Bruno Migliorini
Storia della lingua italiana
Introduzione di Ghino Ghinassi
lr|i[ TASCABILI
^ BOMPIANI
ISBN 88-452-4961-1
© 1987 by RCS Sansoni Editore S.p.A., Firenze
© 1994/2001 RCS Libri S.p.A.
Via Mecenate 91 - Milano
IX e dizi one Tascabili Bompiani aprile 2001
INTRODUZIONE
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BRUNO MIGLIORINI
E LA SUA «STORIA DELLA LINGUA ITALIANA»
a Bruno Migliorini, maestro e uomo
Quando, cinquantanni fa, al momento di insediarsi nella cattedra
di Storia della lingua italiana alla Facoltà di Lettere di Firenze Qa
prima, istituita, si può dire, ad personam, per valorizzare a pieno le sue
originali ricerche, e per permettergli di ritornare in patria dall’«esilio»
svizzero), dette inizio ai corsi della nuova disciplina accademica, Bruno
Migliorini, da quell’uomo retto e corretto che era, oltre che strenua-
mente impegnato nei suoi studi, s’impose subito il dovere di giustificare
questo provvedimento eccezionale, dando l’avvio ai lavori preparatori
per un’opera che mancava ancora all’Italia: una storia della lingua
italiana. Lo attesta Migliorini stesso nelle prime righe della Premessa
del libro che viene ora ristampato, dopo quasi un trentennio dalla
prima edizione (che uscì nel I960) 1 .
Che una storia della lingua mancasse veramente all’Italia potrebbe
essere messo in dubbio da chi si ricordasse che fin dal Settecento (per
omettere episodi precedenti, frammentari e occasionali) personaggi
illustri avevano affrontato un tema simile, o almeno avevano apposto
un’etichetta simile ad alcune loro opere. Ma si trattava di opere diverse
e nate in un clima lontano: o volte a ribadire, di fronte a un pubblico
straniero, le glorie passate della lingua e letteratura italiana (non
senza qualche preoccupazione per la sua sorte futura), come la History
of thè Italian Tongue (1757) di G. Baretti; oppure a integrare, sulle
tracce del Minatori, l’elemento «lingua» nelle origini medievali della
1 Per le vicende che portarono Migliorini alla cattedra fiorentina si veda in
particolare Fr. Mazzoni, Bruno Migliorini. Commemorazione tenuta a cura della
Società Dantesca Casentinese prò cultura e pubblicata negli Atti delia «Accade-
mia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze» di Arezzo, Arezzo 1981, spec. p. U e segg.:
l’insegnamento miglioriniano a Firenze cominciò il 5.1L1938. L’anno dopo la
Facoltà di Lettere dell’Università di Roma chiamava Alfredo Schiaffini a
ricoprire una cattedra analoga: cfr. A. Schiaffini, Italiano moderno e antico, a c. di
T. De Mauro e P. Mazzantini, Milano-Napoli 1975, p. 343; e per diversi anni queste
due rimasero le sole cattedre di Storia della lingua italiana esistenti nelle
Università italiane. I modi e i motivi che portarono in quel periodo all’attivazione
di una tale disciplina universitaria meriterebbero un’indagine specifica: chi
scrive ricorda che Migliorini attribuiva una parte importante in questa vicenda al
vivo interessamento deH'allora ministro dell'Educazione nazionale Giuseppe
Bottai.
Vili
Stona della lingua italiana
Introduzione
IX
civiltà italiana, preparando così, di lontano, materiali e argomentazio-
ni per quella che sarà la tesi del suo «primato» in Europa: tale appare,
per esempio, il capitolo «Lingua» nel Risorgimento d’Italia (parte II,
capo I) di S. Bettinelli (1775). Gli incunaboli settecenteschi della storia
della lingua italiana trovano insomma il loro baricentro in motivazioni
assai distanti dal nostro tempo: in particolare nel desiderio di una
piena legittimazione del nostro idioma di fronte al temibile dilagare del
francese, che pareva ormai travolgere ogni difesa frapposta dalla
nostra lingua, la «langue douce, sonore, harmonieuse» (Rousseau) di
Petrarca, Ariosto e Tasso. Naturalmente in quest’epoca dire «lingua»
significava ancora, in larga parte, dire «letteratura»; e per chi risiedeva
e studiava o insegnava all’estero «letteratura italiana» significava
inevitabilmente «letteratura in lingua italiana». È così che una settanti-
na d’anni dopo la History del Baretti, il Foscolo compilò, ancora per un
pubblico inglese, le sue lezioni, notevolmente più ampie, sulle Epoche
della lingua italiana (1823-1825). L’animo nel frattempo era mutato:
dalla difesa di fronte al francese si era passati alla sicura affermazione
della lingua come contrassegno ineludibile di identità nazionale: «Ogni
nazione ha una lingua», affermava il Foscolo in una lezione pavese del
1809, «Ogni letterato deve parlare alla sua nazione con la lingua
patria» 2 . E a lungo si sognò, nel rifiorimento romantico della medievisti-
ca, di una storia che, seguendo a ritroso il sentiero della lingua |
comune, superando le angustie regionali e municipali, attingesse le §
origini della nazione e della civiltà nazionale: si accinsero a questo f
compito, negli anni attorno al 1830, prima Giuseppe Grassi, e poi, dietro %
il suo esempio, Cesare Balbo, senza peraltro giungere, né l’uno né f
l’altro, a compiere i loro lavori 3 . Frattanto arrivavano in Italia i primi f
echi dei nuovi indirizzi presi dalla linguistica storica in ambiente |
germanico, e sul loro stimolo prendeva l’avvio, particolarmente a f
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I
2 Cfr. U. Foscolo, Lezioni, articoli di critica e di polemica (1809-1811}, ediz. crit. a g
c. di E. Santini (voi. VII della Ediz. naz. delle Opere), Firenze 1933, p. 65. f
3 In generale sulla viva e rinnovata aspirazione a una «Storia d’Italia» nella j
prima metà dell’Ottocento cfr. B. Croce, Storia della storiografia italiana nel 3
secolo decimonono, Bari 1930 2 , cap. V. Della incompiuta storia della lingua |
italiana del Grassi solo ora si è ritrovato il manoscritto: cfr. Cl. Marazzini, La |
linguistica di Manzoni, in Liceo linguistico «Cadorna» - Facoltà di Lettere - p
Cattedra di Letteratura italiana A dell’Università di Torino, Manzoni e l'idea di |
letteratura, Torino 1987, pp. 59-66, a p. 63; su essa cfr. C. Balbo, Pensieri ed esempi 1
con l’aggiunta dei Dialoghi di un maestro di scuola, Firenze 1854, p. 226 e segg., |
che al ricordo del Grassi e della sua opera fa seguire un suo interrotto abbozzo di I
storia della lingua italiana (rifluito poi e ampliato in alcune sezioni del Sommario 1
della Storia d’Italia del 1846). 1
Si ricordino anche le parti dedicate alla lingua in opere quali la Storia della 1
Toscana di Lamberto Pignotti (1813-1814), in bilico tra storia regionale e storia |
nazionale. Riflessioni più aperte e penetranti proponeva qualche anno dopo Gino |
Capponi nelle Lezioni sulla lingua italiana (1827-1835: la quarta e ultima è peraltro I
perduta), che preparavano da lontano gli excursus linguistici della sua tarda |
Storia della Repubblica di Firenze (1875). §
Milano, per opera precipua di B. Biondelli e di C. Cattaneo, in quel
vivacissimo laboratorio scientifico che fu la rivista «Il Politecnico»,
diretta dal Cattaneo stesso, quell’indagine rigorosa sull’origine e gli
sviluppi degli idiomi dialettali italiani e sul loro complesso rapporto
con la lingua comune, che portò alla formazione di studiosi quali G. I.
Ascoli e al costituirsi di una scuola italiana di glottologia 4 .
Suggestioni letterarie, polemica antifrancese, aspirazioni nazionali,
nuovi metodi glottologici: tutto un complesso di fermenti culturali, che
accompagna le vicende risorgimentali nel fervido clima sette-ottocente-
sco, e che sembrò più volte sul punto di dare all’Italia, accanto a ima
storia politica e civile e a ima storia letteraria, anche una storia della
lingua. Ma non si riuscì che a produrre, per allora, se non frammenti,
abbozzi, ricerche d’occasione o di dettaglio. Del resto il panorama
italiano non si diversificava molto, per questo aspetto, da quello
europeo: la storia della lingua non trovava ancora una sua sicura
ubicazione, divisa com’era tra le descrizioni della storia letteraria e i
nuovi schemi metodici della linguistica storica 5 .
Negli ultimi decenni del secolo, fondata l’Italia e fattosi più pacato il
clima dell’indagine storica, ci si rendeva ben conto che una storia della
lingua italiana restava ancora nel limbo delle aspirazioni «Chi pensi
gl’importanti lavori fatti da parecchie nazioni sulle lingue e i dialetti»,
scriveva il De Sanctis nel 1869, recensendo le prime Lezioni di
letteratura italiana del Settembrini, «maraviglierà come in Italia, dove
questi studi ebbero origine, stiamo ancora disputando se la lingua dee
prendersi da’ vivi o da’ morti, e quale sia una forma di scrivere italiana,
e niente ancora abbiamo che rassomigli ad una storia della nostra
lingua e de’ dialetti, dove siano rappresentate le varie forme, che la
lingua e il periodo ha prese nelle diverse epoche» 8 . Le aspirazioni
peraltro non venivano meno; ma non veniva meno neanche la coscien-
za delle grandi difficoltà da superare. Scriveva il romanista Pio Rajna,
verso la fine del secolo, al collega glottologo Carlo Salvioni: «Tra i
disegni che vagheggio ci sarebbe poi anche una storia della lingua
4 Su ciò si veda compendiosamente B. Biondelli e la linguistica preascoliana
di D. Santamaria (Roma 1981), di cui è stato pubblicato finora soltanto il primo
volume. Contributi fondamentali sulTargomento si trovano peraltro in S. Timpa-
naro, Classicismo e Illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa 1969, spec. nella
sezione su «Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli» (p. 229 e segg.).
5 Per questa posizione ancora incerta della storia della lingua nel corso
dell’Ottocento si vedano i primi paragrafi del saggio di Alberto Varvaro, Storia
della lingua: passato e prospettive di una categoria controversa (ora nel libro dello
stesso Varvaro, La parola nel tempo. Lingua, società e storia, Bologna 1984, pp.
9-77): al saggio del Varvaro, uscito la prima volta in Romance Philology nel 1972-73
e fondamentale per il nostro tema, avrò occasione di rinviare ancora nel corso di
' queste pagine.
0 Verso il realismo. Prolusioni e lezioni zurighesi sulla poesia cavalleresca,
frammenti di estetica, saggi di metodo critico , a c. di N. Borsellino, Torino 1965, pp.
316-317.
X
Storia della lingua italiana
italiana; ma Dio sa se sarà mai eseguito!» 7 . Per l’immediato il disegno j
di una storia della lingua italiana non ebbe in effetti pratica attuazio- f
ne. Dominava nel settore degli studi fìlologico-linguistici, l’idea, portata .]
dal comparativismo, che la storia della lingua coincidesse sostanzial-
mente con la storia delle sue origini. In particolare, la storia dell’italia-
no si inseriva, per una parte, in quella largamente congetturale delle \
origini romanze (e il comparativismo romanzo ci dette allora la prima
grammatica storica specifica dell’italiano: quella del Meyer-Lubke del
1890); d’altra parte, appena spuntavano i primi notevoli monumenti
letterari, la storia della lingua sfociava nella storia letteraria e
s’intrecciava inestricabilmente con essa. La stessa Storia della lettera-
tura italiana del De Sanctis si apriva su queste premesse (cfr. il cap. I),
ribadite qualche tempo dopo, autorevolmente, da B. Croce, per il quale
«la Storia delle lingue nella loro realtà vivente, cioè la storia dei
prodotti letterari concreti» era «sostanzialmente identica con la Storia
della letteratura » 8 .
Fuori d’Italia tuttavia, particolarmente in Francia, paese che da
sempre intratteneva legami culturali strettissimi con l’Italia, stavano
venendo alla luce orientamenti diversi, che dovevano giungere a
indicare strade nuove e più praticabili per costruire una vera storia
della lingua e delineare compiutamente gli spazi ad essa pertinenti.
Secondo questi orientamenti (ispirati a correnti sociologiche come
quella di E. Durkheim, di cui sono noti i contemporanei influssi sul
Saussure) la storia della lingua non era, o non era soltanto, storia più o
meno congetturale delle origini e della preistoria, non storia letteraria,
ma la storia, vista da un particolare angolo visuale, della società stessa
che di quella lingua si serviva per esprimersi e comunicare. «Le
langage», affermava nel 1906 il più rappresentativo dei nuovi maestri
francesi, Antoine MeiUet, «est éminemment un fait social» e «du fait
que le langage est une institution sociale, il résulte que la linguistique
est une Science sociale, et le seul élément variable auquel on puisse
recourir pour rendre compte du changement linguistique est le change-
ment social dont les variations du langage ne sont que les conséquen-
ces parfois immédiates et directes, et le plus souvent médiates et
indirectes » 9 . Una concezione dunque dagli orizzonti vasti come quelli
della società cui la lingua è inscindibilmente integrata. Il Meillet dava
subito un esempio memorabile di questa sua concezione neWApergu
d’une histoire de la langue grecque (1913): e intanto un suo connaziona-
le, Ferdinand Brunot, aveva inaugurato nel 1905 una monumentale
7 Carteggio Rajna - Salvioni, a c. di C. Sanfilippo, Pisa 1979. p. 69: la lettera del
Eajna è del 31 maggio 1891.
8 Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale , Bari 1958“, p. 162
Qa prima ediz. dell’Estetica è, com’è noto, del 1902).
9 Linguistique historique et linguistique générale , Paris, voi. I, 1975 (1“ ediz.
1921), pp. 16-17.
Introduzione
xi
Histoire de la langue frangaise, che, nel periodo pluridecennale della
sua elaborazione, doveva orientarsi sempre più verso lo studio del
nesso tra lingua e società, ricostruendo ampiamente e dettagliatamen-
te (dodici tomi in venti volumi fino al 1815!) la storia linguistica di un
paese moderno, che era stato e continuava ad essere il perno delia
civiltà europea 10 .
Emancipandosi la storia della lingua e sviluppandosi il grandioso
nrogetto di Brunot, si faceva ancora più acuta in Italia l’esigenza di
una storia della lingua nazionale. Lo stesso Migliorini, già m anni
giovanili, dava voce a questa esigenza. Ha ricordato recentemente G.
Folena che, segnalando «nel ’23 il volume del Sorrento sulla diffusione
della lingua italiana in Sicilia e quello della Schileo sul Bembo e le sorti
della lingua nazionale nel Veneto..., [Migliorini! apriva il discorso con
aueste parole...: “Una storia della lingua italiana analoga a quella che
hanno dato per il francese il Brunot e il Vossler sembra destinata a
rimanere per un pezzo un pio desiderio-, ma intanto in questi ultimi
anni non sono mancate le ricerche che ne costituiranno 1 indispensabi-
le sostrato”» 11 . Col senso di realismo, che lo caratterizzerà per tutta la
vita e che lo manterrà ugualmente distante dagli orientamenti ideali-
stici crociano-vossleriani e dai vari schematismi del tardo comparativi-
smo (il suo pr im o cospicuo approdo scientifico, il trattato Dal nome
proprio al nome comune, del 1927, studiava l’origine di parole usuali
nate dalla generalizzazione di singoli e concretissimi fatti biografici), il
giovane studioso misurava le enormi difficoltà dell impresa e si
10 VHistoire di Brunot fu continuata da Ch. Bruneau, con un altro tomo (il
XIII), che la condusse fino al 1880 circa; recentemente è uscito il; pruno di tre tomi
che dovranno portare la trattazione fino ai giorni nostri: cfr. Hist. de la Langue
frane. 1880-1914, sous la direction de G. Antoine et R. Martin, Paris 1985.
È da notare che i due volumi del tomo XI, lasciati mediti da Brunot, sono sta
pubblicati a cura di J. Godechot il primo e di G. Antoine il secondo, m epoca
relativamente recente, rispettivamente nel 1969 e nel 1979 ®runot era morto nel
1938). Particolarmente interessanti sono le riflessioni "P? rt D,^ not
appendice al secondo di questi due volumi postumi (p. 349), m cui Brunot
ripercorre il lungo itinerario seguito nel comporre 1 Histoire: dagli inizi m cm
storia della lingua gli appariva «delle qu’elle etait apparue à ses maitres, cest-à
dire composée de l'histoire des sons, des mots, des formes et des tours, de lem
formation de leur évolution, de leur disparition» fino all intuizione finale che essa
dovesse penetrare «dans l’histoire tout court», poiché, «maniee avec cntique,
l'étude du langage peut apporter à l'histoire des documents partiels,
innombrables, et quelquefois de précieux éclaircissements».
11 L'opera di Bruno Migliorini nel ricordo degli allievi con una bibliografia aei
suoi scrìtti a cura di M.L. Fanfani, Firenze 1979, p. 10. Questo volume che si
riallaccia all’altro: B. Migliorini, Saggi linguistici Firenze 1957 f’ff
una bibliografia degli scritti miglioriniani fino al 56 curata da G. Folena) e uno
strumento indispensabile per ripercorrere le tappe della camera scientifica di
Migliorini. Il brano citato sopra è tratto dal primo dei saggi commemorativi
scritto da G. Folena, La vocazione di B. Migliorini: dal nome proprio
comune, pp.1-16, a p. 10: ad esso avremo occasione di attmgere anche nelle pagine
seguenti.
Storta delta lingua italiano
Introduzione
XIII
affidava, per allora, a ricerche preparatorie di raggio limitato. Eppure,
osserva ancora Folena, queste parole «dovevano valere per lui già
come un programma personale», sia pure «troppo vasto e ambizioso
per essere proclamato» apertamente 12 . In effetti da allora comincia, se
non era già cominciata prima, quella schedatura di fenomeni della
lingua italiana contemporanea, che, attraverso ima riflessione sempre
più consapevole e approfondita (concretatasi nei saggi raccolti poi, per s
gran parte, nei volumetti Lingua contemporanea, 1938, e Saggi sulla i
lingua del Novecento, 1941), doveva costituire il punto d’awio per
ripercorrere, a ritroso, le vie seguite dalla nostra lingua dalle origini |
fino alle sue forme moderne.
Che, dopo l’accenno del ’23, Migliorini non avesse interrotto, ma
avesse anzi intensificato e approfondito i suoi interessi per una storia ì
complessiva della lingua italiana, lo dimostrano, oltre le numerose |
recensioni pubblicate in quegli anni (per lo più sulla «Cultura» di De
Lollis), diversi importanti contributi successivi Intanto il saggio del ’32 *
su Storia della lingua e storia della cultura 13 , primo schematico
approccio alla grande opera. In esso Migliorini, dichiarando di voler |
«considerare più dawicino il problema della formazione della lingua ;f
comune italiana», nota che i «sussidi» che «la linguistica ha dato
nelVultimo cinquantennio alla sua soluzione... sono piuttosto scarsi»; e
aggiunge: «Se non si vuol torcere arbitrariamente il significato delle
parole, è diffìcile trovare un problema che sia più schiettamente
linguistico di questo-, eppure i linguisti ortodossi, i puri glottologi se ne
lavano volentieri le mani, asserendo che questo è un problema storico
o un problema letterario o un problema culturale e non un problema
linguistico» (p. 11). Comincia quindi, per suo conto, a indicare alcuni di §
quelli che dovranno essere i fondamenti essenziali per impostare -
correttamente tale problema, primo fra tutti la denuncia dell’inadegua-
tezza del mito, romantico e preromantico, «che solo il periodo delle
origini abbia importanza»: se tale importanza va indubbiamente
riconosciuta, osserva Migliorini, «non è detto che i fenomeni di età più J
recente, sino a quelli che si svolgono sotto i nostri occhi, debbano
perciò essere trascurati» (p. 16). Già in queste prese di posizione, lucide 5
e decise, è in nuce l’opera futura; ed è sintomatico che, dopo altri
notevoli interventi (fra cui è da ricordare quello su Dialetto e lingua i
nazionale a Roma, che delinea in abbozzo, partendo da un caso tipico,
il ruolo del toscano letterario nel processo di formazione della lingua i
comune 14 ), a lui fosse affidata la rassegna sulla «Storia della lingua
12 L'opera di B. Migliorini cit., ibidem.
13 Apparso prima nella citata «Cultura», XI, 1932, pp. 48-60, e poi ristampato
nella raccolta di scritti miglioriniani Lingua e cultura, Roma 1948, pp. 9-26: le mie
citazioni provengono da questa ristampa.
14 Apparso dapprima in «Capitolium» nel 1932, poi. Tanno dopo, in redazione
ampliata, nella «Revue de linguistique romane», IX, 1933, pp. 370-38; quindi
ristampato anch’esso in Lìngua e cultura cit., pp. 109-123.
italiana» nel volume Un cinquantennio di studi sulla letteratura
italiana. 1886-1936, pubblicato nel 1937 a cura della Società filologica
romana e dedicato a Vittorio Rossi.
Si era ormai al momento della sua chiamata alla cattedra fiorenti-
na, e, con l’inizio del suo insegnamento di Storia della lingua italiana
nella Facoltà di Lettere di Firenze, dal novembre del 1938, cominciava a
maturare più concretamente il disegno dell’opera che vedrà la luce
oltre vent’anni più tardi. Quasi contemporaneamente, dal gennaio
1939 , prendeva l’avvio (condiretta con G. Devoto, che stava pubblican-
do la sua Storia della lingua di Roma ) la rivista «Lingua nostra», che
accompagnerà da vicino la lunga elaborazione della Storia. Già
l’articolo d’apertura della rivista, dello stesso Migliorini, Correnti dotte
e correnti popolari nella lingua italiana 15 , riprendeva e allargava i temi,
affacciati nel ’32, sulle condizioni dello sviluppo storico dell’italiano:
segno evidente che l’intelaiatura della Storia della lingua italiana
andava precisando le sue linee essenziali.
L’articolo ora citato si apriva su una presa di posizione che
traduceva in termini più ampi ed espliciti alcune affermazioni del '32
contrarie all’appiattimento della ricerca storico-linguistica su schemi
naturalistici arbitrariamente identificati con un mitico livello popolare
e primitivo della lingua (frutto di quella parte di eredità che l’età
positivistica aveva filtrato attraverso il romanticismo). Non solo i
«fattori culturali» non dovevano considerarsi elementi di disturbo nel
funzionamento e nell’evoluzione delle lingue (cfr. Storia della lingua e
storia della cultura cit., p. 17), ma era anzi venuto il momento (scriveva
Migliorini) di affermare con chiarezza che dalla «linguistica a due
dimensioni» si era passati «a una linguistica a tre dimensioni, in cui si
tien conto, oltre che dello spazio e del tempo, della stratificazione
sociale», cioè della società nel suo complesso: perché, se è legittimo e
importante ripercorrere gli sviluppi di voci e forme di livello popolare e
ereditario, «si fa tuttavia chiara ogni giorno di più la necessità di non
trascurare le altre, le cui vicende non presentano minore interesse per
il fatto che non il volgo, ma gli uomini di cultura le hanno conservate e
reinstallate nella lingua. Se la linguistica tien conto in primo luogo
dello strato popolare o addirittura plebeo, la storia della lingua deve
tener conto di tutti gli strati sociali» (p. 29). Con quest’ultima contrappo-
sizione (in cui per «linguistica» intendeva evidentemente, come aveva
già indicato nel ’32, le riduttive dimensioni ad essa imposte dalle
correnti dialettologico-naturalistiche) Migliorini apriva la storia della
lingua a quella prospettiva in cui l’avevano immessa Meillet e Brunot,
rivendicando per essa un dominio che la integrasse nella storia della
società globalmente considerata, senza esclusioni di sorta.
15 I 1939, pp. 1-8; poi ripubblicato in Lingua e cultura cit., pp. 27 46; anche in
questo caso i miei rinvìi sono alla raccolta del '48.
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xrv Storia della lingua italiana 1
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Più si leggono e si meditano queste pagine, più ci si convince che |
l’opera pubblicata vent’anni dopo, nel 1960, affonda le sue radici \
proprio in questi anni, nel decennio ’30-’40, che fu forse il più fecondo,
intenso e raccolto dell’attività miglioriniana. Dopo quest’epoca verran- |
no ancora dichiarazioni di principio e pronunciamenti vari sui proble-
mi di fondo che man mano affioravano nella costruzione, lenta e
paziente, della Storia. Se ne trovano, per esempio, nel lungo saggio
sintetico «Storia della lingua italiana», uscito una decina d’anni dopo,
nel 1948, neh volume miscellaneo Tecnica e teoria letteraria della
Collana «Problemi ed orientamenti critici di lingua e letteratura
italiana», pubblicata dall’editóre milanese Marzorati (pp. 177-229). Ma
la fatica del raccogliere prima e dell’organizzare poi l’enorme massa di
dati, predisposti per un lavoro di questa mole, prevalse nelle ultime fasi
dell’elaborazione; e prevalse il timore di non riuscire a condurre a
termine un’opera che si rivelava sempre più sterminata, e di non
riuscire a concluderla e renderla pubblica per la data che Migliorini si
era prefìssa e che aveva assunto per lui come un valore simbolico: il
1960, l’anno in cui cadeva quello che lui, e altri con lui, considerarono e
chiamarono il «millenario» della lingua italiana (essendo stata redatta
nel 960 la «carta capuana», considerata il primo documento sicuro in
un volgare italiano-, cfr. Storia, X, 8).
Quando le considerazioni di fondo sulla struttura dell’opera riemer-
gono, nella «Premessa» della Storia stessa, sono divenute assai più
schematiche e strumentali: a volte colorite anche di un lieve scettici-
smo, come di chi abbia superato una prova durissima, che ha scosso, se
non le convinzioni fondamentali, un po’ della fiducia iniziale nelle
dichiarazioni di principio e nella loro utilità. Si sa del resto che, l
all’inizio, Migliorini aveva in mente un’opera più ampia, sull’esempio
dell’Histoire di Brunot, anche se non della stessa mole, e che solo la
constatazione che, per compiere una tale impresa, non gli sarebbe
bastata la vita, lo indusse a ridurre il disegno primitivo entro imo
spazio più limitato e, quindi, più denso e contratto. La breve «Premes-
sa» si apre comunque sul tema iniziale dell’articolo del ’39, anche se nel
frattempo le vicende e gli orientamenti della linguistica italiana ne
hanno fatto spostare un po’ i termini. La storia della lingua deve ora
difendere i suoi spazi d’indagine in primo luogo da una reincarnazione >'
del vecchio idealismo crocianeggiante, cioè da quella che si chiamò a
quel tempo «critica stilistica» ed ebbe il suo più noto portabandiera nel
critico e linguista Leo Spitzer, le cui idee, per questo aspetto, si y
diffusero in Italia prevalentemente nei primi dieci-quindici anni del f
secondo dopoguerra 18 . Ritornava, sotto altra forma, quella commistio- f
ne tra lingua e letteratura, tra creazione poetica e innovazione
18 Sulla critica stilistica di matrice spitzeriana e sulla sua fortuna in Italia si
può vedere, compendiosamente, il volume antologico L. Spitzer, Critica stilistica e
storia del linguaggio, Bari 1954, curato da A. Schiaffini, che vi premise anche una
illuminante e informatissima «Presentazione».
Introduzione xv
linguistica, che (come abbiamo visto) ha una tradizione molto antica e,
particolarmente in Italia, assai fortunata. Per questo, presumibilmente,
buona parte della Premessa miglioriniana è dedicata a riprendere il
vecchio tema della distinzione tra storia della lingua e storia della
letteratura, e, più in generale, tra lingua e letteratura, tra lingua e stile.
Del resto fin dal 1923, dissociandosi dai crociani d’allora, Migliorini
dichiarava: «L’effetto e il metodo dell’indagine letteraria e dell’indagi-
ne linguistica, se non sono opposti, sono certo distinti...» 17 . Su questo
abbrivio Migliorini riprende gli argomenti già affacciati nel ’32 e nel ’39,
per riaffermare che, se è vero, da un certo punto di vista, che la realtà
sono i «singoli atti di linguaggio concreto» e che «La lingua... non altro
è che un’astrazione», è anche vero che gli «istituti» della lingua
presentano obiettivamente ima continuità, di cui si può e si deve fare
storia; e che, se non va sottovalutata «l’importanza che hanno sempre
avuto gli individui nell’evoluzione della lingua», sarebbe d’altra parte
errato «mettere al centro della trattazione i singoli letterati nella loro
concreta personalità»: vero protagonista è l’insieme della società nella
sua variata composizione e nelle sue molteplici esigenze espressive;
vero protagonista è il «popolo» nel suo aspetto di entità complessiva,
anonima, interindividuale (pp. 3-4). Ritorna qui, vista da un’altra
prospettiva, la «terza dimensione» del saggio del ’39, e si conferma che
il punto di riferimento essenziale, sul quale Migliorini ritiene si debba
fondare l’identità e l’autonomia di una storia della lingua, è la società
intera che la parla, o comunque se ne serve, senza limitazioni di sorta;
e senza, d’altra parte, divagazioni verso finalità e obiettivi che non
siano suoi propri.
Principalmente per queste ragioni, quando comparve, nei primi
mesi del 1960, la Storia della lingua italiana di Migliorini fu subito
avvertita come una novità in assoluto nel panorama scientifico
italiano: quell’aver individuato originalmente l’ambito proprio di una
disciplina a lungo vagheggiata, ma ancora, si può dire, nuova,
quell’averlo riempito di una quantità di dati enorme e, nella maggior
parte, di prima mano rivelavano un aspetto della storia italiana fin
allora non descritto se non incidentalmente o per frammenti; apporta-
vano alla storia d’Italia come un fascio di luce nuova che serviva a
metterne più chiaramente a fuoco momenti ed episodi rilevanti e a
ridiscuteme la stessa linea complessiva di sviluppo. Era davvero, e tale
fu giudicata da tutti, un’opera che veniva a colmare una lacuna tra le
più vistose e sofferte. «Dopo il Profilo di storia linguistica italiana di G.
Devoto (uscito nel ’53], che, come il titolo stesso indica, non è proprio la
stessa cosa...», affermava uno dei più impegnati recensori, C. Dionisot-
17 Cfr. «La cultura», II, 15.7.1923, p. 419: la frase si riferisce alle posizioni di G.
Bertoni, che aveva appena pubblicato il suo Programma di filologia romanza
come scienza idealistica (Genève 1923).
XVI
Storia della lingua italiana
Introduzione
XVII
ti, «quella di Migliorini è la prima storia della lingua italiana su cui si
siano posati i nostri occhi increduli» 18 .
I rendiconti e le segnalazioni apparsi all’indomani della prima
edizione dell’opera, in Italia e all’estero (Migliorini era considerato da
tempo anche fuori d’Italia il più accreditato studioso della nostra
lingua) furono numerosi e ne misero in rilievo adeguatamente l’impor-
tanza fondamentale 19 . Presto il libro si diffuse e fu ampiamente
conosciuto anche in molti paesi stranieri attraverso le traduzioni che
ne fecero T.G. Griffith in inglese (1966 e edizz. successive) e Fr. P. de
Alcantara Martinez, in spagnolo (1969). La Storia di Migliorini diventò
un punto di riferimento essenziale per storici e linguisti italiani e
stranieri. In Italia la sua influenza non si limitò agli strati elevati della
cultura scientifica, ma, attraverso edizioni divulgative, ebbe una
circolazione al livello del lettore medio, e s’affacciò anche nell’insegna-
mento scolastico con l’edizione ridotta preparata in collaborazione con
I. Baldelli e pubblicata nel 1964 20 , ben prima cioè che la riforma del ’77 5
introducesse ufficialmente la storia della lingua italiana nella scuola
media. f
La Storia di Migliorini divenne subito quindi, nella sua imponente |
struttura, opera di consultazione indispensabile e di indiscutibile
prestigio. Tuttavia, fra le righe delle recensioni e degli interventi vari, si
avvertivano a volte, fin d’allora, appena velati, atteggiamenti di
riservata o recalcitrante ammirazione, da mettere in conto alla novità, f
a suo modo non conformista, di questo libro tutto tramato di fatti, e di f
fatti non addomesticati in alcun modo. In un momento in cui tornavano f
a dominare le ideologie un’opera di questo genere in ima certa misura |
disturbava. Forse sono queste le ragioni per cui, paradossalmente, se |
nei quasi trent’anni che ormai ci dividono dalla sua prima apparizione
la Storia di Migliorini ha avuto la fortuna e la diffusione che meritava, |
non sembra avere avuto ancora una fecondità che sia pari al potenzia- |
le scientifico in essa contenuto. Da una parte la «istintiva» e crescente §
«ritrosia del Migliorini a impelagarsi in discussioni teoriche» (sottoli- I
neata da uno dei più attenti recensori, P. Fiorelli 21 ) la ha estraniata |
dalle prestigiosissime correnti di linguistica teorica che hanno ripreso f
quota vigorosamente in Italia in questi ultimi venti anni 22 . Il clima in §
fé
18 La recensione di Dionisotti uscì dapprima in «Romance Philology», XVI, |
1962-63, pp. 41-58; poi fu ripubblicata in C. Dionisotti, Geografia e storia della |
letteratura italiana, Torino 1967, pp. 75-102, donde si cita (il passo riportato è in |
apertura, a p. 75). §
19 Se ne può vedere un elenco molto ampio nella preziosa bibliografia di M. |
Fanfani contenuta nel volume cit. L’opera di B. Migliorini, a pp. 198-200. ;>
20 B. Migliorini e I. Baldelli, Breve storia della lingua italiana, Firenze 1964. |
81 «Studi linguistici italiani» I, i960, pp. 71-84, a p. 73. |
82 A titolo solo approssimativamente indicativo si può ricordare che sono del sS
1967 la traduzione del Cours de linguistique générale di F. de Saussure con ampio §
commento a cura di T. De Mauro, e la traduzione degli Éléments de linguistique |
générale di A. Martinet curata e adattata all'italiano da G.C. Lepschy (ambedue 1
cui la Storia era nata e aveva messo le sue prime radici era tutt’altro,
come abbiamo già osservato: in un periodo in cui risorgeva il culto
della lingua come struttura in sé conclusa e anche diacronicamente
autosufficiente (basti pensare alle cautele di un linguista di scuola
francese come A. Martinet 23 ), era pressoché inevitabile che un’opera di
questo genere, pervasa d’un sano e generoso empirismo, restasse, se
non emarginata, non adeguatamente utilizzata e compresa. D’altra
parte è vero che, parallelamente, altre correnti di linguistica, che,
seppure in forme rinnovate, risalivano alle stesse fonti cui aveva
attinto a suo tempo Migliorini, in particolare la ed. «sociolinguistica»,
riportavano in primo piano il nesso tra lingua e società, il loro
reciproco condizionamento, i loro paralleli sviluppi 24 ; proprio da queste
correnti derivava anzi nell’Italia di quegli anni un contributo di
prim’ordine sulle ragioni e i problemi della storia della lingua quale è
l’ampio saggio di A. Varvaro, Storia della lingua: passato e prospettive
di una categoria controversa, pubblicato la prima volta nel 1972-73 25 . Ma
la storia della lingua italiana, nelle sue manifestazioni più appariscen-
ti, aveva ormai preso indirizzi che solo parzialmente si riallacciavano
al gran testo miglioriniano e privilegiavano piuttosto questioni collega-
te al lungo travaglio della società italiana per realizzare anche
linguisticamente un amalgama reale fra le sue varie componenti: la
resistenza dei dialetti di fronte all’espansione dell’italiano e i modi
della diffusione di questo negli ambienti dialettofoni-, la presenza di un
tipo di italiano parlato e popolare, spesso trascurato dagli studiosi e
avversato dai grammatici; l’esistenza sul territorio politico italiano di
min oranze alloglotte. Erano tutti temi in cui la ricerca linguistica si
ricollegava scopertamente a motivazioni sociali, e anzi rischiava, a
per i tipi dell’editore Laterza di Bari). Nel 1966 a Torino (ed. Einaudi) il Lepschy
aveva intanto pubblicato il fortunato volumetto Linguistica strutturale.
33 Per es. Economie des changements phonétiques. Traité de phonologie
diachronique (Bem 1955), 6. 26: «... Les linguistes auront intérèt à distinguer,
panni les facteurs dits extemes qu'on peut invoquer au moment où l’économie de
la langue ne suffit plus, entre les facteurs linguistiques et les facteurs non-
linguìstiques. Ces demiers sont ceux pour lesquels les amateurs manifestent ime
prédilection qui devrait les rendre suspects aux yeux des linguistes sérieux...»-,
Éléments de linguistique générale (Paris 1960), 6. 4: «... il est très difficile de
marquer exactement la causalité des changements linguistiques à partir des
réorganisations de la structure sociale et des modifications des besoins communi-
catifs qui en résultent... L’objet véritable de la recherche linguistique sera donc,
ici, l’étude des conflits qui existent à l’intérieur de la langue dans le cadre des
besoins permanents des ètres humains qui communiquent entre eux au moyen
du langage», ecc.
M Per la diffusione della «sociolinguistica» in Italia è significativa la testimo-
nianza di M. Cortelazzo, Avviamento critico allo studio della dialettologia
italiana. I problemi e metodi, Pisa 1969, p. 139 e segg. Una ricostruzione a posteriori
offre, fra gli altri, A.M. Mioni, Per una sociolingustica italiana. Note di un non
sociologo, «saggio introduttivo» premesso a J.A. Fishman, La sociologia del
linguaggio, Roma 1975, pp. 9-56, spec. a p. 12-14.
“ Già citato sopra alla nota 5.
XV1I1
Storia della lingua italiana
volte, di esserne addirittura travolta: il che giustifica la loro fortuna in
questi ultimi due-tre decenni, che hanno visto verificarsi in Italia (come
in gran parte del mondo) rivolgimenti sociali profondi. Alla nascita di
questa problematica di storia, per così dire, «militante» dell’italiano la
Storia di Migliorini ha partecipato, dobbiamo dire, solo marginalmente.
Il libro che prima e più direttamente ne ha ispirato gli orientamenti e i
contenuti è stata la Storia linguistica dell’Italia unita di Tullio De
Mauro, uscita la prima volta nel 1963, e nata originariamente nel 1961,
nel quadro delle celebrazioni per il centenario dell’unità politica
d’Italia (lontana quindi, anche in ciò, dalla Storia di Migliorini, che
aveva avuto, come s’è visto, fra i suoi stimoli quello di celebrare la
ricorrenza di una data ben più remota: il «millenario» della lingua
italiana 26 ). Per trovare uno studioso che si accinga a ripercorrere
sistematicamente a ritroso la storia dell’italiano fino alle sue origini, a
riprendere cioè il tema miglioriniano in tutta la sua ampiezza e con
tutte le sue implicazioni (riproponendone, al tempo stesso, tutti i
problemi e le difficoltà), bisógna aspettare fino al 1981, quando
Marcello Durante nel suo volume Dal latino all’italiano moderno.
Saggio di storia linguistica e culturale ? 7 ridisegnò, entro lo stesso
quadro geografico e temporale miglioriniano, ma con più stretta
sintesi, una sua linea interpretativa delle origini e degli sviluppi della
lingua italiana 28 .
A quasi trent’anni di distanza da quel 1960 in cui vide la luce,
dopoché le varie e, a volte, tumultuose vicende che abbiamo appena
schizzato qui sopra si sono susseguite entro l’orizzonte scientifico e
culturale d’Italia, vediamo ora di riaprire questo libro di Bruno
Migliorini, che proprio per la sua inattaccabile consistenza e solidità
non appare affatto invecchiato e risulta ancor oggi il testo di storia
della nostra lingua più ampio e affidabile cui professionisti e «amatori»
26 Dopo la prima edizione (Bari 1963) la Storia di De Mauro ne ha conosciute
una seconda, «riveduta, aggiornata e ampliata» (Bari 1970), e una terza, presso-
ché immutata (Bari 1972); quasi identica a quest’ultima, salvo una breve
«Avvertenza» (pp. xv-xvm), è l’ultima edizione pubblicata, sempre dall’editore
Laterza di Bari, nel 1983.
27 Pubblicato a Bologna dalla casa editrice Zanichelli.
28 Tralascio qui, per brevità, di indicare altre «storie della lingua italiana»
uscite nel frattempo, anche pregevoli e importanti per certi aspetti (penso, per es.,
al volume di F. Bruni, L’Italiano. Elementi di storia della lingua e della cultura,
UTET, Torino 1984), ma sostanzialmente riportabili al panorama sopra descritto.
Implicito è sempre il rinvio alle principali bibliografie di studi sulla lingua
italiana uscite dopo il ’60, in particolare il primo (Firenze 1969) e secondo (Pisa
1980) supplemento alla Bibliografia della linguistica italiana di R. A Hall jr.,
l'Introduzione allo studio della lingua italiana di Z. Muljacié (Torino 1971), i Dieci
anni di linguistica italiana (1965-1975), a c. della Società di linguistica italiana
(Roma 1977), ciascuna delle quali contiene una o più sezioni dedicate alla storia
della Ungila.
Introduzione
xix
' possano riferirsi in caso di bisogno o di curiosità e cerchiamo di far
| affiorare da esso, sia pure per cenni necessariamente rapidi, quelle
| potenzialità nascostevi dalla discrezione dello studioso-, cerchiamo
insomma di offrire al lettore degli anni 80 e 90 una chiave di lettura per
I penetrare in questo libro dall’accesso ingannevolmente facile e dalla
ricchezza inesausta e, a volte, inapparente.
§ Per introdurre il lettore contemporaneo dentro le pieghe del libro di
v Migliorini, in modo che ne penetri i segreti e ne comprenda a pieno le
linee costruttive, si deve innanzitutto esortarlo a dirigere la propria
attenzione verso gli schemi in cui l’autore ha racchiuso la sua materia;
\ schemi che appaiono spesso non dei più adatti a facilitare il cammino
lungo il sentiero storico che nell’opera miglioriniana attraversa ima
ventina di secoli. Anzitutto gli schemi di quella «che gli storiografi
t chiamano col termine un po’ macchinoso di periodizzazione » (come
scriveva Migliorini nel ’37, segnalando il neologismo). L’autore nella
Premessa dichiara di aver optato per la «divisione convenzionale per
| secoli», senza peraltro dare «alla data secolare altra importanza che
quella di ima divisione comoda», che offre, nonostante gli inconvenien-
§ ti, notevoli «vantaggi pratici» (pp. 5-6). In altre parole, l’urgenza di
Ì stringere in una sintesi conclusiva gli sterminati materiali raccolti lo
ha indotto a optare per una periodizzazione «esterna», per «epoche
cronologiche», piuttosto che ricercare, all’interno della materia, una
I periodizzazione, per cosi dire, immanente ad essa, «per epoche stori-
1 che» (come avrebbe detto B. Croce). Ciò fa sì che la descrizione dello
| sviluppo di singoli fenomeni o di singole vicende, il cui iter dura non di
rado per secoli, sia continuamente interrotto e resti affidato al lettore il
| compito di riannodare i fili rimasti pendenti.
Per offrire un esempio, si può partire dal nome stesso della lingua,
che solitamente non è una semplice etichetta esterna, ma riflette
ì aspetti salienti della realtà sociolinguistica, come ha mostrato esem-
plarmente A. Alonso nel suo Castellano, espafiol, idioma nacional 2S> . Per
ciò che riguarda l’Italia e l’italiano, si parte da una situazione
■ medievale, in cui, nonché la denominazione linguistica, neanche quella
geografica è ben fissa (cap. IV, 3, p. 1 15); si attraversa poi un periodo in
a cui dominavano ancora i nomi dei molteplici volgari, e soprattutto del
I più prestigioso di essi, il «toscano» o «fiorentino» (cap. VI, 10, p. 196 e
1 segg.; le eccezioni sono poche: fra esse spicca, singolarissima e
| anticipatrice, quella di Dante col suo «vulgare latium » o «italico
1
| » Buenos Aires 1938 (2 a ed., «con adiciones y emniendas», ibidem, 1943).
Osserva opportunamente N. Denison: «Language planners may care to note that
| there seems to be an inbuilt psychological advantage in using for thè language
variety selected as thè basis for a national standard a designation based on thè
jf name of thè area or group over which its spread or consolidation is desired...», in
| « Sociolinguistic Aspects of Plurilingualisin», negli Atti del Convegno « Internatio -
§ nal Days of Sociolinguistics » (Roma, 15-17 settembre 1969), Roma, Istituto «Luigi
I sturzo», S.d., pp. 255-278, a p. 274 n. 15.
XX
Storia dèlia lingua italiana
volgare» o simili, cfr. cap. V, 2, p. 169 e segg.l; e si arriva, alla fine del |
Quattrocento, a un momento in cui ormai «si adoperano promiscua- |
mente e quasi indifferentemente i termini di volgare, fiorentino, fosca- |
no, italiano », anche se italiano appare solitamente riservato a contesti f
in cui si introduce «il confronto con altre lingue vive» (cap. VII, 6, p. |
244 F°. La vera disputa sul nome della lingua, come tutte le altre più |
sostanziali di cui essa è il riflesso, si apre nel Cinquecento, quando il |
nome più frequente rimane ancora «quello di volgare, lingua volgare...», |
ma parecchi «parlano di toscano, lingua toscana...-, e si tratta sia di §
Toscani sia di non Toscani fautori della lingua trecentesca»; raro è |
« lingua fiorentina...; e anche piuttosto raro lingua italiana...» (cap. Vili,
8, p. 328). La tendenza continua nel Seicento, quando, «benché le
designazioni di ‘fiorentino’, ‘toscano’, ‘italiano’ appaiano tutte e tre, la
seconda è di gran lunga predominante, adoperata qualche volta anche 1
da chi non accetta la disciplina della Crusca» (cap. IX, 9, p. 414). I
Evidentemente un fatto politico, la costituzione del Granducato medi- §
ceo, e un fatto linguistico sopraregionale, la consacrazione e la f
codificazione del toscano trecentesco come lingua letteraria di dimen- §
sione panitaliana, hanno favorito la denominazione toscano (che, fatte f
le debite proporzioni, ha un valore simile a quella di castellano in
Spagna). Nei secoli successivi, e soprattutto nel corso dell’Ottocento, §
l’insofferenza per la vecchia disputa sulla lingua si fa sempre più I
acuta, man mano che all’idea di ima lingua letteraria attinta ai maestri ;
toscani del Trecento si va sostituendo l’idea di una lingua che rifletta
l’unità nazionale italiana. È il periodo, ha osservato recentemente G. §
Bollati, in cui «‘italiano’ cessa di essere unicamente un vocabolo della I
tradizione culturale, o la denominazione generica di ciò che era g
compreso nei confini della penisola, per completare e inverare il suo |
significato includendovi l’appartenenza a una collettività etnica con g
personalità politica autonoma» 31 . Da allora in poi la denominazione §
lingua italiana prende decisamente il sopravvento: «Giacché il destino |
dopo la caduta dell’imperio di Roma non ha mai conceduto all’Italia di |
risurgere in ima sola nazione...», dichiarava Alessandro Verri nel 1806, |
«sia almeno congiunta nella lingua letteraria. Per la qual cosa |
spregiando quelle controversie puerili se le convenga il nome di f
Fiorentina, di Toscana, o d’italiana, riserbiamole quest’ultima denomi- f;
nazione» 32 . Fra gli stessi puristi, ancora asserragliati in genere nella 1
1
1
30 Un ampio panorama suH’origine delle denominazioni dei vari idiomi §
romanzi ed europei traccia G. Folena, «Textus testis-, caso e necessità nelle origini K
romanze», in AA.W., Concetti, storia, miti e immagini del Medio Evo, a c. di V. |
Branca, Firenze 1973, pp. 483-507. E
31 Nel saggio «L’Italiano», raccolto ora nel volumetto di Bollati, L'Italiano. Il |
carattere nazionale come storia e come invenzione, Torino 1983, pp. 34-123, a p. 43 |
(ma si ricordi che originariamente questo saggio era stato pubblicato nel voi. 1 |
della Storia d'Italia, Einaudi, Torino 1972, pp. 949-1022, di cui diremo fra poco). I
32 I quattro libri di Senofonte dei Detti memorabili di Socrate. Nuova traduzio- |
Introduzione
xxi
trincea delle vecchie denominazioni («Da’ Toscani...» osserva il . Cesar *
Sf 1808 «si derivò e distese per tutta Italia il buon linguaggio, che
cupidamente ci fu ricevuto: di che conseguita, che questa lmgùa non
nnò altro che impropriamente, chiamarsi italiana»), comincia a
SSo a tastouarsl U dubbio («... innanzi dovrebbe essere sufficiente,
mente conosciuto il toscano o italiano che voglia chiamarsi..», scnve.
Ranalli una quarantina d’anni dopo), e, nei piu impegnati politicarne
te come rAngeloni, s’impone addirittura fin dall inizio la preferen a
ner italiano (o, più ricercatamente, italico!*. Basta scorrere ì capP-XIe
Xii della Storia di Migliorini (in particolare ai paragrafi, nsp ®^ 1 J a ™ e 1 ?
6 7 9 e 8, 9) per rendersi conto dei decisivi progressi della
denominazione oggi esclusiva. Da quando poi dalla .frammentazione
noUto^sf pafsa Tn’unità d’Italia (cap. XII della Sformi i il vecchio
termine diventa del tutto obsoleto (assai piu di guanto non sia
accaduto a castellano, per continuare il paragone iberico), e all inizio
del nostro secolo non si ritrova che, del tutto sporadicamente m
nualche ritardatario o in qualche scrittore periferico (per es. Italo
Svevo nella Coscienza di Zeno-. «Egli parlava il toscano con grande
naturalezza», «Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo!», ecc ).
Al di là della suddivisione in capitoli «secolari», si possonosegmre
bene come si vede, le varie fasi di un fenomeno storico-linguistico non
secondario: dal periodo del plurilinguismo vol S a ^ e ^rdomechevale a
quello del «toscano» rinascimentale, fino a quello dell italiano, che
contraddistingue l’epoca contemporanea.
Altrove basta scorrere appena i titoli dei paragrafi, per capire che
qualcosa di nuovo sta accadendo nel quadro sociale e culturale eh
condiziona lo sviluppo dell’italiano. La struttura di quei capitoli c
costituiscono la parte più organica e propria della Stona dal IV-Vi
poi, ripete solitamente un cliché in larga misura prevedibde^ Osservare
in esso una variazione, vale a dire un paragrafo o una titolatura nuova,
è indizio che qualcosa di importante si è mosso nelle vicende della
lingua.
ne dal greco di Michel Angelo Giacomelli con note e variazioni di A.V., Brescia
1806 j 3 Por Cesari cfr al cap IX della sua Dissertazione sopra lo stato presente
della lingua italiana, scritta nel 1808, «coronata» nel 1809 * 'SS ‘"raccolti'
nel 1810 Qa mia cit. è tratta da Opuscoli linguistici e letterari diA.C.,i raccolti,
ordinati e illustrati ora per la prima volta da G. Gmdetti Reggio ^
173). D er il Ranalli Del riordinamento d'Italia, Firenze 1859, p. 157; per 1 Angelom si
può vedere per esempio, Dell'Italia uscente il settembre del 1818. Ragionamenti IV
P^rim 1818 voi II p 30Ò. I dubbi avevano finito del resto per insinuarsi anche
nella mente del Cesari come risulta dalla nota del Guidetti al passo citato sopra.
cfr U anche, su ciò, S. Timpanaro, Aspetti e figure _deUa
1980 n 159 e n 18 Sulle discussioni che formano il sostrato di questa disputa sui
nome deTa tagìia Riforma esaurientemente M. Vitale. La questiona della lingua,
Palermo 1984, passim, e in particolare per 1 Ottocentop 345 e se Kg-
« Cito dalla quattordicesima ediz., Milano, s.d., pp. 131 e 445-, la prima ediz. e
(com’è noto) del 1923.
xxn Storia della lingua italiana
Fino al Quattrocento, per esempio, si parla di volgari, e il toscano è §
uno fra essi, il più prestigioso. Dal Cinquecento l’etichetta cambia: si %
parla (cap. Vili, 7) di «Uso letterario dei vernacoli»; ed è questa una §
formula di transizione a quelle che figurano nei capitoli sul Seicento |
QX, 7): «Uso effettivo e uso riflesso dei dialetti», e sul Settecento (X, 9): |
«Uso scritto dei dialetti». È questo il periodo in cui la lingua comune si |
è anche grammaticamente consolidata, e si può configurare per la |
prima volta in modo netto un’opposizione tra essa e i vecchi volgari
ormai divenuti dialetti 35 : dialetti, si deve subito aggiungere, dotati :
ancora di una vitalità e di un prestigio letterario e, talora, sociale per
niente trascurabile, in un’Italia che appariva (secondo le parole del f
Goldoni) un «amabile paese», la cui «bellezza» e la cui «bontà trovasi f
sparsa e divisa in mille parti» (di fronte a una Francia, dove tutto «il -f
bello, tutto il buono... è a Parigi») 38 . Scorrendo la Storia di Migliorini ]
non ci si deve insomma adagiare sulla troppo palese ripetitività dei |
clichés ; quando una novità vera insorge, Migliorini è sempre pronto a f
segnalarla in forma estremamente semplice, senza preamboli o «cica- i
lamenti», secondo il suo stile, magari con un piccolo, quasi impercetti- §
bile mutamento di schema. A un certo punto, per fare un altro esempio, g
precisamente dal Settecento (cap. X) in poi, si osserva che nello schema f
usuale si inserisce un paragrafo dal titolo nuovo, che si mantiene poi i
fino alla fine del libro: il paragrafo dedicato alla «lingua parlata» (cap. |
il
” È d’ obbligo il rinvio al saggio crociano del ’26 La letteratura dialettale |
riflessa, la sua origine e il suo ufficio storico, citato anche da Migliorini (pp. 293 n. £
75, 391 n. 55). Ultimamente due studiosi, M. Alinei, Dialetto.- un concetto rinasci- §
mentale fiorentino. Storia e analisi in «Quaderni di semantica». II, 1981, pp. 147-173
(poi in Id., Lingua e dialetti: struttura, storia e geografia, Bologna 1984, pp. 169-199) e %
P. Trovato, « Dialetto » e sinonimi (« idioma », « proprietà », «lingua») nella termino- |
logia linguistica quattro-cinquecentesca, in «Rivista di letteratura italiana», II, 3
1984, pp. 205-236, ricostruendo la storia moderna del termine «dialetto», hanno t
portato interessanti precisazioni su questo momento di passaggio dal volgare
medievale al dialetto moderno. |
M II brano di Goldoni è tratto da ima sua lettera al conte A. Paradisi del
28.3.1763 da Parigi: cfr. C. Goldoni, Opere, a c. di G. Folena con la collaborazione di
N. Mangini, Milano 1975 4 , pp. 1503-1504, a p. 1504. Osservazioni analoghe del il
Bettinelli, che magnificano il policentrismo italiano (con sottintesa ^polemica |
verso l’accentramento francese) sono citate dal Migliorini stesso a p. 435 n. 2. g
Sulla vitalità dei dialetti e sul loro fecondo rapporto con la lingua nell’Italia di |
questo periodo mancano ancora studi d’assieme sufficientemente approfonditi: si f
possono citare, esemplarmente, l’ediz. Isella del Teatro milanese di C.M. Maggi J
(Torino 1964), e i saggi attinenti nella silloge di G.P. Clivio, Storia linguistica e |
dialettologia piemontese, Torino 1976. Sulle prese di posizione antagonistiche di 3
vari idiomi regionali di fronte alla supremazia del «toscano» si veda intanto il g
panorama di M. Vitale, Di alcune rivendicazioni secentesche della « eccellenza » dei f
dialetti, in AA.W., Letteratura e società. Scritti di italianistica e di critica letteraria |
per il XXV anniversario dell’insegnamento universitario di C. Petronio, Palermo |
1980, pp. 209-222, ricordando peraltro che questo atteggiamento continua a lungo, g
e raggiunge forse il suo momento di maggior prestigio sociale nel corso del |
Settecento. I
Introduzione xxiu
X, 4, capp. XI, 5 e XII, 5). È il segnale, inviato discretamente al lettore,
che da quell’epoca in poi cominciano a farsi consistenti le testimonian-
ze di ima diffusione della lingua comune a livello parlato (prima d’ora
non erano affiorati che indizi sparsi: cfr., per es., p. 300 n. 61): una
diffusione che si attua per gradi, attraverso quelle varietà idiomatiche
ibride, fatte di lingua mescidata a dialetto, che il Foscolo chiamerà
italiano «mercantile» e «itinerario» e il Manzoni «parlar finito», e che
rappresentano gli antecedenti di quelle che oggi si chiamano solita-
mente «varietà regionali d’italiano» e rappresentano un punto di
passaggio quasi obbligato per giungere all’uso parlato e colloquiale
dell’italiano. È questo, così sobriamente segnalato dal Migliorini, imo
dei processi fondamentali della lingua italiana moderna e contempora-
nea: il processo attraverso il quale una lingua, nata come una lingua
degli scrittori, soppianta a poco a poco gli idiomi dialettali nel loro
ruolo di lingua materna, e diventa quella che il Manzoni chiamava una
lingua «vera» e «intera». E tutto porta a supporre che i dati esibiti dal
Migliorini non siano casuali: che cioè veramente nel secolo XVIII, per
molte ragioni concomitanti, questo processo abbia conosciuto, se non
proprio i suoi primi incunaboli, una accelerazione decisiva che ha
condotto alla situazione odierna 37 .
Già da queste poche e sparse osservazioni, tendenti a riannodare
fili ripetutamente interrotti nel corso della Storia e a fame percepire al
lettore la mobile continuità, ci si può rendere conto non solo della
molteplicità di linee interpretative latenti negli schemi della trattazio-
ne miglioriniana, ma anche della possibilità di inquadrare l’enorme
quantitativo di materiali sistemati entro quegli schemi in una vera
periodizzazione storica che renda più trasparente e agile la lettura.
Proposte di periodizzazione della storia della lingua italiana erano già
state avanzate per la verità anche prima del 1960, ed era forse aperta a
Migliorini la possibilità di saggiarne, almeno parzialmente, la pratica-
bilità 38 . Se si decise a ripiegare sulla periodizzazione cronologica, lo si
31 Sulle varietà regionali d’italiano e sulla loro importanza per l’accesso alla
lingua comune un contributo decisivo fu quello di G.B. Pellegrini, Tra lingua e
dialetto in Italia, in «Studi mediolatini e volgari». Vili, 1960, pp. 137-153 (ora
leggibile anche, con un’«Appendice», nella raccolta di scritti di Pellegrini, Saggi
di linguistica italiana. Storia, struttura, società, Torino 1975, pp. U-54), Di lì a poco
T. De Mauro nella Storia linguistica dell’Italia unita cit. riprese e svolse molto più
ampiamente il tema, dando l’avvio a innumerevoli interventi sull argomento.
Sulle dimensioni assunte dalla progressiva acculturazione dei dialettofoni all’ita-
liano dall’Unità in poi, in particolare in questi ultimi decenni, cfr. ora, riassuntiva-
mente, il saggio di L. Còveri, Lingua nazionale, dialetti e lingue minoritarie in
Italia alla luce dei dati quantitativi in «Linguaggi», II, 1985, fase. 3, pp. 5-13.
38 Spunti preziosi in tal senso si trovavano, per es., in P. Fiorelli, Storia
giuridica e storia linguistica, in «Annali della storia del diritto», 1, 1957, pp. 261-291;
e in G. Folena, L'esperienza linguistica di C. Goldoni, in «Lettere italiane», X, 1958,
pp. 21-54, a pp. 21(-23) n. 1 (ora in Id., L’italiano in Europa. Esperienze linguistiche
del Settecento, Torino 1983, pp. 89-132, a pp. 113-115), che rinvia al saggio del Fiorelli:
si osservi peraltro che ambedue gli articoli si situano in un’epoca in cui la Storia
XXIV
Storia della lingua italiana
Introduzione
xxv
deve probabilmente, oltre che all’urgenza dell’elaborazione, alla volon- 1
tà, tipicamente miglioriniana, di non dissimulare al lettore alcuna delle I
sue schede, di non barare con lui in alcun modo, di non nascondergli |
alcun dato obiettivo in suo possesso, sacrificandolo a visioni soggetti- I
ve, che potevano rivelarsi anche illusorie e fallaci. I
Si deve poi aggiungere che il problema della periodizzazione, se è g
sempre delicato per qualsiasi storico, diviene particolarmente arduo |
per lo storico della lingua, la cui materia si presenta per lo più percorsa I
e come divisa da una bipartizione in storia « esterna» e storia «interna» g
(o come, forse più propriamente, si potrebbe chiamarle: storia sociocul- |
turale e storia strutturale): due aspetti, ciascuno dei quali appare f
regolato da ritmi propri, spesso non riconducibili, almeno a prima |
vista, gli imi agli altri 39 . Migliorini si era posto questo difficile problema |
prima di cominciare a organizzare e a stendere il suo testo, negli anni |
deirimmediato dopoguerra (si ricordi che, per sua stessa testimonian- |
za, la redazione vera e propria della Storia cominciò nel 1949: cfr. §
Premessa, p. 3), e lo aveva risolto col suo solito sereno buon senso, |
riconoscendo con onestà e acutezza che una tale bipartizione «è |
veramente un po’ arbitraria»: «un ideale ordinamento spingerebbe g
piuttosto a far sparire questa dicotomia, e a cercare le cause dei I
mutamenti che man mano avvengono nelle vicende a cui la lingua i
soggiace»; ma, aggiungeva subito, «se una certa corrispondenza tra §
vicende esterne ed aspetti della lingua indubbiamente esiste, non è così |
immediata e perspicua da potersi stabilire in ogni caso»; e per questo |
decideva di mantenere la distinzione e lo schema dicotomico sia nella g
sua trattazione sommaria del ’48 (cui abbiamo già fatto riferimento e g
da cui abbiamo tratto queste affermazioni 40 ), sia in quella, ampissima e |
distesa, della Storia. In quest’ultima, nella parte più nuova e originale I
cui accennavamo poco fa, dal Duecento in poi, è possibile osservare I
senza sforzo entro ciascun capitolo la forma dicotomica della trattazio- I
ne. Dopo una serie di paragrafi dedicati alla vita dei volgari, al loro |
prestigio, al crescere della lingua comune, ai suoi contrastati rapporti |
doveva essere ormai in uno stadio di avanzata elaborazione. Ulteriori indicazioni
bibliografiche in proposito per il periodo posteriore al i960 offre ì. Muljació nella
Introduzione allo studio della lingua italiana cit., 2. 221 (pp. 299-300).
39 Su questo particolare problema di storiografia linguistica si veda, a titolo
indicativo, A. Varvaro, La storia della lingua: passato e prospettive di una
categoria controversa cit., pp. 26-27; e inoltre il commento di T. De Mauro alla sua
ediz. italiana pure cit. del Cours de linguistique générale di F. de Saussure, n. 94.
La distinzione s’intreccia con l’altra tra fattori esterni e fattori interni nell’evolu-
zione della lingua, cui accennava Martinet nei passi cit. alla n. 23 (cfr. anche
Varvaro, La storia della lingua, p. 38 e seggi L’opportunità rilevata sopra di una
diversa e più specifica coppia di termini è rafforzata dal fatto che i due termini
oggi più in uso ricorrono negli storiografi (e nei teorici della storiografia) con
tutt’altri significati: cfr. per es., B. Croce, Il carattere della filosofia moderna, Bari
1963 3 , pp. 186-194. — ,
40 Storia della lingua italiana, in AA.W., Tecnica e teoria letteraria cit., pp. 177-
con i dialetti e col latino e alle dispute cui tutto ciò dà luogo, vale a dire
dopo una serie di paragrafi dedicati all’aspetto socioculturale o esterno
della lingua, si passa, di solito verso l’undicesimo-dodicesimo paragra-
fo (a volte un po’ più in là: dal quattordicesimo nei capp. VI e Vili), a
descrivere i «fatti grammaticali e lessicali», cioè alla storia strutturale
della lingua, secondo un metodo che potrebbe richiamare quello
wartburghiano di «évolution et structure», se le sincronie strutturali
fossero fondate su ragioni proprie e non trovassero il loro punto di
riferimento approssimàtivo nei precostituiti ed «esterni» schemi secola-
ri. Qui veramente, anche perché la documentazione diventa relativa-
mente meno ricca e organica (e non certamente per colpa di Migliorini)
una guida a leggere nel modo giusto questa Storia diventa ancora più
indispensabile. La trattazione miglioriniana, ricchissima e profonda-
mente convincente e istruttiva per la parte che riguarda il lessico (gli
ultimi paragrafi di ogni capitolo), la più facilmente riportabile all’altra
parte del dittico e anche quella in cui lo studioso si sentiva maggior-
mente a suo agio 41 , trasceglie, per le sezioni riservate ai «fatti
gr amm aticali» (grafia, fonetica, morfologia e sintassi), alcuni fenomeni
suggeriti solitamente dalle grammatiche storiche, rinunciando spesso
(malgrado i propositi iniziali: cfr. Premessa, p. 6) a sfruttare la possibili-
tà che la storia della lingua offre di approfondire e ampliare le
dimensioni dell’indagine su tali fenomeni. In queste sezioni i fili rimasti
interrotti e pendenti da un capitolo all’altro si fanno più numerosi, e la
necessità di guidare il lettore a riannodarli e ricostruirli si fa di
conseguenza più urgente.
Prendiamo, per semplicità, un esempio tipico e ben noto (già
schizzato da Migliorini nel saggio del ’48), tratto dal settore sintattico:
ria posizione dei pronomi e avverbi atoni rispetto al verbo. Dai
«primordi» dei volgari fino al Trecento Migliorini segnala, quasi a ogni
capitolo, che tale posizione è regolata dalla cd. «legge Tobler-Mussa-
fia», cioè, con ogni probabilità, da fattori prosodici (cap. Ili, 11, p. 97;
41 La vocazione miglioriniana a un’indagine lessicale, che lo portasse a
stretto contatto con la storia della cultura nel suo significato più ampio, da quello
«materiale» e etnografico (secondo l’indirizzo cd. «Wórter und Sachen», che
segnò profondamente la ricerca linguistica nei primi decenni del nostro secolo) a
quello ideologico e intellettuale, fu fin dal principio vivissima. È appena il caso di
ricordare che il suo trattato giovanile Dal nome proprio al nome comune (cfr.
sopra, p. ix) nasce da essa. Ma tutta l’attività di Migliorini ne è permeata: dai
lucidi e nutriti «stelloncini» su vandalismo, cruciale, cosmopolita, emergenza,
grattacielo e altre innumerevoli parole legate a vicende e momenti particolari
della nostra storia fino ai grandi «medaglioni» su mots-témoins come ambiente o
barocco. Parte di questa vastissima produzione fu raccolta in vari volumi
dall’autore stesso (cfr., per es., Profili di parole, Firenze 1968, e Parole e storia,
Milano 1975); ma per lo più si trova ancora sparsa nelle riviste e nei periodici in
cui fece la sua prima apparizione (cfr., per ciò, la Bibliografia degli scritti di B.
Migliorini a c. di M. Fanfani nel volume commemorativo più volte cit.). Sottolinea
questo aspetto della attività miglioriniana Y. Malkiel in «Romance Philology»,
XXXIX, 1975-76, pp. 398 408, a p. 401 e segg.
178 .
XXVI
Storia della lingua italiana
Introduzione
XXVII
cap. IV, 16, p. 151; cap. VI, 18, p. 212; e cfr. già cap. II, 9, p. 66). Questa I affondava le sue radici nelle dispute settecentesche, quando l’italiano
condizione, tipica delle origini dei volgari italiani e romanzi, comincia | era considerato come una lingua rimasta doviziosa, libera, poetica, di
a incrinarsi nel periodo umanistico-rinascimentale, tra Quattro e | fronte a un francese, amputatosi della sua ricchezza originaria per
Cinquecento (cap. VII 15, p. 267-, cap. Vili, 17, p. 357), quando appare la f f ars i strumento di clarté e di raison* 3 . Una visione di questo tipo, che
«galassia Gutenberg» e lo scritto tende non solo ad accentuare i suoi f percorre ancora la Storia miglioriniana, ha portato probabilmente, in
aspetti di distacco e di autonomia dal parlato, ma quasi a sostituirlo e a § modo inavvertito, ad arretrare le origini della lingua italiana ancora
imporgli le sue leggi. Seguono due secoli, il Seicento e il Settecento, nei f più in là di Dante (considerato anche da Migliorini «padre della
quali la Storia non fa più riferimento al fenomeno. Eppure sono | lingua», e titolare, eccezionalmente, di un capitolo apposito, il V), fino
probabilmente questi i secoli in cui si andavano preparando le | a i placiti cassinesi del 960-963 (donde l’idea del «millenario» della
condizioni per una norma nuova nell’uso quotidiano, mentre nei testi | lingu a italiana), trascurando o sottovalutando la distinzione essenziale
scritti in genere, e in particolare in quelli letterari, si seguiva un uso | tra l’epoca delle prime attestazioni scritte in volgare italiano e l’epoca
misto, libero e polimorfico, per cui, almeno nei modi finiti del verbo, % posteriore a Dante e al crescere del prestigio del volgare toscano:
enclisi e proclisi erano ugualmente possibili in ogni posizione della I distinzione ineludibile, perché è solo con questi ultimi eventi che nasce
frase: Pàrtomi, Andiànne, datemi, t'ingegna, per es., nella Gerusalemme | n primo germe di quella che sarà la lingua comune italiana. Prima
del Tasso, ma anche (contro l’antica norma) L’onorò, Si prepara, § d’allora in Italia, a livello volgare, esisteva solo una quantità di idiomi
T’essorteranno, ecc. La descrizione del fenomeno riaffiora nel cap. XI | distinti fra loro, descritti nella loro invincibile molteplicità da Dante
sul Primo Ottocento (15, p. 571), cioè quando ci si avvicina al trionfo | stesso nel De vulgari eloquentia (cfr. Storia, cap. V, 2, pp. 169-70), che
della nuova norma, già palese peraltro in quest’epoca in testi importan- | devono essere esaminati e studiati in un quadro storico sostanzialmen-
ti come la quarantana dei Promessi sposi, e non solo in essa. Nel primo § te diverso da quello in cui si formerà la lingua italiana: essi costituisco-
cinquantennio dell’Italia unita (cap. XII), tra Ottocento e Novecento, la £ n o una premessa o, meglio, un antefatto di essa, e non di più. Qualche
nuova norma, a fondamento morfologico o morfosintattico, va verso la | abbozzo di koinè volgare d’epoca predantesca, per es. il volgare
sua sicura stabilizzazione ed è ormai divenuta ineccepibile nell’italia- £ poetico siciliano (tanto diffuso nel Duecento, sempre al dire di Dante,
no odierno: Migliorini può descriverne, insieme, le condizioni e il rapido | che «quicquid poetantur Ytali sicilianum vocatur», De vulg. eloq. I, XII,
affermarsi attraverso la citazione di un passo, particolarmente illumi- | 2 ), è, oltre che fuggevole, orientato in direzione del tutto differente da
nante, tratto dall’antologia Fior da fiore di Giovanni Pascoli (15, p. | quella verso la quale procederà in seguito la lingua italiana. Ma anche
637)“. | oltrepassando il periodo dei molteplici volgari e rimanendo all’interno
Basterà questo esempio per mostrare qual è la via che il lettore p del periodo propriamente occupato dalla lingua comune e dalla sua
deve seguire per costruirsi, attraverso i capitoli miglioriniani, una I elaborazione, tra Dante o il Trecento e i giorni nostri, un’accentuazione
visione prospettica dello sviluppo dei singoli aspetti della struttura I troppo spinta della tesi della continuità dell’italiano di fronte alla
della lingua: imo sviluppo i cui andamenti sono da riferire a varie § discontinuità del francese e delle altre lingue, spinta fino al punto di
circostanze (non di rado rintracciabili nell’altro versante, sociocultura-
le, della trattazione), e che trascende comunque il più delle volte la
partizione «secolare», configurandosi in periodi e ritmi evolutivi propri
e diversi.
Sulla riservatezza di Migliorini nelTaffrontare con decisione il
problema della periodizzazione potrebbe aver anche influito la convin-
zione, espressa fin dal saggio Storia della lingua e storia della cultura,
che «per l’italiano si possono distinguere più periodi, ma non si scorge
tra la lingua antica e la moderna un taglio così deciso come quello che
divide il francese antico e lo spagnolo antico dalle lingue odierne, e, in
modo non identico ma pur simile, il tedesco, l’inglese, ecc.» (p. 9):
un’idea, che era, in realtà, un luogo comune della romanistica e
42 Una recente e compendiosa trattazione del fenomeno (sia pure centrata su
un aspetto particolare di esso) si ha in G. Patota, Ricerche sull'imperativo con
pronome atono, in «Studi linguistici italiani», X, 1984, pp. 173-246.
porre a proprio fondamento il criterio della più o meno facile intercom-
prensione da fase a fase della stessa lingua (l’articolo di Migliorini
citato continuava: «Un italiano, anche incolto, che legga Dante non
intenderà qualche locuzione, ma sa e sente che quella è la sua lingua;
mentre un francese che legga la Chanson de Roland », se vuole
intenderne la lingua, «deve studiarla come ima lingua morta»), non è
priva di pericoli. Può infatti ingenerare il sospetto che, in fondo, in tutto
quel periodo plurisecolare, dal Trecento al Novecento, non sia accadu-
to niente, o quasi, nella nostra lingua, comunque niente di veramente
rilevante e degno di attirare l’attenzione dello storico; che ci si trovi di
fronte a un periodo scolorito e uniforme, o, tutt’al più, a periodi distinti
fra di loro solo per piccoli e trascurabili assestamenti interni; può
43 Per i giudizi sulTitaliano, soprattutto in confronto col francese, si veda ora
il suggestivo libro di G. Folena, L'italiano in Europa cit., in particolare le parti III
e IV.
xxviii Storia della lingua italiana |
ingenerare cioè l’equivoco che la vera e apprezzabile evoluzione 1
linguistica coincida con il «cambio di lingua», e che, di conseguenza, la I
storia della lingua coincida, nei suoi aspetti essenziali, con la gramma- jj
tica storica, sottovalutandone o, al limite, negandone l’originalità e la I
fecondità dei metodi e delle funzioni. Ora, proprio la gran messe di \
fatti, e di fatti spesso assai importanti, condensata nel libro di |
Migliorini, mostra che le cose non stanno così; e per questo dicevo poco |
fa che la Storia miglioriniana racchiude dentro di sé una quantità di vie f
nascoste e di sentieri inesplorati che possono condurre il lettore a
recuperi del tutto imprevisti, al di là degli schemi stessi che l’autore si è
imposto. «La circostanza, fausta nel risultato..., anche se non sempre
nelle cause», osservava qualche tempo fa Gianfranco Contini in limine I
a ima sua antologia della letteratura italiana, «che in Italia alla lingua 1
moderna non se ne opponga una medievale di tutt’altra struttura, da 1
apprendere oggi come una lingua straniera, diversamente da quanto f
accade per la maggioranza delle lingue europee, francese, tedesco, I
inglese, spagnolo, ecc. ecc..., non esonera dal distinguere, meglio forse 1
di quanto la scuola non abbia fatto fin qui, ciò che è moderno e ciò che 1
più sottilmente è antico, acuendo sulla pagina lo spirito d’osservazio- |
ne» 44 . Lo storico dell’italiano è chiamato quindi ad un’operazione |
delicata che richiede strumenti df elevata sensibilità linguistica. La |
grande opera di Migliorini, proprio per la sua eccezionale e obiettiva |
apertura documentaria, può costituire un viatico istituzionale tra i più I
inesauribili a tale scopo e una guida insostituibile per ricostruire col i
dovuto dettaglio le meno accessibili profondità storiche della nostra 1
lingua 45 . 1
Si è ripetutamente accennato che più si legge questa Storia, più 1
essa sembra affondare le sue radici ideali negli anni dell’immediato 1
anteguerra, che è poi l’epoca in cui l’impresa miglioriniana mosse i 1
primi passi. L’affermazione stessa che l’« Italia, che di sé ha primamen- 1
te acquistato coscienza attraverso la lingua, conoscendo più a fondo la 1
storia della sua lingua conoscerà meglio se stessa» {Storia della lingua |
e storia della cultura cit., p. 26), risente di quel clima, in cui l’identità |
romantico-risorgimentale di lingua e nazione aveva ancora la forza 1
potente di un’idea-mito, capace di cementare la solidarietà e di 1
mobilitare largamente le energie di un popolo. Ora, non è fuori luogo |
osservare che tutto ciò avveniva proprio nel momento in cui si I
cominciavano a rimettere in discussione le basi stesse e la possibilità di 1
una storia d’Italia che risalisse lungo il corso dei secoli, oltre l’epoca i
unitaria, fino al Medioevo. È nota la polemica che ebbe come primi 1
44 Letteratura italiana delle origini, Firenze 1970, p. ix.
45 Per la «presunta immobilità dell’italiano», le circostanze particolari che
hanno alimentato tale idea e le insidie che essa presenta ancor oggi per lo storico
della nostra lingua si veda M. Durante, Dal latino all’italiano moderno cit., 16 (p.
171 e segg.l.
Introduzione xxix
importanti protagonisti, attorno al 1930, Arrigo Solmi e Benedetto
Croce, e si allargò negli anni successivi fino a coinvolgere alcuni tra gli
storici italiani più preparati e consapevoli 46 . La lingua in questa
disputa poteva costituire un argomento di non trascurabile importanza
do rilevava esplicitamente L. Salvatorelli in un intervento tardivo e, per
molti aspetti, rievocativo del 1954 47 ), perché, come ritenevano gli uomini
del Risorgimento, «quando un popolo ha perso patria e libertà e va
disperso per il mondo, la lingua gli tiene luogo di patria e di tutto»
(Settembrini), e agli strati colti e medio-colti dei decenni che prepararo-
no l’Unità la lingua comune appariva generalmente come «il solo
legame d’unione» (Monti), «la men incerta e più nobile eredità lasciata-
ci da’ nostri avi» (Foscolo). Ripercorrere le vicende della lingua,
indagarne le origini, saggiarne la diffusione poteva offrire Qo abbiamo
già rilevato all’inizio di queste pagine) indizi preziosi per ritrovare le
ragioni profonde dell’unità del popolo italiano, della sua coscienza
nazionale. La lingua diventava un rivelatore sensibilissimo dell’unità
plurisecolare della storia d’Italia, così come la coesione del popolo
italiano fin dai tempi più remoti poteva diventare presagio di unità
linguistica. Non è affatto escluso che tali dispute, prolungatesi fino alla
vigilia della seconda guerra mondiale (e poi a tratti riemerse in seguito)
agissero in qualche modo sulla decisione miglioriniana di dar corpo a
una grande storia della lingua italiana: la quale nasce (si noti) proprio
come una «storia della lingua italiana», e non come ima «storia
linguistica d’Italia», che, come già . notavano Dionisotti e Fiorelli
(conirontando la Storia di Migliorini col Profilo di Devoto), era, ed è,
una cosa diversa.
Il tema dell’unità «italiana» percorre in effetti tutto il trattato
miglioriniano: raramente però (come al solito) affiora esplicitamente
alla superficie nella sua forma problematica. Affermava Walter von
Wartburg nel 1936 (in uno scritto subito recensito da Migliorini): «oggi,
dopo tanti decenni di linguistica storica si suole prendere la delimita-
zione dell’italiano quasi come un dato, una cosa naturale che non
abbia bisogno di spiegazione. Eppure è evidente a chi cerchi di
scrutare il passato dello spazio linguistico italiano, che nessun altro
paese romanzo è stato meno predestinato a diventare un’unità lingui-
stica» 48 . Ci fu dunque alle origini dell’italiano un travaglio, e un
48 Per un rapido riepilogo di questa discussione si veda G. Candeloro, Storia
dell’Italia moderna, Milano, voi. I, 1975 8 , pp. 391-393-, interessanti osservazioni in
proposito offre, più recentemente, P.G. Zimino, L'ideologia del fascismo. Miti,
credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Bologna 1985, p. 70 e segg. Sui
precedenti della discussione cfr. G. Galasso, L’Italia come problema storiografico,
Torino 1979, pp. 166167 (libro sul quale torneremo più avanti).
47 Lo si veda riprodotto in L. Salvatorelli, Spiriti e figure del Risorgimento.
Firenze 1961, pp. 30-35, spec. a pp. 34-35.
48 La posizione della lingua italiana, Firenze 1940, p. 8; il volumetto riproduce
alcune conferenze tenute a Roma nel 1936 e pubblicate già nello stesso anno
dall’editore Keller di Lipsia e dalla Biblioteca Hertziana di Roma, congiuntamen-
xxx Storia della lingua italiana
travaglio presumibilmente lungo e faticoso; ma questo rimane, per lo
più fra le pieghe del discorso di Migliorini, non già assente, ma tutto
oggettivato nei fatti. Il punto in cui forse il problema affiora più
esplicitamente è un brevissimo paragraferò, all’inizio del cap. Ili, sui
Primordi (III, 2). Migliorini si domanda a questo punto se sia «lecito, già [
in questo periodo 1960-12251, trattare le varie espressioni in volgare j
come varianti di ima medesima lingua», cioè se sia già il caso, a questa ì
altezza cronologica, di parlare di lingua italiana, e non si debba invece ì
parlare solo di molteplici e vari volgari. La risposta è assai contratta ed lì
elusiva: pur riconoscendo che di «manifestazioni linguistiche» vera-
mente italiane si può parlare solo a cominciare da Dante, Migliorini si ;
appiglia anche qui a uno schema «esterno», quello dei «limiti geografi- >
ci», e, inoltre, a «quei primi caratteri superdialettali, che sia pure molto
alla lontana prepararono la futura unità»; e con ciò supera rapidamen- ì
te lo scrupolo metodico. Abbiamo già accennato alla debolezza di {
questa tesi, che oggi siamo forse in grado di valutare in modo più netto \
di quanto non si potesse all’epoca della elaborazione della Storia. Nei ì;
tre o quattro decenni che ci separano da quell’epoca gli studi sulle f
prime scriptae volgari si sono infatti, anche in Italia, notevolmente I
intensificati e raffinati (si pensi, per fare un esempio, a Gianfranco ì
Contini e alla sua scuola) e ci permettono di disegnare oggi con molto ^
maggior dettaglio un panorama dei volgari medievali che si conferma !
estremamente variegato e franto: quello stesso, del resto, che appariva, 1
già all’inizio del Trecento, a un testimone d’eccezione quale era Dante I
(cfr. De vul. eloq. I, X e segg.). I
Ma, lasciando da parte la questione dei «primordi», lo storico deve |
obiettivamente rilevare che, anche quando, nel Cinquecento, la lingua I
italiana (o «toscana») aveva raggiunto una sua prima piena maturazio- 1
ne (attraverso due secoli di crescita e d’espansione del toscano e di 1
vario e diseguale formarsi di larghe koinè: cfr. Storia, capp. VI, 9-13, f
VII, 8-10), la sua consistenza rimaneva sempre soggetta a limiti e
condizionamenti notevoli, più ristretti e comunque diversi da quelli ;
odierni. Lo spazio stesso occupato da questa lingua coincideva certo j
assai meno di ora con quel territorio che i geografi di oggi e di ieri
chiamano e chiamavano «Italia». Le discordanze erano rilevanti, a
volte perfino imprevedibili.
Basterà ricordare che una regione come il Piemonte, decisiva per
l’unificazione politica d’Italia, è rimasta per lungo tempo con un piede
fuori e un piede dentro l’area della lingua italiana. Considerata da
Dante così vicina alle «mete Ytalie» da possedere un tipo di volgare di
transizione verso i volgari d’Oltralpe, rimaneva ancora, dopo la svolta I
impressagli da Emanuele Filiberto, attorno al 1560 [Storia , cap. Vili, 10),
un «paese anfibio», come lo chiamava Alfieri (Vito, Epoca III, cap. I; e
te; è appunto su questa edizione che Migliorini si fondò per la sua recensione
uscita nella rivista «Roma». 1937, 9, pp. 341-342.
Introduzione xxxi
cfr. Storia, capp. IX, 2; X, 3 e 10), e, dopo la calda esortazione del
Napione a volgersi decisamente verso l’Italia e l’italiano {Dell’uso e dei
pregi della lingua italiana, 1791), poteva di nuovo aspirare, qualche
anno dopo, sotto il dominio napoleonico, a una drastica annessione al
territorio linguistico, oltre che politico, francese (si ricordi l’opuscolo di
Denina, Dell’uso della lingua francese del 1803: cfr. Storia, cap. XI, 10), e
rimanere comunque in bilico tra italiano e francese fino alla vigilia
dell’Unità, al punto che nello Statuto albertino del 1848 (rimasto in
vigore, come si sa, per tutta la durata del Regno d’Italia, fin quasi ai
giorni nostri), accanto all’italiano, «lingua officiale delle Camere», era
ammesso facoltativamente il francese (art. 62); e pochi anni prima (1835)
uno dei «padri della patria», il Cavour, spronato e rampognato da
Cesare Balbo, doveva fare «l’humiliant aveu que la langue italienne lui
était jusqu’olors tout à fait étrangère» 49 . Il dominio della lingua comune
era dunque ben più lontano di oggi dall’identificarsi con l’Italia delle
carte geografiche e geopolìtiche. Per non parlare del livello colloquiale
e quotidiano, in cui ancora a lungo, fino all’Ottocento inoltrato e ai
primi decenni del Novecento, dominarono gli idiomi dialettali (e
Migliorini osserva puntualmente il fatto nei vari paragrafi sulla lingua
parlata e sull’uso dei dialetto e per non parlare delle scritture meno
formali, in cui pure le antiche scriptae volgari si andarono estenuando
nell’italiano con molta maggiore lentezza di quanto solitamente non si
creda, anche ai livelli più elevati e ufficiali ci furono brani di territorio
oggi italiano, che conobbero solo assai tardi la lingua comune. Osserva
Migliorini che nel Cinquecento «la Sardegna, direttamente soggetta
alla Spagna, ha scarsi contatti con la Penisola» (cap. Vili, 2) e nel
Seicento «la vita culturale si svolgeva quasi esclusivamente in spagno-
lo» (cap. IX, 11, p. 416 n. 84); solo dopo l’annessione allo stato Sabaudo
(che diventava così Regno di Sardegna, 1720) «la vita amministrativa e
culturale dell’isola... si venne orientando... verso la lingua italiana»
(cap. X, 2), ma «lentissimamente», sicché «solo nel 1764 l’italiano
diventa lingua ufficiale nei tribunali e nell’insegnamento» (cap. X, IO) 50 .
48 Sulle varie fasi della penetrazione dell’italiano in Piemonte si dispone
ora dell'ottimo studio d’assieme di Cl. Marazzini, Piemonte e Italia. Storia di un
confronto linguistico, Torino 1984. Sull’atteggiamento del Napione e dell’ambiente
in cui viveva si veda da ultimo G.L. Beccaria, «Italiano al bivio: lingua e cultura in
Piemonte tra Sette e Ottocento», negli Atti del Convegno « Piemonte e letteratura.
1789-1870 » (San Salvatore Monferrato, 15-17 ottobre 1981), a c. di G. Ioli, s.l. né d. di st.,
voL I, pp. 15-55-, e sul Denina la silloge di suoi scritti d’interesse linguistico (fra cui
anche Dell’uso della lingua francese) apprestata dal Marazzini in C. Denina,
Storia delle lingue e polemiche linguistiche. Dai saggi berlinesi 1783-1804, a c. di Cl.
M., Alessandria 1985. Tutti i documenti della vicenda Balbo-Cavour accennata
sopra possono leggersi ora in C. Cavour, Epistolario, Bologna, voi. 1, 1962, pp. 185-
190 (e cfr. anche R. Romeo, Cavour e il suo tempo, Bari, voi. I, 1977 3 , pp. 445-446).
80 Oltre il libro classico di M.L. Wagner, La lingua sarda. Storia, spirito e
forma (Berna 1951), che naturalmente Migliorini conosceva e utilizzava, si
possono consultare oggi, sulla diffusione dell'italiano in Sardegna, molti altri
contributi, pubblicati parallelamente all'accrescersi delle rivendicazioni sarde di
XXXII
Storia della lingua italiana
Introduzione
XXXIII
Accenni simili si colgono qua e là a proposito di altre regioni
italiane, specialmente le più periferiche rispetto al nucleo centrale
tosco-romano: il che conferma quanto sia stata lunga, incerta e faticosa
nei fatti la costruzione di quella Italia linguistica, che spesso è stata
assunta, disinvoltamente, come punto di forza per affermare l’esisten- [
za già in tempi remoti di una compatta e formata «nazione» italiana,
scambiando le aspirazioni di un Dante o di qualche suo più tardo e !
meno noto riecheggiatore, per es. un Muzio 51 , con la «cosa salda» di jj
una lingua comune completamente identificantesi con una nazione di ’
popolo quale la concepiamo noi moderni.
Queste indicazioni miglioriniane, che possono spiegare tante vicen- |
de dell’Italia di oggi (per es. la non perfetta identificazione di varie 1
regioni con lo stato nazionale italiano e la sua lingua), pur non \
sbandierate, ma tutte assorbite e concentrate nella esposizione dei ;
fatti, hanno avuto ima loro parte quando, dopo alcuni decenni dal suo s
primo apparire, la questione, cui accennavamo poco fa, dell’unitarietà
e della plausibilità stessa di una storia d’Italia avanti il 1861 è tornata
alla ribalta, soprattutto in occasione dell’avvio di alcune grandi !
imprese editoriali: la Storia d’Italia Einaudi, il cui primo volume (con j
una «Presentazione dell’editore» centrata su questo tema) uscì nel I
1972, e la Storia d’Italia UTET, che si inaugurò nel 1979 col libro ;
introduttivo di G. Galasso, L’Italia come problema storiografico. Ambe-
due le pubblicazioni rinoscevano in sostanza che, se troppo severa è la i
tesi del Croce di una impraticabilità di una storia d’Italia prima del \
1861, è pur vero che le storie di ispirazione troppo scopertamente !
risorgimentale, che privilegiano e quasi isolano fin dall’Alto Medievo'il ;
filone unitario e «nazionale», non risultano meno fuorvianti e unilate-
rali: ché in realtà la storia linguistico-letteraria così come la storia
socio-politica dell’Italia preunitaria, anche se percorse dal filo conti-
nuamente interrotto o disperso delle aspirazioni unitarie e soffuse di
un sentore di affinità e di rapporti privilegiati fra i vari territori
«italiani», restano, al loro fondo, storie di una variegata molteplicità di
tradizioni, istituzioni e idiomi diversi. «La lezione del De vulgati
eloquentia-» , affermava G. Einaudi, citando esemplarmente C. Dionisot-
ti, «è in breve questa: un’esigenza unitaria, di una ideale unità
linguistica e letteraria, proposta e richiesta a una reale, frazionata
varietà, un’unità insomma che supera, ma nel tempo stesso implica
autonomia anche linguistica; compendiosamente si può rinviare al libro disegua-
le, ma ampio, intelligente e appassionato di M. Pira, La rivolta dell’oggetto.
Antropologia della Sardegna, Milano 1978; si veda inoltre da ultimo la Storia
linguistica della Sardegna di E. Blasco Ferrer (Tùbingen 1984).
51 DeU’«italianismo» linguistico-politico di Gerolamo Muzio, letterato e corti-
giano della seconda metà del Cinquecento, ha proposto una rivalutazione
(opportuna, quando se ne precisi la sostanziale eccentricità nel panorama del
tempo) G. Salvemini, «Il Risorgimento», in Scritti sul Risorgimento, a c. di P. Pieri
e C. Pischedda, Milano 1973, p. 473 e segg., a pp. 505-507.
questa varietà» 52 . E Galasso: «La storia italiana pre-unitaria è... una
molteplicità di storie cittadine, regionali ed interregionali, parallele ed
interferenti fra loro», dove gli aggettivi «parallelo» e «interferente»
alludono a una prima forma, più blanda e sfumata, di quella che sarà
poi la vita pienamente unitaria della società italiana; una storia
nazionale dal «carattere (se così si può dire) multinazionale» 53 . Ora, è
da rilevare che tutte e due queste pubblicazioni, che hanno avuto il
merito di riproporre come cruciale il problema della storia d’Italia
come storia unitaria e di rilanciare, in relazione ad essa, quella visione
feconda di «unità nella varietà», che costituì già un filone interpretati-
vo forse meno fortunato, ma tutt’altro che trascurabile della storiogra-
fia ottocentesca, hanno fatto riferimento, in vari modi e misure, nel loro
articolato discorrere, alla Storia di Migliorini Qa Storia Einaudi dedica
anzi agli aspetti linguistici del tema un contributo apposito: «Lingua,
dialetto e letteratura» di A. Stussi 54 ): segno che l’opera del Migliorini ha
avuto un suo peso nel suggerire certi obiettivi agli storici del nostro
paese e nell’integrare alla loro ricerca un bagaglio di materiali
documentari, rimasti fino a quel momento ai margini della loro
attenzione.
È cosi che, fondata su ima humus affatto diversa, in cui trovavano
ancora eco passioni e miti risorgimentali, quest’opera, per molti aspetti
eccezionale, si offre allo storiografo di oggi con interesse vivo e attuale.
Vi si trovano rispecchiati, a leggere attentamente, le disarmonie, le
resistenze, le contraddizioni, i contrasti, che hanno accompagnato nei
secoli il formarsi della società e della lingua italiana, e la sua lunga
fatica di aprirsi un varco verso uno spazio geografico, o geografico-
sociale, via via più esteso e praticabile. Lo stesso potrebbe dirsi (anche
se il discorso si fa qui più delicato) di un tema che accompagna questi
sviluppi: il formarsi di una coscienza nazionale italiana, connesso
com’è, oltre che col valore simbolico della lingua comune, col mobile
sfaccettarsi del termine-chiave «nazione», lungo il corso dei secoli, in
modi che gli studi di Kohn, Hayes, Weill, Chabod, Godechot, Sestan,
Romeo, Renzi e tanti altri hanno cercato di chiarire in questi ultimi
decenni. Migliorini osserva gli sviluppi dell’importante fenomeno da
storico del lessico e della semantica. «Persiste ancora», avverte nel
“ «Presentazione dell’editore» alla Storia d’Italia, Torino, voi. 1 , 1972, pp. xix-
xxxvi, a p. xxx; il brano di Dionisotti deriva dal suo libro cit. Geografìa e storia
della letteratura italiana, p. 31.
