characteristic axiom of CI.O, namely (p → q)
D (p D4), to CIw-, yields the equivalence p = (T = p), whose modal counterpart
is the collapse - formula P= Op). 5. Factor and consequential implication - Let
us now consider the formula which distinguishes connexive logic from
consequential logic, namely Factor. In systems of connexive logic we find two
variants of this law, which we we will call "Strong Factor" (SF) and
"Weak Factor" (WF). (SP) (p → q) → ((р^т) → (gAr)) (For the latter see, for instance, (9]). An
equivalential variant of WE may also be found in the literature, viz. which is
of course equivalent to (p - q) ((pAr) - (g))(see for instance (2]). WFEq is
unproblematic, since it can be shown that it is a theorem of even the minimal
system CIw. Since K is the modal translation of CIw, it may be proved that the
following wils are K-valid (where "_" is the symbol for strict
equivalence).((pニタコロ((p/r)→(9^z)) (E)((ニタ)^(ロp=D4))2(0(g^7)2口(pAr)) (m)((#=4)^(0p^04)) 2(0(g^r)3Q(p/r)) Thus by applying the
so-called Theorema Praeclarum ((PS q)A(r 5 s)) 5 ((PAr) D (gAs)) it turns out
that (p → q) 5Ф(рЛг) - (gAr)) is K-valid, and
hence that (p +q) 3((рлг) → (gA)) is a CI-theorem.
The problem of derivability then concerns the two wffs SF and WF The first
result to be noticed is that SF is inconsistent with any system of
consequential implication which contains the Weak Boethius Thesis or, which
amounts to the same thing, Aristotle's Thesis. If SF were a theorem of CI, in
fact, we would have the following proof: (р - -р) - ((рЛ-р) - (-рЛ тр)) (р- -р) - ((рАтр) - -р) 3) (p→ Jp) =1 1- ((рА-р) → тр) 1→ (p - T) SF(-P/g) 1), PC
+ -(p--p) = T, Eq , 2), Eq , Az. (d) The modal counterpart of line 5) is the
wif -OOp, which is inconsistent with every normal system containing OT, namely
with the modal counterpart of Aristotle Thesis. In fact an instance of it is
-QOT, while in KD from T we have However, it is to be noted that WF is
consistent with every extension of CIw translating some e-normal system. This
can be easily proved by replacing every occurrence of "—" with
"=" in the axioms and checking that the resulting wifs are PC-valid
and (ii) the rules preserve the PC-validity of the transformed wffs. If we now
apply the transformation to WF we obtain (P=q) > ((pAr) = (gA)). which is a
PC-thesis. Thus, by a standard argument, we can prove that WE is consistent
with CIw and with every extension of CIw whose axioms have PC-valid The problem
with WF is indeed not inconsisteney but the fact that adding WF to Cl yields
counterintuitive results, which may be compared to the result of adding Strong
Boethius Thesis to system admitting Denecessitation. It is remarkable, in fact,
that by adding WE to CI we lose the asymmetry of the arrow, since we may prove
the equivalence between (p → q) and (q p). This may be seen looking at the
following proof, in which A and A are introduced by the two definitions: (Def)
0A =DJ -(T→-A).Thanks to such definitions (one of which is of course redundant)
and to the mentioned embedding results, we know that every theorem of K belongs
to CI + DefO.It is useful to recall that in CI + DefO (we have the equivalence (→)(口(pコg)^(コ(p) ^ (0g 3ロp)) =n→q We may then exhibit the following proof: 1) (p→9)3((pAr)→(9^r)) (р → q) 3 ((р\-р) → (gA-р)) (р → q) D (1→ (g-р)) WF , тр/г , 1= (р.Л-р) , (d), (e), (f) (→) , 5), Defu K 7), (-) 6), 8).
6)(p→g)コロ(p=q) 7)ロ(p=4つ((ロp3ロ/)^(Op3^4) ^ロ(92p)) 8) 0(p=q) > (9-p) 9) (p→9) 3(91p) A simple consequence of 9)
is the theorem (1)(p→g)=(g→p) which asserts the
equivalence between → and -. On the other hand, suppose we add (S) (p - g) 3 (g
-p) as an axiom to CI, so to obtain a system CI+S. Obviously we have (-) as a
theorem of CI+S. But since we already know that (p - q) > ((pAr) → (qA)) is
a theorem of CI, we have by replacement (p → 4) - ((р\г) - (gA)), i.e. WF, as a theorem of CI+S. So, if X is
any system containing CI, CIW is equivalent to CI+S. Factor and a
non-contrapositive variant of consequential implication An interesting property
of systems of consequential implications is that by introducing the definitions
of the modal operators in terms of the arrow we may define different
arrow-operators which are variants of the standard arrow operator which have
the minimal properties originally required for connexive implication. For
example, we may define a new arrow in terms of O as follows (→)4→B=Dロ(43B)^(QB3>4) and also define a second
couple of modal operators as (ロロ4=D/T=4 (ペ)4=Dr→ロ4、 Of course we have that A - B
imples A → B but not vice-versa, while it is straightforward to prove that D°A
is equivalent to CA and 0°A is equivalent to •A' The logie of = can be proved
to be slightly different from the one of →, even if it is clearly a logic of a
connective endowed with the properties of consequential implication. Among its
theorems we have in fact (WB→)(p=9) 3ー(p= -9)(AT →) -(p→ p) (1→)((p34)^(p) コ(p=g) (2=)(1=4=(4→1) We lose Contraposition for →
in its standard form but we have the advantage that Simplification holds in the
manageable variant (S →0(pAq) D((pAq) → q). It may be proved (but we will not
do so now) that the fragment of CI containing only truth-functional wffs, and
→-wfis can be axiomatized in a system which we will name CI→, and that the
truth-functional and →-fragment of CIO, CI.O=, is definitionally equivalent to
CI.O itself*. What we want to do now is to extend CI not with WF but with its
→-variant which is (WF →)(p → q) 3 ((рАг) → (9Л г)). Since (Og A Op) implies
(gAr) @(pAr), a straightforward result of this new axiomatization is that (3 →)
((р » q) A(0q> D))
О ((рАт) → (дЛг)) ЛО(дАт) рО(рЛг)) is a theorem (by Theorema Praeclarum). But since (3
→) is indeed equivalent to (WF) thanks to (-), we have that every theorem of
CI+WF is also a theorem of CI+WF=. What we may now prove is that there is a
one-one embedding between CI= +WF and a modal system which in the literature is
known as KD!, where KD! is KD +045 DA. An established result concerning KD! is
that KD! is characterized by the class of the frames whose accessibility
relation is both functional: Vryz(rRy AaRz Sy = 2) and serial: VaZycRy. Now we
can prove the following two theorems: MTI: If -KD: A then Fci»+ WE WA MT2: If
-cI»+WP A then F-KD: ' A MT1 The proof is by induction on the length of the
proofs. We already know that the consequential counterparts of axioms of KD are
theorems of CI→+WF and that the rules of KD preserve such a property. What we
have to add to what is already known is the proof that Op D Opie.-(T → -p) (T →
p) is a theorem of CI+WF→. The proof is as follows: 1) (p→4)3((p^r)→(g^r)) (p → 4) Р ((рА тр) → (g Л -р)) (р → q) D (1→ (фЛ -р)) (p→q) 00(93 p)) 5) 0(pハリ→う(T→(9つ(P^q)) 6) 0(pAg) → (pAq) →9)) 7) 0((p^4)つ(T→(92p^g)))WF, пр/т , 1= (pA-p) 3.Dejo' 4)p Ag/p (S →) 6), 5)0p 2 0p 7)T/9,DefD%,F D°p=Op MT2 (Sketch of the
proof) We simply have to show that the modal counterparts of the axioms of CI+
WF→ are valid in all serial and functional frames, that is in all serial and
functional models. We already know that the modal counterpart of the axioms of
CI hold in all serial models, so a fortiori in all serial and functional
models. We have simply to show that the modal counterpart of WF→ is valid in
every serial and functional model. This fact is established by the following
closed tableaux, where the first world w sees one and only one world w10, w'
The above wif is then KD!- valid and, by the completeness of KD!, a
KD!-theorem. Thus, since the wff D(p 5 q) 5 0((pAr) 5 (gAr)) is a theorem of
all normal systems of modal logic, (Op 3g)^(ogコ 0p)) 3 (口((pAr) コ(gAr))^(>gAr)コ•(pAr)) is a KD! theorem. But this
formula is the modal counterpart of WF→. This completes the proof of the
definitional equivalence of the two systems. The partial collapse of modal
distinctions which occurrs in KD! is mirrored by a counterintuitive theorem of
CI+WF→: as we can easily check by using the KD!-tableaux, a theorem of CI+ WF →
is the converse of Boethius Thesis, namely (CB) -(p→ ng) > (p → q) which can
be proved also in a -version. The preceding negative result about weak and
strong Factor Law casts a shadow over all systems of consequential implication
containing WE. The analytic fragment of the system named CA*1 in [14) contains
WF and, being closed under the replacement of material equivalents, it can be
proved to contain also the undesirable equivalence (p → q) = (q → p). This
system then has an interest only as a limit case of a connexive-consequential
system. Another example is given by McCall's system CFL, whose language does
not allow the iteration of arrows, CFL is axiomatized as follows: 1.(p-42((*→p)2(→g2(p34)つ(19コt)2(par)) 3. (p→9)コ((pAr)→(rAg))(pA(g^r))→((p^q) ^r)) (pA-p) - (qA-q) p - (pAp) (рАр) - р 9, -p → P ((p/9)→(P^→P)^(pV→4)) 3(p→g)) (р - 9) 3 -(р- -q) (9 → -p) 5 (p--g) pコ(p→ (pap)(p → (pp)) Рр The only primitive rules are Uniform Substitution and MP for 3. In CFL
p → (pOp) is assigned the meaning of "p is true" (not [p is
necessary]) and p - q turns out to be equivalent to (T → (p q)) A (q p). In
Meyer showed that if we define the arrow in this way: (*)A → B =Dj (A - 3B) ^
(A = B) then the first degree fragment of the systems S1-S5 is exactly CFL. The
result is unwelcome, since the arrow seems to identify a particular subclass of
material equivalences. On this subject, note also that we have (A - B) > (B
5 A) and ((A - B) A B) D A. So, if we want to interpret "—" as an
implicature connective (“implicazione conversazionale”), we have to face
something which recalls the fallacia consequentis. McCall sees two possible
ways to solve this problem: dropping the restriction to first degree wils, or
introducing axioms which are not equivalential. It is worth noticing that the
minimal system of consequential implication CIw satisfies both McCall's
conditions. Its formation rules are here unrestricted, while axiom (f), ie.
(L-p) > (p -L), is a simple example of a wff which does not admit Meyer's
interpretation: the wff ((1 -3p) Ap =1) 3 ((p- 3 1) Ap al) is in fact
underivable even in S5, so that (f) is not a theorem of CFL. However, a more direct
move would be to remove the factor law WE and replace it with some of its
weakened variants. If we introduce this modification it is no longer true that
the resulting system is coincident with the first degree fragment of S1-S5.
Note that (p - q) D ((pAr) - q) is neither a law of connexive logics, nor of
the logics of consequential implicature (“implicazione conversazionale”). If it
were, by substituting p for q we would have (pAr) - p, which is not a theorem
of consequential implication logics. If we call (p → q) > (pAr) - q) the
principle of monotonicity, we can then say that → symbolises a particular kind
of monotonic implicature (“implicazione conversazionale”). Add that also Weak
Factor may justifiably be said to express a monotonicity principle of implicature.
Thus the representation of the arrow as a symbol for aparticular kind of
non-monotonic implication receives a support from the fact that we have to
exclude Factor Law from logics of consequential implications and to work only
with suitable modifications of it. ANGELL, A propositional logic with
subjunctive, not indicative, conditionals, Journal of Symbolie Logic. ANGELL, R.B. Tre logiche dei condizionali congiuntivi
in Pizzi, cur. Leggi di Natura,
Modalità, Ipotesi, Feltrinelli, Milano; AQVIST, L. Modal Logic with Subjunctive
Conditionals and Dispositional Properties, Journal of Philosophical Logic,
CHELLAS, Modal Logic, Cambridge KIELKOPE, C. Formal Sentential Entailment,
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VINCENTIS, Implicature del Portico and Stoic Modalities, in Corsi, Mangione,
MUGNAI (si veda),Le teorie delle modaliti, Bologns, CLUBB, NELSON, Intensional
Relations, Mind, P., BOEZIO’s Thesis and conditional logic, Journal of
Philosophical Logic, P., Decision Procedures for Logics of Consequential
Implication, Notre Dame Journal of Formal Logic, P. Varieties of Non-Monotonie Conditionals,
in Carsetti, Mondadori, Sandri, Semantica, complessitá e linguaggio naturale,
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simplification invalid?, Notre Dame journal of Formal Logic, BENTHEM, Essays in
Logical Semantica, Reidel, Dordrecht. WILLIAMSON Verification, Falsification
and Cancellation in KT, Notre Dame Journal of Formal Logic. Claudio Pizzi. Pizzi. Keywords: la regola di Boezio,
la tragedia d’Ustica, il se, condizionale contro-fattico, Grice, il modo,
operatore di modo, cubo di Aristotele, il cubo dell’opposizione, opposizione
quadratica, opposizione cubica, prova, causa, probabilita, l’idea di causa,
‘Actions and Events’ – causa ed aitia – il significato di causa in Cicerone –
di causa a cosa – causa come latinismo – uso di cosa come causa – evoluzione
della cosa dalla causa – della causa della cosa – implicazione,
interplicazione, explicazione, interplicazione. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Pizzi” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.
Luigi Speranza -- Grice e Pizzorno: la ragione
conversazionale -- J. Grice è la politica assoluta – filosofia del sindacato,
filosofia fascista – filosofia veneta -- filosofia italiana -- Luigi Speranza (Trieste). Filosofo italiano. Trieste, Friuli,
Venezia Giulia. Studia a Torino. Insegna ad Urbino, Milano e Fiesole. Oltre agl’importanti
studi sulla materia sociologica conduce ricerche di sociologia economica e
politica, in special modo sulle organizzazioni sindacali e il conflitti di
classi sociali, sulla politica e i suoi aspetti, sui rapporti tra sistemi
politici ed economici nella società. Saggi: “Le V classi sociali” (Il Mulino);
“Comunità e razionalizzazione” (Einaudi); “Lotte operaie e sindacato”, “Le
regole del pluralismo”; “I soggetti del pluralismo”; “Classi, partiti,
sindacati (Bologna); “Le radici della politica assoluta” (Feltrinelli): “Il
potere dei giudici” ("Il nocciolo", Laterza); “Il velo della
diversità: studi su razionalità e ri-conoscimento (Feltrinelli); “Sulla maschera”
(Il Mulino). Treccani, Istituto
dell'Enciclopedia. Grice: “The reason why Pizzorno – bless his soul – does not
criticise fascism, is that he possibly finds his theory of ‘communitarianism,
razionalization and community, and the appeal to Tonnies’s community, almost
too fascist to be true! – it’s the ‘bund’ – and other fascist conceptions against
which i sindacati had to fight during the ventennio fascista!”. Grice: “The
pity with P. is that he focuses on sindacati as from 1968, when he was getting
drunk in Paris! He should have studied the sindicati during the veintennio
fascista!” -- Grice: “I am pleased that P. quotes me. He apparently says that
he is not into ‘conversation’ in the *sense* (senso) of Grice. Footnote there.
When the index was compiled, P., who is at Oxford at the time and could have
asked (or axed), had no idea what my Christian name was, so he follows
Speranza’s advice: ‘when you do not know the first name or Christian name use
‘John’’ – so he did. (The corollary to Speranza’s corollary is: when you don’t
know the surname, use ‘Smith’). So
Grice, J. I became in his name index!”. Avrei dovuto annotarmi il giorno
esatto, in fondo cambio la mia vita (se mai si può dire che ci sono giorni che
cambiano la vita di una persona), ricordo solo che era l'estate del 1953, e che
era la prima volta in assoluto che andavo a un colloquio di assunzione.
Probabilmente ero intimidito, ma non poi moltissimo, anzi, piuttosto
distaccato, perché quello che mi stava accadendo, o meglio, che si disegnava
come un'assai evanescente possibilità che accadesse, apparteneva a un mondo
cosi diverso da quello cui le mie vicende avevano appartenuto fino ad allora,
che il suo realizzarsi o meno non solo lo tenevo per incommensurabile con i
riferimenti di cui disponevo, ma non arrivava a suscitarmi nessuna precisa
emozione. La stagione parigina per il momento era inevitabilmente da chiudere.
Non avevo più lavoro fisso (da un anno non ero più lettore d'italiano ai licei
Louis Le Grand e Henry IV, e ci stavamo mantenendo, mia moglie Anne e io, con
il suo stipendio di giovane ingegnere in un laboratorio di disegno acronautico
e con miei incarichi saltuari e lezioni private). Concluso tra un anno il mio
diploma a Hautes Études, cosa avrei poi fatto? Mi avevano offerto un incarico
di Histoire et ciilisation italienne all'Università di Algeri. Non avevo detto
di no ed ero pronto ad accettarlo, un vagabondaggio dispersivo in più,
dopotutto, come lo erano stati gli anni di Vienna e di Parigi, ma questa volta
assai più per ripiego che per entusiasmo o curiosità; e speravo che mi
capitassero altre occasioni. Non erano quelli anni in cui le «occasioni» ti
capitavano addosso mentre camminavi per la strada, ma una me ne capito.