53 L’Italia come problema storiografico cit., pp. 177-178.
54 Voi. 1 cit., pp. 677-728. Va ricordato che lo Stussi incentrò poco dopo su
questo nuovo motivo una sua assai utile antologia, Letteratura italiana e culture
regionali (Bologna 1979), il cui contenuto, nonostante il titolo, dà largo spazio alle
vicende linguistiche italiane. È doveroso segnalare peraltro che il motivo aveva
ricevuto, già attorno al 1950, un notevole rilancio dagli originali studi di C.
Dionisotti (raccolti, per la maggior parte, nel volume più volte citato), cui si
riferiscono infatti ripetutamente sia Einaudi (come s’è visto), sia Stussi, sia
Galasso.
XXXIV
Storia della lingua italiana
Introduzione
xxxv
capitolo sul Settecento (X, 16 ), «il vecchio significato di patria e nazione 1
riferito alla città o al piccolo stato a cui uno appartiene; ma sempre più |
frequente è il riferimento all’Italia intera». È un indizio importante I
della crisi profonda che si stava aprendo in quei decenni e alla quale 1
abbiamo già accennato di sfuggita poco fa (p. xx): una crisi che doveva |
portare in questi termini il significato che hanno conservato fino ad g
oggi, permeato di connotazioni politiche fio notava, per nazione, alla f
fine del Settecento il «giacobino» compilatore di ima lista di vocaboli 1
«o nuovamente arrivati in Italia, o di nuova significazione, o d’un’anti- %
ca, ma cambiata e travisata»; cap. XI, 16 55 ), e respingere lontano i |
vecchi significati, in ima dimensione che stentiamo ancor oggi, talvol- I
ta, a comprendere e definire con esattezza. Il rapporto tra lingua e 1
nazione, così stretto e vibrante in epoca risorgimentale («La Patria è 1
una e indivisibile», dichiarava Mazzini nei Doveri degli uomini, I
esortando: «Come i membri d’una famiglia non hanno gioia della 1
mensa comune se un d’essi è lontano, rapito all’affetto fraterno, così I
voi non abbiate gioia e riposo finché una frazione del vostro territorio |
sul quale si parla la vostra lingua è divelta dalla Nazione...»), non I
passava ancora, prima del Sette-Ottocento, attraverso un terreno così
incandescente. La lingua comune codificata e diffusa nel Cinquecento,
come quella vagheggiata da Dante, era, malgrado l’apparente conti-
nuità, qualcosa di diverso, e non aveva certo, salvo in casi isolati (come
quello del Muzio citato sopra), questi sottintesi politici. Era una lingua
letteraria, fatta in primo luogo per l’eleganza e la correttezza dello
scrivere, e anche strutturalmente caratterizzata come tale (si pensi,
per es., alla sua ricca e invincibile polimorfia di palese matrice retorica:
Migliorini vi accenna al cap. Vili, 22, e, qua e là, altrove): una lingua
offerta certamente soprattutto agli scrittori italiani (con le esclusioni e
le limitazioni già indicate), ma proprio per la sua eleganza (che non ha
confini) dilagante anche fuori d’Italia, e nota, nella sua epoca d’oro, e
anche largamente praticata dalle persone colte di tutta l’Europa, come
si può facilmente constatare scorrendo i paragrafi della Storia di
Migliorini dedicati, tra Cinquecento e Settecento, ai «Rapporti» e
«Contatti con altre lingue» (capp. Vili, 5 e 13 ; IX, 11 ; X, 10 ). Era, e
rimarrà a lungo, una delle lingue europee più prestigiose; dopo le
lingue classiche t anzi assieme ad esse, forse, per un lungo periodo, la
più prestigiosa. E questo il momento, fra il Cinquecento e il Settecento,
in cui essa diventa, secondo la felice espressione di Braudel, «un
elemento persistente della cultura europea» e un modello di densa e
armoniosa espressività 56 . Il Manzoni stesso lo avvertiva, a metà
65 Per l’autore di questa lista cfr. Giacobini italiani, Bari, voi. I, a c. di D.
Cantimori, 1956, pp. 422-423; e I giornali giacobini italiani, a c. di R. De Felice,
Milano 1962, p. 476 e segg.
58 La frase di Braudel si trova nel saggio L'Italia fuori d'Italia, in Storia
d’Italia Einaudi, voi. Il, 1974, p. 2089 e segg., a p. 2098. Ancora nel Settecento,
quando le sue fortune stavano ormai declinando, l'italiano figurava nel concerto
dell’Ottocento, quando cancellava drasticamente quella lingua dalle
sue speranze per un futuro che già si profilava distintamente, e la
considerava come «una collezione parziale», «un mescuglio di vocabo-
li», un fantasma di lingua piuttosto che una lingua vera 57 . E intanto
affioravano, gravissimi, problemi pressoché ignoti al vecchio italia-
no come quello di saldare, attraverso un’opera complessa di accultura-
zione (che non si è del tutto conclusa neanche oggi) i «due gra-
di di italianità», che erano convissuti fin allora parallelamente nel suo
seno-, «quello unicamente qualificato delle classi alte e quello sol-
tanto oggettuale e vegetativo delle classi popolari», immerse nei loro
dialetti 58 .
Come si vede, al di sotto di parole o istituzioni che apparentemente
sembrano identiche o poco differenti, si nascondono di fatto realtà
profondamente diverse e perfino divergenti. È questa la lezione che la
moderna storiografia sull’Italia e sulla coscienza nazionale italiana, in
cui la lingua ha certamente una parte non trascurabile, ci offre.
Sarebbe pericoloso, e perfino impossibile, ricostruire una storia d’Italia
e una storia della lingua italiana «a una sola arcata», come, nella sua
impalcatura esterna, appare costruita quella di Migliorini, dai placiti
cassinesi o da Dante ai tempi nostri, secondo uno schema prospettico
che appiattisce sul presente un passato secolare, poggiando magari sul
presupposto, pure miglioriniano, che la nazione e la coscienza naziona-
le italiana sia nata già, miracolosamente compiuta, al tempo di Dante,
delle principali lingue europee, apprezzato universalmente come «la plus douce
des langues» (Rivarol), con un «genio» specifico che la rendeva particolarmente
adatta per la musica e per la poesia: cfr. ancora G. Folena, L’italiano in Europa
cit., spec. pp. 217 e segg., e 397 e segg.
57 Sulla lingua italiana. Lettera al sig. cavalier consigliere Giacinto Carena, m
A. Manzoni, Opere Varie, a c. di M. Barbi e M. Ghisalberti, Milano 1943, p. 751 e
segg., a pp. 765-766 da lettera, inviata al Carena nel ’47, fu poi pubblicata dal
Manzoni, con ritocchi e ampliamenti, nel 1850 nel volume delle Opere varie in
stampa presso l’editore milanese Redaelli dal 1845).
58 La frase citata è tratta da G. Bollati, L’Italiano cit., p. 45. Il problema
dell’integrazione delle classi popolari alla cultura e alle istituzioni nazionali fu,
com’è noto, uno dei temi più ricorrenti nelle meditazioni di A. Gramsci: cfr.
Quaderni dal carcere, ediz. dell’Istituto Gramsci a c. di V. Gerratana, Torino 1975,
voi. Ili, pp. 1914-1915, 2113-2120, ecc.; e per gli aspetti propriamente linguistici F. Lo
Piparo, Lingua, intellettuali, egemonia in Gramsci, Bari 1979. In pratica l’accultu-
razione linguistica dei dialettofoni all’italiano, vivamente sollecitata da ragioni
politiche e civili, percorse dapprima le vie dell’alfabetizzazione-, cfr., compendio-
samente, M. Raicich, Scuola e politica da De Sanctis a Gentile, Pisa 1981; e Cl.
Marazzini, Per lo studio dell’educazione linguistica nella scuola italiana prima
dell'Unità, in «Rivista italiana di dialettologia», IX, 1985, pp. 69-88. In tempi più
vicini a noi entrarono in gioco altri fattori come i movimenti migratori connessi
con l’industrializzazione e con l’urbanesimo, la sempre più larga diffusione dei
mass-media in lingua parlata, ecc. Per tutta questa materia resta ovviamente
sottinteso il rinvio a T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita cit.
xxxvi Storia della lingua italiana
anzi sia stata creata da Dante stesso (cap. V, l) 59 . In realtà la stra-
grande e controllatissima quantità di dati documentari offertici da
questo «libro onesto, sano, utile, e, grazie a Dio, non problematico»
(Dionisotti) ci stimola in altre direzioni: a non dare per scontato nulla di
quello che deve ancora avvenire, perché a ogni angolo, a ogni svolta
della storia possono presentarsi fatti nuovi, che distruggono in un
attimo ciò che pareva già acquisito; e a interpretare quindi le vicende
della lingua per quello che furono, nella loro originale complessità, fase
per fase, pacatamente, senza che la soluzione finale pregiudichi la
obiettiva valutazione di ciascuna di quelle fasi; a non appiattire il
presente sul passato né il passato sul presente, ma a lasciare spazio,
tra passato e presente, a tutta la folla degli accadimenti che ci hanno
fatti così come siamo oggi. Anche un organismo come la lingua si trova
profondamente immerso, com’è ovvio, nella storia umana, e ne condivi-
de e ne segue progressi, scarti e disarmonie, prestandosi a ricostruire
sempre, ma ogni volta in condizioni diverse, e quindi diversamente, a
seguito di questi contraccolpi, il suo delicato e duttile sistema di
comunicazione interpersonale. Per ripercorrere questi itinerari, imper-
vi e imprevedibili, nelle vicende plurisecolari di quell’organismo, che fu
ed è la lingua italiana, la Storia di Migliorini, pur fondata in anni ormai
lontani e, per certi aspetti, distaccati dal nostro attuale sentire, si offre
a noi ancor oggi come la guida più competente e sicura di cui
disponiamo. Dopo ventisette anni, un libro come questo non è, in tal
senso, invecchiato, proprio perché (credo) non si presenta come
un’opera storiografica semplice e rettilinea, rigidamente preordinata a
una determinata tesi; ma come un’opera, nel suo genere, aperta, che,
seguendo sempre da vicino il suo oggetto, ne estrae tante e tante cose,
59 È questo un altro dei rarissimi momenti in cui Migliorini esce allo scoperto
e prende posizione su modelli interpretativi di carattere generale-. «Si pensi»,
scrive Migliorini, «alle miserevoli condizioni d’Italia ai primi del Trecento... Non
certo questo stato di cose autorizzava a sperare-, ma Dante credeva, e credendo
operò il miracolo. L’Italia non era, in quanto essa non aveva coscienza della sua
sostanziale unità culturale, che le avrebbe permesso di accogliere una comune
lingua letteraria e civile, più adatta che il latino ad accomunare tutti gli Italiani.
Dante sentì e le rivelò questa coscienza: così l’Italia fu» (p. 168). Si avverte qui,
nella prosa miglioriniana, un tono insolitamente trionfale e sostenuto: c’è forse
ancora un’eco di quelle agiografie risorgimentali, per cui Dante era il padre non
solo della lingua, ma della nazione intera, «l’italiano più italiano che sia stato
mai», secondo la nota definizione del Balbo (cfr. anche Migliorini, Lingua d'oggi e
di ieri, Caltanissetta-Roma 1973, pp. 65-74, spec. a pp. 73-74). In realtà a questo
punto, all’inizio del Trecento, ITtalia linguistica (l’abbiamo già osservato) era
tutt’altro che fondata in modo stabile e irreversibile. Opportunamente M.
Durante faceva rilevare di recente che in quest'epoca nell'Italia «volgare» «la
situazione linguistica rimaneva estremamente frammentaria», e mancava «e
mancherà ancora a lungo un embrione di coscienza nazionale» nel senso
moderno della parola (Dai latino all’italiano moderno cit., 12. 2). Quello di Dante
fu un primo acutissimo segno profetico proiettato su un futuro che rimaneva
tutto da costruire.
Introduzione xxxvu
ignote prima o trascurate, o non accostate fra loro, a volte apparente-
mente disparate, ma ognuna delle quali occupa pure, obiettivamente,
un suo posto e ha avuto un suo peso nella formazione della nostra
lingua. E questa in fondo la lezione più vera di un libro come la Stona
di Migliorini, costruito passo passo, con fatica e pazienza da certosino
e con estremo rispetto per chi fosse destinato a servirsene: un
atteggiamento esattamente contrario a quello riflesso nel noto afori-
sma di Voltaire, per cui la storia è come «un vaste magazin, où vous
prendrez ce qui est à votre usage».
Una postilla finale. La Storia di Migliorini termina con l'ingresso
dell’I talia nella prima guerra mondiale, nel 1915. A chi non è al
corrente dell’intero cursus dell’attività miglioriniana, ciò potrà sembra-
re ima singolarità o un rifiuto a confrontarsi col presente. In realtà, col
presente, con la «lingua contemporanea», Migliorini si era misurato
(come s’è visto) prima che col passato; aveva anzi probabilmente tratto
proprio dal presente gli stimoli a ripercorrerne a ritroso le ragioni, a
ricercarne le origini. Nella quarta edizione «rifatta» del suo volumetto
Lingua contemporanea (1963) avvertiva nella «Premessa» (p. vi) di
essersi proposto, con questa riedizione, «di presentare nelle loro linee
generali le condizioni e i fenomeni più notevoli della lingula dell’ultimo
mezzo secolo, e così in certo modo completare la sua Storia della lingua
italiana, in cui aveva condotto l’indagine fino al 1915» (e cfr. ancora a p.
4 dello stesso volume). Questo originale e fortunatissimo libretto,
assieme all’altro che l’aveva seguito dopo pochi anni, Saggi sulla
lingua del Novecento (ripubblicato anch’esso nel 1963, dopo la compar-
sa della Storia, in terza edizione «riveduta e aumentata»), rappresenta
in realtà la vera continuazione della Storia; le due operette conducono
infa tti la trattazione fino agli inizi degli anni 60, cioè fin quasi ai giorni
nostri. Saremmo anzi tentati di dire: fin proprio ai giorni nostri,
considerando la ricchezza di stimoli e la acutezza interpretativa sono
cosparse a piene mani in questi due piccoli classici di linguistica
«militante». I tempi sono certo cambiati anche per la nostra lingua, che
sembra vivere l’avvio di un’epoca del tutto nuova, la cui «svolta
decisiva», secondo la verosimile ipotesi di M. Durante, si è determinata
«a partire dal miracolo economico degli anni cinquanta», e appare già
tale «da caratterizzare il secondo Novecento come un punto cardinale
della storia linguistica italiana» 80 . Eppure i due libretti miglioriniani,
nati negli anni 30, non appaiono ancora in complesso «datati»;
viceversa sono ancora in grado di gettare fasci di luce vivissima su
fenomeni che si stanno svolgendo sotto i nostri occhi, in questo
presente così nuovo e dinamico. Per queste ragioni non sarebbe forse
inopportuno restituire alla Storia di Migliorini il compimento che
l’autore le aveva predisposto, e riproporre ancora editorialmente.
“ Dal latino all’italiano moderno cit., 28. 1.
xxxvin Storia della lingua italiana
accanto alla Storia, i due volumetti citati sopra, magari riunendoli in
un tomo unico. Uno dei nostri linguisti più attenti, Gaetano Berruto,
auspicava già, al momento delFultima riedizione, corretta e aggiorna-
ta, della Storia, nel 1978, ima «integrazione» editoriale di questo
genere 61 : non credo di cedere a una retorica d’occasione affermando
che riportare alla luce il Migliorini «contemporaneista» significherebbe
rimettere nelle mani dei lettori un filo d’Arianna preziosissimo, per
renderli capaci di percorrere sicuramente, in lungo e in largo, quell’o-
pera grande e complessa che è la sua Storia della lingua italiana.
Ghino Ghinassi
81 Cfr. la sua breve recensione comparsa sul «Corriere della sera» del 1
ottobre 1978.
STORIA DELLA LINGUA ITALIANA
Volume I
PREMESSA
Quando nel 1938 cominciai a stendere i primissimi abbozzi di questa
Storia e nel 1942 a redigerne il primo capitolo, pur rendendomi ben conto
della scarsezza delle mie forze di fronte all’immane vastità del lavoro,
movevo da un ambizioso proposito: quello di dare all’Italia un’opera che
fino allora le mancava. Abbondano nel nostro paese le storie della
letteratura, delle belle arti, del diritto, della medicina, ecc.: come mai
invece mancano le storie della lingua? e come mai, per altre lingue,
antiche e moderne, le storie non mancano, e per il francese abbiamo quel
monumento che è il Brunot, per lo spagnolo quei poderosi frammenti che
ce ne ha dati il Menéndez Pidal? La causa l’ha esposta ineccepibilmente
il Dionisotti: « nella secolare considerazione retorica della lingua, invalsa
più che altrove in Italia, è la giustificazione per l’appunto del fatto, che
manchino a noi opere come quella del Brunot o del Menéndez Pidal »
('Giom. stor. lett. it., CXI, p. 139).
L'attenzione quasi esclusiva accordata alla lingua quale strumento
letterario ha fatto sì che nel passato parlando di storia della lingua ci si
riferisse principalmente allo stile degli scrittori e si tendesse piuttosto a
tracciare delle storie dello stile, trascurando invece tanti altri aspetti, sia
pur più modesti, che appaiono nella complessa realtà dell’uso linguistico
quotidiano. Così le pagine dedicate alla istoria della lingua » dal Parini,
dal Baretti, dal Foscolo, dal Giordani, dal Capponi e gli spunti talora
felici che esse contengono concernono piuttosto la storia della letteratura
che quella della lingua.
Certo, la lingua quale la riceve dai suoi contemporanei chi partecipa
a una data comunità non altro è che un’astrazione, fondata su miriadi
di singoli atti di linguaggio concreto. E come media la studia il
linguista: tuttavia non è trattar l’ombre come cosa salda studiare i
singoli istituti della lingua (il condizionale nelle sue forme e nei suoi
significati; i valori che ha avuti ed ha la parola virtùJ nella loro
continuità, considerando essi istituti e non gli individui parlanti o
scriventi come il filone principale della trattazione.
Ciò non significa in alcun modo sottovalutare l'importanza che
hanno sempre avuto gli individui nell’evoluzione della lingua: la loro
efficacia demiurgica si riconosce a ogni momento nella storia di
innumerevoli parole, e, se pur meno visibile, è fondatamente congettura-
bile nella storia di molte innovazioni grammaticali.
4
Storia della lingua italiana
Premessa
5
Ma altra cosa è riconoscere questa incontrovertibile verità, e altra
cosa mettere al centro della trattazione i singoli letterati nella loro
concreta personalità: per chi consideri la lingua nel suo insieme, essi non
sono che uno dei tanti fattori che agiscono sulla lingua nel perpetuo suo
evolversi: giuristi, economisti, artisti, tecnici, scienziati agiscono anch’es-
si sulla lingua. Inoltre v'è il popolo: senza lasciarci irretire nel mito
romantico del Popolo con la p maiuscola, ecco a ogni momento il singolo
popolano il quale conia una parola o lancia un frizzo che saranno
ripetuti domani da un’intera città o magari da tutta l’Italia.
Inoltre, è opera del popolo (inteso come totalità della nazione) quella
spinta generale, quel muto consenso nell’accettare o nel respingere
un’innovazione che dà consistenza all’uso.
Alcuni amici, che benevomente si sono interessati a questa mia opera
senza conoscerne il disegno, mi hanno domandato quante pagine avessi
dedicate a Michelangelo o come avessi trattato Daniello Bartoli. È stato
tante volte osservato che quello che importa è il trattare seriamente i
problemi, e che è invece secondario l’incasellarli nell’una o nell’altra
« materia »: può sembrare dunque ozioso discutere se il tracciare un
profilo linguistico e stilistico di Michelangelo o del Bartoli appartenga
piuttosto alla storia della letteratura o alla storia della lingua. Tuttavia,
se si volesse accettare il quesito, si dovrebbe rispondere, mi pare, che chi
considera in primo piano la personalità artistica degli scrittori e
analizza le loro opere e le ricolloca ciascuna nel suo tempo col fine di
individuare queste personalità, fa storia letteraria, l’interesse per la storia
della lingua comincia quando si commisura il linguaggio individuale
d’uno scrittore con l'uso dei suoi contemporanei.
Ricerche fondate su un perpetuo confronto fra il linguaggio di singoli
scrittori e l’uso del loro tempo (penso alle luminose pagine del De Lollis
sul lessico dei poeti dell’Ottocento o alla solida monografìa del Folena
sull’Arcadia del Sannazzaro) sono per questo riguardo preziose. E, per
venire ad esempi spiccioli, non è possibile giudicare se in un certo
scrittore per li campi è o no un arcaismo, se io gli dissi per «io le dissi» è o
no un toscanismo se non a patto di conoscere se l’uso comune della sua
età consentiva o no una scelta, quali erano i pareri dei grammatici, quale
era l’uso individuale di quello scrittore.
Mi si consenta tuttavia di affermare che una trattazione che si
limitasse a profili stilistici, anche numerosi, anche eccellenti, non sarebbe
che un lacerto di una storia integrale della lingua, perché lascerebbe da
parte alcuni fra i problemi più importanti che a questa storia tocca
risolvere.
Uno dei compiti più affascinanti è per esempio quello di vedere come
si formino (o come si attingano ad altre lingue) le parole più tipiche
(quelle che furono chiamate le « parole-medaglie» o le « parole-testimoni »):
è ovvio che la spiegazione dei fenomeni linguistici va cercata nel
momento e nell'ambiente in cui essi cominciano ad apparire. Si ricordi
la storia dell'assunzione di Accademia in italiano e i significati che la
parola prese nel Quattrocento e nel Cinquecento, diventando parola
europea. Oppure si pensi alle parole che indicano nel Cinquecento il
contegno, le quali in parte esprimono concetti dominanti in Italia
^attitudine!, in parte riproducono forme di pensare spagnole (sussiego).
Il mutamento di significato di setificio, lanificio da « lavorazione
della seta, della lana » a « luogo dove si lavorano la seta, la lana» e poi il
moltiplicarsi dei nomi in -ficio, non può trovar luce che nello studio delle
origini e negli sviluppi dell’industria lombarda.
La storia di ambiente e la svolta che la parola subisce per influenza
del concetto tainiano di milieu è una pagina di storia della cultura
dell’Ottocento che ha larga ripercussione sulla lingua.
Certo, i riflessi della storia culturale d’Italia sulla lingua sono molto
più evidenti nel lessico che nella grammatica, ma anche in molti capitoli
di questa sono chiaramente percettibili: valga come esempio la storia del
suffisso -iere, che sessant’anni fa si cercava di spiegare con artificiose
combinazioni fonetiche, e ora si spiega senza esitazione con l’influenza
della civiltà cavalleresca francese.
Quando ho dovuto risolvere i problemi che la struttura di questo libro
mi poneva, ho creduto di dovermi soffermare su scrittori singoli solo in
funzione della continuità evolutiva della lingua, e non della loro
personalità artistica. Ho invece cercato di dare la massima importanza
alla storia delle principali correnti d’idee e dei più notevoli fatti
grammaticali e lessicali.
Altri problemi numerosi e gravi mi si sono presentati, e il lettore
giudicherà come io abbia saputo affrontarli.
Una delle questioni più difficili, per la scarsezza di testimonianze, è
quella pur capitale dei rapporti fra lingua parlata e lingua scritta,
dall’età imperiale (come mostrano le interminabili discussioni sul
termine «latino volgare ») fino a oggi.
In parte collegato con questo è il problema della coesistenza delle
parlate locali e regionali con il progressivo enuclearsi di una lingua
comune a tutta la nazione su basi toscane.
Un altro punto importante su cui ho dovuto in parecchi capitoli
soffermarmi, è quello dell’importanza che il latino per molti secoli ha
avuto al di sopra del volgare o accanto ad esso, come lingua colta.
Mi ha dato molto da pensare la divisione in periodi. Ho finito con
l'adottare all'ingrosso, dal Duecento in poi, la divisione convenzionale
per secoli, conscio che la divisione più razionale per generazioni avrebbe
dato, allo stato attuale degli studi, difficoltà insuperabili; e poco meno
grandi quella, già preconizzata dal Borghini, per cinquantenni. Senza
dare alla data secolare altra importanza che quella d’una divisione
comoda, non ho mancato tuttavia di sostituirla qualche volta con una
data vicina, storicamente più importante. Non ho creduto di poter dar
retta alla divisione del Salfi, che (nel Ristretto della storia della
letteratura italiana, Firenze 1848) manteneva la divisione per secoli, ma
collocandola al 1275, 1375, 1475, ecc.
Suscitano molte difficoltà pratiche, nella divisione per secoli, gli
autori a cavalcioni fra un secolo e l’altro: Dante stesso, il Prodenzani,
6
Storia della lingua italiana
Leonardo, il Sannazzaro, il Chiabrera, il Magalotti, il Monti e tanti altri-,
accadrà così qualche volta che le citazioni di uno stesso autore si trovino
sparse in due capitoli successivi.
Così pure, mi è accaduto non di rado di dover trattare più volte di
una medesima parola da più punti di vista, sia nell’àmbito di un singolo
capitolo, sia in più capitoli successivi. Per non rendere troppo numerosi e
macchinosi i rinvii, li ho limitati al minimo, ritenendo che la consulta-
zione dell’indice dei vocaboli me ne potesse dispensare.
Nel cercare quando appaia la prima volta un singolo fenomeno
grammaticale o lessicale, alla principale difficoltà, quella della scarsezza
di documentazione, se ne aggiunge un’altra, di cui dobbiamo qui far
menzione, quella del luogo in cui se ne deve trattare. Si sa ad esempio,
che credenza nel significato di * armadio » risale alla locuzione far la
credenza « assaggiare i cibi destinati a uno, per dimostrare che non sono
avvelenati». Orbene, trovando che nei lessici italiani credenza non è
documentato in quel significato prima del sec. XVI, ne tratteremo
dunque in quel secolo? No certo, non appena avremo constatato che in
un inventario (in latino) delle suppellettili di un albergo di Modena nel
1347 si trova «dischum unum a crede ntia», cioè avremo visto che la
semantica già si stava modificando. E chi può essere certo che la parola
non abbia preso quel significato già prima? Per quanto grave sia questo
inconveniente, non ho creduto di dover rinunziare ai vantaggi pratici
che in complesso presenta la divisione per secoli.
I paragrafi grammaticali riferiti alle età più antiche contengono solo
alcuni fra i dati contenuti nelle grammatiche storiche correnti, invece nei
paragrafi riferiti ai secoli seguenti si troverà in nuce quello che desidere-
remmo trovare svolto in una grammatica storica la quale non si
limitasse alle origini, ma tenesse largamente conto dei mutamenti
avvenuti dal Trecento in poi.
Nei paragrafi lessicali, fra le tante cose che meritavano di essere
ricordate, quella a cui ho dato la massima attenzione è la coniazione
oppure l’accettazione da altre lingue di vocaboli non precedentemente
attestati. Ma anche qui scarseggiano ancora i lavori preparatorii.
Quando nel 1953 è uscito il Profilo di storia linguistica italiana di
Giacomo Devoto, mio sodale in tante altre imprese, mi sono domandato
se quello scritto, così intelligente e così suggestivo, rendesse inutile il m io:
ma sia la maggiore ampiezza del mio lavoro, sia la diversa impostazione
di parecchi problemi e la diversa distribuzione della materia mi hanno
indotto a perseverare.
Certo, mi rendo ben conto che le indagini da compiere sono ancora
innumerevoli: e io non posso che augurare che molti altri studiosi se ne
occupino, in ricerche singole e in quadri di più vasto insieme: con
larghezza di erudizione, con vigoria di sintesi, e soprattutto con amore.
Firenze, novembre 1958.
Si dà qui l’elenco non delle molte opere a cui si rinvia durante la trattazione,
ma di quegli scritti più frequentemente citati di cui nel testo si dà il titolo in forma
compendiosa.
AlS
Bartoli, Saggi
Bezzola, Abbozzo
Castellani, Nuovi testi
Cresdni, Manuale proven-
zale
D E I
De Lollis, Saggi forma poet.
Devoto, Profilo
Devoto, Storia
D’Ovidio, Correzioni
D’Ovidìo, Varietà
Fanfani, Bibliobiogr.
Folena, Crisi
Folena, Piov. Ari
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8
Storia della lingua italiana
Nota bibliografica
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poranea
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cento
Migliorini-Folena, Testi
Quattrocento
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10
Storia della lingua italiana
Vivaldi, Controversie
Wartburg, Ausgliederung
Wartburg, Entstehung
Wartburg, Raccolta
Wiese, Elementarbuch
Zaccaria, Elem. iberico
Zaccaria, Raccolta
V. Vivaldi, Le controversie intorno alla nostra lingua
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CAPITOLO I
LA LATINITÀ D’ITALIA IN ETÀ IMPERIALE
1. Da Augusto a Odoacre
Nel lungo periodo che va da Augusto a Odoacre il latino parlato
subisce notevoli modificazioni. Benché non si abbia ancora minima-
mente coscienza di un sistema linguistico nuovo contrapposto a quello
antico, molti fra gli elementi che costituiranno il sistema italiano sono
già nati o nascono in questi secoli.
Non ci sarà necessario fermarci troppo a lungo a giustificare né il
limite iniziale di questo periodo, né quello finale, consci come siamo
che tali confini non hanno che un valore approssimativamente indicati-
vo. Ma per il momento iniziale vorremmo ricordare la modificazione di
struttura sociale a cui dà la spinta il regime personale instaurato da
Augusto, e il messaggio cristiano che tra breve agirà come irresistibile
lievito. L’inclinazione di Augusto ai volgarismi 1 , ove si vada al di là del
carattere aneddotico delle testimonianze, sarà pur essa sintomatica.
La data finale C476), pur non dimenticando^ che già parecchi stanzia-
menti di barbari erano avvenuti in Italia per concessione imperiale 2 ,
segna il momento in cui l’Italia cessa di essere sorgente autonoma di
autorità imperiale, e l’inizio di stanziamenti barbarici assai più
massicci
Si sarebbe tentati di dividere ulteriormente questo lungo periodo di
cinque secoli, distinguendo il periodo pagano da quello cristiano. I
mutamenti sociali e linguistici sono così importanti che giustifichereb-
bero ampiamente ima suddivisione, convenzionalmente databile con
l’editto di Milano (313): dico convenzionalmente perché la libertà e poi i
privilegi concessi ai Cristiani segnano solo il libero espandersi di
peculiarità prima represse.
Ma siccome per tanti e tanti fenomeni le datazioni sono molto
incerte, e del resto ai nostri fini importa soltanto segnare le linee
1 V. Pisani, «Augusto e il latino», in Ann. Se. norm. Pisa, s. 2“, VII, 1938, pp. 221-
236.
2 Tribù di Taifali, popolo gotico, erano state stanziate dall’imperatore
Graziano (383) nell’Emilia (e così poi tribù di Alamanni furono accolte da
Teodorico sulle rive del Po, ecc.).
12 Storia della lingua italiana
fondamentali, di solito sarà meglio considerare nel suo insieme tutta
l’età imperiale.
2. Lingua parlata e lingua scritta
Tra l’inizio e la fine di questo periodo, il principale mutamento è nel
rapporto tra la lingua parlata e la lingua scritta: la differenza, che
all’inizio è lieve, è molto forte alla fine.
Non possiamo qui dispensarci, benché se ne sia ormai parlato
anche troppo, dall accennare alla questione che fa capo all’infelicissi-
mo termine di latino volgare.
Ma, invece che mettere insieme e ridiscutere i passi degli antichi e
le teorie dei moderni, vorremmo anzitutto esporre nelle grandi linee i
rapporti fra la lingua parlata e la lingua scritta durante questi secoli.
La situazione del linguista è assai difficile, in quanto ciò che gli preme
conoscere, il flusso ininterrotto della lingua parlata dall’età preistorica
a quella augustea, e via via fino a oggi, può essere solo parzialmente
conosciuto o ricostruito: e soltanto attraverso testimonianze scritte,
cioè attraverso una stesura che è solo in parte una registrazione fedele,
quasi sempre è una stilizzazione. La regola che «si deve scrivere come
si parla» è stata seguita solo dai moderni, e solo parzialmente, e per
brevi stagioni; gli antichi hanno sempre concepito lo scrivere, anche il
più familiare, come soggetto a determinate regole e schemi.
Distinti idealmente i due filoni, quello della lingua parlata, di gran
lunga più variegato (secondo i tempi, i luoghi, le classi sociali, le spinte
affettive), e quello più meditato e regolato della lingua scritta, anch’ es-
so tuttavia più vario che di solito non si creda, non dobbiamo lasciarci
andare a considerarli come due unità separate. Dobbiamo tener conto
che la lingua parlata, persino quella degli analfabeti, risente molto
dell’influenza della lingua scritta e viceversa. Abbiamo insomma due
sistemi più o meno differenziati tra loro, secondo i tempi, i luoghi, gli
strati, i toni, ma con coincidenze e interferenze numerosissime.
Le nostre limitazioni nella conoscenza del latino letterario sono
prodotte dalle dispersioni e dalle corruttele che i testi hanno subite nei
secoli; invece quel che sappiamo del latino parlato si fonda quasi tutto
su una serie di ipotesi, alcune altamente verosimili, altre molto più
incerte. Non è lecito dubitare della sostanziale vicinanza fra latino
parlato e latino scritto a Roma negli ultimi due secoli della Repubblica,
quando appunto la lingua letteraria si costituì attraverso una stilizza-
zione del parlato. Le differenze che potevano correre allora tra la
lingua scritta e la lingua parlata in città dalla maggioranza dobbiamo
credere fossero non maggiori di quelle che possono esserci ora, e la
frase tanto discussa della lettera di Cicerone (od fam., IX, 21)
«verumtamen quid tibi ego videor in epistolis? Nonne plebeio sermone
agere tecum?» va certo intesa come «alla buona» e non «in latino
volgare».
Ma è indubbio che già allora al di sotto degli strati più colti, a
La latinità d’Italia in età imperiale 13
Roma, e con molto maggiore abbondanza altrove, si avevano nella
lingua parlata varianti notevoli. Con intensità sempre crescente queste
peculiarità della lingua parlata più incolta si manifestano nell’età
imperiale; se si deve presumere che non ne sia stata impedita la
comprensione reciproca tra popolazioni delle varie regioni dell’Impero,
tuttavia dobbiamo concepire in modo ben diverso la forte unità della
lingua scritta e le libertà largamente concesse alla lingua parlata. La
prima rimane sempre legata dalla tradizione scolastica a norme
severe, che i grammatici si sforzano di mantenere con un certo rigore
anche nelle province, e anche quando con la crisi politico-sociale del III
secolo l’ignoranza dilaga. Il rispetto per le norme grammaticali e
l’amore per una forma ornata, elegante, riesce ad imporsi anche dopo il
trionfo del cristianesimo, che pur rappresenta l’emergere di nuovi
strati plebei e un sensibile distacco dalla tradizione.
Ma, nella lingua parlata, dobbiamo immaginare molto più attive le
forze innovatrici, che tenderebbero a portare a una disgregazione. Fin
quando durano vivaci gli scambi di persone e di cose fra i territori
dell’Impero, sono aperte le possibilità di penetrazione linguistica fra
luogo e luogo; e fin che Roma mantiene una superiorità di prestigio,
circolano di preferenza le innovazioni che Roma stessa ha create
oppure accolte.
3. Fonti per la conoscenza del latino parlato
I nostri tentativi per raffigurarci quella che poteva essere la lingua
parlata nei vari luoghi e tempi e strati della popolazione si fondano su
due ordini diversi di testimonianze: quelle che riusciamo a ricavare
dalle fonti scritte e quelle date dal riscontro con i risultati neolatini,
cioè la persistenza di espressioni linguistiche (suoni, forme, costrutti,
vocaboli) in determinate aree, più o meno vaste.
Anzitutto è il tono di uno scritto letterario (o di qualche passo di
esso) che ci permette di riconoscere che lo scrittore s’accosta all’uso
parlato. Tipico, a questo riguardo, è il modo in cui Petronio stilizza la
lingua di alcuni personaggi del Satiricon, specialmente dei liberti di
origine orientale che fanno corona a Trimalcione.
Utili indizi ci danno i testi di quelle scienze che per il loro carattere
pratico non possono troppo discostarsi dal lessico popolare: agrono-
mia, agrimensura, medicina, veterinaria.
Le iscrizioni nella loro forma più illustre (quella per es. delle solenni
dediche degli archi trionfali) si attengono alla buona lingua scritta; ma
nelle forme meno curate traspaiono ignoranze di lapicidi che palesano
quel che i parlanti ignoravano della lingua scritta; e le forme infime, le
sconcezze scritte sui muri delle caserme o dei lupanari, o le formule di
esecrazione, scritte su lamine di piombo con lo scopo di nuocere a un
rivale inviso, mostrano erniose mescolanze di parlata plebea e di
eleganze letterarie male rimasticate.
14
Stona della lingua italiana
La latinità d'Italia in età imperiale
15
Quando leggiamo a Pompei, graffìta sul rotolo di papiro raffigurato
in ima pittura 3 , l’iscrizione seguente:
Quisquis ama valia, pena qui nosci amaLrel
bis [tianti peria, quisquis amare vota
in luogo delle forme consuete della lingua scritta:
Quisquis amat valeat, pereat qui nescit amare;
bis tanti pereat, quisquis amare vetat,
vediamo bene alcune peculiarità plebee di pronunzia (scomparsa della
t, i semivocale per e, votare per retare) trasparire attraverso gli errori
dell’ignoto scribacchiatore.
E così in iscrizioni in cui leggiamo iscaelesta, iscola, Ismymae t
Ismaragdus, Isspes, ispeclararie, isperabi, ispeculator, ispose, ecc. 4 vedia-
mo senz’altro affiorare l’abitudine fonetica della prostesi di i davanti a
s impura; invece quando, in un’iscrizione del tempo di Traiano,
troviamo scritto Spania per Hispania, il medesimo fenomeno s’intrave-
de attraverso una «grafia inversa» cioè lo sforzo di ipercorrezione di
chi scrive.
Testimonianze analoghe, dirette o inverse, si possono ricavare
anche dai manoscritti antichi.
Molto più precise, ma anche molto più limitate, sono le testimonian-
ze dirette di particolarità grammaticali o lessicali. Così, per citare solo
qualche esempio, sappiamo che Augusto tolse dall’ufficio un legato
consolare che aveva scritto di sua mano ixi per ipsi 5 . Festo (II sec.)
compendiando Verno Fiacco ci dice « Orata genus piscis appellatila
colore auri quod rustici o rum dicebant ut auriculas, oriculas ...» (196
Lindsay). Servio ci attesta per il suo tempo (princ. sec. V) la pronunzia
assibilata di ti e di davanti a vocale: «Iotacismi sunt, quotiens post ti
aut di syllabam sequitur vocalis, et plerumque supradictae syllabae in
sibilum transeunt, tunc scilicet quando medium locum tenent, ut in
meridies » Un Don., IV 445 K.); « Media .- di sine sibilo proferenda est:
Graecum enim nomen est, et Media provincia est» Un Verg. Georg. II
126 Thilo). Altrettanto utili ci sono indicazioni lessicali come quelli dello
stesso Servio: «latine asilus, vulgo tabanus vocatur» Un Verg. Georg. Ili
148), o il passo di S. Agostino sull’uso di ossum-. «Non est absconditum os
meum a te, quod fecisti in abscondito. Os suum dicit: quod vulgo dicitur
ossum. Latine os dicitur. Habeo in abscondito quodam ossum. Sic enim
potius loquamur: melius est reprehendant nos grammatici, quam non
intelligant populi» [Enarr. in Psalmum CXXXVIII, 20).
3 Corpus Inscr. Lat., IV, n. 1173, E. Diehl, Pompejanische Wandinschriften, Bonn
1910, n. 594.
4 Diehl, Vulgàrlat. Inschriften, Bonn 1910, nn. 208-219.
5 Suet., Aug., 88. A riscontro troviamo in iscrizioni pompeiane Paris isse
(Diehl, Pompejanische Wandinschriften nn. 309-311; V. Vaananen, Le latin vulgato
des inscr. pompéiennes, Helsinki 1937, pp. 113-114).
Tra queste testimonianze di scrittori e di grammatici, va ricordata
ner la sua eccezionale importanza ì’Appendix Probi, una raccolta di 227
avvertenze formulate secondo lo schema vetulus non veclus, messe
insieme da un maestro di scuola del terzo secolo o poco dopo,
probabilmente a Roma. Vi troviamo testimonianze dirette come appun-
to vetulus non veclus, virìdis non virdis, correzioni di grafie inverse
come miles non milex, ecc.
Queste notizie, di vario carattere e valore, benché evidentemente
poco numerose in confronto con tutto quello che ci piacerebbe sapere
sulle varietà della lingua parlata sotto l’Impero, ci permettono di
intravedere differenze notevoli, che pure in complesso non impedivano
l’intelligibilità reciproca.
Tra le innovazioni, alcune finirono con l’abortire, altre col persistere
in tutte le lingue neolatine, altre con raffermarsi soltanto in una parte
del territorio. La vitalità dei singoli fenomeni, la direzione in cui essi si
verranno svolgendo e accentuando, si possono scorgere solo collocan-
dosi da un punto di vista neolatino, cioè fondandosi sui risultati che
essi hanno finito col dare negli idiomi romanzi.
Sotto questo profilo, possiamo appunto distinguere il latino parlato,
che include in teoria tutte le varietà del parlato, dalle più colte alle più
rozze, dal latino volgare o plebeo che considera le particolarità della
lingua parlata dalla plebe proprio in quanto esse prevalgono nel
parlato e si ritrovano poi nelle lingue neolatine. Quanto al termine di
preromanzo, o protoromanzo o romanzo comune, esso accentua
ancora di più il carattere ricostruttivo dell’indagine: ma il termine in
qualche modo suggerisce una compatta uniformità, anziché un gioco
libero e vario di spinte e controspinte provocate da centri di maggior
prestigio, nell’àmbito di una intelligibilità che alle volte doveva essere
assai approssimativa.
4. Lingue prelatine
L’espansione del latino si fonda principalmente sull’espansione
territoriale dei Romani e sulla colonizzazione conseguente. Mentre la
colonizzazione greca era stata, come quella fenicia, di tipo prevalente-
mente commerciale, e perciò limitata alle città costiere, quella romana
è in prima linea agricola, cioè porta allo stanziamento di colonie di
soldati-coltivatori nell’interno dei paesi; e da queste il latino si espande
sugli alloglotti. Il servizio militare è un fattore di latinizzazione in
quanto anche i soldati che avevano una lingua materna diversa dal
latino si trovano immersi per lunghi anni in un ambiente di lingua
latina plebea. Quando poi torneranno ai loro paesi d’origine, la loro
qualità di veterani, di centurioni ecc. assicurerà loro nella vita
municipale una certa preminenza, e contribuirà ad accelerare il
progresso della latinizzazione.
Questa spinta dal basso viene a convergere con quelle esercitate
dalla scuola e dalla sempre crescente organizzazione burocratica. Per
16
Storia della lingua italiana
compendiare il progrediente inserirsi di nuove popolazioni nella com-
pagine sociale dell’Impero e nella compagine linguistica latina .si suol
citare l’eloquente apostrofe che un oriundo della Gallia meridionale,
Rutilio Namaziano, rivolgeva a Roma nel 416:
Fecisti patriam diversis gentibus unam:
profuit invitis, te dominante, capi;
dumque offers victis proprii consortia iuris,
urbem fecisti quod prius orbis erat 6 .
Ma già nel primo secolo Plinio il Vecchio aveva detto non molto
diversamente, anche più insistendo sul fattore linguistico: «tot populo-
rum ferasque linguas sermonis commercio contraheret ad conloquia et
humanitatem homini daret, breviterque una cunctarum gentium m
toto orbe patria fieret» (Nat. hist., Ili 29).
Le altre lingue, che ancor nel III o nel II secolo avanti Cristo si
dividevano con il latino la penisola, erano, già al tempo di Augusto,
scomparse ovvero ridotte a vernacoli di scarsa importanza.
Cominciando dalle lingue preindoeuropee, sappiamo che il ligure
era stato assai fortemente intaccato dal celtico de iscrizioni leponzie
rappresentano un ligure gallicizzato), e il latino completa 1 opera di
^EleU’ etrusco, pare che nessuna iscrizione sia posteriore alierà
cristiana-, ma per i suoi studi sull’etrusco l’imperatore Claudio dev es-
sersi ancora valso di persone che lo conoscevano, ed e probabile che
almeno fino al sec. IV dopo Cristo l’etrusco sia persistitocome hn&m
sacrale delTaruspicina-. gli «Etrusci haruspices» degli eserciti di Giulia-
no° wmpulsavarK) i lori libri rituali, che dobbiamo credere fossero
tUt \°Itetl C sottom^ssTda 1 Druso e Tiberio, sembra che almeno in parte
conservassero l’uso della loro lingua fino ad Adriano •
L’assorbimento degli Euganei, degli Adriatici (o Piceni), dei Sicam
era certo avanzatissimo all’inizio della nostra era. ,
Del paleosardo, come è noto, non si ha nemmeno ^ iscnzione^ma è
ipotesi non temeraria ritenere che si riferiscano anche alla lingua le
condizioni arretrate di civiltà dei Barbaricim, i quali ancora ai tempi . ±
Grecorio Magno vivevano «ut insensata ammalia» (Lp., ili,
culto la lingua punica si mantenne assai a lungo in Sardegna-, si ha
ancora in un santuario un’iscrizione in lingua punica del tempo degli
Antonini.
e Dereditu 1 w 63-66. «Di popoli stranieri - parafrasava V Crescini - facesti,
SkÈSSSStSSwSSS 3
mercé tua, cittadini di un solo comune».
7 Ammiano Marc., XXIII, 5, 10-14.
8 Arriano, Taci., 44.
La latinità d’Italia in età imperiale
17
Quanto alle lingue indoeuropee, il celtico dev’essere sopravvissuto
in qualche luogo della Gallia, e soprattutto nelle Alpi elvetiche, fino al
V secolo e forse anche oltre 9 .
Non vi sono iscrizioni né venetiche né messapiche posteriori al I
secolo a. C. Né l’umbro né l’osco sono più usati come lingue ufficiali
dopo la guerra sociale (88 a. C.). La data in cui furono incise le tavole
iguvine è incerta, ma non si accetta più, come troppo bassa, l’età
augustea a cui aveva pensato il Bréal. L’osco sopravvive più a lungo: le
iscrizioni pompeiane dipinte su muri a stucco e i graffiti probabilmente
sono di non molto anteriori alla catastrofe del 79 d. C.
Questione non ancora definitivamente risolta è quella della persi-
stenza del greco anche in età imperiale in qualche territorio della
Calabria e della Puglia. Se il greco aveva tenui appoggi territoriali,
Tenonne forza culturale e politica che gli veniva dal suo prestigio di
lingua dotta e di lingua ufficiale delle regioni orientali dell’Impero era
un importantissimo fattore di conservazione 10 .
5. Condizioni sociali. Il Cristianesimo
L’espansione del latino a spese delle lingue precedenti non è opera
di propaganda conscia dei Romani (ima politica della lingua si avrà
solo in età moderna), ma del prestigio di cui gode la lingua come
veicolo di civiltà.
Nell’età augustea, e durante tutto il I secolo, la posizione di Roma è
di assoluto privilegio, e di conseguenza le innovazioni linguistiche che
irradiano dall’Urbe hanno alte probabilità di essere accolte in tutta
quella parte deUTmpero dove la lingua culturale è il latino e non il
greco. Il fitto sistema stradale, l’organizzazione già assai burocratica
portano a frequenti scambi di persone e di parole.
Ma quella nova provincialium superbia di cui si lagnava ai tempi di
Nerone il senatore Trasea Peto (Tacito, Ann., XV, 20) guadagna terreno
di generazione in generazione. Se è ancora un episodio isolato quello di
Galba eletto imperatore dalle legioni di Spagna, ricordiamo che
Traiano e Adriano erano cittadini romani di Spagna, Antonino Pio e
Marco Aurelio erano oriundi gallici. La posizione di privilegio di Roma
recede irremissibilmente nell’età degli Antonini, e le province sono
9 J. U. Hubschmied, Vox Romanica, III, 1938, pp. 48-155. Ma non è credibile
ammettere (sul solo fondamento della corrispondenza fra il gallico oskilo e l’alto
tedesco osk «frassino», rispettata nell’adattamento di Oscela in Eschental) che
nella vai d’Ossola vi fossero ancora nel sec. XII abitanti che parlavano gallico e
Alamanni che li comprendevano (p. 50).
10 Le due tesi opposte, della continuità fino ad oggi (Rohlfs, Caratzas) e della
interruzione (Morosi, Battisti) sono tuttavia meno discoste che non sembri,
giacché anche il Rohlfs deve riconoscere che la grecità doveva essere ormai
ridotta a ben tenue cosa quando sopravvenne a rinsanguarla e riplasmarla la
nuova corrente bizantina.
18
Stona della lingua italiana
parificate all’Italia. Settimio Severo dà all’esercito carattere decisa-
mente provinciale; e la famosa «constitutio Antoniniana» del suo figlio
maggiore e successore Caracalla (212), con la quale la cittadinanza
romana è concessa a tutti i «peregrini», è un sintomo importantissimo,
anche se la sua portata pratica non fu molto grande 11 .
La crisi del III secolo porterà alla decadenza estrema il prestigio di
Roma. Così già dall’età degli Antonini l’Italia è disposta ad accettare
innovazioni linguistiche provenienti dalla Gallia 12 e si dà l’esempio di
innovazioni del III secolo che possono essere accolte a Lione e a
Narbona, ma non raggiungono, nonché Liberia e la Dacia, nemmeno
l’Etruria e rUmbria 13 . Quando, dopo gli anni atroci dell’anarchia
militare, l’autorità è ristabilita da Diocleziano, gli inceppi prodotti dal
nuovo regime a mmini strativo e fiscale limitano grandemente la mobili-
tà dei cittadini e contribuiscono a ridurre anche gli scambi linguistici.
La partizione tetrarchia per un verso rispecchia, per altro verso
favorisce correnti di traffico piuttosto trasversali che longitudinali 14 , e
quindi diminuisce ancora l’efficacia delle innovazioni provenienti da
Roma. “
La fondazione di Costantinopoli, che mirava a diminuire le differen-
ze nell’amministrazione dell’Impero, contribuisce invece a consolidar-
le. D’altro lato il fatto che l’imperatore di regola non risieda più a Roma
viene ad accrescere l’autorità dei pontefici.
Nella seconda metà del secolo IV, mentre Milano è la residenza
abituale dell’imperatore di Occidente e la sede di S. Ambrogio, Roma,
con il papa Damaso, è alla testa della cristianità (ed è in grado di
esercitare una certa influenza linguistica su tutta la cristianità occi-
dentale). E alla metà del secolo V, il papa Leone I si vanta che la sede di
Pietro eserciti maggiore influenza che non esercitasse la sede di
Cesare: «ut... per sacram Beati Petri sedem caput orbis effecta, latius
praesideres religione divina quam dominatione terrena» (Sermo LXXX).
L’espansione del cristianesimo nel mondo antico ha effetti linguisti-
ci di grande rilievo; sia direttamente sul lessico, per il rivolgimento i
prodotto nei concetti e nei sentimenti, sia indirettamente per la ;
Levitazione causata nelle classi sociali. Nei primi secoli il cristianesimo |
si rivolge soprattutto alle classi inferiori della società, e il suo trionfo |
sociale e linguistico nel IV secolo significa il trionfo di un filone recente %
e in complesso popolareggiante sopra una tradizione pagana tenace- ,
mente mantenuta per secoli da ceti conservatori.
11 M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell’Impero Romano, trad. G.
Sanila, Firenze 1933, pp. 483-484. j
12 Bartoli, Saggi, p. 112 .
13 Jud, Revue de ling. romane, III, 1927, pp. 234-238 dotta fra extutare, voce |
sorta nel latino parlato della capitale, ed extinguereì. ;
14 L’importanza della partizione dioclezianea nella geografia linguistica 5
dell’età imperiale è stata sostenuta specialmente da M. Bartoli (Saggi , p. 119) e da |
G. Devoto (Storia, pp. 302-305). j
La latinità d'Italia in età imperiale
19
Nell’àmbito della latinità di questo periodo, la latinità cristiana
costituisce una «lingua speciale», la lingua di un gruppo particolare,
stretto da legami sociali e religiosi. Sullo sfondo della latinità imperia-
le, si vengono svolgendo particolarità linguistiche (in primo luogo
lessicali e sintattiche) le quali autorizzano a parlare di latinità
cristiana e di singoli «cristianismi» 1 *.
Non va dimenticato che la lingua delle prime comunità ebraiche ed
ellenistiche a Roma è il greco, e che greca è inizialmente la liturgia
della Chiesa. Solo più tardi (ai tempi di papa Vittore, cioè alla fine del II
secolo), con l’entrata di importanti nuclei latinofoni, il latino diventa la
lingua usuale della comunità cristiana dell’Urbe. Roma è in ritardo
rispetto all’Africa, dove già la vita, la letteratura, la liturgia si
svolgevano da tempo in latino. La successiva fase, cioè l’uso del latino
come lingua ufficiale della Chiesa si avrà solo più tardi, al tempo di
papa Damaso; e ancora in età posteriore la latinizzazione completa
della liturgia.
6 . Fattori di differenziazione
Quali fattori portarono a differenziarsi in direzioni diverse gli
idiomi neolatini, e, nell’ambito italiano, i vari dialetti? Uno dei fattori
che furono addotti, la diversa data della colonizzazione 18 , è stato ormai
riconosciuto di non grande importanza 17 . Per fare solo un esempio, non
è possibile ritenere che i caratteri arcaici del sardo siano dovuti alla
colonizzazione di antica data Qa conquista dell’isola è del 238 a. C.): se
no la Sicilia (conquistata già anteriormente, in seguito alla 2 * guerra
punica) dovrebbe presumibilmente avere ima lingua anche più arcaica,
o almeno serbarne tracce.
Il fattore del sostrato, cioè l’influenza esercitata sul latino dalle
lingue alle quali esso si sovrappose e finì col sostituirsi, è indubbiamen-
te un motivo assai forte, benché sulla misura e il modo di questa azione
del sostrato i linguisti non siano affatto concordi.
Dopo la conquista, le popolazioni alloglotte, quantunque, s’intende,
in tempi e circostanze assai diverse, passano attraverso fasi successive
di assimilazione: l’apprendimento del latino, il bilinguismo, l’abbando-
no della lingua natia. In tale tirocinio, esse certo introdussero nel latino
che andavano imparando, alcune particolarità di pronunzia, e un certo
13 Nella sconfinata bibliografia sull’argomento, vanno particolarmente ricor-
date le ricerche di J. Schrijnen e della sua scuola- la collezione «Latinitas
Christianorum Primaeva», inaugurata dalla Charakteristik des Altchristl. Lateins
dello stesso Schrijnen, Nimega 1932, la rivista Vigiline Christianae, diretta da Chr.
Mohrmann, la raccolta di saggi della medesima autrice Études sur le latin des
Chrétiens, Roma 1958.
" Ne fu principale fautore G. Gròber, in Arch. Lat. Lex. und Gramm., I, 1884,
pp. 210-213.
17 Meyer-Lùbke, Einfdhrung, pp. 18-19.
20
Storia della lingua italiana
numero di vocaboli, specie quelli che esprimevano nozioni più stretta-
mente locali (nomi di animali, di piante, di forme del suolo). Ed è
possibile, anzi probabile, che alcune peculiarità fonetiche represse, nei
tempi in in cui le rèmore sociali prevalevano, dal buon uso e dalla
scuola (nei limiti in cui questa poteva allora agire), siano riemerse poi
con l’inselvatichimento della decadenza 18 . j
Importa molto, per giudicare della maniera in cui il sostrato può ■
aver agito, rendersi conto del modo della conquista e della colonizza-
zione. Uno dei problemi più interessanti è quello delle tracce scarsissi-
me lasciate nel latino dall’etrusco, in confronto con quelle più notevoli .
lasciate dal celtico e dall’osco-umbro. Già avvertiva Bianco Bianchi nel
1869 19 che sul latino d’Etruria la lingua etrusca «se non giovò, poco gli >
nocque, perché essendo lingua troppo diversa non poteva assimilarsi
al latino-, mentre nella bassa Italia, dove si parlarono linguaggi |
prossimi al latino, vivono oggi dialetti nel sistema fonetico più corrotti
del toscano». La tesi che il toscano sia meglio conservato perché !
l’etrusco era impermeabile al latino fu poi svolta dal Mohl, grande ;
fautore dell’azione dei sostrati 20 . La radicale diversità delle due lingue- :
impediva, fuorché nell’onomastica, la formazione di miscele etrusco- :
latine (diversamente da quel che accadeva con lingue più simili a <
Preneste, a Falerii, a Spoleto, a Lucerà), e ciò che si mantenne fu il
i| latino quasi intatto delle numerose colonie latine, mentre la vecchia
tradizione delle famiglie etnische si chiuse in un’orgogliosa solitudine
I e così si estinse 21 . Questo ci spiega come la Toscana abbia conservato il ?
latino con minori alterazioni che Roma stessa, la cui parlata invece
j subì fòrti modificazioni di tipo osco-umbro: nd diventato nn, mb ?
diventato nini, ecc. 22 . Che le alterazioni del latino nell Italia meridiona-
le siano in parte dovute a fenomeni di sostrato, non par dubbio 23 : più s
i difficile è decidere se esse dipendano da influenze esercitatesi già al ì
tempo dell’accettazione del latino, o se siano piuttosto dovute a |
|ij espansioni dialettali accadute nell’alto Medioevo. Quello che ora ci
jjl preme constatare è la eccellente conservazione della latinità in j
l> In genere gli studiosi italiani, anche di scuole opposte (basti citare il Bartoli
e il Merlo), sono inclini a seguire la tradizione dell' Ascoli, dando grande |
importanza al sostrato; invece altri studiosi (ricordo specialmente Rohlfs e Hall) j
sono molto più scettici. Orientano bene sul problema Terracini, Pagine, pp. 41-79 e <
V. Bertoldi, La parola quale testimone della storia, Napoli 1945, pp. 121-177.
19 In un articolo nella Rivista Urbinate di quell anno, largamente citato dal p.
F. Sarri per illustrare il carteggio medito Ascoli-Bianchi, in Mem. Acc. Lincei , s. 6\ s
Vili, 1939, p. 157.
20 G. F. Mohl, Introduction à la chronologie du latin vulgaire, Parigi 1899, p. 13. .
21 G. Devoto, Storia, pp. 198-199. TTT i
22 C. Merlo, «Lazio Sannita ed Etruria Latina?», in Italia dialettale. 111, 1927, |
pp. 84-93. „ .. .. . .’}
23 «A costituire il legame tra l’antica situazione osca e 1 odierna situazione »
campana basta anche il solo bennere ‘vendere’ attestato per 1 anno 826 dal Codex |
Cavensis »: Bertoldi, La parola quale testimone, cit., p. 126.
La latinità d'Italia in età imperiale
21
territorio etrusco. Assai probabile ci sembra anche l’origine etrusca
dell’aspirazione intervocalica toscana 24 .
Già nell’esaminare il sostrato come fattore di modificazione lingui-
stica, abbiamo visto come non si possa prescindere dalla struttura
sociale dei popoli che hanno accolto il latino. Proprio su questo fattore
sociale-culturale si è fondata la discussione sulla persistenza della -s
finale nelle lingue romanze occidentali. Questo tratto conservativo fu
spiegato come dovuto al modo in cui il latino fu appreso in Gallia, da
un’aristocrazia molto incline ad assimilare la cultura romana, e
attraverso un insegnamento scolastico: insomma ima penetrazione
«dall’alto» e non «dal basso» della scala sociale. Generalmente accolta
per ciò che concerne la Gallia, questa spiegazione suscitò invece forti
dubbi negli studiosi di sardo, per il fatto che la latinizzazione della
Sardegna avvenne in condizioni radicalmente dissimili, eppure presen-
ta la conservazione della -s 25 . Il fattore della circolazione linguistica
dovuto a qualunque specie di scambio, pratico o intellettuale, fra vari
paesi, è indiscutibilmente importante; e tale che si è potuto persino
tentare di rinunziare a ogni altro fattore per spiegare solo per mezzo
della circolazione più o meno intensa, messa in moto da centri di più
alto prestigio, tutta la distribuzione delle particolarità linguistiche nei
paesi neolatini.
Fin che la circolazione linguistica si mantiene attiva, le innovazioni
che appaiono in tutti i territori in cui si parla latino tendono a
diffondersi liberamente, tutt’al più trovando ostacoli nell’influenza
della lingua scritta, e nello spirito conservatore di particolari tradizioni
regionali dovute al sostrato o storicamente consolidatesi. Ma, svanita
l’influenza di Roma come centro principale, rallentata quella circola-
zione che manteneva vivi gli scambi tra le province, le peculiarità
locali si vengono moltiplicando in direzioni diverse.
Quanto profonde potevano essere al principio (oppure alla fine) del
secolo III quelle divisioni fra Romania occidentale e Romania orientale
che troviamo segnate nelle note cartine del Wartburg? 26 . Che differen-
ze percettibili fra regione e regione esistessero non c’è dubbio 27 ; ma che
24 Merlo, art. cit., con l’indicazione degli autori precedenti; Battisti, in Studi
etruschi, TV, 1930, pp. 249-254. Le opinioni negative del Rohlfs (nell’art. della Cerm.-
rom. Monatsschr ., XVIII, 1930, rist. in An den Quellen der rom. Sprachen, Halle 1952,
pp. 71-75) e del Hall (Italica, XXVI, 1949, pp. 64-71) non mi pare che intacchino la
probabilità che un suono così tipico sia da attribuire al sostrato (Wagner, Rom.
Forsch., LXI, 1948, p. 14).
25 Wagner, Rom. Forsch., LXI, 1948, p. 17; cfr. ancora Wartburg , Ausgliederung,
pp. 24-26, Wagner, Rom. Forsch., LXTV, 1951, pp. 416-420.
28 Nelle due edizioni dell’opuscolo su La posizione della lingua italiana
(Lipsia 1936, Firenze 1940), e nel saggio «Die Ausgliederung der romanischen
Sprachràume», in Zeitschr. rom. Phil., LVI, 1936, e poi in volume, Berna 1950.
27 Si senta quello che S. Agostino scriveva alla madre (De ordine. II, 17, 45),
testimonianza interessante sulle differenze della latinità d’Africa da quella
22
Storia della lingua italiana
esistessero già grandi aree compatte c f^etticonfim difficilmente si
può credere (né ritengo che lo pensi il Wartburg stesso) 28 . Il Bartoli
preferiva, secondo i casi, opporre aree occidentali (o pireneo-alpine) e
aree orientali (o appennino-balcaniche); aree continentali e aree medi-
terranee; aree intermedie e aree laterali 29 .
Non v’è dubbio che i vari fattori che siamo venuti enumerando (il
sostrato, la diversa età della colonizzazione, il modo di essa la
circolazione linguistica) e l’altro fattore che studieremo nel capitolo
seguente d’influenza delle lingue dei popoli invasori) si sono vanamen-
te assommati, anche se singoli studiosi tendano a mettere in ridevo
piuttosto l’uno che l’altro fattore, secondo il loro atteggiamento
scientifico e il tipo delle loro ricerche. Di qui la grande diversità delle
ricostruzioni che sono state tentate, per le condizioni linguistiche
dell’intera Romània o specificamente per 1 Italia, alla fme dell Impem
Il Merlo ritiene che «la classificazione dei dialetti italiani è soprattutto
un problema etnico», e sottolinea la coincidenza dei iimiti odierni con i
limiti preistorici; lo Schùrr attribuisce invece ai Longobardi 1 origine di
u ed ò. Il Muller (che si fonda esclusivamente sui documenti e non tien
conto della continuità in loco ) ritiene «falliti tutti i tentativi di
dimostrare un’antica dialettalizzazione» 30 , mentre il Lausberg amva a
ricostruire una paleogeografia dei dialetti italiani alla fine del sec. IV,
con una ripartizione in cinque gruppi: uno neoromanzo (romanzo
occidentale), che comprende l’Italia a nord dell Appennino, e quattro
gruppi paleoromanzi: l’Italia mediana, specialmente occidentale este-
sa fino a Napoli; l’Italia adriatica; i territori arcaici (Lucania, Sardegna,
Corsica); i territori grecizzanti (Puglia meridionale, Calabria, Sicilia) .
7. Distacco della lingua letteraria
La lingua scritta, nei suoi filoni letterari e nei suoi filoni tecnici,
conduceva una vita sempre più artificiale, e staccata da quella della
lingua parlata. L’ideale retorico dell’età aurea sopravvive negli scritto-
ri pagani, impoverito, puntellato alla meglio dai grammatici; piu si
procede nel tempo, più si sente l’imbarazzata pedanteria degli settori
che si sforzano di imitare le antiche eleganze, e non ci riescono. Tra gli
H’Ttalia e sulla discordanza di ambedue da ima lingua ideale esente da difetti: «si
erllmdicamte facile ad eum sermonem perventuram, qui locutioms et lrnguae
vitio careat profecto mentiar. Me enim ipsum, cui magna fuit necessitas ipsa
perdiscere, adhuc in multis verborum sonis Itali exagitant-, et a me vicissim, quod
ad % S cT H OI Meier ^DiTkntstehung der roman. Sprachen undNationen, Franco-
forte 1941,' passim, M. Pei, Rom. Rev., XXXIV, 1943, pp. 235-247, M. L. Wagner, Rom.
Forsch^ LX^l^ii f on( jamentali della lingua nazionale italiana e delle
lingue sorelle», in Mise. Fac. Leti, e FU, I, Torino, 1936 PP- 79-81.
30 H. F. Muller, A Chronology of Vulgar Latm, Halle 1929, cap. X.
31 Rom. Forsch., LXI, 1948, pp. 322-323.
La latinità d’Italia in età imperiale
23
scrittori cristiani c’è un continuo sovrapporsi di due tendenze: quella
che porta a rispettare le norme della retorica classica, e quella che
porta a piegarsi fraternamente al livello delle masse. In san Girolamo
prevale la prima tendenza 32 , in sant’Agostino la seconda 33 .
Tutto codesto non c’interessa che di scorcio, e andrebbe interamen-
te lasciato agli studiosi della letteratura e della lingua argentea e
cristiana se non ci premesse di rilevare due cose. In primo luogo che
una certa influenza fu sempre esercitata sulla lingua parlata da questa
latinità letteraria, e non solo per una continuazione di prestigio, ma per
motivi religiosi: fra le opere c’è nientemeno che la Bibbia nelle sue
versioni latine. In secondo luogo perché continua sempre nella lettera-
tura cristiana e nell’uso liturgico la coniazione di vocaboli nuovi. La
terminologia teologica, elaborata dapprima in Africa, poi in Italia,
costituisce un ampio nucleo di ter mini dotti, che fin dai primordi delle
lingue neolatine verrà ad arricchire il lessico {glorificare , incamatio,
refrigerium e mille altri); inoltre fin da questo periodo parecchi
neologismi penetrano profondamente attraverso il culto nella lingua
parlata e sopravviveranno per via ereditaria: e non solo termini più o
meno legati alla vita religiosa, come dominica (domenica), feria (fiera ),
missa (messa), ma addirittura voci come angustiare ( angosciare ), cre-
dentia (credenza), parabolare (parlare ), ecc.
8. Principali fenomeni grammaticali
Non possiamo né vogliamo fermarci a discutere minutamente su
quei fenomeni grammaticali del latino parlato che si sono affermati in
questo periodo e che affioreranno poi in tutta la Romania o in aree
italiane: vi si soffermano ex professo i manuali di «latino volgare» e di
linguistica romanza, e numerose monografie ne studiano l’area e la
cronologia e ne cercano con maggiore o minore successo le cause.
Tuttavia non possiamo dispensarci dall’indicare sommariamente i
principalissimi tra i mutamenti prodotti nel latino parlato in Italia
durante il primo mezzo millennio della nostra era.
Anzitutto l’accento. Il ritmo del latino parlato in età classica si
fondava sull’alternanza tra vocali lunghe e brevi, e con ogni probabili-
tà quello fra i caratteri dell’accento che aveva valore distintivo era
l’altezza musicale. Ambedue queste particolarità ora mutano: si perde
la distinzione fondata sulla quantità, e l’accento diviene prevalente-
mente intensivo. Di regola la posizione dell’accento rimane la medesi-
32 «Ciceronianus es, non Christianus», gli dice l’eterno Giudice nel sogno che
Girolamo riferisce nella lettera a Eustochio (Ep., XXII, 30).
33 «Melius est reprehendant nos Grammatici, quam non intelligat populus»
(Enarr. in Ps. CXXXVIII, 20). Il confronto tra le opere di sant’Agostino scritte
prima e dopo la conversione è molto istruttivo: nelle seconde le costruzioni
analitiche sono più frequenti che nelle prime.
24
Stona della lingua italiana
La latinità d'Italia in età imperiale
25
ma, fuorché nel tipo mulIérem, fiuòlum (in cui la i perde insieme ;
l’accento e il carattere vocalico e si passa a muljérem, fHjólumf, nel tipo ;
fecèrunt, dixèrunt non si ha un vero e proprio spostamento di accento, ì
ma la sopravvivenza nella lingua parlata d’una desinenza -èrunt (che
in età classica era stata sopraffatta da un -èrunt sorto dall’incrocio dei I
due tipi -ère ed -èrunt).
Con la perdita della quantità, il riassestamento che avviene nel
sistema delle vocali porta alla formazione di nuovi sistemi: quello di
gran lunga predominante nella Romània presenta un solo fonema in ì
luogo di o e di O (cosicché vóce da vòcem suona come cróce da crùcem),
un altro fonema in luogo di E ed 1 ( réte come fède). Ma la Sardegna e una \
notevole area dell’Italia meridionale (e, per la u, anche la Dacia)
mantengono la distinzione.
Quanto ai dittonghi, giungono a termine, nel I secolo dell’era
volgare, quelle tendenze di origine italica che spingevano già da tempo ]
al monottongo: ae si confonde con E, oe con E. Più complicate sono le
vicende di au, che in ima prima fase, ancora in età repubblicana, !
tendeva a ridursi a o e come tale si trova in una serie di voci plebee (p. \
es. cauda diventato còda, donde il nostro còda con ó), mentre l’au ;
mantenuto intatto dagli ambienti latini conservatori resterà a lungo 3 '. )
La sincope delle vocali atone secondo i diversi incontri consonantici
e secondo le diverse aree potè avvenire in tempi diversi. Si sa che in i
complesso l’italiano centrale e meridionale è, insieme col romeno, I
meno soggetto alla sincope che lo spagnolo, e questo a sua volta meno ;
che il francese. Nei dialetti gallo-italici la sincope antica e moderna è J
assai estesa. Rimangono ancora aperti molti problemi, che sembra J
difficile risolvere solo con la diversa età della sincope: si pensi, tanto \
per fondarsi su esempi concreti, al doppio esito di tegghia ( teglia ) e
tegola da tegola, del triplice esito di fola, fiaba, favola da fabOla <
Siamo inclini a credere che possano essere convissute l’ima accanto |
all’altra per lungo tempo, forse per secoli, ima tradizione plebea più 1
incline alla sincope, e una più conservatrice.
Passando al consonantismo, è noto che il trattamento delle finali t, |
m, s ha avuto grande importanza, per il valore morfologico che quelle |
consonanti avevano in latino come desinenze flessionali. La -m, così
debole anche in età classica da permettere l’elisione metrica, non :
sopravvive né in Italia né altrove, fuorché con poche tracce nei i
monosillabi: sum che dà son e poi sono. Speme, spene da spem è dubbio, ;
potendo anche essere un rifacimento flessionale o una voce semidotta. 5
La debolezza della -t nel I secolo d. C. appare chiara nell’iscrizione \
pompeiana già ricordata: j
Quisquis ama, valia; peria qui nosci amalre);
34 Se il toscano e l’italiano letterario hanno ò (òro, ecc.l, in qualche dialetto
settentrionale arcaico e nei dialetti meridionali le parole popolari presentano
tuttora au (Rohlfs. Hist. Gramm., §§ 41-43).
bis (danti peria, quisquis amare vota.
La sola traccia lasciata dalla -t in italiano è nel rafforzamento
nmdotto dai monosillabi e (da et) e o (da aut); ma qualche dialetto
lucano e calabrese ha ancora -ti con valore flessionale: mi piaciti, ecc. 35 .
T s aveva avuto nel latino repubblicano fasi alterne, di indebolimento
O di ricupero. Nell’Italia settentrionale, a giudicare dalle numerose
tracce sopravvisse certo assai a lungo 36 . In Toscana si ha qualche
traccia di -s nei monosillabi (-i in noi, voi, poi, crai ecc., ovvero
rafforzamento: più fforte, tre llibri ), ma non è necessario perciò credere
che sia sopravvissuto sotto la forma di -s sino al Medioevo. La stessa
„ona lucano-calabra che mantiene -t mantiene anche -s 37 .
Nel periodo che stiamo studiando si è svolta in Italia la palatalizza-
zione per cui ce, ci, ge, gì, che in età repubblicana sonavano ke, ki, ghe,
ehi dapprima si differenziano nella pronunzia dalla c e dalla g in altre
posizioni, senza tuttavia che i parlanti si accorgano di questa variazio-
ne (si hanno suoni diversi, condizionati da quelli seguenti, ma un unico
fonema), e più tardi si giunge (nell’Italia centrale e meridionale e in
Romenià) alla pronunzia ancor oggi vigente. Una minuta verifica dei
dati finora addotti per risolvere il problema 38 , pur senza giungere a
conclusioni certe, permette d’intravedere che l’innovazione, forse
dovuta a una spirita umbra, non si diffuse molto celermente, tardò a
giungere nell’Italia meridionale e nella Sicilia, e non arrivò che
parzialmente e assai tardi in Sardegna e in Dalmazia.
Dati più sicuri sulla pronunzia di ti e di dobbiamo a grammatici del
IV secolo: « iustitia cum scribitur, tertia syllaba sic sonat, quasi constet
extribus litteris t, z et i» (Papirio, ap. Keil, Gramm. Lat., VII, 216); sulla
pronunzia di Media v. il passo di Servio cit. a p. 14.
La sparizione dell’aspirata h rispondeva a tendenze rustiche: la
troviamo già scomparsa in parole rurali come olus e anser in luogo di
holus e hanser che si aspetterebbero; all’interno di parola appare già
anticamente indebolita (cfr. prehendo - prendo, nihil - nil ). I grammatici
per secoli tentarono di tenerla in vita: questa lotta ci è testimoniata -
oltre che da omissioni e grafie inverse nelle iscrizioni e da due
avvertenze del l’Appendix Probi - dal noto passo di sant’Agostino: «si
quis contra disciplinam grammaticam sine adspiratione primae sylla-
bae o minem dixerit, displiceat magis hominibus quam si contra tua
praecepta hominem oderit, quum sit homo» ( Confess ., I, 18).
L’assimilazione di -pt-, -ps- a -tt-, -ss- e di -ct-, -cs- (x) a -tt-, -ss- ha già
origini antiche: sembra si debba leggere issula (dimin. di ipsa ) nella
« Rohlfs, Hist. Gramm., § 309. Per a sardo, v. Wagner, Hist. Lauti des
Sardischen, Halle 1941, § 351.
36 Wartburg, Ausgliederung, pp. 20-31.
37 Rohlfs, Hist. Gramm., § 308. In sardo e in ladino la -s mantiene d suo valore
flessivo.
38 Migliorini, in Silloge... Ascoli, Torino 1929, pp. 271-301.
26 Storia della lingua italiana
Cistellaria di Plauto, v. 450, ixe per ipse ci è attestato da Svetonio per il
tempo di Augusto (vedi p. 14), isse si legge in iscrizioni pompeiane,
lattuca si ha nell’editto di Diocleziano (301): il fenomeno, che sembra di !
origine italica, viene a distinguere il trattamento italo-romanzo da
quello gallo-romanzo Yit-, -is-).
Alcune ammonizioni dell’Appendix, come camera non cammara,
aqua non acqua, mostrano già in atto tendenze che hanno largo j
sviluppo in italiano: il rafforzamento della consonante postonica nei I
proparossittoni, il rafforzamento dovuto a u semiconsonante. 1
La prostesi vocalica davanti a s impura dovè soggiacere a vicende 1
alterne: la prima iscrizione in cui si trova è il nome Ismuma a Pompei 39 ; j
altre ne cita il Diehl (cfr. p. 14); ma il fenomeno non appare mai nel- |
YAppendix Probi. L’italiano occupa ima posizione intermedia tra le a
lingue romanze occidentali, le quali presentano sempre la prostesi 3
(spagn. espada, fr. épée, ecc.), e il romeno che non l’ha mai: esso |
possiede o almeno possedeva ambedue le forme e le faceva alternare |
regolarmente (la strada, in istrada)* 0 . _ }
Nel campo morfologico-sintattico si tende decisamente in quest’età 1
a semplificare la flessione nominale e verbale, sia lasciando cadere !
alcune peculiarità, sia sostituendole con morfemi nuovi, di tipo analiti- ;
co. Del neutro spariscono le forme (fuorché un certo numero di quelle
in -a e poche di quelle in -ora) e sparisce la categoria. Nella declinazio- \
ne, guadagnano rapidamente terreno a spese del genitivo e del dativo i l
costrutti con de e ad, che in età classica si potevano adoperare soltanto ;
per significati strettamente delimitati (templum de marmore -. Verg., J
Georg., Ili, v. 13 ecc.). j
Spariscono i comparativi sintetici (fuorché pochi adoperati molto ;
frequentemente), e sono sostituiti da quelli formati con plus. Ai f
moltiplicativi (bis, ter, ecc.) sottentrano forme analitiche (duas aut tres !
vecis, nell’Oribasio latino).
Ille e ipse s’indeboliscono nel significato; e a ciò contribuì certo lo \
sforzo per tradurre gli articoli greci nei testi sacri, p. es. Dixit illis ']
duodecim discipulis neiYltala Uoh., 6, 67). ]
La categoria del deponente sparisce, mentre quella del passivo è j
rinnovata nella forma (la coniugazione sintetica è sostituita da una ?
coniugazione analitica per mezzo dell’ausiliare esse). Anche habere
progredisce sensibilmente in funzione di ausiliare-, i costrutti del tipo j
cognitum habeo «tengo come cosa nota» diventano più frequenti e man
mano scolorendosi nel significato forniscono un sostituto alle forme dei
tempi storici, sotto forma di «tempi composti» (ho conosciuto, ecc.).
Accanto alle forme normali del futuro, non nitidamente caratteriz-
zate dalle desinenze e scialbe nel significato, puramente obiettivo, si
39 Notizie degli scavi, 1911, n. 458, n. 21 (cit. da Vaananen, Inscr. Pomp., p. 81).
40 Accolgono questa alternanza anche le parole che avevano is + cons. (o his
+ cons.) in latino: p. es. storia, Spagna.
La latinità d'Italia in età imperiale
27
«ormano altre forme che esprimono più coloritamente ciò che deve
an ® I T ciò C he si vuol fare: «Tempestas illa tollere habet totam paleam
dp S area» (S. Agostino, Tract. in Ioh., 4, 1, 2).
Crescono gli scambi fra le forme della seconda coniugazione e
quelle della terza, specialmente all’infinito (da cadére si passa a cadére,
eCC La paratassi, com’era da attendersi in un periodo di civiltà più
elementare, prevale sull’ipotassi. Anche questa si semplifica, e i suoi
nrdieni si riducono di numero-, quia guadagna terreno («dixit quia
mustella comedit»; Petronio, Sat „ 46, corrispondente a un greco Sióxi) e
“annunzia il nostro che-, nelle interrogative indirette, forse per
modello umbro 41 , entra nell’uso si, ecc. Questo nuovo spirito che si
manifesta nella sintassi (e nell’ordine delle parole) del latino parlato è
ormai lontanissimo da quello dell’età classica, e preannunzia decisa-
mente le lingue nuove.
9. Il lessico: voci che sopravviveranno
Nel passare rapidamente in rassegna gli elementi che costituiscono
il lessico del latino parlato in Italia dal secolo I al V, bisogna anzitutto
tener conto di quella notevole parte che rimane uguale o pressappoco
uguale al latino parlato dell’età repubblicana, quale lo conosciamo
nella sua stilizzazione letteraria classica.
Molte centinaia di parole italiane sono tuttora uguali - salvo,
talora, qualche mutamento fonetico e morfologico e non grandi
va riazi oni di significato - a quelle del latino classico-, dunque erano tali
anche nel latino parlato. Si ha, per. es.: homo uomo (è vero che yir è
scomparso, e di conseguenza il significato di uomo è più ampio di
quello di homo), pater padre, mater madre, filius figlio-, asinus asino,
bos bue, canis cane, cervus cervo, porcus porco, vacca vacca-, aqua
acqua, arbor albero, caelum cielo, terra terra-, manus mano, digitus
dito, pes piede, porta porta, puteus pozzo, rota ruota- altus alto, bonus
buono, calidus caldo, frigidus freddo, siccus secco, russus rosso, niger
nero, novus nuovo, habere avere, tenere tenere, dicere dire, facere fare,
bibere bere, currere correre, dormire dormire-, bene bene, male male-,
quando quando, si se-, in in, per per ecc.
Accanto a voci come queste, sopravvissute in tutta o quasi tutta la
Romània, ve ne sono molte altre che sopravvivono soltanto in area
italiana o italiciana 42 .
“ Devoto, Storia, p. 240.
“ Considero, negli esempi che seguono, insieme con l’area linguistica più
strettamente italiana, anche l’area sarda e quella ladina. Senza entrare in
minute discussioni di parentele più o meno strette, di aree più o meno
precisamente delimitate, ma a scopo pratico, parlo in questo caso di area
italiciana, di parole italiciane, riferendomi alla «diocesi italiciana» (dalla fine del
III al V secolo) che comprendeva anche la Sardegna e la Rezia <L. Cantarelli, La
diocesi italiciana da Diocleziano alla fine dell’Impero occidentale, Roma 1903).
28
Storia della lingua italiana
Ecco un breve elenco, puramente esemplificatorio, di tali parole: I
aegyptius «scuro»; tose, ghezzo ecc. IR EW 235); j
agbestis «selvatico»: sic. arestu ecc. (REW 295), tose, agresto «uva
immatura»; anche gnaresta da vinea agrestis-, j
caligarius «calzolaio»: tose. ant. galigaio, it. sett. calegaro ecc. !
(REW 1515); j
campsare: (sleansare ecc. t REW 1562); j
catulus: tose, cacchio ecc. (REW 1771);
congius: ant. tose, cogno ecc. (REW 2146);
cunulae: culla, abr. cunèlè ecc. (REW 2400); 1
LACULUM: giacchio ecc. (REW 4570); |
lentigo: lentiggine ecc. (REW 4981);
ubellus: livello (enfìteutico) (REW 5010); j
mentula: it. mer. minchia, it. minchione (REW 5513); ’J
micina: fare a miccino (REW 5561); ]
notarius: notaio (REW 5964): si sa che quella del notaio è istituzione
italiana (Solmi, Storia dir., pp. 157-158); J
sidus: ant. tose, sido «gelo» (REW 7902); 1
sororcula: ant. tose, sirocchia (REW 8103); ;
spacus (di cui si hanno attestazioni in Cassio Felice e nell’Oribasio \
latino): spago; ecc.
Alcune di queste parole, sopravvissute solo in una più o meno 1
ristretta area toscana, sono entrate nella corrente della lingua lettera- I
ria, e per questa via si sono di nuovo diffuse. Ma altre sono tuttora |
limitate ad aree ristrette. Eccone una listerella, anche questa solo f
esemplificativa:
buccellatum: lucch. buccellato, veneto buzzolà, sic. vucciddatu |
(REW 1361); |
ficulnea (Vulgata, Ven. Fort.): ant. orviet. ficuna; >
hastula: bologn. astia (REW 4073); ì
illinc: emil. lenka (REW 4269);
libitina: ven. la ( siora ) Betina (Migliorini, Dal nome proprio, p. 314); I
nex: aret. nece, niece, ecc. (REW 5901); J
nota: lomb. alp., engad., ampezz. nòdo «marchio di animali» (capre, 1
pecore); 1
notare: nodà, nudèr (REW 5962, 5963); — ì
pandere: ven. pàndar, friul. pandi «divulgare», ecc. (REW 6189); ]
pansus: ant. it. poso «aperto», casent. ecc. poso «tesa» (misura) ■:
(REW 6205); ' j
rudus: lomb. riid, emil. rud «concime» (REW 7422); j
verendus agg., verenda pluT. neutro: moden. brend, lucch. merenda f
ecc. (REW 9227);
vetustus: piem. viosk, emil., logudor. (REW 9293). f
Qualche vocabolo latino sopravvive solamente nella toponomastica ì
italiana, come: J
agellus: Agelli (Ascoli Piceno), Agello (Perugia), Gello (Pistoia, |
Arezzo ecc.), Aielli (Aquila), Aiello (Cosenza ecc.); |
Lo latinità d’Italia in età imperiale
29
^ktttjria- Centoia, Cintola (Pistoia, Firenze, ecc.);
^Sluentia- Confienza (Pavia) (cfr. i nomi tratti da confluentes m
TtaS e fuori, REW 2136 a);
becumanus: Dicomano (Firenze);
° Fiobbio (Bergamo), Fiuggi (Frosmone);
nemus: Nembro (Bergamo) da in nemore (Salvioni, in Boll. Svizz. It.,
^’pratIÌa: Pracchia (Pistoia), Pracchiola (Massa);
praedium: Preggio (Perugia), Prezza (Aquila);
vk-(ii)lus: Vicchio (Firenze) 43 . . ,
Altri si trov an o addirittura solo nella toponomastica urbana: a
n JJt ( dove è anche sopravvissuta sotto la forma di none la voce regio
scomparsa altrove nella penisola), si hanno Termini da thermae e
Satiri da theatrum: questa parola sopravvisse a lungo anche a Brescia,
o Padova e a Pola, in luoghi vicini agli antichi teatri 44
A aueste voci latine giunte fino ad oggi per via ereditaria bisogna
«fungerne ancora un certo numero: sono quelle di cui non ci rimane
airuna antica testimonianza scritta, ma che possiamo congetturare
rheesistessero già nell’antichità, per un doppio ordine di considerazio-
ni- l’esistenza di voci moderne, e l’impossibilità o 1 improbabilità che
nueste voci siano state foggiate modernamente. Si abbiano ad esem-
pio le voci italiane bigoncio e rozzo-, bigoncio e le varianti toscane
(hiàongio) e d’altre regioni fanno pensare a un *bicongius, il quale non
x testimoniato, ma possiamo ben dire casualmente, se troviamo che un
certo Novellio Torquato era stato soprannominato Tncongius perché
era stato capace di bere tre congii l’uno dietro l’altro (Plin., Nat. hist.,
14 22 144)- rozzo, conforme alle consuete norme fonetiche, corrisponde
bene a un *rudius, comparativo neutro di rudis. Ora, formazioni simili
sarebbero state impossibili già nell’alto Medioevo-, quanto a *bicongius
sia per la scomparsa del congius dall’uso, sia per 1 ìmpossibihtà di
formare composti di questo tipo, quanto a *rudius per 1 isterilirsi dei
comparativi organici. „ „
Questa ricostruzione di parole antiche ha avuto, nella linguistica
dei passati decenni, i suoi fasti e i suoi nefasti. In qualche caso, forme
congetturate da un linguista hanno avuto la riprova dell esperienza,
cioè sono state documentate. Il Gróber, nel primo di una sene di
articoli che ebbero importanza notevole per questo tipo di ncostruzio-
ni 45 aveva supposto resistenza di un latino anxia : e il Rossberg lo
documentò poi nel tardo poeta Draconzio. Il Forster 40 spiegò la voce
ruvido come nata da un ipotetico *rugidus «rugoso» derivato da ruga-.
43 V. l’assai più ricca lista di G. Rohlfs, Arch. St. n. Spr., 184, 1944, pp. 122-123 (=
An der Quelle, cit., pp. 171-172).
44 Migliorini, Saggi ling., pp. 239-241.
45 G. Gróber, in Arch. Lat. Lexik. Gr., I, 1884, p. 242.
46 Z eitschr. rom. Phil., Ili, 1879, p. 259.
30
Stona della lingua italiana
contestato dal Paris, l’ètimo ebbe invece conferma in un’iscrizione su
un recipiente di terracotta trovato in Bosnia e conservato a Saraievo' 7 ,
Ma se in qualche caso le basi ipotetiche hanno trovato una brillante
riprova, bisogna riconoscere che dell’asterisco si è abusato, e che in
moltissimi altri casi l’aver trasformato l’incertezza di un etimo nella
pseudo-certezza dell’esistenza d’un vocabolo nel latino parlato ha
prodotto più danno che vantaggio.
Ecco alcuni esempi di basi ipotetiche proposte per spiegare vocaboli
italiani, le quali sembrano abbastanza consistenti:
*cariolus (dim. di cariesì «tarlo»-, it. sett. caiiiìolio)-,
*c asic are (der. di casus): cascare ;
*cinnus: cenno ;
*comptiare (der. di comptus, part. di comère «riunire; pettinare,
ornare»): conciare;
* in afflare : innaffiare;
*lucinare: rappresentato nei dialetti sett. dal tipo « lusnare », in
Toscana da baluginare ( REW 5142);
*ordinium (der. di ordo, - inis ): ordigno-,
* pendiculare (der. di pendere): pencolare;
*rubiculus: tose. ant. rubecchio «rossastro», ecc.
10. Relitti e imprestiti
Il lessico latino ha incorporato in larga misura, come è noto,
elementi alloglotti: sia dalle lingue di tipo «mediterraneo» parlate in
Italia prima della venuta degli Indoeuropei (in primo luogo dall’etrusco
e dal ligure), sia dalle altre lingue indoeuropee d’Italia (in primo luogo
dalle lingue del gruppo osco-umbro, poi dal celtico, oltre a minime
tracce venetiche, messapiche, sicule). Si tratta di azioni e reazioni
numerose e complicate, che vanno riconnesse con le vicende preistori-
che (arrivo dei Protolatini alle loro sedi) e storiche (sinecismo con
Sabini ed Etruschi in Roma stessa, espansione del latino nella penisola
e assorbimento delle altre lingue, ecc.): è compito dei latinisti studiare
nei particolari le cause e gli effetti.
C’è tuttavia un certo numero di parole che sfuggono ai latinisti, e
invece interessano i neolatinisti: accanto alle voci documentate già per
l’antichità nell’uso degli scrittori o per via di glosse o altrimenti, vi sono
alcune parole che non affiorano nella scrittura, eppure debbono essere
penetrate nel latino parlato, tant’è vero che sono arrivate a sopravvive-
re attraverso i secoli fino alle parlate odierne.
Si tratta quasi soltanto di parole connesse alla configurazione del
suolo, alla flora, alla fauna: cioè di quel tipo di vocaboli così stretta-
mente legati al suolo che i terrigeni continuano a servirsene persino se
mutano lingua, in quanto la lingua nuovamente accolta non avrebbe
' 7 Schuchardt, Zeitschr. rom. Phil., XXII, 1898, p. 532.
La latinità d’Italia in età imperiale
rnùni adeguati per esprimere quelle nozioni. Si sa che in questo caso
iiimruisti piuttosto che di imprestiti parlano di relitti.
1 II latino ha attinto all’etrusco qualche centinaio di parole, di cui
arecchie penetrate profondamente nel lessico e sopravvissute tpopu-
Exs persona, catena, tabema, ecc.), altre scomparse nell’uso parlato e,
semai, rientrate in italiano come latinismi ( spurius , atrium, idus,
histrio, mantisa, ecc.). _ . .. ... ,.
Probabili relitti etruschi sono alcuni nomi toscam di piante (brenti,
gigaro ilatro, nepa). Un caso a sé è quello di chiana, rimasto vivo in
Toscana perché sempre collegato con la ben nota acqua stagnante, la
Chiana (ant. Clanis, probabilmente voce tirrenica, cioè mediterranea).
Lo studio delle parole lasciate dai Liguri, dai Reti e da minori
popolazioni alpine 48 ha ravvisato come tali alcune parole già note ai
Romani (genista, larix, ligustrum-, camox, segusius-, peltrum) e molte
altre di cui si hanno testimonianze sia nella topomastica, sia nei
dialetti alpini moderni i tipi balma, barga, grava, malga, rugia, ecc.).
Anche per il fatto che il ligure fu assorbito, prima che dal latino, dal
celtico, non sempre riesce facile distinguere, nell’area ligure, tra le voci
preindoeuropee e quelle celtiche, cioè indoeuropee.
La conquista delle Gallie, e i rapporti strettissimi instauratisi con
l’Italia, ci spiegano la penetrazione di vocaboli gallici in latino;
penetrazione assai larga e, per alcuni, così antica da non distinguersi
tìfriifl. sorte delle altre parole latine. Sono voci come betulla (Plin.), verna
«ontano» (Gloss.), alauda (Suet.), beccus («gallinacei rostrum», Suet.),
salmo (Plin.), lancea (Verg.), carrus (Sisenna), benna (Fest.), braca (Ovid.),
che tuttora vivono nei loro continuatori. Qualche altra voce è testimo-
niata solo più tardi: cambiare (Apul.), geusiae (da cui il derivato
trangugiare: Marceli. Empir., IV sec.).
Il confronto degli esiti neolatini permette di ricostruire altre voci
«con asterisco» che, data l’area in cui appaiono e i riscontri con
vocaboli di lingue celtiche tuttora viventi, possono essere riconosciute
come celtiche: *bracum «palude» (da cui braco, brago), *pettia (da cui
pezza e pezzo), *camminum «via» (da cui cammino), *comboros «trince-
ramento d’alberi» (da cui ingombro, sgomberare, ecc.), *multo, -o nis (da
cui montone ), *garra (da cui garretto), *pariolum (da cui paiolo), ecc.* 9 .