Il colloquio me lo aveva procurato un'amica dei tempi dell'università. Olivetti
sta cercando giovani laureati, mi scrisse, per aiutarlo a mettere in piedi
un'organizzazione culturale. Quando vieni a Torino ti vedrebbe
volentieri. Mi trovai così dall'altra parte di un tavolo al quale era
seduto Adriano Olivetti, che mi guardava, in quel modo che poi capii era il suo
naturale, non dritto in faccia, ma quasi di sottecchi, con uno sguardo che si
muoveva qua e là verso il basso, timidamente, si sarebbe detto, ma di cui si
capiva la cura di essere insieme gentile e seriamente interrogativo, e forse
celava un'attenzione a non imbarazzare l'altro. Gli raccontavo di quello che
avevo fatto a Parigi, il lettorato, le ricerche alla VIème Section di Hautes
Etudes. Non ricordo se accennai al lungo lavoro antropologicoteatrale
sulla «maschera», frutto di quelle ricerche, e che avevo appena finito. Se non
lo feci, malgrado mi stipasse ancora piena la mente, fu forse perché ero
trattenuto dall'incongruità di quel tema rispetto al mondo nel quale attraverso
quell'intervista mi si prospettava di farmi penetrare. Ma se la ragione era
questa sbagliavo. Non soltanto perché quel mondo, scopri poi, includeva
personaggi dai più vari e multicolori trascorsi culturali; ma anche perché, in
due sensi più specifici, uno facile da intuire, uno invece del tutto imprevedibile,
come si vedrà, proprio quel mio lavoro sarebbe stato una sorta di chiave di
entrata in quel mondo. Ritenni invece più appropriato raccontargli che nel
194849, con lo pseudonimo di Andrea Marini, avevo scritto diverse
corrispondenze da Parigi per «Comunità», allora settimanale, e che negli anni
successivi, quando ero a Vienna, per «Comunità» mensile avevo scritto alcuni
articoli di critica d'arte. Lui mi chiese se avessi mai sentito parlare di
«Economie et Humanisme», la rivista dei domenicani di sinistra, le cui idee,
seppi poi, erano molto vicine alle sue. No, non ne avevo mai sentito parlare, e
lui, per non imbarazzarmi, attenuò subito il rilievo di quella circostanza.
Cercò di spiegarmi a quale incarico mi avrebbe destinato se fossi andato a Ivrea.
Sarei stato assunto in fabbrica, ma il compito non avrebbe avuto a che fare con
le attività produttive, si sarebbe trattato piuttosto di un compito culturale,
fuori della fabbrica, non era ancora ben definito, lo si sarebbe definito un
po' alla volta. Non siesprimeva del tutto chiaramente, ma pensai che fosse
logico per me non capire situazioni così lontane dall'esperienza che avevo
avuto fino ad allora, e non feci troppe domande. Invece le ragioni della non
chiarezza erano altre, lo avrei capito in seguito, e quando lo capii mi trovai
davanti, come dirò, a scelte non facili. Nei giorni seguenti non dico che
dimenticai l'intervista, ma non ci pensai troppo, non contavo che avrebbe avuto
seguito, e poi, come succede in questi casi, anche per chi non abbia pratica
dell'eserciziario stoico, si mette in marcia la premeditatio malorum,
quell'operazione mentale che censura ogni pensiero sui possibili eventi
desiderabili, in modo da evitare che ci si debba sentire delusi se poi
tutt'altro succede. Andai a Roma, dov'erano i miei, che volevo far conoscere a
mia moglie, che avevo sposato in Francia, e anche per riuscire io a conoscere
qualcuno, dopo anni che di fatto mancavo dall'Italia. Inoltre, avevo mandato a
«Nuovi Argomenti», se ben ricordo consigliato da Franco Lucentini, mio compagno
di disoccupate riflessioni nei caffè della rue de Tournon, quel saggio sulla
«maschera» di cui ho appena parlato. Mi avevano risposto che il saggio era
piaciuto, ma era troppo lungo e poco adatto alla rivista. Era la solita risposta,
mi ero detto; ma poi aggiungevano che l'avevano passato a un loro lettore, Bobi
Bazlen, il quale ci teneva a parlarmene, eventualmente per consigliarmi cosa
fare. 2. Bobi Bazlen Si è scritto a iosa, a parer mio
esageratamente e imprecisamente, sul ruolo che ha avuto per una certa cultura
italiana questa sirena ombrosa e misteriosa, si è detto della sua influenza su
Montale per la scoperta di Svevo e di altre sue scoperte di scrittori marginali
e fuori della via maestra, e del suo gusto per l'inedito, l'anomalo,
l'inconsueto, il prezioso. Se ne è scritto molto, dicevo, e negli anni è
capitato anche a me di leggerne, ma allora, rientrando in Italia, pur
montaliano e sveviano di adolescenza com'ero, questo personaggio mi era
sconosciuto. Ne chiesi a Giampiero Carocci (credo che anche a lui fossi stato
indirizzato da Lucentini, perché in quei giorni, rientrando in Italia dopo
anni, andavo un po' a ten toni, soprattutto fuori da Torino, quanto
a incontrare persone interessanti); e lui mi parlò con molte, anche se
sibilline, esclamazioni elogiative, di questo Bobi Bazlen, delle sue vastissime
letture in molte lingue, del suo gusto raffinato e sicuro, della sua intuizione
critica e via discorrendo. Concludendo che era certo la persona più appropriata
per giudicare il mio saggio. I grandi elogi che Bobi Bazlen profondeva su
quel mio testo, quando, sorridente e cortesissimo, mi ricevette nel suo
appartamentino di via Margutta (o era via del Babuino?), per le vaste letture
antropologiche che vi trasparivano, di un tipo che nessuno in Italia, diceva,
si sognava di fare (ragione per la quale, del resto, era difficile pensare a
una rivista nella quale pubblicarlo...), per l'interesse della tesi che
esponevo e via discorrendo, mi lusingarono certamente assai; ma, senza sapere
veramente il perché, e pur ringraziando ripetutamente e con il dovuto
imbarazzo, rimanevo, come dire, un pochino sulle mie. Bazlen aveva letto bene
il mio testo senza darlo a vedere avevo
manovrato il discorso in modo da accertarmene , ma non volle entrare nella
discussione del contenuto, Il suo, capii, era un apprezzamento di gusto, di
pelle. E, forse influenzato dall'impressione di quell'incontro, quando lessi
molti anni dopo alcuni suoi scritti, Lettere all'editore (o un titolo simile),
mi sembrò di capire che quello era in genere il suo modo di giudicare.
Apparteneva, ne dedussi, a quel tipo di persone che leggono voracemente di
tutto, senza qualche piano preciso, e hanno la capacità di intuire
immediatamente quali siano le cose di qualità e quali le altre, o meglio, quali
avranno successo e quali no, ma non sanno articolarne le ragioni. Sanno
mostrare, in un testo, dove stia la pepita d'oro e dove la spazzatura, e quando
te lo mostrano non puoi che dargli ragione, ma si astengono poi dal tradurre i
loro giudizi in un linguaggio critico. Probabilmente perché rifiutano di
costringere le loro intuizioni in concetti disciplinati, concetti, voglio dire,
che siano ricevibili da una disciplina critica, e quindi sortoponibili a un
uditorio non familiare, in grado, per dir così, di valutarli autonomamente,
staccandosi dal dialogo diretto con la persona che li formula. Destinano i loro
giudizi a pochi intimi, sottovoce, quasi in a parte, pronti a ritrarsi di
fronte a chi li metta in discussione; che poi diresti che si sentirebbero
offesi, se, ascoltandoli, ti venisse di chiedergli «perché?» perché quel testo
lo ritengano di gran valore, e invece quell'altro buttar via; potrai tutt'al
più mormorate qualche sfumato accenno didissenso, questo lo sopportano, anche
se con esclamazioni di meraviglia per tale inaspettata non concordanza; o con
congedante freddezza, se il dissenso dovesse venir reiterato; ma la domanda di
spiegazioni no, non puoi farla, perché non saresti più uno dei loro, uno per il
quale le ragioni dei giudizi debbono rimanere ovvie, intese tra affini,
sigillanti l'implicita comune appartenenza. Chi abbia conosciuto Bobi
Bazlen meglio di me (io gli parlai a lungo solo quel pomeriggio, e poi un'altra
volta, in casa di amici, ma stava in un angolo sorridente e silenzioso, mi
accorsi che forse era timido), magari dissentirà da questa mia
caratterizzazione. Ma il tipo che mi sembrava di aver riconosciuto era
quello. Ed è un tipo che ritrovo in altri amici miei, pur diversissimi per più
di un tratto da Bobi Bazlen. Mi viene in mente, e la collego con il tipo che
sto cercando di ricostruire, una indimenticabile performance di Fruttero e
Lucentini in sei trasmissioni televisive, di alcuni anni fa. Gli era stato dato
l'incarico di commentare per il pubblico televisivo, ogni serata, un certo
numero di libri, recenti e no. Lo facevano pantofolando con grande agio e
ironia da una stanza all'altra di casa Fruttero, da uno scaffale all'altro,
prendendo un libro potevano essere i
Promessi Sposi, piuttosto che la Cousine Bette o Il mondo secondo Garp o invece
un romanzo appena uscito lo tenevano in
mano qualche secondo, se lo mostravano scambiandosi esclamazioni di
compiacimento, approvazione, entusiasmo o visibilio appena trattenuto,
raccontavano un po la trama, ma non più che in due parole, indicavano quali
erano i passaggi più straordinari, da non mancare, e quando avevano riposto il
libro su di un tavolo non si era ancora capito perché mai lo dovessimo ritenere
un bel libro. Uno spettacolo, fatto di nien te, ma a modo suo
esilarante. Uscii contento degli elogi ricevuti, si è sempre contenti
quando qualcuno ti dice anche solo di aver letto con interesse un testo che hai
appena scritto, e che magari sei insicuro che valga; ma senza che avessi
l'impressione, per dirla un po' volgarmente, di aver intascato un granché. Il
saggio non mi aveva detto dove avrei potuto pubblicarlo (me ne dimenticai, e
solo alcuni anni dopo Edgar Morin, a cui l'avevano dato da leggere, lo passo ai
«Cahiers Madeleine RenaultJean Louis Barrault», che lo fecero tradurre in
francese e lo pubblicarono), né mi aveva fatto altre proposte di collaborazione
o incontri. Insomma ero al punto diprima. Ripensavo soprattutto, andandomene
verso piazza di Spagna, a quella specie di elogio della «non professionalità»
sul quale Bazlen si era dilungato con esclamazioni e giudizi che mi argomentava
e amplificava come se fosse ovvio che dovessi condividerli (e non erano giudizi
estetici, in questo caso, ovviamente, ma etici; o forse, è vero, eticoestetici).
Essendo al corrente delle mie peregrinazioni fuori d'Italia, ed essendo al
corrente di quel mio, dopo tanto andare, essere ancora senza un mestiere (e lo
avevo informato che aspettavo una risposta da Adriano Olivetti per una
possibile assunzione), credette forse di mostrarmi amicizia dicendo che anche
lui era stato sempre senza un mestiere, perché appena si accorgeva che in
qualche modo stava per venire imprigionato nella gabbia anche dorata di un
mestiere si ritraeva, come per istintiva renitenza. E cosi che aveva sempre
conservato la sua libertà, concludeva. Io sorridevo annuendo, ma senza
contribuire con miei argomenti, perché di quel tipo di libertà mi sembrava di
aver già goduto in eccesso, e mi sentivo ben disposto a non ritrarmi se si
fosse aperta la porta di qualche gabbia dorata, come quella dell'Olivetti,
appunto. Ma forse la vera ragione, di fronte al suo elogio della non
professionalità, della mia renitenza ad andare al di là di quel mio annuire un
po' stac cato, era che quel mio testo stesso su cui ci eravamo
incontrati, pur non strettamente accademico, rifletteva per me chiaramente una
tensione verso qualche cosa che sarebbe proprio potuto diventare mestiere
(anche se poi il mestiere che ho acquisito, o che credo di aver acquisito, è
stato un po' diverso), frutto com'era di lunghi mesi di letture concentrate su
un preciso tema, giornate intere alla biblioteca del Musée de l'Homme, a
pranzare con un panino, storzi di chiarezza nell'esporre una tesi, rigore, o
speranza di rigore, nello sceverare la letteratura antropologica attendibile da
quella che non lo era. E in fondo ciò cui io ambivo era proprio di impadronirmi
meglio di quel mestiere. Sarebbe ora stata interrotta, quella mia tensione, nel
caso fossi entrato all'Olivetti? L'incontro con Bobi Bazlen mi aveva lasciato
al punto di prima. O così mi pareva. Ma mi sbagliavo, come si vedrà.
Quando si ha, era il mio caso, un gran rispetto per le vie segrete del destino,
ci si deve astenere dallo sforzo ibristico di immaginarne le tracce prima di calpestarle
veramente.Una settimana o due più tardi ricevetti una lettera che mi convocava
a Ivrea. Arrivai in questa città un po' sformata, cosi fuori dal mondo in cui
avevo vissuto fino a qualche mese prima, ma che sarebbe stata per tre anni la
mia non so quanto capace, durante quei
tre anni, di infondermi il sentimento che vi appartenessi, ma certo anche oggi,
dopo più di quarant'anni, rimasta ben distinta e pesante nella mia memoria ,
lasciai la valigia all'albergo Dora, che avrei imparato esser luogo celebrato
nel folklore del mondo dirigenziale Olivetti per incontri, intrighi, sollazzi e
imbarazzi, ritornai sui mici passi, oltrepassai la stazione, per imboccare la
ben acciottolata via Jervis, costeggiai la lunghissima facciata di vetro della
fabbrica, mi sembrava di scivolare lungo una pagina di «Domus» o «Casabella», e
salii al Sancta Sanctorum, cioè negli uffici della presidenza. Adriano Olivetti
era già da qualche tempo ma lato, mi dicono, ma intanto avrei potuto
incontrare qualche dirigente, Mi conduce prima degli altri nel suo ufficio,
gentilissimo, Ignazio Weiss, direttore del Servizio pubblicità, e il primo nome
che mi fa è, sorpresa! sorpresa!, quello di Bobi Bazlen, suo caro amico, mi
dice, il quale gli aveva parlato di me e del bel saggio che avevo scritto. Mi
fa i complimenti per i miei studi, si augura che io possa entrare all'Olivetti,
ma che stessi in guardia, mi avverte, il lavoro che mi avrebbero assegnato
poteva anche non corrispondere alle mie aspettative (non ne avevo), poteva
essere più semplice di quello che io ero in grado di fare (e io a quel punto
non mi sentivo davvero capace né di fare lavori semplici, né di farne di
complicati), ma proprio per questo anche noioso e magari deludente.
Incoraggiato da quell'accoglienza che lasciava prevedere un esito positivo del
processo dal quale senza merito e senza manifesta volontà ero ormai
risucchiato, gli strologai una complicata risposta sul fatto che anche quando i
compiti appaiono più facili di quanto si sia in grado di assolvere, rappresentano
pur sempre una sfida, perché il passare da impegni difficili a impegni facili
può in un certo senso considerarsi cosa difficile, e via cosi ingarbugliando.