Mentre queste parole celtiche ^presumibilmente circolavano nel
latino dell’età imperiale, altre hanno avuto fortuna più limitata,
ristretta alla sopravvivenza nelle Gallie (transalpina e cisalpina). Ci
limitiam o a citare qualche esempio di basi che hanno dato origine a
vocaboli tuttora vivi nei dialetti settentrionali: cumba «valle», lausiae
( lapides ) «lastre di pietra», cavannus «gufo», glastum «erba guada»,
,B Studio a cui hanno dato i più notevoli contributi J. Jud e la sua scuola, e in
Italia V. Bertoldi, C. Battisti, C. Tagliavini, G. Alessio.
48 Oltre ai noti lavori del Dottin e del Weisgerber, e ai lemmi celtici del REW,
v. T. Bolelli, «Le voci di origine gallica nel REW», in It. dial., XVII-XTVIII.
32
Storia della lingua italiana
brogilus «brolo», attegia, *tegia «capanna», *tamisio «staccio», *grenr\A
«barba», *crodi- «duro, compatto», ecc. |
Qualche altro vocabolo celtico è penetrato in italiano più tardi, pej
via francese o provenzale: veltro , vassallo, cervogia, lega (misura), j
La presenza di numerosi elementi osco-umbri nel lessico latino è;
stata molto bene studiata dai latinisti 50 ; a noi interessano, più che j|
termini già entrati nell’uso classico (bos, bufalus, lupus, scrofa, ursusì
anas, turdus, casa, lingua, lacrima, consilium, ecc.) quelli testimoniati-
poco e tardi (èlex, da cui élce, per ìlex; pómex, da cui pómice, per pumex-ji
terrae tufer, da cui tartufo, per tuberi o quelli ricostruiti tenendo contò:
delle corrispondenze fonetiche tra latino e tosco-umbro: *stèva per stivai
Qt. stégola), *bufulcus per bubulcus (it. bifolco ), *tafanus per tabanus (it,.
tafano), *mètius per mìtius (it. mézzo «troppo maturo»), *octufer peri
october (lucano attrufu), *glefa per gleba (tarant. gliefa, gliofa). I
Dovremmo anche dare un cenno sui vocaboli germanici penetrati!
nel latino parlato prima della caduta dell’Impero, attraverso i contatti:
militari e commerciali, gli schiavi germanici, gli stanziamenti concessi;
dagli imperatori. Ma poiché è impossibile sceverare nettamente j
germaniSmi di questa serie da quelli penetrati in età barbarica, ne;
tratteremo più oltre, insieme con essi (v. cap. II, § 18).
11. Grecismi
Nessuno ignora che cosa rappresenti per la cultura e la lingua di !
Roma il contributo della cultura e della lingua greca: tracciarne, sia!
pure brevissimamente, il quadro esorbiterebbe dai nostri scopi. Ricor- ■
diamo solo che nel grandioso processo di simbiosi tra la parte orientale '
e quella occidentale dell’Impero gli scambi si esercitano con grande
intensità per l’appartenenza al medesimo Stato, la creazione di un solo \
ambiente culturale, gli intensi movimenti e scambi di persone; e il
latino ne risente dall’alto e dal basso.
Dall’alto c’è una larga e consapevole accettazione di concetti e di
parole, grazie alla quale le migliori conquiste del pensiero greco, e ;
innumerevoli parole, sono accolte nel lessico 51 . j
Dal basso, attraverso colonie di varie popolazioni orientali, più o I
meno ellenizzate, che a Roma e in molte altre città dell’Italia meridie :
naie contavano numerosissime persone, si mantengono contatti orali ]
molto stretti, i quali portano all’adozione di centinaia di vocaboli nel ;
latino parlato. i
Già forti ondate di grecismi erano giunte in latino per via orale nel ;j
50 Specialmente nel classico volume di A. Ernout, Les éléments dialectaux du
vocabulaire latin, Parigi 1909.
51 Non frequenti sono i casi in cui si manifestano scrupoli nell’accogliere
vocaboli greci: l’imperatore Tiberio <monopolium nominaturus, prius veniam
postulavi, quod sibi peregrino verbo utendum esset» (Svetonio, Tib., 71).
La latinità d’Italia in età imperiale
33
oi UT secolo a. C., e si erano fortemente acclimatate, con
^ «Unenti fonetici, morfologici, paretimologici talora assai forti. Per
"olo un paio di esempi, il nome IIuppo? era stato dapprima
^tncomeBurrus e solo più tardi si trascrisse Pyrrhus-, purpura
^JSnee fi greco mpfópot con la perdita dell’aspirazione; ampora e
debbono avere oscillato secondo gli strati della popolazione
renila forma popolare ampora è sorto il diminutivo ampulla). Poi ì
fe ^ SùTtretti contatti, e una certa affettazione di cultura nel
ri^odurre con esattezza i suoni greci, portano all’uso costante di y, ph,
th ’ nellT'nùglSiadi parole greche entrate nel lessico latino quali si
nafSono trovare registrate negli appositi repertori (quello del Weise o
SSL del Saalfeld) c’interessano in questa sede solo le voci penetrate
così profondamente nella lingua parlata da poter sopravvivere nei
„„ p sono alcune centinaia. . , .
8 Ecco tanto per dare un rapido e non esauriente elenco, nomi di
ninnte e di frutta: melo (-a), ciliegio, olivo, dattero, giuggiolo, mandorlo,
riso fagiolo sedano, prezzemolo, anice, garofano, pepe, senape, liquiri-
zia bosso ecc. Anche cima appartiene a questo gruppo, se ricordiamo
thè in latino cyma è attestato solo come «germoglio».
° Gli anim ali che portano nomi greci ereditati attraverso il latino
«mo fuorché pochi (come fagiano, scoiattolo ), animali marmi-, balena,
delfino, tonno, cefalo, grongo, acciuga, polpo, seppia, gambero, chioccio-
Termini Originariamente marittimi sono governare, pelago (che nel
significato di «mare» è voce dotta, ma è anche vissuto popolarmente
nel senso di «avvallamento»), scalmo, nolo, ecc.
Si riferiscono a forme del suolo poggio e grotta, forse anche
«nelonca. Sopravvivono numerosissimi nomi di oggetti domestici, o
usati nelle arti e nei mestieri: ampolla, borsa, bossolo, canestro, cantaro,
cofano lampada, lucignolo, madia, organo, tappeto-, pietra, calce, matta,
palanca, scheggia, doga, tomUìo, trapano, colla, inchiostro, gesso, carta,
corda matassa, morchia, porpora, ecc. , ,
Ecco qualche termine di cucina: olio, butirro (burro), massa (dappri-
ma col significato di «pasta», poi con vasti sviluppi semantici: cfr. p. 46 .
e REW 5396). La simbiosi greco-latina in questo campo è dimostrata
dall’accento di fégato, che è dovuto a un incrocio tra fi gr. owcuxóii >e > il
lat. ficatum «fegato di animale ingrassato coi fichi» (REW 8494, e bibl.
ivi).
Alcuni vocaboli si riferiscono alla città e alle sue parti: camera,
bagno, piazza, bottega. Si hanno nomi d’armi: baléstra, spada.
Parecchi vocaboli concernono fi corpo umano: braccio, stomaco,
nervo, flemma. Gamba e spalla si riferivano prima agli animali e sono
stati trasportati all’uomo. Malattie e cure sono pure largamente
rappresentate: cancrena, spasimo, empiastro, teriaca, cerusico.
La cetra e la zampogna attestano l’influenza sulla musica.
Tra le voci generali ricordiamo aria, calare, colpo, orfano, gobbo
34
Storia della lingua italiana
(attraverso *gubbus da xutpó?). Importante anche l’adozione del catti
distributivo di catuno, cadano (cfr., nella Vulg., Ezech., XLVI, 14: «faciet
sacrificium super eo cata mane mane*).
Questo rapido elenco vuole soltanto mostrare quanto profonda è
stata la penetrazione degli elementi greci nel lessico latino, se ancora
in tanta abbondanza appaiono nel patrimonio ereditario dell’italiano.
Può darsi che qualcuno dei vocaboli ricordati sia sopravvissuto
durante i secoli soltanto in parte del territorio italiano, e che sia
passato solo più tardi ad altre regioni: tale è per esempio, il caso di
acciuga, che è propriamente voce del dialetto ligure. In altri numerosi
casi troviamo voci latine di origine greca sopravvissute in aree
dialettali italiane (e talora in altre aree romanze) e non accolte dalla
lingua normale. Tanto per esemplificare abbiamo:
cathedra, volg. catecra «seggio d’onore di avventori beoni » {Notizie
degli scavi, IX, 1933, p. 277): it. sett. cadrèga, carèga, ecc. {REW 1768);
phlebotomum «lancetta del flebotomo»: calabr. hiètamu, sicil. cittì-
mari «salassare» {REW 6467);
pessulus, pessulum, volg. pesculum (gloss.): sen. pèschia, calabr.
pièssulu (REW 6441);
trapetum: it. mer. trappitu «frantoio» [REW 8862).
La serie di calchi latini su parole greche conta numerosissime
parole colte, non sopravvissute nel lessico ereditario; ma anche
parecchie parole penetrate nell’uso popolare e perpetuatesi: p. es. ars e
ratio, nei significati di xéyyr\ e di Xó-yo?, lingua applicato alla «favella»
con metonimia ricalcata su quella analoga di yXcòxxa, medietas coniato
secondo l’esempio di p&aóx7)<;, cordolium modellato su xapSiocXyia,
cortina su aùXoaa, ecc. Anche nella grammatica troviamo p. es. ipsimus
(Petron.) calcato su aéxóxaxo?: è la forma che, rinforzata con il -met di
egomet ecc., darà medesimo. E probabilmente sia l’articolo determinati-
vo sia quello indeterminativo sono sorti sotto l’influenza dell’analoga
evoluzione prodottasi in greco.
Merita un cenno a sé la grande serie di grecismi penetrati in latino
nell’espandersi del cristianesimo. La lingua parlata e liturgica dei
primi gruppi cristiani in occidente era ovvio che esercitasse ima forte
influenza sul latino nei primi secoli. Limitandoci a ricordare alcune fra
le più importanti voci ereditarie, ecco chierico, monaco, prete, vescovo,
basilica, chiesa 52 , limosina 53 , battesimo, battezzare, cresima Qat. chrì-
sma), befana, bestemmiare, ecc.
Parecchi vocaboli che oggi non appartengono più alla sfera religio-
sa sono pure grecismi cristiani: parola e parlare (dalle parabole di
Gesù, la «parola» divina per eccellenza), ermo (gr. ep-rifto?, da cui anche
le forme dottrinali eremo, eremita ), geloso, incignare lencaeniare, da
52 Della lotta fra i due termini basilica e ecclesia si è occupato a più riprese il
Bartoli: v. i rinvìi nelTIndice dei suoi Saggi.
53 Nei dialetti settentrionali il tipo musina è passato al significato di
«salvadanaio» (REW 2839).
La latinità d'Italia in età imperiale
35
encaenia -orum «festa di dedicazione»), ecc.; persino tartaruga (dal gr.
tardo xapxapoóxo?, nome di uno spirito immondo, perché nel simboli-
smo cristiano primitivo la tartaruga rappresentava lo spirito del male).
Alcuni dei termini ricordati si sono imposti senz’alcuna resistenza
nel latino cristiano; per altri si è fatto il tentativo di sostituirli con
vocaboli latini: tingere ha lottato contro baptizare, lavacrum contro
baptismus, testis contro martyr : ma in questi casi il vocabolo greco ha
finito col trionfare, avendo ormai assunto un preciso valore terminolo-
Alcune voci greche cristiane sono dovute a calchi sull’ebraico: per
citarne solo un paio, angelo è ayyeXoc, che dal significato antico di
«messaggero» è passato nel greco cristiano a quello di «messaggero di
Dio, ang elo» per calco dall’ebraico mal'àk ; Cristo, gr. Xpiaxó?, ricalca
l’ebraico mashi’ah, aram. mèshiha «unto (del Signore)», «messia».
Un gruppetto di parole ebraiche ipasqua, sabato, osanna) è pure
arrivato a insediarsi, attraverso il cristianesimo, tra le voci ereditarie.
12 . Nuove formazioni
Pullulano nel latino parlato dell’età imperiale, le formazioni nuove.
Sono, in genere, forme concrete e colorite, e di una consistenza e
trasparenza che spesso arriverà a farle trionfare sulle forme tradizio-
nali, logorate nei suoni e rese astratte e vaghe nei significati. Vedremo
nel paragrafo seguente qualche esempio di concorrenza tra i vocaboli
nuovi e i vecchi, ma intanto vogliamo accennare ad alcune delle
formazioni che hanno avuto maggiore fortuna. Considereremo anche
qui soltanto voci sopravvissute in Italia.
Vediamo anzitutto qualche tipo frequente nella formazione di nuovi
sostantivi. Si hanno numerosi nomi di mestiere e in genere d’agente in
- arius : clavarius, ecc. Tra le formazioni in -io ricordo companio -o nis,
che veramente è documentato solo in un passo incerto della legge
Salica (63,1), ed è considerato di solito un calco sul germanico 54 , ma può
essere benissimo una formazione indigena 55 .
Appaiono in questo periodo i primi esempi di nomi propri femminili
in -itta Uulitta, Bonitta, Suavitta ecc.), da cui prende le mosse il
fortunato suffisso diminutivo -ittus {-etto ecc.) 58 .
M * ga-hlaiba ‘Genosse’ von hlaibs ‘Brot’ in companio geradezu ùbersetzt
erscheint»; Meyer-Lùbke, Einfuhrung, p. 49.
55 Cfr. il coarmio (nomin. ?) di un’iscrizione palermitana, purtroppo ora
irreperibile e non databile ( Corpus Inscr. Lat., X, 7297): ...syrus hui — delicatus
coarmio merenti — fecit. Quanto alle semplici formazioni in -io, esse sono
numerose specialmente nella latinità tarda: litterio «grammaticastro» (Ammiano),
tabellio, ecc. (e qui andrà anche compio, il quale pure si ritiene coniato per
influenza germanica, perché appare solo in leggi barbariche).
M L’origine è tuttora incerta, ma più probabilmente celtica: v. da ultimo B.
Hasselrot, Études sur la formation diminutive dans les langues romanes, Upsala
1957, cap. I.
36
Storia della lingua italiana
Pure attraverso nomi propri (della grecità cristiana) è giunto il
suffisso -issa (it. -essa di contessa, ecc.).
Sarà di quest’età anche qualche formazione di pseudo-antroponimo
come *Rufianus, da cui ruffiano 57 .
Frequentissime, per i nomi di cosa, le formazioni collettive: aeramen
rame, *caronla carogna, *montania montagna 55 , sementla semenza,
victualia vettovaglia.
I numerosi vezzeggiativi che già esistevano imasculus, auricula,
ungula, porcellus, vitellus, anellus, cultellus, scalpellum, novellus, ecc.)
tendono a perdere ogni valore diminutivo, e molte altre nuove forma-
zioni i*genuculum, *nuceola, *fratellus, *av(i)cellus) seguono la medesi-
ma via S9 .
Frequente è la sostantivazione di aggettivi per indicare cose, sia
attraverso un neutro, sia per ellissi: hibernum ItempusI inverno, diur-
num giorno, matutinum mattino, infernum inferno, (dies) natalis IChri-
stiI Natale, IdiesI dominica domenica, IaquaI fontana fontana, (via!
carrarla carraia, IfabaI baiana baggiana, eoe.
Frequenti sono pure gli astratti ricavati da participi: collecta,
defensa, *perdita, *vendita, ecc.
Per derivazione immediata nascono sostantivi come lucta CLucan.),
proba (Amm.), *monstra, *retina e come dolus (it. duolo ) (Commod. e
inscr.). La locuzione prode est, nata da prodest 60 , ha dato origine al
sostantivo prode, prò’ e all’aggettivo prode.
Cominciano ad apparire i composti imperativali ( labamanos , sec.
IV) che avranno così ampia fortuna.
Nei verbi si moltiplicano le formazioni da nomi: mensurare, pectina-
re, minare, morsicare, carricare, bullicare, *nevicare, *furicare (it .frugare
ven. furegàr ), ecc. Accanto alle formazioni già antiche in -icare, si
moltiplicano in età cristiana quelle in -izare (da cui, per via popolare, il
suffisso -eggiare).
Come adiutare, cantare, iactare, saltare e tanti altri verbi 61 già da
secoli esistevano accanto a adiuvare, canere, lacere, salire, con significa-
to più intenso e tono più popolare, altri derivati nascono in questo
periodo: pistare, tostare, Honsare (it. tosare), ecc.
57 Simile a ebriacus (foggiato come pseudo-nome, Ebriacus-, Schulze, Zur
Gesch. Lat. Eigennamen, Berlino 1904, p. 284). Cfr. il gelasianus di Sidonio
Apollinare, Carni., XXIII, v. 301. Per riscontri moderni, v. Migliorini, Dal nome
proprio, p. 215, e Saggi linguistici, p. 94.
58 L’agg. montaniosus è documentato negli agrimensori.
59 In qualche caso il diminutivo è adibito a designare un oggetto diverso da
quello indicato dal nome base: cultellus è il coltello, culter una forma di
vomere (tose, cóltro ), asinus rimane il nome dell’asino, mentre asellus per
designare un insetto (asello) e un pesce [nasello)., ecc.
60 Rònsch, Itala und Vulgata, Marburgo 1875, p. 468, Lófstedt, Philologischer
Kommentar zur Peregrinano Aetheriae, Upsala 1911, pp. 184-187.
61 Sternutare non è documentato prima di Petronio, ma doveva esistere già in
età classica (Cicerone usa stemutamentum ).
La latinità d’Italia in età imperiale
37
T verbi semplici sono alcune volte sostituiti da composti: initiare da
* initiare (it. cominciare), noscere da cognoscere ecc. (v. p. 38).
C Preposizioni e avverbi, specialmente quelli con significato locale,
rfliono rinforzati con altre preposizioni: abante, de abante (da cui
avanti davanti), incontra, de post (da cui dipoi e dopo), de ubi, de unde
et dove donde), ecc. , ,. , ..
( Crescono di numero nel lessico latino, in questo periodo, e s installa-
re fortemente nell’uso parlato, voci onomatopeiche-, tata, pappa (che,
sotto la forma papa, avrà grande fortuna nel latino cristiano), babbus,
nonnus, mammare, ecc.
13 Lotta fra parole vecchie e parole nuove
Qualche volta l’apparizione dei neologismi è dovuta alla necessità
onomasiologica di dare espressione a nozioni nuove: basti pensare alle
coniazioni di nuove parole per esprimere i nuovi concetti cristiani:
salvare dominica, papa, ecc. Ma per lo più il nascere delle nuove parole
il prosperare di voci_che prima erano rimaste confinate agli strati
nlebei avvengono a spese delle parole tradizionali. Ciò sarà dovuto
Piuttosto alla «energia» delle parole nuove o alla «debolezza» di quelle
vecchie? Sarebbe futile discorrerne in generale: se mai si potrebbe
giudicarne caso per caso. In primo luogo va tenuto conto dei fattori
sociali e politici: il controllo della lingua non è più nelle mani di una
ristretta aristocrazia urbana: i gruppi colti si vengono sempre più
assottigliando e restringendo; emergono nelle province, e giungono a
imporsi persino a Roma, uomini originariamente alloglotti, i quali
hanno imparato molto superficialmente la lingua tradizionale. E le
remore opposte dai grammatici non bastano a mantenere intatto il
latino in questa trasmissione a ceti nuovi e rozzi. D’altra parte
predicatori e scrittori cristiani reputano doveroso accostarsi all uso del
^ *u n fattore di debolezza per molte parole è il presentarsi isolate
anziché in famiglie o in serie compatte. Abbiamo già visto (p. 26) come
bis, ter ecc. tendano ad essere sostituiti da duae vices, tres vices ecc.: il
procedimento «analitico» è psicologicamente più facile per la memoria
che quello «sintetico». Così ima parola come hirudo non s’appoggia a
nulla, non suggerisce nulla, è un nome «immotivato», più difficile a
im parare e a ricordare di un composto «motivato» come sanguisuga,
«la succhiasangue», che appunto compare e s’impone al tempo di
Plinio- «Hausta hirudine, quam sanguisugam vulgo coepisse appellali
animadverto» [Nat. hist.. Vili, 10). In un ambiente placido e compatto,
hirudo avrebbe potuto perpetuarsi per secoli e secoli: invece, in
condizioni tumultuarie, poco favorevoli al mantenersi della tradizione,
sanguisuga è preferito 02 .
52 Per quale caso poi hirudo abbia potuto sopravvivere fino a oggi in qualche
luogo della Provenza (REW 4144), non è possibile dire.
38
Storia della lingua italiana
Così pera è vinto da bisaccium «il doppio sacco*, nihil da nulla,]
procul da longe, ecc. Così i verbi semplici, che di solito hanno una
coniugazione piuttosto difficile, sono spesso abbandonati a vantaggio
di intensivi o di denominali o di composti: i verbi citati adiutore,
cantare, iactare, già esistenti da tempo accanto a adiuvare, canere,
tacere, li soppiantano del tutto; mensurare, pedinare, *nivicare vincono
metili, pedere, ninguere-, e così cognoscere, conducere, consuere, occidere,
remanere, sufflare e innumerevoli altri sono preferiti ai semplici nascere ,
ducere, suere, caedere, manere, flare, ecc.
In genere stentano a sopravvivere i monosillabi, troppo brevi e male
discernibili nella catena del discorso: accanto ad aes, aeris appare e poi
trionfa aeramen, it. rame.
Al trionfo di o ssum sopra os, ossis conferisce anche un altro fattore,
l’intenzione di evitare romonimia. In età classica, non c’era pericolo di !
confondere ós «osso» con òs «bocca», ma con lo sparire delle distinzioni
di quantità ós tende a essere sostituito da ossum, che troviamo già in I
Tertulliano, e ós da bacca, che prima significava «gota». S. Agostino 1
leggendo nella versione pregeronimiana dei Salmi (138,15) «Non est |
absconditum a te ossum meuin» (in quegli stessi anni S. Girolamo 1
traduceva «Non est occultatum os meum a te»), difendeva la forma |
popolare: «Mallem quippe cum barbarismo dici Non est absconditum a 1
te ossum meum quam ut ideo esset minus apertimi quia magis Latinum 1
est» (De Dodr. christ. , III, 3), e più oltre anche più chiaramente spiegava |
la necessità di farsi capire dagli indotti: «Cur pietatis doctorem pigeat 1
imperitis loquentem, ossum potius quam os dicere?» QV, 3)“. ' 1
Pure a causa dell’omonimia che era venuta a crearsi tra avena e 1
habena per la sparizione dell’/i e lo spirantizzarsi della b tra vocali, è 1
da credere che *retina (it. redine ) abbia preso il sopravvento su habena. J
Di fronte a queste parole tradizionali, con le loro debolezze 1
strutturali e il loro scolorimento semantico, vigoreggiano altre parole 1
più solide nella struttura e più energiche nel significato. Accanto al |
delicato edere, irregolare nella coniugazione, appare dapprima comede- |
re, che riesce a prendere piede nella penisola Iberica (sp., pori, corner). J
Poi ha fortuna manducare, più immaginoso e plebeo: il nuovo verbo, |
derivato da mandere attraverso il nome di Manducus, un tipo di J
buffone da farsa, voleva dire «dimenar le mascelle» come faceva lui. f
Invece di fur, che dovè a un certo momento sembrare troppo scialbo, si |
cominciò a dire latro, che propriamente significava «brigante, grassato- |
re», ma poi prese semplicemente il significato di ladro. Accanto a caput I
(che tuttora sopravvive nel suo significato proprio e in parecchi |
significati figurati) si cominciò ad usare in età imperiale testa, cioè 1
«recipiente di terracotta», con lo stesso scherzo che si ha in coccia da l
coccio 64 . I
63 Cfr. il passo cit. a p. 14.
64 Tuttavia è stata fatta l'ipotesi che si tratti originariamente di un’allusione
La latinità d'Italia in età imperiale
39
Cabali " * «grosso cavallo castrato, da lavoro», parola proveniente
dalla p enis ola Balcanica 65 e considerata per un pezzo come più umile 86 ,
Stace poi. come forma più plebea equus™
Oltre alle parole energiche, che s’impongono con la loro colorita
volgarità, ne emergono altre affettive, familiarmente carezzevoli A
nuesta tendenza va attribuito il progresso delle voci diminutive e delle
voci onomatopeiche su cui già ci siamo soffermati. Una voce come
uber sparisce quasi dappertutto, sostituita da mamma, mamilla,
PU ^Svolba raffermarsi di una voce in luogo di un’altra è dovuto a un
mutamento della nozione, particolarmente di un oggetto. Il largo
revalere di encaustum su atramentum nel significato di «inchiostro»
non va spiegato come una mera sostituzione di vocaboli, ma come una
ripercussione di un progresso tecnico: la sostituzione dell’inchiostro
fatto di nerofumo o di nero di seppia con l’inchiostro di galla preparato
«1 fuoco".
14. Geografia areale. Caratteri delle innovazioni italiane
La concorrenza fra sinonimi che fin qui abbiamo considerata
tenendo conto dei pregi e dei difetti strutturali delle parole, delle
cariche affettive, del sostituirsi di im oggetto all’altro in analoga
funzione, si svolgeva, nell’àmbito dell’Impero, secondo le correnti di
tr affi co materiale e culturale che in esso dominavano.
Matteo Bartoli ha tentato, con la sua «linguistica spaziale* 70 , una
ricostruzione delle grandi aree della latinità in età imperiale. Attraver-
so alcune norme euristiche da lui fissate, fra cui particolarmente
importante quella delle «aree laterali», il compianto maestro ha
cercato di tracciare le grandi linee dell’espansione dei fenomeni
linguistici in quell’età.
Valga come esempio l’aggettivo che significa «bello». In portoghese
si ha formoso, in spagnolo anticamente /ernioso, oggi hermoso-, in
all'uso barbarico di crani come recipienti da bere (per le singole fasi del
mutamento di significato, v. Stolz-Schmalz-Leumann-Hofmann, Lateinische
Grammatik, Monaco 1926, p. 193).
° Cocco, in Mem. Acc. d'Italia, s. VII*, III, pp. 793-833 e in Biblos, XX, 1944, pp.
71-120.
« Lo scoliasta a Persio, Prol., 1, nota: « caballino autem dicit non equino, quod
satirae humiliora conveniant».
47 11 femminile equa resiste più a lungo, tant’è vero che se ne trovano tracce in
qualche dialetto italiano, e resti anche più forti in altri territori neolatini IREW
2883).
“ Quest’ultima forse è di origine germanica (ma non sicuramente: cfr. la
riconnessione con titillo suggerita dall’Emout-Meillet, s.v.).
* E. Mùller-Graupa, PhiL Wochenschr., LIV, 1934, coll. 1356-60.
™ Principalmente con l'Introduzione alla neolinguistica, Ginevra 1925, e con
numerosi articoli, di cui i più notevoli sono raccolti nei Saggi più volte citati.
40
Storia della lingua italiana
Oriente il romeno ha frumos ; invece l’italiano e il francese hanno bello,
beau. Il Bartoli prescinde dalle sfumature di significato che poterono
esistere nella lingua letteraria tra formosus e bellus, ritenendo che nel
latino parlato dei singoli luoghi e tempi dovè predominare l’una oppure
l’altra di queste parole-, prescinde da pulcher, il quale non conta perché
negli idiomi neolatini è scomparso-, fondandosi soltanto sulla distribu-
zione geografica, ne trae un’argomentazione che si può enucleare
come segue. Quando l’Iberia e più tardi la Dacia furono colonizzate, la
parola che ricevettero dall’Italia, nel significato di «bello», fu formosus.
dunque anche in Italia questa doveva essere la parola prevalente
nell’età repubblicana e nei primi tempi dell’impero. Più tardi in Italia
prevalse l’innovazione bellus-. già la parola esisteva in età classica nel
senso di «carino», ma ora diventa il vocabolo normale che significa
«bello». La Gallia, che ancora in quest’età tlI-III secolo d. C.) è in
strettissimo contatto con l’Italia, accoglie anch’essa l’innovazione
bellus, mentre 1’Iberia e la Dacia non accettano la nuova ondata
linguistica., e continuano ad attenersi a formosus. Se invece si ammet-
tesse che formosus e bellus e magari pulcher sono giunti tutti quanti nei ,
vari territori dell’Impero, e alla fine nelle singole aree ha finito col J
prevalere l’uno ovvero l’altro, non si spiegherebbe la «figura» che la |
distribuzione geografica presenta: due aree laterali conservative che j
affiancano un’area centrale innovativa. |
Volendo un altro esempio della stessa «figura», si possono citare le |
voci per «dimenticare»: ma in questo caso non solo la Penisola Iberica
e la Dacia mantengono o blitare (sp. e pori, olvidar, rom. uità), ma anche
la Gallia (frane, oublier, prov. oblidar): invece l’Italia ha l’innovazione
dimenticare (dementicastis è spiegato in un glossario con oblivioni
tradidistis ) 71 .
Un po’ meno ovvie sono le conclusioni che si possono trarre dalla
giacitura geografica quàndo ci si deve accontentare del confronto fra
i due tipi che sopravvivono in aree diverse. Ma indizi vari ci rendono
certi che patella (it. padella ) è di più recente espansione rispetto a
sartago (che tuttora sopravvive nella penisola Iberica, in Sardegna e
fi nei dialetti dell’Italia centrale e meridionale), e così granarium (it.
| granaio ) rispetto a horreum (che sopravvive in Sardegna e in Proven-
ì za); sapere (poi sapere ) prendendo sempre più decisamente valore
transitivo e significato di «sapere», ha vinto scire (che sussiste in
Romenia e in Sardegna). Clusum (it. chiuso), estratto dai composti del
tipo conclusum, inclusum, si è divulgato dopo che già la Gallia aveva
ricevuto clausum (fr. cios), ecc.
Non è scarso il numero delle parole latine che non hanno lasciato
alcuna traccia in Italia, mentre sopravvivono qua e là in altri territori
neolatini più o meno vasti: per citare solo qualche esempio, venere vive
71 Obliare non entra in questo ragionamento, perché è un francesismo
medievale.
La latinità d'Italia in età imperiale
41
tuttora nella penisola iberica (spagn. banef), mentre è stato sopraffatto
in Italia da scopare-, fimus e derivati ( fumier , ecc.) persistono in Gallia,
sostituiti in Italia da laetamen-, forum vive in Iberia (fuero, ecc.) e in
Gallia (nella locuzione au furi mentre solo la toponomastica ne serba
ricordo in Italia.
Molti vocaboli persistono solo in Sardegna ( discere , sus, ecc.) o solo
in Romenia ( lingula , noverca, venetus, aucupare, ecc.), parecchi solo in
Sardegna e in Romenia (haedus, vitricus, ecc.).
Non breve sarebbe l’elenco di parole latine di cui non rimane alcun
continuatore nelle lingue e nei dialetti neolatini. E non solo di parole
che indicavano nozioni piuttosto astratte, non solo di parole indicanti
oggetti poi spariti (sarebbe assurdo pensare che potessero persistere
attraverso i secoli la nozione e il nome di apalare «cucchiaio per
mangiare le uova bazzotte», che è attestato in Ausonio) 72 . Ma sono
scomparse anche parole come amnis (sostituita da flumen ), clunes e
nates (naticae), ignis (focus), os (bacca); ater (niger); alere (nutrire),
amittere (perdere), interficere (o ccidereV 3 , linquere (laxare), ludere
(iocare), meminisse (memorare, recordare), nere (filare), potare (bibere).
ecc.
Alle volte si vede o s’intravede la successiva espansione di diverse
parole. Di loqui non resta più alcuna traccia; in luogo di esso ebbero
dapprima fortuna fabulare (sp. hablar, pori, fatar) e fabellare (che
sussiste nel sardo e nel ladino, ed era vivo nel dalmatico); poi s’affermò
il neologismo cristiano parabolare arrivando a predominare in Gallia e
in Italia: ci rendiamo conto del suo lento, progressivo espandersi da
nord a sud se pensiamo quanto ancora era vivo favellare nei più antichi
testi italiani, specialmente centrali e meridionali 74 .
È ovvio insomma che, dovunque sia possibile, la testimonianza che
si ricava dalla distribuzione odierna delle aree vada integrata con i
dati che si ricavano dai testi scritti dei secoli intermedi: se oggi non si
ha più nessuna traccia di uxor, e continuatori di *uxorare si hanno solo
nei dialetti dell’Italia meridionale, il francese e il provenzale antico
avevano ancora forme popolari risalenti a uxor, tracce di * uxor are sono
documentate anche per l’Italia mediana («ke lu voleva puro exo rare»-.
Ritmo di S. Alessio, v. 108), e (o)scioreccio (da *uxoricium) si ricava da
documenti di Lucca e di Pistoia del s. XIII (Serra, Arch. glott. it, XXXIII,
1941, p. 123).
Valendoci del metodo areale, opportunamente integrato dalle testi-
monianze dei testi, vediamo che in molti casi l’area italiana concorda
con quella dell’Iberia e della Gallia, in altri casi con quella della Dacia;
in un numero grandissimo di casi la coincidenza si ha solo fra Gallia e
72 H. F. Muller, Époque mérovingienne, New York 1945, p. 225.
” La scarsa vitalità di interficere rispetto a occidere nella lingua parlata
postclassica è mostrato dal fatto che in Petronio interficere è usato una sola volta,
occidere sedici.
74 Si ricordi il fabellare che appare tre volte nel Ritmo cassinese.
42 Storia della lingua italiana
Italia. Ciò trova corrispondenza con le conclusioni degli storici, che
fino a tutto il III secolo la circolazione entro l’àmbito imperiale fu assai
intensa; e se più tardi fu molto minore, i rapporti fra Gallia e Italia non
s’interruppero mai.
Le innovazioni sorte in Italia nella te rda età imperiale arrivano molto
più difficilmente nelle province, cosicché l’Iberia e la Dacia (e anche la
Sardegna) conservano ima latinità in complesso più arcaica di quella
della penisola italiana. Nell’àmbito italiano l’Italia meridionale mantie-
ne un maggior numero di fenomeni e di voci arcaiche, in confronto spe-
cialmente con l’Italia settentrionale, che va più spesso d’accordo con la
Gallia: l’Italia centrale mantiene quella sua posizione intermedia che nei
secoli venturi le agevolerà la sua funzione mediatrice.
15. Mutamenti di significato
I mutamenti di significato avvenuti nel latino parlato dell’età
imperiale sono assai numerosi. In parte essi si presentano in modo tale
che potremmo trovarli in qualsiasi altro tempo e luogo. Che acer dal
significato di «acuto» sia passato a quello di «agro», che collocare,
collocare se si sia ristretto a quel significato «coricare, coricarsi» che
in età classica non aveva che occasionalmente C collocate puellulam è
f! già in Catullo, Carni., 61, v. 188), che bucca «gota» sia passato a
indicare la vicina bocca, per rimediare all’inopportuna omonimia in cui
era venuto a trovarsi os (p. 38): tutto ciò rientra nei fenomeni più
generali della semantica.
Ma da altri mutamenti ricaviamo indizi interessanti sulle condizio-
ni sociali e sulla psicologia collettiva dell’ambiente in cui quei fenome-
ni hanno avuto origine e, in genere, della loro età. Per indicare la
«tavola per i pasti familiari», il desco, si diffonde discus: prova che essa
era per lo più rotonda. Il bustum era il luogo dove si bruciavano i
cadaveri, quindi il sepolcro: l’uso di adornare i sepolcri con le immagini
scolpite dei defunti ha dato origine al significato italiano di busto. Il
grecismo organum voleva dire in generale «strumento»: lo specificarsi
del significato al particolare strumento musicale chiamato organo
mostra la voga che esso ebbe in età imperiale.
Spessissimo vediamo - ed è un indizio che ci palesa le condizioni in
cui la latinità parlata si perpetuò — che quando si avevano in età
classica parole di duplice significato, uno concreto e imo astratto, solo
quello concreto sopravvive nell’uso parlato (l’altro, se mai, sarà
restaurato più tardi come latinismo). Ecco qualche esempio:
gradus: sopravvive nel senso di «gradino», muore in quello di
«grado» (grado è voce dotta); pagina «pergolato» e «pagina» : vive nella
voce pania ( pagina è voce dotta); putare «tagliare» e «ritenere»:
persiste come potare-, stirps vive solo nel significato di «sterpo» e non in
quello figurato di «stirpe, discendenza»; stimulus «pungolo» e «stimo-
lo»: persiste in molti dialetti nel priifto significato, sotto la forma
stómbolo che risale a ima variante *stumulus.
La latinità d’Italia in età imperiale 43
E se fiscus è scomparso dalla lingua parlata, sia nel significato di
«cesto» che in quello di «cassa dello Stato (o dell’imperatore)», i
diminutivi fìscolo, ftscola, fiscina, fiscella dei dialetti meridionali si
ricollegano al significato più concreto.
Rarissimo è il caso che il concreto e l’astratto si continuino
ambedue, come ingenium nel senso d’«ingegno» e in quello di «conge-
gno» (l’ingegno della chiave-, cfr. il derivato ingegnere ).
Molti fra i mutamenti di significato ci mostrano questa tendenza
all’espressione concreta, eppur vivacemente colorita, e quindi ci fanno
intravedere l’influenza predominante degli strati plebei in queste
innovazioni.
Il lat. exemplum vive nell’italiano scempio (propr. «una strage tale da
servire di esempio»); fuga si continua in foga-, furia in foia, testa
«recipiente di terracotta; guscio» è adoperato, dapprima scherzosa-
mente, in luogo dell’ormai troppo scialbo caput {cfr. p. 38); e similmente
il dimin utivo *testulum, da cui teschio ; grandis arriva a prevalere su
magnus perché ha una stretta associazione formale con le voci grossus
e grassus, più calde e concrete.
Per esprimere il dolore, non basta più plorare, ma si dice che ci si
graffiano le guance, ci si picchia il petto: questo significavano lanlare
se, piangere, che poi passano semplicemente a lagnarsi e piangere.
E, fra le tante espressioni per «morire», nasce ora quella, così
evidentemente plebea, di crepare «scoppiare» («praecipitaveruntque
eos de summo in praeceps, qui universi crepuerunt»: Vulg., II Parai.,
XXV, 12).
Una larga serie di parole mostra mutamenti di significato tali che di
per sé testimoniano di un ambiente rustico: con lo spopolarsi delle città
negli ultimi secoli dell’Impero, la vita più attiva si svolse nelle
campagne, e molte parole ne serbano traccia, hodieque manent vestigia
ruris (Hor., Ep., II, I, v. 160).
La sopravvivenza di patronus nel significato che ha padrone
sembra riferirsi a quell’istituto del patrocinio per cui moltissimi
preferirono rinunziare alla libertà e ai gravami fiscali diventando
affittuari di ricchi proprietari, loro patroni 75 .
La sparizione del vocabolo domus 7 " e il prevalere di casa, che in età
classica significava «capanna, casetta rustica» è indizio di ruralizza-
zione.
La macchina per eccellenza è la mola del mugnaio fiat, machina, it.
macinai.
Pullus non è più il piccolo di qualsiasi animale, ma specificamente
il pollo-, e quanto importante sia la pollicoltura si vede anche da index
78 .11 fenomeno già appare nel sec. II (Rostovzev, Storia, cit., p. 240) e poi si
aggrava sempre più («dediticios se divitum faciunt»: Salviano, De gubemat. Dei,
V, 38).
n Fuorché in Sardegna; e nella voce duomo, ellittica per domus ecclesìae, la
casa dei canonici annessa alla chiesa.
44
Storia della lingua italiana
passato a éndice, da cubare che prende il significato specifico di covare.
Il verbo ponere assume in qualche area (Arezzo pónere, Bologna,
Modena p'ander) il significato di «mettere a covare» (mentre nel Friuli,!
in Francia, in Catalogna assume quello di «far le uova»).
Invece catulus, che pure significava il nato di un animale, prende
ora, con la forma cacchio, il significato di «primo tralcio» o, all’accresci- !
tivo ( cacchione ), quello di «penna che sta spuntando» o di «larva
d’insetto».
L’hortus, che presso i Romani era insieme «orto» e «giardino», si;
riduce al solo significato utilitario (orto). Lo stilus si limita al valore di j
stelo-, thyrsus non sopravvive nel significato mitologico e letterario di 1
«tirso» delle Menadi, ma come un assai prosaico tórso o tórsolo. 1
La meta vive solo in qualche luogo nel senso di «meta (di giochi !
fanciulleschi)», p. es. nel venez. méa Q’it. mèta non è, ben s’intende, voce ì
ereditaria): vivissimi invece sono i significati rustici di méta «catasta», 1
«mucchio di fieno», «pezzo di sterco». ’ !
Da minabi «minacciare» si passa a menare «condurre» attraverso I
l’accezione di «condurre animali minacciandoli o percotendoli» che 3
risulta chiara nella glossa di Festo-. «Agasones: equos agentes id est I
minantes » (p. 23 Lindsay). |
Il significato astratto di volta (da un lat. *volvtta) si spiega bene 1
partendo dal voltarsi dei buoi giunti all’estremità del campo (cfr. anche 1
tornata e tornatami. I
E, per citare un ultimo esempio, il Raj'na ISpeculum, III, p. 301) 1
spiegava così la coniazione del termine alba: «che nei parlanti latino si 1
sia sentito il bisogno di una parola che esprimesse la fase intermedia 1
fra il crepuscolo e l’aurora, ben si capisce. Sentirlo dovettero special- 1
mente, e provvedere, T campagnuoli, sempre mattinieri». 1
Fortissima era già stata l’impronta della vita rustica nel latino 1
preclassico 77 ; prevalentemente rustico il latino apparve di nuovo, |
mentre stava per trasformarsi in neolatino. f
In molti altri casi i mutamenti semantici si sono prodotti in ambienti J
speciali, più o meno tecnici. È una metafora militare papilio nel senso |
di «tenda», per confronto con le ali aperte di una farfalla («tentoria, 1
quos etiam papiliones vocant»: S. Agostino, Locutiones de Genesi, I, |
- 1 141. di qui l’italiano padiglione, il fr. pavillon, ecc. Anche ordinare nel |
senso di «comandare» proverrà dalla lingua militare.
Fra i mutamenti semantici che si possono attribuire al diritto |
ricordiamo il passaggio da libellus «libretto» a livello, attraverso I
l’«atto scritto» che regola questa concessione fondiaria. Le parole |
apprendere, * imparare «procacciarsi una nozione» e insignare «incide |
re» quindi «ficcare in testa» 78 , da cui apprendere, imparare, insegnare si j
j
77 J. Marouzeau, «Le latin langue de paysans», in Mèi. Vendryes, Parigi 1925, |
— pp. 251-264.
78 La parola è documentata solo nel primo significato nella glossa « i'f/ap&G™ !
insigno, inciso» ( Corpus gloss. Lat., II, 284, 17). ì
La latinità d’Italia in età imperiale
45
direbbero nate nel gergo studentesco, in un periodo in cui a scuola si
sempre meno.
m pianto e cervello sono originariamente termini di cucina: ficatum
r-a orariamente iecur ficatum «fegato d’animale ingrassato coi fichi»;
ftticina prevale su cerebrum il diminutivo cerebellum-. di li poi ì due
fjTboli passano alla lingua comune.
Pnrobabile che abbia seguito la stessa via anche spalla da spatola
i.snatula porcina»: Apicio) e forse anche gamba, originariamente
tarmine di veterinaria (camba, gamba), trasportato poi all uomo.
La terminologia delle arti e dei mestieri si arricchisce di metafore
Aoiifi fonti consuete (specialmente nomi di animali e di piante):
^-jtherius cantiere, cyc(i)nus it. mer. cécénè «un recipiente» ciconia,
r-rroNioLA, sopravvissuto nei dial. sett. per designare van strumenti,
ìLattcula it. mer. naticchia «chiavistello», vms vite (di legno o di
metallo) ecc. E la lingua popolare ricorre per metafore a nomi di
strumenti noti: così è nato da tornare «far girare sul tornio» il
significato romanzo di tornare.
Senza confronto più rare, in questo periodo, sono le ondate
semantiche che scendono dall’alto: valga come esempio il nuovo
significato che comes assume al tempo di Costantino, quello di «alto
funzionario imperiale» (poi conte). . . ,
I significati costituiscono un sistema, sia pure non molto ngiao,
sono cioè tutti concatenati fra loro; e se ima parola muta di significato
è assai probabile che il mutamento si ripercuota su altre parole, be
bucca prende il significato di «bocca», occorre un’altra parola per
esprimere il concetto di «guancia» e sarà gabàta «ciotola», adoperato
metaforicamente: di qui l’it. gota. Se mittere passa dal significato di
«mandare» a quello di «mettere» («et nemo mittit vimini novum m
utres veteres»: Vulg., Lue., V, 37), occorre un nuovo verbo per
esprimere quella prima nozione, e sarà mandare. Il verbo ferire passa
dal significato di «colpire» a quello nuovo di «ferire», ed è sostituito da
percutere. In quelle aree in cui mulier prende il significato di
«moglie», occorre esprimere con un’altra parola il concetto di «lemmi-
o rncì vifl.
16. Semantica cristiana
Moltissime parole mutano di significato in conseguenza della
rivoluzione spirituale portata dal Cristianesimo, e penetrata in pochi
secoli in tutti gli strati della popolazione. La massima parte dei
vocaboli che si riferiscono alla vita dello spirito ricevono nuovi
significati o almeno nuove connotazioni; i concetti morali e religiosi
collegati con il pensiero pagano vengono travolti o sconvolti dalla
concezione cristiana e dai nuovi rapporti che essa proclama fra il
divino e rumano.
Si pensi al significato di parole come fides, spes, caritas, virtos,
46
Storia della lingua italiana
PASSIO, MUNDUS, SAECULUM, PIUS, SACER PECCARE, COMMUNICARE nella
lineala del tempo di Augusto e in quella del tempo di Teodo •
Della lotta fra i due diversi significati della parola salus, intesa dai
pagai come «sanità, e dai cristiani come «salvezza, abbiamo una
curiosa testimonianza in un sermone di S. Agostino .
Come la semenza evangelica sia sbocciata nei nuovi concetti è
stato studiato in saggi innumerevoli di teologia floscia, ■ hturgm: a no1
imnorta qui soltanto segnalare la grandiosa trasmutazione .
^Talvolta il mutamento di significato ha ongme da un preciso
riferimento a un passo evangelico. « ..
Astensione di massa da «pasta fermentata che serve per fare il
nane* a gruppi di persone è un’allusione a un passo di S. Paolo Wom,
ES 21: ifAsaio die trae come vuole i suoi vasi dalla massa luti)
frequente nelle controversie religiose del IV secolo: S. Ottato di Milevi
considera massa poenitentium i Cattolici soggetti ai Donatisti, 1 ro-
Astro e S postolo raffigurano l’umanità peccatrice come una massa
d eccati in conseguenza del fallo di Adamo. . .
P II verbo tradere prende il significato di tradire per nfenmento a
Giuda che «consegnò, Gesù («Iudas qui tradidit eum»; Matth., XXVI,
25) e a quei vescovi traditores che al tempo della persecuzione di
Diocleziano consegnarono alle autorità i testi sacri.
Anche il Dassaggio di significato dal lat. captivus allit. cattivo
«malvagio, (e al fr. chétif «miserabile») è dovuto al latino cristiano e
cioè alluso in locuzioni come captivus diaboli e simili («prigioniero del
diavolo, ossesso»), le quali l’inquadrano nella teoria agostimana della
• Pre La S voce Z dei e tardo latino malifatius, da malurn fatum, forse e stata
suggerita anch’essa dalla dottrina della predestinazione: da essa
Pr0 Scor^ggTS°(Sscute come paganus abbia assunto il significato
° PP Voc°i genTrichr associate a modi particolari di vita, prendono
significato più ristretto: vesper sopravvive applicato alle preghiere
78 Attendebat enim forte Christianus pauper humiììs in Pagano forte divite
ac potenti, attendebat florem foeni et eli fidereta^rSSpes
Cfr. von Wartburg, Franz, etym. Wórt ., s. v. captivus, e Ph. Haerle, Captivus
catiivo-chétif, Berna 1955
82 Schuchardt, Zeitschr. rom. Phil XXX, 1906, . P- 327
ss v da ultimo S. Boscherini, m Lingua nostra , XVII, 1956, pp. lui ìu .
La latinità d’Italia in età imperiale
47
dette a una data ora della sera, i vespri, ieiunium è il digiuno secondo le
prescrizioni della Chiesa, plebs si restringe a indicare la pieve, cioè la
parrocchia rurale. La tunica romana sopravvive trasformata nella
tonaca ecclesiastica.
Quanto alle parole più strettamente associate al culto pagano esse
o spariscono, come p. es. ara, sostituita sempre più frequentemente da
altare, finché questa voce trionfa con S. Girolamo che l’adotta nella
Vulgata-, o si laicizzano, come p. es. lustrare che dal significato di
«espiare con sacrifici» passa a quello di «lucidare»; o assumono
colorito spregiativo: è la sorte toccata a parecchi nomi di divinità,
ridotti a nomi di esseri malefici: Diana sopravvive in molti dialetti
romanzi col significato di «fata, ninfa, strega», Orcus come orco, ecc. 84 .
Parecchi tra i mutamenti semantici del latino cristiano sono dovuti,
com’è noto, a calchi sul greco; e alcuni a calchi che già il greco aveva
fatti sull’ebraico. Basterà ricordare un paio di esempi: passio che
ricalca raScOos, salvare e salvator con i significati di e aoorrip,
Dominus equivalente a Kópios, testamentum calcato su Siadrpcr], che a
sua volta ha il significato dell’ebr. berith «alleanza» ecc. (qualche altro
esempio alle pp. 34-35).
Se si aggiungono i mutamenti semantici or ora esemplificati al-
la penetrazione dei grecismi e alla coniazione di vocaboli nuovi, ci
si renderà conto dello sconvolgimento operato nel lessico dal cristia-
nesimo.
17. Tarde coniazioni dotte
In questi ultimi paragrafi (§§ 12-16) ci siamo occupati soltanto delle
parole che avendo messo radici nel latino parlato d’Italia sono riuscite
a sopravvivere attraverso i secoli per via ereditaria. Senza confronto
più numerose sono quelle che entrano nella tradizione scritta comin-
ciando da testi di età imperiale. Sono voci giuridiche, amministrative,
filosofiche, teologiche, ecc.: voci come parentela-, inventarium, secreta-
rìus, primicerius, limitrophus; brephotrophium, nosocomium-, intimare,
ultimare; scibilis, scientifìcus, multiplicitas-, vivificare, mortificare, glorifi-
care, beatificare; confortare; incorruptibilis-, ecc. Ne dovremo tener conto
nei capitoli successivi, quando vedremo in ogni secolo l’italiano
attingere alla latinità scritta: non a quella classica soltanto ma anche a
quella tarda e a quella medievale.
84 Migliorini, Dal nome proprio, pp. 310-318.
CAPITOLO II
TRA il LATINO E VITALIANO
(476-960)
1. Limiti
Con il 476 comincia la soggezione politica dell’Italia a stirpi
straniere, che durerà per molti secoli: fatto anche linguisticamente
importante. E nel 960 appare il primo documento in cui si scrive
consapevolmente in una nuova lingua: siamo ormai intorno al Mille,
q uando le sparse membra dell’Italia cominciano a ricomporsi in un
barlume d’unità.
2. Romani e Germani. I Goti
L’instaurarsi di una serie di regni barbarici fa sì che si affievolisca o
addirittura si perda il sentimento d’appartenenza allo stato imperiale
romano e di una relativa preminenza rispetto alle province. Né le
pretese di Bisanzio all’universalità dell’Impero, né la restaurazione
carolingia mutano questa situazione: non è più Roma, non è più l’Italia
che porta l’aquila. Ma se l’unità politica del mondo romano è rotta,
persiste, sia pure in tono minore, ima comune civiltà, e i rapporti
ecclesiastici si mantengono forti; o addirittura crescono, nell’àmbito
della civitas Christiana.
n vivere secondo la «legge romana», il partecipare, sia pture in modo
vago e lontano, del primato ecclesiastico rivendicato da Roma, rendo-
no in Italia molto più difficile che altrove il distacco dall’universalismo
imperiale. Perché sul concetto geografico dell’Italia s’innesti il concetto
d’una particolare nazione italiana bisognerà che gli altri particolarismi
nazionali siano già arrivati a vigoreggiare. E bisognerà d’altro lato che
il concetto di nazione vinca i particolarismi locali, che proprio in questo
mezzo millennio si vengono più che mai approfondendo.
Il dominio degli Eruli, dei Goti, dei Longobardi ha anzitutto la forma
d’una colonizzazione militare.
I Goti, già vissuti per un paio di secoli a contatto con i Romani nelle
loro sedi danubiane, ne avevano certo subito un forte influsso. La
tendenza a romanizzarsi, sia dei Visigoti che si stanziano nell’Iberia e
nella Gallia meridionale, sia degli Ostrogoti discesi in Italia con
Teodorico (489), è evidente; e si riconosce proprio dagli sforzi fatti dai
loro sovrani per evitare che con la romanizzazione andasse perduta
50
Storia della lingua italiana
l’individualità etnica e la virtù guerriera del loro popolo: essi miravano
a ottenere che i Goti assimilassero la saggezza romana e conservasse-
ro il valore barbarico Uìomanorum prudentiam caperent et virtutem
gentium possiderent: Cassiodoro, Variar., Ili, 23).
Dev’essere di poco posteriore al tempo della conquista l’epigramma
conservatoci d&ll’Anthologia Latina, di un Romano che non sapeva più
che versi comporre, nel frastuono delle parole gotiche che risonavano
intorno a lui:
Inter eils goticum, scapia, matzia, ia, drincan,
non audet quisquam dignos edicere versus 1 .
Ma il fatto stesso di prender la penna in mano per scrivere fa
inclinare verso il latino: le sottoscrizioni di sacerdoti ariani nei papiri
ravennati sono più spesso in latino che in gotico.
Specie nei luoghi dove avvennero più forti stanziamenti, le profes-
sioni di legge gotica si mantengono a lungo 2 ; ma le testimonianze che si
ricavano dalle parole gotiche sopravvissute sembrano rivelare un
inabissarsi nella romanità circostante, collegato ad ima decadenza
sociale. «Che differenza dalle abbondanti serie di nozioni, in cui si
manifesta l’influenza della cultura franca nella Francia settentrionale!
Negli imprestiti gotici in italiano si rispecchia tutta la miseria della
popolazione straniera restata in Italia, che fino all’arrivo dei nuovi
signori germanici, i Longobardi, condusse una vita da paria» 3 .
Con la capitolazione degli ultimi Goti (555) si concludeva la conqui-
sta o riconquista dell’Italia da parte di Bisanzio. Quando vediamo
Aligemo, fratello di Teia, che comandava le truppe di Cuma, arrendersi
a Narsete consegnandogli la città e il tesoro, lo vediamo in qualche
modo perdere la sua individualità di capo barbarico, diventar suddito e
quindi mescolarsi alla vita dei sudditi romani 4 .
Se questa riconquista abbia contribuito a portare in Italia qualche
influenza greca, ci è difficile dire: ciò che più importa tener presente è
la nuova divisione geografico-politica dell’Italia che viene ad instaurar-
si dopo l’entrata dei Longobardi in Italia (568) e le loro conquiste.
3. I Longobardi
I Longobardi non erano molto numerosi-, benché si siano tentate
valutazioni molto varie, gli storici più autorevoli ritengono che i
1 Anthologia Latina, ed. Riese, I, n. 285; cfr. W. Streitberg, Gol Elementarbu-
ch, Heidelberg 1920, pp. 37-38.
2 A Goito ifundus Godi, campus Godi, vico Godi) in un documento del 1045 vi
sono persone che professano «legem vivere Gothorum» (Tamassia, Atti Ist. Ven.,
LXI, 1901, p. 131 ss., D. Olivieri, Dizionario di toponomastica lombarda, Milano 1931,
p. 273).
3 E. Gamillscheg, Rom. Germ., II, p. 29.
4 Dobbiamo la notizia allo storico bizantino Agatìa (Agathias, Histor., I, 20).
Tra il latino e Vitaliano
51
» avevano già avuti con i popoli civili' li qUe 1 contatti che essi
cristianizzati (erano di relgone Sana *J5 SS T Un po ’ Uzzati e
più come ospiti o aspirando » 11 ^ iana ’ 1 ^® S1 entravano in Italia non
Sarte deli-impero, ma “me uTese^d.^ 11 ^ <“ Parete
imporre ai tónti le condizioni che volesse™ %^ nqu ^ tatori ’ Uberi di
za, nei grandi latifondi, e occupandoni le ?1 v nd -° si ’ m P ref eren-
rono tuttavia le città fatte sedi 1 iru ^ llon . non disdegna-
cartelli organizzano le sparae fare °In nS C fn„ Co ^ la ^azionfà
militare, e sottraggono afle città parte^ei^ quad ^ amento di tì Po
loro stanziamenti più fìtti furono n!irrf !° r ° ra ^° di influenza I
Tuscia, come risulta*; oltre che dalle fonti- , set tentrionale e nella
mastiche; meno fìtti dovevo esseS n?*? 16 ’ daU ? tracce to P°no-
Benevento.- ma ciò non toglierle il r»rrtt^ i dUCa ì 1 ^ S P olet o e di
foia nelle imprese militari, sia neU’attSSSintn I ^i 0bar< Ì 0 * Benev ento
fosse assai forte. attaccamento alle credenze religiose)
os^onStt.faU^rosStrdecSti ^^] 81 Ch ® * Lon S obard i
detenton di una cultura superiore alialo™ t^ i !?- ro potenza eppure
! t££SS? * l0r ° Un com Pl es so a di° r su^riorùà P e e un ) c^ffo
Giunga cSfremSaf dure alterni mutare durante
tempo di Liutprando e degli ultimi re benrh/ ^ C ^ fi ’ meno dure al
seia Pre la spinta di gruppi partS«™~ft S1 veda ° «Intraveda
Quale fosse lo stato dei S intransigenti.
fino a che punto fosse progredita la fìisicme SecOT \ do la le gge romana,
ne l’invasione franca 773 so Ptawen-
ncordano il contributo portato Ì qSti , d f, CUSSO ’ e tutti
Manzom. In questo lento processo onei oì, ® tudl dal Muratori e dal
è il progredire della romanizzaz^ole Rn ^,^ 0 ® 1 " 613136 a noi sa P ere
misura ì Longobardi divennero hìiinm ~ n ® uis . tic a: sapere cioè in che
lingua nazionale; e con quale raSdiK 1 n PQ1 abband °narono la loro
tempi e luoghi. Purtroppo non è leSto ne^ c processo avve nne nei vari
ne, sperare che si possa precisar molto SCarsezza * documentazio-
altra coirVT^,^^^^ S^riH P?ng f n ° * giuristi ’ ma
Imgua: il diritto longobardo passato ^ UndlC1 ’ altra quella della
« -5^ AffiS
Lombardi si .•asrsssìu del ^
1 4» S? Vf * "• ’*• * «w Mittelaiter,
tìsss pfsjfissss
52
Storia della lingua italiana
avversi ai comuni: probabilmente discendenti e eredi dei conquistatori
Viceversa, anche in Italia appare qualche accenno di quella che fu la
sorte del nome di Romano presso i Latini d’Oriente, presso i quali
rumin finì col significare «servo della gleba»: in un documento di
Pistoia del 767 romani ha il senso di «coltivatori» per antonomasia:
«omnes romani qui modo sunt vel eorum heredibus» (Co dice diplomati-
co Longobardo, II, p. 219).
Per la lingua abbiamo un interessante aneddoto riferito al principio
dell’ottavo secolo e tramandatoci da Paolo Diacono, il dotto longobar-
do fattosi storico del suo popolo: il duca Ferdulfo rimprovera allo
sculdascio Argait di non aver catturati certi ladri: «quando tu aliquid
fortiter facere poteras qui Argait ab arga nomen deductum habes»
( Hist . Lang., IV, 24), e da questa accusa di «viltà» nasce fra i due una
gara che porta a una vittoria degli Slavi. Paolo Diacono qualifica
questo scambio d’insolenze «vulgaria verba», cioè «parole triviali» - e
non mi sembra si possa dedurne, come faceva il Hartmann 7 , che i
Longobardi più distinti parlassero già latino fra loro. Un passo del
Chronicon Salemitanum (c. 38) composto nel 978 circa ci attesta:
«lingua todesca quod olim Longobardi loquebantur» (Mora. Germ. hist.,
Script., Ili, p. 489) che mostra come nel X secolo il longobardo non fosse
più parlato nell’Italia meridionale (benché il cronista sia tuttora in
grado di spiegare qualche voce).
Mentre il Bluhme 8 pensava che già il «romaneggiante» re Liutpran-
do avesse ormai solo mia scarsa conoscenza della lingua longobarda, il
Bruckner sosteneva addirittura che gruppi di persone che parlavano il
longobardo persistessero, almeno in alcuni territori, all’alba del secon-
do millennio 9 . Ma gli argomenti su cui egli si fonda si sbriciolano se li
guardiamo dawicino; Yih di un documento dell’872 non è un ich ma un
hic, i pretesi soprannomi germanici del 919 e del 1003 non sono affatto
verosimili 10 .
Il Hartmann, come abbiamo accennato, propende a credere a
un’assimilazione relativamente rapida (e più rapida presso le classi
dominanti). Insomma è probabile che al tempo della conquista franca,
ci fossero ormai solo alcuni nuclei che continuassero l’uso del longo-
bardo, pur essendo anch’essi diventati bilingui 11 .
7 L. M. Hartmann, Geschichte Italiens im Mittelalter, II, 2, Gotha 1903, p. 58.
8 F. Bluhme, Die Gens Longobardorum, II, Bonn 1874, p. 3.
8 W. Bruckner, Die Sprache der Langobarden, Strasburgo 1895, p. 13.
10 L’esempio del 919 (Joh. Zanvidi filii quondam Petri Zanvidi ì è di Chioggia,
cioè di un’area dove l’onomastica greco-latina ha ima predominanza schiaccian-
te, e non si può intendere altro che «Gian-Vito» (così lo interpreta anche l’Olivieri,
in Onomastica, Ginevra 1923, p. 140, senza conoscere l’ipotesi del Bruckner);
l’esempio del 1003 (il soprannome Scamafolì potrebbe essere uno «schemisci-
pazzo», ed è comunque tanto isolato che non può essere tenuto in conto.
11 Purtròppo nulla possiamo dedurre per il grado di bilinguismo dei Longo-
bardi dall’episodio che ci narra Paolo Diacono l Hist. Lang., V, 29) di quel capo di
Bulgari di nome Alzeco, che al tempo di re Grimoaldo ottenne per sé e i suoi
Tra il latino e l'italiano
53
La conquista franca indubbiamente accelerò i tempi della romaniz-
zazione linguistica. I Longobardi dei ceti meno alti entrarono in
rapporti sempre più stretti coi Romani con cui convivevano; quelli dei
ceti più alti si trovarono sì a dividere i «servi» e gli «armenti» con i
Franchi che erano sopravvenuti, in numero non grande ma favoriti
dalla protezione regia: ma la romanizzazione dei Franchi era già così
avanzata che è da presumere che abbiano trovato più comodo per
intendersi adoperare una specie di latino intriso di volgarismi romanzi,
piuttosto che di quel poco che ormai dovevano possedere delle loro
rispettive lingue germaniche 12 .
Nell’845, in un placito tenuto a Trento a proposito dei possessi di un
monastero in vai Lagarina 13 si parla dei vassalli «tam Teutisci quam et
longobardi», e uno di questi, nativo di Tiemo, portava il soprannome
di Suplainpunio, Supplainpunio «Soffia-in-pugno», cioè era ormai un
«Lombardo» e non un «Longobardo».
Poco c’insegnano per quel che concerne il procedere del bilinguismo
le glosse e i glossari. Già nei testi degli editti qualche termine più
diffìcile, longobardo o no, è spiegato con un sinonimo 14 .
Evidentemente il moltiplicarsi delle glosse e la compilazione di veri
e propri glossari (specialmente nel territorio beneventano, nel sec. IX) 1S
palesa l’ignoranza non sappiamo dire se progrediente o ormai comple-
ta del longobardo; ma bisogna anche tener conto dell’estendersi
dell’uso delle leggi longobarde a luoghi dove non c’era mai stata
colonizzazione longobarda.
Opinioni molto diverse si sono avute e si hanno tuttora anche
intorno al modo di vita degli Italiani sotto il dominio longobardo. Certo
si ebbero momenti terribili (stragi di proprietari al tempo di Clefì) ma in
complesso una vita e una cultura urbana persistettero: sia ecclesiasti-
ca 13 che laica. Si pensi al persistere di tradizioni agiografiche, scolasti-
che, giuridiche (con l’ininterrotta vitalità della scuola di Pavia) 17 , si
pensi alle tradizioni agrimensorie attestateci dalle Casae litterarum,
alle tradizioni metallurgiche di cui danno prova le Compositiones
Lucenses: testi ambedue di età longobarda.
nomini terrea, Sepino, Boviano, Isemia, «qui usque hodie in his ut dicimus locis
habitantes, quamquam et Latine loquantur, lìnguae tamen propriae usum
minime amiserunt».
18 Tanto più che dopo la seconda mutazione consonantica subita dal
longobardo la differenza tra longobardo e franco era ormai piuttosto forte.
13 Cipolla, Arch. storico per Trieste ecc., I, 1882, pp. 274-300; Id., Rend. Acc.
Lincei, s. 5* IX, p. 415.
14 «De hairaub (rairaub), hoc est qui hominem mortuum invenerit » (Ed.
Rothari, § 16) e simili; ma anche all’infuori dei termini germanici si hanno
sinonimie come «De palo quod est carracio » (ivi, § 293) e simili.
15 Mora. Germ. hist., Leges, IV, pp. 652-657.
13 Ci dice Paolo Diacono QV, 42) che al tempo di Rotari in quasi tutte le città
del regno c’erano due vescovi, uno cattolico e uno ariano.
17 Viscardi, Le origini, 2® ediz., Milano 1950, passim.
54
Stona della lingua italiana
Se in origine i Longobardi non avevano desiderato la proprietà
fondiaria di per sé, ma in quanto potevano ottenerne i frutti senza
coltivarla, più tardi molti degli stessi arimanni si erano trasformati in
agricoltori, e già l’editto di Rotari (643) ci mostra i legami che j
Longobardi ormai hanno con la terra.
Si svolge in questo periodo nell’Italia longobarda (e solo in essa,
poiché sembra non se ne abbia traccia in quella bizantina) la curtis, con
la sua economia autosuffìciente o quasi, accentrata intorno a un
monastero, oppure intorno a ima villa tenuta da un signore longobardo
(più tardi franco).
Le condizioni politiche ed economiche ci fanno pensare a una
scarsa circolazione e perciò a un isolamento crescente di piccole unità
quasi autosuffìcienti, parrocchiali o diocesane.
Tuttavia non manca una certa circolazione. Anzitutto vanno ricor-
dati i magistri co mlmìacini, nominati dall’editto di Rotari, dal Memora-
torium de mercedibus magistrorum commacinorum e anche, non di
rado, dai documenti (p. es. in un documento di Toscanella del 739: Cod.
diplrLong., I, p. 216) 18 .
Poi non mancavano i mercanti 19 : e artigiani e mercanti saranno
stati quei Transpadani o Transpadini che troviamo in Toscana e nel
Lazio in età longobarda (Arezzo 715, Pistoia 742, Marta 765, Lucca
772).
I patti di Liutprando con Comacchio, e i diritti di dazio che allora si
fissano, ci mostrano la regolarità dei traffici fluviali con gli empori
adriatici.
4. La circolazione linguistica al tempo dei Longobardi
La divisione d’Italia che la conquista longobarda segnò e che i
intorno al 680 si consolidò con una pace o ima tregua che implicava \
da parte dei Bizantini una tacita rinunzia alla riconquista, ebbe, come ]
si sa, una influenza politica enorme, perché solo il Risorgimento can- \
celiò politicamente quei confini. Non dobbiamo tuttavia credere che la |
circolazione linguistica fosse del tutto interrotta. Si sa che Roma era ì
congiunta all’Esarcato da quel «corridoio» bizantino (e più tardi I
16 Con molta probabilità il loro nome, come già sostenne il Muratori, non è ì
altro che l’etnico di Como (v. spec. P. G. Goidànich, in Lingua nostra , II, 1940, pp. |
26 29). La proposta del Bognetti e del De Capitani (nel volume su Santa Maria di ?
Castelseprio , Milano 1948, pp. 290, 469, 710-711) di trame il nome dalla Commagene, j
provincia della Siria, benché assai ingegnoso (per il tentativo di inserire l’opera |
dei cornlmkicini nel quadro delle influenze orientali sull’arte italiana) non arriva 1
a convincerci. Ci sembra che, se fosse vera l’ipotesi, dovremmo trovare almeno I
qualche volta il nome ben più comune di Siri o Sirici. Fanno riscontro ai Comacini |
«comaschi» gli Antelami «carpentieri, poi muratori e lapicidi della Val d'Intelvi» !;
(Bognetti, ivi, p. 282). |
19 F. Carli. Il Mercato nell'alto Medio Evo, Padova 1934, passim. J
Tra il latino e l’italiano
55
papale) che seguiva, la via Flaminia; Venezia, Bari, Amalfi, Napoli
comunicavano fra di loro e con l’Oriente soprattutto per via di mare.
Se, nella geografìa dialettale, qualche traccia di quel «corridoio» si
può ancora notare, non scorgiamo affatto quella differenza che a priori
ci si potrebbe aspettare, poniamo, tra Bologna e Ravenna da una parte,
Parma, Piacenza, Pavia dall’altra. Ma purtroppo è impossibile dire se
questo si debba a ima ininterrotta continuità di traffico, ovvero a un
conguagliamento più tardo 20 .
Importanti, nella geografia culturale dell’età longobarda, sono i
rapporti fra la Lombardia e la Toscana, e anche quelli con i Longobardi
dei ducati meridionali.
In linea d’ipotesi, se ai germi di disunione che già il latino parlato
d’Italia presentava negli ultimi tempi dell’Impero (sostrati diversi, linee
di traffico orizzontali più importanti di quelle verticali) si fosse venuta
ad aggiungere una diversità di dominio, se cioè, poniamo, la Toscana
fosse rimasta bizantina, la differenziazione fra essa e il Nord sarebbe
stata anche più grande, e quindi diffìcilmente la Toscana sarebbe stata
in grado di svolgere quella che fu più tardi la sua funzione storica, di
mediatrice fra Italia settentrionale e meridionale. Ma fra il riconoscere
questo e il fame un merito ai Longobardi, ci corre molta differenza: ci
accontenteremo di dire che fortunatamente quelli che distrussero
l’unità politica d’Italia non ne separarono le parti in tal modo da
compromettere la riedificazione di una lingua comune a tutta la
penisola anche prima che si potesse giungere alla riedificazione
dell’unità politica.
Non mancano argomenti per negare che i Longobardi venissero a
ricostruire una circolazione linguistica che era sul punto di spezzarsi.
Anzitutto si hanno alcune voci con ogni probabilità gotiche la cui area
si estende al settentrione e al centro: per es. rócca (da filare) e lésina.
Poi la persistenza di esiti fonetici diversi nelTItalia settentrionale e in
Toscana, che la circolazione dei tempi longobardi non valse a distrug-
gere né ad attenuare: alludo soprattutto al diverso esito di ce, ci
(sibilante nell’Italia settentrionale, palatale del resto d’Italia). Infine la
frequenza di risultati diversi dati nelle diverse regioni dalle medesime
voci longobarde (ne daremo qualche esempio più oltre): ciò mostra che
si tratta di più ricezioni avvenute in luoghi diversi, e conferma che la
circolazione delle voci longobarde non fu tanto intensa.
Due sono i modi in cui le peculiarità germaniche poterono entrare
nel lèssico delle parlate romaniche d’Italia: o i futuri Italiani le
sentirono dai loro signori mentre ancora essi parlavano germanico, e le
ripeterono per farsi capire da quelli; oppure esse rimasero come
peculiarità idiomatiche nella parlata di quei (Goti o) Longobardi che.
*° Potrebbe, diciamo, essere accaduto in quel periodo (s. XI) in cui i
giuristi notano sempre più intensi rapporti fra la regione lombardo-toscana e la
romano-ravennate (P. S. Leicht, Il diritto privato preimeriano, Bologna 1933 , pp.
5-6), o anche più tardi.
56 Storia della lingua italiana 1
avendo imparato a parlare romanico, dopo aver perduto l’uso della 1
loro lingua nazionale si fusero linguisticamente con la popolazione I
rimanente: relitti linguistici, insomma. Solo nel primo caso si tratta 1
propriamente di un effetto del prestigio linguistico, di un’azione del 1
superstrato. |
Il bilancio fra i germaniSmi dei due tipi è molto difficile a farsi. Se f
l’influenza longobarda fu più forte e più lunga di quella gotica, non può |
essere confrontata nemmeno da lontano con quella esercitata dai |
Franchi nella Francia settentrionale. In complesso l’influenza dovuta J
al prestigio sembra scarsa, mentre la penetrazione dei relitti fu, 1
relativamente, piuttosto copiosa. |
|
5 . I Franchi 1
I conquistatori franchi estesero la loro dominazione solo sul \
settentrione e il centro della penisola, mentre i ducati longobardi \
meridionali finirono col rendersi pressappoco indipendenti. Ma le j
buone relazioni instaurate col papato certo conferirono a intensificare
le relazioni tra i territori soggetti ai Franchi, il patrimonio di S. Pietro e J
quegli altri ducati in cui ormai la soggezione all’impero d’Oriente era
sempre più vaga. Le relazioni commerciali si fanno più intense 21 , e cosi 1
pure l’affluire dei pellegrini 22 . |
A differenza dei Goti e dei Longobardi, non abbiamo più un popolo J
che si muove a cercare nuove sedi, ma, dopo gli scontri per la I
conquista, un piccolo numero di capi che vanno a occupare posti di |
comando e di guadagno. La loro influenza di «prestigio» è stata assai |
notevole, mentre l’influenza eventualmente esercitata dai relitti lingui- I
stici di qualche loro stanziamento dev’essere considerata pressoché »
nulla. |
E ormai la romanizzazione dei Franchi di Francia è così avanzata, j
che dobbiamo considerare anche i germaniSmi introdotti da loro j
nell’italiano in formazione a tuia stregua del tutto diversa da quella j
delle voci gotiche e longobarde; infatti esse sono ormai voci accolte nel |
patrimonio romanico di Francia, voci paleofrancesi, ed entrano in J
Italia, da Carlomagno in poi, allo stesso titolo a cui entrano voci di J
origine latina foneticamente o semanticamente rielaborate in Francia. 1
Ciò non toghe che talvolta gli indizi fonetici non ci aiutino per nulla e J
quelli geografici poco (in quanto ci dicono solo che la parola esiste sia |
in Francia sia in Italia). Può esser utile, in qualche caso, l’indizio I
21 Benché anche prima non mancassero: pur senza sapere esattamente che
cosa siano le dieci «cumaras et alias franciscatas » donate con altri fornimenti per
letti da Wamefredo, castaido di Siena, a ima chiesa nel 730 (Cod. dipi. Long., I, p.
169), dobbiamo supporre che si tratti di oggetti designati secondo il luogo di
provenienza.
22 Si veda i capitoli introduttivi dell’importante monografia del Bezzola,
Abbozzo.
Tra il latino e l’italiano
57
sociale: una parola che si riferisce a usi dei ceti più elevati ha maggior
probabilità di essere franca che gotica o longobarda.
La più grave difficoltà in cui c’imbattiamo nello studio degù
elementi franchi e paleofrancesi è quella di stabilire la cronologia della
loro penetrazione in Italia. A prescindere dal poco che poteva già esser
giunto in Italia per influenza merovingia, sia la grande espansione
politica e culturale dell’Impero carolingio (VIII-IX s.), sia i contatti
religiosi, commerciali, culturali che si hanno nell’età delle Crociate,
delle conquiste normanne, della civiltà cavalleresca (XI-XIII s.), si sono
svolti prima che Vitaliano appaia interamente formato: cosicché in
molti casi ci è impossibile dire se una parola sia penetrata in italiano
nel tempo di Carlomagno o in quello degli Altavilla o anche più tardi.
Solo nel caso, purtroppo non molto frequente, in cui la parola compare
nei documenti medie vah di età carolingia, possiamo giungere a
conclusioni sicure-, invece il fatto che un vocabolo non è attestato non
permette conclusioni ex silentio.
•Non si dimentichi che con i Franchi si estende all’Italia il sistema
feudale, con le sue divisioni, e quindi, possiamo presumere, con
un’accentuazione del frazionamento dialettale.
6. Bizantini e Musulmani
Con il passaggio dell’Esarcato e della Pentapoli al Patrimonio di S.
Pietro, il dominio bizantino è ormai definitivamente ridotto all’Italia
meridionale. Ma, fra l’età carolingia e quella degli Ottoni, i Bizantini
hanno una notevole ripresa politica e culturale; ed è quello il periodo in
cui alcune zone dell’Italia meridionale sono colonizzate o ricolonizzate
da ehenofoni. Nel X secolo al «regno d’Italia», che comprende l’Italia
settentrionale e centrale, si contrappone il «tema bizantino d’Italia»,
che comprende i ducati campani, i principati longobardi, la Puglia e la
Calabria.
Naturalmente oltre che del fattore politico dobbiamo tener conto di
quello religioso e di quello commerciale. A Roma sbarcavano sulla ripa
Graeca, cioè nel quartiere intorno a S. Maria in Cosmedin, le navi che
venivano dall’Oriente, e nel sec. X, durante la festa della Comomannia
vi si cantavano versi greci, ed erano largamente intesi 23 .
In complesso l’influenza linguistica bizantina in questo mezzo
millennio è stata meno forte di quella germanica; tuttavia mentre non
si hanno, per quanto addietro si vada nella storia, notizie di isole
linguistiche germaniche che risalgano all’età delle invasioni, le isole
linguistiche greche di Calabria e di Terra d’Otranto (appartengano
23 Sulla conoscenza del greco a Roma, a Ravenna, a Napoli, in Puglia, in
Calabria abbiamo notizie sparse e non molto copiose. V. specialmente Steina-
:ker, «Die ròm. Kirche und die griech. Sprachkenntnisse des Frùhmittelalters», in
7 estschr. Gomperz, Vienna 1902, pp. 324-341.
58
Storia della lingua italiana
esse ad età, bizantina o rappresentino un nuovo innesto bizantino su |
un ceppo anteriore) sopravvivono tuttora. 1
La conquista musulmana della Sicilia (sec. IX) portò nell’isola nuclei I
importanti di Arabi; ma la separazione fra le due stirpi dovuta alla 1
religione, e mi certo rispetto dei conquistatori per le usanze e la lingua !
dei loro sudditi fecero sì che le parlate di Sicilia si svolgessero |
senz’altra alterazione che l’accoglimento d’un certo numero di vocabo-
li arabi. Che gruppi notevoli di Siciliani siano stati arabizzati e dopo la
cessazione del dominio musulmano rilatinizzati, è da escludere in
modo assoluto.
7. La latinità medievale. Alcuni esempi tipici
Se il nome di latino volgare si presta a grandissimi equivoci, poco
minori inconvenienti presenta quello di latino medievale 24 .
È passato il tempo in cui era necessario rivendicare l’importanza di
questo studio, e si sa ora valutare la latinità dei diversi periodi del
Medioevo con la loro stessa norma, e non con quella ciceroniana.
Quando Gregorio Magno (| 604) dice, a proposito della grammatica dei
retori, che egli ben conosce, di sprezzarla, per non sottomettere la
parola di Dio alle regole di Donato 25 , egli vagheggia in modo consape-
vole un suo proprio ideale di latinità.
E altri, di secolo in secolo, perseguiranno altre norme: non si può
dire, p. es., che Benedetto Crispo o Paolo Diacono o Agnello Ravennate
non raggiungano una loro efficacia. Resta vero tuttavia che, aH’infuori
di un sottilissimo strato di persone colte, che mantengono come
possono una rispettabile tradizione scolastica, agiografica, giuridica,
la conoscenza della lingua scritta è decaduta in modo pauroso.
Si legga qualche passo del rendiconto di un’inchiesta che il notaio
regio Guntheram è andato a fare nel 715 nella corte regia di Siena per
l’annosa questione della pertinenza a Siena o ad Arezzo di alcune
chiese e monasteri nel territorio senese.
Item dixit nobis suprascriptus Aufrit presbiter Ide monasterio Sancti Petri ad
Absol: ‘Homines fuerunt Senensìs, ambulabant ad Sancto Felice diocea Clusina;
posteas quod Wilerat subtraxit eos de plebe Clusina, illi vero fecerunt sibi
24 Si vedano i capitoli Vili e IX delle Origini di A. Viscardi (importantissimi,
anche se non tutti i punti mi trovino consenziente). Sulla latinità medievale v. K.
Strecker, Einfuhrung in das Mittellatein, 2* ed., Berlino 1939 (anche in trad.
francese e inglese), G. Cremaschi, Guida allo studio del latino medievale, Padova
1959.
23 «Et ipsam loquendi artem quam magistri disciplinae exterioris insinuant
servare despexi. Nam sicut huius quoque epistolae tenor denuntiat, non metacismi
collisionem fugio, non barbarismi confusionem devito, situs motusque et praeposi-
tionum casus servare contemno, quia indignimi vehementer existimo ut verba
coelestis oraculi restringam sub regulis Donati » (Exp. in lib. Job, in Migne, PatroL
Lat., LXXVI, col. 514.
Tra il latino e Vitaliano
59
baselica in onore Sancti Ampsani. Dedicavit ea episcopus de Sena per rogo
gacerdotum Aretine ecclesiae, eo quod in eorum diocea erat; nam ipsa baselica
usaue in anno isto semper sub presbiteros de Sancto Vito fuit, qui est diocia
Sancti Donati-, ..in isto anno infra quadragensima fecit ibi Deodatus episcopus de
Sena fontis, et per nocte eas sagravit, et presbiterum suum posuit unum infantulo
de annos duodecim; antea, ut dixi, semper ipse tedolus 1= titulus] de sub ecclesia
Sancti IDonati) fuit...’ Item Romanus clericus de castro Policiano dixit: ‘Wamefrit
tmstaldius mihi dicebat: Ecce missus venit inquirere causa ista, et tu, si
interrogatila fueris, quomodo dicere habes ? Ego respondi eh Cave ut non
interroget, nam si interrogatus fuero, veritatem dicere habeo. Sic respondit mihi:
Ergo taci. Tu viro, qui est missus domili regi modo me invenisti, et non te > posso
contendere, Deo teste, quod veritatem scio. Tibi dico quia diocias istas...’ 28 .
Oppure si leggano documenti privati del secolo Vili: p. es. la carta
di vendita di un certo Rodoin stesa dal notaio Ansolf (Pisa 730):
venondavi tivi Dondoni aliquanta temila in locum qui dicitor ad stabla
Marcucci; uno capite tenente in terra Chisoni et alium capite tenente in terra
Ciulloni, de uno latere corre via publica... 27 .
Oppure il «libello» (redatto dal notaio Teutperto, Lucca 804) con cui
Astruda, badessa di S. Maria Ursimanni, dà a Gudolo casa e poderi a
Montemagno, e questi si obbliga a corrispondere ima parte dei
prodotti:
...per singulos annos reddere debeamus medietate vino puro da tertia vices
uba bene calcata, et indi vinata, nani non pondum inibi nobis uvandum; quidem
et vobis reddere debeamus per singulos annos medietatem aulivas, quas de ipsa
res Dominus donare dignatus fuerit; et per omnes vendemia reddere debeamus
medio porco valente dinari sex, et tres pani boni mundi, et duo casii mediogrii;
seu et duo fila fica sicché bone, et in ter cici, farro et linticle sistario uno, et per
singulos annos vobis reddere debeamus trés pulii cum quindecim ovas“.
Persino in testi redatti certamente da uomini fi*a i più colti del regno
affiorano, specie nelle citazioni da dialoghi, curiosi volgarismi. Leggia-
mo nelle leggi di Liutprando:
Hoc autem rei veritas pervenit ad nos, quod quidam homo diabolum
instigantem dixissit ad servum alienum-. ‘Veni et occide dominum tuum, et ego
tibi facere habeo bonitatem quam volueris*. Die autem puer, suasus ab ipso,
intravit ih causam ipsam malam, et hisdem qui eum suaserat in tantam mali ti am
perductus est, ut aetiam praesentialiter dicerit eidem puero-. ‘Feri ipsum domi-
num tuum’, et ipse ei prò peccatis feritam fecit, et iterum dixit eh ‘Feri eum adhuc,
nam si non eum feriveris, ego te ferire habeo'. Ipse autem puer conversila fecit
eidem domino suo alteram feritam, et mortuos est 2 ®.
22 Schiaparelli, Cod. dipi. Long., I, p. 70 e 74.
27 Schiaparelli, cit., I, p. 153.
22 Memorie e doc. per la storia di Lucca, V, II, p. 189.
22 Liutprando, Leges, § 138 (in Mon. Germ. Hist., Leges, IV, p. 168).
60
Per prendere un testo d’altro genere, si veda il trattatelo intitolato
dai filologi Compositiones ad tingenda musiva o Compositiones Lucen-
ses: è una raccolta di ricette metallurgiche e vetrarie conservata nel
cod. 490 della Biblioteca Capitolare di Lucca, la cui stesura si colloca
intorno al 600, mentre il codice è dell’800 circa. Ecco le istruzioni che si
danno per trasformare l’oro in fili:
Quomodo petalum fiet ad fila aurea. Auro bonum sicut metrum; batte
lammina longa et gracile. Quomodo per longum battis, plica eam unum super
un um et sic eas battes, sed plecaturas non battis. Et postea apens aurum per
medium et amba capita non battuta in medio veniant; et batte et cum ala eum
divide: et post debeas aplanare cum matiola lignea. Et de solum unum debeas
facere III petalas. Et post tolles forfices bonas, subtilissima longas et graciles et
circina illum usque ad sanum; et plica unum cata unum petalum; et contine ìlla
cum tenalclla ferrea; et tota sic similiter fieri debet. Et tolle carbones minutos,
adprehende illos in focario; et debeas mittere tota petala nitro modico et scalda
equaliter, ut tota scallldata fiat. Et habes aquam paratam et bersa super, ut
adluminentur se ipsa petala... 30 .
Non c’è sforzo dialettico che possa spingerci ad ammettere che m
Italia nei secoli VII e Vili si parlasse così. Ognuno di questi testi
rappresenta una peculiare miscela, dovuta al sovrapporsi nella mente
dell’estensore di due norme; da un lato quella della lingua parlata, che
è una norma ancora non bene enucleata e fissa, e vige solo come
consuetudine inconscia, nata dalla trasmissione ininterrotta e dalla
lenta alterazione del latino parlato, e in cerca di un suo nuovo
equilibrio; dall’altro la norma della latinità scritta, quale poteva essere
sentita e insegnata in quei secoli. Ma se questa norma operava ancora
con qualche forza nelle scuole retoriche e giuridiche o nelle officine
agiografiche di pochi centri importanti, all’infuon di essi giungeva m
forma pallida e larvale. .
Dobbiamo immaginare un poveruomo che abbia imparato alla
meglio pochi rudimenti di latino per poter officiare, o quattro formule*
te per fare il notaio; nel parlare non adopera più né s, ne m, ne t finali,
» L 15-28 Cito dell’edizione Hedfors, Uppsala 1932 (tenendo .presente anche lo
studio di J. Svennung, in Uppsala Universitets Àrssknft, 1941). Ecco una traduzio-
ne- «Come la foglia si trasforma in fili d’oro. Prendi oro buono nella quantità
occorrente, batti lamina lunga e sottile. Nel batterla per iungo piegala intra
soprammettendo Cle due parti laterali alla parte centrale) e cosi battile ma non
battere le piegature. E poi apri l’oro per mezzo e le due estremità non battute
verranno in mezzo. E batti, e dividi il foglio con una lesina (?); e poi devi
appianare con un mazzuolo di legno. E di una sola devi fare tre foglie, e poi
prendi forbici buone sottilissime, lunghe, e taglialo doro) sino in fondo, e p
ga cadauna foglia-, e tienila con una tenaglia di ferro; e ciascuna dev essere trat
tata così E prendi carboni minuti, accendili sul focolare; e devi mettere dentro
per un po’ tutte le foglie e scalda uniformemente, in modo che siano tutte scal-
date. E abbi dell’acqua preparata e versala sopra, in modo che esse foglie s arr
ventino», ecc.
Tra il latino e l’italiano
61
ma sa che scrivendo bisognerebbe adoperarli, in certi modi, secondo
schemi (p. es. l’accusativo), che non sente più e non ha mai imparato ad
applicare: quindi scrivendo mette le terminazioni come la memoria gli
suggerisce, e perciò non di rado, poiché la memoria non gli suggerisce
nulla, come gli capita.
Il peso della tradizione scolastica si manifesta soprattutto con
quest’obbligo incombente, a cui nessuno può nemmeno pensare per un
istante di potersi sottrarre, l’obbligo di scrivere in latino. Perciò ci
appaiono fuori d’ogni realtà quei bizzarri esperimenti che A. Gloria
aveva fatti mettendo insieme diversi volgarismi rintracciati nelle carte,
p. esempio ricostruendo una lettera che avrebbe potuto essere scritta
verso il 750 a Lucca: «A lo domno Gualprando episcopo. Possedeo
hodie, patre meo, a Castagnulo in Monticello ima casa cum castello,
torre, sala, panario, porticale, canava, orticello, curticella e altere
adiacentie e pertinentie, uvi soleo abitare cum Racculo meo fratello»,
ecc. 31 .
Ma bisogna tenere assolutamente per fermo che una tradizione
popolare ininterrotta sia esistita: che non sia un mito romantico, si può
vedere dal riscontro con le parlate romene, che in ambiente culturale
unicamente slavo e greco, e quindi prive per molti secoli di ogni
contatto con la tradizione culturale scritta del mondo latino, si svolsero
tuttavia mantenendo un carattere sostanzialmente romànico.
Se la tradizione orale ininterrotta nei vari centri abitati è un fatto
indiscutibile, possiamo solo in via ipotetica (ma è ipotesi teorica e
contrastante alla storia effettuale) immaginarla scevra dagli effetti di
quell’altra tradizione che fu anch’essa viva, in ceti ristretti ma pieni di
prestigio: la tradizione colta, fondata sulla latinità scritta.
Le testimonianze di singole parole o forme adoperate dall’uso
parlato popolare appaiono qua e là, da Vairone in poi, indicate dalla
formula vulgo 32 , e naturalmente abbondano nel periodo che stiamo
studiando.
Non molto diverso è il valore di un passo rilevato dal Novati 33 : san
Columba (o Colombano), il fondatore del monastero di Bobbio, in ima
lettera del 613 a Bonifacio IV (e alla Curia) osserva che quel nome di
Columba che egli portava in latino esisteva anche nell’idioma, cioè
nella parlata volgare d’Italia («Columba latine, potius tamen vestrae
idiomate linguae»). Altre espressioni attestanti l’uso plebeo troviamo in
Agnello Ravennate (s. IX): «quod rustici nescientes vocant eum ad
Pinum» (p. 363 Holder-Egger), «quae rustico more Galiata dicitur» (p.
31 A Gloria, Del volgare illustre dal secolo VII fino a Dante, Venezia 1880,
pp. 38-39.
33 J. Sofer, «Vulgo: ein Beitrag zur Kennzeichnung der lat. Umgangs- und
Volkssprache», in dotta, XXV, 1936, pp. 222-229.
33 F, Novati, «Due vetustissime testimonianze dell’esistenza del volgare. II.
L’epistola di S. Columba a Bonifacio IV (613)», in Rend. Ist. Lomb., s. 2 a , XXXIII,
1900, pp. 980-983.
62
Storia della lingua italiana
Tra il latino e l’italiano
63
379). Un altro episodio che Agnello ci narra (p. 383), della frase detta
dall’arcivescovo Grazioso a Carlomagno convitato a pranzo: «Pappa,
domine mi rex, pappa», serve piuttosto a mostrare la «gran semplicità»
del dignitario, che non per nulla i suoi confratelli avevano ammonito a
non parlare.
Una vasta esplorazione metodica dei frammenti di volgare che
appaiono nelle carte di questi secoli non è stata ancora fatta, benché
non manchino numerose ed utili ricerche, a cominciare da quelle del
Muratori 34 : chi ha compiuto spogli o studi su singole raccolte 35 , chi ha
compilato spogli grammaticali o lessicali, di carattere regionale o
nazionale, che includono più o meno compiutamente anche le carte
dell’alto medioevo (Parodi, Trauzzi, Nigra, Sella, Bosshard, Arnaldi);
chi in monografie su singoli fenomeni o vocaboli si è fondato largamen-
te su spogli di quelle carte (Aebischer, Castellani).
L’utilizzazione dei dati che si possono ricavare dalla grafìa dei
documenti ben di rado può essere immediata: ma tale sarà, ad
esempio, per grafie nuove come il nesso tz-, uno petztz o, uno petztziolo,
Lucca 740 (Cori. dipi. Long., I, p. 222).
Per lo più si dovrà tentare di giungere a quello che poteva essere
l’uso parlato rendendosi conto dell’immagine grafica che si presentava
alla mente di chi scriveva e in cui trasponeva ciò che voleva esprimere.
Se troviamo ligibus, heridibus, mercide, non dobbiamo pensare che si
pronunziasse così, ma che uno abituato a dire prometto e a scrivere
promitto ricorresse allo stesso metodo anche quando voleva esprimere
il suono di mercede senza che la memoria gli fornisse un’immagine
visiva della parola. In qualche caso si potè addirittura costituire una
tradizione scritta medievale ( curtis, octubrìs, ecc.).
8. L’apparire del volgare
dell’820, ratificate da Eugenio II, sulla necessità di scuole vescovili e
parrocchiali 39 .