Spero che abbia creduto che il mio ragionamento contenesse concetti più
profondi di quelli che in realtà conteneva, poiché, tradotto in soldoni, credo
consistesse nel dire niente più che quando a qualcuno fanno fare un lavoro poco
interessante è una bella noia per lui accettarlo, e se lo accetta, ma questo
punto era lasciato fuori dal concettoso ragionamento, lo fa solo perché lo
pagano bene. Poi passai nell'ufficio di Geno Pampaloni, che allora non
sapevo ancora fosse colui che esercitava il vero potere nei rapporti tra il
mondo della cultura e Adriano, e cioè la vera eminenza grigia di costui (o era
forse soltanto eminenza ligia, come sussurravano gli infaticabili ideatori di
maliziosi calembours aziendali? Ideatori del resto non da poco, avrei ben
presto imparato: erano Libero Bigiaretti, Franco Fortini, Egidio Bontante e
simili, i quali si divertivano a prendere di mira più di altri proprio il
povero e potente Pampaloni). Anche lui assai cordiale (ma la cordialità, si sa,
è l'immancabile sigla di questo tipo di incontri), mi disse che si era andato a
leggere con attenzione tutti i miei articoli su «Comunità», che gli erano
piaciuti, erano ben scritti, soprattutto le corrispondenze del 194849 dalla
Francia, aggiunse qualche altro complimento, e poi incominciò a spiegarmi
all'ingrosso cosa mi sarebbe stato chiesto di fare nel caso venissi assunto. Il
presidente (incominciavo a imparare che a Ivrea questo era il nome con cui
designarlo in colloqui ufficiali, «Adriano» quello parlando tra amici) voleva
dare impulso a una rete di centri sociali con bibliotechine che andava creando
in vari paesi del Canavese, e appoggiandosi su di queste voleva far nascere una
specie di movimento culturale non
politico, diceva, anche se naturalmente Olivetti una tendenza politica l'aveva,
di sinistra, ma né comunista né democristiana, forse vicina a quella che era
stata del Partito d'Azione, e aveva appoggiato Unità popolare contro la legge
truffa (era no, come sbagliarsi!, le stesse mie posizioni) e poi aveva le
sue idee su come trasformare il governo locale, l'idea di piccole comunità, che
io del resto conoscevo, e via discorrendo. Pensai che avrei capito meglio
quando l'avventura fosse incominciata, e tornai a Roma. Dopo pochi giorni
arrivò la notizia che ero stato assunto. Di fatto. Ma prima sembra che
occorresse un ulteriore passaggio formale, e di che natura fosse me lo chiari
(ma «chiarire», si vedrà subito, non è il verbo appropriato) un episodio che mi
resta ruttora insondabile, e che mi limiterò a raccontare esattamente come è
avvenuto (o come me lo ricordo, devo naturalmente di re; ma mi sforzerò
di mettere all'opera tutta la mia perspicacia mnemonica, facilitato del resto
dal racconto che a più di un amico feci immediatamente dopo, quando speravo
ancora che me lo decifrassero loro). Manca ancora un colloquio con il capo del
personale, mi disse Pampaloni, vai nell'ufficio del dottor Z. Il dottor
Z. mi aspettava, mi fece subito entrare, si sedette al suo tavolo, mi fece
sedere su di una sedia dall'altra parte del tavolo, io dissi: sono A.P., mi
hanno indicato di passare da lei. Sì lo so, rispose, e mi guardò. Aspettavo che
mi facesse qualche domanda, mi desse qualche istruzione, o insomma mi dicesse
qualche cosa, ma lui si limitava a guardarmi. Aveva sulla bocca un sorriso
stereotipato che non capivo bene se significasse incoraggiamento per me, o
imbarazzo per se stesso, Io gli restituivo lo sguardo, con un dovuto sorriso
timido, ma lui taceva. Cominciai a muovere lo sguardo sugli oggetti del tavolo,
sempre mantenendo il sorriso timido, che non avici saputo come mutare, ma lui
continuava a tacere e a sorridere enigmaticamente. Adesso mi dirà qualcosa,
pensavo, è già passato qualche minuto, e spostavo di quando in quando lo
sguardo anche sui mobili o sulle pareti. O forse che gli devo dire io qualcosa,
mi chiedevo, ma cosa posso dirgli? I minuti passavano, il silenzio totale
continuava. Forse si tratta di un test, mi dissi, vuol veder come reagisco al
silenzio, come mi comporto in una situazione imbarazzante (in quei giorni si
parlava molto di test strani cui venivano sottoposti futuri dirigenti
aziendali, per verificare come si comportavano in situazioni inattese). Ma più
che restare zitto non mi sembrava di poter fare. Forse gli devo raccontare
qualcosa di me, ma se lui non mi fa domande sarebbe sgarbato da parte mia
aprire il discorso. Dirgli che son contento di essere assunto all'Olivetti può
essere fuori luogo, perché ufficialmente l'assunzione non si è ancora
perfezionata. Così continuavo a tacere. E taceva lui. Il mio disagio
cresceva. Forse anche il suo? Come capirlo, la situazione continuava ad apparire
inscrutabile. Passarono diversi minuti. Quanti? Non potevo ovviamente guardare
l'orologio. Erano molti, moltissimi, nella mia percezione soggettiva. Dieci,
quindici? Come finirà, mi chiedevo, cercando di rilassarmi interiormente, e
aspettando la fine. Che non potrà mancare, mi ripetevo. La frasetta che
pronunciò alzandosi, l'unica, non la ricordo esattamente, sarà stata del tipo
«le auguro buon lavoro», o «spero che si troverà bene». Mi strinse la mano e mi
accompagno alla porta. Il silenzio era finito. Ero assunto alla Ico (In
gegner Camillo Olivetti) spa. (Gli amici cui raccontai l'episodionon seppero
spiegarmelo, e, stranamente, mi sembrò che non gli dessero importanza,
Esclusero l'ipotesi del test. Il dottor Z. lo ritrovai anni dopo, in una
circostanza anch'essa un po' imbarazzante, come racconterò, ma di altro
tipo.) Ero quindi diventato impiegato di un'azienda industriale di gran
prestigio, con regolare contratto del settore metalmeccanico. Quanto era
esattamente il mio stipendio? 120.000 lire al mese, poi quasi subito aumentate
a 140,000 se ricordo bene (nello stesso periodo sembra ci fossero stipendi, fra
i dirigenti, anche cinque o sei volte superiori, e più); ma, fossero state
anche meno, si trattava di uno stipendio contrattualmente stabilito, il primo
di questo tipo nella mia vita. Tutto ciò senza che potessi dire di aver
veramente scelto, o senza che fossi in grado di spiegare, se mi fosse capitato
di aprirmi con un amico, la parte che questa vicenda poteva rappresentare in un
mio progetto di vita. Forse avrei detto che si trattava di un'«esperienza»,
termine magico, si sa, che è sempre possibile invocare per giustificare a se
stessi e accreditare di fronte agli altri ogni attraversamento di giorni
difficili o strani. Almeno per chi è per
lo più il mio caso è riluttante a
sovrapporre lo schermo del «progetto di vita» alla figura velata, ma riposante,
del «destino». 4. Lavoro manuale, ma non davvero Una regola per gli
impiegati nuovi assunti, esclusi gli amministrativi, voleva che prima di venir
assegnati alla loro specifica mansione dovessero lavorare per un mese come
operai. Era un modo per far loro imparare a conoscere bene l'oggetto (che
allora era costituito dai vari tipi di macchine per scrivere e che non si dicesse da scrivere, veniva
raccomandato e per calcolo) che
l'organizzazione di cui entravano a far parte era impegnata a produrre e
vendere. Si trattava di un'esigenza di apprendimento, per dir così
terminologico, sapere cosa significavano i termini che designavano le centinaia
di pezzi di cui questo o quel tipo di macchina era composto; e naturalmente
sapere come funzionavano. Perché sarebbe potuto occorrere che ognuno, nel
compito specifico che svolgeva, vi si dovesse riferire. Ma si trattava anche,
più o meno esplicita, di un'esigenza moralistica: aver fatto provare a tutti i
dipendenti di che natura fosse il lavoro manuale della «produzione» (parola
mitica, questa, del linguaggio aziendale, con connotazioni moralistiche il cui
pieno valore avrei ben presto imparato ad apprezzare), quello da cui, come
impiegati, ricevevano il contenuto ultimo del loro compito, e simbolicamente
quindi parificare i lavoratori del braccio e quelli della mente. Era insomma
una sorta di rito di passaggio che siglava l'appartenenza di tutti alla stessa
comunità, in nome della moralità della produzione. Cosi fui messo anch'io
a lavorare manualmente in un reparto dove si aggiustavano macchine difettose.
Me ne stavo seduto a un banco, insieme con qualche diecina di altri operai in
un grande stanzone, a smontare e rimontare, macchine, secondo precise
istruzioni, senza far nessuna fatica fisica, e semmai, soprattutto all'inizio,
con qualche fatica intellettuale perché dovevo sforzarmi di capire le
istruzioni che ricevevo su come andavano rimessi insieme tutti quei pezzi. Non
c'erano costrizioni temporali per completare la mia parte di lavoro. Avevo
anche pochi rapporti con gli operai che lì intorno facevano, meglio di me, il
mio stesso lavoro, e l'unica cosa che mi accomunava a loro era la bottiglietta
di chinotto, bevanda di cui avevo ignorato l'esistenza fino a quel giorno, e
che adesso avevo imparato a tenere sul bancone vicino alla macchina,
sorseggiandola di tanto in tanto; e non perché avessi sete, ma perché mi
permetteva, facendo finta di bere, ma in realtà limitandomi a bagnare la
lingua, di interrompere di tanto in tanto il lavoro. Insomma, non sentivo di
essere coinvolto in un esperimento serio. L'unica costrizione, importante è
vero, viste le mie abitudini parigine, era quella di entrare in fabbrica e firmare
il cartellino alle sette e trenta in punto. La sveglia mattutina, le otto ore
di lavoro giornaliero, l'andarmi a coricare presto la sera, la sospensione del
lavoro intellettuale, avevano così ben regolarizzato il mio ritmo fisico, che
in un mese, ricordo esattamente, ingrassai di due chili (da 60 a 62, o da 62 a
64, non ricordo esattamente, ma giù di li). Davvero non un'esperienza
stremante. In quei giorni so che anche in altre fabbriche era d'uso la
stessa pratica di iniziazione degli impiegati nella comunità aziendale. E
probabile che da tempo se ne sia perso ovunque, nonché l'uso, il ricordo. Già
all'Olivetti quando vi fui sottoposto io era molto discussa per quella vaga
tinta di ipocrisia che la colorava. È vero che se fosse stata fatta seriamente
avrebbe accresciuto fra gli altrimembri della comunità aziendale la conoscenza
delle condizioni in cui lavoravano gli operai. Lavorare al montaggio, per
esempio, sotto costrizione di tempo, poteva dar l'idea di che cosa si provasse
a fare quel lavoro ma questo, d'altra
parte era difficile chiederlo a impiegati nuovi assunti, che avrebbero
ritardato il lavoro della linea (quella che in linguaggio giornalistico si
chiamava a quer tempi la «catena») in cui li si tosse inseriti. L'ipocrisia
stava nel far credere che chi lavora in un posto sapendo che ci resterà solo un
mese, passi attraverso la stessa esperienza di chi lavora a quello stesso posto
ma sapendo che ci resterà anni. E inoltre nel voler credere che l'esperienza
operaia che contava fosse quella delle condizioni tecnologiche, che si fa
durante le ore passate sul luogo del lavoro, e non quella delle condizioni
economiche, che si fa sui luoghi della vita, nelle ore dell'intera giornata e
degli anni. Una mattina chiesi un permesso, dissi che dovevo andare in un
ufficio lontano, o qualcosa di simile, sarei stato via una mezz'oretta, e
appena fuori mi intrufolai invece, quasi di soppiatto, nella biblioteca, che
era proprio li, vicino all'uscita dell'officina dove la voravo. Avevo
voglia di interrompere quelle ore di forzata assenza di pensiero con un minima
parentesi di attenzione intellettuale. Mi ricordo ancora nitidamente cosa
lessi: era il dibattito, in «Nuovi Argomenti» e in un altro paio di riviste
appena uscite, tra Ernesto De Martino e i suoi critici, sull'antropologia, se
dovesse essere storicistica o meno. Era estraniante leggere di questo dibattito
tra un montaggio di macchine e un altro. Ma era estraniante per me anche per
un'altra ragione. Negli anni precedenti in cui, a Hautes Études, i miei studi
erano stati essenzialmente di antropologia culturale, mai mi ero trovato di
fronte a un dibattito di quel tipo, così lontano dalla letteratura
antropologica internazionale, così impasticciato di terminologia crociana,
preoccupato più di definire i rapporti con Croce che con la ricerca che si
sviluppava nelle discipline antropologiche dove queste erano più avanzate e
scaltrite. Per cui, scuotendo la testa, tornai in officina, più incerto che mai
su cosa sarebbe successo di me in questo sovrapporsi di mondi diversi.
Dopo circa un mese, si avvicinava la fine del rito di passaggio, Pampaloni mi
chiamò e mi disse che lo si poteva concludere e che mi avrebbe mandato in giro
per il Canavese, sotto la guida di un dirigente locale del Movimento di Comunità,
per farmi visitare lebiblioteche comunali che si stavano organizzando, più
qualche altra delle iniziative del Movimento. Si sarebbe trattato di una specie
di ispezione e alla fine avrei dovuto scrivere un rapporto. Durante questa
esperienza di visite «sul campo», che durarono qualche settimana, mi furono
presentate altre persone che avrebbero potuto orientarmi sulla realtà sociale
della fabbrica. Mi accorsi ben presto che sia l'ambiente dirigenziale, sia
quello intellettuale, intorno ad Adriano Olivetti, erano radicalmente divisi.
Chi mi prese per mano a farmi percorrere e ricostruire i nervi del governo
olivettiano, che Pampaloni si limitava a delinearmi a fior di pelle, fu Franco
Momigliano, che allora reggeva quella che si chiamava la Direzione delle
relazioni interne, comprendente Servizio del personale, Servizi sociali e altre
funzioni affini. Momigliano era responsabile sindacale del Partito
d'Azione quando conobbe Adriano Olivetti, che lo assunse per occuparsi delle
relazioni del personale nella fabbrica di Ivrea, Era un liberalsocialista, di
colorazione vagamente marxista, ma senza nessuna ortodossia, semplicemente
incline a quella generica concezione economicistica, che più o meno tutti
avevamo nella pelle in quel periodo. Le categorie con cui analizzava la
situazione della fabbrica e dei rapporti tra proprietà e maestranze mi
sembrarono subito molto familiari ed efficaci, le conclusioni dell'analisi,
però, inaspettate. Per spiegare il senso della mia sorpresa sarà utile che io
qui ricostruisca l'atmosfera di quegli anni nell'industria italiana. 5.
L'eccezionalismo olivettiano Erano gli anni di quella che si può
convenire di chiamare, col gergo allora usato, la «controffensiva padronale».
Le elezioni del 1953, con il fallimento della cosiddetta «legge truffa»,
avevano bloccato il tentativo politico di emarginare le sinistre e di
escluderle da ogni interferenza sul governo del paese. Ma l'esigenza di chi
guidava la ricostruzione capitalistica dell'economia restava quella di
annullare, nei luoghi della produzione, l'autonomia che le maestranze avevano
conquistato durante gli anni immediatamente successivi alla liberazione.
L'offensiva fallita a livello elettorale si era quindi diretta verso i luoghi
dove si concentrava la classe operaia di persuasione comunista. Lo richiedevano
le esigenze del buon ordine produttivo, lo richiedevano soprattutto gli Stati
Uniti, che erano indignati, come si sforzava di far capire la famigerata
ambasciatrice Vera Luce, che nelle fabbriche italiane, anche quelle che
godevano di commesse americane, gli operai fossero rappresentati da
sindacalisti comunisti o loro alleati. O così almeno sembrava, e si diceva.
Anche se una domanda era lecita: erano veramente gli americani, cioè gli uomini
d'affari americani che trattavano con gli italiani, a essere così preoccupati,
o non piuttosto gli industriali italiani che volevano far intendere che fossero
gli americani a premere in quel senso? Mi ricordo che mi posi la questione un
giorno alcuni mesi dopo che ero
arrivato quando Pampaloni, nel discutere
i risultati delle elezioni della Commissione interna, che avevano di nuovo
registrato una maggioranza della Cgil, mi disse con tono allusivo, quasi fosse
una cosa di cui non bisognava parlare in giro, che questo risultato avrebbe
creato difficoltà all'Olivetti con gli americani. Lì per lì rimasi
impressionato, ma subito dopo mi chiesi se quell'aria di segreto non avesse
proprio lo scopo di farmi andare in giro a divulgare la notizia. Ero però, lo
sappiamo oggi, più diffidente del necessario, e avrei dovuto credere alle
convergenti allusioni di parte padronale e rumorose denunce delle sinistre: il
ricatto americano c'era, ed era esplicito e pesante, e operava, fra l'altro,
condizionando le commesse alle fabbriche italiane (ma l'Olivetti ne aveva meno
bisogno di altre) e soprattutto della Fiat, alla loro capacità di eliminare
l'egemonia della Cgil nelle commissioni interne e fra le maestranze!
Sostanzialmente il risultato che si voleva ottenere in quegli anni era quindi
la pace sociale nei luoghi della produzione, anche a costo di accettare una
limitata forma di condivisione del poterecon l'opposizione nei luoghi
istituzionali. Condivisione (si sarebbe chiamata poi, negli anni Settanta,
«consociativismo», quando il fenomeno divenne più esplicito) che era
inevitabile: la Costituzione repubblicana assegnava al Parlamento un ruolo
centrale, così che una minoranza forte, com'era quella delle sinistre già in
quegli anni, era in grado, volendolo, di bloccare i lavori parlamentari e
quindi l'opera del governo; senza contare il potere di scambio che poteva far
pesare sulla bilancia un partito che controllava le regioni rosse. Scambi di
favori legislativi e amministrativi, al centro e alla periferia, tra
maggioranza e opposizione, servivano a smussare il conflitto, che sarebbe
diventato drammatico se si fosse messo in opera con coerenza quanto era
contenuto nelle premesse dell'ideologia proclamata. Certo, servivano anche per,
come dire, ingrassare la macchina della politica, e ci potevano guadagnare gli
uni e gli altri, pur a spese della maggioranza dei cittadini, Dapprima limitati
e coperti, più tardi, negli anni Settan ta, tali rapporti sarebbero
diventati la regola. Nelle fabbriche, invece, gli interessi si
contrapponevano con immediatezza e l'offensiva era senza quartiere,
probabilmente anche animata da personali sentimenti di vendetta da parte delle
dirigenze industriali che, nei non lontani anni successivi alla liberazione,
avevano visto sfidata la loro autorità, quando non anche ferita la loro
dignità. Da qui, in molte di esse, il moltiplicarsi di licenziamenti arbitrari
di membri di Commissione interna e di attivisti sindacali in genere (fu a
proposito di uno di questi casi che udii in quegli anni per la prima volta il
nome di un operaio della Riv, che, quindici o venti anni dopo, mi sarebbe
diventato collega e molto amico, Aris Accornero), e anche di umiliazioni agli
operai comunisti, messi a spazzare i locali quando magari erano vecchi operai
abili nel loro lavoro specializzato, e contemporaneamente di corruzione di
sindacalisti. Leggendaria in quegli anni era la vicenda del cosiddetto «reparto
confino» (ufficialmente Officina sussidiaria ricambi) della Fiat. La
direzione vi aveva raccolto gli operai sindacalmente attivi, quasi tutti
comunisti, isolandoli completamente dal resto delle maestranze, obbligandoli,
operai qualificati o specializzati che erano, ai lavori più umili e inutili e
sottoponendoli ad angherie di ogni genere. Questi metodi erano possibili
sia perché perdurava (e andrà avanti almeno fino ai primi anni Sessanta) una
disoccupazioneche, pur decrescente, era sufficiente a mantenere alto, per un
operaio, il timore di perdere il posto; sia perché, come ho accennato prima, si
era formata una separazione tra livello politico e livello sindacalindustriale
nella strategia dell'opposizione. Come avrei imparato ben presto, appena
entrato in contatto con gli ambienti della Cgil, e come mi era stato invece
assolutamente impossibile capire quando vivevo all'esterno del mondo
industriale, il Partito comunista si interessava della situazione delle
fabbriche meno di quanto i sindacalisti di base, che erano isolati e depressi e
in perdita di consenso (era iniziata la serie di sconfitte nelle elezioni per
le commissioni interne sui luoghi di lavoro), sentivano di aver bisogno.