Il miglioramento della latinità porta come necessaria conseguenza
la separazione dal volgare. Fin che si scrive approssimativamente,
senza districare la norma latina da quella del volgare parlato, si hanno
risultati come quelli di cui s’è visto qualche esempio: ma quando la
grammatica e il lessico latini s’imparano più a fondo, secondo canoni
ben determinati, le confusioni diventano meno frequenti, e di rimbalzo
il volgare si manifesta come un modo diverso di espressione, sentito,
sia pure ancora embrionalmente, come autonomo.
Solo nel decimo secolo abbiamo indizi certi dell’uso pubblico del
volgare; siamo vicini a quella data che abbiamo fissata come termina-
le, il 960.
Il Novati 37 enumerava questi indizi così: «un’allusione del panegiri-
sta di Berengario ai canti che il popolo romano mescolava nel 915, voce
nativa, alle sapienti melodie greche e latine durante l’incoronazione
del suo signore; il passo famoso dell’epistola scritta nel 965, in cui
Gonzone rammenta l’usus nostrae vulgaris linguae quae latinitati
vicina est; l’accenno non meno noto che Widukindo ha lasciato della
perizia d’Ottone I nel favellare in lingua romana-, infine le lodi che
l’autor del metrico epitaffio di Gregorio V (f 999) prodiga all’estinto
pontefice, perché era solito esporre in tre diversi idiomi alle plebi la
parola divina:
Usus francisca, vulgari et vuce latina
instituit populos eloquio triplici».
A queste testimonianze non saprei aggiungere che quella data da
J un penitenziale cassinese del sec. X (cod. Cassin. 451), il quale avverte
«fiat confessio peccatorum rusticis verbis » 33 .
È noto quale forte stacco si manifesta in Francia tra l’età merovin-
gia e la carolingia, principalmente per effetto della politica culturale e
scolastica di Carlomagno: né possiamo entrar qui nella controversa
questione su quella che è stata la parte dei dotti italiani in quel primo
movimento umanistico.
In Italia si ha un distacco meno sensibile e un po’ più tardivo: si
ricordi l’istituzione delle otto scuole regie col capitolare di Lotario
dell’825 (Torino, Ivrea - affidata al vescovo -, Pavia, Cremona,
Vicenza, Cividale, Firenze, Fermo) e le prescrizioni del concilio romano
34 A. Monteverdi, «L. A. Muratori e gli studi intorno alle origini della lingua
italiana», in Arcadia-, Atti e mem., s. 3 a , I, 1948, pp. 81-83.
35 V. De Bartholomaeis, «Spoglio del Cod. dipi. Cavensis », in Arch. glott. it.,
XV; W. Funcke, Sprachliche Untersuchungen zum Codice Dipi. Long., Bochum
1938; R. L. Politzer, A Study of thè Language of Eighth Century Lombardie
Documents, New York 1949.
9. L’indovinello veronese
Come primo uso scritto del volgare, risaliremmo al sec. IX se
potessimo senz’altro considerare come tale l’indovinello veronese, che
da qualche decennio, cioè da quando lo Schiaparelli lo scoperse e lo
pubblicò 3 *, e più ancora da quando il Rajna ne sottolineò i caratteri
volgari 40 , ha preso cronologicamente il primo luogo fra i monumenti
della lingua e della letteratura italiana.
In un libro liturgico scritto nei primi anni dell’ottavo secolo a Toledo
89 G. Manacorda, Storia della scuola in Italia, I, i, Palermo 1913, pp. 60-62.
37 Rend. Ist. Lomb., s. 2», XXXIII, 1900, p. 980.
* Schmitz, Die Bussbucher und die Bussdisciplin der Kirche, 1883, 1, p. 745, cit.
in Civiltà Cattolica, 4 genn. 1936, p. 34.
" Arch. stor. ital., s. 7», I, 1924, p. 113.
40 Speculum, III, 1928, pp. 291-313.
. Storia della lingua italiana |
(forse ancor prima che gli Arabi nel 711 occupassero la città), vane f
mani successive lasciarono tracce che permisero allo Schiaparelli di |
ricostruirne le peregrinazioni. Il codice passò dapprima a Cagliari, poi |
probabilmente a Pisa, dove un certo Maurizio cane vario vi si dichiara- |
va fideiussore per l’anfora di vino di un certo Bonello 41 . Negli ultimi |
anni del secolo ottavo o nei primi del secolo nono una mano con ogni 1
probabilità veronese vi scrisse come prova di penna le parole seguenti |
+ separeba boues alba pratalia araba & albo uersorio teneba & negro semen
seminaba. |
Componeva, di deliberato proposito, dei versi in volgare o, traendo
dalla memoria esametri ritmici latini, vi introduceva, senza rendersene
ben conto, numerosi volgarismi? La risposta è difficile, e in parte
dipende dall’interpretazione di alcune parole.
Ma anzitutto, di che si tratta? Dopo un breve sviamento che
portava a ritenere il testo un frammento d’un canto di bifolchi, si vide
chiaramente 42 che si tratta di un indovinello fondato su di una
metafora antichissima, il confronto fra l’aratura e la scrittura 43 : i buoi
sono le dita, l’aratro è la penna, il prato è la pergamena 44 .
L’indovinello, ancor oggi vivo in molti dialetti («Il campo bianco -
nera la semente - tre buoi lavorano - e due non fanno niente»; e simili)
era diffusissimo nella letteratura latina medievale. Il Monteverdi cita
fra i molti riscontri imo di Paolo Diacono, che è particolarmente
notevole perché degli stessi tempi e degli stessi luoghi in cui fu scritto
l’indovinello veronese:
I
Candidolum bifido proscissum vomere campimi
visu et restrictas adii lustrante per occas.
L’indovinello veronese ha un andamento molto più popolareggian- a
te, ma fu certo composto da un chierico che non ignorava qualcuno di M
questi precedenti. fi
La chiave di volta della discussione linguistica è il se pareba, per cui m
furono date parecchie interpretazioni. Quella che più tenta a prima »
vista è che si tratti di una forma di parare nel senso di «spingere m
il
41 Leggo Maurezo canevarius fidiiosor (mentre altri legge, secondo me a torto
fidilocor, ridi iocos, fidi iocor) de anfora vino de Bonetto.
42 De Bartholomaeis, Giom. stor. lett. it., XC, 1927, pp. 197-204, De Bartholo-
maeis-Monteverdi ivi, XCI, 1928, pp. 67-76.
43 Cfr. il nome di scrittura bustrofedica, il verbo exarare, eco.
44 Comunemente si dà come soluzione dell’indovinello «la mano che scrive»;
G. Presa lAevum, XXXI, 1957, pp. 241-252) intende «la penna»: comunque, la serie
d’immagini è la medesima.
il
Tra il latino e l'italiano 65
Innanzi » (buoi, pecore ecc.): e tenta sia perché si parla di buoi, sia
perché nel Veneto questo significato di parar è ancor oggi vivissimo 45 .
Se essa fosse certa, se ne dedurrebbero due tratti caratteristicamen-
te volgari dell’indovinello, un imperfetto in -eba da un verbo della
prima coniugazione e un se con valore di dativo di vantaggio. Il Rajna
fece di -eba addirittura il fulcro della sua ricostruzione, rimodellando
su quella forma i due imperfetti in -aba-.
Boves se pareba
e albo versorio teneba
alba pratalia areba
e negro semen semineba.
Ma le difficoltà non mancano: la discordanza fra questo -eba e gli
altri -aba, la precocità di se con valore di dativo di vantaggio, il
mancato parallelismo fra la prima proposizione, in cui bisognerebbe
ammettere un soggetto sottinteso «il bifolco», e le altre tre che meglio
sottintendono come soggètto «i buoi».
Benché a qualcuna di queste obiezioni si sia cercato di rispondere
ingegnosamente, credo convenga sfuggire alla seduzione di quel
pareba da parare, e ricorrere al verbo parere, parersi nel senso di
«apparire»; negli indovinelli e nelle filastrocche l’oggetto da indovinare
è talvolta presentato con «c’è», «ecco», «si vede», «salta fuori» e simili.
Intenderei perciò: «i buoi apparivano»: quanto al se, è ovvio il riscontro
con l’uso antico italiano di parersi attestato in poesia ( qui si parrà la tua
nobilitate : Dante, lnf, II, 9; si, che l’effetto convien che si paia-. Par.,
XXVI, 98-, sicché si pare all’acqua : Iac. Alighieri, Dottr. , XXI, v. 41) e
anche in prosa (Boccaccio, ecc.) 48 .
Se pareba non è da parare, le altre particolarità lessicali e morfologi-
che sono molto più scialbe-, pratalia (non pradalia, si noti, anche se
ormai a Verona si deve supporre che verso ì’800 si avesse -d-l e versorio
si possono supporre adoperati anche in versi latini di andamento
volgareggiante; e anche il trattamento che fa di -lia e -rio due
monottonghi è normale nella poesia ritmica latina del Medioevo. I
fenomeni fonetici, cioè la caduta di -ni finale nei quattro verbi di
significato plurale, la desinenza -o per -um in albo, versorio, negro, e
quello che si presenta come il fenomeno più «moderno» del nostro
testo, cioè negro per nigrum, sono tali che nessuno di essi appartiene
45 In altre regioni (e anche in parte della Toscana) parare i bovi invece
significa «vigilarli al pascolo».
40 2 G. Contini, che ha pensato anche lui a parere (Revue des langues rom.,
LXVII, 1934, p. 162) intende invece «da cosa da indovinare) assomigliava»: ma con
questa interpretazione restano un po' più difficili da spiegare l’uso dell’imperfetto
e il se (malgrado il riscontro con «s'assomigliava»). Non mi par possibile
interpretare il se come congiunzione ipotetica (con C. A. Mastrelli, Arch. glott. it.,
XXXVIII, 1953, pp. 190-209).
66
Stona della lingua italiana
I
necessariamente a chi compose e non semplicemente a chi vergò
rindovinello.
Mancano poi altri tratti (e può anche darsi che il volgare non li
avesse ancora acquistati): gli articoli, il divieto della proclitica iniziale
(legge Tobler-Mussafia-. il testo dice se pareba boves, non boves se
parebaì. E altre caratteristiche del nostro testo sono ancora nettamen-
te latine: la -s finale di boves (non è escluso che questa si sentisse
an cora a Verona negli anni di Carlomagno, ma vorremmo esserne più
certi), la -t- di pratalia, la -n- finale di semen, l’uso di albo, alba nel
significato di «bianco».
Insomma il nuovo idioma già si sente, già sta per prorompere: ma
non si può ancora asserire con sicurezza che chi compose e chi vergò
Tindovinello - sia che fossero, come mi pare più probabile 47 , due
persone diverse, sia che si tratti di una sola persona - si rendesse conto
di scrivere in una lingua diversa dal latinuccio che usava scrivere.
Non si dimentichi che rindovinello è degli anni di Carlomagno. Ora,
pur non consentendo con la tesi estremista che vuol fare persistere il
«latino volgare» fino all’età di Carlomagno, bisogna riconoscere che
tra la lingua parlata Qa quale ha già accolto le più notevoli innovazioni
che saranno tipiche della lingua nuova) e la lingua scritta (in cui i
chierici incoltissimi introducono sporadicamente i loro volgarismi) la
differenza è difficile a stabilire; mentre sarà molto più sensibile dopo
che la riforma letteraria carolingia avrà fatto sentire i propri effetti.
Anche perciò preferiamo attenerci nella lettura dell’indovinello a un
testo il più possibile conservatore, quale è quello che il Monteverdi ha
dato 48 espungendo semplicemente le due &:
Se pareba boves, alba pratalia araba,
albo versorio teneba, negro semen seminaba.
10. Influenza linguistica dei dominatori e suo carattere
Fin dai tempi dell’Umanesimo, si è posto il problema della parte che
hanno avuto le popolazioni germaniche nell’alterazione del latino e
nella formazione delle lingue nuove-, in nuove forme, adeguate ai più
maturi strumenti d’indagine, il problema è ancora aperto: ma le
opinioni sono tutt’altro che unanimi
Non ci soffermeremo qui a fare la storia delle discussioni e a
soppesare gli argomenti portati per dimostrare o negare l’influenza
germanica nel prodursi delle innovazioni. Ci accontenteremo di dire
che mentre le innovazioni lessicali sono abbastanza esattamente
misurabili, e, in complesso, importanti (anche se meno forti che nelle
v il testo del codice veronese «forse riproduce Tindovinello come correva
nelle scuole»; Ruggieri, in St. Romanzi, XXXI, 1947 p. 95.
43 Studi mediev., n. s., X, 1937 pp. 214-224 Crist. in Saggi pp. 39-58).
Tra il latino e l’italiano
67
altre parlate della Romània occidentale), nelle innovazioni del sistema
fonologico e morfologico, molto più che la diretta influenza delle lingue
degli invasori, dobbiamo considerare l’influenza indiretta esercitata
dallo sconvolgimento sociale 49 : le stragi operate nelle classi superiori,
lo stato di anarchia o di disordine durante assai lunghi periodi, la
circolazione delle persone, delle idee, degli oggetti molto ridotta fanno
si che si approfondisca il distacco fra le due tradizioni, quella scritta e
quella parlata. L’anemica lingua della cultura quasi cessa di esercitare
la sua efficacia di rèmora sulla lingua parlata, e questa perde gran
parte della sua forza coesiva, non conserva altro freno che quello
indispensabile per mantenere i legami tra generazione e generazione e
tra luoghi vicini. Senza negare che una certa influenza da parte dei
do mina tori ci sia stata, riteniamo senza confronto più importante
questo «inselvatichirsi» della lingua parlata nelle varie regioni e nei
cing oli centri minori. Anche se non possiamo conoscere con una certa
precisione quale potesse essere la lingua parlata a Torino o a Firenze,
a Melegnano o a Milazzo nell’anno 500 e nell’anno 800, .dobbiamo
figurarci un lento divergere dalla latinità parlata, in direzione di quelli
che saranno gli odierni dialetti, ma con un lessico piuttosto ristretto e
adeguato a uno stato culturale assai modesto.
Delle singole innovazioni fonologiche e morfologiche, meglio che
cercare «il» modello saranno da cercare imo o più germi che, inseriti in
un sistema in equilibrio instabile per i motivi ora detti, hanno dato
origine a nuove forme e nuovi equilibri.
11. Mutamenti fonologici
A rigore dovremmo occuparci dei principali mutamenti fonologici
avvenuti in tutto il territorio: ma, senza perdere di vista il quadro
complessivo, di solito ci limiteremo a vedere che cosa accadde in
Toscana.
La caduta di vocali afone (originariamente connessa con l’intensità
dell’accento) è assai forte nel Settentrione d’Italia e molto più debole
nel Mezzogiorno. Che essa sia ben viva nel nostro periodo, si vede
dall’applicazione a vocaboli germanici: il gotico haribergo ha dato
albergo. Poiché una delle condizioni della sincope è l’aspetto fonologico
del gruppo consonantico che ne risulterebbe, la Toscana, che ha
sempre avuto ripugnanza per molti gruppi consonantici, anche perciò
è piuttosto parca (e anzi addirittura dove si hanno gruppi con s +
consonante è incline all’epentesi: cristianesimo, fantasima ).
Un’osservazione assai interessante e che, come vedremo più oltre,
trova riscontro in altri campi, è quella che possiamo fare a proposito di
favola e tegola. L’elaborazione di suono e di significato che indubbia-
49 Le considerazioni qui svolte collimano con quelle del Meyer-Lubke, Dos
Katalanische, Heidelberg 1925, p. 188.
68
Storia della lingua italiana
mente i vocaboli hanno subito ci obbligano a considerarli di tradizione
ininterrotta; ma d’altra parte il riscontro con fiaba e tegghia (poi teglia )
mostra che si sono avute anche forme popolari sincopate. La spiegazio-
ne più probabile è che si siano avute due tradizioni parallele, una
«superiore», più strettamente governata dalla tradizione latina e
perciò più aliena dalla sincope, e l’altra «inferiore», più incline ad
accogliere innovazioni provenienti dalla Francia e dall’Italia settentrio-
nale 50 . Mentre in Toscana non sono percettibili tracce sicure di
metafonia, il fenomeno è largamente rappresentato nel resto d’Italia,
ed è probabile che abbia avuto la sua parte nelle origini del dittonga-
mento.
Il dittongamento diÉinieedioin uo in sillaba libera appare nel
sec. Vili: anche se è incerto un quocho in una carta lucchese del 761
(Cod. dipi. Long., II, p. 75), che potrebbe essere una semplice metatesi
grafica individuale, abbiamo nello stesso testo il toponimo Quosa. Più
tardo e indubbio è Yaqua buona di un documento lucchese del 983 51 .
Varie e contrastanti spiegazioni sono state date per l’origine del
dittongamento, e per la formazione delle vocali miste u ed ó nei dialetti
dal Piemonte all’Emilia: fenomeni che si svolgono in un quadro storico
e geografico così vasto (non si può evidentemente prescindere da ciò
che è avvenuto in Francia e negli altri territori romanzi) possono sì
essere dovuti ad influenze di sostrato o di superstrato, ma non
esercitatesi immediatamente, bensì attraverso alterazioni e successivi
riassestamenti di tutto il sistema vocalico 52 .
Nel vocalismo atono, ricordiamo la tendenza al passaggio di e
protonica a i, a cui si deve la nascita della preposizione di: di una
parte... et di alia parte, Chiusi 746-747 (Cod. dipi. Long., I, p. 266);
Wiliplerì di Lunata, Lucca 752 (Cod. dipi. Long., I, p. 304).
Nel consonantismo, l’intacco di ce, ci, ge, gì, probabilmente già
assai avanzato agli inizi del nostro periodo, dà origine ad affricate
sibilanti nell’Italia settentrionale, ad affricate palatali in Toscana e
nell’Italia centro-meridionale.
La sonorizzazione delle consonanti intervocaliche si manifesta
proprio nel periodo che stiamo studiando, in pieno nell Italia settentrio-
nale, limi tatamente ad alcune parole in Toscana. L idea parziale che ce
ne formiamo attraverso i documenti 53 , integrata dall odierna distribu-
zione geografica, permette di vedere il rapido espandersi del fenomeno
60 Anche tavola sarà di strato superiore. Cfr. anche la coppia persica / pe sca .
Conte sarà, forma indigena o sarà stato promosso dalla sincope francese? (cfr.
còmito nelle città marittime: es. nel Rezasco, s. v.).
51 Castellani, in St. filol. it., XII, 1954, pp. 12-16.
52 Sul problema del dittongamento, che è uno dei più importanti e dibattuti
della linguistica romanza, v. da ultimo F. SchOrr, «La diphtongaison romane», in
Revue ling. rom., XX, 1956, pp. 107-144 e 161-248. .
53 P. es. troviamo nel Cod . dipi. Long.: constitudus , habidare , Treviso 710 U, p.
36, p. 38); Aredino ecc. nel più volte citato Breve de inquisitione, Siena 715 CI, p. 69);
eglesia, sagrosancto, Lucca 700 (I, pp. 31-32); segreta, Lucca 713 Q, p. 44), ecc.
Tra il latino e l'italiano
69
nell’I talia settentrionale, e le forti infiltrazioni in Toscana, poi in parte
riassorbite. Fattori di geografia politica (Lucca centro longobardo in
stretti rapporti con Pavia) 54 e di geografia del traffico (influenza dei
, Com bini e dei Transpadani) 55 spiegano questa spinta dal settentrione
sulla Toscana: l’equilibrio raggiunto tra il filone conservativo e quello
innovativo ci fa di nuovo pensare alla possibilità di una doppia
tradizione, in due strati socialmente sovrapposti.
I gruppi con l (pl, bl, tl, cl, gl) subiscono nella parlata italiana
un’alterazione più forte che nelle altre parlate neolatine. Gli inizi
dell’alterazione per l’Italia centrale debbono risalire- assai indietro 56 ,
certo molto più che nei documenti 57 .
Nei gruppi con i consonante (nj, rj ecc.) l’alterazione è pure assai
antica: troviamo vigna presso Lucca nel 773, e la differenziazione del
tipo toscano e umbro -aio, -oio dal settentrionale e meridionale -aro,
-oro si ha almeno fin dall’ottavo secolo 58 .
12. Mutamenti morfologici
Soffermiamoci un momento sui principali fenomeni morfologici.
Abbiamo visto che l’affievolimento e la scomparsa della categoria del
neutro nella lingua parlata sono da collocarsi in età imperiale: la
lingua parlata e la lingua cancelleresca applicano poi secondo varie
spinte analogiche le desinenze rimaste disponibili. Mentre nel singola-
re non si hanno ripercussioni apprezzabili 59 , al plurale le desinenze -a e
-ora (con la variante -oras, certo puramente grafica) si estendono molto:
come si sa, il tipo le mura è tuttora vivo in un buon numero di vocaboli,
mentre il tipo domora, ortora, tectora 60 è quasi morto 01 .
Per i plurali dei maschili e dei femminili, il toscano si orienta verso
le forme nominativali -i ed - e ; ma nel Settentrione le tracce di plurali in
-s persistono a lungo 82 .
04 P. Fiorelli, in Convivium, 1951, pp. 575-576.
“ G. Serra in Riv. di studi liguri, XVII, 1951, pp. 226-228.
“ I gruppi cl e gl subiscono l’intacco anche in romeno: chiae, chele da clave,
ghindà da glande.
67 Una glossa colurn conoclea, che accenna a palatalizzazione, è nel Cod.
Cassin. 90, del sec. X (C. Gloss. Lat., V, 565, 57). Troviamo Santa Maria inter piano,
anno 799, nel Cod. dipi, cavense-, Trespiano a Firenze nel 967, ecc. Cfr. Castellani,
in St. fil. it., XII, 1954, p. 19. Nell’Italia settentrionale il fenomeno è certamente
assai più tardo.
58 Si ha Satoiano in ima carta lucchese del 761, ecc. (Castellani, in St. filol. it.,
XII, 1954, p. 18).
“ Non importava che os diventasse ossum oppure ossus (come si legge
nell’editto di Rotali, § 47).
80 Aebischer, in Arch. lat. m. aevi. Vili, 1933, pp. 5-76, IX, 1934, pp. 26-36; su
cibora in Anthimus (De observ. ciborum 23) e rivora nelle Casae litterarum, v. A.
Josephson, Casae litterarum, Upsala 1950, pp. 151-153.
01 Rohlfs, Hist. Gramm., II, pp. 57-61.
02 W. v. Wartburg, Ausgliederung, pp. 26-31.
70
Stona della lingua italiana
L’influenza della declinazione debole germanica è sensibile nell’an-
troponimia: si ha non solo Gudoloni, Gaidoni, ecc., ma Ursoni, Loponi,
Iustoni, PetronUs), ecc. All’infuori dell’onomastica 1 influenza è ben
scarsa, e va a confondersi con quella del tipo latino glutto -onis.
Influenze germaniche e latine convergono pure nella formazione
del tipo -a -ane, in nomi maschili (per es. scrìvaneis ) nell’Editto di Rotari,
c. 8, da cui scrìvano) e femminili (p. es. mammana, ecc.) 63 .
L’indebolimento del dimostrativo e del numerale uno ad articoli si
svolge attraverso un lungo processo, il quale s’inizia negli scrittori
cristiani e continua per più secoli.
Per il determinativo, l’area settentrionale e centrale ha ille Ulta
aetema vita quod nobis Dominus preparare poteest, Gricciano di Lucca
755-, illu ortu ad ilio flou subtus casa mea, Chiusi 774-, e ormai in forma
moderna rio qui dicitur la Cercle, Lucca 779), mentre nell Italia meridio-
nale, dalle Marche alla Sicilia, si ha un’area di ipse, che però non arriva
a vere e proprie funzioni di articolo, e finisce con l’essere sopraffatto da
Pure nel secolo Vili è pienamente formato 1 articolo indeterminati-
vo (presbiterum suum posuit unum infantulo, Siena 715: Cod. dipi.
Long., I, p. 70; et infra ipsa temila est uno pero, Pisa 730: Cod. dipi. Long.,
I, p. 150). , , .
Appaiono ora anche lui, lei, loro-, mentre il caos di forme (qui, quem,
quod, quid, que ) che troviamo nelle scritture per il pronome relativo
mostra che ormai che serve nell’uso parlato per tutti ì generi e numeri.
Anche la flessione verbale procede in questi secoli rapidamente
verso il tipo moderno. Ecco forme come somo (Lucca 700) ed essere
(Lucca 822), o ffertum (Lucca 685) e vinduta (Lucca 754). L estendersi
analogico dà dedi per la formazione del passato remoto può essere
esemplificato con battederit GLiutprando, Leg., § 123). Lo spostamento di
significato dei tempi storici (il piucchepperfetto fuissem che diventa
fosse, con valore d’imperfetto), può essere esemplificato da «si aberet
credentes homines, qui causa ipsa scirent, et ausi fuisserunt iurare a
Dei evangelie, quod ita sic fuisset veritas, ad non?» (Lucca 892: Mem. e
doc., IV, il, p. 631 85 . . _ ,
Stentano ad apparire nella scrittura le nuove forme del futuro
(formate, come nelle altre lingue romanze occidentali, dall’infinito
seguito da habe o) e del condizionale (infinito + habui, *hebui nell Italia
settentrionale, infinito + habebam nell’Italia meridionale), ma un passo
come quello citato (p. 59) delle leggi di Liutprando, si non eum ferìvens
ego te ferire habe o, è trasparente.
La formazione dei tempi composti per mezzo di avere ridotto a
semplice ausiliare, è ormai normale: a quo tempore ex quo auditum
63 Rohlfs, Hist. Cramm., II, pp. 36-38; sul plurale, pp. 61-62.
M Aebischer, Cult, neol., Vili, 1948, pp. 181-203.
65 Cfr. anche la discussione di Gamillscheg, Tempuslehre , pp. 217-219.
Tra il latino e Vitaliano 71
habetìs, S. Genesio 715 (Cod. dipi. Long., I, p. 83); si neglectum non
habuisset (Liutpr., legge del 733); si quis Langobardus habet comparatas
terras in Liburìa, 780 (Bluhme, Leges, p. 181); lumina oculorum amissa
habeo (Agnello Ravennate, p. 371); non adimpletum abetis, Lucca 871
(Mem. e doc., TV, ii, p. 53), ecc.
E anche la formazione del passivo analitico con esse è diventata
normale: iram Dei incurrat et in Tartarum sit consumptus, Pistoia 767
(Cod. dipi. Long., II, p. 211).
Nel sistema delle preposizioni italiane, ha acquistato una propria
fisionomia do, che nel suo principale significato, quello di provenienza,
risale a de ab 69 . Il primo esempio nei documenti è (per ora) un passo di
una carta lucchese dell’anno 700: «neque subtragendum do vos hoc
ipse ecclesie» (Cod. dipi. Long., I, p. 31) 67 .
I problemi sintattici meriterebbero ampio esame: dobbiamo qui
limitarci a ricordare che la costruzione dell’accusativo con l’infinito, la
quale già nella Vulgata e negli scrittori cristiani tende largamente a far
posto a costruzioni con quia, quod, quomodo, si riduce a pochi tipi (il
tipo far fare, i verbi di percezione: vedo fare, odo dire).
13 . La derivazione
Nel campo della derivazione ricordiamo la fortuna di alcuni tipi.
Per la mozione, specialmente dei nomi che hanno funzione di titoli, si
adopera - isso : abbatissa, comitissa, ducissa, italiano badessa, ecc.
Vengono a formare nuovi aggettivi i suffissi -esco e -ingo (-erigo). Il
primo risale principalmente a -isk germanico, e lo troviamo applicato a
nomi comuni, a nomi di persona, a nomi di luogo, a nomi etnici:
warcinisca facere «fare delle giornate di lavoro obbligatorio» in un
documento amiatino di Toscanella del 736 (Cod. dipi. Long., I, p:.180),
cobalti Maurisci in un’epistola di papa Leone III, utiles et optimos
Maurìscos in una di Giovanni Vili (Ducange), fine Bulgarìsca in
documenti ravennati del sec. Vili (Fantuzzi), fontana Warcinisca in Val
di Susa nell’814, prehensa Gardonesca a Verona nell’844 (Cod. dipi.
Veron., p. 251), ecc. 68 .
La terminazione -ingo -erigo ha lasciato forti tracce nella toponoma-
stica settentrionale, e la documentazione è antica e vastissima 68 ; per la
Toscana, benché la documentazione cominci un po’ tardi, è frequente il
88 Le forme de ab e dab sono attestate non di rado: citiamo solo de ab unam
partem delle Casae litterarum, V. 5, cod. C: cfr. Josephson, cit., pp. 206-208.
67 Altri esempi, dal 710 in poi, cita P. Aebischer, Cult, neol., XI, 1951, pp. 5-23
Sull’etimo di da da de ab v. da ultimo De Felice, St. fil. it., XII, 1954, pp. 248-255.
88 W. Bruckner, Die Sprache der Langobarden, cit., p. 333, G. Serra, Contributo
toponomastico alla teoria della continuità nel Medioevo delle comunità rurali, Cluj
1931, p. 39 e 244-247.
85 J. Jud in Donum natalicium Jaberg, Zurigo 1937, pp. 162-192.
72
Storia della lingua italiana
tipo terra Rolandinga (Lucca 999, Mem., V, n, pp. 612-613) 70 . Anche 1
wardingus, gardingus «capo del presidio militare» in varie città sarà J
gotico, benché il primo documento in cui la parola è attestata sia del 1
1133 71 . I
Il suffisso - ardo , che appare più tardi, è certo dovuto all’influenza 1
francese. j
Si diffondono i composti imperativali del tipo portabandiera-, abbia- \
mo già visto il soprannome Suplainpunio di un vassallo di Val |
Lagarina (anno 845F.
Accanto a questi procedimenti derivativi e compositivi, si continua- i
no a coniare vocaboli con i mezzi già in uso nella latinità parlata :
dell’età imperiale: formazioni di sostantivi da participi (p. es. ferita, ì
nelle leggi di Liutprando; offerta, Lucca 892, ecc.), di verbi da sostantivi ]
ecc. jj
Si continuano a coniare diminutivi, che poi non di rado sono :
arrivati a imporsi soppiantando i loro primitivi: avo, frate, suora, vetere t
sussistono in aree ristrette, o in significati speciali, mentre i rispettivi J
diminutivi avolo, fratello, sorella, vecchio (da vetulus, veclus) hanno la |
meglio 73 .
14. Mutamenti semantici
Tra gli innumerevoli mutamenti avvenuti nei significati delle parole j
ereditarie in questo mezzo millennio, alcuni sono owii, cioè tali che \
potrebbero accadere in qualsiasi tempo e luogo (p. es. testimonium che |
passa dal significato di «testimonianza» a quello di «teste»).
Maggiore attenzione meritano quelli che avvengono in correlazione j
con la vita di questi secoli. Ecco alcuni mutamenti dovuti alla vita :
religiosa: cella che viene ad indicare «cella monastica» e «convento», J
caritas che prende il significato di «opera di carità», «elemosina» (come |
già elemosina, eleemosyne l’aveva preso precedentemente-, Tertulliano J
ecc.; elemosinae opera caritatis sunt: Leone Magno). Il nuovo significato J
di «pellegrino» preso da peregrinus «straniero» mostra il frequente J
passaggio di stranieri in qualità di pellegrini. Cappella è in origine, |
com’è noto, ima voce della latinità franca (l’oratorio del palazzo dei re 4
70 Aebischer, Zeitschr. rom. Phil., LXI, pp. 114-121; Rohlfs, Arch. St. n. Spr., I
CLXXXI, p. 67. |
71 Davidsohn, Geschichte von Florenz, I, Berlino 1896, p. 68 e 866; cfr. Pisani, in 1
Studi... Monteverdi, II, Roma 1959, pp. 610-6U. J
72 Invece il Garibaldus qui dicitur Tosabarba di un documento cremonese del |
723 non serve, perché il documento è falsificato (Schiaparelli, Cod. dipi. Long., I, p. :1
U6). !
73 Avolus si ha già in Venanzio Fortunato come cognomen gallico (Thes. , s. v.l; 1
fratellus fa la sua apparizione anzitutto come nome proprio o come soprannome, |
nel sec. Vili (Aebischer, in Zeitschr. rom. Phil., LVII, p. 257). J
Tra il latino e l’italiano
73
franchi dove si conserva la cappa di S. Martino), poi estesasi per
influenza cancelleresca.
La vita sociale nelle sue forme politiche, amministrative, giuridiche,
ha pure ampi riflessi. Si pensi, p. es., alla storia del titolo di dux (nella
forma ereditaria doge e in quella grecizzante duca), in cui si riassumo-
no secolari vicende del potere civile e militare. Curtis e massa prendono
il nuovo significato di «grande possesso terriero» (da cui massarius,
massaricia ). Angaria diviene uno dei nomi delle prestazioni d’opera
dovute non più allo stato, ma a signori privati. Sclavus, che aveva il
significato etnico di «Slavo», prende anche quello di «schiavo» in
conseguenza delle campagne degli Ottoni contro gli Slavi (sec. X), le
quali ne trassero parecchi in servitù.
Fra le parole che si riferiscono alla casa e alla città ricordiamo
pensile, che dovè in origine indicare il pavimento sotto cui erano gli
appositi impianti di riscaldamento G balneae pensiles, Valerio Mass.,
Macrobio; Seneca parla di suspensurae balneorum ): la parola è docu-
mentata nelle leggi longobarde nel significato di «gineceo» («ipsam in
curte ducere et in pisele inter ancillas statuere»: Ed. Rothari, 221); la
troviamo in forma longobardizzata nella toponomastica urbana di
Lucca 74 , e tuttora sopravvive in alcuni dialetti dell’Italia centrale (oltre
che nel francese poèleY. abruzz. pesèlè, ecc. [REW 6392).
Il latino classis «sezione» prende il significato di «vicolo»: in un
documento di Lucca del 769 leggiamo «qui capu tene et lato in classo,
alio capu in via» (Cod. dipi. Long., II, p. 276), e nel toscano sopravvivono
chiasso e chiassuolo.
A un costume non bene chiarito nei suoi particolari si riferisce la
voce settentrionale toso, tosa «ragazzo, ragazza», da tonsus, tonsa «coi
capelli tagliati» 75 .
15. Influenza del latino medievale
Numerose, come già abbiamo accennato (§ 7), sono le interferenze
fra la trasmissione orale e la latinità scritta del Medioevo.
Non è questo il luogo per parlare dei caratteri del lessico di questa
latinità, tanto varia, del resto, secondo i vari scrittori. Alla componente
classica e a quella cristiana s’aggiungono numerosi vocaboli d’origine
germanica, specialmente per istituti giuridici. Ma, col mutare delle
istituzioni, anche termini abbondantemente attestati nei documenti
(per es. aldius o aidio, aidia o aldiana, aldiaricius, ecc.) spariscono del
tutto.
La penetrazione nella lingua scritta di voci della lingua parlata è
quasi sempre legata alla maggiore o minore cultura dei singoli
individui: quanto meno profonda è l’istruzione ricevuta, più è facile che
74 F. Schneider, Die Reichsverwaltung in der Toscana, I, Roma, 1914, p. 222.
75 J. Pauli, Enfant, garpon, fille, Lund 1919, pp. 260-268
74
Storia della lingua italiana
i volgarismi penetrino. E anche a scrittori discreti può capitare di tanto |
in tanto di usare un vocabolo volgare: quando Agnello Ravennate I
scrive «aereum vasculum, quod vulgo siclurn vocamus » (330, 20) J
possiamo solo dire che egli ignorava il latino situla (o non si rendeva 1
conto dell’identità delle due parole). |
Viceversa per parecchie voci dobbiamo pensare che esse siano I
penetrate nella lingua parlata dopo essere state accolte nella lingua |
scritta e per influenza di questa. La storia di parole come papa, riferito |
prevalentemente, a partire dal VI secolo, al pontefice romano, o di ,
cappella, o di forestis non si spiegherebbe se accanto alla tradizione {j
orale non fosse esistito un filone scritto, saldamente appoggiato alle J
cancellerie e ai notai. I
16. Gli elementi germanici
A chi si accinga ad esaminare, con l’aiuto delle indagini già
compiute in questo campo 76 , gli elementi germanici entrati in questi
secoli nel lessico italiano, il primo problema che si pone è a quale strato
attribuirli, fra i quattro che si possono fissare: se ai contatti tra Romani
e Germani prima della caduta dell’Impero (strato paleogermanico), o !
allo strato gotico (ed eventualmente èrulo), o allo strato longobardo, o a
quello franco.
I criteri che possono essere utilizzati sono raramente diretti da testi-
monianza d’uno scrittore), per lo più indiretti da cronologia dell’appari-
zione del vocabolo; l’area in cui la voce si adoperava anticamente o si
adopera oggi; peculiarità fonologiche o morfologiche attribuibili a una
lingua piuttosto che a un’altra; indizi di carattere semantico).
17. Distinzione dei vari strati germanici
II criterio dell’area (possibilmente dell’area antica, o anche, se
mancano notizie antiche, di quella moderna) è particolarmente utile
per le voci gotiche e per quelle longobarde.
Quando si ha un’espansione panromanza, non sempre è facile dire
se si tratti di voci paleogermaniche, o di voci gotiche penetrate in latino
79 Si consulterà, specialmente la Romania Germanica del Gamillsctieg, Berli- ;
no-Lipsia 1934-36, che, malgrado qualche grossa svista, è ormai l’opera fondamen-
tale in questo campo. In parte sorpassati, ma tuttora utili, sono gli studi deh
Bruckner, Die Sprache der Longobarden, cit., Id., Charakteristik dergerm. Elemento
im Italienischen, Basilea 1899, e il repertorio del Bertoni (L’elemento germanico
nella lingua italiana , Genova 1914, da integrarsi con la bella recensione del;
Bartoli, Giom. stor ■„ LXVI, 1915, pp. 165-182, e le numerose correzioni del Salvioni,
Rend. Ist. Lomb., XLIX, 1916, pp. 1011-1067). Utili anche gli articoli del Gamillscheg,!
«Zur Geschichte der german. Lehnwòrter des Italienischen», in Zeitschr. fùr
Volkskunde, X, 1939, pp. 89-120, e del Rohlfs, « Germanisches Spracherbe in der
Romania», nei Sitzungsber. der Bayer. Ak. der Wiss., 1944-46, n. 8. ■
Tra il latino e l'italiano
75
volgare al principio del quinto secolo, oppure di voci diffusesi posterior-
mente da un paese all’altro, specie per influenza della civiltà franca.
Mentre il Brùch (Der Einfluss der germ. Sprachen aufdas Vulgàrlatein,
Heildelberg 1913) attribuiva a influenza paleogermanica un centinaio
di voci, il Bartoli (Giom. stor., LXVI, p. 169) tendeva a ridurle di molto, e
sì e no ima ventina pensa che fossero il Gamillscheg. Il principale
argomento per negare la loro alta antichità è la mancanza di esse nel
sardo e nel romeno.
È probabile che siano gotiche quelle voci che si trovano, oltre che in
Italia, nella Francia meridionale e nella penisola Iberica: il Gamil-
lscheg cerca di distinguere il gruppo di voci diffuse dai Visigoti, i quali
si erano già molto romanizzati al tempo della loro espansione in
Occidente (sec. V), quando ancora esisteva nell'Impero una notevole
circolazione linguistica, dal gruppo di voci ostrogote, di area soltanto
italiana.
. Le voci importate dai Longobardi sono pur esse di area soltanto
italiana, ma le figure areali che esse presentano sono molto varie.
Alcune, come schiena (v. la cartina in Gamillscheg, Rom. Germ., II,
p. 176), gramo, spaccare hanno un’area assai vasta; ma le più hanno
un ’area ristretta: o sono penetrate solo nei dialetti settentrionali (per
es. braida, brera «prato», broivìar «scottare», godazzo «padrino», stoa
«cavalla» ecc.), o hanno un’area limitata alla Toscana o a qualche
parte di essa (bica , chiazzare, chionzo, federa, gruccia, lonzo, russare,
somacare, strozza, tónfanoì, oppure si trovano in aree più o meno vaste
dellTtàlia settentrionale e nella Toscana (tuffare, ecc.), o ancora vivono
in territori più o meno ampi dell’Italia mediana o meridionale (lèfa,
lecca «femmina del cinghiale», luffo, uffo «fianco», sinaita, finaita
«confine», gafio «pianerottolo», ecc.).
Tuttavia non bisogna dimenticare che la distribuzione areale
odierna può essere dovuta a rimaneggiamenti avvenuti nell’ultimo
millennio. Può darsi il caso che l’area antica si sia ristretta (si sa p. es.
che sinaita si trova in antichi documenti lombardi e emiliani, mentre
oggi non se ne hanno tracce che nei dialetti meridionali), o che la
parola rimanga solo in qualche toponimo, o sia addirittura sparita.
Viceversa altre parole hanno guadagnato terreno, o per espansione in
territori contigui (sono dovute a tale fenomeno piuttosto che a influen-
za germanica immediata, le parole di origine germanica che troviamo
nei dialetti liguri e romagnoli, cioè in territori che non appartennero
mai ai Longobardi) o per il prestigio che ha loro conferito Tesser
entrate nella lingua letteraria. Purtroppo solo in un ristretto numero di
casi il restringersi o l’espandersi delle aree si può individuare con
qualche esattezza-, sappiamo p. es. che la voce bèga, di origine gotica, si
espande in Toscana e a Roma (sotto la forma bèga ) dall’Italia setten-
trionale o dall’Umbria, solo relativamente tardi (si ha sì un esempio
trecentesco nelle Memorie di Ser Naddo da Montecatini, ma poi non
troviamo la parola fino al Seicento).
Alcune volte l’appartenenza all’uno o all’altro strato germanico si
76
Storia della lingua italiana
può stabilire per mezzo di indizi tratti dalla fonologia o dalla morfolo- ]
già dei singoli vocaboli 77 . I
Così, per il vocalismo, bara e strale si riconoscono come voci 1
probabilmente longobarde, perché, se fossero gotiche, non avrebbero a I
ma e-, viceversa bega è voce gotica-, federa e snello debbono essere voci 1
longobarde per la loro vocale aperta, e schermo, scherno, stormo per la ]
loro vocale chiusa. I
Per il consonantismo, non possono essere che voci longobarde (o I
eventualmente voci alto-tedesche, di più recente importazione) le |
parole che presentano la seconda mutazione consonantica: panca, J
palla (di contro a banca, balla), zazzera, zolla (di contro a tattera, tolla). f
Altre volte l’attribuzione ad una piuttosto che ad un’altra lingua J
germanica può trovare un appoggio in criteri semantici: mentre 1
trescare nel senso rustico di «trebbiare» è di origine gotica, nel senso di |
«ballare» (cfr. trescone ) proviene dal franco. E così sala è voce i
longobarda nel significato di «casa di campagna con stalla» che J
troviamo nella toponomastica lombarda, veneta e toscana, mentre nel
significato di «stanza» è stato importato al tempo dei Franchi. Stormo j
«moltitudine, mischia» è talmente staccato da stormire «far rumore» 1
che si può pensare a due vie diverse di penetrazione. J
Non c’è ragione, tuttavia, che si debba cercare esclusivamente in f
una lingua la provenienza di un dato vocabolo: può darsi benissimo ì
che la penetrazione cominciasse sotto la spinta di una delle lingue |
germaniche, e continuasse poi per l’influenza d’un’altra: così probabil- \
mente è avvenuto per ricco, spiedo, tregua, per cui si distinguono fasi |
successive di penetrazione. i
Se ci domandiamo per quale motivo si sentisse l’opportunità di |
ricorrere a vocaboli germanici, accogliendoli nel lessico, vedremo che f
spesso si è ricorsi alle parole barbariche per esprimere nozioni nuove |
(o che per qualche aspetto sembravano nuove). Così l’uso di recipienti f
rivestiti di vimini o di sala, recipienti indicati con il nome germanico di 1
*flasko, *flaska (della stessa famiglia del ted. flechten «intrecciare») è la j
causa dell’importazione di fiasco, fiasca. L’usanza germanica di fissare ì
dei sedili tutt’intomo alle stanze d’abitazione spinge ad accogliere j
banca, panca. La lesina germanica probabilmente era di forma un po’ ;
diversa dalla subula latina. L’uso della staffa è introdotto dai Germani ;
Le insegne di guerra mutano radica lm ente nei secoli, e quelle che i |
popoli germanici adoperavano per indicare il luogo della raccolta di i
una «banda» e vincolarne l’onore spiegano l’introduzione di nuovi \
vocaboli: «vexillum quod bandum appellant», Paolo Diac., Hist. Lang., 1
I, 20 (poi in forma frane, ant. bandiera ; cfr. p. 159).
Altra volta rintroduzione di nuovi vocaboli germanici è dovuta i
principalmente a qualche motivo che rendeva insufficiente, o in ì
qualche modo disadatta, la voce latina: la parola di origine longobarda j
77 Si veda principalmente la Charakteristik cit. del Bruckner.
Tra il latino e l’italiano
77
spaccare s’impone a spese di findere, che era irregolare nelle forme e
troppo astratto e scolorito nel significato. Dos, dotis, astratto, muore,
sopraffatto da corredo e scherpa più concreti.
Molte parole germaniche tuttavia, dopo esser riuscite a penetrare
più o meno largamente nell’uso, vennero più tardi eliminate. Avviene
sempre che, quando un popolo che aveva avuto il predominio lo perde,
molte delle parole che esso aveva imposte tramontino: così molti degli
arabismi penetrati nello spagnolo durante il Medioevo spariscono dopo
cessato il dominio arabo, gli «austriacismi» ottocenteschi del Lombar-
do-Veneto sono quasi tutti dimenticati, ecc.
I nomi delle istituzioni giuridiche quasi tutti scompaiono: che faida
o guidrigildo appartengano tuttora al nostro lessico storico non
implica sopravvivenza nell’uso, mà soltanto conoscenza storica da
parte dei giuristi. Alcuni nomi di cariche mal sopravvivono, degradati,
in qualche dialetto 78 .
C’è poi da tener conto di quella particolare forma di sopravvivenza
che è la toponomastica: il nome degli sculdasci e dei territori loro
sottoposti, le sculdasce, è sparito nell’uso, ma sopravvivono toponimi
come Casale di Scodosia (Padova) e, alterato dall’etimologia popolare,
Scaldasole (Pavia) 79 .
18 . Voci germaniche di età imperiale
Passiamo rapidamente in rassegna le principali voci germaniche
appartenenti ai vari strati successivi 80 .
Abbiamo già detto che le indagini recenti tendono a ridurre di molto
la lista delle voci germaniche che si possono credere entrate nel lessico
dal latino parlato prima della caduta dell’Impero. Quelle che gli
scrittori classici e tardi attestano, alces, urus, taxo, ganta, glesum,
firamea , ecc. 81 sono in gran parte voci adoperate per descrivere gli
animai', le cose, i costumi dei paesi nordici, cioè a scopo di color locale.
Le pochissime parole che hanno preso radice nella tradizione sono
martora, tasso, vanga, bragia, sapone (sapo -onis è voce mutuata al
germanico attraverso la Gallia; in origine indicava la sostanza che
dava un color rosso ai capelli; più tardi «sapone»); tufazzolo (derivato
di un tufa che Vegezio ci attesta nel significato di «ciuffo, ornamento
dell’elmo»); arpa (strumento musicale dei Germani, secondo la testimo-
nianza di Venanzio Fortunato: «Eomanus lyra plaudat tibi, Barbarus
harpa»).
78 Migliorini, Lingua e cultura, p. 24 (su gastaldius, duddus, scafardus).
79 I?. Olivieri, Saggio di una illustrazione gen. della topon. veneta. Città di
Castello 1914, pp. 344-345; Id., Dizion. di topon. lombarda, Milano 1931, p. 497.
80 Lasciamo di solito da parte quelle che vivono solo in aree ristrette, e non
hanno riscóntro nella lingua nazionale. Chi cerchi notizie particolari sulle singole
parole, dovrà ricorrere anzitutto al Gamillscheg.
81 Brùch, Einfluss, cit., pp. 14-18.
78
Stona della lingua italiana
Meno certo è che risalgano al periodo più antico stalla, roba e
rubare, fresco, lesina, smarrire. Anche più dubbio è il caso di borgo,
perché il burgus «castellino parvulum» di Vegezio non è probabilmente
voce germanica, ma il greco nópyoi; 82 .
Né sappiamo se appartenga a questo primo strato (o se sia una più
tarda espansione di età carolingia) la voce werra (guerra ) invece di
bellum. La sostituzione ci mostra il prevalere del disordinato modo di
combattere dei Germani sull’ordinato bellum dei Romani: werra si
connette con l’ant. alto ted. (fìrVwèrran «avviluppare»; e quindi significa
etimologicamente «mischia» 83 .
19. Voci gotiche
Fra le voci gotiche 84 ricordiamo anzitutto quelle che, sopravvissute
oltre che in Italia, nelle Gallie e nella penisola Iberica, sono probabil-
mente dovute ai Visigoti, e hanno avuto ancora il tempo di diffondersi
nella tarda latinità prima che la Romània si spezzasse (ma potrebbero
anche essere state possedute in comune da Visigoti e Ostrogoti, e
trasmesse dagli uni e dagli altri alle rispettive popolazioni conviventi).
Abbiamo alcune voci militari come bando (e banda), guardia (e
guardiano), elmo; anche arredare, corredare, albergo (da hari-bergo
«rifugio dell’esercito») appartengono a questa serie.
Agli attrezzi domestici si riferiscono (n)aspo, rocca, spola.
Il termine di schiatta è un segno dell’importanza del vincolo di
parentela fra i Germani. La presenza di verbi e di aggettivi mostra
quanto stretti fossero i contatti fra Germani e Romani: recare, smaga-
re 85 ; ranco (da cui arrancare), guercio, schietto.
Veniamo poi alle voci di origine gotica, ma di area soltanto italiana,
e quindi portate presumibilmente dagli Ostrogoti. Non parola di
guerra, ma segno di convivenza difficile è bega. Alla vita sociale si
riferisce arenga «luogo di adunanza».
Per l’abitazione e gli attrezzi abbiamo lobbia, stia; fiasco (fiasca ),
82 Brùch, Einfluss, cit. p. 17; Gamillscheg, Rom. Germ., I, p. 35.
83 F. Klugc { Urgermanisch , Strasburgo 1913, p. 13) aveva ritenuto di età
paleogermanica i numerosi aggettivi di colore entrati nelle lingue romanze
(biavo, biondo, bruno, falbo, grigio), riferendosi al passo di Tacito ( Germania , 6>.
«scuta lectissimis coloribus distinguunt». Il Wartburg C Entstehung, p. 83) pensa
(per bianco, bruno, grigio, falbo ) all’importanza dei Germani nella cavalleria
imperiale. Altri riportano questi aggettivi a età più recenti, talvolta persino
troppo: il Rohlfs (Germ. Spracherbe, cit., pp. 15-16) ritiene bianco di provenienza
franca, ma non va dimenticato che già in età longobarda troviamo un « Bianco
cum filio suo Ursicino» in Garfagnana (Campori 716, in Cod. dipi. Long., II, p. 64).
84 Oltre agli scrittori citati nella nota di p. 74, v. Battisti, «L’elemento gotico
nella toponomastica e nel lessico italiano», nel voi. 1 Goti in Occidente, Spoleto
1956, pp. 621-649.
85 Anche l’applicazione di prefissi latini a verbi germanici, quale si vede
appunto in smagare, arredare, corredare è prova di stretta simbiosi linguistica.
Tra il latino e l'italiano
79
nastro, stanga (che potrebbe anche essere voce longobarda), stecca,
ebbio. Si riferisce al corpo umano, considerato senza benevolenza,
grinta. Riguardano le forme del suolo forra e (forse) greto.
* Non molti i verbi (citiamo astiare «litigare» e smaltire «lasciare
scorrere», «digerire») e gli aggettivi (sghembo ).
20. Voci longobarde
Le voci di origine longobarda costituiscono una serie notevolmente
più numerosa e importante delle altre due che abbiamo esaminate fin
^Ricordiamo anzitutto alcune voci di carattere militare: strale,
briccola, spalto. Di alcune voci (come non di rado accade) si è perduto il
significato milit are antico: lo spiedo non è più un'arma, ma un arnese di
cucina, il guattero o sguattero non più una «guardia» ( yvahtari , ted.
Wàchter) ma un «lavapiatti».
Un termine che pure in origine aveva designato presso i Longobardi
un progresso tecnico, stamberga, casa di pietre, o su base di pietre
(contrapposta alla primitiva casa di legno), è più tardi decaduto a
stamberga.
Alla struttura della casa si riferiscono pure il balco o palco (in
origine una «trave»), la banca o panca, la scranna, la scaffa (col
derivato scaffale), la rosta, all’arte stessa del costruire lo stucco.
Arnesi e utensili per varie attività domestiche e tecniche sono la
gruccia, la spranga, la greppia, il trogolo, lo zipolo, lo zaffo («tappo»), la
trappola, la palla. All’operazione del bucato allude la voce ranno.
Parecchi termini longobardi troviamo per designare parti del corpo
umano: guancia, schiena, nocca, milza, anca (e sciancato), stinco; e
parecchi altri ne troviamo più o meno diffusi nei dialetti magone, (buffo
«anca», zinna, zizza. Un certo numero implicano ima connotazione più
o meno spregiativa: ciuffo, zazzera, nappa «naso», sberleffo (genovese
lerfo «labbro» ecc.), grinza, zanna, strozza, grinfia. Probabilmente
longobardo è spanna. t
Q ual che nome di animale: lo stambecco, la taccola - e la zecca. L uso
del cavallo ha portato all’introduzione dei termini staffa, predella
«redine», guidalesco. E dal longobardo viene la caccia all’abborrìta.
Qualche termine si riferisce alle forme del suolo-, tónfano, melma,
zana; molti di più all’agricoltura: grumereccio, sterzo (dell’aratro), bica,
stóllo, trogolo, bara, forse anche riga-, molti altri ai boschi e all’utilizza-
zione della legna: gualdo, cafaggio (e gaggio), stecco, sprocco, zincone
«pollone», spaccare.
Sintomatico per farci conoscere le condizioni di vita dei Longobardi
prima di giungere in Italia è il termine schifo, che nelle altre lingue
germaniche indica la «nave», presso i Longobardi invece la «barchet-
ta» fluviale.
Ricordiamo due materie coloranti, la biacca e il guado (o erba
guada); e probabilmente longobardo è il color bianco (v. p. 78).
80
Storia della lingua italiana
Dei non pochi vocaboli longobardi indicanti cariche o professioni
ben pochi sono sopravvissuti, e per lo più decaduti-, oltre allo sguattero,
ricordiamo il castaido , lo scalco, lo sgherro, il manigoldo (risalga esso a
un antroponimo ovvero a una degradazione di mundualdo)
I verbi penetrati in italiano in piccola parte designano azioni
concrete, tecniche: ( imbastire , gualcare (più vago è il corradicale
gualcire), riddare, spaccare, strofinare, spruzzare . Altn uwece ^cano
uiù o meno affettivamente azioni quotidiane-, baruffare guermre,
graffiare ( arraffare , sbreccare, scherzare, tuffare, ecc. Oltre che russare,
abbiamo anche, in parte della Toscana, il sinonimo somacare i
Non molto numerosi gli astratti: smacco, scherno, tanfo, tonfo. E cosi
Dure eh aggettivi: gramo, ricco, stracco. ,
Non si dimentichi che in questa rapida elencazione abbiamo
considerato quasi esclusivamente le voci che sono penetrate (per lo piu
dXso toscano) nel lessico normale e che tuttora : sopra^ mvono se
avessimo considerato anche le voci dialettali e le voci uscite dall uso la
lista sarebbe stata assai più lunga.
21. Voci franche
Abbiamo già accennato alle principali difficoltà a cui si va incontro
nell’identificare i vocaboli franchi penetrati in Italia prima del Mille.
Anzitutto la scarsezza di indizi fonetici che ci permettano di distoglie-
re le voci franche da quelle paleogermamche o gohche: cosi è m^to
probabile, ma non sicuro, che guerra sia un vocaboio franco. Poi data
la forte romanizzazione dei Franchi giunti m Italia già in età ca o g a
(così che linguisticamente si deve trattare ormai quasi sempre non di
Franchi di lingua germanica, ma di Franchi paleofrancesi), rimane
l’incertezza sul periodo in cui molti vocaboli sono penetrati: età,
carolingia o età cavalleresca. Infine per il fatto che l’influenza linguisti-
ca franca e paleofrancese è dovuta molto piu al prestigio po -
culturale che a immigrazione di persone, parecchie voltebisogn
tener conto (sia per le parole di origine germanica che per quelle di
origine romanza) del tramite deha lingua scritta, il latino medievale.
Alcune volte si può risalire con la documentazione delle carte
medievali al nono o al decimo secolo: così si può seguire abbastanza
bene l’espansione di bosco e di foresta, a spese di selva e del longobar o
caf ag a io o gaggio: bosco è probabilmente voce franca, su foresta
permangono molti dubbi (forse il lat. cancelleresco forestis e un
der a a piaSrebbe poter dar qui una lista di francesismi giunti in Italia
prima del Mille, sceverandoli tra quelh che elencheremo nel ^pitolo
IV ma poiché una tal lista conterebbe troppi punti interrogato,
preferiamo restringere il nostro elenco a quelle voci di origine germani-
ca ner le quah l’antica importazione sia piu probabile.
Ecco alcune voci militari-, baratta «lite», battifredo, dardo, galopp ,
Tra il latino e l'italiano
81
gonfalone, guaita e guastare, guarnire, guardare, schiera e tregua
(probabilmente penetrato sotto la forma cancelleresca), usbergo.
Per ciò che concerne l’abbigliamento abbiamo cotta e guanto, pure
penetrati in forma latinizzata: guanto è già testimoniato da Iona di
Bobbio IVita Columbani, c. 14) come parola franca-, «tegumenta ma-
nuum, quos Galli wantos, i. e. chirothecas, vocant, quos ad operis
laborem solitus erat habere», ma la parola si impone come termine
giuridico, perché il guanto è uno dei simboli del passaggio di proprietà.
Alle attività commerciali si riferiscono bargagnare «contrattare» e
sparagnare «risparmiare»; e anche guadagnare (che in origine significa-
va «pascolare»).
Giunge in Itaha con i Franchi tutta la terminologia feudale, di
origine assai composita e parzialmente incerta: feudo, barone, ligio (tre
termini di cui ancora si discute se siano o no di origine germanica),
vassallo (di origine celtica), ecc. Altri termini riferentisi alla vita pohtica
e sociale sono marca, scabino, guarento e guarentire (molto più tardi,
con due alterazioni fonetiche dovute a ulteriore influenza francese,
garantire ), guiderdone, e anche abbandonare (che propriamente vuol
dire «lasciare in bando, alla mercé»).
Qualche altro verbo e alcuni astratti: grattare, guarire, trescare
(«ballare»); ardire, schifare e schivare ; orgoglio e rigoglio, senno.
Se non si può escludere che qualcuno di questi ultimi vocaboh
possa esser giunto più tardi, nell’età cavalleresca, sono certo antichi gh
avverbi troppo e guari.
22. Voci bizantine
Per le voci di provenienza greca, è spesso difficile dire se siano
penetrate nelle parlate itahane in questo periodo o nei secoh seguenti.
A distinguerle da quelle già accolte nella tarda latinità, spesso
servono criteri fonetici. Anzitutto l’accento: p. es. il tipo merid. pudìa di
contro a poggia «cavo per tirare l’antenna», i nomi Tòdero, Firpo, Elmo
di contro a Teodoro, Filippo, Erasmo, ecc. Poi l’itacismo di rj, p. es. in
bottiga, pontica da àitoCTpa), it. mer. canzirru «mulo» da xavi?7jXio<;; la
sonorizzazione dell’esplosiva nei gruppi vx, gir, diventati nd, mb, p. es.
in gondola, indivia, sardo condaghe, ecc.
Le vie di penetrazione, come si è detto (§ 6), sono varie; e a
identificarle spesso servono indizi geografici; parecchi vocaboh vivono
tuttora soltanto in territori un tempo bizantini (Esarcato; aree meridio-
nali, talvolta a contatto con quelle colonizzate da popolazioni greche).
Diamo un rapido elenco di quei grecismi che probabilmente risalgo-
no al periodo bizantino più remoto, senza escludere che qUalcuno
possa essere penetrato in Itaha nei secoh seguenti. Lasciamo di solito
da parte i vocaboh che si hanno soltanto in dialetti meridionali 88 .
89 Per essi si troveranno informazioni nell’JStym. Wórt. der unterital. Gràzitàt
del Rohlfs. Anche per le voci seguenti sottintendiamo per le voci che non hanno
altri richiami un rinvio al REW, al Rohlfs, al DEI .
82
Storia della lingua italiana
Per l’abitazione troviamo androne (it. sett. andrond), lastrico (propr.
«terrazzo fatto con cocci», gr. rà (o)a-rpaxa).
Fra gli oggetti domestici, ricordiamo mastra, matterà (nome della
«madia»), mastello”. Citiamo anche il nome della «nicchia con immagi-
ne sacra», che presenta nell’Italia settentrionale il tipo ancona, in
quella meridionale il tipo cona. .
Numerosissime sono le voci marinaresche: nomi di navi, come galea
e gondola M , di attrezzi, operazioni, installazioni marittime: argano,
sartie, calumare, ormeggiare 8B , falò, molo, mandracchio, squero, scala
«luogo di sbarco» 90 . , , , , . , ,
Tra le voci militari ricordiamo turcasso (dal bizant. -toOTxaaiov, da
provenienza orientale). . . .
Il commercio promosso dai mediatori (it. sett. messeta, gr. p.£amv;) si
estende a merci diversissime: importante quello della bambagia e dei
tessuti ( sciàmito , ecc.). Sopravvive ancora, specie nell Italia nord-
orientale, il tipo metro come nome di misura. E troviamo termini
artigiani come paragone, che deve essere originariamente vocabolo
degli orafi d’assaggio dell’oro sulla «pietra di paragone»), smeriglio,
I nomi delle autorità civili e militari bizantine lasciano parecchie
tracce- duca è la forma grecizzata di dux-, catapano e strafico sono
sopravvissuti a lungo-, il genov. centraco, cmtraco «banditore» e un
continuatore del biz. xévxapxo? (decaduto nel significato). Voce di
amministrazione è anche il condaghe sardo. ,
Si divulga la conoscenza di alcune piante: 1 anguria, 1 indivia (e
anche il basilico, almeno in quelle aree che presentano il tipo basilico) 9 .
Di quest’età è anche ganascia [ganathos in una glossa del sec. X, da
^ Una forte influenza bizantina si vede anche nella fortuna di alcuni
suffissi: -ia con i tonica (in formazioni come abbatta, it. abbazia), -itano,
■oto (che è andato a confluire con -otto). .
Per le voci arabe, riesce così difficile sceverare le voci penetrate
attraverso la dominazione araba di Sicilia da quelle giunte piu tardi
per altre vie che preferiamo farne cenno più oltre.
« Sia che la parola si riconnetta con mostra, sia che risalga come propone
l’Alessio (in Lingua nostra , XI. p. 47-, DEI, s v.), a una metafora da (laoxó;
«mammella».
88 Kahane, in Romance PhiL, V, 1951-52, pp. 174-176.
» Vcxie^orighiariamente latina, ma che ha preso il nuovo significato maritti-
mo a Costantinopoli (Kahane, in Italica, XXVIII, p. 290).
81 Bertoldi, in Arch. glott. it., sez. B, XXI, pp. 140-142.
88 Corpus Gloss. Lat, III, p. 564. v. Meyer-Lùbke, Worter u. Sachen, XII, 1929, p.
9, Bonf&nte, Biblos , XXVII, 1951-, pp. 369-377.
CAPITOLO III
I PRIMORDI
(960-1225)
1 . Limiti
Studieremo in questo capitolo le prime manifestazioni del volgare
in Italia, cominciando dai placiti cassinesi, in cui la prima volta appare
in un testo una nitida coscienza della distinzione fra latino e volgare, e
gi ung endo fino a una data, il 1225, che pressappoco segna ima nuova
fase della lingua: il suo uso per un inno d’alta ispirazione religiosa, cioè
il cantico di Frate Sole (1225 o 1226), e il suo uso per liriche d’intenzione
decisamente letteraria, in gara col provenzale, cioè l’inizio della poesia
nella corte siciliana.
2. Si può già parlare di testi italiani?
Liminàrmente, ci si pone il quesito che ha assillato e assilla i cultori
della storia politica e i cultori dei vari aspetti della storia culturale
italiana: è lecito, già in questo periodo, trattare le varie espressioni in
volgare come varianti di una medesima lingua? Gli storici si domanda-
no, se in difetto di ima unità politica che l’Italia raggiungerà solo
nell’Ottocento, si può almeno parlare, e da quando, di un’« Italia
morale», che giunga in qualche modo a toccare i confini dell’Italia
geografica. Quanto alle manifestazioni linguistiche, esse possono
essere considerate di pieno diritto tutte insieme solo quando chi parla o
chi scrive ha come uditorio ideale tutti gli abitanti della penisola: ciò
che è ancor dubbio per i poeti della Scuola siciliana, ma è ormai certo
per Dante. Se tuttavia già in questo capitolo trattiamo insieme dei vari
testi dei primordi, lo facciamo tenendo conto dei limiti geografici e di
quei primi caratteri superdialettali che sia pur molto alla lontana
prepararono la futura unità.
3. Eventi storici
Anche l’apparire dei primi testi è in certo modo una testimonianza
di quel risveglio, di quel rinnovamento che si nota nella penisola verso
il Mille. Le repubbliche marinare mostrano un’energica attività politica
e commerciale: Genova, Pisa, Amalfi nel Tirreno e sulle coste africane,
Venezia nell’Adriatico.
84
Storia della lingua italiana
Il grande moto di riforma religiosa che s mcentra m Gregorio
rafforza l’unità morale del mondo cattolico, e dà un energica spir
alle Crociate, mosse tuttavia anche da un prorompente spinto d awen-
tUT per nt aliala più importante delle Crociate è la quarta, che porta
Venezia a una grande espansione politica e ® ^ nsedia
numerosi signori italiani nei feudi dell impero latino dOnente.
nUI Quel contrasto fra Settentrione e Mezzogiorno, che è uno dei
caratteri immanenti della storia italiana - e sara proprio “
contrasto che si incuneerà più tardi la Toscana diventando la mediatn^
ce linguistica - viene ad accentuarsi tra il secolo XI e il XII. Nel Nord e
nel Centro si afferma quella tipica istituzione italiana che è ^ Comune
ner cui numerosi centri urbani assumono le funzioni di altrettante
città stati. organizzate ad opera della piccola nobiltà e della borghesia.
La loro vita operosa e tumultuosa le spinge anzitutto a combattere fra
loro- poi la lotta contro Federico Barbarossa le porta ad acqmstare
coscienza di sé: ma questo sentimento antumpenale e antitedesco è
ancora Negativo più che positivo, e le loro unioni sono poco piu che
consorzi in difesa di interessi particolari. Che anche poi, nello spartirsi
fra Guelfi e Ghibellini, i comuni obbediscano piuttosto a mteressi
municipali che a ideali politici generali, si vede dalla loro distribuzione
ge °Quanto' all’Italia meridionale, ie condizioni mutano radicalmentem
doco più di un secolo, in seguito alla conquista normanna. Intorno
all’anno 1000 la parte meridionale della penisola è divisa fra Bizantini,
rinomati longobardi invasori musulmani in lotta fra loro-, nel secolo
sSSSte Sero “duca di Puglia e re di Sicilia 111301 ha ormai in
pugno le sorti di quasi tutta l'Italia meridionale e della Sicilia, e ha
Lizio con lui una tradizione unitaria, che diventerà anche piu forte con
un accentratore come Federico II, e che durerà per molti secoli, dando
una particolare fisionomia a quella parte d Italia.
4. Movimenti culturali
I principali movimenti culturali di questo periodo vanno considerati
nell’àmbito dell’Occidente cristiano, e perlo ^metà^Sec XI si
Francia vi ha una posizione preminente. Verso la metà dei ^ec.Ai s
diffonde quel modo di vivere e di pensare che va sotto il nome di ideale
CaV hnportanti riforme monastiche irradiano da Cluny, da Cistercio
(Citeaux) dalla Certosa; in Italia, da Camaldoli. Nell’Italia meridionale,
£ esenta largamente l’influsso della cultura cassmese'^ principio
del '200, sorgono l’ordine domenicano e quello francescano.
i roccinr, h annnrp semcre più come una capitale anche linguistica, oltre
che unSXdeposHÓe una roccaforte della culture .occidentale al i ncrocrc , *
nMltec ornanti, lattee e greche e longobarde* (Folena. Rassegna , LXII, 1958, p. 247).
I primordi
85
Nell’architettura assistiamo al principio del Cento alla fioritura del
romanico (con le grandi cattedrali di Modena, 1106, Cremona, 1107,
Piacenza, 1122, ecc.), poi a quella del gotico.
Nella matematica, nell’astronomia, nella medicina si fa molto
sentire l’influsso arabo, che anche nella filosofia si manifesterà con la
larga fortuna delle idee averroistiche.
La preminenza italiana è invece assai notevole nel campo del
diritto: le scuole di Pavia e di Ravenna preparano la grande fioritura di
quella di Bologna: la rinascita del diritto romano e l’elaborazione del
diritto canonico sono altissime manifestazioni di questa età.
Una ininterrotta tradizione scolastica si mantiene nelle scuole
monastiche ed episcopali: l’insegnamento, quasi sempre fatto da
ecclesiastici, mira anzitutto a dare ima conoscenza grammaticale e
retorica del latino, attraverso la quale si ascende per gradi a ogni
specie di scienza, fino al diritto, fino alla teologia. Gli stranieri si
meravigliavano, nel sec. XI, che in Italia anche i laici studiassero, e che
dessero tanta importanza all’insegnamento grammaticale-retorico:
Vippone di Borgogna nel Tetralogus fa questo confronto:
Hoc servant Itali post prima crepundia cuncti,
et sudare scholis mandatur tota iuventus:
Solis Teutonicis vacuum vel turpe videtur,
ut doceant aliquem, nisi clericus accipiatur i 2 .
E Radolfo Glabro narra di un certo Vilgardo di Ravenna, «studio
artis grammaticae magis assiduus quam frequens, sicut Italis mos
semper fuit artes negligere caeteras, illam sectari», al quale apparvero
dei demoni in apparenza di Virgilio, di Orazio, di Giovenale 3 .
5. Tardo affermarsi del volgare
Porta d’ogni specie di cultura è dunque la grammatica, cioè la
conoscenza del latino; E all’infuori di pochi testi (pochissimi fra i quali
si sono salvati), tutto quello che è stato scritto in questi secoli in Italia,
è stato scritto in latino: carte pubbliche e private, epigrafi, decreti e
bolle, commenti giuridici, trattati teologici e morali, vite di santi,
cronache, poemi di argomento storico o moraleggiante, e tutto il resto.
Le innumerevoli varietà dialettali che si parlavano nei vari luoghi 4
erano sentite come manifestazioni di carattere inferiore, prive affatto
di quella formalità, di quella regolarità, di quella dignità che erano
1 Tetralogus, w. 197-200 (cit. da F. Novati, L'influsso del pensiero latino sopra la
civiltà ital. nel Medio Evo, Milano 1899, p. 212).
3 Historiarum sui temporis, 1. II, in Patrol. Lat., CXLIII, col. 644.
4 Si veda la nitida trattazione di G. Vidossi, su «L’Italia dialettale fino a
Dante», nel volume di A. Viscardi, B. e T. Nardi, ecc.. Le Origini, Milano-Napoli
1956, pp. xxxm-Lxxi.
06
Stona della lingua italiana
reputate necessarie per mettere in iscritto qualsiasi cosa, anche la
meno importante; tanto meno si poteva concepire d’accostarsi all’altez-
za della poesia se non obbedendo alle regole di Donato.
Occorre una lunga serie di tentativi e di sforzi perché anche in
Italia i volgari superino questo sentimento d’inferiorità, e accanto e di
fronte al latino si senta il desiderio e la necessità di fissare la fuggevole
parlata, dandole valore al di là del suo spazio e del suo tempo: occorre
soprattutto che si conosca e si apprezzi il risultato vittorioso ottenuto
dalle letterature d’oc e d’oil.
A lungo fu dibattuta, nei decenni passati, la questione delle tarde
origini della lingua e della letteratura italiana; e con risultati assai
scarsi, per la ragione incisivamente enunziata dal Parodi: «in verità noi
non dovremmo chiederci mai perché ima letteratura non nasce, ma
perché nasce» 5 * .
È legittimo insomma studiare come mai gli anni intorno al 1100
offrano in Francia il clima opportuno per la fioritura della Chanson de
Roland e delle liriche di Guglielmo IX, purché non si dimentichi che
quelle opere non sono il prodotto di quel clima, ma opere di scrittori
che in esso hanno semplicemente trovato opportune condizioni. Ora
invece il chiederci come mai in Italia non siano sorte opere in volgare
vuol dire proprio considerare le opere d’arte come necessario prodotto
di un certo clima.
La risposta che comunemente si dà a questo quesito: «ima lettera-
tura in volgare non è sorta perché il latino godeva troppo prestigio», ha
un nucleo di verità, ma non è sufficiente a spiegare le tarde origini
della letteratura: basti osservare che se è vero che il secolo XII non ha
quasi alcun poeta in volgare, è vero altresì che ha pochissimo anche in
latino. Se fosse sorto un vero, un grande poeta, avrebbe pur scritto in
una lingua o in un’altra, in latino o in volgare. Invece questo secolo
rivolse la sua poiesi all’azione: creò il Comune, fondò colonie oltre
mare, tra le arti belle predilesse la più pratica, l’architettura. Ai giuristi
bolognesi che fondarono il nuovo diritto, non poteva nemmeno passare
per il capo di servirsi del volgare, sia per la continuità che essi
andavano restaurando con il diritto romano, sia perché il loro orizzon-
te non era locale o nazionale, ma si apriva su tutta l’Europa civile.
Il prestigio di cui ildatino godeva in Italia, la tenace consuetudine
che faceva di esso Tunica lingua che si potesse scrivere, perché
fermata da salde regole e capace di ornato, la sua diffusione relativa-
5 Nel discorso su «L’eredità romana e l’alba della nostra poesia», rist. in
Poesia e storia nella Divina Commedia, Napoli 1921, p. 43. V. anche Novati-
Monteverdi, Le Origini, cap. I; K. Vossler, in Zeitschr. fur vergi. Literaturgesch., XV,
1903, pp. 21-32; Id., Die Góttliche Komódie, II, ì, Heidelberg 1908, pp. 582-586 (2 a ed.,
II, Heidelberg 1925, pp. 394-397); E. Gorra, «Di alcune questioni di origini» (1912), in
Mise. Crescini, Cividale 1927, pp. 463-499; N. Zingarelli, in Nuova Antologia, 16
genn. 1923, rist. in Scritti di varia letteratura, Milano 1935, pp. 428 449; A. Roncaglia,
in Problemi e orientamenti, III, pp. 88-92.
I primordi
87
mente larga, la sua differenza non grandissima dalla lingua parlata, la
rispondenza che esso presentava, nella fase medievale, alle molteplici
esigenze della vita pratica: tutto questo servì a ritardare l’avvento del
volgare.
Ma se andiamo cercando opere letterarie troveremo ben poco, e
dovremo concludere che questi secoli ebbero i poeti dell’azione, i
creatori del Comune, e i cultori delle discipline più legate all’attività
pratica Cretorica, diritto, medicina): non ebbero invece ancora i poeti e i
cultori del verbo, né in latino, né in volgare.
I singoli testi in volgare che ci rimangono per questi primi secoli
rappresentano sporadiche eccezioni alla regola generale che per
scrivere bisognava scrivere in latino; e ci si potrà caso per caso
domandare, e non sempre trovare, il perché.
La coscienza della separazione tra volgare e latino è nettissima nei
quattro placiti cassinesi; e solo qua e là potremo ritrovare, in scribi di
eccezionale ignoranza, confusione fra i due sistemi 8 .
Che si parlasse quotidianamente nei diversi volgari, è ovvio. Ma ne
abbiamo anche testimonianze precise, per usi ecclesiastici, giuridici,
mercantili. Il papa Gregorio V (Bruno, figlio di Ottone margravio di
Verona), morto nel 999, fu sepolto in S. Pietro, e sul sarcofago, che si
vede tuttora nelle Grotte vaticane, si leggono, come abbiamo già
ricordato, i seguenti versi:
Usus francisca, vulgari et voce latina
instituit populos eloquio triplici.
Angerio vescovo di Catania (sec. XII) dispose che il catecumeno
adulto, se non era in grado di rispondere in latino alle domande che gli
si facevano per Tamministrazione del battesimo, potesse rispondere
anche in volgare: «si nescit litteras, haec vulgariter dicat» 7 .
Nel 1133, re Ruggero fa che si legga un memoratorio contenente
privilegi concessi dall’abate Ambrogio agli abitanti di Patti, e che poi si
esponga in volgare. «Audita tandem memoratorii continentia, et
vulgariter exposita, Pactenses...» 8 .
Nel 1189, come risulta da una carta di quell’anno, il patriarca di
Aquileia fece una predica in latino nella chiesa delle Carceri, villaggio
padovano, e il vescovo di Padova Gherardo la spiegò al popolo in
8 Più di una volta notiamo confusioni ed esitazioni nei Sardi: citiamo solo una
frase del chierico Nicita, in un atto di donazione di un giudice di Torres a
Montecassino: «Nicita lebita iscribanus in palaczio regis iscrisi...» (cit. da
Monteverdi, «L. A. Muratori, ecc.», cit., p. 93).
7 L. Vigo, Canti popolari siciliani, Catania 1857, p. 22; Id., Raccolta amplissi-
ma, Catania 1870-74, p. 27. Non ho potuto appurare donde il Vigo abbia attinto la
notizia.
8 V. il testo in G. G. Sciacca, Patti e l’ammmistrazione del comune nel medio
evo, Palermo 1907, p. 217.
88 Stona della lingua italiana
volgare: «cum predictus patriarcha litteraliter sapiente pre^casset
et.. S predictus Gherardus Paduanus episcopus matemaliter eius predi-
Cat B?nSmSgnTne e ila"sua Rhetorica antiqua ci fa anche conoscere
l’uso scritto che i mercanti facevano del volgare: «Mercatores in suis
epistolis verborum omatum non requirunt, quia fere omnes et srnguli
per idiomata propria seu vulgaria vel corruptum latmum ad mvicem
sibi scribunt et rescribunt...» 10 . Ma siamo ormai nel 1215.
6. Circolazione di persone
Mentre il latino adempie la sua funzione di lingua cernirne per tutta
l’Europa occidentale, i singoli dialetti servono ai singoli luogh^o poco
più^perpetuo contrasto fra spirito di circolazione e spirito particolari-
stico trova espressione in questi due mezzi distinti.
Fra le categorie di persone che più si muovono da un luogo all altro
sono i religiosi i quali bene o male adoperavano il latmo, almeno con ì
loro confratelli. Ma i mercanti, meno colti e maggiormente spinti dalla
necessità di farsi intendere, avraimo dovuto S eSd^ ÌJfiSS *
luoghi in cui trafficavano, particolarmente delle sedi delle nere.
Altra occasione di scambi di persone e di parlate istituzione dei
podestà forestieri. Prendiamo per esempio le notizie che abbiamo del
giudice e poeta bolognese Rambertino Buvalelli 11 : forse podestà di
Brescia nel 1201 podestà di Milano nel 1208, console di giustizia a
Bologna nel 1209, ambasciatore a Modena nel 1212, podestà di Parma
nel 1213 console di Bologna nel 1214, podestà di Mantova nel 12 15-16,
podestà di Modena nel 1217, podestà di Genova nel 1218-20, podestà di
Verona nel 1221 dove morì. Possiamo immaginare agevolmente quali
effeS dovesse avere una vita pubblica di tal genere sulla lingua di
quelli che la esercitavano: ne doveva risultare un parlare fortemente
m6 Un altro gruppo su cui dobbiamo un momento soffermarci è quello
dei giullari. Il loro mestiere è quello di divertire con la parola per trame
guadagno 12 - tutte le loro attività, sia quella di una recitazione mtegrat
ron i gesti e talora con le vesti, sia il fare da corifeo di una danza
accompagnata dal canto, sia i giochi di prestigio o il mostrare orsi o
» A. Gloria, Del volgare illustre dal see VII fino a Dante Monac0
.0 L Rockinger, Briefsteller und Formelbucher des XI. bis XIV. Jh,., Monaco
1863 ,\ g. Bertoni, Rambertino Buvalelli trovatore bolognese, Dresda 1908, pp. 12-14.
12 Acci gente di corte
• che sono use ed acorte
a sollazzar la gente,
ma domandan sovente
danari e vestimenti
dirà Brunetto Latini nel Tesoretto (w. 1495-1499).
I primordi
89
scimmie» esigono stretto contatto verbale con il pubblico che si vuol
divertire. Ora si tratterà del pubblico di un solenne convito signorile o
episcopale, in cui ci sarà da recitare in latino la Cena Cypriani, ora
invece bisognerà intrattenere i villani accorsi a una fiera per spillar
loro un po’ di denaro-, e per farsi capire da loro occorrerà un volgare
raccostato il più possibile a quello del luogo. Naturalmente vi saranno
stati giullari d’una certa cultura, ecclesiastici mancati diventati clerici
vagantes, e giullari appena infarinati dal contatto con persone colte;
ma è chiaro da tutta la produzione giullaresca che un po’ di dottrina
bene o male digerita non manca mai.
7. Conoscenza delle lingue e letterature d’oc e d’oil
Contatti pratici e contatti culturali contribuivano a diffondere una
certa conoscenza delle lingue d’Oltralpe in Italia. Si pensi alle continue
correnti di pellegrinaggio, alle Crociate, alle fondazioni cluniacensi e
cisterciensi. La rigogliosa fioritura degli studi teologici e filosofici in
Francia nei secoli XI e XII dà grande prestigio alle scuole transalpine,
ma l’influenza s’esercita rimanendo nell’àmbito della lingua delle
scuole, il latino medievale; poi il fatto che, a partire dal 1100 circa,
siano sorte due fiorenti letterature in volgare costituisce un esempio
talmente cospicuo da invogliare a seguirlo (per ora quasi soltanto
ponendosi sulla via di quegli scrittori, con le loro stesse lingue).
Per l’Italia meridionale, è notevole l’influenza esercitata dagli
insediamenti normanni e dalla loro corte; si hanno molte notizie delle
relazioni dei Normanni d’Italia con quelli dì Francia e d’Inghilterra, e si
sa che la conoscenza del francese era indispensabile alla Corte; Arrigo
conte di Montescaglioso rifiutò la carica di reggente durante la
minorità di Guglielmo II, scusandosi col fatto di non sapere il francese:
«Francorum se linguam ignorare, quae maxime necessaria esset in
curia». Giunsero per questa via leggende carolinge e arturiane (e così
si spiega che il nome della fata Morgana, sorella di Artù, arrivasse in
Sicilia).
Nell’Italia settentrionale, alla fine del Cento e nei primi decenni del
Duecento, dapprima le Corti (specie nel Monferrato, in Lunigiana,
presso gli Estensi, nella Marca Trivigiana), poi anche le città s’interes-
sano alla poesia provenzale; numerosi trovatori vengono in Italia e
trovano imitatori. Non ci resta che il soprannome Cossezen (cioè
«bellino») del più antico trovatore d’Italia, quel «vecchietto lombardo»
che secondo la caricatura di Pietro d’Alvemia avrebbe chiamato
codardi i suoi vicini 13 ; mentre ci resta il serventese di Peire de la
Cavarana, composto nel 1196 o poco dopo, che esprime i sentimenti
d’qdio dei Lombardi contro «la gent d’Alemaigna». Vedremo più oltre (§
13 Crescini, Manuale prov., p. 185.
90
Storia della lingua italiana
21) in qual modo Rambaldo di Vaqueiras abbia applicato il suo talento
poetico a scrivere in un dialetto italiano.
Un po’ più tarda, ma popolare e duratura, sarà nell’Italia settentrio-
nale l’influenza della letteratura in lingua d’oil.
8. I placiti cassinesi
I doc um enti in cui per la prima volta il volgare appare in piena luce,
coscientemente contrapposto al latino, sono i quattro placiti cassinesi.
Si tratta di un gruppetto compatto di quattro pergamene di analogo
argomento (quattro placiti o più esattamente tre placiti e un «memora-
torio» sull’appartenenza di certe terre, nei quali la base per la
decisione è fornita da testimonianze giurate), appartenenti allo stesso
tempo (il breve periodo dal 960 al 963) e agli stessi luoghi 14 . I placiti
concernono beni di tre monasteri dipendenti da Montecassino, e sono
stati pronunziati a Capua, a Sessa e a Teano: tutto cioè si è svolto
nell’àmbito dei principati longobardi di Capua e di Benevento (per
essere più precisi, in quello di Capua, riunito in quegli anni al
principato di Benevento, in una delle periodiche fusioni e scissioni dei
due territori). .....
Fuorché nella prima delle carte di Teano (il «memoratorio»), il tipo è
costante: in un primo tempo il giudice comunica alle parti il testo della
forinola, in un secondo tempo tre testimoni presentandosi separata-
mente, la pronunziano: cosicché in tre dei documenti la forinola è
ripetuta quattro volte.
I quattro passi in volgare sono i seguenti:
(Capua, marzo 960):
Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le
possette parte sancti Benedicti.
(Sessa, marzo 963):
Sao eco kelle terre, per kelle fini que tebe monstrai, Pergoaldi foro,
que ki contene, et trenta anni le possette.
CTeano, luglio 963):
Kella terra, per kelle fini que bobe mostrai, sancte Mane è, et
trenta anni la posset parte sancte Marie.
14 V. il testo completo delle quattro carte in M. Inguanez, I placiti cassinesi del
sec. X con periodi in volgare, 4 a ed., Montecassino 1942. Un ottima collazione della
prima carta dà P. Fiorelli, Il placito di Capua del 960, Trieste 1960 (al quale
dobbiamo anche un’acuta esposizione di tutti i problemi del placito: Lingua
nostra, XXI, 1960, pp. 1-16). Cfr. ora A. Schiaffini, I mille anni della lingua italiana,
2 a ed., Milano 1962. ... , ,
Per i testi citati in questo paragrafo e nei seguenti si potrà comodamente
ricorrere alla Crestomazia del Monaci (nella riedizione dell’ Arese) o alle raccolte
del Monteverdi, dell'Ugolini, del Lazzeri, di Dionisotti e Grayson, che ci dispensia-
mo perciò dal citare volta per volta.
I primordi
91
(Teano, ottobre 963):
Sao eco kelle terre, per kelle fini que tebe mostrai, trenta anni le
possette parte sancte Marie.
Le formule corrispondono ad altre simili, ma in latino, che sono
state additate altrove (Lucca 822); e anche per territori vicini al nostro
pochi anni prima (S. Vincenzo al Volturno, 936, 954; e poi anche 976).
poiché i testimoni, tutti chierici e notai, sarebbero certo stati in
grado di pronunziare in latino la forinola testimoniale, si deve essere
ritenuto opportuno di fame conoscere il tenore a tutti quelli che erano
presenti al giudizio, come era avvenuto in modo più solenne a
Strasburgo nell’842, quando Lodovico il Germanico aveva giurato
romana lingua per farsi capire dai soldati francesi, e Carlo il Calvo
teudisca lingua per farsi capire da quelli tedeschi. Alcuni pensano che
questa desiderata pubblicità mirasse ad assicurare per mezzo di un
giudizio, promosso non da un avversario autentico, ma da imo che
agiva d’accordo col monastero, la proprietà di beni che si pensava
potessero venir contestati 15 .
H giudice nei tre casi preannunzia le parole che i testimoni
dovranno giurare e che saranno state probabilmente da lui stesso
preparate, e il notaio poi sottolinea la perfetta conformità itoti tres
quasi ex uno ore ; quasi uno ore ) delle dichiarazioni 16 : siamo dunque
certi che questi documenti non sono la riduzione scritta di frasi
pronunziate ex abrupto, ma rappresentano i primi documenti di un
lin gua ggio cancelleresco.
Così ci spieghiamo la struttura sintattica piuttosto complessa delle
forinole 17 . Quanto ai genitivi di nomi propri, contenuti nei documenti, è
facile spiegare parte Sancti Benedicti e parte sancte Marie, che appar-
tengono a quel filone che sbocca nel tipo moderno Piazza San
Giovanni, Via Garibaldi. Più diffìcili a spiegare in testi volgari sono i
genitivi di appartenenza dipendenti dal verbo «essere»; Pergoaldi foro,
sancte Marie è. Giacché l’uso del volgare è nella mente dei partecipanti
così nettamente separato dall’uso del latino, mi sembra che per
spiegare la presenza di questi genitivi nelle formule si debba ammette-
re che l’uso cancelleresco di tali forme fosse stato trasportato dal
dibattito orale in latino al dibattito in volgare, e che perciò i giudici
ritenessero di poterle adoperare anche in formule scritte intenzional-
mente in volgare 18 . —
15 S. Pellegrini, Lingua nostra. Vili, 1947, pp. 33-35.
** Due lievi discordanze nel placito di Sessa sono spiegate dal Debenedetti,
St. mediev., n. s., I, 1928, pp. 141-143.
17 Un po' imbrogliata per l’accumularsi delle proposizioni dipendenti è la
forinola del placito di Sessa: «So che quelle terre, per quei confini che ti mostrai,
furono di Pergoaldo - ciò che qui si contiene (= que ki contene ) - e trenta anni le
possedette».
“ Si confronti la lunghissima persistenza del genitivo in Toscana per
influenza cancelleresca, quale risulta dalle ricerche del Bianchi, Arch. glott. it„ IX,
pp. 365-436, X, pp. 305-412.
sSik -’ì;
92
Storia della lingua italiana
Invece le forme tebe e bobe sono importanti reliquie di dativi latini
nell’uso popolare meridionale 19 .
Un notevole problema è quello della forma sao. Di per sé, essa non
meraviglia affatto: si può spiegare benissimo come una formazio-
ne analogica promossa da un lato dalle forme di 2 a e 3 a persona, sai
Qat. sapis) e sae Qat. sapit), e dall’altra da presenti come ao, da o, stao
che possiamo supporre posseduti dai dialetti campani intorno al-
l’anno 1000, giacché li troviamo in testi non molto discosti: testi semi-
latini del Codice diplomatico Cavense hanno abo per «ho» e dabo
Der «do» 20 .
Quello che fa sorgere qualche dubbio, è il fatto che i dialetti
meridionali odierni presentano invece uniformemente il tipo saccio o
meglio saccè 21 , continuatore del lat. sapio. Un testo di questa stessa
zona di circa due secoli posteriore ai placiti, ha già saetto (Ritmo
cassia., v. 14). D’altra parte non è lecito mettere in dubbio questa
testimonianza dei placiti: ogni errore è escluso per il fatto che si tratta
di carté _ originali e che la forma è adoperata dodici volte.
Non ci si presentano che due soluzioni. L una è che a Capua e nei
dintorni si fosse lasciato cadere neU’uso parlato il continuatore di
sapio, mettendo al suo posto la forma analogica sao-, e che solo
successivamente, per influenza di altri centri, si sia accettata anche là
la forma meridionale saccio o sazzo. L’altra ipotesi, prospettata dal
compianto Bartoli 22 , è che il sao provenga da un area settentrionale, e
rappresenti nei nostri testi un indizio di superamento del dialetto. «Le
formule cassinesi rispecchiano un linguaggio regionale, della Campa-
nia quale era parlato abitualmente dai giureconsulti e dagli ecclesia-
stici campani nella seconda metà del sec. X. Ma quel linguaggio
regionale conteneva anche elementi interregionali e di due specie
diverse- latinismi e italianismi. O mèglio e più semplicemente: elementi
latini e italiani. Il più sicuro di tali elementi è sao, onde so». Dobbiamo
confessare che tra le due ipotesi, la prima 23 ci appare senz altro la piu
probabile.
I» Ritroveremo ancora nel Ritmo cassinese tebe e sebe e l’analogico mete-, nel
contrasto di Cielo sopravvivono le forme mevejeve, seve, senza ormai significato
di dativo; e non tarderanno a sparire. Vedi D Ovidio m Arch glott. it IX , pp. 55-
59; Id„ in Zeitschr. rom. PhiloL, XX, 1906, pp. 523-525-, Id„ in St. rom.. Vili, 1912, pp.
ll2 ’ 20 Bartholomaeis, Arch. glott. it ., XV, p. 268. Cfr. anche lo stao del contrasto
di Cielo, v. 54 Q’altro sta o, v. 84, è di terza persona, e va probabilmente corretto in
staci), a i carta 1693. L’unica eccezione è Guardia Piemontese (Cosenza), che
probabilmente è una colònia dovuta a una migrazione settentrionale del sec.
Prima in un rapido accenno, in Arch. glott. it., XXVII, 1935, p. 102, poi
nell’ultimo articolo da lui scritto, in Lingua nostra , VI, 1944-45, PP- l
23 Difesa da G. Folena, in Paragone, febbraio 1954, p. 31 e da A. Castellani.
Lingua nostra, XVII, 1956, pp. 3-4.
I primordi
93
Un’altra forma interessante dei placiti è feo (Capua), con la varian-
te eco (Sao eco. Sessa, Teano II). Si tratta certo di una sopravvivenza
del lat- Quoo, che è più tardi confluita, insieme con ca (continuato-
re di quam e forse di quia) e con che o ched Qat. quid) nell’unica for-
ma che 2 *.
I primi che si trovarono a scrivere i suoni dell’italiano con l’alfabeto
tradizionale latino ebbero a lottare contro la difficoltà di rappresentare
quei suoni che il latino pronunziato secondo l’uso medievale non
possedeva: anzitutto la c e la g velare davanti a e ed i. Dove l’affinità
con il vocabolo latino era ancora fortemente sentita, era ovvio che si
tendesse a rimanere alla grafia latina: il che con significato di pronome
relativo è reso con que. Invece per kelle ekii notai ricorrono al segno k,
raro nel latino (salvo che nell’uso cristallizzato di kal.), ma che aveva il
vantaggio di non prestarsi ad alcuna ambiguità. La regolarità con cui
essi se ne servono, che a noi moderni può sembrare scarsa 25 , è invece
così grande, se la confrontiamo con le oscillazioni nell’uso medievale,
che conferma nell’impressione di un uso notarile incipiente 20 .