Togliatti viene a Torino e ci parla della situazione internazionale, mentre
alla Fiat funziona il reparto confino, mi disse un giorno un sindacalista
comunista. E ricordo ancora vividamente, alla fine degli anni Cinquanta, quando
partecipavo a un seminatio organizzato dalla Società umanitaria nella sua sede
di Meina, con quadri operai della Cgil, il racconto di un operaio comunista che
qualche anno prima era stato arrestato dalla polizia di Scelba. Mi rimane
nella memoria la sua particolareggiata descrizione delle torture che la polizia
infliggeva agli arrestati: alcuni venivano picchiati, ad altri schiacciavano i
testicoli, mi preciso. In questo clima generale la Olivetti era
l'eccezione. Non licenziamenti arbitrari, non reparti confino, non
maltrattamenti psicologici di operai, non corruzione di sindacalisti, non
interruzione degli incontri regolari tra la direzione e la Commissione in
terna, nella quale continuava a venir eletta una maggioranza della Cgil, senza
che la direzione prendesse provvedimenti repressivi, come appunto era comune in
altre fabbriche. Assunto in maniera così improvvisa ed enigmatica in questa
azienda, ero curioso di capire a cosa fosse dovuta la sua eccezionalità, di cui
avevo già sentito parlare. Soltanto alla bontà e onestà del padrone? Al
suo successo economico che sembrava folgorante? I colloqui che avevo con
Momigliano (e naturalmente anche con altri «in tellettuali di fabbrica»,
che un po' alla volta venivo a conoscere, soprattutto Michele Ranchetti, che
era l'assistente di Momigliano, e poi Libero Bigiaretti, Luciano Codignola,
Roberto Gui ducci, Antonio Carbonaro, Luigi Ortina, che era il capo
dell'otficina in cui avevo svolto il mio tirocinio di lavoro materiale, e lui
stesso figlio di un imprenditore, e qualche altro), mi permettevano un po' alla
volta non solo di dare una prima risposta all'ingenuo quesito iniziale, ma
anche di delineare un quadro per molti versi inaspettato. La tradizione
di buoni rapporti tra padrone e maestranze risaliva ai tempi di Camillo
Olivetti, fondatore dell'azienda e padre di Adriano. Ingegnere geniale,
imprenditore ardito, padrone bonario, di idee socialiste (aveva organizzato la
fuga di Turati in Svizzera nel 1926), la sua grande figura barbuta era rimasta
leggendaria tra i vecchi operai, e più d'uno, quando cominciai ad andare in
giro per la fabbrica per il mio lavoro, mi raccontava in tono affettuoso buffi
aneddoti su questo vecchio, morto una decina di anni prima. Adriano, al suo
ritorno dalla Svizzera dopo la guerra, aveva ripreso in mano l'azienda (che
durante gli anni di guerra era stata diretta dall'ingegner Gino Martinoli,
altro dirigente industriale di riconosciuto carisma, fratello della moglie di
Adriano) e continuato una politica di buone relazioni con il personale. Adriano
aveva, sì, dato un forte apporto innovativo all'azienda nella riorganizzazione
degli anni Trenta e continuava a darlo soprattutto con le sue intuizioni
originali nel campo pubblicitario e delle relazioni pubbliche, ma la
considerava piuttosto uno strumento per i suoi interessi di natura generalmente
culturalpolitica. O almeno, questo era il rimprovero che dall'interno
dell'azienda gli veniva fatto, soprattutto da quello che si poteva chiamare il
partito degli ingegneri. Non che costoro fossero nella loro maggioranza
reazionari e mirassero ad assimilare lo stile dei rapporti politici interni
all'Olivetti a quello delle altre grandi aziende italiane. Si trattava di
dirigenti in gran parte selezionati da Camillo, i più vecchi, o dallo stesso
Adriano, o da altri selezionatori che condividevano le sue posizioni. Ma essi
ritenevano che Adriano sacrificasse l'efficienza della fabbrica ai suoi scopi
di innovatore culturale, e questi li giudicavano un po' troppo grandiosi, sia
in relazione alla realtà eporediese (imparai allora che questo era l'aggettivo
che si riferiva alla città di Ivrea), che Adriano voleva trasformare facendone
un laboratorio esemplare di buon governo locale, sia soprattutto in relazione
alle sue ambizioni di giocare un ruolo trascinatore nel mondo della cultura
italiana e internazionale. Chi difendeva Adriano sosteneva che l'attività
culturale di Olivetti, i suoi rapporti con il mondo dell'arte,
dell'architettura e dell'urbanistica, cosi come delle scienze sociali e della
letteratura,producevano una tale ricaduta pubblicitaria, che tutto quello che
veniva sottratto agli investimenti in fabbrica ritornava dall'espansione di
mercato che in quel modo si otteneva. Mi ricordo che un giorno un operaio con
il quale parlavo dei progetti di Adriano mi obiettò, non capii se con ingenuità
o con cinismo, che tutto quello che si faceva era buona pubblicità che serviva
all'azienda, perché in fondo, cosa produceva la fabbrica? macchine per
scrivere, no? e chi doveva comprarle, se non quella gente li, gli
intellettuali, insomma! Altri sostenevano che soltanto rendendo la città di
Ivrea sopportabile a una borghesia colta si poteva far accettare al tecnici
d'elite di cui una fabbrica così avanzata aveva bisogno il sacrificio di
abitarvi (non c'erano ancora autostrade in quegli anni e la pendolarità con
Torino non era pensabile). Ma erano, come si vede, poco convincenti, o in ogni
caso parzialissime, giustificazioni funzionaliste. 6. Dialettica contro
paternalismo L'analisi di Momigliano muoveva da sinistra, ma concludeva
su posizioni che lo collocavano in qualche modo sulla stessa linea del partito
degli ingegneri. La sua critica era rivolta al paternalismo implicito, anche se
accorto e non sfacciato, di Adriano. Adriano, per i suoi fini, a volte dà agli
operai anche quanto non chiedono, mi diceva. In questo modo implicitamente li
corrompe, desta il sentimento di gratitudine, e per gli operai non è bene
sentirsi legati da gratitudine al padrone. Questi operai finiscono per essere
non soltanto dei privilegiati, ma anche dei viziati. Mi citò una volta un
episodio di alcuni rappresentanti operai della Cgil (di tendenza anarchica, se
ricordo bene) che dovevano andare a Torino al funerale di un sindacalista eroe
della resistenza. Sai cosa hanno chiesto alla direzione? esclamò: di essere
portati a Torino con una macchina dell'azienda! Te li immagini operai anarchici
o comunisti di quaranta o cinquanta anni fa chiedere favori di questo tipo al
«nemico di classe»! Occorreva invece, mi diceva, che i dipendenti dell'azienda
si ponessero con la direzione in rapporto dialettico (decisamente avrei dovuto
riabituarmi all'uso abbondantemente polisemico di questo termine che avevo
imparato come servisse ai miei amicifrancesi per ironizzare sul linguaggio
politico italiano), attraverso i loro rappresentanti, che questi avanzassero le
loro rivendicazioni, e se la direzione gliele concedeva, bene; se no, e se se
la sentivano, che entrassero in vertenza. La direzione, d'altra parte, doveva
dare quello che il mercato le permetteva di dare, non offrire il non richiesto,
soltanto perché in certi momenti il padrone aveva determinati motivi di
politica personale per fare il generoso. Il mio compito qui, mi diceva, è di
governare il personale facendo gli interessi di questa azienda sul mercato, e
insieme rendere possibile ai dipendenti di perseguire gli interessi loro
autonomamente, assicurando, fino a che mi è possibile, che non vengano alterate
le regole del gioco: e cioè impedendo sia ogni forma di repressione sindacale,
come quelle che si verificano nelle altre fabbriche italiane; sia ogni forma di
corruzione dei dipendenti da parte del padrone. (Fu del resto in uno di questi
colloqui che mi accenno alla possibilità, ancora non ben definita, che Adriano
intendesse formare un suo sindacato, inglobando, che in termini crudi voleva
dire comprando, quello che restava della Uil locale, collegarlo con il
Movimento di Comunità e cosi rovesciare l'egemonia della Cgil. In questo caso
lui si sarebbe rifiutato di concedere qualsiasi trattamento di favore a questo
nuovo sindacato padronale, anche se Adriano, come era probabile, glielo avesse
chiesto.) In altre parole, Momigliano vedeva il suo ruolo come quello del
rigido guardiano delle regole quali l'ordine giuridico del capitalismo le aveva
stabilite. All'interno di quest'ordine i capitalisti dovevano fare i
capitalisti, gli operai fare gli operai, e formarsi la loro coscienza di classe
antagonista grazie al confronto, appunto, dialettico nelle trattative
sindacali. Mentre mi esponeva le sue idee non mi fu difficile
riconoscerle come quelle di un lettore assiduo di Sorel (io stesso lo ero
stato). Glielo dissi, e riconobbe infatti non soltanto che da giovane aveva
letto appassionatamente Sorel, ma che suo padre era stato sindacalista
rivoluzionario e seguace del pensatore francese. Non gli dissi invece che la
sua strategia mi ricordava un'altra figura, di cui probabilmente lui non aveva
sentito il nome (e mi sarebbe stato troppo complicato, e non interamente
lusinghiero, illustrarglielo), quella di Bug Jargal, il protagonista di 1793,
il romanzo di Victor Hugo sulla rivoluzione di Haiti. Bug Jargal era il
capociurma dei lavoratori schiavi del maggiore proprietario agricolo delpaese.
Esercitava il suo compito in nome del padrone, nella maniera più rigida e
crudele, non risparmiava una sola delle fustigazioni o altre punizioni che la
legge del luogo prescriveva, e verso la quale in tal modo attirava l'odio degli
schiavi. Quando la rivoluzione scoppia, viene alla luce che Bug Jargal ne era
l'ideatore e il cape. E il successo della rivoluzione sarà dovuto proprio
all'odio contro i padroni stranieri che i modi tirannici di Bug Jargal avevano
contribuito ad attizzare tra la popolazione. Non leggo quel romanzo da oltre
cinquant'anni, e forse il mio riassunto non corrisponde esattamente alla trama,
ma cosi me la ricordo, e cosi è rimasta in me da allora come metafora del
dilemma drammatico di chi vuol conseguire il bene passando per il male, e, più
precisa mente, di chi vuol risvegliare la coscienza di quelli che ama,
presentandosi come il male che in tal modo, facendosi odiare, insegna a odiare.
Dilemma che si affaccia, anche se copertamente, in più di un rapporto, che
voglia essere eroico, di amore e formazione, fra genitore e figlio, per
esempio, o fra maestro e allievo, che Nietzsche più di ogni altro ha
scandagliato, e che Sorel appunto ha saputo intravedere anche nella costruzione
della politica rivoluzionaria. Naturalmente l'abbraccio in cui scoprivo
allacciati gli operai dell'Olivetti e il direttore Momigliano non aveva questa
drammaticità. Non solo perché Momigliano non faceva fustigare nessun operaio,
né, fosse anche venuto il momento, avrebbe capeggiato nessuna rivoluzione, ma
soprattutto perché le regole cui quei rapporti con il personale ubbidivano non
istigavano odi né impulsi rivoluzionari. Il merito di Momigliano era appunto
quello di saper mantenere i rapporti su quel tono di corretta intransigenza e
di osservanza di regole trasparenti. Ammiravo Momigliano e lo sentivo
congeniale quando discutevamo. Mi piaceva la sua moralità secca, senza
pleonastici ricami ideologici o fervori umanitari, una moralità laica per
eccellenza. II realismo delle sue analisi derivava dalle categorie economiche
che usava per determinare i moventi dell'agire dei soggetti con i quali aveva a
che fare, il realismo delle sue scelte personali derivava dalle categorie
giuridiche che usava per definire i ruoli suo e degli altri. Pensavo che fosse
giusto il suo modo di vedere la situazione e il modo di muoversi in essa. Che poi
occorresse anche prevenire che tra gli operai nascesse gratitudine verso il
padrone mi giungeva come un giudizio rivelatore cui non mi era difficile
aderire in teoria (avevo già a suo tempo riflettuto sul caso Bug Jargal), ma
sul quale potevo aver qualche esitazione in pratica. L'opposizione al formarsi
di qualsiasi sindacato giallo, invece, coincideva con le mie convinzioni di
sempre, e non avevo dubbi che sarei stato dalla parte di Momigliano e contro
Adriano se l'evento si fosse verificato (e vedremo che cosi fu). 7.
Rifiuto Comunità Queste analisi della situazione politica della fabbrica
influenzavano ovviamente l'animo con cui stavo conducendo il mio compito di
ispezione dei centri comunitari del Canavese. Certo non era senza una qualche
attrazione per un intellettuale capitare in quel di Aglie o Pavone o Strambino
(eravamo, si ricordi, nel 1953) ed entrare in una sala pulita e ben illuminata,
con tavoli e seggiole, a volte anche qualche persona che leggeva, e vedere
negli scaffali alle pareti allineati i volumi delle edizioni Einaudi o Laterza
o Editori Riuniti o altri di quel genere. Ma poi parlavo con il responsabile
del centro e mi accorgevo che non molto vi succedeva, che se c'era qualche
segno di vita associativa, mostrava ben poca vivacità e autonomia, e che se un
significato poteva avere la presenza di quella biblioteca in quel paesetto,
era, oltre che di farci venire al sabato qualche operaio della fabbrica che
pendolava gli altri giorni con Ivrea, quello di attrarvi qualche giovane che in
fabbrica non ci andava ancora, ma sperava di potersi far assumere un giorno
proprio grazie al mostrarsi interessato alle attività del centro co
munitario del suo paese, Segretario del Movimento di Comunità del
Canavese era allora Barolini, uno scrittore colto e gentile, sposato a
un'americana, il quale non aveva più voglia di fare quel mestiere e voleva
tornarsene in America (probabilmente, ma non ricordo bene, con una posizione
nella Olivetti americana, che si andava sviluppando in quegli anni). Si era
mostrato subito cordialissimo con me; capii più tardi, però, scontata la sua
naturale gentilezza, il senso di quella cordialità immediata, quando mi accorsi
che Adriano, o, meglio, Pampaloni, aveva in mente di offrire a me la sua
carica, e Barolini non vedeva di meglio che qualcuno arrivasse presto a
sostituirlo. Ma un po' per le ragioni che ho già detto, un po' per come nel
frattempo, con l'aiuto di Momigliano e degli altri amici, riuscivo, o mi
sembrava di riuscire, ad analizzare la situazione complessiva, e in particolare
i rapporti tra il movimento culturale e l'azienda in quanto tale, io andavo
rapportando a Pampaloni valutazioni abbastanza negative di quello che
osservavo, e quando a un certo punto, dopo qualche settimana, lui mi propose di
diventare segretario di Comunità nel Canavese e impegnarmi a risollevare la
situazione trovando modi di ravvivare l'attività dei centri, gli risposi che
non ero interessato e che preferivo svolgere qualche compito nel quadro
dell'azienda vera e propria. Mi ricordo che alla fine di quel colloquio alzò la
cornetta del telefono, chiamò Momigliano e gli disse: «Hai vinto tu anche
questa volta». Poi continuò dicendo che ora si poneva la questione di
assegnarmi qualche mansione nell'organizzazione aziendale e che a questo doveva
pensarci la Direzione delle relazioni interne, quindi lui,
Momigliano. A guardar bene, questa mia vicenda era stata scandita da un
doppia finzione. Olivetti mi aveva assunto per un compito che al momento di
assumermi non aveva chiarito bene in che cosa consistesse, e questo perché non
voleva farmi capire che, con uno stipendio pagato dalla società, in realtà
voleva farmi svolgere un lavoro funzionale ai suoi fini privati, che poi
sarebbero diventati, nel lungo periodo, fini politici. Né era stato molto più
trasparente Pampaloni quando mi aveva indicato il compito specifico per quelle
prime settimane di rodaggio. Io d'altra parte, rifiutando un incarico che si
era andato chiarendo dopo che ero stato assunto e assunto con un contratto di
impiegato metalmeccanico, mi facevo forte della posizione sicura in cui ero
stato messo da quel con tratto. Mi sono spesso domandato se avrei avuto
lo stesso coraggio di rifiutare nel caso in cui l'alternativa fosse stata non
il riassorbimento nell'organizzazione aziendale, bensi il licenziamento e
quindi la disoccupazione nuda e cruda. (Vero è che, come racconterò fra poco,
la scelta mi si ripresento implicitamente tre anni dopo, e non esitai a
scegliere una assai probabile, e poi, ahimè!, realizzatasi, condizione di
disoccupato. Ma allora erano passati tre anni decisivi, in cui mi ero
rafforzato, avevo acquistato amici che sapevano apprezzare le scelte che
facevo, non ero più il tremante studente di Hautes Études, che aveva appena
lasciato la buia stanza dell'Hotel Marignan, in rue du Sommerard, nel
Cinquième.)In ogni caso presi quella decisione senza troppo riflettere sulle
conseguenze. L'unica difficoltà fu nel rimanere fermamente negativo durante il
colloquio con Pampaloni, per il quale provavo simpatia, anche se di un tipo del
tutto diverso da quella che provavo per Momigliano. Come del resto diversissime
erano le due personalità. Di finissima cultura letteraria ed elegante critico,
a Pampaloni era del tutto estranea la moralità contrattualistica rigorosa che
guidava Momigliano. Non mirava a metterti con le spalle al muro per via di
logica, piuttosto a sedurti con allusioni, ed era dovuto probabilmente a questo
stile il suo successo con Adriano, del cui cuore tenne in mano per un periodo
entrambe le chiavi. Sembrava allo stesso tempo capace di tortuose strategie
volte all'accrescimento del suo potere e di autodistruttivi, imbarazzanti
coinvolgimenti sentimentali. E l'avversione che poteva provocare il suo
machiavellismo veniva coperta dalla simpatia con cui si guardava alla sua
ingenuità, in fondo generosa. Cattolico di sinistra tormentato, quasi figura
uscita da un romanzo di Bernanos o di Mauriac, non era chiaro se si trovasse
più a suo agio nei nidi di vipere o nei nidi di colombe. Lui, a dir il vero,
preferiva dichiarare la sua ispirazione a Péguy, il cui cattolicesimo impegnato
e vicino a idee socialiste offriva un modello di più immediato riferimento per