0 . Testi del secolo XI. Carte sarde. Postilla amiatina
Dopo i quattro placiti, per un secolo intero non appaiono altri
documenti volgari: nell’immensa congerie di documenti latini, nelle
iscrizioni relativamente numerose appare solo qua e là qualche
briciola di volgare sfuggita agli estensori, ma nessun testo continuato.
Bisogna aspettare gli ultimi decenni del sec. XI per trovare due
carte sarde e tre testi dell’Italia centrale.
Le due carte sarde sono di grandissimo interesse, perché manifesta-
no un precoce affermarsi del volgare anche in quegli usi che più a
lungo nella penisola rimasero riserbati al latino. Ma poiché quei
documenti (come le carte e i condaghi del secolo seguente) rappresenta-
no una tradizione a sé, formatasi su un ceppo dialettale che ha tanti
caratteri peculiari, la loro storia presenta problemi che vanno affronta-
ti separatamente. E qui basti l’avervi accennato.
In calce a una carta del 1087, con la quale un certo Miciarello e sua
moglie Gualdrada facevano dono di tutti i loro beni all’ Abbadia di S.
Salvatore (sul Monte Amiata), il rogatario, notaio Rainerio, aggiungeva
questa postilla-.
“ quod sopravvive ancora, sotto la forma ku, nell’ Appennino campano, A I S,
1143, punto 712 (Rohlfs, Arch. St. n. Spr., 173, p. 143). La geminazione in eco è
possibile risalga, secondo la congettura del Rajna, all’analogia di forme come cca
(dal latino eccu-hac ), benché i nostri testi non presentino ancora cca, ma invece ki.
25 Per le .due oscillazioni già notate-, feo = eco; que e non ke.
“ Sorvoliamo su numerosi altri particolari che meriterebbero di essere
precisati; è ovvio che nella discussione di documenti, di opere, di autori singoli
dobbiamo vincere la tentazione di discuterli in sé e per sé anziché limitarci a
cogliere quegli elementi che si ricolleghino a un filo continuo.
94
Storia della lingua italiana
Ista car tuia est de caput coctu
ille adiuvet de illu rebottu
qui mal consiliu li mise in corpu.
L’assonanza di coctu , rebottu e corpu fa pensare che si tratti di versi,
endecasillabi se si leggono senz’alcuna elisione, novenari se si suppone
che il notaio rivestisse di sembianze latine altrettante parole volgari,
pressappoco le seguenti:
Està carta è de Capucottu
e ll’aiuti dellu rebottu
che mal consigliu i mise in corpu”.
L’interpretazione non manca di difficoltà, fra cui la principale è il
significato di rebottu™: io spiegherei pressappoco in questo modo:
«Questa carta è di Capocotto (soprannome di Miciarello, probabilmen-
te da intendere come «Testadura») e gb dia aiuto contro il Maligno, che
un mal consigbo gli mise in corpo».
S’intenda così o altrimenti, il nostro testo ci mostra ima fase di
concretamento della lingua molto meno avanzata che non nei placiti
cassinesi. Il notaio Rainerio non sa scrivere che in latino, e ogni parola
del suo volgare che deve scrivere non sa scriverla altrimenti che
riferendosi al latino. Pronunziando capucottu, scrive caputcoctu. Dice-
va è, e scrive est. E forse dietro Yadiuvet (che egli certo pronunziava,
secondo l’uso medievale, adiùvet ) sta nascosto un aiuti.
Tuttavia attraverso questo velo tralucono alcune caratteristiche i
notevoli Q’articolo illu, le terminazioni in -uì.
10. Iscrizione di S. Clemente
Molto più importante della postilla del notaio Rainerio è l’iscrizione
affrescata su un muro della chiesa di san Clemente a Roma, negli
ultimi anni del sec. XI. Più importante perché si tratta di un’iscrizione
esposta al pubblico, e per di più in una chiesa.
È noto l’episodio che l’ affresco rappresenta, attinto alla Passio
sancti Clementis 29 . Il patrizio pagano Sisinnio è pieno di collera contro
il santo, che egli accusa di aver esercitato arti magiche contro di lui,
togliendogli momentaneamente la vista e l’udito per abusare di
Teodora sua moglie, convertita al cristianesimo. Egli ordina a tre servi
di trascinare per terra san Clemente legato-.
27 Monteverdi, in St. rom., XXVIII, 1939, pp. 150-151; Ruggieri, in St. rom., XXXI,
1947, pp. 93-108.
28 Ruggieri, in Lingua nostra, X, 1949, pp. 10-16; Cocito, in Giom. it. di filoL, Vili,
1954, pp. 256-259.
28 A. Monteverdi, «L’iscrizione volgare di S. Clemente», in St. rom., XXIV, 1934,
pp. 5-18 (rist. in Saggi, pp. 59-74); S. Pellegrini, «Ancora l’iscrizione di S. Clemente»,
in Cult, neol.. Vili, 1948, pp. 77-82.
I primordi
95
Fili de le pute, traite.
Poi insiste con due di essi perché lo trasc inin o con la fune:
Gosmari, Albertel, traite.
e al terzo, Carboncello, dà ordine di spingere con un palo il santo:
Fàlite dereto colo palo, Carvoncelle.
Ma un miracolo è avvenuto: il sant’uomo che il patrizio e i suoi tre
satelliti vorrebbero martirizzare, è libero: mentre essi credono d’avere
in mano lui, stanno legando e spingendo una pesante colonna.
Da questa si leva una voce, che spiega il miracoloso avvenimento:
Duritialmi cordis vestrilsl
saxa traere meruistis 30 .
Chi delineò il modello dell’iscrizione, con quello scarso storicismo
che è proprio del Medioevo, adoperò nomi e lingua del proprio tempo
per raffigurare il fatto avvenuto nel primo secolo, ma con un’importan-
te eccezione: a Sisinnio e ai suoi uomini mise in bocca il volgare (e già
questo fatto, ma più ancora il carattere plebeo delle parole a loro
attribuite, mostra una certa intenzione scherzosa), mentre le parole del
santo le fece risonare con la solennità della lingua liturgica 31 .
II. Confessione di Norcia
Il più importante dei testi dell’undecimo secolo che sia stato fin qui
rintracciato appartiene anch’esso all’Italia mediana, ed è la formula di
90 II Monteverdi corregge e integra il testo sulla scorta della Passio-. «Duri-
tiam cordis vestii in saxa conversa est, et cum saxa deos aestimatis saxa traere
meruistis», ma è da osservare che la mancanza di tante parole non è dovuta a
un’omissione più o meno casuale, ma all’intenzione, in chi ha ideato l'affresco, di
compendiare in poco spazio l’invettiva del santo. Intenzione non molto felicemen-
te realizzata; ciò che tuttavia non ci autorizza a inserire nell’edizione critica
dell’iscrizione tante parole di più, ma solo a valercene per comprendere il testo
conservatoci. Giacché, comunque, dobbiamo correggere duritiam in duritia,
penso che l’autore intendesse: «per la dimezza del vostro cuore avete meritato di
trascinar sassi».
31 Numerose, nel breve testo, le particolarità degne di nota. Nella grafia, la
sola difficoltà dello scriba è stata la rappresentazione del suono gli (fili, e forse
falite). La geminazione non appare nella scrittura anche dove la pronunzia
doveva essere rafforzata Ipute e anche Sisinium, ma Carvoncelle ). Alla finale, dal
lat. -u si ha -o e mai u. In dereto (dissimilato da de-retró) non si ha dittongamento. Il
passaggio da -rb- a -rv ( Carvoncelle ) è dei dialetti italiani mediani. Si hanno ben
due esempi di preposizione articolata {de le, colo). Il vocativo una volta è in -e
( Carvoncelle ), secondo il tipo latino un’altra volta è troncato (Albertel), forse
preannunziando il troncamento meridionale dei vocativi.
Del verbo abbiamo due imperativi: traite (ripetuto due volte) e fa di falite, in
cui vediamo i due pronomi seguirsi nell’ordine «complemento di termine +
complemento oggetto», mentre, com’è noto, nell’italiano del Duecento e del
Trecento prevale (salvo qualche raro caso) l’ordine inverso.
96
Storia della lingua italiana
I
confessione di Sant’Eutizio. In un codicetto miscellaneo proveniente
dall’abbazia di S. Eutizio presso Campii (oggi Campi) non lungi da
Norcia, tra le formule sacramentali del rito della penitenza {Ordo ad
dandam penitentiam ) è contenuto un pezzo in volgare.
La prima parte è un’enumerazione di peccati e un atto di contrizio-
ne, che s’immaginano pronunziati dal penitente:
Domine mea culpa. Confessu so ad me senior Dominideu et ad mat donna
sancta Maria letc.J de omnia mea culpa et de omnia mea peccato, ket io feci letc.l
Me accuso de lu corpus Domini, k’io indignamente lu accepi letc.l. Pregonde la
sua sancta misericordia e la intercessione de li suoi sancti ke me nd’ aia
indulgentia letc.l.
Seguono parole di esortazione e di assoluzione, parte in volgare,
parte in latino, del confessore:
De la parte de mine senior Dominideu et mat donna sancta Mario letc.l. Et
qual bene tu ai factu ui farai en quannanti, ui altri farai prò te, si sia computatu
em pretiu de questa penitenza letc.l 32 .
La formula è databile all’incirca alla seconda metà del sec. XI 33 e
trova corrispondenza in parecchie formule penitenziali in latino.
Su tutto il testo, l’influenza latina pesa moltissimo. Anzitutto,
parecchi passi sono latini. «Quando la formula venne compilata -
osserva il p. Pirri (art. cit., p. 35) - doveva verificarsi qualche cosa di
simile a ciò che avviene al presente, presso persone illetterate per le
preci in volgare introdotte nell’uso dal Catechismo di Pio X. Anche ora
vediamo che certe frasi del Confìteor, come verbo et opere ; mea culpa,
mea culpa, mea maxima culpa-, ad Dominum Deum nostrum da molti si
recitano in latino». Anche all’infuori di questi frammenti, fortissima è
la dipendenza dal latino nella grafia 31 , nella sintassi 35 , dappertutto 33 .
32 La formula è stata la prima volta pubblicata dal Flechia nell’Arch. glott. it.,
VII, 1880, p. 121-129. Una nuova edizione del p. Pirri, nella Civiltà Cattolica del 4
gennaio 1936, è specialmente importante per i riscontri storico-liturgici che
l’accompagnano. Nelle citazioni che seguono, ci atteniamo alla numerazione del
- Monteverdi, Testi, pp. 31-33.
33 II p. Pirri dà come termine estremo post quem il 1037 e ante quem il 1089.
34 Si oscilla continuamente tra baptismu (r. 16) e battismu (r. 6), observai (r. 17) e
oservai (r. 21), ipsu (r. 28) e esse (r. 26). Grafìe del tipo factu ir. 46) portano per falsa
analogia a grafie come mecto (r. 28), grafie come ad me conducono a un adcusare
(r. 34), di contro ai numerosi accuso.
Per trascrivere forme che dovevano sonare pressappoco o gna, l’estensore si
serve dell’abbreviazione stessa del latino omnia, cioè dà. D’altra parte, parole
latine come adulteria e commissatione sono raccostate al volgare e diventano
aulteria e commessatione.
35 Nella r. 1 , confessu so ricalca confessus sum.
33 Latino è accepi (r. Il), perché il verbo antico non è sopravvissuto in nessuna
parlata romanza (e, se fosse sopravvissuto, avrebbe preso altra forma). Il senior
di me senior (r. 1) avrà sonato davvero così? o non si tratterà d’un travestimento
erudito d’un messor o qualcosa di simile?
I primordi
97
Da notare, nella grafìa, l’uso del k limitato a ke congiunzione o
pronome (come pronome, anche kedì, e l’oscillazione nel rafforzamento
sintattico.
Uno dei tratti fonetici più caratteristici del nostro testo è la
distinzione alla finale tra la o (dal lat ó, o) e la u (dal lat. ù): io, accuso,
preso, corno, e invece confessu, battismu, diabolu, Petru, Paulu ecc. 37 .
Nel verbo si hanno alcune forme forti notevoli (abbi, dibbi).
Quanto all’ordine delle parole, la legge che esige l’enclitica iniziale
Qegge Tobler-Mussafia) non è osservata nel gruppo frequentissimo Me
accuso, ma ciò sarà dovuto alla prepotente influenza del modello
latino, perché invece dove si ha una locuzione volgare indipendente si
ha Pregonde.
12. Testi del secolo XII
Riunendo in gruppi affini per argomento i testi superstiti del sec. XII
e del principio del sec. XIII, troviamo anzitutto la registrazione di
qualche testimonianza giudiziaria; poi ima serie di scritte private,
d’inventari, di libri di ricordi contabili. L’iscrizione monumentale di
Ferrara sarebbe unica, se fosse autentica: ma probabilmente non lo è.
Poi abbiamo una serie di poemetti giullareschi di argomento edificante,
tutti provenienti da un territorio che va dalla Toscana alla Campania
attraverso le Marche e il Lazio. Altri ritmi, di argomento storico-
narrativo, appaiono nel Veneto e in Toscana. Le ventidue prediche
piemontesi sono tutto quel che ci resta documentato della predicazione
in volgare, che pure era certo viva in tutta la penisola. I Proverbi de
femene aprono al cominciare del sec. XIII la fioritura di poesia
didattica nel Duecento lombardo. Le strofe di Rambaldo di Vaqueiras
tentano di riprodurre nel genovese le risorse d’ima lingua letteraria
matura come il provenzale.
Manca, tra le voci delle diverse regioni, quella degli Abruzzi; e
mancano testi siciliani certi, malgrado lo sviluppo culturale della
37 La distinzione sembra anche applicarsi, come in qualche dialetto mediano
odierno al neutro pronominale («corno ipsu Dominideu io sa» r. 29) di contro al
maschile («lu corpus Domini, k’io indignamente lu accepi», r. 10).
Si ha qualche traccia di metafonia: puseru (r. 12), dibbi (r. 19).
Non si ha dittongamento di £ e ó, ma e tonica in iato dà i -. mia, mie.
Nel trattamento delle atone si noti decema (r. 18), iudecatu (r. 34): ma anche,
per influenza latina, genitore e genitrice (r. 13), quadragessime (r. 20), ecc.
Alla finale si tende all’epitesi: ene (v. 48); e così andrà spiegato anche il farai
«farà» della r. 47.
Nei possessivi si distingue la serie tonica meu mia mei mie dalla serie atona
me ( seniori e ma (se, come è quasi certo, mat donna non è un’abbreviazione per
mater donna, ma una grafia per maddonna ). Meno bene si vede il paradigma
degli altri possessivi.
98
Storia della lingua italiana
l primordi
99
Sicilia sotto i Normanni e il prossimo fiorire della cultura fridericiana.
Continuano invece a spesseggiare i documenti sardi.
Passeremo rapidamente in rassegna i testi indicati, per vedere ciò
che ci possono insegnare sul consolidarsi dell’uso scritto del volgare in
questo periodo.
13. Testimonianze giudiziarie
Un gruppo importante di passi in volgare, di poco posteriore alla
metà del sec. XII, contenuto in una pergamena volterrana del 1158, ci
riferisce un episodio di un’annosa controversia tra il conte Ranieri
Pannocchieschi e suo fratello Galgano vescovo di Volterra. Il giudice
Balduino riferisce le testimonianze che presso di lui hanno date sei
uomini di Travale, per provare l’appartenenza di un certo numero di
casolari a Travale, e quindi la dipendenza dal conte Ranieri. In due
casi, i più importanti, Balduino riferisce le parole dei testimoni in
discorso diretto.
Le parole di Enrigolo suonano cosi: Io de presi pane e vino per li
maccioni a Travale; Poghino ha sentito dire da Ghisolfolo che Manfredo
dopo aver fatto la guardia a Travale, si lagnò del trattamento con
queste parole-. Guaita, guaita male, non mangiai ma’ mezo pane, e così
fu dispensato dal servizio. Questo è il passo più importante delle
testimonianze, perché, quantunque resti qualche incertezza d’interpre-
tazione, certo si tratta di un motto fondato o su un ritornello o su un
proverbio popolare 38 , che s’inquadra dunque in ima tradizione in
volgare.
Anche dove riferisce con parole proprie le altre testimonianze, il
giudice adopera numerosi vocaboli in volgare; non solo si guarda dal
travestire in latino i nomi e i soprannomi delle molte persone di cui si
parla, ma anche in molte altre cose fa intravedere abbastanza bene le
parole dei testimoni.
Siamo, come già con la postilla amiatina, nella Toscana occidenta-
le; e alcune caratteristiche del nostro testo sono degne di nota 39 .
38 V., oltre alla bibl. cit. dall’Ugolini, F. Chiappelli, in St. fllol. itaL, JX, 1951, pp.
141-153; L. Spitzer, in Lingua nostra, XIII, 1952, pp. 1-2.
39 Molto interessante è qualche tratto della grafìa-, l’uso di ke, ki per la velare
sorda ha fatto nascere l’idea di ricorrere alla fe per indicare il corrispondente
suono velare sonoro: si ha dunque non solo Gerfalcki, ma pure Maccingki,
Pogkino, Gkisolfolo. Più diffuso Qo ritroviamo specialmente a Pistoia) è il modo di
esprimere la z sorda per mezzo di th- «ego certetham aliam non scio nisi per
auditam», Eldithelli, Benthuli.
Per la fonetica, appare ben documentato il noto fenomeno toscano della
riduzione di -ariu ad -aio-, «Andreas Starna qui Nappaio vocabatur» di contro a
«li nappari». La -e- atona, nella preposizione de non articolata oscilla: «la curie de
Travale» «la curie di Travale», inde atono è ridotto a de-. «Io de presi pane e
vino».
Al singolare Starna (soprannome) corrisponde un plurale Stami.
14. Scritte e ricordi
ì Vediamo ora l’uso del volgare in scritte e ricordi 40 .
.j La carta fabrianese del 1186 incomincia in un latino assai tenten-
j nante, e poi, fin che il formulario aiuta, procede alla meglio indicando il
\ modo in cui i due contraenti debbono procedere nel dividere i frutti di
| beni posseduti in comune. Ma a un certo punto il notaio sembra non
| sappia più sbrogliarsi nel rendere il noi, e poi addirittura l’io, di cui si
1 serve il conte Attolino nell’indicare il modo di spartizione; e passa a
1 servirsi del volgare per un lungo tratto che dura sin quasi alla fine del
1 documento:
m
de quale consortia mai advemo piu de vui, nuì partimo et vui tollete; et o
(«ove») advemo de paradegu, de paradegu parterimu...
et set ce fosse impedementu varcante, lu ’mpedementu sia complitu et pignu
vet mecto per X livere de inforzati... 41 .
Più netta è l’intercalazione del volgare nel latino in un’altra carta
marchigiana di poco posteriore (del 1193), proveniente dall’abbazia
cisterciense di Fiastra. Si tratta di una breve scritta privata in volgare,
inserita nel bel mezzo di ama carta notarile di vendita. Diversamente
dalle carte, «le scritte, che sono atti di carattere assolutamente privato.
La costruzione non ma («non mangiai ma’ mezo pane») ha altri riscontri
nell’italiano antico: «e molla ci ho rimedio ma uno» in un’ Ars dictandi del sec. XIII
(Debenedetti, Giom. stor., CV, 1935, p. 1911, più spesso con l'aggiunta di che «non
avea pianto ma’ che di sospiri» (Dante, Inf., IV, 26), ecc.
Nel lessico, notevoli maccioni «muratori» (dal germ. machio ) e moscia
«massa».
“ La carta di Rossano, del 1118, trascritta dall’Ughelli e poi perduta, è
preziosa per il molto volgare che vi traspare (tanto più se si tien conto della
penuria di antichi testi calabresi): l’intenzione dell’estensore era tuttavia di
scrivere In latino. Si veda il testo critico di A Colonna, in Rend. Ist. Lomb., Lettere.
LXXXIX, 1956, pp. 9-26.
Anche i periodi in volgare inseriti da Ruele, figlio di Ugo signore di
Montemiglio, e priore dell’eremo di Monte Capraro, in un memoratorio della
consacrazione di una chiesa di quell’eremo Qi71), si inseriscono stranamente in un
contesto latino: si direbbe che a un certo punto il priore Ruele si trovasse
imbarazzato nell’esprimere in latino le ipotetiche che si affollavano al suo
pensiero, e perciò le scrivesse in volgare, riprendendo il latino proprio all’ultima
parola, «sci scia excommunicatus ».
41 La distinzione fra -o e -u (mecto, advemo, partimo, ecc.; paradegu, vostro,
tolta, dictu, bonu pingnu, ecc.) è osservata nella grande maggioranza dei casi.
Tipico della zona mediana è il tipo arcoltu per «raccolto».
Il presente di avere, come degli altri verbi in -ere, è in -emo ( advemo ,
odstendemo.adtendemo), mentre il futuro è in -imo (parterimu, adrenderimu,
atverimo).
Per il lessico, si noti sinaita, senaita nel senso di «confine»-, si tratta della voce
longobarda snaida « taglio» (propriamente «intacco fatto in un albero per
indicare il possessore»), documentata in carte latine medievali e viva ancor oggi
in dialetti abruzzesi e siciliani.
100
Storia della lingua italiana
I primordi
101
senza valore legale, e conseguentemente senz’obbligo dello stile e della
formula degli atti legali, cominciano prestissimo a essere dettate ne’
dialetti volgari». Con questa scritta si risale infatti al 1193, «mentre le
carte notarili ufficiali per più secoli ancora durarono a scriversi in
latino» 42 .
Il notaio, a un certo punto della carta di vendita, v’inserisce, senza
avvertire in alcun modo del passaggio, la scritta privata di pegno fra i
medesimi contraenti, la quale era servita di premessa alla vendita. Le
tracce della parlata base si vedono abbastanza bene attraverso la
patina della scrittura 43 .
Una carta savonese, probabilmente del 1182, ci conserva l’inventario
dei modesti averi di una vedova, Paxia, quali essa li dichiarò ai consoli
della città 44 .
Una serie di ricordi privati concernenti le decime che spettavano a
un certo Arlotto si conserva in un testo della montagna pistoiese della
seconda metà del sec. XII:
Alpicione dr. XXVIIII et del due anni l’uno una spalla et una callina, et ornai
anno mezzo staio de orzeo, et ki fuori... 45 .
A ricordi privati appartiene anche la postilla apposta a una carta
pistoiese del 1195. In un codicillo al suo testamento, steso naturalmente
in latino, Gradalone prometteva di rendere ai danneggiati le usure che
aveva percepite. In calce al documento (o, più esattamente, in calce a
una copia autentica, vergata dal notaio Gerardo) si leggono, di mano
dello stesso notaio, alcune righe che costituiscono una specie di
verbale o promemoria della restituzione delle usure compiuta da
Gradalone:
42 C. Paoli, Arch. star, ital., s. 5“, V, 1890, p. 278.
45 Anche qui è osservata, benché non molto scrupolosamente, la differenza
tra -u ed -o finale. Segni di metafonia si avvertono con certezza (mentre erano
vaghi e incerti nella carta fabrianese): Carvone di contro a Carvuni, quistu
accanto a questo ; e cfr. ancora Fracliti, Ofridi , issu; tuttavia resicu.
È ben sviluppato il significato di loro come pronome obliquo (sia loro a
proprietate ). Nel significato di «o» si ha uo, in cui non è da scorgere un
continuatore di aut, che non potrebbe avere il dittongo, ma un vo per voi «vuoi»,
di cui conosciamo numerosi altri esiti nell’Italia centro-meridionale.
44 V. il testo pubblicato e commentato da G. Pistarino, in Cult, neol., XII, 1952,
pp. 239-242. Vi si scorgono bene tratti spiccatamente liguri. Per la grafia, notiamo
la x di prixon « prigione» ecc. e il digramma gu in brague «brache». Per la
fonologia, ai noti la metatesi in pairol «paiolo», e il trattamento di cl in oreger
«origliere» e di ct in peiten « pettine». Il pronome di prima persona è ei. Piuttosto
ricco e interessante il lessico.
45 II testo è stato pubblicato da A. Castellani, in Studi fil. ital., XII, 1954, pp.
5-21. La velare è rappresentata con k (Botaciatikiì o da eh (Finochioì, ma la k
rappresenta anche gh (Kerardiniì. Figurano nel testo i dittonghi ie, uo (tiene, fuori )
e i come esito di rj (dinaio). Si noti il suffisso atono -oro da -olo.
Gradalone si fue nanti Bonus, ke est aguale episcopus de Pistoria, et nanti
l’arcipreite Buoso, sì si concioe con tuti questi omini... 46 .
Della fine del sec. XII è l’elenco parzialmente conservatoci dei beni
e dei redditi della chiesa di Fondi. E una serie di note di questo tipo:
Item vinale unu posto alla veterina a llatu Antoni de Trometa et a sancto
Antoni a la via a longu la macera.
Item Pastena deve dare prò olo sanctu et prò crissima tomela de granimi
nove rase.
Ma molte espressioni rimangono inintelligibili, anche perché prete
Antonio figlio di maestro Niccolò di Fondi era non meno approssimati-
vo nello scrivere in volgare che nello scrivere in latino, se poteva
adoperare locuzioni come prò sacristia capitillum fundanus 47 .
Una serie di ricordi molto più ampia e ricca, importantissima per la
conoscenza del fiorentino del primo Duecento, si ha nei noti frammenti
del libro di conti d’un banco fiorentino, riferiti all’anno 1211 e contenuti
in due fogli di pergamena che fin dal sec. XIV erano stati adoperati per
una legatura. Sono notazioni di questo tipo:
MCCXI. Aldobrandino Petri e Buonessegnia Falkoni no diono dare katuno in
tuto libre lii per livre diciotto d'imperiali mezani, a rrascione di trenta e cinque
meno terza, ke demmo loro tredici dì anzi k alende luglio, e diono pagare tredici dì
anzi kalende luglio: se più stanno, a iiii denari libro il mese, quanto fosse nostra
volontade. Testi Alberto Boldovini e Quitieri Alberti di Porte del Duomo.
La lingua del frammento 48 , malgrado parecchie incertezze nella
grafia 49 , ha una sua fisionomia netta, con una notevole precisione di
termini bancari, la quale ci fa pensare all’esistenza di un uso scritto di
parecchio anteriore alla data del testo 50 .
Troviamo già le caratteristiche del fiorentino, quali sara nn o più
48 Si noti la mancanza del dittongo in omini (Buoso, come nome proprio
germanico, ha un’altra storia); la persistenza di i in arcipreite (da archipresbiter,
-pkebiter), l’epitesi di -e in fue e concioe.
47 È vivo l’uso di fe, come si vede da un esempio di ke. La distinzione fra -u ed
•o è per lo più osservata. Si noti per il vocalismo Valle mature, per il consonanti-
smo Vallecorza e canneté. Al lessico meridionale appartengono le misure
adoperate nell'inventario, le cafise e le tomela.
48 Lo spoglio del Parodi, ricco d’importanti riscontri (Giom. stor., X, pp. 178-
196), va integrato con le ulteriori ricerche di Schiaffmi, Testi, Castellani, Nuovi
testi, e specialmente con l'analisi che accompagna la nuova e dizi one del
Castellani, in Studi filol. ital., XVI, 1958, pp. 21-95.
48 La fe è di gran lunga predominante in tutte, le posizioni, ma Rusticuci,
Compaginino, Compangno, Bellacalza. L’estensore è imbarazzato nello scrivere
ghe, ghi (Arrihi, Ugetti-, con rafforzamento Teckiaio ) e gue, gui (Bonaguida di
contro a Bonaquida, ecc.
50 Si aggiunge anche una conferma esterna: il richiamo di partite segnate in
un «libro veckio».
102
Storia della lingua italiana
ampiamente documentate in testi dei decenni seguenti, tuttavia qua e
là con qualche tratto più arcaico 51 .
Il «breve» del 1219 degli uomini di Montieri nella Maremma toscana
è un documento unico nella copiosa letteratura statutaria italiana. Dì
regola, gli statuti in volgare che ci rimangono sono relativamente tardi,
e rappresentano la versione di anteriori testi latini: invece lo statuto di
Montieri rappresenta, come dimostrò il Volpe che scoprì e pubblicò per
primo il testo 52 , una minuta in volgare, con emendamenti e aggiunte
evidentemente nati dalla pubblica discussione, e introdotti per servire
a una formulazione definitiva dello statuto in latino. Non c’è dubbio
che l’estensore della minuta aveva nella memoria le formule consuete
della legislazione statutaria, che traspaiono chiaramente nel suo
volgare («non essare in consilio nè in facto nè in ordinamento con
alcuna persona», «observare ed adimpire a bona fede senza frode», «se
non fusse per se difendendo», ecc.l.
La grafia è un po’ più «moderna» che nel libro di conti fiorentino 53 ,
ma ancora molto oscillante; alcuni tratti grammaticali distintamente
senesi 54 ; la sintassi piuttosto involuta, per l’evidente sforzo di formulare
già ipotatticamente, in vista della traduzione latina da compiersi, le
osservazioni e controsservazioni sorte nella «compagnia».
15. Iscrizione del Duomo di Ferrara
Si soleva attribuire a una data di poco posteriore al 1135 un’iscrizio-
ne che, secondo testimonianze non anteriori al secolo XVIII, si leggeva
nel duomo di Ferrara. Secondo queste fonti, in un arco che divideva la
navata principale dal coro c’era, accanto all’immagine della Vergine a
mosaico, quella di un profeta, e in un cartoccio pendente dalla mano
sinistra di questo c’era la seguente iscrizione:
51 Si ha l’.anafonesi» caratteristica del fiorentino, e poi -er- per -or- (Aquerellì,
Kafferelli , quiderdoné), epitesi di -a in prestoa (che trova riscontro in testi di San
Gimignano). Troviamo ci accanto a no (e ne in enclisi) come pronome atono di
prima plurale (no promise, no die dare-, ci diè; dene pagare ).
51 ha ovemo (non ancora abbiamo ) e ponemo. Lo' strano infinito avire è
spiegato dal Parodi come effetto del tipo notarile placire, monastirium, e quindi è
diverso dall’avire che troveremo in Guittone, dovuto a influenza siciliana
(Schiaffini, Rassegna, XXIX, 1921, p. 285).
I latinismi non sono frequenti, fuorché in formule di data (infrante, kalende
aprilis ); vivace è però il tipo Arrisalito figlio Turpini, mamma Sinibaldi, per lo
mercato San Brocoli, Borgo Sa Lorenzi (ma anche a konto Amolfino).
52 G. Volpe, «Montieri: Costituzione politica, struttura sociale, attività econo-
mica di ima terra mineraria toscana del sec. XIII», in Vierteljahrschr. fiir Social-
und Wirtschaftsgesch. , VI, 1908, p. 315 ss. Vedi ora il testo, con qualche correzione,
in G. Fatini, «Letteratura maremmana delle origini», in Bull. sen. st. patria, n. s.,
IV, 1933, e in quasi tutte le antologie citate.
53 Si pensi alle scrizioni paghi, paghino, camarlenghi; rasgione, ecc.
54 Cfr. p. es. Iettare, essare, rendare.
I primordi
103
Li mile cento trenta cenque nato
fo questo tempio a san Giorgio donato
da Glelmo ciptadin per so amore,
e tua fo l’opra, Nicolao scolptore.
(«Nel 1135 sorto, fu questo tempio a San Giorgio dedicato da Guglielmo cittadino
per suo amore; e tua fu l’opera, Niccolò scultore»).
Nel 1570-71 il mosaico sarebbe stato danneggiato dai terremoti; nel
1572 si chiamò un pittore a restaurarlo, in modo che l’iscrizione
figurava in parte a mosaico e in parte dipinta; nel 1712 l’arco fu
demolito.
Malgrado qualche dubbio espresso da singoli eruditi sull’antichità e
l’autenticità dell’iscrizione, essa dai più venne ritenuta genuina, e fu
accolta in tutte le sillogi di testi antichi. Ma un rigoroso esame delle
fonti compiuto dal Monteverdi 55 l’ha portato a concludere che si tratta
di una falsificazione di un erudito settecentista, G. Baruffaldi (cui si
aggiunse poi la versione un po’ diversa, ma non meno fantasiosa, di G.
A. Scalabrini). La sua dimostrazione ci sembra senz’altro da accoglie-
re. La copia del Baruffaldi darebbe la trascrizione del testo qual era
dopo il restauro, mentre il testo dello Scalabrini riprodurrebbe l’iscri-
zione prima del restauro (e comunque conterebbe pochissimo, salvo
forse per la parola cinque, che appartenendo alla prima parte non
restaurata potrebbe anche, qualora il testo fosse autentico, rappresen-
tare la scrittura originaria).
La questione dell’autenticità ha una certa importanza per l’origine
degli endecasillabi, di cui si avrebbe nell’iscrizione ferrarese uno dei
più antichi esempi, anzi il più antico conosciuto, se non si interpretano
come endecasillabi i versicoli della postilla amiatina 58 .
Nella lingua dell’iscrizione scorgiamo qualche traccia settentriona-
le (fo «fu», so «suo») e fortissime impronte latine: latinismo è tua, come
si deve certo leggere nell’ultimo verso 57 , latineggiante è la grafia di
scolptore (e, a suo modo, quella di ciptadin ). Ma tutto codesto non
importa più se si tratta di ima falsificazione.
16. Ritmi giullareschi. Elegia giudaica
Con i ritmi giullareschi abbiamo la testimonianza di un modo
peculiare di vita culturale: uomini con una certa infarinatura di studi
55 Monteverdi, «Lingua italiana e iscrizione ferrarese», in Atti dell’Vlll
Congresso int. di studi romanzi, II, Firenze 1959, pp. 299-310.
“ L’ipotesi più probabile sulTorigine dell’endecasillabo è tuttora quella del
D’Ovidio che Io faceva risalire al saffico ritmico (Ut queat laxis resonare fibrisY.
D’Ovidio, Versificazione ital. e arte poetica medievale, Milano 1910, pp. 197-202.
Monteverdi, in Studi rom., XXVIII, 1939, pp. 141-154.
57 Prima di L. Olschki (Arch. rom., XX, 1936, pp. 257-260), si leggeva mea,
attribuendo i primi endecasillabi italiani allo stesso Nicolao.
104
Stona della lingua italiana
I primordi
105
che si rivolgono a una cerchia di persone per divertirle, per edificarle,
per trame guadagno.
Il più antico conservatoci, il quale, malgrado numerose oscurità
d’interpretazione, ci permette d’intravedere parecchi aspetti della vita
dei giullari, è il ritmo Laurenziano, il più antico componimento poetico
it alian o che si possa chiamare letterario (sia pure molto modestamen-
te) 5 ®. Si tratta di venti doppi ottonari, scritti di séguito, nell’ultima
pagina di un codice laurenziano contenente un Martirologio, da ima
mano degli ultimi anni del sec. XII o del principio del XIII. Il giullare si
rivolge a un vescovo (Villano arcivescovo di Pisa, secondo 1 ipotesi del
Cesareo, accolta dal Mazzoni) facendone lodi sperticate e pronostican-
dogli nientemeno che il pontificato, con la speranza di ottenerne in
dono un cavallo: se lo ottiene, lo mostrerà al vescovo di Volterra,
Galgano. Del resto, un dono simile lo aveva già avuto da un altro
vescovo generoso, Grimald(esck>. La scena del giullare che recita i suoi
versi davanti al vescovo e alla sua corte s’immagina bene; dove essa si
sia di fatto svolta, è difficile dire, per le incertezze che rimangono
nell’identificazione dei tre vescovi: forse la stessa Toscana occidentale,
dove già abbiamo trovato che Malfredo per un verso o un buon motto
era dispensato dal far la guardia. Molto più importerebbe 1 accerta-
mento del territorio linguistico da cui il giullare proveniva, ma le
incertezze permangono 59 .
Le allusioni dottrinali (Fisolaco, cioè «il Physiologus »; Cato, cioè «i
Disticha Catonis »), lo schema metrico affine alla Sancta Fides provenza-
le, l’ordinamento conforme alle prescrizioni retoriche (salutatio , capta-
no benevolentiae, petitio, exemplum ) mostrano nel verseggiatore ima
certa cultura, applicata al fine pratico che egli si proponeva.
Più alto livello e fini di edificazione rivelano il ritmo di Sant’Alessio,
di provenienza marchigiana, e il ritmo Cassinese, conservato in copia
nel cenobio in cui probabilmente fu composto: l’uno e l’altro della fine
del sec. XII o del principio del XIII. Ambedue si rivolgono a un pubblico
distinto 80 , riferendosi nella narrazione, più o meno mimata, a un rotolo
58 Ampia bibliografia nelle antologie più volte citate (aggiungi i contributi più
recenti di L. Spitzer, Italica, XXVIII, 1951, pp. 241-248“; Camilli, Lingua nostra, XIII,
1952, pp. 45-46, Castellani, St. fll. it., XVI, 1958, pp. 10-13). Gli articoli più importanti
sono quelli del Mazzoni, St. mediev., n. s., 1, 1928, pp. 247-287, del Casella St. fll. it.,
II, 1929, pp. 129-153, e di nuovo del Mazzoni, St. fll. it., Ili, 1932, 103-162;ora quello del
C&stsU ani
50 II Castellani, dopo aver mostrato (art. cit., pp. 12-13) che i fondamenti su cui
il Casella aveva pensato alla Toscana orientale sono troppo incerti, conclude che
il ritmo non offre elementi per ima localizzazione sicura nell’àmbito della
Toscana propria: nulla tuttavia si oppone all’ipotesi che il giullare fosse
volterrano. . .
» cfr. «ore odite», S. Alessio, v. 3; «hore mo vo dico», v. 13-, «et mo, semun, or
ascoltate», v. 222; «Eo, sinjuri, s’eo fabello, lo bostru audire compello», R. Cassia.,
w. 1-2; «Ergo poneteb’a mente», v. 27, ecc.
ovvero a un cartellone contenente una figurazione dei principali
episodi 61 .
1 257 versi del ritmo di sant’Alessio narrano solo la prima metà della
leggenda del santo (cioè la nascita, il matrimonio, l’esortazione alla
moglie, la fuga a Laodicea, la vita da mendicante) 62 . Parecchi indizi
confermano che l’autore del ritmo era della stessa regione da cui
proviene la copia del poemetto, cioè marchigiano 63 . Le numerose
oscillazioni di forma che si osservano nel testo del ritmo saranno in
parte dovute alla copiatura, ma altre è probabile siano mescidanze
linguistiche dovute al giullare. Il quale di tanto in tanto adopera
qualche verso intero o qualche parola in latino, parecchi latinismi e
alcuni gallicismi.
Lo schema metrico, una serie di lasse ciascuna composta di una
serie di ottonari (o novenari), seguita da una coppia di endecasillabi, si
ritrova, in forma leggermente più complicata, nel ritmo di Montecassi-
no. In questo 64 , il verseggiatore dopo una specie di prologo con la
captatio benevolentiae e la dichiarazione del carattere allegorico del
componimento, narra ai suoi uditori l’mcontro e il dialogo fra due
personaggi, l’imo (il Mistico) che viene dall’Oriente, l’altro (il Mondano)
che viene dall’Occidente. Il testo è stato ritenuto molto lacunoso dal
D’Ovidio, che voleva conformarlo a uno schema rigoroso, ma poiché
alla poesia delle origini dobbiamo riconoscere un’assai ampia libertà
metrica, è meglio rimanere aderenti al testo tramandato: e basterà
amm ettere una sola lacuna.
La lingua del testo offre problemi diffi cili, ma nulla ci obbliga ad
allontanarci dalla Campania, anzi dai dintorni di Montecassino 66 .
81 È un’idea del Nigra, accolta dal Monaci (Rendic. Acc. Lincei, XVI, 1907, p.
113) e applicata dal Casini (Studi di poesia antica. Città di Castello 1914, p. 87) al
ritmo Cassinese. Sull’uso degli exultet, rotoli membranacei ornati di miniature
disposte in senso inverso al testo perché il popolo le osservasse, v. Monaci, Crest.,
p. 47L
62 Sappiamo da altre fonti che la leggenda del santo era cara alla tradizione
giullaresca: subito dopo la metà del sec. XII, Pietro Valdo a Lione, mescolatosi
alla turba che ascoltava un giullare narrare di sant’Alessio, «ex verbis ipsius
compunctus fuit».
63 La distinzione fra u ed o finali è osservata con notevole costanza; si
distingue il maschile dal neutro nei pronomi e in alcuni dimostrativi; nd dà nn,
con qualche oscillazione e parecchie regressioni, i gruppi «cons. + l» sono intatti
(flore, slatta, ecc., fuorché in kina o), ecc. Ricordiamo un solo fatto lessicale: afflao
217 «trovò» (da afflare, tuttora ben rappresentato nei dialetti meridionali).
64 Sul ritmo cassinese, si vedano specialmente l’ampio saggio del D’Ovidio, in
Studi rom., VIII, 1912, pp. 101-217 e Vuolo, in Cult, neol., VI- VII, 1946-47, pp. 39-79,
Spitzer, in St. mediev., XVIII, 1952, pp. 23-54, Pagliaro, in Rend. Acc. Lincei, s. 8 a ,
XII, 1957, pp. 163-248 (rist. in Poesia giullaresca e poesia popolare, Bari 1958, pp. 194-
232), Panvini, Il Ritmo cassinese, Catania 1957, Segre, in Giom. star. , CXXXIV, 1957,
pp. 473-481. Il lavoro di L. De Palma (Bari 1946) è peggio che mutile (Contini,
Belfagor, I, 1946, pp. 595-601, Schiaffini, Rass. d’Italia, nov. 1946, pp. 107-U5).
65 Manca il dittongamento di é e ó; nel trattamento delle atone prevalgono e
106
Stona della lingua italiana
L’appello al pubblico, il probabile uso di immagini figurate, il
dialogo che fa pensare a una recitazione mimata, la struttura metrica
ci richiamano alla letteratura giullaresca; ma certo l’autore del ritmo
Cassinese è notevolmente più colto di quello del ritmo Laurenziano e
del Sant’Alessio: lo mostrano le voci latine non adattate (ergo, vir, ecc.)
e i latinismi assai numerosi ( compello , interpello, albescente, sitiente,
ecc.) che palesano familiarità con il latino dei tribunali e delle scuole.
Né mancano provenzalismi e francesismi ( deportare , 22; fui trobata, 65;
destuttu 59, ecc.).
Siamo insomma in presenza di uno scrittore che, adeguandosi alle
forme giullaresche, sa il suo latino e conosce la vita cortese. Non è
illegittimo parlare per il nostro testo, di «campano illustre*.
Un altro componimento poetico religioso, diverso di carattere
perché proveniente da ima comunità israelitica, è un’elegia giudeo-
italiana, conservata da due manoscritti in lettere ebraiche.
Scritta per essere cantata dal sacerdote durante le cerimonie del
digiuno di Ab, l’elegia narra la dispersione del popolo ebreo, sofferman-
dosi sulla triste sorte di due giovinetti di nobile stirpe, fratello e sorella,
venduti come schiavi, sulla loro agnizione e la loro morte; le lamenta-
zioni sul popolo ebreo e sui due giovinetti si mescolano alle invocazioni
al Signore. È indubbia l’influenza di composizioni giullaresche di
carattere religioso (p. es. nel dialogo della meretrice e del taverniere,
padroni dei due giovinetti), ed è possibile che vi sia qualche preciso
ricordo del S. Alessio. Per la localizzazione del testo non ci soccorre
alcun indizio esterno: i riscontri letterari (S. Alessio, Pianto delle Marie )
fanno pensare piuttosto alle Marche; i tratti dialettali ci riportano ai
dialetti mediani (marchigiano-umbro-romaneschi), senza che sia possi-
bile ima più precisa determinazione 96 .
3
,-s
-V
J
17. Ritmi storici
Due altri testi ci documentano un diverso aspetto dell’uso del
volgare: la narrazione fatta da cittadini in ritmi facili e concitati di
avvenimenti bellici che interessavano le rispettive città, una specie di
ed u; -u finale si distingue da -o e produce metafonesi; quasi dappertutto abbiamo |
b in luogo di v ; i gruppi «cons. + l» persistono; importanti i resti e le espansioni 3
analogiche di pronomi personali dativi Uebe 84, sebe 8; por vebe 111 che ci
richiamano bobe della testimonianza di Teano (ma anche u tteve-, S. Alessio 65>,
fora 46, e probabilmente boltiera 51, sono piucchepperfetti con valore di condizio-
nali («sarebbe», «vorrebbe»). . ì
66 Sulle difficoltà dipendenti dall’uso dei caratteri ebraici, v. Cassuto, m |
Silloge ..Ascoli, Torino 1929, p. 357. Uno spoglio dei suoni e delle forme è dato dal |
Cassuto, pp. 376-381. Per il lessico, si noti, ad es., certo (v. 109) «presto» fiat. cito), .»
che figura come marchigianismo nella canzone del Castra (Cierto detto s agia, v. |
2), si ha in Iacopone e spesso nelle laude drammatiche umbre, e di cui si trovano ,
tracce nel Lazio. 11 S. Alessio ha la parola nella forma citu (v. 201). ;
I primordi
107
bollettini di guerra in versi, con l’esaltazione della «buona causa». Si
tratta di un frammento bellunese del 1193, di quattro versi, e di un più
ampio frammento lucchese del 1213, l’uno e l’altro inclusi in narrazioni
cronistiche latine di poco posteriori: il cronista, giunto a parlare
dell’avvenimento che era stato messo in versi sùbito dopo il fatto, fa
sue le parole del verseggiatore.
Il passaggio dal latino al volgare avviene senza alcuna transizione
nel testo bellunese:
De Casteldard avi li nostri bona pari;,
i lo getà tutto nitro lo flumo d'Ard;
e sex cavaler de Tarvis li plui fer
con se duse li nostri cavaler.
(«Di Castel d’Ardo ebbero i nostri buon partito, e lo gettarono tutto entro il
fiume d’Ardo; e sei cavalieri di Treviso i più fieri con sé condussero i nostri
cavalieri» 67 ).
Invece nel testo lucchese, il cronista che ha cominciato a narrare in
latino lo scontro tra un gruppo di Lucchesi contro un maggior gruppo
di Massesi, Pisani, Pistoiesi e altri ancora, man mano che viene a
precisare i particolari si ricorda delle parole del ritmo; e ne fa proprie
alcune frasi, finché passa addirittura a ripetere le notizie e il commento
politico («Di lui e li altri sia vendecta*, ecc.).
Questa funzione cittadina e «pubblicistica* del volgare è assai
importante, anche se le testimonianze ne sono così scarse.
18. Versi volgari in un dramma liturgico
Il brevissimo lamento di Maria, cioè i tre versi, rimati, con caratteri
fortemente meridionali, che chiudono un dramma liturgico latino sulla
Passione, della fine del sec. XII,
... te portai nillu meu ventre.
Quando te beio, moro presente.
Nillu teu regnu agirne a mente
è un’importante testimonianza dell’infìltrarsi del volgare nella poesia
drammatica religiosa 88 .
67 Nel testo bellunese va notata qualche traccia supradialettale: sia per
mezzo di latinismi (non solo il discusso sex, ma anche intro ), sia per la
reintegrazione della vocale finale in tutto e in flumo (specialmente riconoscibile
nel secondo vocabolo, in quanto si tratta di ricostruzione analogica).
“ Si noti, accanto a beio con b- da v-, ventre con v-, probabilmente per ricordo
latineggiente di fructus ventris tui.
108
Storia della lingua italiana
19. Sermoni
Altra manifestazione dell’attività religiosa in volgare sono 22
sermoni piemontesi, la cui lingua non è stata ancora studiata nei
particolari 88 . Il predicatore per lo più parte da un passo del Vangelo,
che traduce e commenta. P. es. (sermone II):
Dominus dicit in evangelio: Beati nusericordes quoniam ipsi misericordiam
consequentur. Seignor frere, nostre Sire dit en son evangeli que bonaurai sun cil
qui an misericordia, quar il la troveran plenerement. Perqué etc.
Si tratta di un testo piemontese, messo per iscritto e copiato da uno
che era abituato alla grafia francese, e ne applicava le consuetudini (e
anche alcune forme e alcuni vocaboli) al testo che scriveva o che
copiava 70 .
Notevole è anche l’influenza del latino: l’autore dei sermoni lo
distingue più nettamente dal volgare che non sappia distinguere i
-diversi volgari fra loro.
In complesso, il territorio piemontese era (e sarà ancora a lungo)
linguisticamente molto staccato dal resto d’Italia.
20. Versi didattici
Appartiene probabilmente ai primissimi anni del sec. XIII un
poemetto di 189 quartine monorime di doppi settenari: è una serie
d’affermazioni e di consigli fieramente misògini, primo esempio rima-
stoci di quella letteratura morale-didattica a cui daranno opera
Uguccione, Patecchio, Bonvicino. Lo scritto, che si può intitolare
Proverbi de femene, è in un dialetto lombardo a cui non è possibile
assegnare un luogo preciso.
Ecco una quartina-.
E corno son falsiseme piene de felonia
et unqa mai no dotano far caosa qe rea sia.
Or dirai qualqe caosa de la lor malvasia,
ond se varde li omini de la soa trìijaria 71 .
Può bastare un solo esempio a mostrare come si mescolino nel testo
(certo in gran parte per opera dell’autore, forse in piccola parte del
copista) rudi forme dialettali con altre che rappresentano un uso più
arcaizzante, e altre ancora che si conformano al latino. Se si esamina- J
no le parole che avevano in latino una -t-, troviamo ben quattro esiti: %
sparizione (spaa, quart. 54, mua, 149), dh (redhi, 155), d ( mercadi , |
69 Dopo lo spoglio del Forster, Roman. Studien, IV, 1879-1880, pp. 40-80.
70 È pressoché costante, p. es., la grafia que, qui per la velare davanti a c, i, ..
senza tracce (fuorché nel latino: fratres karissimi) della fe.
71 La lingua del poemetto è stata studiata da A. Raphael, Die Sprache der
Proverbia que dicuntur..., Berlino 1887.
1 primordi
109
ramadi, resonadi, 55), t tornito, entenduto, recordato, dato «dado», 53). La
ragione della scelta spesso è riconoscibile: nella quartina 55 l’ultima
parola del primo verso è Barbacoradi, che ha suggerito la scelta della
forma in -d-. Questa libertà qualche volta giunge a provocare degli usi
regressivi: nella quartina 81 il versificatore adopera scaltride e tride per
rimare con ride e aside ; ma altrove (56) accanto a marito, partito e
fiorito si lascia andare a adoperare un rito per rido, che certo non è
stato mai usato parlando 72 .
Nel lessico abbondano i gallicismi ( acolar «abbracciare», 93-, cobiti-
eia «cupidigia», 181; a lo men esciente, 94; esdito «sentenza» 20; meseli
«lebbrosi», 181-, sagire «afferrare» 146; trigaria «inganno» 17, ecc.) e i
latinismi (malicia, 143-, nequicia, 64; ne novene ne sene, 63 ecc.).
Insomma, se il pensiero e la tecnica dell’autore dei Proverbi
possono sembrarci ingenui, la lingua è assai composita.
21. Il contrasto e il discordo di Rambaldo di Vaqueiras
Nel canzoniere di Rambaldo di Vaqueiras, trovatore provenzale fra
i più notevoli, troviamo un contrasto e un discordo con parecchi versi
scritti volutamente in italiano 73 . Nel contrasto, scritto verso il 1186,
Rambaldo presenta un cavaliere che dichiara il proprio amore a ima
donna, in tre strofe di 14 versi e un congedo di 6, con lo stile
convenzionale della lirica cortese; la donna, ima popolana, risponde in
altrettante strofe con energico disdegno, rifiutando il suo amore e
trattando il cavaliere da giullare. L’uomo parla in provenzale, la
donna, che è presentata come una «genoesa», in un dialetto letterariz-
zato.
Rambaldo visse a lungo in Italia come poeta di corte (e poi valente
guerriero) presso Guglielmo III e Bonifacio di Monferrato; ma egli era
un poeta provenzale e non un dialettologo moderno: il valore di questo
testo consiste non tanto nel carattere documentario, che non potrebbe
avere, quanto nello sforzo del poeta di adattare un dialetto non scritto
(e, nel sottofondo, i tanti altri dialetti che avrà sentiti in Italia) agli
schemi linguistici e letterari della fiorente cultura provenzale. Ne è
risultato un testo assai misto 74 .
72 Qualche altra peculiarità: il largo uso di q per c velare iriqe, 135); la facoltà
di adoperare forme apocopate in consonante o gruppo consonantico, salvo che
alla fine del verso o dell’emistichio («Quel q’eu diga de femene, eu noi dig per
entagna» 85); la forma lero per «loro», sia come pronome obliquo plurale (70, 87,
180) sia come possessivo (98, 162, 183): però qualche volta c'è anche loro; la
desinenza in -emo per il pres. ind. della I con.: trovemo; oscillazione fra -ave e -ia
nel condizionale (porave, 88, devria, 142).
73 Dei due testi si è occupato a varie riprese il Crescini (negli articoli citati nel
suo Manuale provenzale e nei Testi del Monteverdi); per la lingua, v. spec. Parodi,
Lingua e lett., pp. 296-300.
74 Spesso si sente il provenzale sotto ima patina genovese: Rambaldo, che ha
appreso che a plus provenzale corrisponde chu genovese, applica il modulo
no
Storia della lingua italiana
Nel discordo, che è probabilmente degli ultimi anni del secolo XII,
Rambaldo vuol mostrare lo sconvolgimento prodotto in lui dalla sua
donna usando cinque lingue diverse, una per ciascuna delle cinque
strofe, e tutte e cinque (due versi per ciascuna) nel congedo. Alla strofa
provenzale segue quella italiana; poi una francese, una guascone e una
ibero-romanza. La lingua della quinta strofa è così mista da rendere
impossibile di dire se il poeta abbia voluto scrivere in portoghese o in
galliziano (meno probabilmente in spagnolo); e proprio questo fatto ci
suggerisce di considerare per parallelismo la seconda strofa, piuttosto
che genovese, «lombarda» (nel senso antico del termine). C è sì uno
spiccato genovesismo: un codice (a 1 ) ci dà al verso 15 ghu, che trova
riscontro nel chu del verso 25 del contrasto. Ma i dieci versi sono in ima
lingua molto composita-, si veda p. es. ò 12 di contro a aio 9 (cfr. anche i
futuri averò 10, partirò 16, farò 44) 75 .
Le strofe italiane di Rambaldo manifestano, come s’è visto, una
forte dipendenza dal provenzale. Ma, a differenza di tutti gli altri testi
che abbiamo visto sin qui, non c’è traccia, si può dire, di influenza
latina 78 . La sua propria lingua era già abbastanza alta e nobile e
matura, agli occhi di Rambaldo, per valere come lingua a sé, senza che
ci fosse bisogno di ricorrere al latino.
22. Bilancio di due secoli e mezzo
Se consideriamo in complesso i testi che abbiamo visti fin qui,
troviamo che il bilancio è assai magro. Intravediamo bene o male,
piuttosto male che bene, il quadro dell Italia dialettale già formato 77 -, e
in esso emerge l’influenza di centri come Roma e Montecassino.
anche a chaidejai 16, deschasei 47 (ma ci sono pure plui 17 e plait 19). Anche ganzo
72 sembra il provenzale gaug travestito in genovese Gè antiche Rime genovesi,
d’un secolo più tarde, hanno goyo e gozoì. Interessanti i futuri scanerò e amerò,
serbati dal codice a': li troviamo anche nelle antiche Rune; e poiché m quelle
troviamo Catarina, Margarita, masaritie, i futuri vanno spiegati non con un
mutamento fonetico, ma per analogia dei futuri della 2“ e 3 a coniugazione
(Flechia, Arch. gioii il, X, pp. 146 e 160).
75 Anche qui abbiamo voci provenzali travestite, p. es. glaio «gladiolo». Non
ci dobbiamo poi nascondere che la tradizione manoscritta lascia campo a molte
incertezze
Il chu del verso 15 è estremamente probabile, come lectio difficilior che nessun
copista si sarebbe arbitrato d’introdurre in luogo di plus o pus degli altri codici:
ma non possiamo dire lo stesso di io, testimoniato dal solo codice f in luogo di eo
eu degli altri codici. Nel contrasto si ha pure e (o euì-, e il criterio della lectio
difficilior (Crescini, Romanica fragmenta, Torino 1932, p. 524) non si può senz altro
applicare, perché il copista del codice f può anche aver voluto ipentalianizzare
un testo che sapeva italiano.
76 Vapril del v. Il del discordo è attestato solo dal codice f (contro abnl o
abrilo di tutti gli altri codici): se aprii è autentico, sarà un latinismo dell uso
genovese, non di Rambaldo. ,
77 Rinviamo ancora al bel panorama del Vidossi (cit. a p. 88).
I primordi
111
Quantunque l’esempio delle grandi letterature d’oc e d’oil e delle
lingue rispettive si faccia sentire, non vi è ancora alcuna opera d’arte
che possa anche lontanamente competere con quelle, e che possa
assumere il valore di un modellò letterario e linguistico 78 .
Si tratta ancora di tentativi modesti, quasi sempre prevalentemente
pratici. S’intravede ima tradizione nei ritmi dei giullari, ma non è
verosimile che le loro rozze cantilene possano avere contribuito a
portare ima qualsiasi forma o parola toscana agli iniziatori della
poesia siciliana 79 .
Tuttavia già appare la tendenza a evitare le forme dialettali più
crude, più strettamente locali; e specialmente nei testi in versi appaio-
no numerosi doppioni.
Certo, la testimonianza dei testi andrebbe completata con il molto
che si può ricavare dai volgarismi sparsi nelle carte latine di questa
età. Ma questa esplorazione di caratteristiche grammaticali e lessicali
volgari è, si può dire, appena iniziata.
Data la relativa scarsezza e disformità dei testi e degli spogli da
documenti, non ci sembra che metta conto di tracciare un inventario
dei fenomeni grammaticali per questo periodo. Anche per il lessico un
inventario separato è difficile. Si potrebbero, certo, mettere in luce
molte nuove formazioni e nuovi significati sorti in questi secoli: p. es.
podestà applicato nella seconda metà del sec. XII ai podestà imperiali,
poi al principio del sec. XIII ai podestà forestieri. Spesso si ricorre al
latino ( comune , console, ecc.), e si è già fatta sentire l’influenza francese
(suffisso -iere, mangiare nelle testimonianze di Travale, ecc.) e quella
araba. Ma sarà meglio dare un cenno complessivo sul lessico quando
potremo anche disporre della documentazione assai più larga che si ha
nel Duecento: rinviamo perciò la trattazione al capitolo seguente.
78 V. le pagine sintetiche del Terracini, in Cult, neol., XVI, 1956, pp. 19-25.
79 Come pensava il Torraca, nella conclusione dell’articolo «Su la più antica
poesia toscana» (1901), rist. in Studi di storia letteraria, Firenze 1923.
CAPITOLO IV
IL DUECENTO
(1225-1300)
1. Limiti
Toccheremo in questo capitolo delle principali vicende dei volgari
d’Italia, cominciando dal terzo decennio, in cui appaiono le prime
sicure manifestazioni di scritti con intenzioni d’arte, e terminando con
la fine del secolo. E assisteremo al costituirsi di una tradizione che
durerà poi sempre saldissima, almeno per la poesia.
2. Vicende politiche
La politica italiana è dominata dalla poderosa figura di Federico II
dal terzo al quinto decennio del secolo, cioè dall’anno del suo ritorno in
Italia e della sua incoronazione (1220) fino all’anno della morte (1250).
Alcune direttrici dell’azione di Federico hanno importanza durevole:
l’opera di riordinamento amministrativo del regno di Sicilia, fondata su
funzionari anziché sul tradizionale regime feudale ed ecclesiastico,
l’opera di legislazione ripresa come continuazione del Corpus iuris
giustinianeo; invece il suo tentativo di ri unir e sotto un solo governo il
Regno e quella parte d’Italia che non dipendeva direttamente dal
pontefice fallisce, per la forza e il sentimento d’indipendenza che ormai
possiedono in quelle terre della penisola le città-stato, i Comuni e
alcune potenti casate. All’appoggio di Federico sono forse dovute
alcune migrazioni di colonie valdesi (provenzali) in Calabria.
A Firenze, la città che tiene, si può dire, le fila dell’opposizione a
Federico, ricevono nuovo impulso i nomi di Guelfi e Ghibellini: essi
erano nati in Germania nelle lotte per la successione dell’Impero dopo
l’estinzione della Casa di Franconia, e a Firenze diventano segnacoli
della politica italiana.
Alla morte dell’imperatore tien dietro, in Firenze, lo stabilirsi del
regime del «primo popolo»; e nel 1252 viene coniato il fiorino d’oro, che
s’impone rapidamente per la sua eccellenza e la sua stabilità in tutti i
mercati italiani ed europei Qo segue, nel 1289, il ducato di Venezia,
altrettanto apprezzato).
La battaglia di Montaperti (1260) segna un breve trionfo dei
Ghibellini: poco dopo, per contraccolpo della sconfitta e della morte di
Manfredi a Benevento (1266), si ha la riscossa dei Guelfi.
114
Stona della lingua italiana
I possessori di terre dai dintorni tendono a entrare in città e a
farvisi cittadini. Nel 1293 gli Ordinamenti di giustizia segnano il
predominio del popolo nel Comune-, contemporaneamente la pace di
Fucecchio dà a Firenze la supremazia sulle altre città toscane (Arezzo,
Pisa).
Segni di crescente importanza dei ceti popolari (benché non mai di
quelli infimi) sono l’istituzione del capitano del popolo che rappresenta
le Arti e limita l’autorità podestarile, e più tardi quella dei priori.
In parecchie città settentrionali si sta consolidando l’autorità di
famiglie che di fatto esercitano la signoria (Estensi, Scaligeri, Visconti).
Gli Angioini, collocati in posizione preminente dall’appoggio papàie
e dalla vittoria sugli Svevi, hanno ima potente piattaforma nel Regno e
propaggini d’autorità in tutta l’Italia. La Sicilia, dopo poco più di un
decennio di dominazione angioina, è più o meno strettamente legata
agli Aragonesi. Questi tentano anche d’impadronirsi della Sardegna,
dove tuttavia ancora predominano i Pisani.
3. Vita culturale
Alla corte fridericiana, un gruppo di laici colti prende quelle
funzioni esecutive che finora nelle corti erano state esercitate da alti
dignitari ecclesiastici o feudali. |
Si sa quale fervore intellettuale dominasse Federico e, per suo |
impulso, la corte-, l’imperatore si faceva leggere Aristotile e compieva |
osservazioni naturalistiche, disputava per lettera di cose matematiche
con sovrani orientali, promoveva traduzioni dal greco e dall’arabo. |
Quel favore di cui i trovatori godettero largamente presso le corti |
settentrionali, mancò loro invece in quella di Federico II. Di imo solo, ;■
Guglielmo Figueira, sappiamo che fece breve soggiorno presso di lui 1 . |
Ma l’affiato della poesia trobadorica animò la nuova forma di poesia |
che ebbe nome dal «regale solium» di Federico. |
La vita universitaria, che prima sì era manifestata solamente a ìj
B ologna, ora si estende a varie sedi: Padova (1222), Napoli, consciamen- |
te contrapposta da Federico a Bologna (1224), Arezzo, Roma, Siena. |
Nelle università si coltivano distinte, ma non separate, l'ars notariae e |
l’ars dictandi: diritto e retorica si congiungono nella stesura degli atti J
pubblici. Anche se non è possibile accogliere la tesi del Monaci 2 che fa |
nascere il volgare illustre dal contatto avvenuto all’università di |
Bologna fra studenti di varie regioni d’Italia, è certo che Bologna J
esercitò una notevole influenza conguagliatrice. f
1 Quanto ai giullari, con una delle sue prime leggi, promulgata a Messina, li |
abbandonò alle vendette di quelli che fossero stati offesi dalle loro parole j
(Torraca, Studi di storia lett., cit., p. 21). — )
2 Nel noto articolo della Nuova Antol ., 15 agosto 1884: «Da Bologna a Palermo: |
primordi della Scuola poetica siciliana».
Il Duecento
115
Ed è nota l’importanza che hanno nella vita culturale di questo
periodo notai e giudici: Giacomo da Lentini (il Notaro per antonomasia),
Pier della Vigna, Brunetto, Guido Guinizzelli, Cino da Pistoia, ecc. Giu-
dice era anche il fondatore del preumanesimo padovano, Lovato dei
Lovati.
La stragrande maggioranza degli scritti di questo periodo è ancora
in latino, e l’appena nascente letteratura volgare s’appoggia alla pluri-
secolare letteratura latina per trarne alimento, soprattutto per mezzo
di traduzioni
Hanno notevole prestigio anche le due lingue letterarie d’oltralpe.
Da un lato l’epopea carolingia e le ambages pulcerrime dei romanzi
arturiani (Dante, De vulg. el., I, x, 2), dall’altro la poesia trobadorica con
la nuova concezione dell’amore cortese si presentavano alla nuova
civiltà italiana come insigni modelli letterari, degni di essere imitati
nelle lingue originarie o in un volgare italiano nobilitato.
Intensa è la vita religiosa, sia nelle forme che si incanalano (o che la
Chiesa riesce a incanalare) nell’ortodossia, sia in forme più o meno
ribelli Dei primi decenni del secolo è la nascita dei nuovi ordini di san
Domenico e di san Francesco; un po’ più tardo è il riordinamento degli
agostiniani, seguito dalla loro rapida espansione nella seconda metà
del secolo. Ondate di pietà suscitano veri movimenti di folla: il «tempo
dell’Alléluia» (1233) e la devozione dei Flagellanti (1260) danno origine
non solo avarie devozioni, ma a laudi e cantilene. Le Confraternite che
si fondano un po’ dappertutto vogliono avere i loro laudari, e così le
laudi si scambiano fra paese e paese.
Nel campo scientifico, il Duecento segna il trionfo della scienza
greca passata attraverso l’interpretazione di Averroè e degli altri mae-
stri arabi
Il pensiero teologico, che fa capo principalmente a Parigi, è dappri-
ma contrario alla filosofia di Aristotile; ma poi, specialmente per opera
di Tommaso d’ Aquino, le difficoltà sono superate e il pensiero dello
Stagirita diventa un caposaldo della filosofia cristiana occidentale.
E appena necessario ricordare la grande fioritura delle arti, special-
mente dell’architettura, in questo periodo, che è quello che vede
sorgere le cattedrali di Siena, di Orvieto, e Santa Maria Novèlla e
Santa Croce a Firenze. Santa Maria del Fiore è iniziata nel 1296.
Sintomo di un ravvicinamento fra le sparse membra della penisola
è l’apparizione del nome di Italiano. Nella latinità medievale accanto a
Italia si avevano Italus e Italicus, in volgare mancava ancora un
termine. Specialmente oltre le Alpi si tendeva a adoperare lombardo
come termine complessivo: i Francesi, dice Salimbene (Cron., p. 933
Bernini), e le testimonianze si potrebbero moltiplicare, «inter Lombar-
dos includunt omnes Italicos et cismontanos». Nel 1278, avverte il
Sapori 3 , quando si trattò con il re di Francia per il ritorno a Nimes dei
3 Studi di storia economica medievale, Firenze 1940, p. 561.
116
Stona della lingua italiana
mercanti italiani scacciati, si fece avanti un Piacentino col titolo di
«capitaneus mercatorum lumbardorum et tùscanonim»; invece nel
1288 nelle fiere di Sciampagna apparve l’«Universitas mercatorum
Italicorum ». .
Già qualche anno prima Brunetto Latini nel Tresor (fra il 1260 e il
1266) aveva adoperato a più riprese Ytaile (contrapposta alla più
ristretta Lombardie) e Ytalien (I, 1,7; I, 129,2; III, 1,3; III, 75,15 Carmody)
e un anonimo compilatore di «esempi» aveva rielaborato un passo di
Valerio Massimo (in un linguaggio di colorito senese) con le parole
seguenti: «Et di ciò dice Valerio che avendo li romani preso uno
grande ytaliano...» 4 . L’etnico è coniato evidentemente partendo da
Italia, secondo il modello di Sicilia-siciliano 5 , Venezia-veneziano, Istria-
istriano, ecc. 6 .
4. Latino e volgare
Per rendersi conto della consistenza e del carattere degli scritti
in volgare, bisogna anzitutto tener conto che in questo secolo e ancora
per lungo tempo, gli scritti in latino rappresentano la stragrande
maggioranza. Le opere teologiche e filosofiche, le leggi e i commenti
al codice, le cronache, i trattati di medicina e di astrologia: tutto o
quasi tutto è in latino. La latinità di S. Tommaso, di S. Bonaventura,
di Albert ano da Brescia, di Iacopo da Voragine, di Salimbene da
Parma, di Stefanardo da Vimercate, si manifesta in forme assai
diverse 7 .
Si legga la lettera di condoglianza indirizzata da Pier della Vigna
ai professori di diritto civile di Bologna per la morte di Giacomo
Balduini:
Iuris civilis professoribus universis magister Petrus, salutem... Amaritudo
amarissima et materia concreta doloribus humanis noviter mentibus occurre-
runt. Nam unicus et singularis in terris homo, in quo velut in suo proprio leges
convenerant, et vivebat eloquentiae tuba, et consilii plenitudo sedebat, est
revocatus ad patriam, de cuius revocationis amaritudine vox populi a fine usque
in fmern et terminos orbis terrae dolorosa multum exivit. Nec mirum, quia iam
< Rheinfelder, in Rom. Forsch., LIV, 1940, p. 327. Già ci sono esempi di Taliano
come antroponimo alla fine del sec. XII presso V arese e a Pallanza CAebischer, in
Raccolta... Serra, Napoli 1959, p. 41).
5 Già p. es. nei Proverbi de femene, v. 213, ceciliana le anche, v. 101 , hbianah
nella profezia di Merlino riportata da Salimbene c’è ab Hispanianis (p. 777
Bernini). . i . .
« Un esempio di Lombardo opposto a Toscano, linguisticamente interessante,
è nel passo di Salimbene in cui si ricorda un fra Barnaba che «optime loquebatur
Gallico, Tuscice et Lombardice » ( Cron ., p. 851 Bernini).
7 Una ricca scelta di testi latini del ’200 si ha nel cit. volume di A. Viscardi, B.
e T. Nardi ecc.. Le origini, Milano-Napoli 1956, pp. 739-983.
Il Duecento
117
optimus persuasor bonorum operum, omnium excellentissimus Iacobus, de Regio
Iesu Christo vitalem spiritimi resignavit 8 .
Il testo è pieno di ornati retorici: figure etimologiche come
amaritudo amarissima, clausole ritmiche come mentibus occurrèrunt,
spìritum resignàvit («cursus velox»), plenitudo sedèbat («cursus pla-
nus») ecc. 9 .
Si legga ora un passo di Salimbene:
Nota quod Innocentius papa fuit audax homo et magni cordis. Nam
aliquando mensuravit sibi tunicam Domini inconsutilem, et visum fuit sibi quod
Dominus parve fuisset stature; quam cum induisset, apparuit grandior ipso. Et
sic timuit et veneratus est illam, ut decens fuit. Item solitus erat aliquando
librum tenere coram se, cum populo predicabat. Cumque quererent capellani,
cur homo sapiens et litteratus talia faceret, respondebat dicens: ‘Propter vos
facio, ut exemplum dem vobis, quia vos nescitis et erubescitis discere’. Item
homo fuit qui interponebat suis interdum gaudia curis; linde cum quadam die
quidam ioculatur de marchia Anconitana salutasset eum dicens:
Papa Innocentium,
doctoris omnis gentium,
salutat te Scatutius
et habet te prò dominus,
respondit ei-. ‘Et unde est Scatutius?’. Cui dixit:
De Castro Recanato,
et ibi fui nato.
Cui papa:
Si veneris Romana,
habebis multam bonam,
id est ‘bene faciam tibi’. Fecit papa quod gramaticus docet: Per quemcumque
casum fit interrogano, per eumdem debet fieri responsio. Quia enim malam
gramaticam fecit ioculator, malam gramaticam audivit a papa (pp. 42-43 Bernini).
Il poriodare e non di rado anche il lessico di Salimbene lasciano
trasparire assai bene l’ùso volgare, attraverso una grammatica che
segue con relativa correttezza le norme scolastiche del tempo.
Si legga ora il passo in cui San Tommaso discute l’obiezione
secondo cui in certi casi la simonia sarebbe lecita, «puta quando
sacerdos puerum morientem baptizare non velit».
Ad primum ergo dicendum, quod in casu necessitatis quilibet potest baptiza-
re; et quia nullo modo est peccandum, si sacerdos absque pretto baptizare non
velit, ac si non esset qui baptizaret; unde ille qui gerit curam pueri, in tali casu
licite potest eum baptizare, vel a quocumque alio facere baptizari-, posset tamen
8 A. Huillard-Bréholles, Vie et correspondance de Pierre de la Vigne, Parigi 1865,
p. 299. ■ —
9 Sui vari stili e le varie forme di questi ornati, v. A. Schiaffini, Tradizione, e la
bibl. ivi citata.
118
Storia della lingua italiana
licite aquam a sacerdote emere, quae est purum elementum corporale. Si autem
esset adultus, qui baptismum desideraret, et immineret mortis periculum, nec
sacerdos eum vellet sine pretio baptizare, deberet, si posset, per alium baptizari;
quod si non posset ad alium habere recursum, nullo modo deberet pretium prò
baptismo dare, sed potius absque baptismo decedere, suppleretur enim ei ex
baptismo flaminis, quod ei ex sacramento deesset (Summa thè oi., II Secundae
Partis, Quaestio C, Art. ID.
Ma non basterebbero venti o cinquanta passi a dare un’idea della
varietà di questo latino, ben vivo nell’uso di tutte le persone colte.
Quelli che si mettono a scrivere in volgare non ignorano questa
tradizione, almeno in alcune delle sue varietà. Accanto, perciò, a
un’influenza del volgare sul latino, percettibile specialmente nei testi
con minori pretese letterarie, ve n’è un’altra, fortissima, che il latino
esercita sul volgare, sia nell’arte del periodare, sia nel lessico.
La coscienza della grande superiorità del latino sul volgare è
sempre presente agli autori di volgarizzamenti (v. § 11).
Andare a scuola vuol dire anzitutto imparare la grammatica, cioè il
latino. E non solo per chi si proponga di diventare notaio o ecclesiasti-
co o simili, ma anche semplicemente d’esercitare il commercio: un
contratto notarile genovese del 1266 parla di «grammatica commumter
edocenda secundum mercatores Ianuae» 10 .
Nella vita civile occorre tuttavia che i reggitori tengano conto dei
molti che ignorano il latino. Gli Statuti di Bologna nel 1246 danno
esatte prescrizioni per gli esami che dovevano subire quelli che
aspiravano a diventar notai. Gli esaminatori dovevano «videre et scire
qualiter sciunt scribere, et qualiter legere scripturas quas fecerint
vulgariter et litteraliter, et qualiter latinare et dictare» 11 -. dovevano
insomma dimostrare d’esser capaci di leggere in volgare i loro atti a
quelli che li avevano incaricati di redigerli. E Pietro dei Boattieri, nel
commento alla Summa artis notariae di Rolandino, dava istruzioni in
proposito 12 . .....
Ormai cominciano ad apparire alcuni statuti scritti di, proposito
solo in volgare-, ci rimangono gli statuti di Montagutolo dell’Ardinghe-
sca, del 1280-97, che esplicitamente prescrivono al «camarlengo» di
designare tre «buoni omini» perché rivedano il «costeduto», e facciano
scrivere «tucti gli ordini che per li detti tre omini fussero fermati, di
buona léttara di testo, e non in grammatica» 13 .
Anche nella vita monastica si trae notizia dalle Commentationes di
10 S Caramella, nella riv. Il Comune di Genova, 31 luglio 1923.
11 Statuti di Bologna dall'anno 1245 all'anno 1267, a cura di L. Frati, II, Bologna
1869, p. 185. Anche più precise sono le prescrizioni dello statuto del 1252 (ivi, p. 186):
«faciat singulos legere et reccitare scripturas quas fecerint et ìnstrumenta que
dixerint vel vulgariter vel litteraliter ibidem coram examinatoribus».
1 2 Gaudenzi, I suoni, le forme e le parole del dialetto di Bologna, Torino 1889,
pp. xxn-xxni. , _ ,
13 F. L. Polidori, Statuti senesi scrìtti in volgare, I, Bologna 1863, p. 43.
Il Duecento
119
Montecassino che quotidianamente si tenevano nel capitolo conferen-
ze in volgare 14 .
Mentre le scuole vescovili continuano a provvedere all’insegnamen-
to per i futuri ecclesiastici, sorgono in quell’età, sotto la spinta e a
spese della borghesia mercantile, scuole laiche in cui s’impara, sul
fondamento del volgare, un po’ di latino 15 .
5. Conoscenza del francese e del provenzale
I contatti con la Francia e con le due grandi letterature che in essa
già erano fiorite sono più forti che mai in questo periodo. Una delle
manifestazioni più cospicue è la passione per l’epopea, specialmente
carolingia, nell’Italia settentrionale. Ne abbiamo numerosissime testi-
monianze: il giurista Odofredo ci parla degli «orbi qui vadunt in curia
c otT uini s Bononie et cantant de domino Rolando et Oliverio», imo
scrittore della fine del Duecento descrive il giullare che in barbaro
-francese canta alla plebe le imprese di Carlo:
celsa in sede theatri
Karoleas acies et gallica gesta boantem
cantorem aspicio; pendet plebecula circum
auribus arrectis: illam suus allicit Orpheus.
Ausculto tacitus: Francorum dedita lingue
carmina barbarico passim deformat hiatu 1 *.
Caratteristica è questa accoglienza fatta negli strati più popolari a
una poesia straniera solo approssimatamente intelligibile. La cosiddet-
ta letteratura franco-italiana ci mostra numerosi gradi dell’inevitabile
ibridismo 17 .
Ecco, per dar solo un esempio, come si presenta la canzone di
Orlando in un noto testo franco-veneto, il cod. Marciano V 4 :
Rollant a messo l’olinfant a sa boge
inping il ben, per gran vertù lo toce;
14 A. Walz, S. Tommaso d' Aquino, Roma 1945, p. 18.
15 Si vedano i frammenti grammaticali con esercizi fondati sul volgare,
pubblicati da Sabbadini, Studi mediev., I, 1904, pp. 281-292; De Stefano, Revue
langues rom., XLVIII, 1905, p. 495-529; Manacorda, Atti Acc. Torino, XLIX, 1914, pp.
689-698, tutti degli ultimissimi anni del '200 o dei primissimi del '300. Un po' più
tardi sono quelli latino-friulani pubblicati dallo SchiafBni, Riv. Soc. fil. frìul., II,
1921, pp. 3-16; 23-105, III, 1922, pp. 1-31.
“ V. l’articolo fondamentale di P. Meyer, «L’expansion de la langue frangaise
en Italie pendant le Moyen-àge», in Atti del Congresso intemazionale di scienze
storiche (1903, IV, Roma 1904, pp. 61-104. Il passo del rimatore in Novati, Attraverso
il medioevo, Bari 1905, p. 298.
17 Vedi A. Viscardi, Letteratura franco-italiana, Modena 1941, e il capitolo sulla
«Letteratura franco-italiana», in Viscardi - Nardi, ecc., Le Orìgini, pp. 1053-1219.
120
Storia della lingua italiana
grand quindes leugue la vox contra responde,
Carlo Tolde et ses conpagnons stretute.
Co dist li roi: - «Batailla fa nostri home!» -
Et Gainelon responde alo’ inconter:
«Se un altro lo disesse, el senblaria menzogne!».
Li cont Rollant per poi e per achant
et per dolor si sona l’ilifant;
per me’ la gole li sai for li sange,
de soe cervelle se va lo tenpan ronpant.
(w. 1864-1874 Gasca Queirazza).
Tracce molto più lievi d’ibridismo troviamo in altri testi composti in
prosa da italiani, che per un motivo o per l’altro avevano scelto di
scrivere in francese: il trattato di falconeria tradotto per re Enzo da
Daniele Deloc di Cremona (ed. H. Tjemeld, Stoccolma 1945), il Tresor di
Brunetto Latini (ed. F. Carmody, Berkeley-Los Angeles 1948) 18 la ,
cronaca di Martino da Canale (ed. F. L. Polidori, Firenze 1845) 18 , il |]
Milione di Marco Polo, steso da Rustichello da Pisa (ed. L. F. Benedetto,
Firenze 1928).
Dobbiamo anche tener conto dei frequenti contatti dovuti ai
commerci. Il nome di Francesco e la conoscenza del francese testimo-
niata dai biografi per il santo di Assisi dipendono dai legami del padre
con la Francia. I libri di commercio fiorentini mostrano quanto fitti
fossero i rapporti, specialmente con la Sciampagna 20 . E quando
leggiamo il Fiore, compendio del Roman de la Rose, ovvero Ylntelligen-
za, abbiamo l’impressione che i due autori avessero una così stretta
familiarità col francese (e non solo, direi, col francese letterario) da
spostare troppo in là il limite della ricettività (lessicale e talora anche
grammaticale) dell’italiano. Bastino, a comprovarlo questi versi:
18 Nel notissimo passo in cui Brunetto spiega perché abbia scelto il francese
(«Et se aucuns demando it por quoi cis livres est escrit en roumang selonc le
raison de France, puis ke nous somes italien, je diroie que c’est pour .ii. raisons,
l’une ke nous somes en France, l’autre por gou que la parleure est plus delitable
et plus commune a tous langages (var.: gens)»: 1, 1, 7) il primo fattore fla residenza
in JFrancia) sembra quello preponderante. Malgrado la ricchezza e l’ingegnosità
della documentazione, non ci sembra accettabile la tesi di A. Pézard [Dante sous
la pluie de feu, Parigi 1950) che Dante abbia condannato Brunetto per il suo
«eccesso» nel lodare il francese e metter da parte l’italiano: se questo fosse il
motivo della condanna, non si spiegherebbe in alcun modo il verso «sieti
raccomandato il mio Tesoro» Un/., XV, v. 119).
19 Cfr. lo studio sulla lingua, di P. Catel, Rend. Ist. Lomb., LXXI; 1938, pp. 305-
348, LXXIII, 1940, pp. 39-63.
20 Ricchi di gallicismi, come è ovvio, sono specialmente i conti tenuti da
Italiani residenti in Francia. Si veda, p. es., il «ragionato» di Cepparello Dietaiuti
pratese, incaricato della «balia d’Alvernia»: «Ricordanza k io paghai a Parigi a
messer Etaccia di Belmercieri per suoi ghagi alla Tusanti ottanta otto, libre cc
tornesi» (1288): Schiaffìni, Testi, p. 249-, o un Libro di mercanti fiorentini in
Provenza (1299-1300): «uno ronzino tavolato ferrante il quale fu di Messer Pere
Giovanni ciantre di messer l’arciveschovo...» (Castellani, Nuovi testi, p. 758).
Il Duecento
121
sì non son troppo grossa nè tr o’ grella
(Fiore, son. 43)
ma 1 Die d’amor non fece pà sembiante
(son. 104)
E s’ella non è bella di visaggio
cortesemente lor tomi la testa
e sì lor mostri senza far arresta,
le belle bionde trecce davantaggio
(son. 166)
covriceffo o aguglier di bella taglia
(son. 190)
la grada è di cipresso inciamberlata
Unteli, st. 62)
e Cesar quand’uccise Artigiusso
che non fu de’ musardi sanza faglia
(st. 79)
Vergenteusso il fedì su la fronte
sì forte che ciancellò tutto ’l ponte
(st. 126)
Per l’Italia meridionale bisogna tener conto dell’influenza politico-
amministrativa degli Angioini.
L’influenza del provenzale è quasi unicamente legata al grandissi-
mo prestigio della sua letteratura, e al culto della parola che alcuni dei
suoi poeti avevano portato al sommo. La guerra albigese distrusse la
vita di corte in provenza, e con essa i fondamenti materiali della poesia
dei trovatori. La dispersione di questi potè per un breve periodo
contribuire all’espansione del provenzale fuori della terra d’origine: già
abbiamo visto, all’inizio del secolo, trovatori provenzali accolti nelle
corti e nelle città settentrionali. Il prestigio della lingua d’oc (e la
mancanza d’una lingua poetica nazionale) fa sì che parecchi, nel nord,
si mettano alla scuola dei trovatori e compongano nella loro lingua,
cosicché nella schiera dei maggiori poeti in lingua provenzale si
possono annoverare anche Italiani come Lanfranco Cigala e Sordello 2 *.
Invece nel Mezzogiorno non si imitò, ma si emulò: e nacque la
scuola siciliana.
Percivalle Doria, nobile genovese e fedele agli Svevi, scrive in
- provenzale un serventese in lode di Manfredi, e tenzona con Filippo di
Valenza; ma poi anche scrive in siciliano illustre due canzoni («Come lo
giorno...»; «Amor m’a priso...»).
In conseguenza della forte influenza esercitata dai modelli francesi
e provenzali sulla letteratura duecentesca, i francesismi e i provenzali-
21 G. Bertoni, I trovatori d’Italia, Modena 1915-, V. De Bartholomaeis, Poesie
provenzali storiche relative all’Italia, Roma 1931; F. A. Ugolini, La poesia provenzale
e l’Italia, Modena 1939; e numerose edizioni di singoli poeti. Testimonianza
dell’interesse che si ha in Italia per il provenzale è la compilazione di grammati-
che (Ugo Faidit, Terramagnino da Pisa); e del resto le vite dei trovatori sono state
cori ogni probabilità composte da Ugo di Saint Circ nell’ambiente trevigiano.
122
Stona della lingua italiana
smi sono assai numerosi, specie in alcuni scrittori, come Guittone.
Talvolta essi rispondono a una precisa intenzione stilistica: cosi
l’abbondanza di espressioni francesi e provenzali nel contrasto di Cielo
d’ Alcamo è una caricatura della lingua cortese 22 .
Daremo più oltre un elenco sommario dei gallicismi entrati nel
lessico, sia per questo tramite sia come conseguenza di contatti diretti.
6. Poesia d’arte e prosa d’arte
Le varietà locali del volgare parlato erano molto divergenti, e i
tentativi che finora erano stati fatti per metterli in scrittura avevano
tentato di levigarne la rozzezza eliminando le peculiarità troppo
spiccate e ricorrendo ai suggerimenti che poteva dare la lingua scritta
per eccellenza, il latino. Proprio l’esempio del latino, con la sua relativa
fissità e regolarità, fa sentire il bisogno di modelli anche per il volgare.
C’è nell’aria l’idea che se e quando appariranno dei modelli degni, essi
saranno imitati anche nelle loro particolarità, . e per questa via si
troverà un rimedio alle incertezze grammaticali e lessicali.
Non si mira insomma direttamente a una lingua comune: si mira a
una lingua bella e nobile, la quale eliminerà i particolarismi e sarà
perciò anche «comune». Nell’Italia di questa età, artisticamente così
matura e politicamente così divisa, modello voleva dire modello di
bellezza, di eleganza artistica. Questo ci spiega come emergano tanto
im periosamente, creando ima scia d’imitazione letteraria e linguistica,
quegli scritti in cui si persegue un ideale di bellezza.
E la lirica che si pone all’avanguardia della letteratura, e che crea
un moto d’entusiasmo, con conseguenze che dureranno per secoli. La
spinta iniziale data dai poeti siciliani della cuna sveva, i primi in Italia
a servirsi del volgare per fare poesia d’arte sarà trasmessa a tanti altri:
e tutti, non solo i pedissequi imitatori siculo-toscani ma anche il
Guinizzelli, gli stilnovisti e in genere tutti quelli che scriveranno in
versi, terranno conto in proporzione maggiore o minore dei modelli
siciliani, così che alcune peculiarità entreranno stabilmente nell uso
poetico italiano. . . .. . .
Non basta: questa spinta fa sì che la poesia acquisti un vantaggio
tanto sensibile sulla prosa da creare fra i due modi di scrivere
addirittura una scissione che durerà per secoli. I modelli poetici che si
susseguono costituiscono una tradizione, che fornisce un modello di
lingua relativamente uniforme per le varie regioni; invece la prosa
stenta (e stenterà per molto tempo) a uscire dall’àmbito locale. Sorge si,
poco dopo la fioritura siciliana, una prosa d’arte, che ha a Bologna con
la persona di Guido Fava il suo primo maestro. E anche la prosa d mie
troverà in Toscana cultori appassionati come Brunetto e Guittone. Ma
22 Monteverdi, Studi mediev., XVI, 1943-50, pp. 161-175 (rist. in Studi e saggi, pp
101-123).
Il Duecento
123
il min or livello artistico da loro raggiunto in confronto con la poesia e
lo stretto legame che la prosa ha sempre con le contingenze pratiche di
carattere personale e locale, per cui essa non può staccarsi troppo dal
parlare quotidiano, neppure quando è soggetta a elaborazione artisti-
ca, fanno sì che il processo di unificazione della lingua prosastica sia
senza confronto più lento. Non va, poi, dimenticato che testi in prosa
mancano completamente per l’Italia meridionale e la Sicilia durante il
Duecento: vi si scrive ancora soltanto in latino.
Questo sguardo Complessivo aiuterà il lettore ad intendere con
quale criterio abbiamo scelto gli argomenti che illustreremo nei
paragrafi che seguono. Presteremo attenzione particolare al costituirsi
di una tradizione poetica, in quanto ad essa risale rimpianto fonda-
mentale del linguaggio poetico italiano. Invece per la prosa ci dovremo
accontentare di accennare ai vari filoni, non essendoci lecito attribuire
importanza esclusiva alla prosa d’arte.
7. La scuola poetica siciliana e la sua lingua
La prima fucina di poesia che meriti di esser considerata poesia
d’arte è la Magna Curia di Federico II.
I tentativi di datare qualcuna delle poesie della scuola siciliana ai
primi anni del Duecento si fondano su argomenti troppo fragili per
scuotere la verosimiglianza che le prime poesie nascano da uno
scrittore particolarmente dotato, il notaio Giacomo da Lentini, con
l’appoggio datogli «heroico more» (De vulg. el., I, xii, 4) da Federico,
nella atmosfera creatasi alla sua corte dopo il suo ritorno in Italia. Che
si tratti di un meditato disegno del sovrano svevo non è probabile, ché
in questo caso probabilmente si sarebbero avuti serventesi politici, e
non canzoni e sonetti.
La novità della scuola siciliana rispetto al suo modello, la poesia
provenzale, è la lingua: mentre i trovatori del Settentrione d’Italia
avevano accolto, insieme col modello poetico, anche la lingua, i
trovatori siciliani lo ricalcano, adattando all’uso artistico una lingua
fino allora usata in qualche canto plebeo o giullaresco, di cui possiamo
tutt’al più congetturare 1’esistenza.
I presupposti sociali e culturali erano gli stessi su cui si era fondata
la poesia occitanica: il carattere di gioco elegante di una società
aristocratica, raffinata, per cui si sottomette alle convenzioni dell’amor
cortese l’imperatore stesso 23 .
23 E quando Federico dice:
Dolze mea donna lo gire
non è per mia volontate,
che mi convene ubbidire
quelli che m'à ’n potestate
non bisogna scambiare la finzione poetica con la realtà.
124
Storia della lingua italiana
Sembra staccarsi molto dal tono generale di questa poesia il
contrasto di Cielo d’Alcamo 24 «Rosa fresca aulentissima» 25 tant’è vero
che Dante scegliendo per citarlo (nel De vulg. el., I, xii) il terzo verso,
ricco di plebeismi ( Tragemi d’este focora, se feste a bolontaté), lo
considerava come scritto nel siciliano usuale «quod prodit a temgenis
mediocribus», non raffinato da intenti d’arte. Ma la critica più autore-
vole riconosce nell’autore del contrasto un poeta non incolto: solo che
l’autore avendo scelto di rappresentare per realismo due personaggi
volgari, sa dosare con efficacia artistica i tratti aulici (roso fresca, de
l’orto, donna col viso cleri cioè «dame au cler vis», ecc.) e i tratti
dialettali Ibolontate, bolta, càrama, ecc.), i quali non si possono
attribuire a una zona precisa proprio perché il poeta li ha scelti per
dare colorito plebeo. Questa voluta accentuazione di caratteristiche ci
ha valso una discreta conservazione del testo, perché i trascrittori le
hanno intese e rispettate.
Fulcro della Magna Curia fu la Sicilia, con gli importanti centri
culturali di Palermo e di Messina-, ma la corte risiedette spesso e a
lungo sul continente e parteciparono all’attività poetica anche scrittori
non nati in Sicilia.
Non toccò in sorte, a questa poesia sbocciata nella corte fndencia-
na come in ima serra, di avere un grande poeta; e con la morte di
Federico e poi di Manfredi spari anche quell alto ma ristretto ambiente
in cui era fiorita. Ma l’esperimento era stato nobile e bello, ed era
piaciuto molto sul continente: se scompare la corte sveva, e tacciono in
Sicilia e nella Italia meridionale le note di quella poesia, altri nella
borghesia comunale toscana e bolognese hanno ormai raccolto 1 eredi-
tà. Non solo le esperienze tecniche non vanno perdute: ma, ciò che più
c’importa in questa sede, la poesia della prima scuola ha anche ima
notevole efficacia linguistica sulle scuole successive.
Quale era, linguisticamente, la fisionomia delle composizioni di quei
primi poeti? Ricorriamo a imo qualsiasi dei canzonieri che, scritti negli
ultimi anni del Duecento o nel primo Trecento, ci conservano quei testi;
ecco, per esempio, che cosa troviamo nella prima carta del famoso
codice Vaticano 3793 (= A), il più importante di quei canzonieri:
Notaro Giacomo
Madofia dire uiuolglio. come lamore mapreso. jnverlo grande orgolglio.
cheuoi bella mostrate enómaita. oilasso lome core, chentanta pena miso. cheuede
chesimore. gbenamare etenolosi jnuita.
44 II testo è conservato dal solo ms. A CVat. 3793), e il nome è stato apposto
dall'erudito cinquecentista mons. Angelo Colocci, sul fondamento, dobbiamo
supporre, di fonti oggi perdute. La forma Giulio non è che una falsa lettura della
grafia del Colocci. . w
25 Sul contrasto si ha un'ampia bibliografia: oltre agli scritti meno recenti
citati nelle note antologie, v. Monteverdi in Studi e saggi, pp. 101-123, Pagliaro, in
Saggi di critica semantica, Firenze 1953, pp. 229-279, ld., in Poesia giullaresca e
poesia popolare, Bari 1958, pp. 193-232.
Il Duecento
125
Introducendo la divisione di parole, l’interp unzione e l’uso grafico
moderno per u, v, gl, lo possiamo trascrivere così:
Madonna, dire vi voglio
come l’Amore m’à preso;
inver lo grande orgoglio
che voi, bella, mostrate, e’ non m’aita.
Oi lasso, lo me’ core
ch’è ’n tanta pena miso,
che vede che sì more
per ben amare, e tenolosi in vita.
L’aspetto è complessivamente non molto diverso dalla lingua
poetica che vigerà in Italia fino all’Ottocento. Ma già in questa prima
mezza strofa, c’è (oltre a una svista evidente, tenolosi per tenelosi «se lo
tiene») una rima imperfetta, preso: miso. Si può facilmente ricostruire
quale fosse la lezione esatta ipriso-. miso), anche perché un altro
canzoniere, il Laurenziano-Rediano 9 (= B) scrive corno lamorprizo. Il
copista toscano di A nel trascrivere un codice che portava priso, ha
creduto lecito di fare quello che usavano fare i copisti nel Medioevo,
cioè di conformarlo alla propria pronunzia, e ha scritto preso-, invece
poi non ha avuto il coraggio di scrivere messo in luogo di miso (che del
resto si poteva appoggiare al passato remoto misi); così la parola in
rima è rimasta a rivelarci l’arbitrio.
Ora la stragrande maggioranza dei testi della prima scuola è in
queste condizioni; e non è possibile credere, come fece qualche
autorevole studioso delle due passate generazioni (Caix, Gaspary,
Monaci, Zingarelli, De Bartholomaeis), che la fisionomia dei testi
originari non fosse molto diversa, e che questo impasto fosse dovuto al
fatto che i poeti della prima scuola già mirassero a ima coinè,
volutamente impiegando voci e forme continentali? 8 .
La tesi della toscanizzazione, che già era parsa più verosimile a
Adolfo Bartoli, al D’Ancona, al D’Ovidio, ebbe conferma da uno scritto
fondamentale (anche se discutibile in molti particolari) di G. A.
Cesareo, Le origini della poesia lirica in Italia (Catania 1899, 2 a ed.,
Palermo 1924) e da un saggio di I. Sanesi 27 sulla progressiva toscanizza-
zione dei canzonieri; il Tallgren 28 e meglio ancora il Parodi 28 chiarirono
definitivamente alcuni punti più oscuri di questo processo.
C’è poi un altro elemento che interviene in aiuto dei filologi. Il
cinquecentista Giovanni Maria Barbieri, da un codice che egli chiama-
“ Si è già accennato che il Monaci, in un articolo che ebbe molta risonanza
(Nuovo Antol., 15 agosto 1884) aveva addirittura creduto di poter porre a Bologna,
centro universitario, il primo punto d’incontro di quelli che sarebbero stati poi i
poeti della scuola siciliana.
47 Giom. stor., XXXI V, 1899, pp. 354-367.
28 Mém. Soc. Néo-phil. de Helsingfors, V, 1909, pp. 233-374.
29 Buil. Soc. Dant., XX, 1913, pp. U3-142 Crist. in Lingua e letteratura, pp. 152-188).
126
Storia della lingua italiana
va il Libro siciliano e che purtroppo è andato perduto, ha ricavato una
canzone di Stefano Protonotaro messinese e due frammenti di re Enzo
(il figlio di Federico II, re nominale di Sardegna, fatto prigioniero alla
Fossalta nel 1249 e morto a Bologna nel 1272).
Ecco come si presenta, nella trascrizione del Barbieri, la prima
strofa della canzone di Stefano (con quattro piccole e probabilissime
correzioni del Debenedetti):
Pir meu cori allegrali,
ki multa longiamenti
senza alligranza e ioi d’amuri è statu,
mi ritorna in cantari
ca forsi levimenti
da dimuranza tumiria in usatu
di lu troppu tacili.
E quandu l’omu à rasimi di diri
ben di’ cantari e mustrari alligranza,
ca, senza dimustranza,
ioi Siria sempri di pocu valuri.
Dunca ben di’ cantar onni amaduri 30 .
Siccome la buona fede del Barbieri è fuori discussione, e d’altronde
non è possibile che un falsificatore cinquecentesco conoscesse partico-
larità sottili come quelle che si trovano applicate nelle poesie siciliane
copiate dal Barbieri (posizione delle enclitiche, uso dell’h), la testimo-
nianza è da accogliere in pieno, a conferma e integrazione di quello che
già si poteva intravedere attraverso le rime. E cioè, scartando l’ipotesi
poco fondata del Bertoni che ai poeti siciliani fossero aperte «due vie»,
quella di comporre in una coinè italianeggiante e quella di comporre in
«siciliano illustre» 31 è necessario ritenere che l’aspetto primitivo di
tutte le poesie della scuola sveva fosse simile a quello rivelatoci nella
canzone di Stefano Protonotaro e nei due frammenti di re Enzo 33 .
Linguisticamente, allora, questi testi assumono il primo posto, anche se
di una generazione posteriori alla prima fioritura poetica, e tutto il
resto può essere utilizzato per stabilire la grafia, la fonologia, la
morfologia dei poeti della prima scuola solo nella misura in cui o la
30 V. l’eccellente discussione di S. Debenedetti, «Le canzoni di Stefano
Protonotaro», in Studi romanzi, XXII, 1932, pp. 5-68.
31 V. la conclusiva dimostrazione del Monteverdi, Studj rom., XXXI, 1947, pp.
40-41 e 44-45.
33 Abbiamo lasciato da parte la famosa testimonianza dì Dante (De vulg. el., I,
XII), perentoria per le origini della scuola poetica, ma non sufficiente a
dimostrare la maggiore o minore sicilianità linguistica di quei poeti. Ricordiamo
anche le parole del catalano Jofre de Foixà, nelle sue Regles scritte in Sicilia tra il
1289 e il 1291 e dedicate a Giacomo II d’ Aragona: «si tu vols far un cantar en
frances rio.s tayn que y mescles proemiai ne cicilià ne gallego» (rr. 220-222 Li
Gotti): parole che in qualche modo attestano la possibilità di usare il siciliano
illustre come lingua letteraria.
Il Duecento
127
rima o la discordanza dei codici ci permettono di riconoscere tratti
siciliani conservati da uno o obliterati da un altro. I testi siciliani in
prosa purtroppo aiutano poco, perché cominciamo ad averne solo con
il sec. XIV, quando l’atmosfera culturale è fortemente cambiata.
Nel dare un cenno dei tratti più importanti di questa lingua, non
dobbiamo tuttavia dimenticare che essa non è una lingua completa,
ma una stilizzazione artistica compiuta sul fondamento del dialetto
siciliano, già un po’ dirozzato dall’uso fatto tra persone di una certa
levatura, tenendo per modelli da un lato il latino, esempio costante di
qualunque scrittore medievale, dall’altro il provenzale, che è imitato
più dawicino, in quanto costituisce anche il modello letterario, e fissa
l’ideario a cui quei poeti in complesso si attengono 33 .
Quanto alla grafìa, eh aveva valore palatale. Infatti il notaio
bolognese che trascriveva in un memoriale la canzone di Giacomo da
Lentini «Madona, dir ve voio» manteneva la grafia del suo testo in
despiache-, fache M . Ma chi rappresentava anche l’esito di pl-, e qualche
volta i manoscritti lo mantengono, qualche volta lo adattano, qualche
volta non capiscono: una chiacenza di Giacomo (nel discordo «Dal core
mi vene», v. 113) è correttamente toscanizzato dal codice Laur. -Rediano
9 in piagienza, mentre il Vaticano 3793 fraintende, scrivendo achia
senza.
E breve ed o breve del latino non dittongano sotto l’accento: feri,
bona.
I breve ed e lunga latine danno alla tonica i: vidi, taciri-, u breve ed o
lunga danno u.- dundi, hunuri. Ma è anche possibile un trattamento di
tipo latineggiante, che prende un aspetto diverso da quello continenta-
le (anzi, per cèrto rispetto, inverso). Accanto ad a muri, che è la forma di
tipo popolare, si può avere amori, con la vocale del latino. Ma non va
dimenticato che il siciliano aveva ed ha un sistema fonologico di sole
cinque vocali, nel quale non si ha distinzione fra o aperta ed o chiusa, e
aperta ed e chiusa: perciò qui si ha amóri. Le parole con o ed e per le
quali si ricorra al latinismo (e al provenzalismo) possono presentare
due forme e rimare in due modi: amuri: duluri oppure amóri-, còri.
33 Oltre agli scritti citati (fra i quali va tenuto presente soprattutto il Parodi), e
alle opere del Caix (Le origini della lingua poetica italiana, Firenze 1880) e del
Gaspary (Die Sizilianische Dichterschule der XIII. Jahrhunderts, Berlino 1878), che
tuttora possono riuscire utili benché molto invecchiate, ricordo gli scritti del
Santangelo (fra cui principalmente «Il primato linguistico dei Siciliani», in Atti
Acc. Se., Lett. e Arti, Palermo, XX, 1938, ristampato con ritocchi nel volumetto II
siciliano lingua nazionale nel secolo XIII, Catania 1947) e del Monteverdi
(specialmente l’articolo sintetico «La critica testuale e l’insegnamento dei Sicilia-
ni i, in Essais de philologie moderne, Biblioth. Phil. Lettres Liège, CXXIX, pp. 209-
217), e l’introduzione del volume di M. Vitale, Poeti della prima scuola, Roma 1951.
M Si è più volte discusso se i testi poetici contenuti nei Memoriali siano stati
copiati da manoscritti o riprodotti a memoria: indizi come questi rendono più
probabile la prima ipotesi.
128
Storia della lingua italiana
Il Duecento
129
Le e e le o atone, particolarmente quelle finali, si presentano come i
t tintiti , piacili l 35 ed u ( mustrari , dintru ).
Il gruppo cj dà -z-. lonza, solazo.
Per la morfologia, si nota l’alternanza di esti con è, di avi con à, di
sapi con sa, di fochi con fa. L’imperfetto è del tipo avia, putta. Nel
condizionale si ha di regola il tipo diviria; esiste anche un gruppetto di
forme in -ro: fora; gravara, sofondara-, finera; partirò, sulla cui prove-
nienza non vi è consenso. Il De Bartholomaeis le riteneva «continenta-
li», il Debenedetti escludeva che fossero siciliane, il Vitale le crede di
origine provenzale. Ma il piucchepperfetto latino con valore di condi-
zionale non sopravvive solo in dialetti continentali dalla Calabria agli
Abruzzi, bensì anche in qualche dialetto siciliano 3 ® e non vediamo
motivo sufficiente per dubitare della loro indigenità, tanto più che, se si
trattasse meramente di un’imitazione del provenzale, troveremmo la
desinenza -era anche per la prima coniugazione (cfr. p. 132).
Venendo ora al lessico, potremo tener conto, oltre che della canzone
e dei frammenti in siciliano illustre, anche dei sicilianismi e francesismi
e provenz a li smi che gli altri testi presentano (pur pensando che altre di
queste peculiarità possano essere andate perdute).
Ecco qualche vocabolo siciliano 37 : abento «riposo, tranquillità»;
adiviniri «accadere»; ammiritatu «compensato»; ghiora «gloria»;
(iìntrasatto «improvvisamente» (REW 4510); (i invoglia «avvolge»; menno
«mammella»; nutricali «nutrire»; ricienta «sciacqua»; sanari «guarire»;
tondo, infondo «allora» ecc. 38 .
Anche più importante è la serie delle parole di origine galloroman-
za. Pei* quelle francesi si può rimanere incerti se siano vocaboli entrati
nell’uso siciliano (più o meno popolare) con i Normanni, ovvero se siano
vocaboli genericamente culturali o specificamente letterari; invece per
le parole provenzali la provenienza letteraria è pressoché certa. Non si
dimentichi tuttavia, che molto spesso è difficile distinguere i francesi-
smi dai provenzalismi 38 .
55 Si veda, p. es., il verso 52 di «Madonna dir vi voglio» («la nave - c’a la
fortuna gitta ogni pesanti»), in cui i codici B e C (Palat. 418) hanno pezante e
pesante, mentre A (il Vat. 3793) ha un pesante corretto in pesanti, cioè un primo
impulso a toscanizzare respinto dopo che il copista ha veduto la rima del v. 56 («li
mie’ sospiri e pianti»). Nella canzone «Madonna mia...», al v. 14 c’è un «ogni
amanti» al singolare («a cui prega ogni amanti»), salvatosi in A, mentre C lo
toscanizza molto semplicemente, scrivendo «a cui serven li amanti».
* Ugolini, Giom. stor., CXV, 1940, pp. 175-176.
87 Segno in maiuscoletto le poche forme di colorito più siciliano (ricavate da
Stefano o da re Enzo); le altre sono riportate nella forma in cui ce le danno i
canzonieri.
38 Gaspary, Siz. Dicht., pp. 190-199; Cesareo, Origini, 2* ed., pp. 281-287;
Debenedetti, St. rom., XXII, pp. 32-33.
33 Gaspary Siz. Dicht., pp. 199-229; Bezzola, Gallicismi, passim; Debenedetti,
St. rom., XXII, pp. 34-43; G. Baer, Zur sprachlichen Einwirkung der altprov.
Troubadourdichtung auf die Kunstsprache der frùhen italien. Dichter, Zurigo 1939;
P. M. L. Rizzo, in Convivium, 1949, pp. 740-748, e in Boll. Centro St. Sicil., I, 1953,
I francesismi includono vocaboli come ciera «volto» (fr. ant. chiere ),
cominzare, ttìntamato «leso» (fr. entamé; la parola sarà adoperata
anche dal Villani), sognare. Ma è molto più ampia la serie dei
provenzalismi, che include tutta la gamma delle idee e dei sentimenti
dell’amore trobadorico: amanza, intendanza, amistate (e amistanza ),
drudo, ascio, disascio, sollazzo, gioia (o anche gioi, gio’ e gaugio ),
dulzuri, alma «anima», coraggio e corina «cuore», simblanza, fazone
(prov. faisò, frane. Zapon), speranza, dottanza, rimembranza, ballla
«potere, balìa», orgoglio, talento «volontà, desiderio» (per metafora
dalla parabola evangelica). E poi augello, pascore «primavera», aigua.
Alcuni aggettivi: avenente (.-ante), gente «gentile» (e genzore «più
gentile»), corale, liali, sofretoso «scarso». Tra i verbi cito: placiri,
ciausire «scegliere, esaltare», blasmari, dottare, alciri «uccidere». E tra
gli avverbi ricordo: adesso, adesso (dapprima nel senso di «sùbito»),
longiamenti 40 .
Voci provenienti dal continente non figurano mai, a quel che
sembra, nei poeti siciliani propriamente detti; solo nei poeti nati in
terraferma e nei Siculo-toscani.
8. La lingua dei poeti toscani
La prima poesia d’arte foggiata dai Siciliani piacque tanto che
subito si propagò 41 in Toscana. «L’ammirazione e l’entusiasmo col
quale gli Italiani accolsero la lirica siciliana, il primo tentativo di ima
poesia d’arte italiana, sono attestati (ed è prova che non si cancella...)
dal mirabile ed eloquentissimo fatto che la lingua di quella poesia
divenne in un istante la nostra lingua poetica, per dir così, nazionale e
pur attenuando via via i suoi caratteri siciliani e cedendo a poco a poco
il campo dopo circa la metà del secolo, rimase assai ferma e tenace
alcuni decenni specialmente nel suo dominio della rima» 42 .
Si tratta d’ima ondata di ammirazione, d’una grande voga, a
spiegar la quale non bastano certo i contatti che Federico e la sua corte
poterono avere con Arezzo patria di Guittone o con Pisa patria di un
gruppetto di minori poeti.
Si noti che, da poesia appoggiata a una corte, essa diviene ora
poesia di una scuola, esercitata da un piccolo gruppo di borghesi colti,
ad Arezzo, dove fiorisce Guittone, il principale rappresentante a Pisa, a
Lucca, a Pistoia, a Siena, a Firenze, a Bologna 43 .
pp. 115-129, II, 1954, pp. 93-151; Elwert, in Homenaje a F. Krùger, II, Mendoza 1954, pp.
85-112,
40 Cfr. il § 19, dedicato ai gallicismi.
41 II Petrarca dice manavit-, «Quod genus Ha poesia volgare) apud Siculos, ut
fama est, non multis ante seculia renatimi, brevi per omnem Italiani ac longius
manavit» (Fornii., I, ì, 6 Rossi).
42 Parodi, Bull. Soc. Dant., XX, 1913, p. 129 (= Lingua e lett., p. 171).
43 Guittone mette in rilievo, nella nota canzone in onore di Giacomo da Lèona
130
Storia della lingua italiana
Per la lingua non vi è gran differenza tra i cosiddetti * siculo-
toscani» (Guittone, Bonagiunta, ecc.) e i cosiddetti «poeti di transizio-
ne» (Chiaro Davanzati, ecc.). Lo Stil nuovo rappresenta un energico
stacco, con un nuovo atteggiamento del gusto: ma il Guinizzelli stesso
aveva cominciato come guittoniano, e molte delle peculiarità linguisti-
che dei Siculo-toscani sono accolte e continuate nello Stil nuovo.
La voga dei Siciliani è manifestata dalla propagazione di copie delle
poesie: diffusione avvenuta secondo il costume medievale, con trascri-
zioni che più o meno consciamente miravano a adattare il testo alle
abitudini linguistiche del trascrittore. I pochi canzonieri che ci riman-
gono non sono che i relitti di un naufragio; i più antichi sono tutti di
provenienza toscana, e già con le loro differenze rispecchiano la varia
origine, il vario grado di toscanizzazione, il vario atteggiamento di chi
li ha messi insieme 44 . , . _.
Dobbiamo supporre che i verseggiatori toscani che negli anni
intorno al 1250 si proponevano d’imitare i Siciliani avessero sotto gli
occhi copie di poesie simili a quelle che ci rimangono, se mai un po
meno toscanizzate. . .
I Siciliani, messisi alla scuola dei Provenzali per 1 quali la rima era
rigorosamente perfetta 45 avevano anch’essi, come s'è visto, adoperato
rime perfette, ma applicate al loro sistema di cinque vocali. I Toscani,
che possedevano un sistema di sette vocali, vedevano nei manoscritti
dei poeti che consideravano loro modelli rimare non solo delle e e delle
o che in toscano avevano timbri diversi; ma vedevano anche delle e che
per loro erano chiuse rimare con i, delle o chiuse rimare con u. Non
avevano motivo per rifiutare questo esempio, in modo particolare
quando attingevano ai loro modelli i vocaboli medesimi.
Così troviamo nei poeti toscani di questo periodo non solo rime tra
vocale aperta e vocale chiusa, del tipo core-, maggiore, mostro : vostro,
oppure vene-, pene, effetto: distretto (tipo che, aiutato dalla mancata
distinzione nella scrittura, rimarrà stabilmente acquisito alla poesia
italiana per tutti i secoli successivi), ma anche rime piu imperfette.
Anzitutto del tipo servire: avere : cherere-. provedere (Guittone, son. 17, eoa.
B) 46 oppure disire: piaciere-. languire-, miri (Chiaro Davanzati, canz.
(XLVI) la coscienza tecnica e l’alta ambizione lirica (il «proenzal labore») che
sopravanzano il fondamento dialettale «artino» nell’opera dell amico e nella sua
propria:
Francesca lingua e proenzal labore
più dell’artina è bene in te, che chiara
la parlasti... , . . .
« II Vat. 3793 (A) è probabilmente di stesura fiorentina; la prima e principale
mano del Laur. Red. 9 (B) è di un pisano; il Pai. 418 (C) presenta tracce ài un
copista lucchese. Una descrizione dei codici antichi ap. B. Panvim, m St. di filol.
« in provenzale non è ammessa, com’è noto, la rima di una e od o aperta con
la stessa vocale chiusa. . ,
,a Una mano più recente ha scritto una i sulle e toniche.
Il Duecento
131
«Molti lungo tempo anno», cod. A), piaciere-. servire o placire -. servire
(Betto Mettefuoco, «Amore perché m’ai», cod. A e B), fina-, regina:
s’ataupina-. mischina : fina-, camina -. mena (Pucciandone Martelli, canz.
«Lo fermo intendimento», cod. C), ecc.
Non v’è dubbio che gU autori si sono attenuti ai modelli siciliani,
quali li avevano sott’occhio, per rimare parole che nell’uso parlato
toscano non rimavano. Il Parodi riteneva che essi usassero di questa
licenza scrivendo alla siciliana avire, pìacire, mina-, altri pensavano
piuttosto (e il Contini ha ora ripreso con buoni motivi questa opinione)
che si attenessero alla rima imperfetta anche nella scrittura. Quello
che è sicuro, e che più importa, è il fatto che per questi poeti rima
imperfetta non vuol dire possibilità illimitata di rimare e chiusa
toscana con i, ma possibilità di farlo per quelle parole per cui i Siciliani
avevano dato l’esempio. Gli «ipersicilianismi» sono estremamente rari:
p. es. pena-, affina in Baldo da Pasignano (cod. A) 47 .
Una serie di rime, che il Caix aveva ritenuto bolognesi-aretine,
mostrano la -u- lunga trattata come -o-: il Parodi ha fatto vedere che
quasi tutti gli esempi si riducono alla famiglia di alcono, niono, ogni
ono per alcuno, niuno, ognuno, per cui bisogna piuttosto parlare di
rime guittoniane, mentre forme come altroi, coi sono probabilmente
dovute ad amanuensi.
Nella lingua della lirica siculo-toscana manca di regola il dittonga-
mento di e e di o, così che per es. Guittone (come più tardi Dante) scrive
novo in poesia e nuovo in prosa, e l’uso prosastico trova conferma
nell’uso dei documenti. La mancanza di dittongo sarà dovuta al triplice
influsso del latino, del provenzale, del siciliano, che convergevano nel
suggerire l’idea che la forma non dittongata fosse più nobile. Troviamo
tuttavia traccia nei nostri poeti della riduzione, propria del toscano
meridionale e dell’umbro, di ie in i, di uo in u-. Guittone usa rechire per
rechiere, pui per puoi-, e un furi per fuori si avrà persino nella Divina
Commèdia* 3 .
Il dittongo au è promosso dall’esempio dei Siciliani non solo in
parole che in qualche modo possono appoggiarsi al latino (laudo, auso )
o al provenzale ( augello , ciausire ), ma anche in aucidere, aulire e, non
sempre, in caunoscere, aunore.
-Frequentissimo è nei nostri poeti il passaggio a -r- della -l- dopo
consonante: prusore, sembrare.
Limitato ai poeti lucchesi e pisani è l’uso di - ss - per -zz-. allegressa-.
messa (Bonagiunta), lasso-, impasso (Bacciarone).
Le forme del verbo palesano pure notevoli influenze dei Siciliani:
aggio* 9 , saccio, veo, creo, ecc.; specialmente gli imperfetti e i condiziona-
47 Parodi, Bull. Soc. Dant., XX, 1913, p. 125 (= Lingua e lett., p. 166). Re Enzo rima
plenu e penu.
—— 48 Parodi, Bull. Soc. Dant., Ili, p. 98, XX, p. 132 (» Lingua e lett., pp. 178 e 225).
49 «Dai lirici proviene a Dante aggio, che tuttavia dovette anch’essere del
toscano meridionale» (Parodi, Bull. Soc. Dant., Ili, p. 129 - Lingua e lett., p. 257).
132
Stona della lingua italiana
li in -ia, i quali esistevano anche nella Toscana meridionale, ma
nell’uso poetico sono entrati indiscutibilmente 50 attraverso 1 imitazione
dei Siciliani e rimarranno nell’uso letterario, specialmente poetico,
anche nei secoli seguenti.
I condizionali in -ra [fora , -ara, -era, -ira) sono anch essi dovuti al
duplice influsso dei Siciliani e dei Provenzali; mero provenzalismo è il
rarissimo condizionale in -era della prima coniugazione («che morte mi
sembrerà - ogn’altra vita»: Bondie Dietaiuti, A, n. 184).
Può servire a illustrare il carattere composito di questa lingua il
fatto che nella medesima canzone di Compagnetto da Prato («L amore
fa»: A, n. 88) troviamo tre tipi di futuro: «lassa, come faragio?», v. 2;
« manderò per l’amore mio», v. 23; «gliele dirabo io», v. 25: accanto alla
forma usuale del fiorentino abbiamo quella sicilianeggiante (e toscana
meridionale) in -aggio, e quella della Toscana occidentale e meridionale
in -abbo. Frequente nei Siculo-toscani, per influenza provenzale, è
anche il tipo sono perdente in luogo di perdo 51 . .
II lessico ci mostra molti dei provenzalismi già accolti dai Siciliani,
qualche sicilianismo, qualche provenzalismo di cui non abbiamo
notizia presso i Siciliani [anta «vergogna», bamagio «nobiltà morale»,
amburo «ambedue», ecc.).
Continua la prolificità dei suffissi -anza, -enza, -o re, -ura, -aggio,
-mento. Guittone adopera molto i prefissi accrescitivi sor- [sorbella,
ecc.)., sovra- [sovr apiacente, ecc.), tra- [tradolze, ecc.), e i suoi seguaci lo
imitano. „ .
Molto più forte che nei Siciliani è il contmgente di latinismi.
Anche il lessico di questi poeti è assai composito. Basti un solo
esempio: per esprimere la nozione di «specchio» si trovano almeno
cinque vocaboli: miradore (Guittone), specchio, speglio (Palamidesse di
Bellendote), spera, miraglio (Bondie Dietaiuti).
L’apparizione dello Stil nuovo getta lo scompiglio tra ì seguaci di
questa poesia cortese convenzionale-, Guittone satireggia (son. Ili) i
luoghi comuni di alcuni sonetti del Guinizzelli, Bonagiunta trova che il
Guinizzelli «muta la mainera» del poetare, ricorrendo alla «sottiglian-
za», Dante da Maiano risponde trivialmente al sonetto «A ciascun al-
ma presa», dicendo al rivale di farsi passare «lo vapore - lo qual ti la
favoleggiar loquendo»; Onesto da Bologna rimprovera a Cino da
Pistoia le parole che così frequentemente adopera («Mente ed umile e
più di mille sporte - piene de spirti...»), e biasima il suo continuo
filosofare. . . ,
Il nuovo clima culturale che il Guinizzelli e i suoi seguaci instaura-
no non solo rinnova alcuni concetti, fra cui principalissimo quello di
nobiltà, ma crea intorno all’immagine della donna un’atmosfera rare-
fatta di meraviglia, di contemplazione quasi mistica.
50 Schiaffini, Italia dial., V, 1929, pp. 1-31.
51 Corti, in Atti Acc. Tose., XVIII, 1953, pp. 9-60.
Il Duecento
133
Quanto alla lingua, non va dimenticato che il Guinizzelli aveva
cominciato la sua carriera poetica come guittoniano, e che è un
bolognese colto, cresciuto nell’atmosfera culturale dell’università di
Bologna. Mancando testimonianze sincrone, siamo di nuovo a doman-
darci: quali saranno state le peculiarità grafiche, fonetiche, morfologi-
che del Guinizzelli? Avrà scritto assicura o asegura, ciò o go, saggio o
sago ? Avrà scritto pressappoco come leggiamo nel cod. A?
Omo chesagio nonchorre legiero
ma passa e grada corno vuole misura,
poi ca pemsato ritene suo penzero
jnfìno a tanto che lo uero lasichura.
Oppure come leggiamo in quattro versioni complete e tre incomplete
del medesimo sonetto, rintracciate nei memoriali bolognesi, la più
antica delle quali è stata scritta nel 1287, una decina d’anni dopo la
morte del poeta? Il testo che Adriana Caboni ha ricostruito su questi
manoscritti è il seguente:
Homo ch’è sago non corre ligero,
ma pensa e grada sì con voi mesura;
quand’à pensato reten so penserò
de fin a tanto che 1 ver 1' asegura.
Non ci par dubbio che la stesura del Guinizzelli dovesse essere più
vicina a questa seconda che alla prima: ma ogni ricostruzione che
«emilianizzasse» i testi quali effettivamente ci rimangono sarebbe
arbitraria. Basti ima sola osservazione: due dei memoriali portano la
forma ligero, e perché non potrebbe risalire all’autore? 52 .
Non abbiamo cosi forti incertezze per il gruppo maggiore degli
stilnovisti, quelli toscani. E per essi abbiamo, sia per le caratteristiche
grammaticali sia per i problemi testuali, il saldo appoggio delle
indagini condotte dal Barbi per le sue edizioni della Vita Nuova e delle
Rime 53 . Non mancano segni evidenti della continuità di tradizione che
dai Siciliani attraverso i Siculo-toscani, conduce agli stilnovisti: ma,
come è ovvio, in questi ultimi i sicilianismi e i provenzalismi sonò in
numerò notevolmente minore.
Prevalgono negli stilnovisti le forme non dittongate [tene, penserò,
core, mova) su quelle dittongate, laudare è più frequente di lodare (per
effetto della tradizione e per ricordo del latino, come s’è già accennato).
Si ha ancora qualche esempio di rima siciliana: vedite : sbigottite:
ferite: partite (Cavalcanti, son. «Deh! spiriti...»: si noti che i manoscritti -
“In forma emilianizzata ha presentato I rimatori bolognesi del sec. XIII G.
Zaccagnini, Milano 1933, e ha trovato scarsissimo consenso. Cfr. il saggio di G.
Toja, La lingua della poesia bolognese nel'sec. XIII, Berlino 1954.
“ V. l’Introduzione alla Vita Nuova, 1“ ed., Firenze 1906, pp. cclvi-cclxxxv; 2 a
ed, pp. ccLxxvn-cccvni.
134
Storia della lingua italiana
il Chig. e il Vat. 3214 - hanno vedete ). Troviamo alcune rime guittoniane:
paurosi-, chiosi (Dante, son. «Degli occhi...»); come : lome (Cavalcanti,
canz. «Donna me prega», che riappare neU’Infemo, X, 19, proprio
nell’episodio del padre di Guido, e si ritrova in Cino, son. «Da poi che la
natura...»); scritto -. prometto-, metto-, intelletto (Dante, son. doppio «Se
Lippo amico...»); venta («vinta»): penta-, spenta-, rappresenta (Dante, son.
«Voi, donne...»). Par di sentire un’eco guinizzelliana nel dantesco
conosciuda (: nuda-, chiuda-, druda), nello stesso sonetto.
E non manca qualche rima umbra: pui per «puoi» (oltre che per
«poi») in Dino Frescobaldi, ecc. 51 .
Nel lessico, appaiono in piena luce le parole tipiche della nuova
scuola: nobiltà, onestà, gentilezza, pietà, piacere, ecc. Anche voci che già,
erano nei Provenzali e nei guittoniani, come mercede (qualche volta
merzede ) e valore (che in Guittone era femminile, alla provenzale)
appaiono transvalutate. Vi sono poi le angele e angiolette, e angelico e
angelicato, gli spiriti e spiritelli, e poi le fo resette e pasturelle, le
giovanette e giovanelle, i loro atterelli e l’aspetto che prende la loro
labbia.
Ma v’è ancora, in alcuni più in alcuni meno 55 , una serie non scarsa
di nomi in -anza, in -enza, in -aggio, che continuano la serie corrispon-
dente dei Siciliani e dei Siculo-toscani. E poi decine e decine d’altre voci
dello stesso filone-, beltate, disio (e disiro ), martiro-, adastare, agenzare,
gabbare, gecchire-, manto «parecchio», ecc. Ma leggiadro, che per
Guittone aveva il significato spregiativo di «superbo» o di «frivolo»
(conforme al provenzale leujaria «frivolezza») assume negli stilnovisti
significato favorevole.
L’appartenenza rii Dante agli stilnovisti e i legami che uniranno il
Petrarca a questa scuola fanno sì che essa abbia un’efficacia grande
anche per i secoli seguenti. Di qui l’importanza capitale di questa
decantazione dei risultati delle scuole precedenti e di questa fissazione
del fiorentino letterario fatta dagli stilnovisti. J
Tutte le altre voci che la poesia toscana del Duecento ci fa sentire
(quelle che «differunt a magnis poetis, hoc est regularibus»: Dante, De
vulg. el., II, iv, 3) importano piuttosto come testimonianza dell’uso
parlato e, in qualche caso, per valore poetico: ma non hanno avuto nei
secoli seguenti influenze linguistiche apprezzabili. Penso ai poeti
realistici e satirici fiorentini e senesi 56 , ai componimenti amorosi
51 Ageno, Boll. Centro St. Sicil., I, 1953, pp. 167-168.
55 Più «arcaico» è Lapo Gianni (F. Figurelli, Il dolce stil nuovo , Napoli 1933, p.
317).
58 V. anche per la lingua, M. Marti, Cultura e stile nei poeti giocosi del tempo di
Dante, Pisa 1953. Ricordo la curiosità per le varianti dialettali manifestata da uno
di questi poeti (Cecco Angiolieri?) nel sonetto «Pelle chiabelle di Dio...» (Massera,
Sonetti burleschi, I, p. 134, Marti, Poeti giocosi, p. 247): vi si passano in rassegna
frasi dialettali di Roma, di Lucca, di Arezzo, di Pistoia, di Firenze, di Siena. La
canzone del fiorentino Castra (ricordata nel De vulg. el. e conservata nel Vat.;
Il Duecento
135
popolareschi, alle tenzoni politiche, alla poesia allegorico-dottrinale del
Tesoretto e del Favo letto, del Fiore e dell’Intelligenza. Anche su questa
poesia si riverberarono più o meno forti i riflessi della traslazione della
poesia siciliana in Toscana, specie nella rima 57 . Il drappello di poeti che
s’impone agli altri, anche per la lingua, è sempre quello dei lirici.
9. La poesia religiosa umbra e la sua lingua
Vasti movimenti di religiosità popolare, promossi da uomini che
all’afflato del divino univano le doti di trascinatori di folle, si diramano
dall’Umbria nelle regioni contermini e poi in tutta l’Italia. Primo e più
importante il francescanesimo, poi il moto dell’Alleluia (1233), poi il
moto dei Flagellanti (1260). «A Dieu ne plaise - diceva l’Ozanam
studiando Les poètes franciscains en Italie au XIII e siècle - que j’aie
voulu réduire les saints à n’ètre que les précurseurs des grands
poètes»; quel che ci preme tuttavia assodare, dal nostro angolo visuale;
è se questi movimenti possono avere avuto importanza per la formazio-
ne dell’italiano, e se per loro mezzo esso ha accolto qualche particolari-
tà umbra.
S. Francesco predicò in volgare, ponendosi all’unisono con l’anima
degli umili, e tutto l’ordine da lui fondato partecipa di questo fervore di
predicazione, a stretto contatto col popolo. Anche la continua circola-
zione dei religiosi potè in qualche modo contribuire a scambi interdia-
lettali.
Di scritti di san Francesco in volgare non ci rimane che il famoso
«Cantico di Frate Sole» o «Cantico delle creature», da lui dettato (nel
1225 o 1226) dopo una notte di atroci sofferenze e tentazioni tormentose,
e probabilmente scritto nei suoi rotoli da frate Leone, che fu segretario
usuale del Santo dal 1222 sino alla morte. Le parole - sublime effusione
di preghiera e insieme altissima poesia - erano destinate al canto (ma
purtroppo la melodia ci resta ignota).
Il testo, quale si può ricostruire dai manoscritti che ne rimangono 58 ,
è in prosa assonanzata, in un dialetto umbro illustre a cui conferi-
sce solennità il sottofondo biblico, presente attraverso copiose remini-
scenze 59 :
3793; cfr. da ultimo Camilli, St. fil. ital., VII, 1944, pp. 79-96) deride le particolarità
del dialetto marchigiano.
57 V. p. es. l’articolo di G. Petronio su «La rima nell’Intelligenza », Giom. stor.
CXXIX, 1952, pp. 363-381.
" Le edizioni critiche più recenti e importanti sono quelle date indipendente-
mente da V. Branca (Arch. francisc. hist., XLI, 1948, pp. 3-87) e da M. Casella CSf.
mediev., XVI, 1943 50, pp. 102-131).
. “ L. F. Benedetto, Il Cantico di Frate Sole, Firenze 1941, passim. Per dare solo
un esempio, si pensi alle discussioni suscitate dal per, che appare tante volte nel
cantico nella formula «Laudato si, mi Signore, per...» (cfr. A. Pagliaro, Saggi di
critica semantica, cit., pp. 199-226).
130
Stona della lingua italiana
Altissimu, onnipotente, bon Signore,
tue so le laude, la gloria e l’onore e orme benedizione.
A te solo, Altissimo, se confano
e nullu omo ene dignu te mentovare.
Nel testo si ravvisano con certezza alcuni caratteri umbri, p. es.
terze persone plurali come so, sostengo, mentre mancano altri caratteri
umbri che forse apparivano come troppo evidenti deformazioni del
latino e quindi troppo plebei per vui testo così solenne (p. es. nessun
codice ha iocunno o iocunnu, tutti iocundo al v. 19). _
Il tratto più vistoso, la -u finale {altissimu), lascia perplessi, perche il
codice più importante di tutti 60 lo presenta solo in 8 casi, mentre in 19
altri dà o ( altissimu , p. es., nel primo verso, altissimo al v. 3), cosicché
siamo tutt’altro che certi che appartenesse al linguaggio di san
Francesco.
Nella vasta letteratura delle laudi, sia liriche che drammatiche, la
composizione di alcuni testi risalirà al sec. XIII, mentre i piu sono dei
secoli seguenti. Avveniva di solito così: ciascuna compagnia metteva
insieme il proprio laudario ricorrendo alle compagnie circonvicine, e
nel copiare i testi seguiva il solito metodo, di adattarli più o meno al
proprio dialetto: fatto d’ibridazione che certo contribuì a ravvicinare le
varietà locali ima che a noi rende molto difficile la ricerca dei testi piu
antichi e genuini). „ .. . ,. .
Guardiamo piuttosto la lingua del più importante fra ì poeti mistici
umbri dopo san Francesco, Iacopone da Todi. Convergono, come nella
sua poesia, così nella sua lingua, filoni popolareggianti e filoni
dottrinali. La fisionomia del suo «todino illustre» ci è abbastanza nota,
specialmente da quando sono state eliminate dalle raccolte parecchie
poesie non sue e i suoi versi si possono leggere nell edizione di Franca
Ageno, che si è principalmente valsa, nella sua ricostruzione critica, di
due manoscritti antichi provenienti da Todi 61
La lingua di Iacopone mostra numerosi tratti dell ìtaliaiK) mediano,
analoghi a quelli dei dialetti laziali e diversi da quelli del fiorentino .
Nella fonetica troviamo forti tracce di metafonia, il trattamento di nd
come nn {spenne, monna, profonno ), di gn pure come nn llenno «legno»,
penno «pegno», rennare), lo sviluppo di a- davanti a r {aracomanno,
arfreddato ). Per la morfologia si hanno possessivi enclitici del tipo
maritota, terze persone plurali come vengo, futuri in tmesi del tipo a
penare «penerà», piucchepperfetti con valore di condizionale. Il paradi-
« L’Assisiate 338, che anzi, secondo il Casella, è quello da cui tutti gli altri
den ^ e I r acopone da Todi, Laudi, trattato e detti, a cura di F. Ageno, Firenze 1953;
circa i criteri di ricostruzione, si veda il suo saggio su Donna de
Rassegna lett. it„ LVII, 1953, pp, 62-93 (e la discussione di G. Contini, ivi, pp.
Ol (VOtOÌ
82 Sono tuttora utili il prospetto grammaticale e il lessico che accompagnano
l’ed. Ferri del 1910, purché, naturalmente, si riscontrino con il testo Ageno.
Il Duecento
137
gma del verbo essere al presente indicativo è so, ei o si, è o ene, semo o
simo, sete o site, so. Nella sintassi, emergono alcune caratteristiche
spiccatamente individuali: imperativi sostantivati («bello me costa el
tuo ride», XVI, v. 31, cioè «il tuo riso») 63 , infiniti con valore di gerundio
(«abbrevio mia detta’n questo luogo finare » XXXVIII, v. 62).
Il lessico mostra alcune voci specificamente umbre {carnee, cotozare,
ecc.), altre che trovano riscontro in qualche dialetto toscano meridiona-
le lene amato, entrasatto, finente, osolare «origliare»), molte che appar-
tengono a vaste zone mediane leetto «presto», aprire «aprire», peco
«pecora»), Iacopone usa di grande libertà nella coniazione suffissale di
sostantivi lamoranza, lascivanza-, albergata, lamentata-, assaiato, gloria-
to; grassìa, ecc.) e di aggettivi («li freddi nevile », LXI, v. 48); e non ha il
minimo scrupolo nel munire parole usuali di suffissi che gli servano a
ottenere una rima («lo ’nfemo se fa celesti o, prorompe l’amor frenesìa »,
XLVI, w. 25-26; « ’ngavinato al catenone..., pò tener lo mio cestone..., per
empir mio stomàcone..., estampiando el mi o bancone..., a pagar lo mio
scottone..., starian fissi al magnadone..., mentre ha a collo lo scudone...,
gir bizocone », LV).
Non ci stupiremo di trovare in Iacopone, insieme con molti latinismi
attestati per la prima volta (almeno allo stato attuale delle ricerche), i
quali rimarranno stabilmente nel lessico ( angustiare , appetire, balsamo,
ecc.), adozioni individuali {decetto «ingannato», derenzione «separazio-
ne [dalla vita)», morganato «condizione di inferiorità nel matrimonio», è
opporto «è d’uopo», preliare, prestolo «attendo», puella, ecc.).
Influenze della precedente lirica amorosa non mancano: lo mostra
non solo qualche imprestito come entennenza «amore», ma l’accetta-
zione di parecchie rime di tipo siciliano 64 .
Il linguaggio di Iacopone e in genere quello della poesia religiosa
umbra è per più rispetti importante, ma nella storia della lingua dei
secoli seguenti non ha quasi lasciato traccia, essendo rimasto tagliato
fuori dalla corrente principale.
Quando le poesie di Iacopone si trascrivono in Toscana, subiscono
la solita opera di adattamento, per non dire di travisamento: ecco come
si presenta il principio della lauda XIX nel manoscritto di Londra (Brit.
Mus., Ms. Addit. 16567), il migliore di tutti:
Figli neputi frate rennete / lomal tollecto loqual uo lasai
Uui lo promecteste alo patrino / de rennerlo tucto e non uenir meno /
ancor non medeste / per Ialina un ferlino
de tanta moneta / quanteo guadangnai.
Ed ecco gli stessi versi in un manoscritto toscano (Ricc. 2841):
Figli et nipoti et frati / rendetel maltollecto
83 Ageno, Lingua nosira, XIII, 1952, pp. 109-110.
84 Ageno, Buli. Centro Studi Sic., I, 1953, pp. 152-184.
^tòtia della lingua italiana
loquale io tapinello uilassciai /
Voi promcctcsti alunostro p atrino / di renderlo tucto e non uenir meno /
Ancora nonne desti pellanima unfrullino
di tanta moneta / che peruoi guadagniai.
Diversamente da quel che era accaduto per la poesia siciliana, non
vi è chi si entusiasmi per te peculiarità degli Umbri, che piuttosto
dovettero sembrare plebee. È vero che intanto era passato più di
mezzo secolo, e la poesia toscana era diventata assai più matura.
10. La poesia religiosa e didattica nell’Italia settentrionale
Anche l’Italia settentrionale ha una fioritura di verseggiatori, che
spunta nella vita tanto attiva e ricca di fermenti religiosi, non tutti
ortodossi, delle città settentrionali. I poemetti hanno scopi morali,
religiosi, didattici, e benché gli autori pensassero di fare opera di
bellezza («Mo el è plusor ditaori - ki an dito de beli sermoni»:
Barsegapè, Serm., w. 884-885), non raggiungono che livelli assai
modesti.
Gherardo Patecchio, notaio cremonese (che come tate partecipò alla
pace fra Cremona e Piacenza del 1228) si rivolge, nei 600 alessandrini
del suo Spianamento de li Proverbii de Salomone, non a «li savi», «q’ig
sa ben go q’ig dé, - anz per comunal omini qe non san ogna lé» (w. 14-
15), e dà una sequela di massime e consigli morali-.
Quel qe de povertad mena goi e legrega
vai des dig rie avari c’a tesor e riqega
(w. 434-35)
Pegr’ om, voia o no voia, s’adovra de nient;
mai l’om qe ben s’adovra, serà rie e mainent
(w. 457-58).
Mentre questo Spianamento è conservato dall’ottimo codice Saiban-
te (ora a Berlino), te Noie dello stesso autore ci sono tramandate solo da
una trascrizione quattrocentesca, che te rende pressoché inservibili
linguisticamente.
Il codice Saibante conserva anche il Libro di un altro poeta
probabilmente cremonese, Uguccione da Lodi. Il Libro è composto di
due parti in metro diverso, che Ezio Levi ® 03 * 5 * intitolò il Libro e l'Istoria 98 , e
ambedue trattano i consueti temi della letteratura ascetica medievale,
corruzione del mondo, r imminenza della morte, te pene dei dannati:
Il Duecento 139
abunda e desmesura,
avolteri e sogura.
sì falsa ni spergura,
unca no mete cura,
qe sta sopra l’altura,
ognun ca creatura.
(w. 130-135).
Il Sermone di Pietro da Barsegapè, di 2440 versi, alessandrini e
novenari, compiuto dall’autore nel 1274, ci è conservato dal manoscrit-
to Archinto, ora alla biblioteca di Brera. La lingua è un milanese
illustre, molto simile a quello che troviamo in Bonvicino. Si leggano per
es. i versi 25-38, in cui Pietro preannunzia gli argomenti che sta per
trattare:
Avaricia en sto segolo
tradhiment et engano
Carnai no fo la gente
qe de l’ovra de Deu
del magno re de gloria
quel per cui se mantien
E clamo margé al me segniore
Patre Deo creatore
ke posa diite) sermon divin
e comengà e trarie) a fin
corno Deo a fatto) lo mondo
e com(o) de terra fo Ito) homto) formo;
cum el desces de cel in terra
in la verge n regai polcella;
e cum el sostene passion
per nostra grandte) salvation;
e cum verà al di de 1* ira
là o serà la gran(de) roina;
al peccatorie) darà gramega
lo iusto avrà grande alegrega...
Bonvicino della Riva scrisse negli ultimi decenni del Duecento i suoi
«contrasti», e poemetti espositivi, narrativi, didattici in quartine d’ales-
sandrini. La sicurezza che il poeta mostra nella fattura dei suoi versi in
milanese illustre, la bontà della tradizione manoscritta, te cure spese
nello studio del testo, della versificazione e della lingua dal Mussafìa,
dal Salvioni e dal Contini ® 7 fanno delle opere volgari di Bonvicino il
testo meglio conosciuto di questo periodo.
La grafia del codice migliore, quello di S. Maria Incoronata (ora a
Berlino) è in certo modo etimologica, giacché segna anche suoni che
secondo la testimonianza del metro e della rima dovevano essere
spariti. Ecco ima quartina del contrasto fra la rosa e la viola, dove te
lettere messe tra parentesi indicano i suoni ormai spariti:
03 Poeti antichi lombardi, Milano 1921.
66 Attribuita dal più recente editore, R. Broggini, a uno pseudo-Uguccione
IStudj rom., XXXII, 1956). Anche altri due poemetti, su La misera vita de l’orno e
l'Anticristo, erano stati attribuiti ad Uguccione da E. Levi, ma non è probabile che
siano di lui.
* 7 A. Mussafìa, «Darstellung der altmail. Mundart nach Bonvesin’s Schri-
ften», in Sitzungsber. Ak. Wien, LIX (1868); C. Salvioni, «Osservazioni sull’antico
vocalismo milanese», in Studi... Rajna, Firenze 1911, 367-388; G. Contini, Le Opere
volgari di Bonvesin de la Riva. Roma 1941. In attesa del glossario del Contini può
ancora rendere qualche servizio A. Seifert, Glossar zu den Gedichten des B. da
Riva, Berlin 1886.
IO
Storia della lingua italiana
Il Duecento
141
■mr-'r
Anchora dis(e) la rosa: Eo pairo intro calor,
in temp(o) convenievre, ke paren i oltre flor,
il tempio) ke (Di lissiniotDi cantan per grand amor;
i olceflUi me fan versiti, k’en plen de grand dolzor (w. 85-88).
Giacomino da Verona è autore d’un poemetto sulla Gerusalemme
sieste in 280 alessandrini e di imo sulla Babilonia infernale in 340
lessandrini; lo stesso codice Marciano che ce li conserva contiene
nche altri poemetti dello stesso ambiente culturale.
La Gerusalemme e la Babilonia mostrano qualche tratto sicuramen-
; veronese; p. es. nei versi seguenti:
Lo re de questa terra si è quel angel re’ ^
de Lucifer ke diso: «En celto) metrò el me se’;
eo serò someiento a l’alto segnor De’»,
dond’el cagì da cel cun quanti ge gè dre».
( Babil ., vv. 25-28)
i o d’appoggio non etimologica si ha non solo in someiento ma anche
i diso. .
Il Detto dei Villani di Matazone da Calignano presso Pavia non ha
aratteristiche dialettali spiccate (forse solo mazale «maiale»).
I versi della Bona gilosia o della Fé Hai, che a lungo sono andati
otto il nome di Lamento della sposa padovana, sono probabilmente un
rammento di un poemetto in cui si narravano i vari casi d amore a
copo morale: la lingua è un padovano illustre.
L’Ano nimo Genovese che scrisse negli ultimi anni del Duecento e
tei primi del Trecento, alterna versi d’entusiasmo cittadino per le
ittorie sui Veneziani con consigli religiosi e morali. Ecco come si deve
importare chi vuol prender moglie:
Quatro cosse requer
en dever prender moier:
zo è saver de chi el è naa,
e corno el è acostuma;
e la persona dexeiver;
e dote conveneiver.
Se queste cosse ge comprendi
a nome de De la prendi.
Tutti i testi che abbiamo menzionati, e gli altri minori, meritano di
ìssere studiati come testimonianza di sforzi vari per mettere in iscritto
e parlate dialettali, nobilitandole secondo l’esempio delle lingue
6t;tì erarie
Questo sforzo,* che è comune a tutti i verseggiatori, e un certo
rumerò di tratti comuni a tutti i dialetti settentrionali (p. es. la
netafonia) hanno contribuito a creare l’illusione di una specie di coinè
veneto-lombarda, o se si vuole, padana. Vi sono indubbiamente
correnti di scambio e di conguaglio, da riferire sia alluso «naturale»
dei singoli dialetti, sia all’uso letterario di questi scrittori: basta
pensare alla -o epitetica del veronese (che è certo una fase ricostruttiva
dopo un periodo di caduta delle finalD, oppure alla coesistenza di
condizionali formati col perfetto e di condizionali formati con l’imper-
fetto (p. es. porave e devria in Barsegapè). Ma i singoli testi presentano
ancora una fisionomia abbastanza nettamente caratterizzata secondo
la città o almeno secondo l’area di provenienza: nei testi lombardi
troviamo g per ct (benedigi , condugio, confegi ) solo i Cremonesi
dittongano é in ie, solo i Milanesi e i Genovesi mutano l in -r-: gora,
perigoro (Bonvicino), povoro (Anon. Gen.).
In complesso, non possiamo dire che negli scrittori si veda in atto
una forte tendenza a passare da questi volgari illustri municipali a una
sola lingua conguagliata: non portava a questa unità lo sgretolamento
politico, non un comune slancio verso un esempio di bellezza partico-
larmente fulgido, ché non c’era bellezza in questa onesta e piatta
letteratura borghese.
Testi piuttosto conguagliati ci si presentano quando un’opera è
passata attraverso parecchie trascrizioni, in modo che i tratti originari
rimangono obliterati (e tutt’al più ci sono rivelati dalla rima). Così la
leggenda versificata di S. Margherita, che il Wiese aveva pubblicata
servendosi di otto manoscritti e giudicata lombarda 68 , fu poi ritenuta
dal Salvioni piuttosto veronese (Arch. glott. it., XII, p. 378); e più tardi
(Giom. stor., XXIX, 1897, p. 437) originariamente piacentina.
Questa modesta letteratura continuerà ancora, sempre più scialba
e stracca, nel Trecento e nella prima metà del Quattrocento. La
ignorarono i Toscani, e perciò nulla ne accolsero.
11. La prosa. Origini e fioritura della prosa d’arte.
I volgarizzamenti
Le occasioni di mettere per iscritto il volgare per uso pratico si
moltiplicano in questo periodo; specialmente per la Toscana abbia-
mo una notevole quantità di documenti, e miglior possibilità di ser-
vircene 8 ®.
Abbiamo registri di spese e di prestiti compilati da privati o da
compagnie, elenchi di tassazione (p. es. i Libri della Lira di Siena, dopo
un po’ di latino nelle prime pagine, passano francamente a servirsi del
volgare), lettere in cui le notizie scambiate con i rappresentanti
M B. Wiese, Etne altlombardische Margarethen-Legende, Halle 1890.
w Per Firenze abbiamo le due eccellenti raccolte dello Schi affini, Testi
fiorentini del Dugento e dei primi del Trecento, Firenze 1926, e del Castellani, Nuovi
testi fiorentini del Dugento, Firenze 1952. Parecchi testi (statuti, libri commerciali,
lettere) abbiamo anche per Siena e per altre città toscane (v. la bibl. del
Castellani). Un’eccellente scelta di testi letterari dà La Prosa del Duecento di C.
Segre e M. Marti, Milano-Napoli 1959.
142
Storia della lingua italiana
commerciali talvolta s’intrecciano a considerazioni e previsioni politi-
che™.
Abbiamo inoltre alcune iscrizioni in volgare.
Nell’insegnamento del latino, quale si fa nelle scuole laiche, il
volgare serve come punto d’appoggio: il latino vendor è spiegato con
fire vendù, e segue l’esempio Pero fo despoià de le vestimento, dal
maistro 7 ‘.
Il linguaggio f naturale» cosi si estende lentamente a spese del
latino,- e la conoscenza di tali documenti poco o punto letterari è
preziosa per la localizzazione precisa dei singoli fenomeni linguistici.
Ben scarse pretese artistiche troviamo anche nelle cronache, brevi e
schematiche.
La prosa narrativa [Novellino ) nel suo tono semplice e popolaresco,
non manca tuttavia di influenze lessicali e stilistiche di modelli francesi
e provenzali.
Mentre i bestiari risentono molto del latino del Physiologus, Ristoro
d’ Arezzo ci dà il primo esempio d’una prosa scientifica originale.
Un impulso decisivo alla formazione d’una prosa artistica venne da
Bologna, caput exercitii litteralis, secondo la definizione di Boncompa-
gno, e più precisamente dall’ars dictandi che fioriva in quell’università.
L’obbligo fatto ai notai di leggere in volgare alle parti i documenti che
rogavano in latino era già una spinta perché si curasse il volgare. Ma
una spinta molto più fòrte, e che incitava ad andare al di là delle
esigenze meramente pratiche, era una consuetudine che si veniva
instaurando nella vita comunale dell’Italia settentrionale e centrale-, i
podestà, i capitani, ecc., dovevano ogni tanto tenere concioni nel
pubblico arengo. E anche in queste modeste contingenze si fa sentire la
spinta verso il culto della forma.
Mentre alcuni dei più famosi maestri dello Studio bolognese, come
Boncompagno da Signa o Bene da Firenze, volsero le loro cure
esclusive a insegnare come si dovessero tenere ornate orazioni latine,
Guido Fava ebbe l’idea di applicare quelle dottrine al volgare. Le
formule volgari della Gemma purpurea e i Parlamenti ed Epistole 72
«sono non soltanto uno de’ più antichi nostri testi volgari, ma forse
anche il primo tentativo che sia stato fatto di trasportare i formulari di
lettere in volgare, e di fondare una prosa letteraria italiana» 73 , e se
possiamo trovare un po’ ridicola la sua pretesa nel proclamarsi
(nell’esordio della Gemma) Tullii [et) Ciceronis heredem (speriamo
almeno che l 'et non sia suo!), non possiamo disconoscerne l’importan-
70 V. p. es. la bella raccoltina di Lettere volgari del sec. XIII scritte da Senesi
pubblicate da C. Paoli e E. Piccolomini, Bologna 1871.
71 Manacorda, art. cit. (a p. 126).
72 II parlamento in volgare enunzia il tema, il quale poi è svolto per lò più da
tre epistole latine, una maggiore, una minore, una minima.
73 Parodi, in Misceli, stor. della Valdelsa, XXI, 1913, p. 241 (= Lingua e lett., p.
489).
Il Duecento
143
za, per un primo sentore di preumanesimo. Malgrado le difficoltà che
presenta la ricostruzione del testo volgare 74 , intravediamo nelle forino-
le del Fava, accanto ad alcune caratteristiche genericamente setten-
trionali e a peculiarità del bolognese più antico, visibili tratti latineg-
gianti; malsicure sono alcune tracce toscane™.
Piuttosto che pensare a un prestigio letterario toscano che, per testi
scritti e copiati prima della metà del secolo, è diffìcile ammettere, si
può pensare che il gran numero di Toscani che studiavano e insegna-
vano a Bologna avesse portato a Bologna certi influssi, e soprattutto la
persuasione più o meno chiara che il toscano, come quella fra le
parlate italiane che era la più s imil e al latino, avesse una particolare
distinzione.
La stretta dipendenza dei testi di Guido Fava dalle tradizioni dei
dettatori latini 78 si vede nell’uso del cursus, del parallelismo dei
membri, e di altri artifici, con lo scopo che quelli che a lui si attengono
possano «favelare ornata mente e dire bellega de parole» (Parlam. 93,
Gaudenzi p. 159).
Scritti di questo genere sono numerosi per tutto il secolo e il
principio del secolo seguente, a opera principalmente di Bolognesi: fra
Guidotto nel Fiore di retorica dà soprattutto le regole della «favella
giudiciale», Matteo dei Libri scrive «dicerie» volgari. Dell’Ars notariae
di Ranieri da Perugia abbiamo parecchie formule volgarizzate (giunte-
ci in copia di amanuensi viterbesi). Giovanni da Viterbo, nel Liber de
regimine civitatum, scritto probabilmente nel 1253 77 , fornisce ai futuri
podestà o capitani del popolo schernì di discorsi in latino e in volgare.
In primis, sedato rumore populi, petat audiri, quod sic fieri consuevit: ‘Noi
faimo pregu alla cavallaria et al popolo et a ttutta l’altra bona gente, la quale ene
en questu arengu, et generalmente a ttuttu ’1 comunu di questa cittade, ke per lo
vostro honore nui debiamo essere entisi...’.
Si tratta di un umbro illustre, assai difficilmente localizzabile.
Gli scopi pratici della retorica mirano ad innalzarsi a eloquenza
letteraria nell’opera di Guittone d’Arezzo. Le sue lettere, anche se
7 * Monteverdi, Saggi, pp. 75-110; Terracini, «Osservazioni sul testo delle
formolo epistolari volgari della Gemma purpurea », in Atti Acc. Scienze Torino,
LXXXIV, 1949-50, pp. 315-329; Castellani, in St. filo l. it., XIII, 1955, pp. 5-78.
75 Settentrionale è di regola il trattamento delle sorde (amigo, seguro, tenudo,
fiada, savere) e delle palatali (furai-, bolognese antico è il trattamento di s- davanti
a i (sci, scia 1 , latineggiante (cioè corretta o ipercorretta) è la scrittura delle doppie;
toscani potrebbero essere il trattamento delle atone in signure, signorìa (ma cfr.
Castellani, art. cit., pp. 70-71), i presenti diamo e s(cìiamo, la forma epitetica ene,
ecc.
79 V. il capitolo su «L’ars dictandi e la prosa di Guido Faba», in Schiaffini,
Tradizione.
77 Pubblicato da G. Salvemini, nella Bibl. iuridica medii aevi, III. I brani in
volgare sono stati coliazionati e studiati da G. Folena, Lingua nostra, XX. 1959, pp.
97-105.
144 Stona della lingua italiana
indirizzate a persone singole, sono «lettere aperte», dissertazioni
morali ammantate di un’eleganza ritmica, con tutti gli espedienti
insegnati dai dettatori: cursus, amplificazioni, simmetrie, figure etimo-
logiche, ecc. «Maldestro, ma indefesso e coraggioso innovatore» nelle
sue canzoni come nelle sue lettere, Guittone persegue, con «fasto
culturale», «un tipo di espressione da umanità superiore» 78 . Sforzo
animoso 70 , ma ancora immaturo, specie in un periodo in cui era ancora
necessario dissodare il terreno, abituare la gente a leggere in volgare.
A ciò miravano i volgarizzamenti dal latino e dal francese, numero-
si in tutta l’Italia settentrionale e centrale, rari nell’Italia meridionale,
specialmente copiosi e importanti in Toscana. Si traducono - oltre ad
opere d’interesse pratico, come statuti di confraternite e corporazioni -
opere retoriche, scritti morali e politici, compilazioni storiche 80 .
Brunetto Latini parafrasa liberamente, nella sua Rettorica, i primi
17 libri del De Inverinone di Cicerone, tenendosi abbastanza vicino ai
semplici moduli della prosa narrativa. Il suo sforzo di divulgazione
enciclopedica si manifesta in spiegazioni, richiami, postille, e la sua
prosa riesce chiara, anche se non saldamente organica 81 .
Andrea da Grosseto e il pistoiese Soffredi del Grazia volgarizzano i
trattati morali di Albertano da Brescia, il primo con maggior sicurezza
stilistica, il secondo con più spiccato colorito dialettale (ancora inedita
è la versione di Fantino da San Filano). Bono Giamboni traduce dal
latino Orosio, Vegezio e altri parecchi, e dal francese il Tresor di
Brunetto. Taddeo Alderotti volgarizza (male, secondo il giudizio di
Dante) YEtica nicomachea di Aristotile (dal latino, s’intende).
Lucchesi o pisane sono le versioni della Navigatio Sancti Brendani,
del Thesaurus Pauperum, di quei passi dello Speculum historiale di -
Vincenzo di Beauvais i quali vanno sotto il nome di Fiore e vita di
filosofi.
Veneti sono i traduttori del Panfilo (ridotto in prosa dal testo
medievale in distici) e dellTmogo mundi di Onorio di Autun. Due
Romani volgarizzano il Liber Historiarum Romanorum, mentre ima
78 De Lollis, « Arnaldo e Guittone », in Idealistische Neuphilologie, Heidelberg
1922, pp. 159-173.
™ Sulle peculiarità sintattiche e stilistiche di Guittone, v. i capitoli «Guittone
d’ Arezzo» e «Guittone, Guittoniani, Rhétoriqueurs» in Schiaffìni, Tradizione, e lo
speciale capitolo in C. Segre, Sintassi del periodo.
Per ciò che concerne le peculiarità fonetiche e morfologiche, purtroppo è quasi
impossibile discemere ciò che è di Guittone e ciò che invece appartiene al copista
lucchese o pisano del codice da cui quasi esclusivamente dipende la nostra
conoscenza del frate aretino, il Laur. Red. 9. Il lessico è ricco di latinismi e di
provenzalismi poetici, e meriterebbe di essere studiato dawicino.
60 V. specialmente F. Maggini, I primi volgarizzamenti dai classici latini,
Firenze 1952, e i Volgarizzamenti del Due e Trecento a cura di C. Segre, Torino 1953
(introduzione e scelta). —
81 V. l’eccellente analisi di C. Segre, nella seconda parte della sua Sintassi del
periodo.
Il Duecento 145
terza versione è fortemente toscanizzata; pure di un Romano è il
volgarizzamento dei Mirabilia Urbis Romae.
Parecchi libri della Bibbia sono tradotti in questo tempo, special-
mente per uso di mercanti e artigiani.
Molto numerosi sono pure i volgarizzamenti dal francese, e i più o
meno liberi rimaneggiamenti: storie del ciclo dell’antichità (di Troia, di
Tebe, di Cesare), romanzi arturiani; anche alcune opere latine sono
tradotte attraverso versioni francesi Qa Disciplina clericalis di Pietro
Alfonso, il De regimine prìncipum di Egidio Romano). Abbiamo già
ricordato la versione del Tresor di Brunetto.
Per lo più il colorito locale di questi testi è assai spiccato; nello stile,
molto dipende, oltre che dalla struttura più o meno complessa del testo,
dalla capacità maggiore o minore degli autori. Si confronti l’andamen-
to pedestre e per lo più paratattico della versione delle Miracole de
Roma (§ 6 Monaci):
Ad porta Flamminea Octabiano fece fare uno castiello lo quale clamao
Agoste, dove se sotterravano tutti li imperatori de Roma. Lo quale fu tabolato de
diverse prete. Et lo giro de mieso de sotto era cupo, et intravano per nasscoste
vie. Et lo giro de mieso sì be stabano le sepolture de li imperatori. Et in orme
sepoltura erano scripte lectere ke diceno così: Queste sonno Tossa la cenere de
Nerva imperatore, et la victoria ke fece.
con la complessa struttura del volgarizzamento da Orosio di Bono
Giamboni (II, via):
Ma quegli d’ Atena, poscia che Dario venne contra loro, awegna che a quelli
de Lacedemonia aiuto avessero adomandato, nonpertanto, ispiato per certo che
quegli di Persia si riposavano per un digiuno di quattro dì che faciano, per quella
cagione pigliata speranza, armati solamente diece migliaia de’ loro cittadini e
mille cavalieri, settecento migliaia di uomini ne’ campi marattonei ardirò
d’assalire.
In complesso, attraverso questo largo, costante esercizio la lingua
acquista un lessico più ampio e una più salda struttura periodica. Le
allusioni a «realità» del mondo antico sono spesso trasposte in parole
moderne, che a noi sembrano travestimenti: citharoedus = giullare,
iurisconsulti = savi di ragione, respublica = comune, ma numerose
altre parole, specialmente astratte, entrano per questa via nel lessico
italiano (v. § 18).
12. I fatti grammaticali
Non esiste un’ampia descrizione dei fenomeni grammaticali dei
testi di questo periodo. Tuttavia il rapido panorama tracciato da M.
Bartoli in appendice alla crestomazia del Savj - Lopez 82 , il manuale
“ P. Savj Lopez - M. Bartoli, Altitalienische Chrestomathie, Strasburgo 1903.
146 Storia della lingua italiana
d’italiano antico del Wiese 83 , e il Prospetto grammaticale del Monaci
permettono un primo orientamento generale.
Per il fiorentino di questa età, confrontato con gli altri dialetti
toscani, abbiamo le ottime introduzioni ai Testi fiorentini dello Schiaffì-
ni e ai Nuovi testi fiorentini del Castellani.
Nei paragrafi che seguono, non potremo far altro che indicare
alcuni fenomeni più caratteristici, limitando quasi sempre i nostri
cenni all’Italia centrale 84 . Notiamo qui un’esigenza che ci sembra
d’importanza capitale (anche se non sempre potremo metterla in
evidenza nei brevissimi cenni che seguono). Nello studiare la lingua di
un dato periodo nei singoli suoi istituti, è necessario distinguere l’uso
delle singole località, quale ci è testimoniato nei testi di carattere
pratico giuntici negli originali, da quello che ci appare nei testi in prosa
artistica o in versi, in cui si hanno sempre deviazioni più o meno forti
dall’uso quotidiano. È importante rendersi conto dell’àmbito di queste
deviazioni, e valutare fino a che punto siano dovute a meditati
propositi artistici.
13. Grafia
La grafìa è ancora molto oscillante, in quanto ima salda tradizione
di scrivere in volgare comincia a instaurarsi solo in questo periodo. In
presenza dei suoni che il latino medievale non ha (p. es. ciò, ciu, gio,
giu, che, chi, ghe, ghi, gl, z sorda di za, zo, zu), gli espedienti vari a cui si
ricorre stentano a coagularsi in un metodo comune.
La k è ancora assai frequente, e l’alternanza con c è assai saltuaria
e irregolare: nei Capitoli della Compagnia d’Orsanmichele (1294)
troviamo più spesso chiesa, ma anche kiesa, nel codice Laur.-Red. delle
Lettere di Guittone si ha k solo in karissimo, ecc. 85 .
Perdono terreno le grafìe k, q per g velare (Kerardi, quadannio, nel
quaderno pistoiese del 1259) e quella ancora più rara di c per g palatale
(Ciunta, avantacio, nello stesso quaderno).
Per qualche peculiarità si può dare ima localizzazione abbastanza
precisa. Il gruppo th col valore di z è del toscano occidentale (Pisa,
Lucca, Pistoia): abbiamo p. es. vethosa per «vezzosa» (Schiaffimi, Testi,
p. x), mentre a Firenze i Conti di banchieri hanno Matzingo, ecc., e il
Libro del Chiodo (1268) dà Veczosus m .
83 B. Wiese, Altitalienisches Elementarbuch, 2“ ed., Heidelberg 1928.
84 Sottintendiamo un continuo rinvio ai manuali del Meyer-Lùbke, del Rohlfs,
del Wiese.
85 Invece il digramma eh ha valore palatale qua e là nell’Italia settentrionale
e in Sicilia (Debenedetti, St. rom., XXII, p. 17; Contini, lt. dial., X, p. 226); cfr. p. 135.
84 Nell’Italia settentrionale troviamo th (probabilmente col valore di ima
interdentale sonora o sorda) a Brescia (Contini, It. dial., XI, 1935, p. 146) e altrove
(id., XIV, 1938, p. 223). Nella Lombardia della seconda metà del Duecento è
frequente dh (Contini, Bonvesin, pp. liii-liv).
Il Duecento
147
È continua 1 oscillazione tra grafìe etimologiche (preferite dai testi
più colti) e grafie fonetiche (nei testi più popolari).
L h etimologica è piuttosto frequente (homo), ma sparisce quando la
parola sia preceduta da proclitica Uomo). Dante manifesta la sua
preferenza per le grafie etimologiche in un passo del Convivio-.
«tEpicurol disse questo nostro fine essere vo luptade (non dico volunta-
de, ma scrivola per p)» (IV, vi 11) 87 .
L indicazione dei rafforzamenti, specie in alcune posizioni, p. es.
dopo la a- prefissale 88 , è così oscillante anche in Toscana, da lasciarci
spesso incerti se si tratti di fenomeno fonetico o solo grafico.
14. Suoni
m^£ re vv? n ° par ^ ato di regola presenta il dittongo negli esiti di é ed o
in sillaba libera, anche dopo i gruppi di consonante seguita da r (priego,
tnema, pruova, truova). Manca, per lo più, il dittongo in figliolo e
qualche volta dopo altra palatale 89 .
La riduzione di no a u (del tipo furi, figliulo, Ceriulo, Cavicciuli ) è
aretino-cortonese-umbra, e a Firenze si trova solo in sporadici esempi,
certo provenienti da quella zona. Anche più rara è la riduzione di ie in i
(cfr. priga, lita in Iacopone). Numerose forme non dittongate (dei tipi
novo e vene ) appaiono in poesia, sotto la triplice spinta del latino del
provenzale e del siciliano.
Le forme del tipo conseglio, someglio e ponto, onghia 90 circondano
Firenze da ogni parte.
La perdita della -i- nei dittonghi discendenti (preite che diventa prete)
va collocata verso la metà del secolo.
Solo della lingua letteraria, e dovuto a imitazione dei Siciliani e dei
Provenzali, è il dittongamento in sillaba iniziale di o, u in au-. aulire
aunore, ausignuolo, rausignuolo, ecc.
Nel vocalismo atono ricordiamo il passaggio di -ar- ad -er-, caratteri-
stico del fiorentino (loderò), mentre viceversa nel senese anche gli -er-
passano ad ar- (vìvare); la sincope in avrò, dovrò, potrò è avvenuta verso
del Duecento. Il dittongo -ia- in posizione atona passa ad -ie-
(Bietnce, vie più-, anche sie, sieno, Die sa). Ogni vince ogne negli ultimi
decenni del secolo.
Nel consonantismo, la sonorizzazione delle sorde si osserva in un
numero maggiore di voci che non siano poi sopravvissute (imperadore,
ambasciadore, armadura, savere) e con maggiore abbondanza nei testi
d arte che in quelli documentari.
A Bologna troviamo mantenuta la grafìa etimologica anche nei nessi con l-
compluta per «compiuta», scianti per «schianti», nei Memoriali.
V. la prefazione del Parodi al Tristano riccardiano, p. clvii.
Castellani, Gloss. dei Nuovi testi, s. v. figliolo.
p 2 : Ci ° è senza * ana f° n esi», per usare il termine del Castellani, Nuovi testi.
148 Storia della lingua italiana
La riduzione di -rj- a -i- ha portato come conseguenza a un
paradigma nominale singolare denaio plurale denari, ancora ben vivo
{p. es. nella Tavola di Riccomanno lacopiì. Ma appaiono anche
numerose voci con la riduzione semidotta a -r-, contraro, memora,
Grigoro, Melora.
La prostesi di i- (più raramente di e-ì davanti a s impura è quasi
costante 91 .
15. Forme
Per il nome 92 , predominano di gran lunga, come si sa, i tre tipi
corrispondenti alle tre prime declinazioni latine-, ma si hanno anche
forti tracce della quinta, in Toscana [merigge ; adomezze, altezze,
bellezze, face in Guittone) e anche più in dialetti settentrionali e
meridionali.
Relitti di nominativi si hanno, oltre che in molti nomi tuttora vivi
[uomo, sarto, orafo, moglie, ecc.l, in tràito (e tratto) «traditore», èdima
«settimana» e nell’agg. maggio «maggiore»; inoltre nel tipo semidotto
maiesta, povertà e in nomi propri dotti come Cato ecc.
Sembrano semidotti i vocativi del tipo figliuole (Dante), Còste
(Bonvicino); dotti sono i genitivi singolari frequentissimi nell’uso notari-
le Uà figluola Guidi Tinagi, lo kapitale Arriki, ecc.) e i genitivi plurali in
-oro cristallizzati in qualche formula e in qualche toponimo (ma estesi
talvolta anche a nomi in -a, come regno femminoro).
Per il plurale notiamo spesso oscillazioni dove sono in gioco le
palatali e le velari (cuoci «cuochi», cronice «cronache», ecc.). Dei plurali
in -ora abbiamo ancora esempi in testi toscani (bustora, campora,
pratora, luogora ); molto più largo e saldo è l’uso nell’Italia meridionale.
Il genere di amore, fiore, negli antichi lirici è spesso femminile (per
influenza provenzale).
Per l’articolo, lo è ancora la forma predominante; il, che dapprima
era solo ammissibile quando potesse appoggiarsi a una vocale prece-
dente, acquista autonomia (Il marito è morto, Firenze 1277, in Castella-
ni, Nuovi testi, p. 368). Similmente si hanno al plurale li (più di rado, ma
anche davanti a consonante gli ) ed i, ormai autonomo. Il sing. el e il
plur. e' sono propri dei dialetti occidentali, ma qualche esempio se ne
ha anche a Firenze. Nel toscano meridionale (e nell’umbro) si ha il tipo
in elle sale (Guittone), in ella croce (Iacopone), en nella vigna (Bestiario
umbro-toscano).
Al provenzale è dovuto qualche comparativo organico nei poeti
91 V. gli spogli da testi del Duecento in Meyer-Lùbke, Behrens-Festschrift, Jena-
Lipsia 1929, pp. 24-30.
92 Oltre alle trattazioni già indicate, può rendere ancora utili servizi, benché
invecchiatissima, la Teorica dei nomi della lingua italiana di V. Nannucci,
Firenze 1847.
Il Duecento
149
f enzore <più gentile», forzare «più forte» (in plusore
la spinta provenzale converge con quella francese) P
tm^TTZi S ^nV a Perorazione per influenza siciliana di meve
rimasto nella lingua poetica SS3 MaS Eg^TguJ eTetenZ
Sinomw 0 dOVUtÌ ad analo ^ a con le forme vfrbah Nelle SLSbS
de? semini] Hnn dal tÌP ° mi ne al tipo me ne P° co dopo la metà
secolo mà conuncia a c edere a me lo solo verso la fine del
secolo, ma persisterà ancora a lungo 83 .
Per fi verbo 94 , notiamo al presente le forme poetiche aggio dpggin
w» l S1Cfflan Ì /U>bo (con la varianti)
tutta la Toscana, ma cade presto in disuso
-abbo, U Jt£ 0 ’ ° ltre aUe f0rme normali ^ -à abbiamo esempi di -aggio,
—Sa lingu^poetica Mi* "
o^ Nel passa o remoto, abbiamo spesso forme deboli dove niù tardi «si
avranno quelle forti (nascé. Brunetto, toglie. Giamboni ZStte Dante
rj ^ congiuntivo, sono pressoché costanti a Firenze le forme dea stea
noS?T F Ln™ t£ Ve “‘ (1 a Con1, che * «aadacfti SSe oonTè
normale a Firenze nella seconda metà del Duecento 99 e «sì ritrovo in
(v. a Slp. b VX Ché qUand ° egU scrivev a ormai l’uso generale fosse mutato
col^eSfSS e ’^ ant ? al parad ignia popolare toscano formato
- ? ' 'Ri troviamo m poesia fi paradigma formato con
p3to Sr p ^ ° ngÌne Sicmana ’ e d^che voce dal piucchep-
All imperativo, il tipo crede è normale nella Toscana periferica.
16 . Costrutti
Nella sintassi dei gruppi e nella proposizione si delinea eià netta
che salvo SSiTn aeolatino la fisionomia sintattica deU’itahÌno
che, salvo poche peculiarità, nmarra stabile. La sintassi del periodo si
« Sclfe U Su W verhn^;- PP - 7 ?̰ 5 fcon Escussione degli studi precedenti)
verbi italian^Firenze 1843 vola 5 al del Nannucci, Analisi crìtica dei
difettivi, Firenze 1853- essi’ vamn del prospetto generale di tutti i verbi anomali e
solo perché invecchiati ma consultati con estrema cautela, non
* pos “ tar *' d “
Schiaffim, Italia dial, V, 1929, pp. 1-31.
Castellam, Nuovi testi, pp. 68 - 71 .
Stòria della lingua italiana
presenta assai diversamente in scritti narrativi di tipo più o meno
popolaresco, come il Novellino, e in scritti dottrinali dominati dai
modelli latini, come quelli di Guittone 97 .
Daremo qui solo un cenno su alcuni costrutti dell’italiano del
Duecento che già nel secolo successivo saranno affievoliti o addirittura
scomparsi.
Dio è adoperato in alcune locuzioni col significato di «di Dio, a Dio»:
se Dio piace Getterà senese 1260), «l’amistà del mondo è Dio nemica »
(Guittone, lettera XXXVI, p. 41 Meriano); la Dio mercé persisterà per
secoli.
Il costrutto senza preposizione, limitato ai nomi propri, il campion
San Pietro (Pallamidesse), lo di San Vito (Cron. Pisana, 1279), la gente
Gieso Cristo (Fiore), il nodo Salamone (Dante, sonetto a Forese), il porco
Sant’Antonio (Dante, Par., XXIX, v. 124) 98 si ricollega ai genitivi di tipo
notarile già ricordati (lo kapitale Arriki, ecc.) e si prolungherà nei secoli
seguenti nei costrutti in casa i Frescobaldi, Piazza San Marco™.
Sono ammesse coi superlativi altre parole intensive: «Gorgias
Leontino, il più antichissimo rettorico» (Brunetto, Rettorica, c. 38);
«Cassandra cominciò a fare sì grandissimo pianto» Ustor. troiana, ed.
Gorra).
Il pronome di terza persona indeterminata è spesso indicato da
uomo, l’uomo, ma poiché uomo ha sempre conservato anche il valore
pieno, non c’è mai stata una completa grammaticalizzazione come in
francese 100 .
Il possessivo enclitico, che nei secoli seguenti si restringerà all’area
mediana e meridionale, è ancora vivo in Toscana: a Firenze si ha
mógliama, càsasa (Castellani, Nuovi Testi, Gloss.l, a Siena frateima,
cognàtoma (Mattasalà).
L’indefinito tutto è spesso adoperato senza articolo: «a quella ch’ave
tuto ’nsegnamento» (Rinaldo d’ Aquino, «In un gravoso affanno», v. 20).
Il comparativo può avere il suo complemento in un possessivo:
«quand’orno è vinto da un suo migliore » (Guido delle Colonne, canz.
«Amor che lungiamente...»), «chi contr’al suo forzor vo star rapente»
(Guittone, canz. V): è il tipo che si ritrova nel dantesco «delli altri miei
miglior » (Purg., XXVI, v. 98).
97 Manca una sintassi dell’italiano antico comparabile a quella del Foulet per
il francese antico. Ma abbiamo un certo numero di monografie su fenomeni
singoli, e parecchie pagine importanti nei Testi dello Schiaffini e nei Nuovi testi
del Castellani. Una rapida rassegna di fenomeni dà il Wiese, Altital. Elementar-
buch. Per la sintassi del periodo, che studiata autore per autore va a identificarsi
con la stilistica, si veda specialmente G. Lisio, L’Arte del periodo nelle opere
volgari di Dante Alighieri e del sec. XIII, Bologna 1902, Parodi, Lingua e letter., pp.
301-328, Schiaffini, Tradizione, passim. Segre, Sintassi del periodo, passim.
88 Debenedetti, Bull. Soc. Dant., XXVII, 1920, pp. 75-81.
89 Cfr. anche la torre Babel (Brunetto).
100 R. Schlaepfer, Die Ausdrucksformen fùr «man* im Italienischen, Zurigo
1933, spec. pp. 38-67.
Il Duecento
15i
usato al presente con valore di imperfetto («E la rica
aiegranza caver soglio »: Bondie Dietaiuti, canz. «Greve cosa» v S
probabilmente secondo l’esempio provenzale,
i Passivo, oltre che dalle voci di essere e da quelle di fieri aggregate
£?* ma • A'"*'»”' P*> «•«£ da
divenire, «e tal è che non mai venta dovene » (Guittone, «Ai lasso», v.
I numerosi costrutti perifrastici sono in parte propri della lingua
P NeUe C connfe e A temp ? st f sormontando» (Chiaro Davanzali) ecc. 103 .
am ° 7re quentemente il tipo villana ed
netrative’.nimto , con , va to re avverbiale (.un nonnulla,; nelle frasi
SlK.fsS amC0 ' nè Di ° gUarda fi ° re ' ottone, .Al
mo MMra jStfdf ™ n«^ °° nv f r S 0 no, boto, varie forme, abbia-
ZrfSvife neTSs^» n ° n ^ SÌCfflan1 ’ *» ancha neUs
Frequente nei testi del Duecento e del Trecento è la narainntn«ci
MtoSKV 011 eOSÌ ' - E Ì acciand0 to tale mSSa dSlSprtaà'
pàrodi p ór'r* Tespero ’ e adora pervenne a una fontana, ITrULBUx.
fo ™,?feS«» S T D al a , ? nÌ COStratli assotat t «>u tendenza a diventar
(cSSne Siterai) 'T*/'® 6 ' " J . ,a “ 0 s ' è s P onso grazia sua,
p. To4l ’ ^ X) ’ ’ gmzia dl Dl °’ non Potè» (Schiaffini, Testi,
tnnt? U r khe Problema di topologia è stato bene studiato- la norma che
Misia™ ‘SXSS?" all’iniziale, la cosiddetta legge Sbler
ivi usa au a , assai regolarmente osservata 109 .
esempi” Menati,' cSS" ^osSo avevano Pacchie altre forme.-
i95S^et^7etschr er r^tht m. Passividee im ^eren Italienischen, Tubinga
e Mem C Acc. fo^nT^mH&tpp. J ° StiIn oovo». in Atti
Migliorini, Saggi ling., pp. 148-155.
XXXIV N r 2 T“g nel Tommaseo-Bellini: si ricordi Dante, Inf., XXV, v. 144,
103 A M^safìI e 1n M 3 2Q J,’ S ° rr l nto ’ Sintassi romanza, cip. II.
nlTof
deb.ToS.'^SIuSSSi 01 fa “> re 61 ™ °»
della lingua italiana
17. I fatti lessicali
Diamo una rapida occhiata alla consistenza del lessico quale si è
venuto costituendo nei primi tre secoli dopo l’apparizione dei primi
documenti, anzi, diciamo all’ingrosso dal 950 al 1300. Prima del Mille,
possiamo immaginare un lessico ristretto alle più elementari necessità
della conversazione quotidiana; verso il 1300 troviamo che il lessico del
volgare è ormai in grado di esprimere concetti e sfumature scientifici,
filosofici, letterari. Si è passati da un lessico dell’ordine di grandezza di
quattro o cinquemila vocaboli a un lessico di forse dieci o quindicimila.
Certo un lessico di questa ampiezza era posseduto ancora da non
molti uomini colti qua e là, specialmente in Toscana e nei territori
limitrofi, mentre l’enorme maggioranza non era ancora capace che
dell’uso spontaneo di un dialetto non coltivato.
Tuttavia, proprio per il lessico dobbiamo sforzarci di volgere lo
sguardo quanto più si può anche al di fuori della Toscana. In ogni
luogo dove fervono le attività umane si possono, in servigio di nuove
nozioni che acquistino consistente fisionomia e valore sociale, coniare
nuove parole o mutare i significati delle antiche, ovvero si possono
accogliere e adattare vocaboli forestieri. E molte di queste parole nate
o trasformate o accettate in questo periodo in varie città e regioni
d’Italia, saranno più tardi accolte in pieno nel lessico nazionale-, i
vocaboli universitari che prendono nuovo significato (in latino) a
Bologna (v. p. 155); il molo e la darsena di Genova, l'arsenale e il
catastitelo di Venezia, il taccuino di Salerno, l’ammiraglio e il portolano
di Palermo.
Il fondo più stabile e consistente è costituito dalle parole ereditarie
giunte dalle generazioni precedenti. Talvolta assistiamo alla scompar-
sa o alla degradazione semantica di qualcuna di esse, dovuta alla
concorrenza di parole nuove. Il lat. caligarius, ancora vivo, se pur non
molto vegeto, in alcuni dialetti settentrionali (veneziano caleghèr, ecc.),
a Firenze sotto la forma galigaio ha prima preso il significato di
«conciapelli», poi è scomparso.
Diminuisce la fortuna delle parole di origine germanica, specie per
la rinascita del diritto romano: libero guadagna terreno su franco, ecc.
Si coniano parole innumerevoli, con i consueti procedimenti. Accan-
to ai suffissi ereditari (per i nomi, -aio, -ore, -occhio, -oio, -ura, -ia, -mento,
-zìone ecc.) prendono vigore alcuni suffissi di origine forestiera, special-
mente -iere e -aggio, provenienti dal provenzale e dal francese. Per gli
aggettivi, accanto a -oso, -ano, -agno, abbiamo : ale, -esco, -ingo. Per i
verbi si moltiplica -eggiare.
Vigoreggiano i prefissi a-, in-, dis-, s-, ecc., che valgono anche a
foggiare voci parasintetiche ( allibrare , indenaiato, sbarbare ).
Abbiamo numerosi deverbali, sia maschili, sia femminili ( comincio ,
estimo, frodo, lascio, ecc., dura, mena, monta «somma»,-ecc.).
Non mancano composti di vari tipi ( fattibello , tecomeco, ecc.), e vivace
esemplificazione ne danno i soprannomi ILegalotre, Lucca 1076, ecc.).
Il Duecento
li
. ET E Uei penodl . per cui siamo meglio informati, e specialmente nt
testi letterari, possiamo seguire certi gusti individuali e certe mode: £
pensi alla fortuna dei tipi dolzore, riccore, calura, laidura 110 o de
participi passati deboli sostantivati con valore astratto Gl turbato, h
perduta ) U1 nel tardo Duecento.
Nelle nuove coniazioni, accanto ai moventi razionali, appaionc
talvolta anche moventi scherzosi: si pensi p. es. a scarsella, propr
«quella che è sempre a corto di denaro».
Quanto ai mutamenti semantici subiti da moltissimi vocaboli in
caratteristico °’ ^ P ° tremo ’ com è ovvio - che citare qualche esempio
h ricor ^ iamo a nome dell’istituzione tipica del Medioevo ita-
hano, il Comune-, e il nome di popolo è sinonimo di « regime democratico ».
buri bolo del Comune è il carroccio (che troviamo a Milano già dal sec. XI,
a Firenze nel XIII). Il centro politico e civile della città porta nomi diversi:
i a . f <? r j™ a ? he ebbe in questo significato il Broletto milanese
m molti centri dell Italia settentrionale 112 .
, ® molto va ri sono i nomi delle autorità civili, militari, giu diziar ie:
diffusissimo, insieme con l’istituzione, il nome di podestà (che fino al
secolo seguente sarà femminile, la podestà ) «parola di schietta creazio-
ne padana» . La stessa provenienza ha anche padrone, in cui si
continua con nuovo significato il patronus latino. Risultato di assai
complesse vicende è anche il mutamento di significato per cui contado
anziché «territorio soggetto a un conte» viene a indicare il «territorio di
campagna» sottoposto (e contrapposto) a un Comune, e contadino
viene a dire «coltivatore dei campi».
. , terminologia assai ricca e precisa si viene formando per tutto
c , he col \cerne la circolazione del denaro: ragione nel significato di
«conto» e di «contabilità» (col derivato ragioniere ); saldare, scontare,
cambio secco ecc. Monte indica Gn lettere senesi del ’200) «unione di
capitali». Tavola è nel ’200, a Firenze, il nome usuale per «banco di
f; ambiatore> luel ’300 prevarrà banco, e avrà col derivato
banchiere fortuna intemazionale). Camera è in più luoghi riferito
all erano. La severità con cui la Chiesa condannava l’usura fa sorgere
molti eufemismi 114 per indicare l’«interesse»: già il termine stesso
a interesse è eufemistico Gndicando propriamente la «mora», il periodo
che trascorre tra il prestito e la restituzione); dono volutamente fa
apparire 1 affare sotto altro aspetto; merito è metafora tratta dalle
opere che procurano ricompensa.
... m Rend. Acc. Lincei, s. 8 », Vili, 1953, pp. 294-312.
1 Corti, m Arch. glott. ital., XXXVIII, 1953, pp. 58-92
Serra, in Lingua nostra, V, 1943, pp. 1-5
113 Bartoli, in Lingua nostra, VI, 1944-45 p 4
“ L '^ el ^ va H Sacchetti (nov. XXXII): «Ed hanno battezzato l'usura in
rifrango!* e “ teresso ' cambio > civ anza, baroccolo.
154
Stona della lingua italiana
Le monete hanno una nomenclatura estremamente varia secondo i
luoghi e i tempi: agostaro flat. augustalis ), aquilino o a guglino (der. di
aquila), fiorino (der. di fiore), ducato (dall’iscrizione che la moneta
veneziana portava), ecc.
Conseguenza semantica del titolo di frate e suora dato ai religiosi
dei nuovi ordini è la limitazione di quelle parole all’uso ecclesiastico,
mentre fratello e sorella subentrano loro nel significato comune.
Pietanza oltre al significato proprio di «pietà» («Villana morte che nonn
a pietanza»: Giacomino Pugliese) ha quello di «cibo che si dava ai frati
in certe ricorrenze» (in seguito a lasciti e simili).
Alla pratica dell’insegnamento è dovuto il significato che aveva
preso grammatica, quello cioè di «latino». In opposizione alla gramma-
tica insegnata nelle scuole sta l’espressione di lingua materna, nata,
sembra, in questo periodo 115 . Il verbo compitare si riferisce parimenti ai
calcoli aritmetici («trentaquattro soldi ci kompitano»; Ricordi di Aglia-
na, Schiaffini, Testi, p. 222) 116 e alla pronunzia esattamente scandita
(«secundo ke aio compitatu et voi avete (uditul kosì zurarete»: Volgariz-
zamento di Ranieri da Perugia, in Monaci-Arese, p. 65).
18 . Latinismi
Già in qualcuno degli esempi di mutamento semantico citati nel
paragrafo precedente abbiamo per necessità sconfinato in un campo ih
cui dobbiamo ora entrare di proposito: quello del latinismo. In un
tempo in cui ancora quasi tutto ciò che è scritto suol essere scritto in
latino, in cui quasi ogni manifestazione di cultura si svolge in quella
lingua, la simbiosi è tale che è impossibile tener separati come fossero
due fiumi diversi quelli che sono due filoni, due correnti con scambi
continui.
E naturalmente, quando parliamo di latino non dobbiamo pensare
tanto a Cicerone o a Virgilio quanto al latino come si usava allora (cfr.
§ 4): lingua stabile eppure duttile, adatta all’uso ecclesiastico come a
quello del diritto, della filosofia, delle scienze, nel cui lessico figuravano
con egual diritto parole classiche, parole del Vangelo e parole del
Digesto, vocaboli coniati dai padri della Chiesa e dagli scolastici, da
medici e da giuristi; e quando occorreva non si aveva scrupolo di
introdurre parole volgari o forestiere 117 .
Questa latinità c’interessa anche perché qualche nuovo vocabolo
ovvero qualche nuova accezione, esprimenti particolari aspetti della
“ s Spitzer, Essays in historical Semantics, New York 1948, pp. 15-05.
119 Cfr. Castellani, Testi sangimign., Gloss.
117 «Nani cum ars habeat sua vocabula propria quemadmodum et cetere
artium, et nos non invenìremus in gramatica Latinorum verba convenientia in
omnibus, apposuimus illa que magis videbantur esse propinqua per que intelligi
possit intentio nostra», dice il proemio al De arte venandi cum avibus di Federico
II, che infatti presenta alcuni francesismi.