il mondo entro il quale Pampaloni in quegli anni voleva muoversi. Ma sia il suo
stile letterario così diverso dal tono
alto, a respiri lunghi, di Péguy sia le
vicende politiche e giornalistiche in cui finirà per trovarsi coinvolto, hanno
finito per pottarlo lontano anni luce dall'immagine eroicosacrificale che ci è
rimasta dello scrittore francese. A lungo rimasi incerto su come valutarlo, o,
meglio, su come capirlo. Qualche hanno fa vidi in libreria e immediatamente
comprai un suo libro, Fedele alle amicizie, che è una raccolta di suoi articoli
ordinati in modo da comporre una specie di autobiografia. Ritrovai la sua prosa
sapientemente evocativa, lo stretto controllo di ogni narcisismo, il suo
raccogliere le «cose viste» e offrirle come un servizio al lettore. Un lungo
pezzo sulla «saga degli Olivetti», impeccabile per le cose che diceva,
deludente per quelle che taceva, lui che tanto aveva visto e avrebbe potuto
dire, Allora capii qualcosa del suo doppio modo di stare al mondo. Quello di
viverne, senza troppo discriminare, le strategie, gli intrighi, come anche gli
impegni generosi di parte e di amicizia; e quello, invece, di rappresentarlo
agli altri attraverso la letteratura, scegliendo con tocchi leggeri ed
evocativi gli aspetti che proteggano il lettore, e in conclusione se stesso, da
ogni scavo della realtà che sia un po' meno accessibile di quella che non sta
proprio li sotto i nostri occhi. Cosi evita possibili drammatizzanti faccia a
faccia con l'inaspettato e il discrepante, e può invece passare alla pagina che
segue con il sorriso dell'accomodante e un po' ironica nostalgia. Non so se ho
raccolto i frammenti giusti di questa persona che in fondo ho conosciuto assai
poco. So però che le due o tre volte che lo reincontrai dopo Ivrea provai una
non forzata simpatia, e che quando mi disse che aveva letto alcuni mici scritti
e me li elogiò, me ne inorgoglii. 8. Spiegare la fabbrica Ero
rimasto senza compiti precisi e Momigliano ebbe l'idea di affidarmene uno nel
quale erano falliti, nel corso degli anni, tutti quelli che ci si erano
provati: redigere il manuale di fabbrica. Molte aziende americane, e qualche azienda
italiana, avevano pubblicato, in una forma o nell'altra, e distribuito ai
dipendenti, un libretto, la cui funzione consisteva nel cercar di far conoscere
agli operai la fabbrica nella sua complessità; con l'idea che, al di la di quel
settore con cui ognuno si trovava direttamente in contatto per le sue mansioni,
l'insieme della struttura produttiva era probabile restasse a molti abbastanza
misteriosa. Cosi l'operaio si sarebbe sentito parte della fabbrica, e chissà
che anche la produttività non ne avrebbe ricevuto vantaggio. O cosi si
immaginava potesse essere. La gran parte delle aziende italiane mancava di
questo manuale perché non era interessata, anzi probabilmente era contraria, a
che gli operai avessero una conoscenza della fabbrica più ampia di quella strettamente
funzionale al loro lavoro specifico. I sindacati d'altra parte temevano che
l'azienda descrivesse la realtà della fabbrica in maniera diversa da come la
descrivevano loro, e gli sottraessero quel monopolio, per dir così, delle
definizioni della realtà produttiva che per lo più detenevano. All'Olivetti,
invece, più di un dirigente, e Adriano stesso, ritenevano utile che l'azienda
si fornisse di un simile strumento, ma i timori su come esso si potesse
presentare erano molti, e così i timori che i sindacati reagissero
negativamente, e ne nascessero grane inutili.Momigliano mi illustrò tutte
queste difficoltà, mi raccontò dei vari tentativi andati a male, mi forni una
pila di manuali di fabbriche americane di vario genere e di altra
documentazione già esistente sull'Olivetti e mi elencò le qualità che il
prodotto che mi era stato affidato doveva possedere. Doveva essere
assolutamente obiettivo e neutro, senza valutazioni negative o positive di
questa o quella situazione lavorativa, doveva descrivere le diverse componenti
del processo produttivo e i rapporti di interdipendenza fra di esse, e la loro
rispettiva posizione nel flusso della progettazione, fabbricazione, montaggio e
distribuzione del prodotto. Linguaggio secco, senza fioriture e tanto
meno imbonimenti (di cui abbondavano i manuali americani che mi lessi
rapidamente senza troppo frutto) e tecnicamente preciso, ma semplice, alla
portata di un operaio comune. Mi son chiesto poi se Momigliano, che già
nell'illustrarmi le difficoltà aveva a malapena nascosto il suo pessimismo
sulla realizzabilità dell'impresa, non avesse gia deciso che quel manuale era
meglio non si facesse, e mi avesse proposto di lavorarci per trovarmi un
compito che mi tenesse nella sua Direzione, e nel frattempo mi permettesse di
impadronirmi dei dettagli dell'organizzazione aziendale, Avrei infatti dovuto
andare in giro per la fabbrica, capire la natura delle lavorazioni e della
logica produttiva, parlare con chiunque potesse farmi capire questo o
quell'aspetto dell'organizzazione aziendale, ingegneri, capi intermedi e operai
(ma con gli operai non avrei potuto parlare senza passare per il capo reparto),
e discutere sia del loro lavoro specifico, sia della visione d'insieme che si
facevano dell'organizzazione e della posizione produttiva in cui erano
collocati. Di tutte queste informazioni, era il compito, traessi
l'essenza e mi mettessi a scrivere un limpido manualetto! Mi fu subito chiaro
che, qualunque fosse stato l'esito, il valore di apprendimento che avrebbe avuto
per me il compito in cui stavo impegnandomi sarebbe stato assai superiore al
possibile valore che il prodotto avrebbe potuto avere se mai fosse arrivato
nelle mani di altri. Avevo tutte le ragioni visibili di mettermi
all'opera con entusiasmo. Se ne aggiungeva però anche una invisibile, che la
memoria è ora quasi riluttante a far affiorare tanto si presenta con la
parvenza di un'improbabile testimonianza di ingenuità. Ma tant'è, perché ancora
una volta non cedere alla sollecitazione maieuticache ogni scrivere del proprio
passato esercita sui sentimenti più remoti? La ragione cui mi
riferisco è questa. Intorno ai sedicivent'anni (spero di non sbagliarmi troppo
indicando quell'età) io mi ritrovai a provare un intenso e, ora mi sembra,
inspiegabile e quasi incredibile desiderio di capire esattamente, voglio dire,
nel dettaglio dei gesti, in che cosa consistessero esattamente gli atti del
«la vorare». Non avevo infatti mai visto una persona nell'atto di fare un
lavoro produttivo. Del resto l'attributo «produttivo» è troppo specifico, e non
credo che allora mi fosse presente. Era il lavoro fisico in quanto tale che non
sapevo che apparenza avesse. Si noti che a quell'età, differentemente da tanti
mici compagni, trovandomi in Eritrea del tutto isolato per molti anni dalla mia
famiglia, io avevo già lavorato per guadagno, avevo lavorato come dattilografo
in uno studio di avvocato, poi come produttore di una piccola agenzia di
pubblicità, avevo fatto il capomagazzino e capo zona in un'organizzazione
di lotta contro le cavallette nel bassopiano sudanese, avevo dato lezioni
private di storia e filosofia per il liceo. Ma evidentemente non consideravo
che quello fosse lavoro. Né, prima, consideravo che tosse lavoro quello che
vedevo tate a mio padre, o a tutti quelli che lavoravano con lui negli uffici
che, quando andavo a prenderlo, visitavo. Si potrebbe quasi dire che
avessi e senza averlo ricevuto dai
libri, perché nessuno mi aveva certo spiegato Marx al liceo un senso innato della distinzione marxiana
tra lavoro produttivo e lavoro improduttivo. Di che gesti era fatto, insomma,
il lavoro materiale? Gli anni passati all'università tra filosofi o a Vienna
tra artisti o a Parigi tra antropologi e antichisti non solo non mi avevano
ovviamente dato la risposta (eppure era solo un'immagine che chiedevo, non
avrei avuto bisogno dopo tutto di vedere più che qualche documentario, ma a
quei tempi non ne giravano su questo tema, o erano irrealistici); ma avevano
semmai ispessito l'arcano di quella mia curiosità. Ecco che ora mi veniva
assegnato proprio il compito di descrivere il lavoro materiale dell'uomo, e
nella sua forma più moderna. Avrei non soltanto osservato la variegata
tipologia dei possibili gesti del lavoro, ma avrei imparato che esistono metodi
per descriverli e misurarli scientificamente (sarei cioè entrato in contatto
con quella sorta di metalavoro che svolgono coloro che operano all'Ufficio
tempi e metodi, di cui incominciavo a sentir parlate come di una realtà
misteriosa e dominante); avrei capito, o cercato di capire, i problemi che il
lavoro generava per la persona che lo compiva e per chi doveva coordinarlo. Mi
tardava di mettermi all'opera. Pensai di farmi anzitutto un'idea
d'insieme dell'organizzazione parlando con qualche ingegnere che fosse in
posizione un po' meno specializzata di altri, al quale mi avrebbero presentato
Momigliano o Ranchetti. La mia ignoranza della realtà di un'azienda era
assoluta. Persino apprendere che un'organizzazione aziendale si divideva in
amministrazione, produzione, distribuzione, che ognuna di queste componenti
dipendeva da una direzione separata, che la produzione era composta di
progettazione, attrezzaggio, fabbricazione e montaggio; che la progettazione
era il cervello dell'azienda, dove lavoravano gli ingegneri più originali e prestigiosi,
artisti del disegno di macchine; che l'attrezzaggio, dove si costruivano le
macchine utensili, cioè le macchine per costruire macchine, era l'officina dove
lavoravano gli operai specializzati, i migliori operai della fabbrica, per
preparare i quali, lungo cinque anni di studio teorico e manuale, l'azienda
possedeva un apposito severissimo istituto tecnico per meccanici, e che questi
operai erano anch'essi da considerare un po' come degli artisti nel loro
mestiere, guardati con ammirazione e invidia dagli altri operai, e non soltanto
per la loro posizione salariale, ma perché la loro figura appariva quasi come
quella di un'élite leggendaria nel folklore aziendale; che la fabbrica era
divisa in officine, le officine in reparti, i reparti in squadre persino queste nozioni elementari, che avrei
potuto quasi tutte apprendere dalla lettura di qualche libro di testo di
organizzazione aziendale (di cui del resto incominciavo a fornirmi, e che mi
proponevano letture, non sto a dirlo, cosi stridentemente discrepanti rispetto
a tutte quelle che avevo fatto fino ad allora), erano una scoperta viva per me.
Mi inoltravo passo a passo in questo ambiente, che, familiarissimo a tutti
coloro che mi attorniavano, si presentava invece a me come una terra incognita
e avvincente. Avvicinavo con apprensione dirigenti di questa o quella
divisione, capiofficina e, con ancor più interesse, perché erano di origine
operaia e avevano asceso la gerarchia aziendale, capireparto e capisquadra timoroso che le domande che avrei fatto
potessero tradire la mia ignoranza, o che addirittura mi venisseopposta
preliminarmente l'inutilità del lavoro che andavo facendo. A volte, essendomi
prima informato di chi fosse la persona da cui sarei andato, e avendone
ricevuto giudizi di rispetto e notazioni sul prestigio di cui costui godeva in
fabbrica, si acuiva il mio interesse a parlarle, ma anche la mia timidezza nel
presentarmi. In questo modo andavo costruendo un po' alla volta l'ambiente
della fabbrica come una cerchia di riconoscimento (per usare un termine che non
usavo allora, ma che mi è familiare oggi come appartenente alla teoria nella
quale, continuando a pensare a quelle cose, sono andato ingrovigliandomi), cioè
come un ambiente in cui le persone si muovevano quasi davanti a sguardi virtuali
dai quali si sentivano valutati e dai quali il loro lavoro riceveva senso e
ambizione. Un intellettuale senza radici
come mi sentivo certamente io in quel momento, essendo state oramai
trascinate via da successivi venti le esili radici che mi avevano tenuto
precariamente fisso a questo o quel terreno, negli anni dell'università a
Torino o in quelli di Vienna o di Parigi
un intellettuale senza radici, dicevo, è generalmente capace soltanto di
immaginare cerchie di riconoscimento che siano pubbliche, che appaiono forti e
ambite solo appunto perché pubbliche, cioè sanzionate attraverso comunicazioni
che circolano apertamente tra tutti, per giornali, libri, premi, onori,
celebrazioni, nomine istituzionali. Più tardi avrei imparato che anche per gli intellettuali
esistono, e tali da vincolarli intimamente, cerchie locali, assai limitatamente
aperte al pubblico: gli studenti, i colleghi di un'università o di un istituto
di ricerca o di un giornale, i propri pari di una determinata disciplina. Ma li
trovavo una cerchia che si chiudeva all'interno di una fabbrica e del suo
intorno formato da una piccola città più qualche paese, e chiuso in questa
cerchia vedevo costituirsi un sistema di moralità forte, in cui le persone, per
la qualità del loro lavoro, ma non solo, venivano giudicate, ammirate, imitate
o evitate, fatte oggetto di affabulazioni e leggende e motteggi, cui
conseguivano rispetto o disprezzo, deferenza o dileggio o noncuranza, ma senza
che tutto questo fuoriuscisse, trovasse corrispondenza in cerchie estranee, si
comunicasse a persone non coinvolte. Cosi mi sorprendevo a speculare su come
fosse diverso per i Pampaloni, i Momigliano, i Michele Ranchet ti, i
Libero Bigiaretti, i Luciano Codignola, i Marco Forti, gli Ottiero Ottieri, i
Giovanni Giudici, il senso di ciò che facevano inquella fabbrica, del prestigio
che vi potevano godere, dei riconoscimenti da cui si facevano definire. La loro
vera identità si era costituita, o, almeno, mirava a costituirsi, in un mondo
diverso, tra intellettuali, cioè tra professionisti del far circolare il nome
dei degni di riconoscimento tra una cerchia larga di pubblico anche remoto;
quell'identità ognuno di loro avrebbe poi potuto arricchirla, ma a suo
beneplacito, se gli fosse convenuto, con i giudizi che riceveva da quanto
faceva nella fabbrica. Come era differente, voglio dire, il senso dell'attività
che costoro andavano svolgendo quotidianamente dal senso del lavoro
dell'operaio attrezzista Giovanni Bovero, del caporeparto Giorgio Pautasso,
dell'ingegner Carlo Corniglia e così via e così via, tutto racchiuso, quel
senso, nella tensione verso il prestigio che un po' alla volta si era formato
fra i compagni di lavoro, fra i superiori, nella loro officina, poi per «voci»
nelle altre officine, poi magari tra qualche conoscente fuori fabbrica: ché era
questa la realtà che gli permetteva di pensare a se stessi con un po' di
orgoglio, pur senza che nulla si trasmettesse a chi era fuori portata di quelle
«voci». E mi sembrava di poter estendere queste considerazioni alla
situazione esistenziale dello stesso Adriano Olivetti e all'ambiguità
dell'immagine che di lui si disegnava in azienda (in ditta, come si usava
dire), al cui riconoscimento in qualche modo egli sfuggiva. per la molteplicità
delle cerchie remote, ed estranee alla ditta, davanti alle quali, da gran
signore della cultura internazionale, egli andava rappresentandosi. Apparteneva
troppo poco a loro, ai suoi dipendenti, intendo, quel personaggio, troppo ricco
di un patrimonio simbolico che andava cumulando per il mondo senza che loro vi
partecipassero, e neppure ne capissero esattamente la natura, quando pur lui
utilizzava il patrimonio materiale che proprio il loro lavoro gli
forniva. Andavo facendo queste riflessioni, o mi sembra che andassi
facendo allora queste riflessioni, mentre entravo in contatto con una realtà
che chiunque avrebbe considerato delle più normali; ma io mi trovavo in quello
stato d'animo stupito e prensile, proprio di chi viaggia per un paese
sconosciuto di cui ha sentito a lungo e vagamente parlare e ogni osservazione
che va raccogliendo gli offre l'occasione per completare qualche percorso
cognitivo già tracciato a casa propria, ma rimasto sospeso fino all'affiorare
di questo o quell'inedito frammento di realtà.Ho sottolineato che quelle
riflessioni «mi sembrava» che le facessi, perché è probabile che allora non ci
fosse nulla di più preciso che il sentimento nebuloso che avrei potuto farle.
Soltanto in seguito maturerà lentamente in me la curiosità di capir meglio la
vera natura del fenomeno della reputazione, del prestigio, della fama, che è
poi a dire, con un termine comprensivo, del riconoscimento con cui gli altri ci
definiscono, e dell'effetto che questo riconoscimento, o l'ambizione di esso,
hanno su di noi, su quello che miriamo di compiere e sull'idea che riusciamo a
farci di noi stessi. In quei giorni tutto restava in nuce, in uno stato d'animo
di attenzione acuta, ma insieme di rinvio a sperate, più chiare comprensioni
future. Non potevo parlare con gli operai
«era meglio che non lo facessi», mi era stato detto per la doppia ragione che non andavano
disturbati nel loro lavoro, il quale era quasi sempre a cottimo. cioè pagato
per la quantità di produzione completata ogni ora, e ci avrebbero rimesso se li
avessi costretti a interromperlo; e poi perché qualunque cosa dicessi avrei
potuto esser visto come un membro della direzione che interpellava direttamente
un operaio, e così commetteva un interferenza sia nei confronti del capo del
reparto in cui quell'operaio lavorava, sia nei confronti dei sindacati, i quali
erano l'altro organo autorizzato a parlare in fabbrica con gli operai. Li
osservavo lavorare passando lungo le file delle lavorazioni, dei montaggi, mi
soffermavo davanti a questa o quella operazione, cercando di mostrare interesse
più per la tecnica che per i gesti e il ritmo, ma dedicando attenzione nascosta
proprio a quel li. Mi informavo poi con i capisquadra, o all'Ufficio
tempi e metodi, dei dati esatti relativi ai ritmi. Purtroppo non li ricordo più
ora con sicurezza, anche se in quei giorni me ne ero impressi molti a memoria.
Non erano ritmi chapliniani, né alle lavorazioni, né ai montaggi, i gesti
sembravano calmi. Unanime poi era l'opinione
confermatami da sindacalisti e da operai con cui in seguito
parlai che l'operaio preferiva
fare operazioni di minor durata, e ripetere sempre la stessa operazione
meccanicamente, piuttosto che variare operazione, o farne di più complesse da
ripetere soltanto dopo passato un certo periodo di tempo. Le operazioni brevi e
sempre le stesse rendevano possibile un atteggiamento meccanico verso il lavoro
e assicuravano l'assenza assoluta di impegno mentale, e permettevano di pensare
ad altro mentre si compivano quei gesti meccanici («penso alle cose da fare a
casa» «penso alla partita», dicevano: le
distrazioni generalmente non mettevano a rischio l'esattezza di una
operazione). Era l'opposto di quanto andavano scrivendo, su giornali e riviste,
gli intellettuali ben intenzionati che proponevano di riformare il lavoro nelle
fabbriche. Ed era invece in linea con quanto sostenevano i sindacalisti,
soprattutto di estrema sinistra, i quali consideravano che grazie
all'esecuzione meccanica dei gesti lavorativi l'operaio manteneva la sua
autonomia e il suo non coinvolgimento in quello che faceva, che non costituiva
il suo lavoro, ma sempre inevitabilmente il lavoro del padrone. Un altro
rovesciamento dialettico su cui meditare!? Erano tutti d'accordo invece
nel sostenere che si doveva affrettare l'eliminazione di quelle operazioni che
si prestavano a venire eseguite così meccanicamente da poter essere affidate a
una macchina. E infatti, in certi casi potevo osservare che la stessa
operazione che in un'officina qualche operaia eseguiva manualmente, veniva già
affidata a una macchina nell'officina vicina. Un'operaia prendeva da un
cestello un bulloncino, lo collocava su di un altro pezzo già preparato nel
quale doveva venir incorporato, con una leva spostava la testa di una pressa,
col piede azionava un pedale, la pressa schiacciava il bulloncino e
l'operazione era completata. Erano passati dieci o quindici secondi. E subito
l'operaia ricominciava, prendeva dal cestello un bulloncino, lo collocava sul
pezzo... e avanti così (questo voleva dire che nella giornata di otto ore
quell'operaia aveva ripetuto quella stessa operazione circa duemila volte). In
un'officina vicina avevo visto l'identica operazione eseguita non dal braccio
di un operaio, ma da un braccio incorporato in una macchina e totalmente
automatico, che prendeva il bulloncino, lo collocava sopra il pezzo già
preparato e così via. Li un operaio si limitava a sorvegliare diverse di queste
macchine, e a intervenire solo quando s'inceppavano. Si trattava diuna tase di
transizione, mi spiegavano, tutte le operazioni di quel tipo sarebbero state
ben presto interamente automatizzate. Lo scopo dell'Ufficio tempi e metodi era
proprio quello di ridisegnare il lavoro di fabbricazione e di montaggio in
operazioni sempre più elementari, fino al punto che per eseguirle il braccio
umano poteva venir agevolmente sostituito da un braccio automatico disegnato
all'uopo. Dopo qualche settimana avevo girato la fabbrica in largo e in
lungo e paradossalmente la conoscevo meglio di molti che ci lavoravano dentro
da anni e sul serio. Quando arrivavano visitatori illustri mi chiedevano di
accompagnarli perché gli spiegassi le varie lavorazioni e funzioni. Avevo
oramai parlato con qualche decina di ingegneri, funzionari amministrativi e
capioperai, e con alcuni di essi cominciavo ad avere, relativamente al mio
compito, un rapporto di familiarità. Mi accorgevo che alcuni si erano fatta del
mio ruolo al di là dell'impegno che
avevo in quel momento di redigere il manuale di fabbrica un'impressione tutta sbagliata. Non al
corrente del mio rifiuto di adattarmi al compito originariamente assegnatomi da
Adriano (preludio di ovvia e prossima caduta in disgrazia cortigiana), e
vedendomi andare in giro per la fabbrica con la benedizione della presidenza,
si figuravano che fossi nelle grazie del presidente stesso, e che questi mi
avrebbe destinato, dopo una mansione ovviamente di iniziazione, a incarichi
dirigenziali importanti. Li lasciavo pensare cosi (a meno che non gli scappasse
qualche allusione sul tema, in questo caso smentivo animatamente) e
approfittavo della loro buona disposizione per trar vantaggi per il mio lavoro,
Malgrado però tale circostanza favorevole, e malgrado avessi letto e riletto
manuali di fabbrica i più esotici, e incominciato a buttar giù pagine di questo
o quel previsto capitolo, cercando di semplificare, appianare, ammorbidire,
distendere, sciogliere la mia prosa, abituata a un anno di attorcigliamenti
intorno al significato delle maschere dei Dogon o della tragedia greca, il
lavoro procedeva molto a rilento. 9. Adriano Intanto era ritornato
Adriano. Non mi disse nulla riguardo al mio rifiuto di occuparmi delle sue
biblioteche e centri comunitari. Miinvito a qualche riunione con visitatori
stranieri che volevano conoscere la realtà aziendale, e due o tre volte,
probabilmente su suggerimento di Pampaloni, mi chiese di scrivergli discorsi
che doveva fare agli operai o a qualche altro uditorio. È difficile ricostruire
ora l'atteggiamento che si andava formando in me nei confronti di Adriano
Olivetti mano a mano che lo conoscevo meglio e che si scioglievano i reciproci
atteggiamenti iniziali, di cortesia un po' convenzionale da parte sua e di
silenziosa deferenza da parte mia. A casa sua, durante qualche ricevimento, o
in casa di amici, i Momigliano, i Pampaloni, avevo avuto qualche occasione di
parlargli a tu per tu di cose non attinenti al lavoro, ma senza mai andare a
fondo degli argomenti avviati. Una volta, a un gruppetto di persone in casa di
amici c'era anche, ricordo, Vasco
Pratolini, tutto sorridente e sperso in quella realtà per lui nuova e verso la
quale si sforzava di mostrare una diligente curiosità di neorealistico
visitatore , Adriano parlava delle sue idee sulla riforma sanitaria, e
sosteneva, mi ricordo, che quando gli operai erano in assenza per malattia
avrebbero dovuto venir pagati più che con la loro paga solita, perché dovevano
sostenere maggiori spese. Gli ascoltatori annuivano tra il cortese e il
perplesso, nessuno notava ad alta voce come fosse paradossale che proprio un
imprenditore parlasse così, o osservava che in ogni caso la soluzione andava
raggiunta con altri mezzi. Quando non parlava a un piccolo pubblico, durante i
ricevimenti Adriano si sprofondava in un angolo di divano, in silenzio, mentre
la gente chiacchierava intorno a lui, guardava nel vuoto tenendo in bocca
l'indice di una mano, e arcuandolo, probabilmente perché non gli scivolasse via
dalla bocca, sì che nella guancia gli appariva una sorta di
rigonfiamento. Erano le occasioni in cui provavo per lui una non ben
determinabile simpatia, lo vedevo personaggio ricco e famoso e potente e
insieme insicuro, tormentato; ideatore di opere capaci di durare, ma anche
continuamente ansioso di fare più cose di quante gli riuscisse di ben definire;
seduttore con il gusto di attrarre a sé e influenzare (e, alcuni dicevano, «intimamente
corrompere») le persone che lo incuriosivano, o che gli era capitato di
ammirare fuggevolmente, per poi magari sentirsi in diritto di lasciarle
scivolar via per i rivoli non importa se fangosi del mercato; e insieme
persuaso di essere un incompreso, e quindi timido e sospettoso; calcolatore
machiavellico e insieme compassionevole e generoso; e lo vedevo li su quel
divano, circondato da persone, assai poche delle quali gli erano in qualche
modo familiari, in verità totalmente solo, forse consapevole che le forze per
fare quello che avrebbe voluto fare stavano declinando malattia dopo ma
lattia, forse incerto se quello che gli restava da fare valesse la pena di
essere intrapreso. Si diceva di lui che fosse rimasto profondamente
colpito da giovane dalla preferenza che il padre, fondatore della fortuna
familiare, aveva mostrato verso il fratello più giovane, Massimo, dalla
personalità geniale anche se labile, e morto precocemente subito dopo la fine
della guerra. Si diceva anche che al momento delle leggi razziali la famiglia
Olivetti si fosse riunita e il patriarca avesse deciso che uno di loro si
sarebbe dovuto sacrificare e iscrivere al Partito nazionale fascista, indicando
all'uopo Adriano, il quale del resto legalmente non era definibile come ebreo,
la madre essendo protestante (il nonno era un pastore valdese). Così Adriano,
pur furioso contro il padre, si era dovuto iscrivere. La leggenda è solo in
parte vera. I rapporti di Adriano col fascismo, e più specificamente con la
tendenza corporativa di sinistra che faceva capo a Bottai, risalivano ai primi
anni Trenta ed erano funzione dei suoi progetti di pianificazione urbanistica e
di riordino sociale in genere. Erano parte, cioè, di quell'onda di speranza che
aveva avvicinato al regime architetti e urbanisti e altri intellettuali
fascisti che si sentivano di sinistra e che immaginavano di poter influire
sulle intenzioni corporatiste e pianificatrici intravedibili nel regime in
quegli anni. Adriano vi vide qualche segnale di contiguità con le sue idee e ne
scrisse su riviste quali «Il Lavoro fascista», «L'Ordine Corporativo», e fondò
infine una rivista di tendenza corporativista, «Tecnica e Organizzazione», che
continuò anche dopo la guerra. Dopo 1'8 settembre era passato in
Svizzera, lasciando la direzione dell'azienda a Gino Martinoli, suo cognato
(era fratello di Natalia Ginzburg, oltre che della prima moglie di Adriano), il
quale l'aveva diretta con molta abilità e molto consenso tra le maestranze e i
dirigenti; tanto che al ritorno Adriano, sempre secondo «voci», era diventato
geloso dell'ascendente del cognato e, con l'accordo della famiglia, gli aveva
fatto abbandonare la direzione. Martinoli, che poi conobbi e con cui
collaborai in diverse occasioni, persona dolcissima e in qualche modo ingenua,
ne rimaseassai ferito. Continuò poi una brillante carriera di alto dirigente
industriale e, quando in pensione, di generoso organizzatore di ricerche
sociali. In Svizzera Adriano era andato elaborando le sue idee politiche,
aveva redatto un progetto di Stato comunitario che aveva inviato per lettera a
una serie di personalità allora rifugiate in Svizzera come lui, e (mi
raccontava anni dopo l'allora vicepresidente, e poi presidente, dell'Eni
Boldrini, il quale tra gli altri aveva ricevuto la lettera) immaginato persino
la bandiera che questo Stato avrebbe dovuto inalberare, non mi ricordo il
colore (forse era pur sempre tricolore), ma mi ricordo lo stemma, una campana,
la stessa che diventerà poi il marchio di Comunità; ed era disegnata a mano in
chiusura della lettera. Verosimilmente quella lettera conteneva l'abbozzo del
progetto che Olivetti avrebbe pubblicato subito dopo la fine della guerra
nell'elegantemente curato volume L'ordine politico delle Comunità (dello
Stato secondo le leggi dello spirito), uno dei primi della nuova casa editrice
da lui appena fondata con l'aiuto di Luciano Fuà. Ne ebbi subito una copia,
quando arrivai, e così l'avevano tutti gli intellettuali e semiintellettuali,
lì intorno, ma tutti ostentavano di non averlo letto, e sorridevano (a meno che
non fossero true believer comunitari, e ce n'erano pochi), se uno glielo
chiedeva. Come sempre in ambienti che vivono sotto l'ombrello di un personaggio
carismatico, circolavano le battute sul linguaggio olivettiano; e così
bisognava star attenti, in un salotto di Ivrea, a non informarsi di che misura
avrebbero dovuto essere le dimensioni di qualche oggetto, piatto, mobile,
edificio, macchina o territorio o altro di cui si parlasse, perché la risposta
era già sulla punta della lingua dell'eventuale ben informato interlocutore:
«né troppo grande, né troppo piccolo», che era appunto la dimensione che
Olivetti insisteva dovesse essereassai ferito. Continuò poi una brillante
carriera di alto dirigente industriale e, quando in pensione, di generoso organizzatore
di ricerche sociali. In Svizzera Adriano era andato elaborando le sue
idee politiche, aveva redatto un progetto di Stato comunitario che aveva
inviato per lettera a una serie di personalità allora rifugiate in Svizzera
come lui, e (mi raccontava anni dopo l'allora vicepresidente, e poi presidente,
dell'Eni Boldrini, il quale tra gli altri aveva ricevuto la lettera) immaginato
persino la bandiera che questo Stato avrebbe dovuto inalberare, non mi ricordo
il colore (forse era pur sempre tricolore), ma mi ricordo lo stemma, una
campana, la stessa che diventerà poi il marchio di Comunità; ed era disegnata a
mano in chiusura della lettera. Verosimilmente quella lettera conteneva
l'abbozzo del progetto che Olivetti avrebbe pubblicato subito dopo la fine
della guerra nell'elegantemente curato volume L'ordine politico delle
Comunità (dello Stato secondo le leggi dello spirito), uno dei primi della
nuova casa editrice da lui appena fondata con l'aiuto di Luciano Fuà. Ne ebbi
subito una copia, quando arrivai, e così l'avevano tutti gli intellettuali e
semiintellettuali, lì intorno, ma tutti ostentavano di non averlo letto, e
sorridevano (a meno che non fossero true believer comunitari, e ce n'erano
pochi), se uno glielo chiedeva. Come sempre in ambienti che vivono sotto
l'ombrello di un personaggio carismatico, circolavano le battute sul linguaggio
olivettiano; e così bisognava star attenti, in un salotto di Ivrea, a non
informarsi di che misura avrebbero dovuto essere le dimensioni di qualche
oggetto, piatto, mobile, edificio, macchina o territorio o altro di cui si
parlasse, perché la risposta era già sulla punta della lingua dell'eventuale
ben informato interlocutore: «né troppo grande, né troppo piccolo», che era
appunto la dimensione che Olivetti insisteva dovesse esserezione giusta,
Olivetti a un certo punto si spazientisse e volesse metter mano alla cazzuola,
ma, bloccato al suo tavolo, finisse per ritrovarsi bambino a combinare i
cubetti del Lego. Si presentò con il suo Movimento, diventato apertamente
politico, e alcuni alleati, alle elezioni del 1958, e dopo una campagna
costosissima ottenne un seggio di deputato, quello del capolista, il suo,
invece dei setteotto, più almeno tre di senatore, che si aspettava. I maligni
sussurravano che con metà dei soldi che aveva speso la De di seggi gliene
avrebbe dati ben di più. In realtà trattative per presentarsi alle elezioni
nelle liste della democrazia cristiana se ne erano avute a più riprese, e la
segreteria romana, che era favorevole, aveva dovuto cedere all'opposizione dei
democristiani locali che invece non ne volevano sapere (probabilmente anche per
timore di dover cedere seggi; questo era soprattutto il caso di Pella, che non
voleva vedersi capitare Olivetti nel suo biellese). Adriano, del resto, aveva
molta ammirazione per Fanfani; e inoltre era recente la sua conversione al
cattolicesimo. Da documenti ritrovati dopo la morte si è visto che quella
conversione non era soltanto funzionale al matrimonio religioso con la nuova
moglie, come molti pensavano, ma rispondeva a un reale atteggiamento di
ammirazione per il cattolicesimo come dottrina di ordine socialet Dopo
qualche mese si stancò di fare il deputato, si dimise e lasciò il suo seggio a
Franco Ferrarotti, che aveva avuto il secondo posto nella lista grazie a una
campagna elettorale molto attiva e abile nel Canavese. Negli anni prima
di morire Adriano lottò contro la malattia e contro la famiglia che voleva
togliergli il controllo della società, temendo che ne sperperasse le risorse
per le sue fantasie politiche. Seppi della sua morte a Teheran, dove mi
trovavo per il primo lavoro che mi era stato offerto dopo gli oltre due anni di
disoccupazione seguiti al licenziamento dall'azienda. Qualcuno mi disse che era
morto viaggiando verso la Svizzera, dove andava a trovare la figlia bambina, e
che quando si era accorto dell'attacco al cuore si era trascinato per il
corridoio, sballottato per gli urti del treno in corsa, da uno scompartimento
all'altro, senza che dapprima i viaggiatori che lo vedevano agitarsi capissero
bene di che cosa quell'uomo stesse in quel modo strano andando in cerca.
10. Organizzazione aziendale o corte del principe? Armanda
Guiducci, letterata pura, era sempre presente e attiva alle nostre discussioni
culturali e politiche, ma restava assolutamente estranea a tutto quanto
riguardasse la fabbrica e non capiva come invece noi, pur fondamentalmente
formati in una cultura filosofica e letteraria, ne potessimo essere coinvolti,
mostrandoci appassionati a interpretare quanto vi succedeva. Si stupì assai
quando, avendomi chiesto come giudicassi l'esperienza che stavo attraversando,
io le dissi che la consideravo fondamentale, un po' come una mia seconda
università. Me ne chiese il perché, e le parlai della straordinaria, almeno per
me, esperienza che era quella di operare quotidianamente all'interno di
un'organizzazione produttiva a vincoli forti, dall'ordine rigoroso, dove ogni
mossa è finalizzata a precise e prevedibili conseguenze, dove è necessario
entrare in questo gioco di ricostruzione delle aspettative diffuse riguardanti
il proprio comportamento se non si vuole che esso risalti subito non soltanto
come insipiente, ma come diretto a vuoto, vano, poco serio, egotistico.