Il Duecento
155
vita spirituale di questi secoli, possono esser nati proprio in questa
veste latina prima d’essere accolti nel volgare. Si pensi alla terminolo-
gia universitaria, che sorge insieme col più antico centro di vita
lt -t Ua ? a ’ . queUo ^ Bologna: voci come universitas che
^ * corporazione . ente associativo» svolge quello
rertor^nlfnr 0 ^^ stud8ntl> - qumdi Quello di «università» 116 ; facultas
rector, doctor, lectura, artista «studente della facoltà delle arti» legista
«studente della facoltà delle leggi», canonista, decretista, ecc ’
per stìdSe rfSif? S6 ? ta qU6 ^ tÌ Secoli ha grande ^Portanza
per studiare una delle fonti principali a cui il volgare ricorre per
?2S«rÌ are U ^ r ° pn ° le . ssico ’ man mano che si cominciano a trattare in
volgare cose di cui prima si trattava soltanto in latino.
Ecco terminologie come quella filosofica, ricca di vocaboli patristici
ti^alTZ^Z^r maneries ' obiectum ’ subiectum -, actualis, condi-
reallS ’ sensualls ’ totalis, virtualis, causativa, specu-
lativus sensitivus, ecc, come quella giuridica: curatela, legalità mole-
extremitt^^t seq “ estrare ’ ecc > Quella medica: coniunctiva, cerumen,
extremitas, fontanella, pia mater, ecc, quella alchimica: aqua vitae
cohobare, cupa rosa, mercurius, vitriolum, ecc, a tutte queste e a
volgare reV01 a tr6 ’ attinge e attingerà anche nei secoli seguenti il
maììir^+ÌT 611 * 6 5 Jf tinismi afflui to in questi secoli nell’italiano
spirito * è soprattutto co Pioso per ciò che concerne le cose dello
Abbiamo già visto (cap. Il) come parole quali Cristo, spirito nrofeta
s&stic^klTuS n’ di ? V ° to d8bbono ess ere passate dalla latinità e4le-
secondo nr m ?° r °, P1Utt0 , st ° sempre riconguagliate e ricorrette
antichissima.^ 017116 h U P ° POl ° sentiva “ chiesa, fin da un’età
- tar ?° ^edioevo parole come edificare (adificare in
misttó wn T™T C ° rd i a ’ dlvmitdde («teologia», Brunetto Latini). Dai
chilare g Parole come absorto, ratto «rapimento mistico», anni-
za filosofici: scienza, coscienza, sapien-
Ittuale fn™ ? ccidente ’ causa, genere, specie, razionale, reale,
nTequiv^Z ecc ’ COrp ° mle ’ nat “rale, eterno, eternale, sempiter-
^ latino . gran parte dei termini che si riferiscono alla
SbertanS d dod? r °^ COPltoto ; POgÌna ’ tUol °’ mbrica ’ Pertrattare (ve rs. di
Albertano), dottore, grammatica, rettorica, ecc. E così i termini giuridici-
SSio n?' Più importanti s ST,ScS
Sodato a n c ° ncret ° : ^ uffici di console e di senatore
(rinnovato a Roma), quello di assessore, ecc. Il titolo di magnates appare
1948,'pS f 8 a 49 aterra ' Alma Mater Studiorum: l'Università di Bologna. Bologna
156
Storia della lingua italiana
qua e là in scrittori medievali che l’attingono alla Vulgata, ma a
Firenze negli ultimi decenni del Duecento diviene un termine preciso
(esprimente il punto di vista del popolo grasso); nella riforma del 1281
dello Statuto del podestà c’è ima rubrica «De securitatibus praestandis
a Magnatis civibus». E possiamo esser certi che contemporaneamente
la parola si sarà adoperata anche in volgare.
Parecchie scienze (e pseudoscienze) danno ampi contingenti di
termini: l’aritmetica (arismetica, arìsmetrica-. p. es. numero, multiplicare,
ecc.); la geometria {sfera, piramide, ecc.); la musica {melodia, sinfonia,
ecc.); l’astronomia (ecco p. es. qualche termine usato da Ristoro
d’ Arezzo: clima, declinazione, deferente, eccentrico, epiciclo, exaltatione,
retrogrado, stationario, zodiaco ).
Per varie vie entrano nel lessico del volgare innumerevoli termini
generici: cibo, consolazione, desiderio, fastidio, gaudio, timore ; singula-
re, vago, verace; esordire, vivificare, ecc.
Non vorremmo tuttavia che questi esempi, dati in luogo di un
elenco che risulterebbe troppo lungo, potessero dar l’idea di una
penetrazione illimitata e senza resistenza. Anzitutto, dove già sono in
uso parole saldamente popolari, i latinismi stentano ad entrare. Una
parola come facile non esiste ancora nel Duecento (o, se dovesse saltar
fuori un testo che la documentasse, potremmo comunque dire che è
inconsueta): per esprimere quel concetto si adopera solo agevole. Si
veda la storia della penetrazione nel volgare della parola esercito quale
l’ha tracciata con ricca documentazione il Maggini 119 : nel Duecento è
pressoché costante l’uso di oste, e solo il Giamboni nel tradurre Vegezio
è costretto a usare esercito (anzi exercitoì per mantenere una spiegazio-
ne etimologica: «L’oste che di pedoni e cavalieri è mescolata per lettera
(cioè «in latino») si chiama exercito, cioè a dire operamento...»; e solo
negli ultimi anni del secolo si trovano esempi di exercito col significato
di «moltitudine».
Qualche volta si riconosce nel vocabolo una fonte precisa, il passo
di uno scrittore: l’eco del virgiliano «Purpureus veluti cum flos succisus
aratro» (Eneide , IX, v. 435) si trova già in Bonagiunta («che ’l core da lo
petto - pare che mi sia diviso - com’albore succiso », nella canz.
«Novellamente amore»), poi nelle Rime di Dante («come succisa rosa»,
in «Tre donne», v. 21), e per questa via nella tradizione letteraria 120 .
Sintomo di faticosa penetrazione sono le alterazioni che le parole
latine subiscono, presentandosi così in forma semidotta: alimenti
«elementi», dificio «edifìcio», storlomia «astronomia», ecc.
I raccostamenti paretimologici sono qualche volta mal riusciti
tentativi dottrinali (« eretici sono coloro che errano dalla veritade»:
Bono Giamboni) rimasti senza alcuna conseguenza, ma altre volte
110 Lingua nostra. III, 1941, pp. 76-79.
120 Bocci, Fiammetta-, Poliz., Orfeo ; Boiardo, Amorum, CLI e Orlando inn.. Ili,
vii, 18: «poi che soccisa fu la bella pianta» Ima il Bemi correggeva soccisa in
tagliata).
Il Duecento
157
influiscono sulla forma e sulla fortuna del vocabolo: rettorica è scritto
«rettori Ct ) 6d è volgarmente interpretato come l’arte che serve ai
Che n 1 latini f mi ass nmono in italiano è, naturalmente,
h ie smgoìe parole avevano nella latinità medievale: una
parola come (lìstoriare, specie nella locuzione fissa dipinto e storiato
loShS? 6 c ° nforme al significato che historiare aveva nella
latinità dei tardo medioevo, cioè «rappresentare con immagini» 122
Piu difficilmente ravvisabili sono i calchi sul latino: p. es. dirozzare
digrossare sono probabilmente calchi su erudire.
™i^ 1 Q J ÌSU u at ° co ™P lessivo è un cospicuo allargamento del lessico
volgare, che costituisce un’acquisizione stabile. Ma non ci si è giunti
senza tentennamenti, e certo non tanto per una pigra acquiescenza
alla constatata «penuria dei vocaboli volgari», o per il desiderio
d incastonare alcune parole antiche nel dettato volgare nobilitandolo
quanto per uno sforzo di attività creativa, la quale nel latino trovava
un modello e un incentivo.
Q u eSt u quad 5° complessivo vanno valutati i latinismi singoli, sia
quelli che hanno fatto qualche fugace apparizione e poi non hanno
attecchito Gu vedano p. es. quelli che abbiamo citati per Iacopone nel §
^ qaelh ch e sono stabilmente penetrati nel lessico letterario, sia
quelli che accolti per via letteraria o per via pratica, sono stati
nrsr 1 largamente nell ’uso da essere adoperati quotidianamen-
Non è possibile separare dalla storia dei latinismi, come tante volte
si è visto, quella dei grecismi, classici ed ecclesiastici. Non potevano
certo contribuire a migliorare la conoscenza del greco opere come il
Grecismus di Eberardo di Béthune (1124), con nozioni del tipo di queste:
Est universale cata fìtque catholicus inde
Et caia sit fluxus, inde catarrus erit.
Est quoque mors feron. feralis dicitur inde'
Est flegmos sanguis, indeque flebotomus.
Quod moys unda sit, hoc Moyses et musica monstrant,
*4. Ug^ccione e di Giovanni da Genova, che attingevano
essenzialmente al Grecismus.
Tuttavia, è proprio alle norme dei grammatici che ci dobbiamo
ilare per spiegarci 1 accento duecentesco e spesso anche posteriore di
'l' Brunetto Latini scrive rector, ma dà la definizione corretta, quella che
^ rhetor: « Rector è quelli che ’nsegna questa scienza secondo il
reg °t, ® comandamenti dell’arte» (Rettorica , ed. Maggini, I, 5 ).
195-208 oynbee ' no te on storia, storiato », in Mélonges Picot, Parigi 1913, pp.
158
Storia della lingua italiana
parecchi nomi propri e di alcuni nomi comuni: Semelè, Calliopè, Iliòn,
aloè, ecc.' 23 .
Bisogna tener conto dei contatti politici, commerciali, culturali coi
Bizantini. Il titolo di cnpaxr\yói; si mantiene anche nei territori bizantini
passati in potere dei Normanni, prendendo il significato di «giudice
criminale»; Federico II ancora mantiene la carica e il titolo a Messina e
a Salerno 124 .
Testi greci si leggevano alla corte di Federico e anche nella scuola
medica di Salerno: di qui probabilmente, l’accettazione di ana nelle *
prescrizioni mediche, sopravvissuta fino ad oggi 125 .
Venezia, rimasta sempre più o meno strettamente in contatto con
Costantinopoli, attinge ai Bizantini nomi come liagò «terrazzo» da
T[XiaxÓ 5 o come dromo, squero. Essa inizia nel secolo XII la descrizione
dei beni «riga per riga», xa-cà oxixov, da cui catasticum e poi catasto.
Di altre parole è assai difficile dire come siano penetrate in Italia e
Europa: Vandanico «acciaio», lat. med. andanicum, è il biz. tvSavixòs
aiSrjpo? «ferro indiano», importato dall’India attraverso la Persia 128 .
19 . Gallicismi
Per elencare i principali gallicismi penetrati in Italia dal 1000 al 1300
le difficoltà non mancano. Anzitutto, come già s’è accennato (p. 80), in
parecchi casi non si hanno gli elementi per decidere se siano penetrati
in età carolingia o postcarolingia. Poi è spesso difficile rendersi conto
della via per cui mia data parola può esser penetrata in Italia, tanto
sono stati molteplici i contatti: può essere stata portata dai Normanni,
imparata in Levante dalla bocca dei Crociati francesi, trasmessa da
pellegrini o da mercanti, può esser giunta per tramite letterario. ecc. In
questi secoli, alcuni degli aspetti fondamentali della vita e della cultura
europea si regolano secondo il modello francese: in prima linea le
istituzioni feudali e la vita cavalleresca. Il fatto stesso che la letteratu-
ra d’oil e quella d’oc abbiano avuto dei capolavori prima delle altre
letterature romanze, ha dato loro mia posizione di privilegio e una
funzione di modello.
La penetrazione dei francesismi fino agli strati più popolari è
dovuta nell’Italia meridionale ed in Sicilia al contatto con i dominatori
normanni; ma anche nel resto d’Italia le relazioni sono così varie e
123 V. le belle pagine del Parodi, in Bull. Soc. Dant., Ili, 1896, pp. 105-107 {»
Lingua e lett., pp. 232-235; cfr. anche 361-303). La regola che prescriveva di
accentare sull’ultima tutti i nomi «barbari», principalmente quelli ebraici Uacob,
Esau, Satanas ) si era estesa, principalmente per influenza della tradizione
scolastica francese, anche ai nomi greci i quali non rientravano nella normale
declinazione latina.
124 Rezasco, s. v. stradicó e varianti l straticò, ecc.).
125 Folena, Lingua nostra. III, 1941, pp. 81-83.
126 Austin e Kahane, in Byzantina Metabyzantina, I, 1946, pp. 181-187.
Il Duecento
159
copiose che molti dei francesismi penetrati in questo periodo sono vivi
ancor oggi, anche nell’uso dialettale 127 .
Alcuni dei termini fondamentali del feudalismo ( vassallo, ecc.) erano
giunti già nei secoli precedenti. Citiamo alcuni titoli: conestabile (il lat
rn^rifn^ 11 ^ T a carica nel Basso Impero), siniscalco e
camarlingo (ambedue m forma latinizzata). Assise e demanio entrano
C01 Normanni. Realme è dal fr. ant. reame o reialme (in cui
1 aggettivo retai * regale» si era intruso nel vocabolo risalente a
propriamente alla terminologia feudale an-
cheomqggto (il dichiararsi «uomo», cioè vassallo, del signore feudale) e
Alla vita cavalleresca si riferiscono cavaliere, scudiere «giovane che
aspira al grado di cavaliere», baccelliere «valletto; primo grado univer-
sitario»; latto di addobbare (propr. «far cavaliere») e i titoli di sire sere
messere, dama, madama, damigello -a, donzello -a.
La nobiltà tiene molto al proprio lignaggio (fr. ant. lignage, propr. la
«linea» di discendenza).
Ricca di francesismi è tutta la terminologia del cavallo.- il destriere il
corsiere, il palafreno (prov. palafrè), probabilmente il ronzino, e così
anche il somiero.
Tra i numerosi termini di guerra troviamo oste, schiera (prov
esquiera), foraggio, foriere («chi andava innanzi alle truppe per procura-
li®. 7*? e foraggio»), berroviere «soldato a piedi», mislea (fr. antico
mesleeì, ostaggio, ecc. Ecco anche nomi d’armi: arnese («armatura» poi
ust3e ^° ° usbergo, maglia, camaglio, cervelliera, targia. ecc.
Gonfalone (fr. ant. gonfanon, dal franco gund-fano «vessillo di guerra»)
e probabilmente bandiera provengono pure da contatti con la Francia
e cosi stendardo parola diffusasi dopo la prima Crociata. Con numero^
H^T7£^ a / ac ? ostan ì? nti Paretimologici si presenta in Italia
fi termine di battifredo «torre di vedetta», «torre mobile d’assedio» (fr
ant. berfrei, ecc.).
casa e agli arredi domestici si riferiscono loggia, ciambra o
zambra, sala nel senso di «grande stanza» 128 , cuscino e origliere
doppiere, guastada, ecc.
Per le vesti e gli adornamenti ricordiamo cotta «veste femminile ed
c ° rsettot-covrìcefo o covercefo (Fiore; Gloss.
Hi ™ ^ CasteU ): guardacuore, ecc.-, gioiello, fermaglio, ecc. Con le
voci di moda sono entrati anche alcuni nomi di colori: giallo (fr. ant.
jalne, lat. galbinus), vermiglio, bioio ecc.
127 Molto utile, anche se non esauriente, è il saggio di R R Bezzola Ahhm
Heidelbfirv^fiP^P 8 °^ icismi ita Hani Primi secoli (750-1300), Zurigo 1924 <~
l? 25 Per numero dei termini che citeremo qui sotto, nel Bezzola
si possonb trovare ulteriori notizie.
125 Invece sala nel senso di «abitazione rustica» era già voce longobarda.
160 Storia della lingua italiana
Mangiare entra assai presto in Italia 129 e per qualche secolo lotta
contro l’equivalente indigeno manducare, manica - V anche il
antico è desinare -. ma desinèa è già nel Novellino. Ricordiamo anche il
bU fl nome ^de^giardini e dei verzieri si diffonde presto in Italia 130 .
I cavalieri provano la loro forza e la loro abilita neHa
giostra nel bigordo ; e si può ritenere accaduto m tali occasioni il
passaggio dal fri ant. manche «manica» all’ital. mancia (attraverso il
significato di «dono d’una manica fatto da una dama»).
Altro passatempo cavalleresco è la caccia co jJklc°ne, che ha
occasione di ricevere i nomi di sparviere, astore, artiglio (dal P£0 -
«dito del piede», accolto in italiano come termine di falconeria),
zimbello, ecc. Anche la caccia coi cani ha dato occasione di accoghere
qualche termine francese o provenzale: veltro, ' £vner ?’® c< f'. -,
Musica e poesia fanno giungere in Italia parecchie voci: canbo,
liuto, ribeba o ribeca, viola, cennamella, ecc., il nome di tovatorej (con d
significato provenzale di trovare «poetare»), giullare, mimstnere (che
Romantici chiameranno piuttosto menestrello).
Alcuni vocaboli si riferiscono a viaggi e pellegrinaggi: viaggio,
passaggio, bolgia «bisaccia», probabilmente oste «chi dà alloggio e
vitto» (fr. ant. oste, lat. hospiteImI), ostello {osterò, stero, fr. ant. ostel),ecc.
Specificamente religiosi sono i termini di palmiere, cordigiiere,
Certtrìosa, ecc. La penetrazione di grangia igrancia) in Italia è avvenuta
specialmente per opera di monaci cisterciensi 131 . Anche tovaglia è, nelle
sue prime apparizioni, limitata all’uso liturgico.^ .
Numerosi sono i termini la cui accettazione è dovuta agli scambi
commerciali: derrata, detta «debito», civanza, gaggio « pegno »impro^
tare, ecc.; dozzina-, alla (nome di misura); tomese, provmno mergugliese
(nomi di monete), ecc. Si hanno anche molti nomi di stoffe: celone,
mosteruolo, rensa, razzese, sargia, ecc. , . , , ,, Q
E non mancano esempi di antichi francesismi nel campo della
medicina {sognare, segnare «sanguinare» e «salassare», ^«ra
so»-. Gloss. Testi Schiaffimi) o delle arti e mestieri ( ingegnere -, capelli
«trucioli» nel Novellino). . . ,
Molto importante è il filone letterario. Alcuni termini penetrano
attraverso l’epica {paladino, prence), altri attraverso 1 romanzi cavalle-
reschi ( avventura ). Molto più numerosi e penetrati m profondità sono
quelli che i poeti siciliani hanno mutuato ai provenzali, e sono Perloro
mezzo passati ai siculo-toscani e poi almeno in parte agli stilnovist
. „ in un documento del U40 (Trincherà,
neU. parole di Matfredo a Travata
wS“°”S<S <> L 1 !S earta semivoteare di Hoeeaao, righe 13 e 21
“^fe^ln-Doetom.. Ili, 1321, pp. 317-343.
Il Duecento
161
alla tradizione lirica ulteriore. Ci basti rinviare all’ampio elenco che ne
abbiamo già dato (§ 7) 132 .
Talvolta si tratta di voci già esistenti in italiano, che per influsso
provenzale o francese hanno preso un significato speciale 133 .
Non sappiamo se siano giunti per la strada della poesia o per
diverso cammino altri termini spirituali, astratti: onta, damaggio
«danno», oltracotanza, mestiere, pensiero, preghiera, foggia, sorta, dibo-
naiiìre, medestiìmo, cominciare, corteare, donneare, ecc.
E alla convergenza di varie spinte si deve la penetrazione di suffissi
diventati produttivi anche in Italia: -aggio, -ardo, -iere. L’incremento che
avevano avuto i suffissi già indigeni -enza, -anza, -ore, -ura si può invece
ritenere pressoché esaurito col venir meno dell’influenza provenzale.
Francesismi e provenzalismi sono spesso riconoscibili in confronto
con le voci indigene per indizi fonetici o morfologici: così cavaliere si
oppone a cavallaio o a cavallaro, somiere a somaio, ostaggio a statico,
stadico, ecc.-
Meno facile è talora distinguere il filone francese da quello proven-
zale.- in certi casi, oltre agli indizi formali giova tener conto dell’area in
cui li troviamo anticamente attestati. Si hanno alcuni casi di doppia
penetrazione: damigello (fr.) - donzello (prov.), saggio (fr.) - savio
(prov.) 131 , ecc. Bisogna anche tener conto della possibilità che si tratti di
vocaboli giunti dalla Francia in veste latina-, così dev’essere avvenuto
per marescalco e siniscalco, faldistoro, e altri ancora.
Abbiamo ricordato tra gli altri anche qualche vocabolo ora caduto
in disuso. Ne avremmo potuto citare un numero di gran lunga
maggiore: sia parole più volte attestate, come maccherella «mezzana»,
agenzare «piacere», {in)naverare «ferire» (anche fig.), perzare «forare»,
ecc., sia voci che troviamo in singoli autori 135 o in singole circostanze 138 .
Nei secoli successivi, come sempre accade dopo un’invasione di
vocaboli così massiccia, molti sono scomparsi. Ma non si dimentichi
che p. es. visaggio si trova usato non solo nel Fiore, ma in Dante e poi
nel Pulci, e poi ancora nel Davanzati.
132 A p. 132 abbiamo anche ricordato che qualche provenzalismo ignoto, per
quel che sappiamo, ai Siciliani, è stato accolto dai Siculo-toscani. Su leggiadro,
cfr. p. 134.
133 Si pensi al significato che può avere uomo («vassallo»), intendere («convien
ch’intenda in donna di valore»: Guittone), ira, ecc.
131 Cfr. Baer, Sprachl. Einwirkung, cit., pp. 62-68.
133 È anche accaduto che qualcuna sia rimasta inosservata, e poi sia stata
identificata: il Contini ha dimostrato (Giom. stor., CXVII, 1941, p. 62) che Guittone
adoperava abbo nel senso del provenzale aip, ap «costume».
138 P. es. curattiere, curattaggio sono comunemente adoperati nel senso di
«sensale» «senseria» dagli Italiani residenti in Provenza e a Bruges (Castellani,
Nuovi testi, Gloss .1. si tratta del provenzale corratier, propr. «corridore», che è
penetrato anticamente anche in altre regioni e che ha dato origine al fr. mod.
courtier.
162
Storia della lingua italiana
20. Voci di orìgine orientale
Le relazioni con il mondo islamico concernono in questo periodo
principalmente gli Arabi, sia per la loro dominazione durata due secoli
e mezzo in Sicilia, sia per la predominanza marittima esercitata per
molti secoli nel Mediterraneo, sia per l’importanza che specialmente in
alcune scienze (astronomia, medicina, ecc.) ebbero gli studiosi arabi. In
qualche caso si tratta di influenza arabo-persiana,- i Turchi quasi non
contano 137 .
È ovvio che importerebbe conoscere per ciascuna parola per qual
via è entrata, diverse essendo le conclusioni che si possono trarre da
una parola entrata nel lessico per la simbiosi siculo-araba e da una
parola appresa in un porto del Mediterraneo. Ma benché le ultime
ricerche 138 siano decisamente rivolte in questo senso, per molti vocaboli
siamo ancora incerti 139 .
Il problema non presenta difficoltà per parole la cui area sia solo
siciliana, come per esempio giuggiolena «sesamo», sciurta «sentinella»
(o siciliana recentemente estesasi dalla Sicilia al resto d’Italia come
zàgara «fior d’arancio»). Ma anche nel caso di parole di area amplissi-
ma, in qualche caso l’origine siciliana è storicamente dimostrabile: così
per ammiraglio che indicò dapprima «capo, comandante», e solo nel
sec. XII in Sicilia e nel XIII altrove si fissò nel significato di «capo delle
forze di mare» 140 , ovvero per soda, che risale all’arabo suwwàd,
adoperato per indicare varie piante litorali del genere Salsola e poi le
ceneri da esse ricavate 141 .
In altri casi la penetrazione è avvenuta altrimenti. La stessa
espressione araba dàr-sinaa («casa del mestiere», poi «luogo di
costruzioni navali») trova accoglimento in Italia sotto forme diverse:
arzanà (poi arsenale ) a Venezia, darsena a Genova, a Pisa tersanaia, ad
Ancona terzenale, a Palermo tarzanà (e anche in spagnolo e catalano
137 Due voci tatare, cane ( khan ) e orda, sono state divulgate dalle notizie che
circolarono intorno all’Orda d’Oro. Orda significava propriamente «accampa-
mento», e così usa la parola Giovanni da Pian del Carpine nel rendiconto della
sua missione (1245-47) dato nell’Hisioria Mongalorum: «post haec pervenimus ad
primam ordam Imperatoris», e passim.
138 Specialmente quelle di A. Steiger, Contribución a la fonètica del hispano-
àrabe y de los arabismos en el ibero-romànico y el siciliano, Madrid 1932; id.,
«Aufmarschstrassen des morgenlàndischen Sprachgutes», in Vox Romanica, X,
1948 49, pp. 1-62.
138 II repertorio più comodo (benché tutt’altro che originale e non sempre
preciso) è quello del Lokotsch. Per le influenze sul siciliano, si vedano i nn. 3689-
3695 della bibliografia di Hall (6525-6533 della 2 a ed.). G. B. Pellegrini ha raccolto
gli arabismi delle carte pisane medievali iRend. Acc. Line., s. 8 a , XI, 1956, pp. 142-
176: cfr. i riscontri veneti adunati da M. Cortelazzo, in Lingua nostra, XVIII, 1957,
pp. 95-97).
140 Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, ed. Nallino, III, pp. 357-60.
141 Steiger e Hess, in Vox Rom., II, 1937, pp. 53 76.
Il Duecento
163
antico daragana, teramana). La prima forma ebbe, come è noto fortuna
itahana ed europea, e così pure, sebbene in minor misura, la seconda
Genova è anche stata il centro di irradiazione di cotone 142
„„ v*.;'r rno dev essersi divulgato taccuino per mezzo del Tacuinum
sanitatis (da taqwim «corretta disposizione»)
1 Rlc .? ] rdiamo rapidamente, senza escludere’ che qualcuna delle voci
p™Tab£S a essere emrata a " che d ° p ° 11 ‘ 3 »o
gabella* tariifcScShf 1 S commorci ° ; magazzino, fondaco, dogana,
gaoeua, tariffa fardello, tara-, zecca, cantàro, ròtolo, tómolo carato
risma ; sensale, dragomanno, ecc. ’ ’
Attraverso gli scambi commerciali, sono giunti lo zucchero p in
zafferano, l’azzurro o lapislazuli, il baiaselo e?c “ 3 ° 6 1o
càssero° C<Wo iTS leccio, scirocco, gomena, sciàbica,
offre un bel1 esempio di un fenomeno frequente tra
gh arabismi: esso ci e stato trasmesso dagli Arabi (con il donnin
significato di «cittadella» e di quello di «castello della nave») ma a toro
volta gli Arabi avevano avuto la parola xàa-cpov dai Bizantini e questi
coi ^ TOm) ‘ ES i S ° SerVe inoltre a esemplificare, attraverso il
arabS^ù nrpfp 1 ^ spagnol ° a /càzar, un altro fenomeno: in Spagna gli
arabismi presentono spesso (non sempre) forme in cui appare congiuri
CÌt±°'-,i Clr , ' , ‘' tì0Al/ spa3n “Icacnof^coZI/ 3*
si anChe l ucchem/ spasn. azdcarì, cosicché
ermare che quando un arabismo italiano comincia con al- è
con ogni probabilità passato attraverso la Spagna 144
S mcontra spesso nei termini di matematica, algebra
algoritmo ecc.; e si sa che attraverso la Spagna musulmana sono’
fndLni^S^Tifrìf Clfre arabiche - che £li Arabi avevano ricevute dagli
indiani. Cifra, zifra era propriamente lo «zero», cioè la novità essenzia-
le del nuovo sistema di numerazione («staratole per zifra a la rns l
ne» cioè non contando nulla: Iacopone, 43 v 921 ^
àst™ astron ? mia {zenit ' nadir < auge «apogeo» di un
ivo’ k ’ Y ega ’ ecc) sono giunti attraverso le traduzioni
HbreSa pe 1 ? fi fatto nhp f Ispagna: la forma * zenit si manifesta come
Battisti <3 Furlani, in It. diai. III, 1927, pp. 234-246
persia,S; S S 1S oùon e a e a ^ 2 o arere &SSaÌ Pr ° babÌU ’ S ° n ° gU etimi arabi f ° arabo,
olftó»o N “cSZtilo S. 0 S,ve£ r eX 1Zl,>,,<! taVerSaì le par * se “ a <* ci
145 Nallino. in Riv. studi orient.. Vili, 1919 , p . 376 .
164
Storia della lingua italiana
mano»), sciroppo, ribes, eco. Spesso si passa attraverso una forma
latinizzata.
Anche la terminologia araba dell’alchimia ha lasciato parecchie
tracce ( alambicco , alcali, borace, risagallo , ecc.).
Si osservi, in aggiunta agli esempi di queste ultime serie, che
parecchi calchi da voci arabe passano al volgare attraverso il latino
scientifico. Così imprimere iinì è il termine che indica l’influenza
esercitata dai corpi celesti sui mondi sublimali («E se ’l cielo colla sua
virtude ha ad operare ed imprimere nella terra»; Ristoro, VI, c. 3, p. 79
Narducci; «colui che ’mpresso fue - nascendo, si da questa stella forte»;
Dante, Par., XVII, w. 76-77) 14 ®. Nell’anatomia pomo d’Adamo, pia
madre, ecc. sono calchi arabi.
L’abilità degli Arabi come coltivatori e irrigatori del suolo fece sì
che molte piante utili penetrassero per mezzo loro in Europa; le arance
e i limona ie albicocche, i carciofi, gli spinaci, le melanzane, lo zibibbo.
Alcuni nomi di strumenti musicali risalgono pure all’arabo per
tramite provenzale-, leuto o liuto, ribeba o ribeca.
Arabi sono anche il gioco della zara e quello degli scacchi, con
alcuni dei termini relativi {scaccomatto, rocco, alfino, poi mutato in
alfiere ).
Alcuni vocaboli si riferiscono a istituzioni del mondo islamico:
soldano (più tardi sultano ), califfo. Anche il nome degli Assassini, prima
di diventare un nome comune, era adoperato con preciso riferimento
alla setta dei fanatici ismaeliti radunati intorno al Vecchio della
Montagna, e piuttosto alludendo alla fedeltà al loro capo che alla loro
micidialità.
21. Altri filoni del lessico
Minore di quel che ci si attenderebbe, data la frequenza dei rapporti
con la Germania, è la penetrazione dei tedeschismi. Si ha qualche
termine politico (come quelli dei Guelfi e dei Ghibellini, applicati a
Firenze alle condizioni italiane; cfr. p. 113), qualche termine di guerra
(saccomanno e, a giudicare dal nome proprio che ne è stato tratto,
riccomannoì; tedeschi sono parecchi dei termini minerari importati da
operai dell’Erzgebirge sassone e boemo nelle miniere che col loro aiuto
si cominciarono a coltivare (guercus «operaio», coffarum «rame greg-
gio», ecc.) 147 .
I commerci con l’Inghilterra fanno conoscere lo stanforte e gli
steriini.
148 Nallino, in Riv. st. or.. Vili, 1919, p. 38L
147 V. i capitoli minerari nello statuto di Massa Marittima, il cui nucleo
principale è anteriore al 1294, e nel testo che possediamo non è posteriore al 1325
(Ordinamento super arte fossarum rameriae et argenteriae Civitatis Massae,
Firenze 1938, con il glossario di M. Casella, pp. 101-104).
Il Duecento
165
r«J^ nt °i agli scambi .esercitatisi in questi secoli fra regione e
gione, alcune correnti s’intravedono abbastanza distintamenfp-
da^Genova ^^5£ r J v ^ ,enti . dal Nord: «*“«**» carena, molo, scoglio
d’amù lombardi nn da Venezia; spada Probabilmente dalle fabbriche
danni lombarde; cavezza «scampolo» da chissà quale città settentrio-
SÌcUiana e a quella bolognese sulla poesìa toscana
scarsìTnef notPrT nat °' Tuttavia > la documentazione è ancora troppo
carsa per poter tracciare con sicurezza un quadro complessivo .
CAPITOLO V
DANTE
l. Dante « padre della lingua »
È vera, e in che senso, l’espressione vulgata che chiama Dante
«padre della lingua italiana» o l’altra, un po’ meno forte, ma non meno
onorevole, per cui il Petrarca lo chiamò G Sen., V, 2) dux nostri eloquii
vulgaris ?
Se è vero che da Giacomo da Lentini prende le mosse la lirica
fridericiana, perché questi titoli non dovrebbero spettare, invece, a lui?
E se troviamo nel Duecento a Firenze e anche a Bologna testi scritti in
una prosa volgare con caratteri grammaticali e lessicali non molto
dissimili da quelli della prosa di Dante, come possiamo parlare di
«padre della lingua»?
Ma, ove si intenda «lingua» nel senso di «lingua capace di tutti gli
usi letterari e civili», è indiscutibile che a Dante spettano i meriti di un
demiurgo. Prima di lui alla preponderanza schiacciante del latino, e
all’uso occasionale delle due lingue di Francia, letterariamente insigni,
non si contrapponevano che dialetti in via di dirozzamento, e tentativi
sporadici di assurgere all’arte e alla bellezza. Tutta l’opera di Dante ha
una «càrica» spirituale nuova e potente, che in breve tempo opera un
rivolgimento nell’opinione pubblica in Toscana e fuori, e fa d’un balzo
assurgere l’italiano al livello di grande lingua, capace di alta poesia e
di speculazioni filosofiche.
Il pensiero di Dante è ancora per tutti i suoi elementi intimamente
legato al pensiero medievale, ma egli è il primo laico che nell’Europa
cristiana assurge a dominare tutta la cultura xlel tempo. L’entusiasmo
per la divulgazione che già animava il suo maestro Brunetto e una
piccola schiera di volgarizzatori dal latino diventa in lui un program-
ma consapevole: egli sa che clerus vulgaria temnit (per servirci delle
parole di Giovanni del Virgilio), sa che ci sono troppi letterati che
hanno fatto delle lettere una professione, anzi un mercimonio, e d’altra
parte tanti altri che «per malvagia disusanza del mondo hanno
lasciata la letteratura a coloro che l’hanno fatta di donna meretrice; e
questi nobili sono principi, baroni, cavalieri e molt’altra nobile gente,
non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa
lingua, volgari e non litterati» (cioè capaci di servirsi del volgare ma
non del latino) (Conv., I, ix, 5). Ora, Dante mira a «inducere a scienza e
168
Stona della lingua italiana
virtù», a innalzare a vera nobiltà queste persone per mezzo del
volgare: creare cioè schiere di laici colti e valenti. La fede di Dante
nell’arte e la sua fede nel nuovo strumento di essa animano insieme le
sue opere letterarie e i suoi scritti teorici.
Per una felice contraddizione, Dante non pensa a risolvere il
problema linguistico in modo conforme a quelli che sarebbero gli
interessi della monarchia universale, ma a quelli dell’Italia: l’esilio
gliela ha fatta conoscere quasi tutta, e attraverso le molte diversità
delle parlate egli ha ravvisato una sostanziale conformità, che gli
permette d’immaginaria unita da una sola lingua. Suo uditorio ideale è
dunque l’Italia, in tutte le parti «a le quali questa lingua si stende»
(Conv., I, m, 4), nei suoi confini naturali, dal Varo e dal Quamaro fino a
Pachino.
Si pensi alle miserevoli condizioni politiche dell’Italia nei primi anni
del Trecento: il Papato, dopo l’oltraggio di Anagni (1303) e il conclave di
Perugia (1305), trasmigrato oltre le Alpi; lTmpero vacante; i comuni
straziati dalle, lotte e i signorotti che cominciano a farsi tiranni; la
Sicilia che con la pace di Caltabellotta (1302) aveva avuto il suo reuccio
e si rinchiudeva in sé. Non certo questo stato di cose autorizzava a
sperare: ma Dante credeva, e credendo operò il miracolo. L’Italia non
era, in quanto essa non aveva coscienza della sua sostanziale unità
culturale, che le avrebbe permesso di accogliere una comune lingua
letteraria e civile, più adatta che il latino ad accomunare tutti gli
Italiani. Dante sentì e le rivelò questa coscienza: così l’Italia fu.
Non bastarono a ciò i due trattati incompleti in cui Dante parla del
volgare, né sarebbero bastate cento opere dottrinali: valse invece la
Commedia, il capolavoro in cui gli Italiani riconobbero la loro propria
lingua riplasmata e sublimata.
2 . Idee di Dante sul volgare
A più riprese Dante espresse le proprie opinioni sul volgare, con
brevi cenni nella Vita Nuova, distesamente nel De vulgari eloquentia e
nel Convivio, incidentalmente di nuovo nella Divina Commedia. I
dantisti si sono ripetutamente occupati delle dottrine deU’Alighieri
sulla lingua in generale e sul volgare in particolare, soffermandosi
specialmente su quei punti (maggior nobiltà del latino o del volgare,
mutabilità della lingua) in cui nelle varie sue opere le dottrine non
coincidono o non sembrano coincidere.
Qui esporremo brevemente le dottrine del De vulgari eloquentia e
del Convivio : le prime anche per l’importanza che ebbero nelle
discussioni posteriori, le seconde per il caldo entusiasmo che manife-
stano attraverso il saldo schema del ragionamento scolastico.
Il De vulgari eloquentia e il Convivio sono pressappoco contempora-
nei. Probabilmente la stesura dei capitoli che abbiamo del trattatello
latino è del 1303, e ha l’aspetto di un primo getto, non molto rifinito;
Dante
169
quando scriveva il Convivio, cioè, come si crede, negli anni 1303-1307 il
poeta si proponeva eh compiere e di pubblicare l’altra operetta, appena
^°zzata; poi, quando tutto il suo tempo e il suo entusiasmo furono
non 1 compiuti VU1 ° P ° ema ’ 1 due scritti teorici furono lasciati da parte
Se nel Convivio si parla del volgare italiano in generale nel De
el ^9 uent . ia . u problema è in parte più ampio in parte più
astretto. Nei primi sette capitoli del primo libro Dante discute della
favella umana m generale, toccando anche alcune questioni che ora ci
sembrano un po’ futili (parlò prima l’uomo o la donna?) ma che
del tem P°- Nei capitoli VIII-X egli viene a
1ChOTm l Eur ° pa ® Particolarmente d’Italia. Dante divide
™ Europa ia tre .rami, il greco, il germanico-slavo, e il triforme
idioma romanzo che si suddivide in francese, lingua d’oco (cioè
S°ri!ai Za e ’if talail f ’ italiano. Egli ritiene che la tripartizione maggio-
rnT^f^? c Ua C P^ usl ° n « babeUca . mentre le tre varietà dell’idioma
romanzo si sarebbero differenziate spontaneamente più tardi per la
instabilità della favella umana. Quanto al latino, esso sarebbe una
fissazione artificiale dell’idioma triforme, regolata dal comune conili
so di piu genti (e piu simile all’italiano che alle altre due lingue come si
vede dalla conformità fra sic e il nostro sì).
, i E ° po ave F rapidamente confrontato i titoli di merito del francese
^f 1 P J°^f ale e deE Galiano secondo i pregi delle rispettive letteratu-
«h’hnSfi f la trattazione al volgare d’Italia («vulgare latium»), e
^ ^ f n ° a dlV1SÌOne dell’Italia dialettale in quattordici sezioni
rtnn^nir le innumerevoli variazioni secondarie e subsecondarie.
Criunto all undicesimo capitolo, Dante inizia un discorso che pur
legandosi strettamente con la divisione dialettale che precede è del
dlverso - a questo punto (salvo il criterio di confronto tra le
tre lingue neolatine, per cui s’era appellato alle rispettive letterature)
pfria7 ev ^ parlat ° soltanto di lingua ( loquela , eloquium, ydiomaì, aveva
pa ^’ daremmo oggi, da glottologo. Ora egli comincia a trattare dì
Pr ° b ema dL stUe: comincia veramente qui il «trattato
f.^! ar f,® J dir ® 111 volgare » (De vulgari eloquentia ). Egli va cercando per
tato lltalia d voigare pm elegante, e comincia con l’eliminare le
parate peggiori 01 romanesco, il marchigiano e lo spoletino; il milanese
infme fi ^ard S o)° : ^ fnulan0 e Ariano; d casentinese e il frangiano-, e
illii^H ie ^ o 0 f P0 f- a1 ^ siefiiano (cap. XII), Dante ricorda che esso ha avuto
ilrpnl Pce* 1, fi o ntl nell a corte dei re svevi, e che a quei suoi
predecessori fu dato e si continuerà a dare il nome di siciliani, non
Pe ^ OSSer ° tutti - is u° lani ’ ma perché daUa Sicilia prendeva nome il
SSffJUKS ' %ss * NapoU) ha avut ° p °° a
Quanto ai Toscani (cap. XIII), è folle stoltezza quella d’arrogarsi il
170 Stona della lingua italiana
privilegio del volgare illustre: Guittone d’ Arezzo, Bonagiunta da Lucca,
Brunetto e altri hanno scritto versi municipali e non curiali. Singole
frasi (o versi) che Dante cita mostrano particolarità spiccatamente
municipali: da Firenze per esempio: Manichiamo introque, che noi non
facciamo altro 1 Non meno sgradevole è la parlata dei Genovesi, con
tutte le sue z.
A oriente dell’Appennino (cap. XIV), si trovano il troppo femmineo
romagnolo e il troppo ispido veneto. Più gradevole è il bolognese (cap.
XV), temperato a lodevole soavità dalla commistione dei caratteri
Opposti (femminilità e ispidezza): beninteso per ciò che si riferisce al
dialetto; quanto al volgare aulico, lo raggiunsero Guido Guinizzelli e
altri maestri scostandosi dal dialetto e valendosi del loro discernimen-
to («vulgarium discretione repleti»). Troppo prossimi ai confini sono il
trentino e il piemontese perché metta conto esaminarli.
In nessun luogo d’Italia il poeta è riuscito a trovare (cap. XVI)
l’odorosa pantera di cui era andato a caccia (i bestiari medievali
favoleggiavano che gli animali fossero attratti dal grato odore della
pantera, di cui poi rimanevano vittime) - cioè il volgare illustre.
Bisognerà, per identificarlo, cercare la più semplice unità di misura
(nello stesso modo che il bianco è misura dei colori, e che Dio, sostanza
semplicissima, risplende più nell’uomo che nel bruto, più nel bruto che
nella pianta, ecc.). Ora il volgare illustre, cardinale, aulico e curiale, è
quello che è di ogni città italiana e sembra non risieda in alcuna.
Illustre lo chiama Dante (cap. XVII), cioè fulgido perché sublimato
per magistero d’arte, e atto a commuovere col suo potere; cardinale
(cap. XVIII), perché intorno ad esso, come la porta sul suo cardine, si
muovono i dialetti; aulico, perché degno della reggia, se l’Italia avesse
una reggia; curiale, perché degno del supremo tribunale, se anche
questo l’avessimo.
Il volgare che appartiene a tutta l’Italia è questo volgare illustre
(cap. XIX): conosciuto questo, si potranno studiare quelli inferiori; e
Dante si riprometteva di farlo in imo dei libri successivi.
Nei 14 capitoli del II libro, l’autore parla della poesia a cui il volgare
illustre principalmente si addice, cioè la canzone-, nel VII egli spiega
come si debbano cernere («cribrare») i vocaboli magnifici («grandiosa
vocabula») adatti alla canzone: naturalmente solo alcune esclusioni
possono essere fondate su criteri estrinseci, mentre quasi sempre si
tratta di gusto.
Che cosa dovessero contenere i libri seguenti, sappiamo solo da
qualche rinvio: forse nel III si doveva trattare della prosa; al IV Dante
rimandava per il volgare mediocre e quello umile. Nemmeno è certo se
il trattato dovesse terminare con il quarto libro.
1 II Rajna, staccandosi dall’autorità dei manoscritti, proponeva di leggere
facciaNO aTro, con due altre particolarità dell’antico fiorentino plebeo. Ma non è
detto, osserva il Marigo (p. 112 della sua edizione), «che il canto plebeo dovesse
contenere in ogni parola una brutta deformazione».
Dante
171
L incompletezza dell’opera non solo lasciò priva la posterità di
quelle preziose notizie che Dante avrebbe certo date, ma fu la cau-
sa principale dei malintesi a cui il trattatello diede origine nel Cinaue-
cento. M
, ricerca, dantesca, benché prenda le mosse dallo stato linguistico
dell Italia del suo tempo, non è una ricerca di lingua (intesa come
strumento sociale, atto a servire alla generalità degli Italiani), ma
di stile (cioè di una sublimazione artistica della parola). Date le pre-
messe dantesche, così doveva essere: se «lo volgare seguita uso», cioè
non è legato da regole stabili come quelle artificialmente fissate per il
latino, esso non può essere elaborato altro che individualmente con
la mira rivolta a un ideale d’arte simile a quello che hanno avuto i
grandi poeti dell antichità («lo bello stile», dirà Dante nella Comme-
dia). Nulla dipende dalle regole, tutto dal «discernimento»: noi diciamo
(con un termine che, com’è noto, risale ai letterati spagnoli del
Cinquecento) gusto o buon gusto, Dante parla scolasticamente di
discretio.
Il raffinamento, la sublimazione a cui il poeta sottopone i materiali
grezzi che trova intorno a sé consiste soprattutto in un’opera di
ehmmazionempn debbono apparire nella canzone che parole generali,
attinte a_ quel fondo che tutti gli Italiani hanno in comune, e perciò
lontane dalla realtà minuta, che è tanto varia, e aliene da tutto ciò che
è provinciale o municipale.
Sono fuori dell’arte quelli che non sanno staccarsi dalla realtà
quotidiana e attingere questa sfera ideale, di qualunque luogo essi
siano, anche toscani. Dato questo carattere ideale del linguaggio
artistico splendido, non è possibile trovare un «luogo» dove esso
risieda. Sede esso potrebbe trovare soltanto (e qui le speranze politiche
levano il volo sopra la meschina realtà della penisola serva e divisa) se
1 nana avesse di nuovo una residenza sovrana e ima suprema sede di
glUSllZldi.
Dante volge lo sguardo a una schiera di poeti che hanno realizzato
f. uo . '«e™, j linguaggio artistico, dopo i Provenzali che sono stati
ottimi fabbri del volgare materno: i lirici della scuola che si suol
chiamare siciliana; il Guinizzelli, con alcuni Bolognesi; e poi i poeti del
nuovo stile: Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia e lui stesso
Dante.
Giacché ha di mira l’arte di scrivere con eleganza, il raffinamento
stilistico e non la lingua di tutti, Dante sorvola su quelle che potevano
essere nei suoi predecessori le varianti idiomatiche (e del resto egli
conobbe ì poeti siciliani già un po’ toscanizzati dai copisti).
Troppo pochi particolari concreti abbiamo sul modo in cui egli si
raffigurava questo processo di raffinamento: esso certo soprattutto
consisteva in una eliminazione di caratteristiche urtanti per il loro
municipalismo plebeo, non in ima sorta di mescolanza (il concetto di -
«mescolanza» è solo, in un certo modo, implicito nella discretio, e
appena adombrato qua e là, per i vocabula curialiora adoperati dagli
172
Storia della lingua italiana
Apuli, I, xxi, 8, e per la commixtio oppositorum avvenuta nel parlare di
^ Nel Convivio quasi tutto il primo trattato è dedicato a giustificare
ed esaltare il volgare, scelto a preferenza del latino per commentare le
canzoni morali del poeta; ma esso non contiene alcuna affermazione
notevole circa la norma da seguire. „ .
Presentatosi «quasi a tutti li Italici» m vile apparenza, ora Dante
deve dare alla sua opera «alto stile», per conferirle «un poco di
gravezza» (I, iv, 13). Egli ha scelto il volgare, per tre ragioni (I, vi: la
prima è uno scrupolo di tecnica artistica d’opportunità che essendo le
canzoni in volgare anche il relativo commento sia nella stessa lingua);
la seconda è il suo desiderio di «pronta liberalitade» (cioè la mira di
riuscire più largamente benefico facendosi intendere a un maggior
numero di persone); la terza è «lo naturale amore de la propria
loquela». Vero è che il latino è superiore al volgare «e per nobilita e per
virtù e per bellezza» (I, v, 7), per la sua stabilità, per la capacità di
esprimere cose che il volgare non è in grado di far®* per la maggiore
armonia, «però che lo volgare seguita uso e lo latino arte» : ma un
commento latino mal si adatterebbe a canzoni in vogare. Un commen-
to scritto in latino «avrebbe a pochi dato lo suo beneficio, ma lo volgare
servirà veramente a molti» (I, ix, 4). . lo
Il pacato ragionamento si anima quando Dante viene a illustrare la
terza delle ragioni addotte per spiegare la scelta del volgare «lo
naturale amore de la propria loquela» d, x, 5). Egh vuol magnificare il
volgare, proteggerlo dai rischi che il cattivo traduttore di un commento
latino gli potrebbe far correre, difenderlo contro i denigratori (I, x, 7-11).
Per mezzo di esso l’autore potrà manifestare «altissimi e novissimi»
concetti, e così mostrare «la gran bontade del volgare di si»: nella
prosa si vede meglio la «vertù» della lingua che nella poesia, in cui
sono «accidentali adomezze» (I, x, 12). ,
«Li malvagi uomini d’Italia che commendano lo volgare altrui e lo
proprio dispregiano», cioè quelli che hanno preferito e preferiscono
(specialmente nell’Italia settentrionale, come sappiamo) il provenzale o
il francese, meritano «perpetuale infamia e depressione» Q, xi) per
mossi da ignoranza o da malizia (in quanto attribuiscono a incapacità
del volgare quella che è incapacità loro) o da vanagloria (per farsi
ammirare scrivendo in lingua altrui) o da invidia o da pusillanimità:
varie scuse per aver «a vile questo prezioso volgare» u, », 21).
«perfettissimo amore» alla propria loquela a, xii, 2) è nato m Dante
dalla sua prossimità a lui, in quanto «uno e solo è prima ne la mente
che alcun altro» a, xn, 5) e dalla bontà propria di esso Dal volgare
Dante ha ricevuto «dono di grandissimi benefici» (I, xni, 2), perche esso
2 Su queste asserzioni, in confronto con altre del De vulgati eloquentiasi
vedano ftSna, in Mise. Hortis, Trieste 1910, p. 128; Busnelli e VandeUi, neUa loro ed.
del Convivio, pp. 87-89; B. Nardi, Dante e ta cultura medievale, 2<* ed., Ban 1949, pp.
230-233.
Dante
173
congiunse i suoi genitori, perché lo introdusse nella via della scienza,
«in quanto con esso io entrai ne lo latino e con esso mi fu mostrato: lo
quale latino poi mi fu via a più innanzi andare» a, xm, 5). Per il volgare
sarebbe giovevole alla sua conservazione «acconciare sé a più stabili-
tade» (I, xm, 6) 2 3 * , e ciò potrebbe ottenere diventando lingua poetica.
Questo Dante ha fatto legandosi con esso di lunga consuetudine.
Giustificata così la bontà del volgare e la sua attitudine a un
commento in prosa, proclamato il suo affetto ad esso, Dante chiude il
primo libro del Convivio con le famose parole di tono profeti-
co: «Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove
l’usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in
oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce» Q, xm, 12). Anche
quelli che non conoscono il latino potranno finalmente accostarsi a
opere di alto pensiero. E, grazie anche all’opera di Dante, la profezia si
avverò'.
3 . La lingua di Dante dalle liriche giovanili alla Divina Comme-
dia
Non è mai senza rischio confrontare le dottrine che uno scrittore
professa sulla lingua e lo stile con le sue opere d’arte. Per Dante, i
fraintendimenti sono stati specialmente gravi nei secoli passati, quan-
do si è preteso di trovare applicate nella Commedia quelle teorie che
egh riferiva esclusivamente allo stile sublime.
Da questa classificazione in «generi» non ci è lecito prescindere;
tanto più se teniamo conto che le esperienze artistiche di Dante
volutamente spaziano per un’amplissima gamma. «Ecco in Dante
convenire l’epistolografia di tipo apocalittico, il trattato di tipo scolasti-
co, la prosa volgare narrativa, la didascalica, la lirica tragica e la
umile, la co media» 5 .
Anche prescindendo, come in questa sede dobbiamo, dagli scritti
latini, Dante atteggia la propria lingua nelle varie opere, anzi nelle
varie parti delle opere, a stili diversissimi.
Nelle liriche, passa dai primi esperimenti ancora legati ai provenza-
leggianti siculo-toscani, a quel nuovo timbro suo e di pochi amici, che
3 Un passo del De vulgati eloquentia (I, ix, 9) ci fa vedere come Dante
considerasse la stabilità della lingua quale attributo indispensabile della sua
funzione sociale: «sub invariabili sermone civicare» («partecipare d’una comune
cittadinanza per mezzo d’una lingua invariabile»). Che tuttavia egli mirasse a
dare al volgare una fissità analoga a quella del latino, non par probabile (Parodi,
Bull. Soc. Dant., Ili, p. 94 - Lingua e lett., p. 220).
4 Anche nella Divina Commedia si possono spigolare alcune affermazioni di
Dante sulla favella umana e sul volgare italiano: si troveranno citate nella
«Categoria quinta» delle Concordanze dantesche di G. Falorsi, Firenze 1920.
5 Contini, nel volume miscellaneo della Libera Cattedra sul Trecento, Firenze
1953, p. 98.
174
Storia della lingua italiana
in ottemperanza al giudizio espresso da lui medesimo, chiamiamo
stilnovistico.
Nella Vita Nuova , le prose che, quasi svolgendo il suggerimento
dato dalle «ragioni» provenzali, accompagnano le poesie, risentono
inevitabilmente della moda della prosa ornata, con ripetizioni, figure
etimologiche e altre raffinatezze formali, ma pur riescono, insieme con
la melodia dei canti di lode, a creare un’atmosfera d’incomparabile
levità: e l’efficacia della Vita Nuova come modello stilistico non sarà
inferiore nemmeno alla Divina Commedia. La frequenza di parole
come miracolo e maraviglia e delle espressioni superlative conferisce a
creare questa atmosfera 6 .
Il canzoniere raccoglie numerose e varie esperienze artistiche: le
rime allegoriche per cui Dante potè attribuirsi il titolo di «poeta della
rettitudine», le battute realistiche della tenzone con Forese, le rime
petrose e le sestine in cui il poeta gareggia con il robusto e difficile
Arnaldo Daniello, tentando «novità - che non fu già mai fatta in alcun
tempo»-, poi ancora, negli anni dell’esilio, la breve e vigorosa canzone
«Tre donne» 7 .
La scelta lessicale nell’alta lirica è sempre severa e schifiltosa, né in
essa appaiono quelle parole che il De vulgati eloquentia condanna
come «puerilia» (mamma, babbo) o «silvestria» (c etera o cetra, greggia) o
«urbana lubrica et reburra», come femmina e corpo ( corpo veramente
compare nella canzone della nobiltà, in cui Dante dice di dover lasciare
il suo «soave stile»!: invece egli adopererà senza scrupolo tutte queste
parole nella Commedia. Viceversa, appaiono nelle Rime parole che non
si leggono nella Commedia-, p. es. lagare, prenze, lastrare.
Il poeta riconosce che ha attinto «lo bello stilo» attraverso l’assiduo
studio dei classici e specialmente di Virgilio:
Tu se’ lo mio maestro e i mio autore-,
tu se’ solò colui da cu’ io tolsi
lo bello stilo che m’ha fatto onore.
Unf., I, w. 85-87)
Nel verso, il poeta ha esteso il campo del volgare alla lirica
filosofica, in prosa dà col Convivio il primo cospicuo esempio di opera
dottrinale in volgare. Vi è assimilata l’esperienza della latinità classica
e di quella scolastica in ima sintassi periodica di ampio respiro, e
rivolta non a scopo ornamentale ma ragionativo 8 . Valga un solo
esempio:
8 Ci basti rinviare a Schiaffini, Tradizione, cap. V.
7 Cito due sole opere: l’ottimo commento del Contini alle Rime, 2* ediz., Torino
1946, e F. Maggini, Dalle «Rime» alla lirica del Paradiso, Firenze 1938. _
8 Rinvio soltanto a Schiaffini, Tradizione, cap. VI, e a Segre, Sintassi del
periodo. Parte III.
Dante
175
la ’ n ™ ei } su f abile bontà divina l’umana creatura a sé riconformar,»
t. ' F,BllUOl ° * Dl ° 81 discendesse a fare questa E
con moduli* così^perfettament^^ostrufif 1 *^^ 61 !!^^ 11 ^^^!^!!!^^^
processo “ S °“° * Classicità tra le arcate 8 ° tteha del
„• Commedia il poeta, pur attraverso le rigorose limita-
*° m ch V S1 , è imposte scegliendo lo schema della terzina, si comporta
PartP^ri Pll H S11 f a a b6rtà per quell ° che concerne la gamma degli stili 10
Partendo da fondamenti grammaticali e lessicali senza alcun dubbio
fiorentini, egli si vale Uberamente di tutte le risorse UnSche che
abbiano già avuto una consacrazione letteraria. ungmstlcfte cjie
In vari luoghi del poema possiamo trovare versi «illustri» in cui non
c è alcuna pecuUarità locale. Versi come ’
Per te poeta fui, per te cristiano
E la bella Trinacria, che caliga
Oh Beatrice dolce guida e cara
“ r °, esse ?" e sc . rt «‘. ™ rta d’ipotesi. anche da un poeta non
opacamente dottrinale: PU ° *" 0ualcha I— • <**£» pure.
Ogni forma sustanzial, che setta
e da matera ed è con lei unita
specifica virtù ha in sé colletta,
la qual sanza operar non è sentita...
IPurg., XVIII, w. 49-52).
Invece troviamo all altra estremità della gamma versi di stile
mediocre o addirittura plebeo, in cui perciò ajpatono vcSbSi non
SiaMc^ a coS e i t -nlf er l alta llr ‘ ca to c l uanto hanno un forte colorito
idiomatico. Cosi 1 ultimo verso del c. XX deW Inferno
'0 S ^i 3 àrn^- L 8 a F' ZZamentÌ i el Due e Trecento, Torino 1953, p 18
fimi, «A proposito dello ‘stilè comico’ di Dante», in Momenti, pp. 43 - 56 .
'ìpsp
176 Storia della lingua italiana
Sì mi parlava ed andavamo introcque
e parecchi confronti realistici di altri canti dell7n/emo:
Già veggia per mezzul perdere o lulla,"
com’io vidi un, così non si pertugia
rotto dal mento infin dove si trulla
(XXVIII, w. 22-24)
e non vidi già mai menare stregghia
a ragazzo aspettato dal segnorso
(XXIX, w. 76-77)
e sì traevan giù l’unghie la scabbia
come coltei di scàrdova le scaglie
(ivi, w. 82-83).
Non tocca a noi analizzare quelle doti che fanno di Dante uno dei
più grandi poeti dell’umanità: la sua miracolosa adesione al concreto
anche dove si solleva ai vertici della spiritualità, l’armonia or dolce or
solenne con cui il suono delle parole accompagna lo snodarsi delle
immagini e dei concetti; non tocca a noi, anche se la fortuna di Dante
nei secoli, e quindi la sua durevole efficacia nella lingua siano dovute
proprio a queste qualità.
Il problema più propriamente nostro è quello di vedere fino a che
punto la grammatica e il lessico di Dante si possano dire fiorentini. La
rielaborazione che Dante ha fatto del proprio dialetto natio ne ha
mutato il carattere al di là di quello che i poeti sogliono fare quando
sublimano la loro parlata «naturale» in linguaggio artistico?
4. Grammatica e lessico della Divina Commedia
L’uso dantesco 12 è, in confronto con l’uso «naturale» del fiorentino
del suo tempo 13 , molto più ricco di doppioni 1 *.
" «Un verso che solo i Fiorentini possono capire... E chi è colui che sappia ciò
che Dante si volesse dire in quel verso Già veggia ecc.? Certo io credo che nessun
altro che noi Fiorentini...» (Della Casa, Galateo, xxu, sulle orme del Bembo).
12 Sarebbe utile poter disporre di inventari completi dell’uso grammaticale e
lessicale di Dante; ma purtroppo non possiamo disporre che di repertori
invecchiati: la magra dissertazione di H. Zehle, Laut - und Flexionslehre in Dantes
D. C., Marburgo 1885, la concordanza del Fay (1888), i vocabolari di L. G. Blanc
Ù859), di G. Poletto Ù885-87), di G. A. Scartazzini (1905), di G. Vivanti-Siebzehner
(1954).
13 Quale lo conosciamo specialmente dai Testi dello Schiaffini e dai Nuovi testi
del Castellani.
14 Può rendere tuttora utili servigi l’articolo giovanile di N. Zingarelli, «Parole e
forme della Divina Commedia aliene dal dialetto fiorentino», in St. di fU. rom., I,
1884, pp. 1-202. Importantissimo per ogni ricerca sulla lingua di Dante è sempre il
luminoso articolo di E. G. Parodi, «La rima e i vocaboli in rima nella Divina Comme-
dia», in Bull. Soc. Dant., Ili, 1896, pp. 81-156 (rist. in Lingua e lett., pp. 203-284).
Dante 177
Si ha diceva accanto a dicea (come vediamo con sicurezza in esempi
m rima: diceva I Purg., XXIV, 1181 in rima con Evo-, dicea [ Purg., XXVII,
con eterea ); vorrei Unf, XXXIII, 97) accanto a vorria {Par.]
XXXIII, 15), fero e feron accanto a fermo, ecc. Il perfetto forte di tacere
(; tacqui , -e) si ha 10 volte, quello debole ( tacetti , -e) quattro.
Padre alterna con patre, e madre con matre ; lasciare ha accanto a sé,
quasi altrettante volte, lassare. Manicare e manducare sono usati
promiscuamente con mangiare, e così pure vendicare (3 volte) e
vengiare (altre tre volte): è evidente che Dante approfitta volentieri
della possibilità di servirsi di un quadrisillabo oppure di un trisillabo,
anche se questa non sia la ragione esclusiva. Re e rege, imagine, imago
e image sono adoperati liberamente, con ima scelta di cui non è sempre
agevole scrutare i motivi. Accanto a specchio, che è la forma «norma-
le», adoperata 16 volte, Dante ha nella sua tavolozza speglio (4 es.),
speculo, miraglio; accanto a speranza, adopera speme (7 volte) e spene (3
volte).
Questa libertà di scelta basta a mostrare che Dante, pur tenendosi
saldamente radicato all’uso natio, guarda intorno a sé, ed accoglie
accanto alle parole e alle forme del fiorentino contemporaneo, anche
voci e forme che stanno cadendo dall’uso, qualche forma del toscano
occidentale e meridionale, qualche rara voce d’altri dialetti italiani,
molte voci latine, parecchie francesi. Questa vastità d’orizzonte ha
tuttavia una limitazione rigorosa: mentre il poeta ammette se nz ’altro,
ove gli occorrano, le forme e i vocaboli fiorentini, gli altri devono aver
avuto ima qualche consacrazione letteraria. Quindi i vocaboli latini
possono essere accolti di diritto, ma se usa il tipo vorria lo fa
appoggiandosi ai Siciliani e ai Siculo-toscani; vonno (3 a pers. plur. del
pres.) era deH’umbro letterario; fenno, apparinno, terminonno (3 a pers.
Perfetto) erano stati usati letterariamente da Toscani occiden-
tali; la rima di tome (o lume che sia) con nome e come ha precedenti nel
Cavalcanti e nei Bolognesi, e così via 15 .
Non meraviglia che Dante si attenga piuttosto alle forme che si
usavano in Firenze nella sua giovinezza o nella generazione preceden-
te piuttosto che a quelle prevalse un po’ più tardi. A proposito di alcune
forme verbali usate da Dante il Parodi aveva concluso: «Pare che
Dante, piuttosto che l’uso dei lirici, abbia seguito qui pure l’uso toscano
di poco più che una generazione innanzi alla sua, attingendo in quel
moderato arcaismo nobiltà e solennità di linguaggio» 16 ; il Castellani
( Nuovi testi, p. 69), pur non escludendo che quelle forme fossero ancora
vive nella generazione di Dante, conclude che «certo all’epoca in cui fu
scritta la Divina Commedia erano in piena dis soluzione»
In un altro caso vediamo Dante usare alternativamente il tipo
5 ^ P 1 ^ 1 volte citato art. del Parodi, e la concisa formulazione del suo
articolo postumo «Dante e il dialetto genovese» (Lingua e lett., pp. 285-300).
Bull. Soc. Dant., Ili, p. 126 (= Lingua e lett., p. 253).
178
Storia della lingua italiana
vederai, corrente nella generazione a lui anteriore, e il tipo vedrai, che
prevale tra i suoi contemporanei (« vedrai li antichi spiriti dolenti... e
vederai color che son contenti»: Inf., I, w. 116 e 118) 17 .
Dante non si fa scrupolo di adoperare nella Commedia voci
fiorentine d’ogni strato sociale, anche plebee. Il riscontro d’altri testi o
la testimonianza di altri dialetti toscani ha spesso consentito d’inter-
pretare con puntuale precisione vocaboli danteschi prima intesi ap-
prossimativamente 18 : p. es. bastare nel senso di «durare» iPurg. XXV, v.
136) trova riscontro nel Pulci e nel proverbio «Tanto bastasse la mala
vicina quanto basta la neve marzolina»; burlare per «buttar via,
sparpagliare» t/n/, VII, v. 30) è nell’onomastica t Burlafave di Montepul-
ciano, soldato a Firenze nel 1290) e nel Pucci; piovomo fu sentito dal
Giuliani in Val di Nievole (e rubecchio nella montagna pistoiese); potere
nel senso di «esser capace di portare» (Par., XVI, v. 47) è ancora vivo in
Toscana (e altrove) in locuzioni come lo puoi?; punga ( Inf, IX, v. 7) ha
molti esempi trecenteschi e quattrocenteschi «scomparsi per buona
parte dalle stampe, per le troppo amorevoli cure degli editori» (Parodi);
ecc.
Qualche volta la scelta di vocaboli dialettali mira a caratterizzare
singoli personaggi (p. es. il lucchese issa attribuito a Bonagiunta).
Amplissima, quasi direi illimitata, è l’apertura verso i vocaboli
latini, classici, tardi e medievali. L’ammissibilità teorica di tutti essi,
anche i più strani, è dimostrata da quel passo del De vulgati eloquentia
(II, vii, 6) in cui Dante cita come adoperabile in volgare la capricciosa
coniazione della latinità medievale « honorificabilitudinitate , quod duo-
dena perficitur sillaba in vulgari, et in gramatica tredena perfìcitur in
duobus obliquis».
I latinismi sovrabbondano nei canti di discussione dottrinale-, quindi
ne troviamo in quantità crescente dall’/n/emo al Paradiso. Molti già
dovevano essere stati accolti nell’italiano scolastico prima di Dante,
ma molti sono certamente suoi 10 .
Alle volte l’abbondanza dei latinismi è suggerita dalla solennità del
discorso attribuito a un personaggio. Per citar solo un esempio, nello
scorcio di storia dell’Impero tracciato da Giustiniano (Par., VI), ce ne
17 Castellani, Nuovi testi, pp. 62-63. Qualche altro esempio-di «polimorfia»
aggiunge Nencioni, Fra grammatica e retorica, pp. 14-19.
18 Osservazioni in questo senso faceva già il Borghini, contraddicendo il
Ruscelli. Si veda poi l’articolo di G. B: Giuliani, Dante e il vivente linguaggio
toscano, Firenze 1872, il volumetto di R. Cavemi, Voci e maniere nella Divina
Commedia dell’uso popolare toscano, Firenze 1877 (esagerato nella tesi, pieno di
errori storici ed etimologici, eppure di qualche utilità), il solido saggio di I. Del
Lungo, «Il volgare fiorentino nel poema di Dante» (in Atti Acc. Crusca, 1889, rist. in
Dal secolo e dal poema di Dante, Bologna 1898), e il più volte citato articolo del
Parodi.
18 Dell’uso delle scuole, in quanto vi accadesse di parlare volgare, erano certo
anche le locuzioni fisse del tipo ab antico Unf., XV, v. 62) o le sostantivazioni di
ubi, necesse, quia, ecc.
Dante
179
t0nalità del Scorso: dal cirro
Ani cofnhm ? * "i l bl - tnun f aro ~ si cuba ... co l baiulo seguente
dal colubro - la morte prese subitana ed atra... al lito rubro... e il suo
delubro... era fatturo... nel commensurar di nostri gaggi alcuna neaui
eiavau SSTd?' compare sol ° * ^ «“ *5
xxxlr V inn ! U ® sarai meco senza fine cive»; Purg.
SS Par Vlil v ??6)°d^ ar ^ t° ( ? er in terra ’ Se non fos ^ 6
rivi»:' Par.]’ XXIV% 43 ) S ' perché questo re g no ha fatto
Altre volte è l’aderenza alla sua fonte che suggerisce a Dante il
latinismo: 1 agricola del canto di S. Domenico (Par., XII v. 71 ) risale alla
parabola del vignaiolo; il conservo di papa Adriano (Pura XIX v 1 34 )
viene dall’Apocalisse; gli iaculi serpevi di Lib^n/ ?' 86) sono Si
dl Lucano; il libito e il licito scambiati da Semiramide Unf. V v
^apposti in un passo di Orosio; «l’alte fosse eh e valimi
2araf?iSo SH 77) Salgono al Ubro dei Proverà,
iw rp Stova“u p as s ft‘ £c nv,vio Uquand ° “ ddIo, con certa
lathùsr^Chf^’i ^SS ÌCOl ° CÌ Ì ato ’ ^ a el encato circa cinquecento
,. ,. , , mettesse a rifare il calcolo dovrebbe tentar Hi
distinguere ì latinismi propri di Dante da quelli già comuni al tempo
suo; ma non vogliamo tentare questa diffìcile impresa né cercare quali
possono essere state nei singoli casi le ragioni della scelta del poeta- ci
basti aver segnalato l’ampiezza del fenomeno 10 .
£ rr- Q Ì; 1 ^° ranZa d f 1 greco ha ^attenuto Dante dall’adoperare vocaboli
‘ he vedesse già accolti nei testi latini di cui si serviva to es
penzoma lo trovava nella Vulgata, latria e tetragono in S Tommaso)
?ain(« eC< ; e o Z10nalmen Ì e egli si ventura a ricostruire più ch^ non
sappia, come quando prende per un singolare il plurale entoma
ca?rÌn P f3s!fSn S nt6 i nel ^istoria animalium di Aristotile) e ne
cava un falso plurale entomata IPurg , X v 128) 21
I gallicismi che troviamo in Dante’ non sono pochi ma si stenta a
qualCUn ° n ° n Si trovi anche in altri testi fqvSiS possa
dri fr St ^veZ m S T' AnChe fl ^ illi War - XX - v ' 14) ’ adattamento
.* ant - f lavel > flajel, finora non documentato da alcirn altro testo
?SmoS SSere gÌUn ‘° a Dan,e per tramite
Diffirile è anche stabilire il confine tra le voci coniate da Dante e
sfossi”" altint0 attorao a sé ' da i
Probabilmente sono sue parecchie derivazioni immediate, deverbali
Bema C 1948! n cap e ^vnf^ 3 ’ Euro P a ^he Literatur und lateinisches Mittelalter,
» ^ come Calliopi. Semelè. ecc., v. p. 169 .
Schiaffìm, It. dial., IV, 1928, pp. 229-230.
180 Storia della lingua italiana
come cunta [Purg. , XXXI, v. 4) o denominali come alleluiare, golare,
mirrare.
Tra le molte derivazioni prefissali ( adimare, appulcrare-, dismalare,
divimare; indracare, ingigliare, impolare, inurbarsi, inventrare; rinfama-
re, ringavagnare; sgannare, spoltrire; transumanare, ecc.) parecchie sono
certo sue, specialmente le voci formate da possessivi, da pronomi, da
numerali, da avverbi (immiare, intuare, inleiarsì, inluiarsi, intrearsi,
internarsi Ider. di temo 1, incinquarsi, immillarsi, indorarsi, insemprarsi,
insusarsiì. A proposito d 'imparadisare, il Tommaseo diceva, nel Dizio-
nario: «È della lingua viva, e da essa l’avrà preso Dante, non essa da
Dante»; ma in presenza di tante coniazioni di questo tipo, ci sembra
più probabile il contrario.
Forse di conio dantesco è anche qualche formazione suffissale:
pennelleggiare, torreggiare.
5. Efficacia di Dante
Nei secoli seguenti (e non mancheremo man mano di fame ricordo)
l’influenza di Dante si spiegherà costantemente, se pure or con
maggiore or con minor forza. Influirà sullo stile (p. es. il Boccaccio
risente fortemente della Vita Nuova-, gli scrittori di «visioni» della
Divina Commedia ), sulla metrica (fortuna della terza rima), sul lessico
(come ora vedremo con qualche esempio).
Poiché fin dal Trecento la Commedia è assunta quasi a libro santo
della nazione, commentato come si commentavano le sacre pagine, e
letto nelle scuole d’alto livello, esso ha fornito e fornisce materia di
continue citazioni, sia di versi interi, sia di locuzioni che più o meno
dawicino alludono a episodi e figure del poema o a concetti danteschi:
le bramose canne (di Cerbero), il fiero pasto (del conte Ugolino), il disiato
riso (della regina Ginevra), la vendetta allegra, la mala signoria, il natio
loco, la morta gora, il mondan romore, la volgare schiera, il velen
dell’argomento, il sapor di forte agrume, il segnacolo in vessillo, le
femmine da conio, e ancora risurger per li rami, raunar le fronde sparte,
far tremar le vene e i polsi, ecc.
Anche singole parole dantesche hanno avuto fortuna: non solo
quelle che si riferiscono alla struttura e alle leggi dell’oltretomba
dantesco, come bolgia e contrappasso (da contrapassum di S. Tommaso:
«ciò che è patito a riscontro della colpa»), ma parecchie altre: lai (v. p.
195), laico, macro, grifagno, tetragono (nel senso astratto di «incrollabil-
mente saldo» che si ricava dal Par., XVII, v. 24), ecc.
Ma più che le influenze singole conta l’efficacia complessiva di
Dante, che con la Commedia, a meno di un secolo dagli inizi dell’uso
letterario dell’italiano, instaurò un così alto monumento di poesia,
«mostrò ciò che potea la lingua nostra».
CAPITOLO VI
IL TRECENTO
1. Il Trecento
fi Trecento è uno dei periodi più importanti nella storia della lingua
ì^ana: non perché in quel secolo la lingua e la letteratura abbiano
in™™? *l della perfezione, come ritennero, per motivi in parte
diversi, il Bembo, il Salviati, il Cesari, il Giordani, ma perché in quel
secolo vissero e operarono i tre scrittori che furono storicamente i
principali modelh per l’unificazione linguistica nazionale.
el quadro della civiltà comunale, Firenze mostra, insieme con la
crudezza e le iniquità delle sue lotte di parte, una sua vitalità
prodigiosa. Vi opera Giotto; Arnolfo vi costruisce «il più bello ed
orrevole tempio della Toscana». I mercanti fiorentini svolgono in tutta
nJff 8 occidentale ima mole enorme di affari: si sa che Bonifacio
Vili trovando che erano fiorentini dodici fra gli ambasciatori inviati
a diverse potenze per la sua incoronazione, li avrebbe c hiam ati «il
quinto elemento del mondo».
Rigoglio ed orgoglio si sentono nelle parole del Villani, che nel 1300
j. imprendere a scrivere la Cronica, «considerando che la nostra
citta di Firenze, figliuola e fattura di Roma, era nel suo montare e
aseguire grandi cose, siccome Roma nel suo calare» (Vili, cap. 26).
o ff 6 inconsiderazione della lingua nuova è principalmente
frutto della civiltà comunale: il latino rischiava di essere monopolizza-
to da un ristretto gruppo di professionisti, e sarebbero rimasti esclusi
dalla cultura ì mercanti, cioè il nerbo più attivo della città, i nobili
ormai aeeolti nella cittadinanza, e le donne, che di solito non andavano
a scuola. In questo terreno culturale sono cresciuti il pensiero e la
poesia di Dante, e il prestigio se ne è subito riverberato sul volgare.
Dire che la civiltà comunale di Firenze è stata il terreno culturale
adatto per il prosperare di alcuni grandi scrittori, non vuol dire che ciò
basti a spiegare le altissime qualità di artisti grazie alle quali essi si
sono imposti come modelli, né il fortunato concorso di circostanze per
cui ì tre piu eccelsi sono sorti tutti da quel terreno.
Che aspetto avrebbe avuto ed avrebbe la lingua d’Italia se Dante
non tosse nato, e invece, poniamo, Bonvicino della Riva avesse avuto il
cuore e 1 ingegno dell Alighieri? Ma si sa che ipotesi di questo genere
non si debbono fare.
182 Storia della lingua italiana
Nell’ esaminare gli eventi storici e culturali di questo periodo che
abbiano più stretti rapporti con la lingua, giungeremo di solito fino alla
morte del Boccaccio, cioè fino al 1375, perché l’ultimo quarto del secolo
megbo si ricongiunge, per l’umanesimo ormai dominante, con le
tendenze del Quattrocento.
2. Eventi politici
La civiltà comunale, che a Firenze si mantiene più a lungo e più
saldamente che altrove (ma non senza la parentesi dittatoriale del
duca d’ Atene, e non senza che si avverta un certo predominio di
famiglie con tendenze oligarchiche) si va invece trasformando nell’Ita-
lia settentrionale e mediana, con l’emergere di signori locali.
La tendenza, tuttavia, di alcune città maggiori a espandersi a un
àmbito pressappoco regionale si manifesta sia in Toscana, dove
Firenze riesce ad estendere il proprio dominio su Pistoia, Pisa ed
Arezzo (ma non su Siena e non su Lucca), sia nelle altre parti dell’Italia
settentrionale (tentativi dei Carraresi, degli Scaligeri, dei Visconti) e
mediana. Ogni signoria politicamente importante è sede di una corte, e
tende a promuovere la propria coinè.
L’importanza di Roma è sempre più compromessa dall’assenza del
Pontefice, né certo la rialza l’effimera signoria di Cola. Nel regno di
Napoli importa molto più la capitale (in stretti contatti col resto
d’Italia, sia al tempo di re Roberto sia in quello del siniscalco
Acciaiuoli) che il resto dello stato, dov’è scarsissima la vita comunale.
La Sicilia, che durante tutta l’età sveva era stata protesa verso la
penisola, dopo Caltabellotta (1302) forma il piccolo regno autonomo di
Trinacria, chiuso in se e solo preoccupato delle proprie fortune. In
Sardegna, alla forte influenza pisana subentra la penetrazione catala-
na, sotto il dominio degli Aragonesi.
La peste nera, dopo la strage compiuta nel’48 in tutta la penisola,
ancora negli anni successivi più volte riappare con minore virulenza: e
incide fortemente non solo sulla compagine demografica, ma su tutta
la vita del tempo.
3. Vita civile e culturale
Tra i molti aspetti della vita civile e culturale del Trecento, meritano
ricordo quelli che hanno èsercitato una certa influenza nel costituirsi
di una lingua comune.
I mercanti compiono lunghi viaggi, hanno contatti con uomini di
vari paesi, e spesso si stanziano in altre nazioni, servendo di tramite a
vocaboli stranieri. Si diffonde in questo secolo la contabilità secondo il
metodo veneziano. Si ricordi anche l’usanza dei mercanti di leggere in
viaggio opere scritte in volgare, divertenti piuttosto che edificanti.
La navigazione mette in contatto uomini di diversi paesi: gli scritti
Il Trecento 183
nautici (p. es. il Compasso da navigare ) o i codici di consuetudini
marittime (come la Tavola di Amalfi) hanno sempre caratteri linguistici
fortemente miscelati.
Passano spesso dall’ima all’altra città i podestà, i giudici, i maestri-
e il riso che talvolta suscitano le loro particolarità linguistiche li spinge
a eliminarle.
Le milizie di ventura, dapprima spesso straniere (si ricordino le
truppe borgognone del duca di Atene), sono più tardi assoldate in
Italia, nelle regioni più povere.
E passano di città in città, da signore a signore, gli «uomini di corte»
in tutte le loro varie gradazioni, dai poeti cortigiani ai giullari: talora
sollecitati e signorilmente accolti, talora respinti per timore della loro
petulanza professionale (si ricordino, p. es., le severe disposizioni del
Costituto di Siena, volgarizzato nel 1309-10, contro i giullari alle feste di
nozze).
Desideri di guadagno, aspirazioni di gloria, ansia di bellezza sono
spinte eterne dell’animo umano: ma in pochi tempi e in pochi luoghi
hanno raggiunto ima così forte tensione come a Firenze e in Italia in
questo periodo. Quello che in prima linea s’impone all’attenzione è
1 umanesimo che, soprattutto ad opera del Petrarca e del suo bandito-
re, il Boccaccio, s’irradia principalmente da Firenze su tutta l’Europa.
Ma non dobbiamo dimenticare il nuovo stile che s’impone nelle arti
figurative (Giotto, Arnolfo) e nella musica Q’Ars nova accolta e stabiliz-
zata a Firenze).
S aggiungono in questo secolo alle antiche università quelle di
Perugia, di Firenze, di Siena: e importa ricordare che grazie soprattut-
to all opera dei due insigni interpreti del diritto comune, Bartolo da
Sassoferrato e il suo discepolo Baldo, maestro per molti armi a Perugia
e poi in altre città, la nuova dottrina giuridica diventa comune
patrimonio italiano, anzi europeo.
Sui rapporti culturali che si sono venuti intessendo fra regione e
regione si sono raccolte numerose testimonianze: vogliamo almeno
ricordare una fra le più importanti di queste correnti, quella che portò
nel Veneto una larga conoscenza degli uomini, delle cose e specialmen-
te delle lettere toscane: tanto più che ne siamo largamente informati
grazie a una buona monografia 1 .
4. Latino e volgare
Latino e volgare si presentano in un certo senso in rapporti di
emulazione e quasi di antagonismo, in altro senso di strettissimo
collegamento. La forte tendenza ad estendere l’uso del volgare per
argomenti per cui prima si adoperava solo il latino senza dubbio
<La coltura toscana nel Veneto durante il Medio Evo», in Atti Ist
Ven.. LXXXII, 1923, i, pp. 83-154.
184 Storia della lingua italiana
Il Trecento 185
avvantaggia la lingua nuova e in certo modo sminuisce l’altra. Ma
dobbiamo pur ricordare che il volgare assurge ai fastigi con Dante
preumanista e il Petrarca e il Boccaccio antesignani dell’umanesimo,
per concludere che soltanto a uo mini che avevano maturato una nuova
concezione della cultura, nutrendosi con la lingua e il pensiero dei
classici, è stato possibile dare al volgare una forma altamente artistica
e un impulso nuovo 2 .
L’importanza del volgare rispetto al latino 3 aumenta decisamente in
questo secolo, sia negli usi pratici che in quelli letterari. In ciò l’italia
non rappresenta affatto un’eccezione in Europa: per citar solo un
esempio, anche nell’uso della cancelleria imperiale, il tedesco (sporadi-
camente adoperato già prima) acquista molto terreno sotto Lodovico il
Bavaro.
La corrispondenza di carattere pubblico continua in generale in
latino: la tradizione è assai forte nelle cancellerie, e inoltre i notai che
vi sono addetti spesso provengono da altre città 4 * * . Quando troviamo atti
pubblici in volgare, comè la pace tra Firenze e Pisa del 1328 s o i patti
fra il comune di Ancona e quello di Venezia stipulati nel 1345",
probabilmente non si tratta dello strumento originale ma di traduzioni
fatte per darne conoscenza al pubblico. Altre volte si tratta di minute
precedenti la stesura ufficiale 7 . Ma gli ordini e le istruzioni date dai
governanti ai propri ufficiali e rappresentanti sono spesso in volgare 8 * .
L’uso del volgare si estende largamente in questo secolo in tutta là
legislazione statutaria. È sempre vivo l’uso di leggere in volgare le
deliberazioni proposte all’approvazione e, dopo, di comunicarle al
pubblico*. Ma ciò non basta: si sente anche il bisogno che le versioni
siano messe per iscritto.
Nel 1302 a Bologna, i capi della compagnia dei muratori domanda-
2 Il «padre dell’umanesimo», il Petrarca, condusse il «padre della prosa
italiana», il Boccaccio, «a maturare particolarmente sulla prosa di Livio la
sintassi e lo stile che egli impose all’ancora novella prosa italiana» (Billanovich,
Giom. stor., CXXX, 1953, p. 330).
3 Non è qui il luogo per dire che cosa fosse, prima del trionfo dell’umanesimo,
il latino comunemente usato nei documenti e nelle scuole: spesso la struttura del
periodo e il lessico risentono fortemente del volgare. Possono dare un’idea di
questa latinità alcuni testi come il commento latino ai Documenti d’amore di
Francesco da Barberino, il trattato di Antonio da Tempo, il commento di
Benvenuto da Imola, oppure i commentari di Bartolo o di Baldo.
4 Sulla persistenza del latino nella Cancelleria fiorentina, e sui limiti in cui si
fa eccezione a questa regola, v. D. Marzi, Lo Cancelleria della Repubblica
Fiorentina, Rocca S. Casciano 1911, pp. 416-421.
s Tronci, Annali Pisani, III, p. 138.
* Migliorini-Folena, Testi Trecento, n. 26.
7 È questo il caso del testo dei patti proposti dal comune di Montefìore a
quello di Fermo (1388): Migliorini-Folena, Testi Trecento, n. 58.
8 Marzi, Cancelleria, cit., pp. 422-423.
8 Marzi, Cancelleria, cit., p. 417; G. Fatini, Leti, maremmana delle origini, cit-,
P 89.
no al capitano, agli anziani e ai consoli della città che una riformazione
contro le «novità» politiche sia fatta e «scripta e reformà volgare»
«agò che sia publico et certo a ciaschuno de intendere» 10 .
. , statuto dell Arte della Seta (o di Por Santa Maria) a Firenze (1335)
e m latmo, ma la sua ultima rubrica dispone che esso sia tradotto in
volgare, e che tutti i sindaci leggano il testo volgare 11 .
Numerosi statuti, sia comunali, sia di singole corporazioni, sono
volgarizzati appunto in questo secolo. A Siena si fa nel 1309-10 la
traduzione del Costituto (ed. Lisim, Siena 1903), a Perugia si traducono
gli statuti cittadini nel 1342 (ed. Degli Azzi, Roma 1913-16), ad Ascoli nel
1377 (ed. Zdekauer-Sella, Roma 1910), ecc.
A Firenze lo statuto dell’Arte dei medici, speziali e mereiai, steso in
latino nel 1314, è volgarizzato nel 1349, ecc. 12 . Nel 1355 si decide di
tradurre gli Statuti comunali e nel 1356 è dato ufficialmente l’incarico a
ser Andrea Lancia di volgarizzare entro un anno tutti gli Statuti e
ordinamenti, facendoli poi legare in un volume e mettendoli a disposi-
zione del pubblico 13 .
Si induede, naturalmente, ai traduttori di essere precisi: lo statuto
dell arte della mercanzia di Siena (1338) prescrive che il testo latino e
quello volgare «abbiano una medesima sententia, entendimento et
concordia» (ed. Senigaglia, p. 155). Ma non è escluso che il traduttore
possa fare qualche correzione formale «con belle e sostanziali parole
mercantili» 14 .
Bandi pubblici, elenchi di merci soggette a gabella s’intende che
siano in volgare. Bartolo, forzando l’interpretazione dei testi giustinia-
nei allarga i limiti in cui il volgare può essere ammesso nei processi e
negli atti ls . -
Sono spesso in volgare anche i testamenti e le petizioni alle
autorità, a cui devono aver prestato la penna legali «che s’aggirassero
per le cune in servizio del pubblico» 16 . Lettere e istruzioni della
Cancelleria di Firenze sono assai spesso in volgare 17 .
Invece, tra un paio di migliaia di referti medico-legali databili fra il
1245 e il 1400 che si conoscono a Bologna, uno solo, del 1350 circa è in
volgare 18 .
Ottemperano principalmente a necessità pratiche i numerosi volga-
rizzamenti e le poche compilazioni in volgare di opere di medicina, di
10 Migliorini-Folena, Testi Trecento, n. 1 .
là dell’Arte di Por Santa Maria, Firenze 1934, pp. 159-160
, . , v - elenchi di questi volgarizzamenti in Doren, Die Florentiner Wolientu-
chmdustne, Stoccarda 1901, II, pp. 770-786.
13 Marzi, Cancelleria, cit., pp. 418-420, 571 - 572 .
14 Doren, Le arti fiorentine, Firenze 1940, II, p. 336.
15 Fiorelli, Le frangale mod., XVIII, 1950, pp. 280-281
16 Marzi, Cancelleria, cit., p. 418.—
Appendice di 127 di esse - dal 1311 al 135 °. in Marzi, Cancelleria, cit.,
18 Munster-Folena, in Lingua nostra, XV, 1954, pp. 8-12.
186
Storia della lingua italiana
chirurgia, di agricoltura che troviamo in questo secolo: ricordiamo p.
es. le versioni da Serapione, Pietro Spano, Guglielmo da Piacenza, Pier
Crescenzi.
Nell’uso letterario, il volgare acquista nuovi campi sul latino. Il
Convivio è conscia affermazione della maturità del volgare per difficili
trattazioni filosofiche. E quel che Dante aveva detto nel De vulgati
eloquentia sulla mancanza di cantori delle armi sprona il Boccaccio a
comporre la Teseida:
Ma tu, o libro, primo a lor 1= le Musei cantare
di Marte fai gli affanni sostenuti,
nel volgar lazio più mai non veduti.
Q. XII, st. 84).
Sia il Petrarca che il Boccaccio sono dottrinalmente persuasi della
maggior «dignità» del latino, pur facendo al volgare la parte che
sappiamo 18 .
Il fatto che il Petrarca postilli in latino gli autografi delle Rime Ihic
non placet; die aliter, hoc placet quia sonantior, ecc.), o che dia titoli
latini ai Trionfi mostra che la sua lingua scritta usuale era il latino,
mentre il volgare era una lingua di cui in particolari condizioni ci si
poteva servire per esperimenti di poesia. Ma è fatto tutt’altro che
isolato: si pensi al commento latino di cui Francesco da Barberino
munisce i suoi Documenti d’amore ; anche Graziolo dei Bambagliuoli
scrive in versi il suo Trattato sopra le virtù morali e l’accompagna con
un commento latino; troviamo sacre rappresentazioni con didascalie
latine 20 , e i titoli del Saporetto del Prodenzani (Mundus placidus , ecc.)
sono in latino. E ie intestazioni, le date, e talora anche le firme di
lettere in volgare sono latine.
Continuano i volgarizzamenti di opere latine, come il Boezio di
Alberto della Piagentina, le Metamorfosi del Simintendi, YEneide
dell’Ugurgieri, e, più importante, la versione della Terza e della Quarta
Deca di Livio, compiuta dal Boccaccio su un testo allestito dal
Petrarca 21 . Attraverso l’esperienza tecnica dei traduttori «si viene
elaborando una speciale prosa che contrae molta lega di lingua latina
(soprattutto riguardo al lessico), è schifìltosamente aliena dal volgare^
comune e mostra segni ben marcati di eleganza-, prosa modellata sul
latino e destinata, perché trova un ambiente propizio, a conseguire ed
18 Ma la tanto discussa espressione nugellae vulgares adoperata dal Petrarca
per le sue liriche non è spregiativa, ma ima reminiscenza oraziana: egli chiama
nugae anche le lettere latine «che non hanno dignità e aspetto di libri» (V. Rossi,
in Dante e l'Italia, Roma 1921, p. 317 n.l.
20 De Bartholomaeis, Laude drammatiche e rappresentazioni sacre, I e II.
passim.
21 V. la citata raccolta di Volgarizzamenti del Due e Trecento a cura di C.
Segre.
Il Trecento
187
educativo»^ d0minio anche P er certo suo ufficio correttivo ed
duX n L T&r ° aUt ° ri Che scrivono una stessa opera in tutte e
B^olomeo da San Concordio scrive De documenta
r ? ? traduce i opera col titolo di Ammaestramenti degli
dottrina H® Q C ^ 1S + tofor ° Gmdau traduce in latino il Libro della divina
dottrina di S. Caterina, perche «el dicto libro era ed è per volgare e chi
n a ' a grammatica o la scienza non legge tanto volentieri le cose che
sono per volgare, quanto fa quelle per lettera».
Tutto l’insegnamento si fa di regola in latino. Tuttavia i maestri
Dame 0 Sconco ^ v ° lgare c ° m ? tramite, come sappiamo anche da
SvioTxm 5) " e tln0 ' COn 8SS ° ^ fU mostr ‘“o.:
npl m*! q t^L l i lSe . gnament ° elementare pratico: per esempio, a Firenze
PP maestro s impegna a insegnare a un ragazzo «ita et taliter
^P d r sciat ," tfgere et senbere omnes licteras et rationes et qùod... sit
suiiiciens ad standum in apotecis artificis» 23 .
1 ’ r<t ^ lle condizk)ni senesi della seconda metà del Trecento
d re i Gia P' ì l in0: pochi mesi sparò il parlare franciescho et
2 parlare latino cioè toscano, e stette alla scuola per tempo di
da a ^” i a et l f m P arò a legiere et a scrivare merchatantescho senza
gramaticha et poi imparò 1 albacho, cioè a ragionare» (p. 23 Maccari)
Viiw antl ii fOSSer ° queUi che studiavano, ce lo dice per Firenze ii
y dla “- nel ! e su ® P a & me statistiche per il 1338: «i garzoni che stavano
ad apprendere 1 abbaco e algorismo in sei scuole, da mille in mille e
anhne 1140 * CY ° n '’ XI ’ C&P ' 113) ’ su una Popolazione di circa ottantamila
2^f he v V ° lta Codiavano anche le donne: Bernabò Lomellini loda
Zmevra 01 saper meglio «leggere e scrivere e fare una
ragione che se un mercante fosse» (Bocc., Dee., II, 9, 10). La Margherita
n w™’ m og lie dal 1376 di Francesco Datini, nel 1396 stava imparando
n ?fft r tr- e Q S ^ nVe ^ s T otto la guida di ser Lapo Mazzei (Mazzei, Lettere, I,
* 15 j- G uasti). I piu conservatori non apprezzavano molto che le
IpS. S? SSe M' 4 ? è fanciulla femina, polla a cuscire, e none a
n/STa ’ no P lsta troppo bene a una femina sapere legiere, se già
non la volessi fare monaca» (Paolo da Certaldo, n. 155 ). 8
5 . Conoscenza di altre lingue
, n *°£ V ± è la 1 conoscenza della lingua e della letteratura francese,
speciaimente nella prima metà del secolo. Le frequenti relazioni con ì
?r. erOS1 mercanti e cambiatori stabiliti in Francia, i contatti con la
corte avignonese, 1 influenza della moda e dei costumi francesi alla
22 Schiaffìni, Tradizione, pp. 191-192.
23 Contratto citato da Debenedetti, in Studi mediev., II, 1907, p. 346.
188
Storia della lingua italiana
corte di Roberto d’Angiò e ancora ai tempi di Giovanna I sono 1 fattori
PÌ<1 L ‘S’o?e“emko del francese da parte di Italiani è vivo, ael UjltaUa
settentrionale (Hustichello che scrive la natrazionc di Marco Polo, e
ancora nel 1379 Raffaele Marmora inizia lAquiton de Bavière) e
influenze di opere francesi si avvertono non di rado (p. es.