L'osservazione delle interdipendenze produttive, delle prevedibilità
incorporate nel più minuto operare di ogni persona, della coerenza tra ambiente
tecnico e mosse umane, mi aveva aperto un mondo che era estraneo, sì, a quello
nel quale mi ero formato, ma che si mostrava capace di affascinarmi quanto più
mi accorgevo che stava diventando naturale muovermi in esso; quasi si aprisse
davanti a me, mi occorse ironicamente di pensare, in maniera analoga a come si
erano elettronicamente aperte davanti ai miei passi le portiere che dividevano
uno dall'altro i reparti della fabbrica, suscitandomi, la prima volta che le
avevo attraversate, una stupita incredulità (erava mo, si ricordi, nel
1953), che mi aveva fatto sostare di botto, ritornare indietro, esaminare tutto
intorno gli stipiti, poi guardare in alto, riattraversare due o tre volte,
improvviso e non mimato Jacques Tati, per fortuna in quel momento senza
spettatori, prima di capir bene (ma l'ho mai capita bene?) la diavoleria. E
ricordo l'infantile vanità di ostentare confidenza con l'ambiente tecnico,
durante la visita di un mio vecchio amico parigino che condussi in giro per la
fabbrica. Passammo per quelle stesse porte che ci si spalancavano davanti, io
con una naturalezza che intendevo sottolineare stando attento a trattenermi dal
far commenti, ché dovevo mostrare come per me fossero superflui, mentre però
spiavo con la coda dell'occhio le contenute espressioni di sorpresa dell'amico,
che anche lui si trovava per la prima volta di fronte a quel tipo di
marchingegno. Ma c'era di più, nell'esperienza che si faceva all'Olivetti,
che non i calcoli dell'organizzazione e gli stupori della tecnica. Almeno per
chi girasse negli ambienti della presidenza e dell'alta dirigenza, la Olivetti
non era soltanto una per quegli anni modernissima organizzazione produttiva,
era anche una corte. A chi mi avesse chiesto come meglio prepararsi per andarci
a vivere, prima dei lavori di Herbert Simon o Jim March, gli avrei consigliato
di leggersi attentamente il Castiglione o le memorie del duca di Saint
Simon. Un'atmosfera di corte la percepisci ai primi imbarazzi. Ti accorgi
che qualcuno si comporta nei tuoi confronti in maniera che non ti aspettavi e
capisci, o credi di capire, o credi che ti vogliano far capire, che quel nuovo
comportamento va riportato a qualche evento che ha alterato i tuoi rapporti con
una terza persona da cui lui e te in qualche modo dipendete. Se tardi a capire,
allora è lui che ti ci conduce con qualche innuendo. Se la terza persona cui si
allude, cui si sembra alludere, risulta essere «il presidente» che è come dire «il principe» gli effetti di questo comportamento inatteso
non sono da prendere alla leggera, te li ritrovi addosso per giorni. Vai a
parlare con altri, cerchi di capire, sempre il più obliquamente che puoi, se
hai proprio visto giusto, se sei irrimediabilmente in «disgrazia», a che cosa
ciò possa essere dovuto, se intorno a te gli altri pensano che questa
situazione durerà. Rivedo una pagina di diario in cui raccontavo di un amico
che si era accorto di essere in disgrazia: A. mi racconta scrivevo
dei modi con cui il Presidente gli esprime il suo malgarbo, o scarsa
simpatia, oppure indifferenza. Capita che saluta tre o quattro persone in mezzo
alle quali si trova lui, e lui lo scavalca, e poi magari, come ripensandoci,
ritorna indietro e gli dà la mano, ma assai frettolosamente. Alcuni amici gli
hanno riferito che il Presidente si è lamentato con loro perché lui aveva
svolto male il lavoro che gli era stato affidato. E evidente che ad A. costa
molto parlare con altri, anche suo amici, quale sono io, di questi segni della
sua 'disgra zia', e che a lungo si è sforzato di tenersela per sé. Mi
dice: le racconto a te queste cose perché tu sai di che natura sono, sai che
cosa significa 'essere in disgrazia. Se mi guardo dentro con attenzione continuavo in quella pagina di diario mi accorgo di sentire una punta di
soddisfazione ascoltandolo. Malgrado mi sia amico e lo abbia in simpatia e sia
riconoscente della gentilezza che mi dimostra anche essendo io, appunto, in
disgrazia [...] mi urta la sproporzione tra quanto lui dà mostra di credere di
sé e quanto in realtà vale. Adesso, vederlo riabbassato dalla sua disgrazia lo
giudico un riequilibrio dovuto. Ma mi rimprovero immediatamente di questo
sentimento, che per fortuna resta tenuissimo e scompare. Occorre dare
importanza a giudizi più fondati nei nostri rapporti con gli altri. Si
tratta di una pagina, è chiaro, il cui interesse non sta tanto in ciò che
racconta, quanto in ciò che implicitamente rivela; poiché illustra la
tortuosità delle situazioni cortigiane: scritta da una persona che si trovava
«in disgrazia», come era appunto il mio caso, la quale annotava gli stati
d'animo di un amico a sua volta «in disgrazia», e osservandoli si faceva
tentare da sentimenti di approvazione della disgrazia altrui, subito però
vergognandosene e cercando, con più o meno successo, di espellerli. In
simile clima si sviluppavano poi strane tecniche di rapporti burocratici. Ti
capitava di essere molto in confidenza con qualcuno, e aver con lui rapporti
normali e cordiali. Un giorno lo vai a trovare, ti risponde appena, non ti
guarda, se sei nel suo ufficio ti fa capire, o ti dice esplicitamente, che non
ha tempo per parlarti e che è meglio che te ne esci. Lo incontri dopo qualche
giorno e magari lui è ritornato alla cordialità di prima. Incominci a guardarti
meglio in giro e ti accorgi che questa tecnica del caldo e freddo non è
sporadica, la scopri in altri casi, la trovi applicata sistematicamente, te la
senti, insomma, tutt'intorno come una pellicola che ti si può appiccicare
addosso quando meno te lo aspetti e hai terrore di restare poi incapace di
spiccicartene. Capisci allora che si tratta di una tecnica che ha la
funzione di permettere a chi pur non sia collocato in posizione gerarchicamente
eccelsa di autoattribuirsi il potere di determinare «microdisgrazie» e
«microfortune», sia facendo credere di possedere autonomamente questo potere,
sia alludendo che si tratta di un potere che costui riceve dai suoi contatti
con la fonte ultima di tutti i poteri aziendali. E questo ti umilia ancora di
più, perché ti rendi conto che a lui non costa nulla comportarsi in quel modo
offensivo con te, non teme tue rappresaglie, quindi tu sei poco più che
spazzatura, e neppur ha senso che te la prendi con lui, la colpa evidentemente
sta in te. 11. L'illuminismo magico Aggiungi, altro tocco, come
dire, rinascimentale, la presenza di una dimensione che ti sfuggiva, nei
confronti della quale tutt'al più potevi difenderti ironizzando, una dimensione
misteriosa, quella dei riferimenti magicoreligiosojunghiani di Adriano. Negli
ambienti intorno ad Adriano se ne scherzava, ma si sapeva anche che quei
riferimenti, e le tecniche di valutazione umana che ne derivavano,
influenzavano i giudizi che Adriano si formava delle persone che lo
interessavano, e persino le decisioni su chi assumere. Si diceva che Adriano si
servisse di due grafologi (non intendo assolutamente affermare che la
grafologia sia magia, ma spesso chi bazzica con l'una bazzica anche con
l'altra), in due città differenti, e che mandava a entrambi le domande di
assunzione di dirigenti e collaboratori vicini (si era imperativamente
richiesti di scriverle a mano). I grafologi consultati erano due perché, non si
sa se per residuo di spirito scientifico o per diffidenza, Adriano li controllava
uno con l'altro. Un giorno, quando Adriano era via, capito che alcuni amici che
lavoravano agli uffici della presidenza avessero in mano le chiavi degli
schedari dove erano conservate le analisi grafologiche. Vennero da me e da
altri a raccontarcelo ridacchiando. Avevano visto tra le altre anche la mia.
Curiosissimo, chiesi subito cosa conteneva. «E buona, è buona..» «Ma cosa contiene esattamente?», cercai di
insistere. Non me lo vollero di re, ripetendo solo «si, si, è molto
buona». Ne dedussi che doveva contenere anche qualche malevolo negativo
giudizio, ma lasciai andare, oramai i giochi erano fatti, ero già assunto, e da
tempo «in disgrazia», in ogni caso.Potrà sembrar strano che una persona come
Adriano Olivetti. di formazione tecnica, oltre che di ampia cultura moderna,
frequentatore di letterati, filosofi e intellettuali laici in genere, si
muovesse poi, privatamente, quasi nascostamente, entro questo «scenario
magicoreligioso», come lo descrive Pampaloni in quel suo ricordo che ho citato
prima, nel quale qualche riga dopo definisce Olivetti «uno strano illuminista»
(«magico»). Ma bazzicando in quegli anni, per ragioni di lavoro, tra la
letteratura (libri e libercoli, riviste, opuscoli) di cui si pascevano i
dirigenti industriali e gli imprenditori, mi accorsi che la cosa era poi meno
eccezionale di quanto a prima vista si sarebbe potuto credere. Astrologia,
ermetismo, cultura magica varia abbondavano tra le letture dei capi della
nostra industria in quegli anni (e oggi?). Cercai di darmene spiegazione
congetturando che il grande, incontrollato potere umano (potere sul destino di
altri uomini) di cui quella classe di persone arrivava a godere, a volte, per
vicende varie, senza esserselo aspettato, e quasi sempre senza esservi
umanamente e culturalmente preparati
preparati, voglio dire, a capire e osservare le regole che quello
specifico tipo di rapporti umani comportava
li lasciasse spesso assai incerti sulla natura di quel potere, e sulla
legittimazione, non soltanto giuridica, con cui giustificarlo. Ne scaturiva un
desiderio di spiegazioni facili e rapide (è gente che non ha molto tempo
libero, si sa) del mondo in generale (magari dei mondi, ancor più in generale),
e quindi anche del loro ruolo nel pezzo di mondo in cui qualche destino li
aveva condotti a operare e comandare. Quel tipo di letteratura glielo
soddisfaceva. In quel mondo, dunque, o ai suoi margini, mi andavo
muovendo, cercando di spiegarmi le sue sottigliezze e i suoi giuochi, in
termini augurabilmente più razionali di quelli dell'astrologia, non con
l'ambizione di teorizzarlo, ma semplicemente per sentirmi, e apparire, meno
impacciato, quando non sapevo se entrare nell'ufficio di un incerto amico o non
entrarvi; se salutare il potente direttore amministrativo che faceva finta di
non vederti o far finta di non vederlo a tua volta, e rivolgergli, o no, la
parola quando stavate quei terribili secondi insieme nell'ascensore; se
ritenerti offeso da qualche sgarbo, o invece no, perché in realtà quell'atto
nel codice di corte sgarbo non era, e in ogni caso, poi, cosa avresti veramente
fatto, una volta che avessi deciso che era sgarbo, e che, si, ti dovevi sentire
offeso?Mi resi conto ben presto che anche a capirne il gioco non bastava a
liberartene veramente. Fossi rimasto qualche anno ancora, presagivo con un
certo, non so quanto palesato a me stesso, spavento, anch'io, nel mio piccolo,
se devo dir cosi, pur restando, cioè, per quel rifiuto iniziale di collaborare
con «Comunità», nella mia situazione di originaria e non superabile cortigiana
«disgrazia», avrei finito per omologarmi, avrei cioè adottato le stesse
superflue strategie, le stesse mosse felpate, le stesse calcolate cautele, e
sarei stato percorso dalle stesse subitanee agitazioni, e adombramenti segreti,
e poi piccole agognate soddisfazioni, che vedevo rivelarsi negli sguardi delle
persone attorno a me. Forse è anche per questo, senza rendermene conto
chiaramente, che colsi l'occasione di rompere radicalmente con quel mondo
quando partecipai alle elezioni del Consiglio di gestione contro il sindacato
del padrone. O forse non solo per questo, vedremo, ma, in somma, così
andò. 12. I primi passi «miei» Prima però occorre che dedichi
qualche riga all'unico lavoro serio che riuscii a portare a termine in quella
fabbrica. Stabilito, per ammissione di tutti, che un manuale di fabbrica che
accontentasse insieme il presidente, gli ingegneri, i capi, la Commissione
interna, e servisse poi agli operai, era impresa impossibile, si pose il
problema di cosa altro farmi fare. La soluzione, per la direzione, fu semplice.
Mi dissero: hai ormai esperienza sufficiente della situazione organizzativa
dell'azienda: pensa tu a un servizio che possa essere utile, facci tu una
proposta, compila un ordine di servizio, con un buon memorandum che ne illustri
le ragioni. Mi chiusi nell'ufficetto che mi avevano assegnato e mi misi a
pensarci su. Si noti che non mi dettero una scadenza, potevo prendermi tutto il
tempo che volevo. Ero un po' preoccupato, perché dovevo dedurne che la mia
presenza contava poco, era vista come un sopportabile costo e niente più. Ne
parlai con amici, che però mi rassicurarono: sappi che l'ingegner B. (uno dei
dirigenti carismatici dei «Progetti»), quando fu assunto, anni fa, restò
setteotto mesi senza che gli dicessero cosa l'avessero preso a fare. Poi la sua
carriera svetto. Sorrisi all'idea che la mia carriera potesse maisvettare, ma
pensai che era in ogni caso nel mio interesse avere una mansione precisa al più
presto possibile. Mi informai di cosa fosse veramente un «ordine di servizio»
mirante a istituire un nuovo ufficio, come dovesse esser redatto, e dopo
qualche tempo ne produssi uno con il quale, in cinque o sei pagine, proponevo
la costituzione dell'Ufficio studi relazioni sociali (nome un po' barzotto, al
quale però si dovette arrivare dopo negoziati e veti vari) praticamente un centro di ricerca di
sociologia del lavoro (ce n'era già uno per le applicazioni della psicotecnica,
ma non per ricerche che restassero autonome dalle richieste della direzione del
personale). Con mia, e non solo mia, sorpresa (avevo già capito abbastanza di
come funzionasse l'organizzazione aziendale per non essermi armato del
necessario corazzante scetticismo), la mia proposta fu accolta, e ricevetti
persino lodi per come era redatto il me morandum. Mi assegnarono
uffici e personale, e non mi sognai di lamentarmi anche quando ben presto mi
accorsi che si trattava sia di uffici sia di personale che non si sapeva come
altro impiegare. Gli uffici erano nel cosiddetto «convento» (immagino che
esista ancora era appunto stato
originariamente un convento), luogo sacro nella tradizione della famiglia
Olivetti, poiché era servito da abitazione a Camillo, che da li aveva guidato i
primi passi dell'azienda, una quarantina di anni prima. Nessuno voleva andare a
lavorarvi perché era collocato in un posto un po' staccato dalla fabbrica e
dalla direzione, e ciò rendeva difficili i rapporti quotidiani con gli altri
uffici. Ma a me stava alla perfezione, tre o quattro grandi stanze, in pieno
verde, bosco e campi da tennis vicini. dove potevo andare appena finito il
lavoro. Quanto al personale, era anch'esso «residuo», per dir così, erano cioè
impiegati che nessun altro ufficio desiderava tenersi. La segretaria, mi
informarono amici, era considerata una specie di strega (un po' ne aveva
l'aria, pur dovendo essere stata una bella donna da giovane), che litigava con
tutti e veniva quindi immancabilmente trasferita da un ufficio altro. Ma con me
andò d'accordo, fu gentilissima e lavorò senza una pecca, o senza una pecca
grave che io ricordi, almeno. Era la prima volta in vita mia che avevo una
segretaria a mia disposizione, e probabilmente ero particolarmente gentile
anch'io (ma non è stato diverso negli altri otto o dieci casi in cui mi capito
di avere segretarie che hanno lavorato per me). Quanto all'assistente, era un
impiegato sulla quarantina, laureato credo in legge (e, anche scontando il
basso livello delle università italiane del dopoguerra, mi domando per quali
mai vie traverse), giudicato da chi lo conosceva, e non se lo voleva vicino, un
tipo un po' strambo, con vaghe ubbie culturali. Devo dire che non riuscii a
utilizzarlo del tutto efficientemente, ma ci andai d'accordo, ogni tanto
entrando con lui persino in discussioni culturali, nelle quali mi spiegava le
sue teorie del mondo, il quale mondo, mi accorsi una volta, secondo lui
esisteva dal 4000 a.C. (la persona, si noti, non era credente). Quando gli
obiettai che, a quanto si poteva sapere, esisteva da molto più tempo, mi
rispose che intendeva dire che era l'uomo che esisteva da quelle sei migliaia
di anni. Debolmente insistei che anche per l'origine dell'uomo la data andava
di molto anticipata. Sembrava pronto a negoziare anche la data dell'origine
dell'uomo, ma almeno qualcosa che ci fosse soltanto dal 4000 a.C. gli sembrava
necessario trovarlo. Il linguaggio? Anche su quello, gli dissi... Infine gli
proposi di considerare che quella poteva essere una buona data per fissare
all'incirca l'origine della scrittura, e lui sembrò pacificato e pronto a
riprendere il ragionamento; che non ricordo quale fosse, cioè che cosa mirasse
a dedurre da quella datazione, una volta impietosamente sottrattogli il
riferimento ad Adamo ed Eva. Avevo insomma di fronte un interessante caso di
disordinato provinciale desiderio di sapere
o meglio, bisogno di sistemare un certo scarso numero di disparate
informazioni che si muoveva da
un'incredibile assenza di basi culturali elementari, supplita al più da alcune
nozioni bibliche ricevute forse in catechismo e non più corrette. Ne dovetti
concludere che in ben poche situazioni avrei potuto da lui farmi
assistere. Bloccata l'ansia del mio assistente di discutere sull'origine
del mondo, negoziai con la direzione (cioè, in questo caso, Momigliano, ma
credo che lui si consultasse con Pampaloni) il lancio di una ricerca sui
cosiddetti «capiintermedi». In gran parte della letteratura aziendalistica di
allora la «questione dei capi» era considerata cruciale per l'andamento di una
buona organizzazione aziendale. Costituivano la mediazione indispensabile tra
la direzione che dava gli ordini generali e la mano d'opera che doveva
eseguire. Se di origine operaia, come era spesso il caso, non conoscevano i
metodi nuovi di organizzazione, o non li credevanonecessari. Se di origine
tecnica (alcuni capiofficina erano ingegneri, la gran parte erano periti
tecnici industriali) potevano trovare difficoltà ad avere rapporti sciolti con
gli operai. La riuscita di eventuali innovazioni organizzative o tecniche (che
erano con tinue) dipendeva inevitabilmente da loro. E da loro dipendeva
anche il cosiddetto «morale» dell'azienda, quell'entità che resta in
definibile, malgrado gli sforzi definitori della letteratura aziendalistica, ma
che è assai facile, passati alcuni giorni in un'azienda a guardare e parlare,
capire se sia alto o sia basso: Lavorai diversi mesi e alla fine
consegnai un rapporto di ricerca di una cinquantina di pagine, corredato da
diverse decine di pagine di protocolli d'interviste. Credo di aver riletto per
la prima volta quel rapporto ieri, dopo
quanti sono ormai? 43 anni! Mi
aspettavo di peggio, è ancora leggibile. E ho scoperto persino alcune cose
interessanti che avevo dimenticato. Feci, tutte io (mica potevo fidarmi
di mandarci il mio cosmogonico assistente), più di 50 interviste (34 scelte con
regolare campionamento, le altre a informatori qualificati), a operai, a capi,
a dirigenti. Mi si rivelò allora quanto fosse forte in me il gusto del
l'intervistare. Da allora per anni e anni, a ogni occasione di ricerca, mi sono
organizzato per intervistare io stesso il maggior numero possibile di persone,
e nel corso della mia vita di lavoro sociologico calcolo, all'ingrosso, che
avrò fatto, tra l'una o l'altra ricerca, da solo o con aiuti, diverse centinaia
di interviste. Ricordo l'ultima, quattro o cinque anni fa, insieme con
Donatella della Porta, e con solo iniziale imbarazzo, a un politico locale in
attesa di sentenza definitiva di condanna per corruzione. Nella situazione di
intervista «non strutturata» (così si chiamano nel nostro gergo le interviste
in cui non si usa un questionario predeterminato, ma soltanto una traccia che
puoi adattare a seconda di come procede il colloquio) ti attrae il gusto di far
parlare una persona che non conosci su temi che tu scegli, e su cui magari lei
all'inizio non capisce bene di cosa esattamente si tratta, ma dopo un po' ti
accorgi che le viene voglia di dire più cose di quanto tu le chiedi, perché si
trova di fronte a un'occasione rara: qualcuno che sta ad ascoltarla su
argomenti che lei conosce, o crede di conoscere, e che la lascia parlare. Ti si
apre così la possibilità di penetrare nella nicchia delle immagini familiari di
una persona (pensai una volta di chiamare questa attrazione il «complesso di
Asmodeo», ricordando il diavolo che scoperchia i tetti delle case, caro a
François Mauriac), scavando al di sotto dei riassunti vaghi, che lei di primo
acchito sarebbe pronta a darti, ma che tu ti sei preparato a non accettare
ciecamente per buoni, delle situazioni che t'interessano, per arrivare ai
gesti, agli atti visibili che le hanno create, alle connessioni inattese con
altre situazioni; e mentre l'ascolti cercar di trarre da sé il più presentabile
di sé, la vedi poi finir per rivelarti ciò che lei stessa arriva a capire mano
a mano che ti parla. La ricerca fece venire alla luce tra altre cose che ora hanno perduto il loro
interesse che anche in un'organizzazione
tanto attenta al cosiddetto «fattore umano», qual era l'Olivetti, i germi
dell'autoritarismo erano vivi, e cosi l'insofferenza per esso. Ma la protesta
oscura che veniva alla luce non era tanto quella contro l'autoritarismo del
comando aspro o ingiusto, piuttosto, invece, quella contro l'esercizio
dell'autorità che rende possibile l'indifferenza, il non ascolto, lo sprezzo
per la collaborazione offerta, il non riconoscimento della tua esistenza. E
capivi che quella forma di «potere culturale» (come altro chiamarlo?), di cui
si fa forte chi ti tiene condiscendentemente a distanza, si rifiuta di prendere
in considerazione ciò che chiedi o che proponi, ti ignora o non ti parla, ti
esclude, mostrando la tua irrilevanza, dalle decisioni che riguardano il modo
in cui tu devi lavorare, insomma ti fa «sentire una merda», come mi si diceva,
perché non sai quello che solo sa chi sa
era quel potere a creare dispetto, o ribollimento interiore, e
umiliazione. Mentre il puro comando gerarchico, prevedibile, apparentemente
anonimo, quasi prodotto da una macchina, che non fa emergere responsabili
contro cui indignarsi, è uguale per tutti, stabilisce automaticamente chi deve
ubbidire e chi corrispondentemente deve comandare, si presenta come assai meno
offensivo dell'altro, e tutt'al più provoca risentimenti astratti. Forse in
quelle deplorazioni e querele veniva a galla una certa nostalgia dei rapporti
paternalistici che avevano retto l'azienda fino a poco tempo prima, e ancora
vigevano qua e là, pur perdendo terreno di fronte all'introdursi di rapporti
gerarchici più freddi e distanti. Ma c'è dell'altro, credo, in questo
processo dello stratificarsi soggettivo in termini di sapere, che lo fa più
escludente e più offensivo di altre forme di distanza sociale. Lo ritroverò
quando, anni dopo, condurrò ricerche nelle sezioni dei partiti di sinistra, e
me ne rioccuperò con più attenzione.Nello stesso tempo si manifestava, in chi
aveva l'età per confrontare, la consapevolezza che gli atteggiamenti impositivi
fossero assai mitigati rispetto a prima della guerra, e che erano assai rari i
casi di scortettezza da parte dei capi; anche se si riconosceva che pure
durante il fascismo all'Olivetti il rispetto degli operai si era in qualche
modo mantenuto. Del resto, durante il fascismo, la dialettica interna di
fabbrica, come sembrava di poterla ricostruire dai ricordi di chi era stato
operaio allora, non era così linearmente determinabile come ce la si può
immaginare sulla base dei luoghi comuni. Il ricordo era che i fiduciari dei
sindacati fascisti (e questo mi sarà confermato in colloqui che ebbi altrove
con operai anziani della Cgil), quando c'erano controversie con la direzione,
intervenivano spesso, non senza effetto, in favore degli operai.
Ritornando all'importanza del possesso di sapere come criterio duro di
separazione sociale, mi andavo domandando se il prestigio che all'Olivetti
veniva attribuito dall'alto agli intellettuali non percolasse giù fino ai
livelli inferiori dell'organizzazione e rafforzasse la separazione tra chi
vedeva incluso nei suoi compiti quello di conoscere, informarsi, accrescere il
suo sapere, fosse pure non immediatamente funzionale alle sue mansioni, e chi
di questa possibilità era privo. Simile atteggiamento rafforzava anche quel
contrasto, che è consueto in tutte le organizzazioni, tra line e staff: o
volendo italianizzarlo con la più espressiva terminologia militare, tra comando
e stato maggiore (di cui staff, si sa, è la traduzione inglese). Lo staff
include chi dice come si deve lavorare; la line chi comanda che si deve
lavorare. Nello staff risiede il sapere, e la responsabilità di accrescerlo;
nella line c'è il rapporto tra persone, o, come ci si esprime con un certo
orgoglio usando la terminologia militare, il comando di uomini, con relativo
possesso dell'ascendente necessario per farsi ubbidire. E non ci si meravigli
se mi servo della terminologia militare; non è soltanto per confronti che ho personalmente
avuto occasione di poter fare, ma anche perché si dà caso che lo stesso Adriano
Olivetti non trascurasse di notare le analogie tra una fabbrica e un'unità
militare. Pensava in particolare alla nave da guerra; tanto che aveva assunto,
per farli diventare dirigenti, una certa quantità di ex ufficiali di marina
(che nel dopoguerra si trovavano ovviamente in abbondanza sul mercato). Uno di
questi, l'ingegner Tufarelli, che arrivò poi ai vertici aziendali non solo
dell'Olivetti, ma anche, successivamente,della Fiat a cui era passato, fu
assunto lo stesso giorno in cui ero stato assunto io, e restammo a lungo amici,
comunicandoci i nostri primi disvelamenti della fabbrica; e mi diceva appunto
come Adriano gli avesse sostenuto l'importanza di quell'analogia, perché nave e
fabbrica richiedono insieme, per esser guidate bene, sapere tecnico e capacità
di comando di uomini. Per parte mia, mi colpiva una diversa analogia, la
quale richiama piuttosto una fondamentale capacità umana, la capacità di investire
di valore una situazione che in partenza appare di inferiorità. Cerco di
spiegarmi. L'appartenere allo staff, allo stato maggiore, proprio per il
prestigio del possesso di «sapere» che lo caratterizza, comporta, a parità di
altre condizioni, una presunzione di superiorità, e quindi un potenziale
atteggiamento di spregio per chi non vi appartiene. Corrispondentemente,
lavorare nella line (nel caso dell'esercito, «con la truppa») comporta lo
svolgimento di compiti altrettanto indispensabili di quelli dello staff, ma
assai meno prestigiosi. Per evitare frustrazioni e malcontenti occorre
riequilibrare le attribuzioni di prestigio. Ciò avviene attraverso un processo
di reinterpretazione dei significati dei compiti organizzativi. Di quelli che
rischiano di venir sviliti si mettono in risalto qualità arcanamente preziose,
più innate che acquisibili, la «capacità di conoscere gli uomini», il «saper
come si risolvono situazioni umanamente difficili», il «saper motivare i
dipendenti», e, in una parola, appunto, il possedere ‹«l'arte del comando di
uomini». La capacità di distinguersi in quelle posizioni organizzative viene
allora apprezzata per un suo valore intrinseco, e genera prestigio, che si può
contrapporre allo stesso sapere tecnico, quasi a permettere di tenerlo, o di
pretendere di tenerlo, a vile; e chi svolge quei compiti potrà inorgoglirsi. Si
capisce meglio, considerando questo meccanismo psicologico, anche il fallimento
del fordismo prima maniera, che, nella fabbrica, aveva mirato a ridurre tutti i
rapporti gerarchici a rapporti funzionali. Queste osservazioni
trasparivano nei colloqui che andavo facendo, anche se non le ripresi
esplicitamente nel rapporto che scrissi. Nel quale, pur marginalmente,
trattai invece di un'osservazione curiosa che, dopo decenni di lontananza da
quegli ambienti, mi sono accorto che avevo scordato, e che leggendo il rapporto
mi è ritornata nella sua vivezza e nella sorpresa che mi aveva provocato: che
la capacità o meno di usare il disegno industriale distingueva due classi di
lavoratori, e l'accedervi rappresentava l'ambizione maggiore degli operai non
specializzati che ne erano privi. Era quasi commovente ascoltare come tra
molti di quegli operai l'idea di imparare un giorno a usare il disegno si
ponesse come una meta di emancipazione dal lavoro bruto cui erano in quel
momento impiegati. Esser capaci di disegnare una macchina, un meccanismo, un
processo produttivo, e operare poi con quel di segno, rappresentava la
possibilità di avere a che fare con una realtà della mente, invece che con la
realtà delle mani, del corpo, con cui aveva invece a che fare il loro lavoro di
operai comuni. Era una manifestazione emotiva del riconoscimento di superiorità
che l'astratto gode sul concreto. E non era soltanto perché il possederlo
poteva rappresentare promozione sociale. Nelle loro parole si esprimeva forte
l'esigenza di liberarsi dall'indecifrabilità bruta della macchina, e ridurre a
segni ordinati la materia che li so vrastava. Consegnai il
rapporto, fu lodato. Occorreva ora, mi si disse, discuterlo in gruppi più ampi,
organizzare riunioni con capi e dirigenti. Ma tutto questo non avvenne. Stava
succedendo dell'altro. Per qualcuno, il finimondo. Il
finimondo Il Movimento di Comunità si era trasformato da culturale in
politico . Partecipa alle elezioni amministrative, ottenendo una clamorosa
vittoria nel Canavese, e Adriano Olivetti era diventato sindaco di Ivrea.
Contemporaneamente viene fondata, col nome di Autonomia operaia (sic!),
l'organizzazione sindacale del Movimento, che assorbe la socialdemocratica Uil.
Contro il parere di Momigliano, che ne era il superiore diretto, viene
allontanato il capo del personale operai, Filiberto Pomo, un ex capo partigiano
carismatico, e il suo assistente, accusati di porre ostacoli all'introduzione
in fabbrica del sindacato di Comunità. A Franco Momigliano vengono sottratte
gran parte delle sue competenze (alcuni mesi dopo verrà trasferito a un ufficio
studi economici dell'Olivetti a Milano). Luciana Momigliano Nissim,
moglie di Franco, reduce da Auschwitz, pediatra, che aveva a lungo diretto
l'asilo ed era diventata da poco direttrice dei servizi sociali, viene
licenziata. In un'assemblea di fabbrica aveva attaccato la politica di
Comunità. Si rovesciavano amicizie di un decennio. Mancavano pochi
mesi alle elezioni della Commissione interna e del Consiglio di gestione; un
organismo, questo secondo, che non aveva potere effettivo di negoziare per le
maestranze, ma che conservava un certo valore simbolico, poiché l'Olivetti era
una delle poche aziende che l'aveva mantenuto in vita dai tempi della sua
diffusa introduzione nel dopoguerra. Si poteva prevedere che la campagna
elettorale sarebbe stata assai calda. Non c'era da meravigliarsi che le
riunioni allargate per discutere il mio rapporto di ricerca tardassero a venir
convocate. Un giorno vennero a trovarmi in ufficio tre rappresentanti sindacali
della Cgil; tra di loro c'era quella che nella memoria Olivetti resterà poi
come «la mitica Bertolè», un'ex partigiana comunista, dal grande ascendente
sugli operai e dall'abile capacità negoziatrice negli incontri con la direzione
aziendale. Mi chiesero se accettavo di presentarmi alle elezioni del Cdg con la
loro lista. Mi ricordo che non stetti molto a pensarci su, dissi subito di
si. Perché lo feci, e con tanta immediatezza? Forse pesò (come in
numerose altre occasioni, quando mi sia capitato di accettare proposte di
mutamento di lavoro o di residenza, o anche per decisioni più intimamente
personali) l'interiorizzazione di una regola di condotta (chi sa per quali
stratagemmi educativi instillatami) che non manca mai di impormisi in questo
genere di situazioni, secondo la quale è doveroso, includibile, di fronte a una
sfida che ti si presenta improvvisa, rispondere senza stare a pensarci su,
senza mostrare di calcolare le conseguenze, ché a indugiare a calcolare ti
sembrerebbe mancanza di coraggio, grettezza, non sentiresti più di essere
quello che ti eri immaginato di essere. Non la ritengo una qualità positiva.
Probabilmente deriva da qualche oscuro timore che a prender tempo per
deliberare calcolando non saprei tenere in mano con chiarezza le fila dei
criteri con cui determinare vantaggi e svantaggi. E che forse dovrei accorgermi
che quei criteri non ci sono veramente e mi sperderei. Naturalmente, per tanta
prontezza, che non è, dunque, sicurezza, della decisione, il contenuto ha da
non essere disaccetto. Questa volta la scelta rispondeva al bisogno di fare
cose di sinistra, dopo avere perdiatra, che aveva a lungo diretto l'asilo ed
era diventata da poco direttrice dei servizi sociali, viene licenziata. In
un'assemblea di fabbrica aveva attaccato la politica di Comunità. Si
rovesciavano amicizie di un decennio. Mancavano pochi mesi alle
elezioni della Commissione interna e del Consiglio di gestione; un organismo,
questo secondo, che non aveva potere effettivo di negoziare per le maestranze,
ma che conservava un certo valore simbolico, poiché l'Olivetti era una delle
poche aziende che l'aveva mantenuto in vita dai tempi della sua diffusa
introduzione nel dopoguerra. Si poteva prevedere che la campagna elettorale
sarebbe stata assai calda. Non c'era da meravigliarsi che le riunioni allargate
per discutere il mio rapporto di ricerca tardassero a venir convocate. Un
giorno vennero a trovarmi in ufficio tre rappresentanti sindacali della Cgil;
tra di loro c'era quella che nella memoria Olivetti resterà poi come «la mitica
Bertolè», un'ex partigiana comunista, dal grande ascendente sugli operai e
dall'abile capacità negoziatrice negli incontri con la direzione aziendale. Mi
chiesero se accettavo di presentarmi alle elezioni del Cdg con la loro lista.
Mi ricordo che non stetti molto a pensarci su, dissi subito di si. Perché
lo feci, e con tanta immediatezza? Forse pesò (come in numerose altre
occasioni, quando mi sia capitato di accettare proposte di mutamento di lavoro
o di residenza, o anche per decisioni più intimamente personali)
l'interiorizzazione di una regola di condotta (chi sa per quali stratagemmi
educativi instillatami) che non manca mai di impormisi in questo genere di
situazioni, secondo la quale è doveroso, includibile, di fronte a una sfida che
ti si presenta improvvisa, rispondere senza stare a pensarci su, senza mostrare
di calcolare le conseguenze, ché a indugiare a calcolare ti sembrerebbe
mancanza di coraggio, grettezza, non sentiresti più di essere quello che ti eri
immaginato di essere. Non la ritengo una qualità positiva. Probabilmente deriva
da qualche oscuro timore che a prender tempo per deliberare calcolando non
saprei tenere in mano con chiarezza le fila dei criteri con cui determinare
vantaggi e svantaggi. E che forse dovrei accorgermi che quei criteri non ci
sono veramente e mi sperderei. Naturalmente, per tanta prontezza, che non è,
dunque, sicurezza, della decisione, il contenuto ha da non essere disaccetto.
Questa volta la scelta rispondeva al bisogno di fare cose di sinistra, dopo
avere pertanto tempo espresso opinioni di sinistra. Aggiungi il sentimento di
voler mostrare solidarietà con le persone che in quei giorni venivano colpite,
alcune di loro molto amiche; forse il desiderio di acquisire valore ai loro
occhi. Per il Cdg si votava separatamente secondo settori organizzativi.
Quello in cui mi presentavo io era chiamato «Uffici della presidenza» e contava
61 elettori. Formato da personale scelto o direttamente da Adriano o da suoi
assistenti, era ovviamente ritenuto un covo di comunitari. Ma andando in giro
per parlare con questo o quel conoscente (non si doveva trattare ufficialmente
di propaganda elettorale) mi accorsi che ero guardato con sorrisi di simpatia,
e quasi con ammicco. Il giorno successivo al voto il giornale di fabbrica della
Cgil, il «Tasto», annuncio che io ero risultato eletto con 31 voti. Il
risultato era cosi inaspettato che i comunitari chiesero una riconta, la quale
concluse che io avevo ricevuto 30 voti, non 31, e quindi non risultavo eletto.
Non me ne preoccupai più di tanto, la carica non era attraente, mi bastava il
successo ottenuto, molti venivano a complimentarsi, e del resto
complessivamente nella fabbrica il sindacato di Comunità era stato sconfirto.
Poi ci ho ripensato: fossi stato eletto, la direzione avrebbe avuto difficoltà
ad allontanarmi da Ivrea e poi licenziarmi. Che invece fu proprio quanto
avvenne qualche mese dopo. Mi fu dato un anno di tempo per trovare un altro
lavoro e nel frattempo fui assegnato al Centro di ricerca operativa
dell'Università Bocconi (era finanziato in gran parte dall'Olivetti) come
assistente del professor Francesco Brambilla, che lo dirigeva, spirito geniale
e bizzarro dal quale, nell'anno che ci lavorai insieme, imparai un po' di
statistica, ma non molta. Il primo novembre 1956. 'I di dei mort
alegher!, caricatici sulla Topolino che avevo comprata a Ivrea di seconda mano,
mia moglie, mia figlia di due anni, io e un po' di valigie, ci dirigemmo verso
Milano. A Rho al sole si sostitui un chiarore lattiginoso sporco,
impenetrabile, e, per mesi e mesi, piogge a parte, tale sostanza plano tra il
cielo e la città, tanto da convincermi che in quella Milano dai camini ancora
non filtrati, quello e nient'altro era da chiamarsi «sole». Ma in qualche
giorno di aprile anche il sole come usa nel resto d'Italia riapparve. Si
conclusero così quei tre anni di un'esperienza che più inaspettata per me non
avrebbe potuto essere, durante la quale di-ventai, in qualche definizione di
questo termine, sociologo, acquisii conoscenze dirette del funzionamento di
quella che veniva allora marxisticamente chiamata la struttura dei rapporti di
pro-duzione, strinsi amicizie alcune delle quali durarono a lungo. A uno degli
amici di allora, l'ingegnere che era stato direttore delle costruzioni
dell'azienda, che, malato da anni, usavo andare a trovare quando mi capitava di
passare da Milano, una sera raccontai che avevo intenzione di scrivere delle
memorie sul periodo all'Oli-vetti. Si mostrò stupito, ma certo voleva leggerle
appena le avessi scritte. Sul pianerottolo, dove mi aveva accompagnato con
fatica, lo salutai battendogli una mano sulla spalla: «Ciao, vecchio», gli
dissi. «Ciao, vecchio? Ciao morto, devi dire» mi ribatté, in una delle sue
abituali, esplosive esclamazioni di ironia. Era Roberto Guiducci, il miglior
amico tra i sopravvissuti degli anni di Ivrea, eta l'ultima volta che lo avrei
visto, gli posso solo dedicare, non far leggere, queste pagine, che non ho
scritto in tempo. Alessandro Pizzorno. Pizzorno. Keywords: politica assoluta,
razionalita e riconoscimento, razionalizzazione, soggetti del pluralism, lotta
operaia, sindacato, la politica assoluta, fascismo -- Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Pizzorno” – The Swimming-Pool Library.


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