Va ^canto e oUav?dei e iV libro della Leandreide è messo dall’autore m
bocca al trovatore Amaut de Marueilh e scritto Affettavano 1 ie loro
Qnplli che tornavano di Francia arricchiti e affettavano le loro
conoscenze della lingua erano satireggiati dall’Angiolien in personali
Neri pfiohno (son. «Quando Ner Piccolin tornò di Francia»), il quale
Secala «Mala mescionza - possa venire a tutti i miei vicini». E
contro Taccone, giostratore e vantatore, il Sacchetti scriveva 1 versi
volutamente francesizzanti «la roccia imbroccia e' ncontro a Bacc o-
ne - «scontra le roi e Ciarlon imperierei (p. 224 Chiaro. J .
Verso la fine del secolo. Benvenuto da Imola, echeg^ando m tono
minore le rampogne dantesche del Convivio, protestava contro ì
gallicheggianti defSio tempo: «Unde multum miror et mdignor animo,
auando video italicos et praecipue nobiles, qui conantur unitari
vestigia eorum et discunt linguam gallicam, asserentes quod nulla est
pulchrior lingua gallica; quod nesciovidere;nam ^gua^mcaest
bastarda linguae latinae, sicut expenentia docet» ( Comentum , il, p.
409 ìl Petrarca, inviato nel 1361 dal Visconti al re di Francia, si scusava
di parlar latino anziché francese: «linguam gallicam nec scio nec facile
P0S nSÌ molto noto era il tedesco. Il catalano seguiva l’influenza
aragonese in Sicilia e in Sardegna. Federico III
Sicma favoriva il volgare siciliano, scriveva delle »
provenzale di colorito catalano. In Sardegnagiànel lgT si pubblica
in catalano i decreti del governatore ( veguerì diretti ai iunzionan .
Nel 1372 la popolazione sarda fu espulsa da Alghero e sostituita da una
CC>1 La Ca^bria e Messina erano centri notevoli di cultura greca. Nella
penisola, il preumanesimo e poi l’umanesimo portano con sé lo stimolo
a una piena conoscenza del greco: è nota la parte che vi ^bero jl n
Roberto (con i traduttori da lui favoriti), il Petrarca, il Boccaccio. Il
prim<Tinsegnamento del greco a Firenze quello di
fi 1360), ebbe carattere orale; solo alla fine del secolo (1397) sar
stabilita una cattedra per fi Crisolora.
289 t, 9 £t l. Wagner, La lingua sarda , Berna 1951, p. 13.
Il Trecento
189
6. Il volgare in Toscana
In Toscana, l’uso del volgare ai fini pratici è già dal secolo
precedente più ampio che altrove. Ma quel che più ci preme è fi vedere
come esso assurga ai più alti fastigi nell’uso letterario. La Vita nuova
può essere considerata come l’inizio di quel periodo in cui Firenze
viene a occupare ima posizione di indiscusso primato nella letteratura.
Su un terreno molto fertile, per un’innata tendenza e una ormai lunga
educazione al bello scrivere e a ima dizione gradevole 29 , allignano i tre
grandi scrittori, e raggiungono un’eccellenza stilistica quale non s’era
più vista dall’antichità in poi. La vena andrà poi a inaridirsi negli
ultimi decenni del secolo, per fi predominare dell’umanesimo latineg-
giante.
Insieme con la Commedia, va ricordata la lirica, ché a questa e a
quella anzitutto mirerà Limitazione stilistica e linguistica: ed è cosa
risaputa che nell’unificazione linguistica italiana la poesia precede la
prosa.
La lirica stilnovistica, con la sua aristocratica concezione della vita
e della poesia, scade molto presto a una meccanica ripetizione di
luoghi comuni. Ma il Petrarca, pur ricollegandosi strettamente ad essa,
crea nuovi temi e nuove forme.
Scarso sforzo d’arte troviamo nei cantari storici e cavallereschi, ma
una nobilitazione degli schemi di essi si ha nelle opere poetiche del
Boccaccio. La poesia realistica continua la corrente già iniziata nel
Duecento, e va cogliendo nell’uso popolare un idioma variopinto ed
energico, talora stilizzandolo per diletto 27 .
Voci di poeti minori si levano da tutta quanta la Toscana: da Lucca
(Pietro Faitinelli), da Siena (Folgore da S. Gimignano, Bindo Bollichi,
Simone Serdini, fiero nemico di Firenze e grande a mmir atore di Dante,
e parecchi altri), da Arezzo (Cenne della Chitarra, Giovanni de’ Boni).
Nella prosa, i testi dottrinali (p. es. Dante, Convivio-, Sacchetti,
Esposizioni) mostrano ima forte influenza erudita nelle divisioni e nelle
articolazioni di tipo scolastico, le quali non sono ignote ai mistici (santa
Caterina, san Giovanni delle Celle).
Gli storici e i narratori di viaggi in parte si ricollegano alla
tradizione cronistica, in parte ai novellatori borghesi (si ricordi anzitut-
to fi Sacchetti, ma anche, nelle parti narrative, fi Passavanti, i quali
continuano fi filone del Novellino ).
36 Si ricordino le raccomandazioni di Paolo da Certaldo a chi è mandato come
ambasciatore: «che tu parli e dichi le tue parole con nuovi vocaboli e intendevoli
però che molto se ne diletta la gente» (Libro , n. 275).
27 Specialmente le frottole, che riproducono «verba rusticorum et aliarum
personarum, nullam perfectam sententiam continentia» (Antonio da Tempo, p.
153 Grion), mostrano in Toscana una curiosità per voci popolaresche e in qualche
modo bizzarre (come la frottola del Sacchetti su «La lingua nova - che altrove non
si trova»), mentre altrove le frottole s’infarciscono di parole dialettali. V. il cit. voL
di M. Marti, Cultura e stile nei poeti giocosi del tempo di Dante, Pisa 1953.
190
Storia della lingua italiana
Le esperienze tecniche compiute negli ultimi decenni del Duecento
e nei primi del Trecento nell’arte del periodo, grazie all’opera dei
volgarizzatori più che alle teorie dei trattatisti, hanno ormai creato imo
strumento duttile e pronto per quell’artista che sappia valersene. Si ha
un’idea delle sempre crescenti esigenze artistiche da quel passo in cui
Filippo Villani dice che suo padre Matteo «usò lo stile che a lui fu
possibile, apparecchiando materia a più dilicati ingegni d’usare più
felice e più alto stile» (Proemio).
7. Petrarca
Ciò che conta del Petrarca in una storia della lingua italiana è solo
la sua lirica; di prosa italiana non abbiamo nulla (non contano le poche
righe di una lettera a Leonardo Beccanugi); lontana e indiretta è
l’importanza delle sue opere latine 28 .
L’esercizio stilistico del Petrarca muove dagli stilnovisti, special-
mente da Cino; di Dante contano soprattutto le rime petrose; la
Commedia influisce specialmente sui Trionfi, e più per la prepotente
grandezza di Dante che per il consenso del riluttante e non congeniale
Petrarca.
Contano i trovatori; ma molto più le costanti letture di classici, con
un canone diverso e molto più ampio di quello medievale, che
testimonia uno spirito nuovo e più maturo. Attraversò ima lunga e
paziente elaborazione il poeta raggiunge una squisita e decorosa
eleganza, ima musica verb^’e temperata e canora.
Egli definiva il lavoro ch>_ ^tava facendo nello scrivere il De remediis
«doppio - tra lo stil de’ moderni e ’l sermon prisco» (son. 40), lo sforzo di
contemperare lo stile degli scolastici e quello ciceroniano. Anche più
difficile è il lavoro per la lirica italiana: base è la sua toscanità già
composita, a cui si sovrappongono ricordi della tradizione poetica
anteriore, dai Siciliani agli Stilnovisti, e dell’autorità latina. Così egli si
ritiene libero di usare propio, anche in rima, e proprio, tesoro e tesauro,
■me e -mi, -se e -si enclitici; proverai ma lassarà (28, 36); libero soprattutto
egli si ritiene nell’usare il monottongo o il dittongo dove il fiorentino
28 Per la lingua del Petrarca è prezioso il confronto fra gli abbozzi conservati
nel cod. Vat. Lat. 3196 (facsimile, Roma 1941; ed. diplomatica Appel, Halle 1891; M.
Pelaez, in Bull. Arch. Paleogr. Ital., II, 1910, pp. 163 216; A. Romanò, Il codice degli
abbozzi (.Vat. Lat. 3196 ) di F. Petrarca, Roma 1955) e la redazione definitiva e in
parte autografa del Cod. Vat. Lat. 3195 (facsimile, Milano 1905; ed. diplomatica
Modigliani, Roma 1904).
Si veda: F. Giannuzzi Savelli, «Arcaismi nelle Rime del Petrarca», in St. fil.
rom.. Vili, 1899, pp. 89-124; F. Ewald, Die Schreibweise in der autographischen
Handschrift des Canzoniere Petrarcas, Halle 1907; A. Schiaffimi, in It. dial., V, pp.
140-143; Id., in Cult, neol.. Ili, pp. 149-156; Id., in Momenti di storia della lingua it., 2„
ed., cap. Ili; G. Contini, Saggio di un commento alle correzioni del Petrarca volgare,
Firenze 1943; Id., pref. all’edizione Tallone, Parigi 1949; Id., «La lingua del
Petrarca», nel volume sul Trecento della Libera Cattedra, Firenze 1953, pp. 93-120.
Il Trecento
191
a e UO ‘ X , n nma S1 trova P iù spesso il monottongo; ma che
•a J. aSC XT^ mdar u ® 0 ^ tant0 dall’orecchio si vede da casi come questi:
abbiamo «Ne per bei baschi allegre fere e snelle» (312, 4) ma «Nè fiere
si selvagge» (288, 13): 19 volte fera (o fere), di contro a 5
fiera (o fiere) secondo la concordanza del McKenzie; abbiamo persino
” ell °f* esso verso «Ché bono a buono à naturai desio» (Tr. Fama 1
^ * mutamenti di pie’ in pe\ di dover in dever, di begli occhi in belli
Hf^n mOStran ° lo ^ discostarsi dall’uso parlato per nobilitare la
fonie? arcaizzando lievemente. Le forme latineggianti del tipo di
fenestra curto, condutto (prima aveva scritto condotto), consecrare sono
w!™ 6 i a ° ra vanno al - ^ là del lecito = se è ammissibile un
tmpio nell interno del verso, non si può dire altrettanto di un impie (83
8) in runa con tempie, empie, scempie (si può solo notare che è di mano
del copista, non del P.).
, ^® da morfologia, il Petrarca accetta i due tipi di condizionale in -ia
ed -ei, mentre del terzo tipo (dal piucchepperfetto) ha il solo fora
Ilarissimi ì participi senza suffisso (avrìa stanco, 218, 4).
Nel lessico, quello che più colpisce è la voluta limitatezza: esso è
H?u a US ? m ul L gir ?- dÌ “evitabili oggetti eterni, sottratti alla mutabilità
d ®? a v f*i°" a * Montini, «La lingua...», cit., p. li). Non appaiono quasi mai
vocaboh caratteristici, rari, fortemente espressivi: quei rarissimi che si
possono citare appaiono in poesie di corrispondenza, dove il Petrarca
schivare le rime difficili (Etiopia, inopia, sfavillo, stillo, nella
3^. a Stramazzo da Perugia, 24), oppure in serie binomie o
polinomie «appole e stecchi, 166, 8), in antitesi («Oh poco mel, molto aloè
con fele», 360, 24), m imprecazioni 30 .
Oltre alla patina latineggiante che domina l’ortografia e la scelta
vyn^ntL sono m numero notevole (anzi crescente dalle Rime ai
I nonfi) ì latinismi, sia lessicali (p. es. ivemale, sorore), sia sintattici (p.
es. credere nel significato di «fidarsi» o «obbedire»,- l’accusativo alla
greca; 1 ordine delle parole).
I provenzalismi non vanno al di là di quelli che la tradizione poetica
già aveva consacrati (del tipo di augello, despitto, dolzore, frale, savere
sogiio con il significato di «solevo», ecc.); anzi il poeta evita quelle
P^ole in -anza di cui era stato fatto tanto abuso
Potrebbe far meraviglia il trovare nel Petrarca un francesismo non
adoperato prima di lui, retentire Un su’l dì fanno retentir le valli 219 2)
se il valore onomatopeico della parola non la giustificasse 31 .
bono pochissime le parole presumibilmente coniate dal Petrarca
stesso: disacerbare, inalbare.
lunga serie di doppioni si può vedere nell’Ewald, o in M. Vitale Poeti
della pnma scuola, cit., pp. 95-96.
30 Contini, «La lingua...», cit., pp. 18-20.
sn-and?a^fo > n a ^ li ^[ are nel senso * «liberare» («Ben venne a dilivrarmi un
grande amico», 81, 5), esso era comune in prosa sotto la forma diliverare.
192 Storia della lingua italiana
Invece è ricca la serie delle espressioni figurate, che solo in parte il
Petrarca attingeva dai suoi modelli: foco, fiamme, sole, tesoro, fenice per
«persona amata», liquido cristallo per «acqua», rai per «occhi»,
amorosi vermi, amorose vespe per «passione amorosa» ecc.: se alcune ci
sembrano banali, ciò è dovuto all’abuso che i petrarchisti ne hanno
fatto nei secoli seguenti
Contribuiscono a volta a volta all’armonia e all’eleganza dell’e-
spressione le antitesi, i parallelismi, le accumulazioni pohsindetiche o
asindetiche IFior, frondi, erbe, ombre, antri, onde, aure soavi, 303, 5; Non
Tesin, Po, Varo, Amo, Adige e Tebro, ecc. 148), gli adìnati e tutti gli altri
stilemi con cui più tardi gli imitatori credettero di fare poesia.
8. Boccaccio
Anche fra gli scritti del Boccaccio la posterità operò una potatura
severa. Poco contarono nella codificazione cinquecentesca della lingua
le opere giovanili {Filocolo, Filostrato, Ameto, Teseida, Fiammetta,
Ninfale ), moltissimo il Decamerone.
Quanto alle grandi compilazioni filologiche in latino, esse ebbero
ima loro fortuna erudita nell’età umanistica, del tutto scissa dalla
fortuna del Centonovelle.
Nelle opere min ori in volgare troviamo già i segni assai chiari della
sua personalità. «Lo spirito del Boccaccio fu venato di alessandrinismo
fin dalla nascita, e l’amore del peregrino, del lussuoso, del complicato,
del sovrabbondante si mescolava in lui in indissolubile unione col più
puro e schietto realismo, minacciando sempre di trionfare. Sulla sua
nuova anima borghese-mercantile di fiorentino un’altra misteriosa-
mente se ne accendeva, di un Ovidio-Apuleio» 32 .
Si compenetrano variamente nelle esperienze giovanili tentate per
numerose vie, prosa e versi (terzine, ottave, ballate, sonetti), i due filoni
dell’arte del Boccaccio: lo schietto realismo, che si manifesta nella
narrazione rapida e qualche volta anche trascurata, e l’amore di
ornamenti fastosi, quali potevano piacere al giovane che viveva in
margine della brillante e voluttuosa corte angioina.
Predominano nel Filocolo i colori attinti ad Ovidio, ad Apuleio, alla
prosa studiosamente adorna di vezzi retorici dei volgarizzatori di
classici, cosicché il romanzo manifesta una esuberante «oltranza
stilistica» 33 .
Ma dopo i nuovi esperimenti seguiti al ritorno in Firenze, viene la
stagione del capolavoro. Lo scrittore ha esteso il proprio uditorio ideale
32 Parodi, «La cultura e lo stile del Boccaccio», in Poeti antichi e moderni,
Firenze 1923, p. 161.
33 Schiaffini, Tradizione (i due ultimi capitoli). Sull’importanza del volgarizza-
mento di Livio nel tirocinio letterario del Boccaccio, v. Billanovich, Giom. stor.,
CXXX, 1953, pp. 311-337.
Il Trecento
193
SlS’/fSHSaTSl
mondo mtSe?Srche d do^u n antìdtha ^freschi 01 ^ qSì
l’autunno, ma che le geSzfonfS^on» t P ® Ste volgeva verso
aperto verso l’Europf e verso h a ^ evano conosciuto
tensione ideale li giustificarsi amfrnnf^l appaioao solo quando una
(Vili, 2)Tc^ alla Belcolore
dominata dall’aspirazione a un canrmo £? orn -l> la scelta è
del tipo mógliema si trovano SlSIn hoc? n ? bUe regolarità - Costrutti
par n leSc° re i 1 ? dizl0 che ormai SrX^plSeo^ 110
giovaìhS* Talnrn C n ^ 5 iù deUa fastosa ricchezza delle opere
parole della mogh^del^^Sscalc 00 ! 31 d f 1 pers °^. aggi (si pensi a]le
«dare», giuliva, bilia eccJ- Scredi f^fè d ° nare
prenze; i Veneziani sono chiamati due volte hV 2 VT i h/u ?
SS va a n^ er ° m d* (VOCe * scheLTuL^^
aUa'sua edifln“deTSSon P r^ * De ??™ rone si divulgherà (Branca, Pref.
passim). ’ XLVI11 ’ Id., Boccaccio medievale, Firenze 1956,
p. iTo Per SÌng0lÌ fen ° menJ ’ U Castellani fa qualche riserva: vedi p. es. Muovi testi,
arcaismi che if BoccaccU^sf nprm?u a . speci alissimo motivo i francesismi o gli
dell' Ameto, il plusori della Teseida ■ ^temen ^' 1 rivaegio del Ninfale, il vengiare
giornata: .che di bitta, <?afdjr, neUa ConcIusione della li
194 Storia della lingua italiana
Boccaccio narra che adopera « sapone moscoleato »; e così via. Lucertola
verminara Gl, 10, 6) «geco» è un termine che il Boccaccio dovè
apprendere a Napoli; ed è probabile che il meridionalismo menne
«mammelle» («le fredde menne », «le ritonde menne». Filocolo, p. 361,
411 Battaglia) sia dovuto piuttosto a ragioni biografiche (soggiorno a
Napoli) che stilistiche (ricordo di poeti della scuola siciliana) (cfr. p. 197
n.); si ricordi anche il ciancioso delibimelo.
Più ancora che nelle scelte lessicali, il gusto boccaccesco appare
nella sintassi, p. es. nell’uso dei participi e dei gerundi 38 o nella
collocazione del verbo: il verbo _alla fine della proposizione (che nel
Cinquecento diventerà uno degli ingredienti dell’imitazione boccacce-
sca) alle volte è semplicemente un relitto di usi retorici, alle volte è
usato dal Boccaccio, consciamente o inconsciamente, per ottenere un
effetto sintetico: passare rapidamente sul resto per giungere all’atteso
verbo finale.
9. Culto delle tre corone
Il diffondersi del poema sacro suscita un’ammirazione sconfinata,
che subito dà origine a imitazioni. I miseri poemi che ne nascono
meritano appena menzione nelle storie letterarie; ma nella metrica
prende stabile piede la terza rima-, e nella lingua l’influenza dantesca è
sensibilissima: sia perché l’ammirazione del capolavoro porta all’accet-
tazione della lingua in cui è scritto (si pensi al verseggiatore veneziano
Giovarmi Quirini, in cui una leggiera patina dialettale appena copre
l’accettata toscanità), sia perché le reminiscenze di locuzioni e di
pàrole dantesche pullulano, nei maggiori e nei minori, in poesia ed in
prosa. Il poema si diffonde in copie numerosissime; i commenti si
moltiplicano; se ne fanno pubbliche letture in Toscana e fuori (a Siena
lo legge un maestro di Spoleto forse già prima del 1360; a Firenze il
Boccaccio; a Bologna, a Ferrara, a Verona, a Milano altri maestri). Nel
1379, a Perugia, l’opera dantesca è presa addirittura con valore
antonomastico: «livero de Dante o simiglie» è un articolo della Gabella
di quell’anno 39 .
. Nel riluttante Petrarca ritroviamo «il bel paese» (146, 13); «O Padre
nostro che nei cieli stai» IPurg ., XI, v. 1) è echeggiato da «Signor che’n
cielo stassi» (Trionfo della Morte, I, v. 70>, «l’ombra tutta in sé romita»,
dell’episodio di Sordello riappare nel verso «con tutte sue virtuti in sé
romito» ( Tr . della Morte, I, v. 152), ecc. Ma nelle opere del Boccaccio,
38 V. per es., sui gerundi «indipendenti», molto largamente usati dal Boccac-
cio, G. Herczeg, Lingua nostra, X, 1949, pp. 30-41.
38 Migliorini-Folena, Testi Trecento, n. 49. Del resto in un inventario siciliano
del 1367 si trova «librimi unum dictumn lu Dante, quod dicitur de Inferno», e «la
figura retorica sta a indicare un’opera universalmente conosciuta» (G. Santange-
lo. Lineamenti di storia della letteratura in Sicilia, Palermo 1952, p. 25).
Il Trecento
195
r CUlt ° di t Dante - troviamo reminiscenze frequentissime
allaco^SÒnp n H^f n n t0n & ° gni PÌè sos P iat °’ S ià nel’500 i Deputati
dl • D f c 1 a ™ erone avevano osservato (Annotazione
"frr: ^ 0lt la ?. uz . 1 °? 1 d el Centonovelle attinte alla Commedia E non
se 01 ^ n “° Va ha f0rt ~ improntato^
' efla^ «selva* oscura »* si
trovano nel Pucci (Mere. Vecchio, v. 205; Brito di Bretagna, v. 49); e così
TV1 ^l°?° do 1x1 cui Daate adopera due volte la parola lai (lnf V Pure
JSJf dà 1111 nuovo valore (non più «poesia per musica», ma «lamenS
a + 6 *’ ^ commentatori e poeti l’adoperano in questo senso (eià
^d infìni da ^!? ara ’ nel Cred ° P seud °dantesco, ha «con pianti e strida
, i a PP en a si divulgano la conoscenza del Petrarca lirico e duella
ri?I^f ame T e ’ la - fema associa i tre «attori nell'amSSone Sono
diversi qua-nto mai: eppure sono accomunati dalla strenua passione
per la forma. Finalmente il pubblico ha a sua disposizione ^ Ve
scntton, i quali possono servire a quello stesso scopo a cm il nafceSte
umanesuno fa servire i maggiori latini: essi diventano aJìon che
stilistico y^Jn^aticale.^ 8 ^* 1 ’ anChe considerati c °™ modello
n^el < ? u J t< ? P er n Petrarca e per il Boccaccio, come già in quello di
letten ? n venetl Sono all’avanguardia: è significativo che
gH Lo™t°i r? da 16 masse da ^ ella stessa regione in cui
Sedevo ^io avevan ° dat ° “ ™ p»
VeneriJlS Aranà V e UltÌmÌ anni della sua ** a Padova, a
avevano scattato S “ 1 m H Glovanni Doad i e Francesco di Vannozzo
Frnneec^n, b ^ * c °rrispondenza. n sonetto XXVIII di
si SSToSwSS ™JS amente dl/osse Wasce »> »<“ ***>
e la vermiglia gonna
partia col bianco (in megio era oro fino)
la palma letto e ’l bel braccio colonna.
non L £S?o 10 e n a ? 1 !^f rCheSCa porta n verseggiatore a dire braccio e
non arazzo, e a ipertoscanizzare mezzo in megio.
volgarizzatori (Andrea Lancia, ecc.). ’ PP ' 6 abbondano nei
pp. wllS**’ ,La V ° Ce lUÌ nei tGStÌ itaUan i». in Atti Acc. Se. Torino, LXXII, 1936-37,
196
Storia della lingua italiana
Il Trecento
197
L’influenza del Boccaccio è riconoscibile nella cronaca dei padovani
Gatari, la quale già verso il 1372 palesa la conoscenza del Decamerone
e del Corbaccio.
10. Preminenza di Firenze in Toscana e della Toscana in Italia
L’aver avuto scrittori eccellenti conferisce anche all’idioma in cui
essi hanno scritto un titolo di preminenza? È cosa che si potrebbe
discutere, ma che da molti secoli in Italia è tacitamente accolta come
assioma (cfr. la dantesca «gloria della lingua », che allude a gloria
letteraria). La coscienza di una posizione preminente, dovuta alle opere
letterarie dei suoi figli, già suscitava orgoglio in Firenze e in generale
in Toscana 42 alla fine del Duecento e al principio del Trecento,
provocando l’irritazione di Dante, che nel De vulgari eloquentia
giudicava usurpata la fama di più d’uno 43 .
Un’implicita ombra di vanto par di sentire nelle ripetute affermazio-
ni del Boccaccio riferite a sé stesso 44 e a Dante 4S .
Sulla misura della fiorentinità del Petrarca si può discutere (noi
accettiamo la formula del Contini «fiorentinità trascendentale»), ma
che egli si considerasse pertinente a Firenze, è certo: si pensi, tra
l’altro, al sonetto in cui dice che se avesse atteso in solitudine alla sola
poesia, Firenze avrebbe il suo poeta:
S’io fossi stato fermo a la spelunca
là dove Apollo diventò profeta,
Fiorenza avria forse oggi il suo poeta
42 I limiti della Toscana sono nettissimi dove sono segnati dal mare e
dall’ Appennino, incerti a sud-est e a sud. Perugia è esclusa da Dante, che
riconosce il suo dialetto come appartenente ai dialetti mediani («propter adfimta-
tem quam cum Romanis et Spoletanis habent»; De vulg. el., I, xud; ma la Signoria
di Firenze, dando istruzioni a un ambasciatore presso il papa, considera Perugia
in Toscana (Marzi, Cancelleria, càt., p. 698). La «Nota di tucti li maestri, di
gramatica che sono in Toscana», che è del 1360 (ed. O. Bacci, Castelfiorentino
1895) include maestri di Todi, Orvieto, Amelia, Rieti. . ,
43 «Post haee veniamus ad Tuscos, qui propter amentiam suam introniti,
titulum sibi vulgaris illustris arrogare videntur...», e tutto il cap. xni del libro I del
trattato. , _ . , , , ,
44 «In leggier rima e nel mio fiorentino idioma» (Proemio del mostrata); «le
presenti novellette... le quali non sono solamente in fìorentin volgare ed in prosa-
ma ancora in istilo umilissimo, e rimesso»-. Dee., Intr. g. IV, 3 (con polemica
modestia). .
45 «per costui la chiarezza del fiorentino idioma è dimostrata». Vita di Dante,
ed. Macrì- Leone, p. 11; «Movono molti., una quistione così fatta... perch é a
comporre così grande... libro... nel fiorentino idioma si disponesse», ivi, p. 71;. cfr.
«Fiorentino ydiomate» nella Crenologia, 1. XV, c. 6. Così dice composto il Convivio
in «fiorentino volgare» (Vita, ed. Macrì, p. 74). Per questa ragione egli volle anche
comporre la Vita «nel nostro fiorentino idioma» (Macrì, p. 7). Cfr. Rajna, Bull. Soc.
Dant., XIII, p. 8.
non pur Verona e Mantoa et Arunca.
(son. 166) 48 .
Coscienza delle qualità del fiorentino mostra anche il Proemio dello
Specchio di vera penitenza del Passavanti (1354): «mi pregarono che
quelle cose... che io per molti anni... aveva volgarmente predicato al
popolo... le riducessi a certo ordine per iscrittura volgare, sì come nella
nostra fiorentina lingua volgarmente l’avea predicate» (p. 6 Polidori).
I Fiorentini sembrano particolarmente sensibili alle differenze degli
altri dialetti: si ricordino le frasi dialettali che erano spiaciute a Dante
e che egli ricorda nel De vulgari eloquentia, o le parole dialettali
attribuite dal Boccaccio 47 e dal Sacchetti 48 a personaggi delle loro
novelle.
I biasimi dati dal Passavanti 48 con quasi uguale severità a tutti i
volgarizzatori delle Sacre Scritture, non esclusi i Fiorentini, non vanno
intesi come un confronto generale tra i diversi dialetti o le diverse
pronunzie d’Italia, ma vogliono richiamare l’attenzione sui pericoli vari
che corre la parola di Dio nelle mani degli ignoranti 50 .
Un Toscano contemporaneo di Dante, vissuto parecchi anni fuori
dalla regione natia, Francesco da Barberino, nel Proemio al Reggimen-
to e costumi di donna, attribuiva la palma al suo proprio volgare, pur
consentendo che qualche parola, purché bella e atta ad armonizzarsi
col resto, si potesse prendere da altre parlate-,
E parlerai sol nel volgar toscano
46 La parola poeta vuol dire in questa età essenzialmente (ma non esclusiva-
mente: basti ricordare Par., XXV, v. 8) «poeta in latino», e a Catullo, Virgilio e
Lucilio allude il verso seguente-, ma come la spelunca è insieme Delfi e Vaichiusa,
così forse poeta non è solo «poeta in latino». Lo stesso possiamo dire per le parole
con cui il vescovo Giacomo Colonna salutava la laurea capitolina del Petrarca,
«del novo e degno fìorentin poeta ».
47 La Lisetta veneziana parla di «mio marido» (TV, 2), Chichibio canta a
Brunetta «voi non l’avrì da mi (VI, 4), Jancofiore dice a Salabaetto «tu m’hai miso
lo foco nell’arma, toscano acanino» (Vili, 10), Tingoccio e il Fortarrigo senesi
adoperano costetto per cotesto (VII, 10; IX, 4), ecc. Del resto si ricordi la lettera in
cui il Boccaccio nel 1339 metteva scherzosamente per iscritto il dialetto napoleta-
no, narrando a Franceschino de’ Bardi il parto di Machinta amante di France-
schino e le visite e i regali che ebbe (ed. F. Nicolini, in Arch. stor. ital., s. 7 a , II, 1924,
pp. 5-102).
48 Uno spoglio (ma non completo) ne ha dato E. Mozzati, Rend. Ist. Lomb.,
Lett., LXXXV, 1952. La vivace curiosità linguistica del Sacchetti è anche dimostra-
ta dalla nota frottola, in cui egli accumula parole contadinesche, parole di altri
luoghi della Toscana, diminutivi, parole espressive (cfr. F. Ageno, St. fìl. ital., X,
1952, pp. 413 454).
49 Lo specchio della vera penitenza. Trattato della scienza, p. 288 Polidori.
50 II passo fu interpretato a suo modo dal Perticari nella Proposta del Monti Q,
Milano 1817, p. 44; II, ii, Milano 1820, p. 404), ridiscusso dal Galvani (Sulla verità,
delle dottrine perticariane, Milano 1845, pp. 299-307): v. G. Getto, I. Passavanti,
Milano 1943, pp. 16-17.
198
Storia della lingua italiana
Il Trecento
199
e porrai mescidare alcun volgari,
consonanti con esso,
di que’ paesi dov’ài più usato,
pigliando i belli, e’ non belli lasciando...
Il padovano Antonio da Tempo, nel 1332, concludendo la sua
S umma artis rithimicae, proclamava il primato del toscano: «Lingua
iusca magis apta est ad literam sive literaturam quam aliae linguae, et
ideo magis est communis et intelligibilis» (p. 174 Grion), soggiungendo
;uttavia: «non tamen propter hoc negatur quin et aliis linguis sive
idiomatibus aut prolationibus uti possimus».
Più tardi. Benvenuto da Imola, nel suo commento a Dante, afferma
3 enza esitazione: «Nullum loqui est pulcrius aut proprius in Italia
quam Florentinum» (.Comentum, I, p. 336 Lacaita} 51 .
Il veronese Gidino da Sommacampagna trattando di sonetti bilin-
gui e trilingui parla di «lingua volgara o sia toscana» (p. 51 Giuliani e di
«versi li quali sono l’uno in lingua toscana, l’altro in lingua litterale, e
lo terzo in lingua francescha» (p. 67).
E ancora un po’ più tardi, heQTtalia mediana, Monaldo di San
Casciano dei visconti di Campiglia rimproverava Simone Prodenzani
di usare troppe voci orvietane, avvertendo.-
che ’l vocabulo e 1 profazio
del Patrimonio nel paese esperico
non è accetto nel materno Lazio,
cioè, secondo la parafrasi del Debenedetti 52 , «i vocaboli e la pronunzia
che usano ad occidente del Patrimonio non sono di buon italiano» 53 .
IL II volgare nell’Italia settentrionale
Come si atteggi il volgare nel vario uso che se ne fa nelle varie
regioni, è assai difficile dire in breve. Si desiderano ancora saggi
monografici che, città per città o regione per regione, mostrino come il
volgare si sostituisca al latino nelle scritture; e poi con quali criteri,
51 D’altronde, Benvenuto apprezza specialmente quei Fiorentini che viaggian-
do hanno imparato a eliminare i loro idiotismi: «certe, quid quid dicatur,
Fiorentini qui hodie peregrinantur loquuntur multo pulcrius et omatius, quam illi
qui numquam recesserunt a limi te patri ae, quia dimittunt vocabula inepta, quae
sunt Florentiae, et assumunt alia convenientiora» IComentum, V, p. 160 Lacaita).
82 II « Sollazzo », Torino 1922, p. 143.
83 Questa preminenza toscana nell’uso letterario non impedisce tuttavia che
qualche Toscano trapiantato altrove dimentichi la propria parlata e non gliene
importi nulla: il pratese Piero Benintendi, portato fanciullo a Genova, scrive nel
1392: «Da tuti sono cognosuto e massimamenti per genovesse proprio quanto da li
genovexi, e così sono» {Lettere di P. B., ed. Piattoli, in Atti Soc. Lig. St. patria, LX,
1932 p. 60). Il Benintendi scrive secondo l’uso genovese senza traccia di fiorentino.
sotto l’influsso di quali modelli si formino le varie tradizioni locali. C’è
da precisare, insomma, quel che si vede ancora piuttosto aU’ingrosso,
come nel mettere per iscritto i volgari agiscano due spinte: quella verso
la nobilitazione e quella verso la generalizzazione. Ci si avvia così a
coinè sempre più vaste, dapprima sotto l’egida del latino, più tardi del
toscano.
Si vede abbastanza bene che il Piemonte e la Liguria sono piuttosto
isolati, mentre il resto dell’Italia settentrionale, l’Italia padana, come
potremmo chiamarla, o la Lombardia, nel senso medievale del termi-
ne 54 , costituisce un territorio non certo unitario, ma con scambi molto
fitti.
È necessario poi distinguere fra la poesia e la prosa; anzi fra i vari
generi di poesia e i vari generi di prosa. Nelle scritture in versi la lotta
fra i modelli francesi e provenzali e quelli toscani non è ancora ben
decisa al principio del secolo 55 , ma poi il gusto si volge decisamente ai
Toscani.
Un componimento in versi della metà del secolo, la canzone «Prima
che’l ferro» di Antonio Beccali, che ci è giunta in un testo molto
probabilmente autografo e comunque sicuro, ci permette un’analisi
precisa dell’ibridismo portato nel linguaggio della lirica dall’imitazione
toscana. Il Rajna, in un articolo di capitale importanza 55 , ha fatto
vedere come sia necessario distinguere i pochi testi genuini da quelli
passati attraverso trascrizioni più tarde, quando ormai la toscanizza-
zione era più avanzata 57 .
Il verseggiatore, che aveva indirizzato una sua canzone a France-
sco Ordelaffi e Galeotto Malatesta con lo scopo di stornare un duello
per cui già era corsa una sfida, qualche anno dopo, nel 1354, ne scrisse,
quasi certamente di suo pugno, ima copia. Ecco la prima stanza
secondo l’edizione diplomatica del Rajna.-
Prima che ’l ferro arossi i bianchi pili
Et che uergogna et danno in uu se spiecbi,
Scopritiue i-orechi,
Obtusi dal furore di uostri cori.
Siti uu goueneti, o siti uechi?
84 V. per tutti E. Levi, Francesco di Vannozzo, cit., pp. x-xi; M. Zweifel,
Untersuchung uber die Bedeutungsentwicklung von Langobardus - Lombardus,
Halle 192L
88 Penso alla «canzone di Auliver», intrisa di provenzalismi e di francesismi,
di vernacolo e di latino: caso «forse teratologico» (Contini, Paragone, aprile 1951, p.
12), certo capriccioso («tut (gol che de li savii eu sia el men savio»). Vedi G. B.
Pellegrini, La Canzone di Auliver, Pisa 1957.
88 «Una canzone di Maestro Antonio da Ferrara e ribridismo del linguaggio
nella nostra antica letteratura», in Ciom. stor. lett. it., XIII, 1889, pp. 1-36.
87 Si ripete anche qui pressappoco quello che è accaduto per i testi della
scuola poetica siciliana, quasi tutti alterati dai più tardi trascrittori. Con ben
altra sicurezza potremmo giudicare della lingua dei rimatori settentrionali se
possedessimo in abbondanza testi autografi o molto prossimi all’autografo.
200
Storia della lingua italiana
Siti uu plebesciti, o uer gentili?
Siti uu franchi, o uili?
Siti uu in pigol grado, o uer sengnori?
I credo pur che ga diuersi honori
Ho receuuto in su i-uostri theatri:
Però, miei magori patri,
Qaschun rafreni in si l’ardita mano
Al son de mia tronbecta!
Ch’a le parole d’una uedouecta
Tardoe ga de ferire el bon Traiano.
Et se mio dir fie uano,
El no ue mancherrà finir questa opra.
Che danno et desenor conuen che scopra 58 .
Alcuni tratti ci attestano la fedeltà del Beccali a tradizionali
peculiarità dialettali e interdialettali padane: p. es. la metafoma (non
solo in pili, che potrebbero anche essere un latinismo, ma anche in
accisi, amisi, paisi-, però honori, segnori senza metafoma), 1 pronomi ^
tonici mi, si, vu, (una volta vui ), e soprattutto le seconde persone m -ati,
-iti, che vanno considerate come una caratteristica stabile del padano
illustre, da Guido Fava al Boiardo. f , . .
Il latinismo appare soprattutto nella patina ortografica (obtusi
honori, theatri, -et- per -tt- legittimo o illegittimo, ecc.), ma anche nel
lessico {angue, audienza, ecc.). , , . , . -,
Quanto al toscanismo, esso appare, oltre che nel lessico, sostanzial-
mente conforme a quello dei poeti toscani del Trecento, anche in tratti
fonetici e morfologici: la g- palatale compare {già 26 giovenecto 28)
accanto all’affricata z (ga 9, ?o veneti 5); nella formazione del futuro e del
condizionale della l a con., troviamo (accanto a un bastarebe 44) un
mancherrà (18), che rivela non meno con la vocale -e- che con la -rr-
geminata le intenzioni toscaneggianti; accanto al piu frequente suffisso
-èro -era {mesterò, cavalero, altero-, schera, banderai appare un esempio di
-iero (plur. destrieri, 45). „ ,, . , . , .
La canzone dimostra con assoluta evidenza 1 orientamento dei
rimatori dell’Italia padana alla metà del secolo-, e insieme ci fa vedere
con quale circospezione dobbiamo valerci dei testi giuntici in copie piu
tarde 59 . —
58 Gli altri quattro codici danno tutti una lezione di aspetto assai più
moderno in cui vanno perduti i tratti caratteristici della lingua del Beccan-. il pili
del primo verso, che è confermato dalla rima (gentili, vili), è mutato m peli-,sjnechi
rSeso e riprodotto con specchi (mentre il rimatore intendeva spieghil e cosi
Via 's® Un critico di solito prudente, il Medin, aveva creduto di poter attribuire a
un Toscano Zenone da Pistoia, il poemetto sulle vicende di Francesco Novello da
Carrara fondandosi sulla veste toscanizzata in cui esso appare nell edizione del
T-a mi (Deliciae erud., XVI); la scoperta di un altro testo piu V1C1 ™
portò all’attribuzione a Pavano dei Rizzoletti, famiglio di Francesco (Medin, Atti
Ist Ven., LXXXII, i, pp. 110-111, 148).
Il Trecento
201
In vario grado e misura, quel che si è detto vale per i rimatori di
quest’età fioriti a Milano, a Verona, a Padova, a Treviso, a Ferrara, a
Bologna, a Ravenna, sia come privati che frequentando le corti.
Dobbiamo tener conto, in conclusione, di questi quattro fattori:
tratti coincidenti con quelli della parlata locale; tratti illustri, interdia-
lettali, radicati nell’uso scritto di zone più o meno vaste; tratti
latineggianti; tratti toscani, provenienti dall’imitazione dei poeti tosca-
ni; e i testi ci mostrano come quest’ultimo fattore acquisti importanza
di generazione in generazione.
Meno sensibile è l’influenza del toscano quando si passi dalla lirica
ad altri generi di scritture in versi, laudi, cantari, serventesi, lamenti
ecc., via via fino alle frottole, il cui capriccioso realismo porta piuttosto
all’imitazione del linguaggio popolare nelle sue bizzarrie. Già in questo
secolo troviamo qualche esempio di «letteratura riflessa» in dialetto-, si
pensi al sonetto caudato in dialetto pavano indirizzato da Marsilio da
Carrara a Francesco di Vannozzo:
Di-me, sier Nicolò di Pregalea,
se Dio v’aì, si-vu sì embavò,
e alla risposta di questo 80 , alla frottola in veneziano dello stesso
Vannozzo 61 , oppure alle frottole bolognesi di Antonio Beccali 62 .
Passando alla prosa, dobbiamo osservare anzitutto che non trovia-
mo testi che si possano qualificare prosa d’arte. Nei trattati morali,
ascetici, didattici, nei romanzi epici, nelle cronache non sentiamo alcun
afflato artistico: allo sforzo d’arte è ancora destinato il latino. Tanto
meno potremmo aspettarci di trovarlo nei testi dichiaratamente prati-
ci: lettere, testamenti, statuti di confraternite, bandi, statuti comunali,
ecc.
Riprendiamo un momento la canzone del Beccali, per guardare il
testo in prosa («la tema») che l’accompagna. Basta un esame sommario
per vedere che esso è molto più «padano» della canzone. Si osservi, per
esempio, il trattamento della -t- fra vocali: il testo in prosa ha
inguadiada, fradello, armadi (oltre a parentado e servidore ), cioè di
regola si ha la sonora; invece la canzone ha recevuto, ardita, canuta,
muta, togati, pentiti, date, prisato, coronato, cioè di regola si. ha la
sorda 63 .
Qualche osservazione analoga si può fare anche per la morfologia:
nella prosa troviamo un gerundio siando, del consueto tipo diffuso in
tutta Tltalia settentrionale (gerundio e participio in -andò per tutte le
80 E. Lovarini, Antichi testi di lett. pavana, Bologna 1894, pp. 1-3; Vannozzo, ed.
Medin, pp. 40-41.
81 Ed. Medin, pp. 137-162.
“ E. Levi, Maestro Antonio da Ferrara, Roma 1920, pp. 32-35.
63 Nello spoglio dei Rajna, p. 19 si leggono solo i tre esempi con sonora tratti
dalla prosa, e chi non scruti bene non s’accorge che lo sforzo di maestro Antonio,
la sua «innovazione» sta nelle forme toscaneggianti, quelle con la sorda.
202
Storia della lingua italiana
coniugazioni: dagando, corando, romagnando, digando, ecc.: Rohlfs,
Hist. Gramm., § 618), nella poesia un vincendo, in cui alla principale
spinta toscana può darsi che si unisca la spinta latineggiante.
Alla metà del secolo, insomma, i testi in prosa sono molto più
arretrati di quelli in versi per ciò che concerne l’accoglimento di ima
norma comune fondata sul toscano.
I testi dell’Italia padana di questo periodo assai difficilmente, se non
soccorrano dati estrinseci, si possono attribuire a un preciso luogo
d’origine, ma tutt’al più a ima certa area relativamente vasta, perché
gli scrittori tendono a eliminare le caratteristiche più salienti del loro
dialetto locale, e se mai mantengono di esso alcuni tratti conservativi.
Meglio d’ogni altro ha studiato questo fenomeno il Salvioni 64 : si
avverta tuttavia che quando, a proposito del Belcalzer, egli parla di
«condizioni di poca sincerità linguistica di tutta la letteratura medieva-
le alto-italiana», egli non fa altro che definire spregiativamente proprio
quell’aspirazione alla coinè di cui stiamo indagando le tracce.
Di generazione in generazione, il ravvicinamento si fa più sensibile.
Si consideri un tratto fonetico molto diffuso in vaste zone dell’Italia
settentrionale, l’apocope di -o ed -e finale non solo dopo le liquide e
nasali, ma anche dopo altre consonanti (o gruppi di consonanti): dii,
corp, mes, ecc. Nella scrittura si estende sempre più la tendenza a
eliminare questo tratto, munendo le parole di vocale finale (che talora
non è quella etimologica) 85 : si confronti, ad esempio, l’abbondanza delle
apocopi in Vivaldo Belcalzer, che scriveva a Mantova prima del 1309
( sot , element, serad «serrato», did «dito», old «ode», lus «luce», spess, log,
soreg, negr, monstr, oltre a musei, mor, man ecc.) 68 , con l’abbondanza di
vocali finali che troviamo due generazioni dopo in testi della cancelle-
ria di Mantova (fato , tufo, falso, parte, ecc.; notevoli le false regressioni
come lialmento «lealmente», cognossero «conoscere», voliro «volere»,
Esto «Est e») 87 .
Questa tendenza si esercita anche sui dialetti parlati, specialmente
nel Veneto, e ne muta sensibilmente la fisionomia 88 , contribuendo, con
altri fenomeni che si manifestano appunto in questo secolo (dittonga-
mento di e, o; intacco di pi, bl, cl, gli a fare dei dialetti veneti i più simili,
nell’aspetto generale, a quelli toscani.
M Ricordiamo l’articolo sulla lingua del Belcalzer (in Rend. Ist. Lomb., XXXV,
1902, pp. 957-970) o quello sul Libro dei battuti di Lodi IGiom. stor., XLIV, pp. 421-
422).
65 La frequenza della -o finale nei testi veronesi, e non solo in quelli, si spiega
così, meglio che per la necessità fisiologica d’una «vocale d’appoggio».
66 Salvioni, Rend. Ist. Lomb.. s. 2 a , XXXV, 1902, p. 962 (che cita poche
ricostruzioni, come zove « giogo»).
87 Si vedano la lettera (1366 o 1367) e il bando (1369), riportati in Migliorini-
Folena, Testi Trecento, nn. 39 e 40.
98 Si pensi all’abbondanza dell’apocope in un dialetto vicinissimo al venezia-
no, quello di Lio Mazor: dis, tu vegnis. me dies (Migliorini-Folena, Testi Trecento,
n. 5).
Il Trecento
203
hon^ì!? SOI T ia 1x1 quest< ? secol ° parecchi tratti regionali sono ancora
rh^ ^ lo T n ^ento verso il lessico e la grammatica toscana,
che per ì versi è già forte, non è che agli inizi per la prosa.
12. Il volgare nell’Italia mediana
Anche qui bisogna distinguere la poesia dalla prosa.
r. fl nt U ? bna ha, una sempre viva fioritura di poesia religiosa, special-
mente drammatica. Verso la metà del secolo, anche a Perugia si fa
sentire 1 influenza letteraria e linguistica della Toscana: e i versi del
ouem°del m °strano un colorito un po’ meno perugino di
fi ue |h del Moscoli, di qualche anno più antichi 88 .
sent o lto (p ' ì® 8) quali rimproveri si movessero alla
lingua dell orvietano Simone Prodenzani. Invece, alla fine del secolo il
lolignate Federico Prezzi scrive in una lingua in cui ormai sopravvivo-
no pochissimi tratti umbri. Anche Francesco Stabili scrive l’Acerba in
tratti grammaticali e lessicali ascolani, ma in cui
-™ 1 " lo stu <h° dell odiato Dante, il «poeta che finge immaginando
cose vane», e del toscano letterario.
• Gi °stra dei vizi e delle virtù e il Pianto delle Marie mostrano una
, ™ moltl latuusim > Qualche provenzalismo, sensibili tratti regio-
^mzione fra U e fV C> ’ pp? 1 * 1 P ers - Plur. ind. pres. in -ima, ecc.).
, umbri e marchigiani in prosa sono quasi tutti di carattere
P^P° l e relativamente ormai non scarsi di contro a quelli la tini) -
anch essi sono ancora fortementi dialettali, benché già si comincia
Hm a ^/ qU ? Che D fratt ° municipale e regionale. Si pensi a regressioni del
dal tipo quanno eTUgia ’ 16 qUa11 mostrano come si ten da a rifuggire
HwJiS- 0 ^ d ^Ì testo 1x1 P rosa c he si possa qualificare prosa
c ai *F e a ^ mfùon della Toscana, gli Historiae Romanae fragmenta, noti
specialmente per 1 capitoli che costituiscono la Vita di Cola-, il dettato
semplice eppure vigorosamente incisivo rivela un vero scrittore. Pur-
jl ( °?P?P er la hnpia è assai difficile dire fino a che punto si scosti dalla
parlata «naturale» di Roma, sia per la mancanza di testi a riscontro
sia per le incertezze in cui ci lascia la tradizione manoscritta 71 .
Ma essi sono conservati nello stesso codice, il Barb. Lat. 4036 e ci è diffìcile
valutare fino a che punto sia intervenuto il copista
i T lnven tanodi confraternita del 1339 (Migiiorini-Folena Testi Trec n
se “P re nfento ah* colonna della flagellazione di Gesù, è anche ki
aude drammatiche perugine (De Bartholomaeis, I, pp. 40 e 224 ).
volte promessa edizione critica, bisogna adoperare
Frugoni Fkenz^ias^Cfrc^Riri^ * ?° l ? dÌ Rienzo ' Faenze 1928 o quella di A
rrugom, Firenze 1S57. Gfr. G. Bertoni, «La lingua della Vita di Cola di Rienzo» in
Lingua e pensiero, Firenze 1932, pp. 73-84, F. A. Ugolini, «La prosa derii Lfoforioe
sS,® della coslddetta Vita di Cola di Rienzo », in Arch. Soc. rom.
204
Storia della lingua italiana
Accenniamo qui anche agli Abruzzi, per quanto appartenenti al
regno di Napoli: nella zona aquilana troviamo una vita comunale e
religiosa assai forte, che trova espressione in non pochi testi volgari. I
versi Ge laude drammatiche, il Detto dell’Inferno, Buccio di Ranallo)
mostrano una lingua più. dirozzata che la prosa: si pensi alla -u finale
che nei versi è ormai spesso evitata, mentre nella prosa ancora
predomina. E, nei versi di Buccio, troviamo sintomatiche regressioni:
vedembo «vedemmo», abembo «avemmo», ecc.
13. Il volgare nell’Italia meridionale e nelle isole
Nel regno di Napoli 72 la situazione nei primi decenni del secolo è
all’ingrosso simile a quella dell’Italia padana-, si hanno vari poemetti di
tipo morale o didattico (come il Libro di Catone o i Bagni di Pozzuoli) in
una coinè con parecchi caratteri meridionali. Nel Serventese del
Maestro di tutte le arti, che è della fine del secolo (o del principio del
secolo seguente) appaiono ormai numerosi toscanismi (so accanto a
saccio, ecc.) 73 .
Del tempo di re Ladislao abbiamo parecchi poeti petrarcheggianti, i
cui versi sono contenuti nel codice Laurenziano Gadd. Rei. 198 74 : ma
non siamo in grado di dire fino a che punto la lingua sia stata
toscanizzata dal trascrittore.
Quanto alla prosa, il monumento più importante, la cosiddetta
Cronaca di Partenope, non solo è un conglomerato di quattro parti
diverse, ma ci è giunto in tradizione varia e per lo più tarda e cattiva 73 ,
cosicché mal ci si può fondare sui testi fin qui pubblicati per lo studio
della lingua. Ancor peggiore è lo stato della Tabula Amalfitana, che ha
avuto varie stratificazioni, fra cui l’ultima probabilmente risale agli
ultimi anni di Roberto d’Angiò.
Parecchi volgarizzamenti di testi di morale e di scienza applicata
(agricoltura, chirurgia, mascalcia) sono mal pubblicati o tuttora inediti.
La mancanza di vita comunale nel Regno fa poi sì che manchino
quei testi documentari locali che abbiamo più o meno copiosamente
altrove. La Sicilia nei primi decenni del secolo è racchiusa in sé e tende
a costituire un siciliano cancelleresco, con una fisionomia piuttosto
stabile (il «vulgari nostro siculo», come allora fu detto).
Nella seconda metà del secolo anche in Sicilia il toscano comincia a
prendere autorità di lingua letteraria; si legge Dante, e Tommaso
12 A. Altamura, «Appunti sulla diffusione della lingua nel Napoletano», in
C onvivium, 1949, pp. 288-297; Id., Testi napol. dei secoli XIII e XIV, Napoli 1949.
73 V. l’edizione e l’illustrazione del Rajna, Zeitschr. rom. Phil., V, 1881, pp. 1-40.
7< F. Torraca, «Lirici napoletani del sec. XIV», in Aneddoti di storia letteraria
napoletana. Città di Castello 1925, pp. 99-134. —
75 G. M. Monti, «La Cronaca di Partenope (premessa all’ed. critica)», in Annali
Semin. Giur. eco n. dell’Un, di Bari, V, 1932.
Il Trecento
205
Caloiro, amico del Petrarca, gli rivolge un sonetto toscano che testimo-
nia 1 ammirazione dei Siciliani per il poeta di Laura («Almen per lei voi
già per nome chiama - Cicilia tutta...»). Scarse sono le testimonianze
poeticheria Quaedam profetia o Lamento di parte siciliana, probabil-
mente del 1354, e poco altro 76 . In prosa abbiamo documenti d’archivio e
lettere^ 7 , costituzioni religiose 78 e poi testi morali e storici (per lo più
traduzioni o compilazioni): il Dialagu de Sanctu Gregoriu, la Sposizione
del Vangelo della Passione, Ylstoria di Eneas, il Valerio Massimo, ecc.
L eccellente edizione del Dialagu data da S. Santangelo 79 ha anche
importanza paradigmatica, perché ci mostra come fi testo, trascritto
nella pnma metà del sec. XIV da mano siciliana (e integrato più tardi
da copisti calabresi), fosse nel secolo seguente esemplato in due altri
manoscritti, che ci si presentano fortemente toscanizzati. Se ci rima-
nessero solo questi ultimi, G giudizio sulla lingua del traduttore
sarebbe molto diverso, e inevitabilmente falsato. L’Istoria di Eneas,
come ha mostrato nella sua edizione il Folena 80 , dipende da un testo
toscano (un volgarizzamento compiuto da A. Lancia), che il volgarizza-
tore non di rado fraintendeva (come quando mutava in sochira il
scrocchia del Lancia).
Forme toscaneggiantì come giomu e più appaiono nel volgarizza-
mento del Vangelo di S. Marco (in caratteri greci) della seconda metà
del Trecento.
14. I fatti grammaticali e lessicali
Una descrizione dei fatti grammaticali e lessicali dei Trecento, o
meglio ancora delle varie fasi del Trecento, non si può certo dare in
poche pagine. Né, purtroppo, si possono indicare monografìe che in
qualche modo la sostituiscano.
Siccome 1 italiano normale odierno per la sua maggior parte ancora
coincide con l’italiano trecentesco, le descrizioni che sono state fatte 81
sono di regola «differenziali» e non integrafi, cioè rendono conto
soltanto, o quasi soltanto, di quelle peculiarità per cui l’italiano
trecentesco differisce da quello moderno.
™ r ' T Cl ^ iinano ’ Poesie siciliane dei sec. XIV e XV, I, Palermo 1951
, . Goto, Vulgare nostro siculo, I, Firenze 1951; v. anche P. Palumbo, Boll
del Centro di st. filol. e ling. siciliani, I, 1953, pp. 233-245.
Bugole, costituzioni, confessionali e rituali a cura di F. Branciforti, Palermo
1953. 1 .capitoli della prima compagnia di disciplina di Palermo ( 1343 ) sono redatti
tenendo presenti quelli di analoghe compagnie di Firenze e di Genova (p. x)
Libra de lu Dialagu de Sanctu Gregoriu translatato pir frati Ioanni Campulu
1933 SSlna ’ m Aca Sc ‘ attere e belle arti Palermo, Suppl. agli Atti, n. 2, Palermo
_. , “ La Morì 0 di Eneas vulgarizata per Angilu di Capua, a cura di G. Folena
Palermo 1956.
81 P. es. la tesi, del resto mediocre, di C. Steger, Appunti sulla lingua delle
«Novelle, di F. Sacchetti, Duren 1930 (il titolo è in italiano, il testo in tedesco).
206
Storia della lingua italiana
Dovremo far così anche noi nei paragrafi seguenti, pur rendendoci
conto che questa prospettiva è parziale, e che invece una descrizione
rigorosa richiederebbe di tener conto sia di ciò che è morto che di ciò
che tuttora sopravvive. ,
Da quanto si è detto fin qui, risulterà poi chiara un altra esigenza
metodica. La descrizione dei testi di Firenze, e del resto della Toscana
va tenuta distinta da quella delle altre regioni; e per queste ci si dovrà
domandare fino a che punto l’aspirazione verso una coinè sia soddi-
sfatta per mezzo dell’eliminazione di singole peculiarità, di conguagli
con dialetti vicini, dell’aiuto del latino, e da che punto invece si cominci
a rivolgersi per aiuto ai modelli toscani.
15. Grafìa
La grafia trecentesca è senza confronto più instabile della nostra. I
più oscillanti sono ancora i suoni velari e palatali: cane o chane (fe e in
regresso, ma non è del tutto sparito), pace o pacie, degno o dengno,
figlio o fìglo o filglio. Poi c’è grande esitazione nell’applicare o no la
grafia del volgare alle parole colte: onore o honore (per lo più si scrive
atti honesti, ma lonesto e donesto, dove noi ora usiamo 1 apostrofo),
rapto o ratto, letizia o letitia **, teatro o theatro, ecc. _
Le scempie e le doppie sono spesso incerte, particolarmente dopo
alc uni prefìssi (a-, prò ); per rappresentare il rafforzamento di q, il
Petrarca passa da giaqque degli abbozzi a giacque del manoscritto
definitivo (nel son. «Qual mi fec’io»). .
L’interpunzione è nei manoscritti, specialmente m quelli volgari,
ancora scarsissima (mentre già i trattatisti di quest età teoricamente
distinguono molti segni) 83 . P. es. nel codice Trivulziano della Commedia
si ha un punto alla fine di ogni terzina, e nuli altro. L uso delie
maiuscole, almeno nei manoscritti più accurati, s’accosta a quello
odierno (nomi propri o adoperati come tali). Si ha qualche esempio, ma
rarissimo, di accento acuto. E nei versi è frequente, benché tutt altro
che regolare, il punto soscritto per indicare l’espunzione 84 .
32 Già il Salviati, Avvertimenti, I, ni, 3, 11, dà elenchi di manoscritti trecente-
schi che preferiscono l’una o l'altra grafia. Il Battaglia, nell’ ed. (p -
cxxrv) cita casi in cui il Boccaccio oscilla ( letizia , ma malitia, tnstitiaì. L h e
talvolta adoperato per indicare che non c’è assibilazione della t : p. es. malathia,
mercanthia nel Re Giannino, consenthio negli Statuti di Perugia del 1342. ecc.
83 V. specialmente F. Novati, «Di un’Ars punctandi erroneamente attribuita a
F. Petrarca», in Rend. Ist. Lomb., s. 2®, XL1I, 1909, pp. 83-118.
84 In mancanza di lavori complessivi sulla grafia e sull interpunzione convie-
ne ricorrere alle prefazioni delle migliori edizioni critiche: la Vita, Nuova del
Barbi, i Testi fiorentini dello Schiaffini, la Teseida del Battaglia, le «ime del
Sacchetti a cura del Chiari (cfr. anche, per il Sacchetti, F. Ageno, m St.fU.ual., Xi,
1953 pp. 258-262), le opere del Torini a cura di I. Hijmans-Tromp, Leida 1957, pp.
175-208. Sulla grafia del Petrarca, v. Parodi, Lingua e letter pp. 443-452 e la
monografia dell’Ewald (cit. nella nota a pag. 205).
Il Trecento
207
Le peculiarità locali e regionali non mancano, benché non sempre
geograficamente ben delimitabili. Nella Toscana stessa, solo Lucca e
Pisa distinguono nella scrittura la s sonora, rappresentandola con una
z. NellTtalia padana ce, ci valgono spesso ze ozi-, a Genova c palatale è
espressa talora con ih isihavo per sc’avo); nell’Italia meridionale è
frequente cz, oltre che per z sorda, per cc palatale isaczo, cioè saccio) 85 ;
in Sicilia eh è ancora costante per la c palatale ( chircari ; ma anche per
kj: choviri, chudirìì; con l’indebolirsi dell’uso di fe e la penetrazione
dell’uso continentale di eh con valore velare ( chi «che») nascono
incertezze icantichi sarà da leggere con palatale o con velare?). Si noti
il tentativo di rendere la g velare con gk (longki nella Regula di S.
Benedittu, cap. 18, ed. Branciforti).
16 . Suoni
Manca un quadro sicuro come quello tracciato dal Castellani per il
fiorentino del Duecento, sul fondamento di testi non letterari. Qui sotto
ci accontentiamo di notare rapidamente alcuni fenomeni tipici 88 .
Prevalgono ancora le forme dittongate nelle serie priego e pruova
(dopo i gruppi di esplosiva seguita da r).
La riluttanza contro il dittongo au (dovuta a reazione contro la
tendenza a mutare altro in autro e sim.) si manifesta nell’alterazione
dei latinismi che lo contengono: laida, altore (che tuttavia sono forme
limitate agli strati più plebei).
Forme sincopate come rompre, lettre (di tipo toscano occidentale)
sono possibili anche in poesia (Petrarca).
È probabile che proprio nel sec. XIV in Toscana la c di aceto, dieci,
passasse da affricata (schiacciata) a spirante, conguagliandosi alla -c-
di bacio, brucio (Castellani, Nuovi testi, pp. 29-31, 161-162).
Gli esiti in c palatale e z oscillano non di rado: tendone (passim),
incalciare (passim), e viceversa bonazza, brezze.
È possibile davanti al pronome tu la caduta della finale dei verbi in
-si e -sti e della congiunzione se-, fostù, postù, pregastù, stu, ecc.
L’r finale dell’infinito apocopato può assimilarsi alla consonante
successiva: troviamo in rima vedetta «vederla» (Petr.), emendallo
(Bocc.), gittalla (Pucci), avella (Canigiani), guidagli «guidarli» (Folgore),
credégli (Bocc.), ecc.
Fuori della Toscana, l’imitazione delle caratteristiche toscane co-
mincia a produrre fenomeni di iperurbanismo, cioè regressioni. Trovia-
mo nel Settentrione il tipo gioglia, noglia. Dalla pronunzia toscana di
85 Anche in Toscana ai trova cz, ma per zz-, v. Areczo, passim, nell’Append. Ili
del Marzi, Cancelleria-, fermerà, Firencge negli Statuti dell'arte dei vinattieri
(Firenze, 1339), ecc.
86 Sottintendiamo, in questo paragrafo e nei seguenti, i rinvii alle trattazioni
corrispondenti del Meyer-Lùbke e del Rohlfs.
208 Storia della lingua italiana
-aio come trittongo l’autore della LmàrMi si ^ «utorizzatoa far
SSFaESSSffiSaajr
crede). E così via.
27. Forme
g^SSr&^S ^frvSSroe^arianridel
SS &5 K “lc^to Pr a ' SSS, ^
smesk^^-ssìsìb
2S2SS3.^55Sf^?«SSSSSS
Sal Quanto ai pronomi, troviamo già, seppure ancor Stoì
LÌ seguito
da !Jt?ar te sS
££ ^Sto^T^CaSSmTla 6 SS Affuso d£ ÌZ£
PlU É^“cl“S antiUnnmerodne (d ne,dni,^o,
- Ma è vivissimo negU Statuti di Perugia del 1342= campaio, plur. campai
denaio, plur. denare, ecc.
Zi Trecento
209
dua); non sono rare, sia in prosa che nel verso, le forme sincopate del
tipo venzei, venzette.
Quanto al verbo, si noti anzitutto che le differenze fra tema tonico e
tema atono sono tuttora numerose: io aiuto alterna con aitare, atare; io
manuco con manicare, ecc. Nelle terminazioni del presente tu ami è
ormai normale, ma tu ante persiste come variante poetica. La termina-
zione -iamo è ormai generalizzata per tutte le coniugazioni (noi
amiamo, noi vediamo, noi finiamo), ma -amo -emo -imo ancora
persistono a Pisa, Lucca, Arezzo-, alcune forme (specialmente avemo)
sono tuttora adoperabili non solo nel verso (avemo, Bocc., Tes., V, 52,
Amor. Vis., XXXIII, 18; vedemo, sapemo e anche calchemo, Tes., XII, 7),
ma talora anche in prosa («sì come già più volte detto avemo»-. Dee., II,
7, 39)“.
All’imperfetto, predominano nella 2 a con. le forme in -avute lavavate,
ardavate, diciavate ha il Boccaccio in prosa e in verso).
La distribuzione tra passati remoti forti e deboli non sempre
coincide con quella odierna (crese per «credette», vivette per «visse»
ecc.); e non sempre coincidono le forme (dolfe «dolse»). Le forme
tronche perdé, salì sono ormai normali, pur conservando accanto a sé
quelle epitetiche perde o, salio, di tono aulico oppure plebeo. Nelle 3°
pers. plur. dura a lungo la lotta tra varie terminazioni: nei perfetti forti
scrissono, scrissoro, scrissero, nei perfetti deboli andaro, andarono,
andomo, andonno™. Al futuro e al condizionale della l a con. i Fiorentini
adoperano -ero ecc., non senza qualche eccezione (gittarà, Bocc., Dee. II,
10, 21). La sincope è assai estesa: lavorrò, lacerranno, dimorrò, rendrà,
guarrò, e anche dranno, srete. Le forme sincopate sono facoltative: p.
es. il Pucci usa menerò e menrò secondo la misura del verso. Talora si
ha anche assimilazione: sanò «salirò». Per analogia con le forme
sincopate o metatetiche (entenà, mostenò ) sono nate numerose forme
con -rr- non etimologica: trovenò, gridenete.
Nei congiuntivi passati stentano a stabilizzarsi le terminazioni: io
avesse (Sacch.), tu vedesti (Petr.), (voi) prendesti (Compagni), (voi) credessi
(Bocc.).
L’imperativo in -e è frequente non appena si esce da Firenze:
consente (Bonichi), ecc.
Numerosissimi sono i participi senza suffisso: cerco, guasto, tocco,
véndico, visso ecc.
Non appartiene all’uso del tempo, ma è un vivace stilema individua-
le, quel superlativo del gerundio che troviamo in Giordano da Rivalto:
«andronne in ninfemo? Sì bene, ritto, ritto, correndissimo» (Pred ., XXI,
p. 119 Narducci).
88 II pregamote del Sacchetti, nov. 169, è messo in bocca ai Perugini.
89 Si veda su queste oscillazioni (e sulle forme scriverebbero, scriverebbono,
scrivessero, scrivesson o) il saggio di G. Nencioni, Fra grammatica e retorica-, ottimo
esempio di interpretazione di un fenomeno di grammatica storica alla luce della
storia della cultura.
210
Stona della lingua italiana
Avere ha ancora parecchie forme parallele: aggio, specialmente
nella tradizione della lingua poetica; abbo, specialmente a Lucca. Dea e
stea sono ancora le forme prevalenti per «dia» e «stia».
L’ausiliare avere è frequente con i riflessivi di vario tipo: «quando
non se l’avesse messo» (Passavanti, Specchio, p. 62 Poi.), «s’avea messi
dinanzi da la fronte «(Dante, Inf., XXXIII, v. 33), «s’oveo posto in cuore
di non lasciarla mai» (Boccaccio, Dee., Ili, 6, 49), « avendosi dato
piacere» (Sercambi, Nov., p. 226 Renier), «ora te l’hai dimenticato» (ivi,
300), ecc.
Nelle parole invariabili, ricordiamo la frequenza del costrutto
incontragli, dattomovi, addossoti, dentrovi. Mediante è ormai adopera-
bile anche con plurali: « mediante molti avversi casi» (Bocc., Filocl
Ai brevissimi cenni dati fin qui su peculiarità dell’uso toscano
andrebbero aggiunte numerose trattazioni riferite alle altre zone, sia
per registrare i fenomeni radicati localmente, sia per vedere i più o
meno sensibili accenni di penetrazione toscana. Ci limitiamo a indicare
mi paio di esempi.
Già abbiamo ricordato quanto salde siano, nell’Italia padana, le
terminazioni -ati, -eti, -iti alla 2 a pers. plurale. I testi napoletani hanno
ima caratteristica che permarrà ancora per secoli, gli infiniti e i
gerundi coniugati: «medici li quali saneza alchuna cantate domandano
essereno pagati» (Cron. di Partenope, c. XXVI).
L’espansione di -tomo negli indicativi a spese di -amo -emo -imo si
vede bene in Umbria, dove i testi in prosa (p. es. lo Statuto perugino del
1342) hanno sempre queste ultime forme, mentre nelle laude e sacre
rappresentazioni umbre (De Bartholomaeis, Laude dramm. e sacre
rappr., I) le forme in -iamo appaiono in certo numero.
18 . Costrutti
Anche per la sintassi ci limiteremo a ricordare alcuni costrutti
frequenti in questo tempo e più tardi abbandonati 90 .
Il di partitivo è larghissimamente in uso: «e domandar del pane »
(Dante, Inf., 33, 39), «tra li uccelli à di valenti medici» (Esopo Guadagni,
XIII), «di valentissimi vini e confetti fecer venire» (Bocc., Dee., I, 10, 14).
Il costrutto appositivo con di si può appoggiare al sostantivo con il
semplice articolo determinativo («il cattivel d’Andreuccio», Bocc., Dee.,
II, 5; «del cattivello di Calandrino», Dee., Vili, 7, 1-, «lo innamorato di
Paolo», S. Caterina; cioè «quell’anima ardente d’amore che fu San
Paolo») 91 .
90 Qualche buon saggio abbiamo solo per costrutti singoli, e per la sintassi del
periodo, che, studiata in autori singoli, va a identificarsi con la stilistica.
91 A. Lombard, «Li fel d'anemis», «ce fripon de valet», in Studier i mod. spr.,
XI, 1031, pp. 1-69; S. Lyer, in Zeitschr. rom. Phil., LVIII, 1938, pp. 348-359.
Il Trecento
211
Non ha bisogno di preposizione il costrutto «in casa i Frescobaldi»
«a casa il diavolo» 02 .
È ancora libero 1 uso dell articolo col di del complemento di materia,
aa ? 1, se precede 1 articolo determinativo, si preferisce la preposizione
articolata («le colonne del porfido»: Bocc.F, invece più tardi diventerà
obbligatorio l’uso della preposizione semplice 93 .
Si adopera l’articolo indeterminativo nei costrutti «ima sua madre»
«una sua donna» (Bocc., Dee., Il, 6; IH, 9; IV, 3).
Il superlativo in -issimo può avere talvolta valore di superlativo
relativo («la Rettorica è soavissima di tutte l’altre scienze», Conv., II
’ esso am mette accanto a sé altre parole intensive: «di si
nobilissima virtù» (Dante, Vita nuova, II, 9: cfr. Barbi, Vita nuova, ed
cnt. 1932, p. 10 n.), «assai picciolissima cosa» (Sercambi, Novelle, p. 200
Gli indefiniti di quantità si possono accordare con i sostantivi
partitivi che seguono: «Deh! com’ài poca di stabiliate» (Lapo Gianni,
son. «Amm nova ed antica vaniate»); «quivi cresce con tanta dì
lerezza», CD. Frescobaldi, canz. «Un sol penser»), «l’altra [chiaveTvuol
troppa - d’arte e d’ingegno avanti che disserri» (Dante, Purg, IX, w. 124-
125); «in poche di volte che con lui stato era (Bocc., Dee., Vili 9 io)- ma
anche «qui si convenne usare un poco d’arte» {Purg., X, v. 10; cfr. «q’ui si
vuole usare un poco d’arte»: Bocc., Dee., Vili, 6, 13).
Il trapassato remoto può essere usato in proposizioni principali: «e
^ e ^°’ a ^ za ^ a ^Quanto la lanterna, ebber veduto il cattivel
d Andreuccio» (Bocc., Dee., II, 5); «prima che a Monaco giugnessero il
giudice e le sue leggi le furono uscite di mente» Gvi, II, io); «prese un
salto e fissi gittato dall’altra parte» (ivi, IV, 9); «si fece accendere un
lume e dare una radimadia, e/uwi entrato dentro» Gvi, VII, 2); «al luogo
del suo signore senza che essi se ne accorgessero condotti gli ebbe » Gvi
X, 9); «Non volendomi Amor perdere ancora - ebbe un altro lacciuol fra
lerba teso» (Petr., 271).
Il verbo impersonale è spesso introdotto da un egli soggetto: «Egli
trapassavano poche mattine che io, levata, non salissi...» (Boccaccio,
riammetta, p. 50 Pemicone); «ei mi restava molte cose a dire»
(Filostrato, parte II, p. 58 Pemicone); «Deh, che bellezza t’è egli
cresciuta, o Biancofiore ...? » (Filocolo, p. 64 Battaglia); «desta la moglie
et ella gli fa accredere che egli è la fantasima» (Dee., VII, l, Sommario).
I participi e ì gerundi hanno usi più numerosi che nel Duecento e
che nel Cinquecento, e la loro utilizzazione stilistica è talora assai
notevole 94 .
lì complemento agente con a è usato nel Duecento e nel Trecento
“ Pasquali. Lingua nostra, I, pp. 8-10; Bianchi, ivi, cfr. pp. 44-45
93 Migliorini, Saggi ling., pp. 156-174
, * . erlj, Syntaxe du participe présent et du gérondif en vieil italien, Parigi
1926 passim; per il Boccaccio, Herczeg, Lingua nostra, X, 1949 , pp. 30-41; per il
Sacchetti, Segre, Arch. glott. it., XXXVII, 1952, pp. 9-17.
212 Storia della lingua italiana
molto più largamente che in séguito non si farà: «non ti fare pregare
ne’ suoi bisogni a colui » (Paolo da Certaldo, n. 335); «elli (Sansone! si
lasciò vincere a sua femina» (Bencivenni, Esposizione del Patera., p. 55);
«O casta dea, de’ boschi lustratrice - la qual ti fai a vergini seguire»
(Bocc., Teseida, VII, st. 79); «la fa uccidere e mangiare a’ lupi» (Dee., II,
9); «a lui ti fa aiutare, a lui ti fa i tuoi panni recare...» (ivi. Vili, 7).
La sequenza asindetica di due imperativi («vo togli quel canestro»,
Sacchetti, nov. 118) è frequente, e rimarrà poi viva, ma solo nell’uso
popolare. Lo stesso si può dire del costrutto dar mangiare, dar bere.
Notevoli gli usi modali di dovere, venire, volere-. «Pirro adunque
cominciò ad aspettare quello che far dovesse la gentil donna» (Bocc.,
Dee., VII, 9), «gli venne veduta una giovinetta assai bella» (ivi, I, 4), «di
così fatte femine non si vorrebbe aver misericordia» (ivi, V, 10).
L’accusativo con l’infinito, specie con alcuni verbi, è indizio di
tendenze classicheggianti 95 .
Sotto rinfluenza del latino sono anche i costrutti dei verbi di timore:
«si ch’io temetti ch’ei tenesser patto» (Dante, Inf., XXI, v. 93); «temendo
no ’l mio dir gli fosse grave» (ivi, III, v. 80); «e temo no ’l secondo error
sia peggio» (Petr., 55); «e temo non chiuda anzi - Morte i begli occhi»
(id., 118); «li due fratelli, li quali dubitavan forte non ser Ciappelletto
gl’ingannasse» (Bocc., Dee., I, 1 , 78); «la donna e ’l giovane... subito
sospettano che non fosse quello che era» (Sacchetti, nov. 84).
Un tipo di proposizioni concessive è retto da per che, perché: «Non
andare mai a casa di niuna femina mondana... per ch’ella mandi per te»
(Paolo da Certaldo, n. 86); «Tu, per ch’io m’adiri - non sbigottir ch’io
vincerò la prova» (Dante, Inf., Vili, v. 121; cfr. XV, v. 15; XXXII, v. 100:
Purg., XXX, v. 55; Par., XXI, v. 101); «da amare, perché io voglia, non mi
posso partire» (Bocc., Fiamm., V); « Perch’io t’abbia guardato di menzo-
gna - a mio podere et onorato assai» (Petr., Rime, 49, 1; cfr. 59, 1).
Qualche problema di topologia è stato bene studiato: la norma che
vieta l’uso delle proclitiche all’iniziale, la cosiddetta legge Tobler-
Mussafìa («Fecemi la divina potestate», Inf, III, v. 5, ecc.) 99 , e l’ordine
delle coppie pronominali li mi porta, mi si presenta ecc. 05 * 07 08 .
Qualche altro è stato impostato: l’ordine del gruppo sostantivo-
aggettivo, talvolta quasi obbligatorio, talvolta libero (la lingua latina,
la tedesca rabbia, la cartaginese guerra) 00 , l’ordine delle parole nelle
proposizioni principali e in quelle dipendenti, che ha così grande
importanza nel Boccaccio e nelle vicende delle future imitazioni di
esso 89 .
05 U. Schwendener, Der Accusatìvus cum Infinitivo im Ital., Sàckingen 1923,
passim; cfr. Migliorini, Lingua e cultura, pp. 41-42.
98 V. la bibliografia data a p. 151.
87 A. Lombard, «Le groupement des pronoms personnels atones en italien» in
Studier i mod. spr., XII, 1934, pp. 19-76.
98 Schiaffali, Tradizione, p. 229 (e bibl. ivi citata).
08 Schiaffini, ivi, pp. 194-199.
Il Trecento
213
Questa minima scelta di osservazioni vuol solo mostrare l’urgenza
di un ampia sintassi dell’italiano antico. Altre molte se ne potrebbero
fare tenendo conto anche dei testi non toscani: si pensi ad es al
complemento oggetto di persona costruito con a in siciliano: «mandirà
ad Eneas a lu infemu» nella Istoria di Eneas (XII, § 4 Folena).
19 . Consistenza del lessico e suoi mutamenti
La vivace attività spirituale e pratica del Trecento porta a un
arncchimento notevole del lessico: sia nella lingua generale, sia con lo
stabilirsi di sempre più precise terminologie speciali, trasferite dal
latmo al volgare quando si passa a trattare nella nuova lingua di
argomenti prima riservati al latino (p. es. termini di filosofia, medicina
h w r mia V° PPU J e costltuitesi nell’uso pratico (termini di commercio’
darti figurative, di musica, ecc.).
noi es . em P io alcuni termini d’arte che vengono tecnifìcati
toctato a cf3k m ° ql “ smo agU ultlmi anni del socol ° per poter
H’inoh^ U f reWa - ( t aCquereUo5>): * e poi aombrare le pieghe d ’aquerelle
d inchiostro; cioè aqua quanto un guscio di noce tenessi dentro due
gocce d inchiostro»: Cennini, cap. VII;
aria, quale ce lo testimonia il Petrarca («umbra quaedam et quem
pictores nostri aerem vocant, qui in vultu inque oculis maxime
Fami1 - XXIII > 19 > 121 e lo usa il Cennini («contra natura sarà
cne a te non venga preso di sua maniera e di suo aria», c. XXVII) il
Petrarca anche in verso («quell’aria dolce del bel viso adorno», 122- «e
mi contendi 1 aria del bel volto», 300);
CLXXVl ‘ lavorare lu fresco, cioè nella calcina fresca» (Cennini, c.
è Ìr ì Dante < “J"* . X, v. 132), e il Buti spiega con numerosi
sinonimi, «questo vocabolo significa lo piumacciuolo, o lo capitello o lo
scedone, o leoncello che si chiami, che sostiene qualche trave»-
sfumare-, «1 acquerelle che vi dài su, non vi appariscono sfumanti e
chiare» (Cennini, cap. XVII; cfr. quel che poi dirà l’Alberti, Pittura, p. 77
Papini: «mancando il lume bianco, si perderebbe quasi in fumo»)
d’orizzonte portato dal traffico ci è testimoniato
daH apparire della nuova parola milione-, il Farinelli (nel son. «Se si
— e + del 13 ! 5) scrive * e «ente paladina un milione », ma
acopo d Acqui, intorno al 1330, deve ancora spiegare il vocabolo «quod
est idem quod divicie mille milia librarum» 190 , e così pure Giovanni
Villani: «si trovò nel tesoro della Chiesa in Vignone in moneta d’oro
coniata il yaìore di diciotto milioni di fiorini d’oro... che ogni milione è
mille migliaia di fiorini doro la valuta» (Cron., XI, 20).
Il linguaggio poetico ha ricevuto dagli Stilnovisti fortissime impron-
108 Citato da L F. Benedetto, Il Milione, Firenze 1928, p. 246 .
214
Stona della lingua italiana
Il Trecento
215
te-, ma già cominciando da Cino da Pistoia i termini di quel lessico, i
disiri, i sospiri, i martìri, sono diventati convenzionali, mero repertorio.
E alcuni addirittura ( angelo , stella, tesoro, occhi ladri, ecc.) si installe-
ranno nel lessico comune. Il Petrarca passò poi al vaglio tutto quel
vocabolario.
Nei procedimenti della creazione lessicale non c’è molto da osserva-
re. Nella derivazione prefissale si nota il passar di moda di qualche
procedimento caro al secolo precedente: p. es. il tipo oltramirabile,
oltrapiacente; è invece ancora molto produttivo mis- imisaweduto,
misawentura, miscadere, ecc.). Alcuni suffissi godono particolare fortu-
na: -esco, -evole, -ista {autopista, decretalista, tenorista, ecc.; a «Messer
Antonio piovano - eccellente dantista » intitola un sonetto nel 1381
Fr an co Sacchetti). Il bisogno di esprimere una nuova nozione urge su
parecchi, e talvolta produce una serie di tentativi, una disordinata
efflorescenza, che solo più tardi si placherà nella scelta d’un solo
vocabolo. Come aggettivo derivato di poeta si ha poetico, ripreso dal
latino (p. es. in Alberto della Piagentina e nel Buti), ma poi anche
poetevole (nel volgarizzamento di Guido Giudice), poetesco (in Franco
Sacchetta, poetale (in Zenone da Pistoia).
Sempre numeróse sono le formazioni di deverbali senza suffisso, dei
tipi bilancio, ploro e ruba.
Seguono per lo più i tipi normali di coniazione le voci foggiate per
burla, come i «ventri attopati» della novella 187 del Sacchetti (che son
poi quelli che hanno mangiato i topistomelli offerti da Dolcibene in
cambio della gattaconiglioì.
In complesso, anche rimanendo in Toscana, il lessico trecentesco
presenta un’assai scarsa compattezza. Per esprimere la nozione di
«sorella» abbiamo, oltre a sorella, le forme suora (Dante, Villani), suore
(Cavalca), sorore (Petr.), scrocchia (Villani, A. Lancia), sirocchia. (Boccac-
cio), sorocchia (Sacch.>, solo per ima forma, suoro, si vede chiaramente
ima precisa localizzazione, cioè Siena. Così accanto a lepre troviamo
levre (Dante), lievre (Rotta di Montecatini, Ottimo, ecc.), lievore (Simin-
tendi); abbiamo sorice, sorico, sorcio, sorco, sorgo, e così via. Persino
dove si aspetterebbe che l’analogia della numerosa serie in -mente
interve nis se a normalizzare, si ha, accanto ad altramente, anche
altramenti, altrimente e altrimenti : e sarà questa la forma che prevarrà.
Dove sono in lizza unaìorma popolare e una latineggiante, questa ha
spesso la meglio, come vedremo nel paragrafo seguente.
20. Latinismi
Il lessico toscano nel Trecento ha accolto e «digerito» latinismi (e
grecismi) con un’ampiezza di cui difficilmente ci si fa un’idea.
Se ne possono fare elenchi per scrittori o per opere singole, e in
qualche caso se ne possono ricavare importanti indizi per la cultura
dell’autore, il suo atteggiamento rispetto agli antichi o rispetto a
singoli scrittori latini, e magari con questo aiuto discutere problemi di
autenticità o di attribuzione 101 . Ma qui ci preme solo considerare
l’assunzione dei latinismi nelle sue linee generali, valutandone la
penetrazione stabile nel lessico. S’intrecciano, come sempre, moventi
obiettivi e moventi affettivi
Anzitutto molti latinismi sono accolti per rispondere ai bisogni dei
compilatori di opere filosofiche e scientifiche in volgare, tradotte,
compendiate o originali.
Si spiegano così i molti latinismi per esprimere concetti astratti:
avverte l’autore del Fiore di virtù che «le cose spirituali non si possono
sì propriamente esprimere per paravole volgari come si esprimono per
latino e per gramatica, per la penuria di vocaboli volgari». Si spiega
l’accettazione di termini anatomici e medici come congiuntiva, duode-
no, ieiuno, poro, ulcerare, o di termini astronomici come esaltazione
«altezza» (Iac. Alighieri), Leo, Virgo, Scorpio, Tauro, Pisce, ecc. I
traduttori dal latino, in quanto sempre meglio avvertono la differenza
tra le «realità» antiche e quelle moderne, sono indotti a introdurre
vocaboli latini che indichino questa diversità di nozione: nella versione
della terza Deca di Livio, il Boccaccio usa repubblica, militi, legione,
ecc., e non più i travestimenti medievali ( comune , ecc.); così l’Ugurgieri,
volgarizzando Virgilio, mantiene un termine tecnico come infula (p. 341
Gotti); il Giamboni, nel tradurre Vegezio, usa pluteo. Fazio degli Uberti,
descrivendo Roma, spinto dal, nome antico non meno che dalla
sopravvivenza locale, dirà: «Vedi Termi Dioclezian si bello» {Dittamon-
do, II xxxi v. 91) 102 .
Molte altre volte i latinismi sono accolti perché danno eleganza,
signorilità, decoro, perché contribuiscono ad alzare il volgare alla
dignità del latino 103 . Talora i latinismi si adoperano perché si adattano
bene a un dato schema: specialmente quando si ha bisogno di
sdrucciole: «la traditrice lepore marina», cioè Pisa (Farinelli, son. «Poi
rotti...»), «I’ sento sbadigliar la madre vetula» (Alesso Donati, madrigale
«Ellera non s’awitola...»). Ma il fatto che queste parole non sono
101 Si pensi alle indagini del Maggini e dello Schiaffini, che conclusero con
l'attribuzione al Boccaccio del volgarizzamento della 3* e della 4 a deca di Livio
(Maggini, I primi volgarizzamenti, cap. IV; Schiaffini, Tradizione, cap. VII),
confermata poi per altra via dal Billanovich (v. qui addietro, p. 208). Il volgarizza-
mento mostra quella smania che talora ha il Boccaccio di riprodurre Tornato
latino nei particolari, e vi si leggono latinismi «laceranti» come preera alla
provincia, prefece, ecc.
102 Cfr. la st. 68 dell’/ ntelligenza: «L’ottavo loco è fermasse chiamato - secondo
lo latin de li Romani, - e per volgare si è stufa appellato».
103 Tutt’altro che consuete sono ormai le mescolanze come quelle che
troviamo in un testamento veronese del 1324: «Imprima eo magistro Alberto
instituo, ordino, dispono et fago magistro Guiduzo... meo hereso... commandarò et
legabo » (Migliorini-Folena, Testi Trec., n. 11). Null’altro che scherzi poetici sono i
componimenti «semiletterati» come quello di Gidino:
Per le parole del Corvo fedele
Phoebus iratus plenusque furore, ecc. (p. 48 Giuliari).
216 Storia della lingua italiana
sopravvissute mostra che rispondevano a una momentanea opportuni-
tà artistica e non a un bisogno sociale. Altre volte non si tratta
nemmeno di spinta artistica, ma di pigrizia o di capriccio: «e quando
viene en etate nubilla > (nubile), (Niccolò del Rosso, son. «La femme-
na...»). I modi di adattamento dei latinismi non sono sempre uniformi.
Talvolta si riproduce il vocabolo latino tale e quale, talaltra si adatta
foneticamente e morfologicamente agli schemi italiani.
C’è la possibilità, accanto a entrare, lottare, lecito, di avere fonne
latineggianti come intrare, lattare, licito, specie se servano per la rima.
Ma esiste desco, ben saldo, e il Boccaccio, che avrebbe bisogno di
esprimere la nozione del «disco» degli antichi, non ha il coraggio di
farlo, e si attiene a desco -. «con Sarpedone al desco allor giucando» l Ics.,
XI st. 66) 104 .
All’adattamento popolare assempro si contrappongono con crescen-
te fortuna essemplo ed esempio. -
Gli aggettivi latini in -undus sono di solito adattati con la anale
•ondo, conformemente allo schema di profundus/ profondo, secundus/
secondo ; ma si può avere anche -unào, in prosa e in poesia (p. es.
vagabundo, Bocc., Tes., Ili, st. 76); e così si può avere verecondia e
verecundia («la verecundia è ima paura di disonoranza per fallo
commesso»: Dante, Conv., IV, xxv, 10). Similmente si ha defunto (Dante)
e defonto (Sacch.). Oscillano -amia e -ama, -ernia e -enza.
Oppure si pensi al trattamento di j: love alterna con Giove, lusttzia
con giustizia, deiezione e degezione, addiettivo e aggettivo, plebeo e
plebeio, ecc. Oscillano speciale e speziale, socio e sozio, ecc.
Morfologicamente, si adatta di solito la forma dell accusativo spo-
gliandola della -m finale 105 . Ma nei nomi della terza declinazione, e non
solo in quelli in -o ( Apollo , ecc.), è tutt’altro che rara l’adozione del nomi-
nativo: aspe, ospe, satelle, vinte, e simili; oltre al tipo maiesta, podestà,
mortalità. Felicita, Trinità e simili. Ancora nel Duecento e nella prima
metà del Trecento l’oscillazione nei nomi propri antichi è fortissima: si
pensi alle forme varie che ha il nome di Venere per indicare la dea o il
pianeta- Veno (nel Fiore e nel Detto d’amore ), Venusso (nel Fiore), Venu s
(Boccaccio, Tes.-, Sacchetti, Battaglia, ecc.). Ma il tipo francesizzante di
adattamento 106 man mano cede a quello più moderno: Dante oscilla fra
Cleopatràs e Cleopatra, il Petrarca ha Cleopatra. ---
L’accento, in alcune parole più rare, e specialmente nei nomi propri,
tende spesso a passare sulla penultima-, Amazóne (Bocc., Teso, Castóre,
Nestóre (ivi), Ipocràte (Sacchetto, baltèo (Boccaccio), satiro (Sercambi),
ecc.
lM Solo molto più tardi (s. XVII) il lessico accoglierà disco.
im Qualche titolo, che ora sogliamo tradurre, si usava citare in latino:
«Ovidio, nel quinto di Metamorphoseos » (Dante, Conv., II, v, 14); «del re Saul si
legge, nel libro Paralipomenon » (Passavahti, Specchio, p. 308 Pohdon); e simili.
8 ioe n Salvini {Discorsi accadem., CX) ricorda il «vecchio Villani, che disse
Eneas Silvius, e cento altri latinamente alla maniera francesca*.
Il Trecento
217
Qualche particella, qualche locuzione è assunta dal linguaggio
giuridico, dal linguaggio filosofico, ecc.: de plano, di nottetempore (o di
nottetempo ), e converso e simili.
Si attinge, come è ovvio, alla latinità circostante in tutti i suoi
aspetti: si ricavano parole non solo dagli scrittori classici, ma più
ancora da quelli ecclesiastici ( condegno dal condignus di S. Paolo,
girovago dal gyrovagus della Regola di S. Benedetto) e da quelli
medievali ( duello , bravi o; brocardo-, altimetria, planimetria ). Il Boccac-
cio, curioso di scrittori tardi (Apuleio, ecc.) attinge vocaboli anche ad
essi (meditullo, prosapia). E qualche volta scrittori meno dotti ricorrono
a ima latinità di fantasia: così sono nati il plebesciti «plebei» di Antonio
Beccali (v. sopra, p. 200), che dev’essere una confusione di plebiscitum
con un presunto participio passato di plebescere, Yagnizia di ser Filippo
di ser Albizzo in un sonetto al Sacchetti («Credo che l’abbi tu, se n’hai
agnizia», LXXII a, ed. Chiari), il profazio di Monaldo di S. Casciano (v.
sopra, p. 198), il vàpoli «maneschi» di Fazio degli Uberti (II, xv, v. 49),
ecc.
Lo scrittore stesso che adopera un latinismo sente talvolta la
necessità di chiarirlo, per non riuscire oscuro a quelli fra i suoi lettori
che ignorano il latino. Ecco qualche esempio di tali interpretamenti:
«Di questo mese si semina la ruta ne’ luoghi aprici, cioè in lieto ed
aperto luogo» (Volg. Palladio, Marzo, XV); «Tayda fu concubina, cioè
bagascia di Sansone» (Pucci, Zibaldone, cit. da D’Ancona, Saggi, p. 381);
«tu lo visiti nel tempo del diluculo, cioè la mattina per tempo»...
« diluculo non è altro a dire, se non il dì che già luce» (Mor. S. Greg., 8,
20); «per la erubescenza, cioè per la vergogna che è nel confessare»
(Passavanti, Specchio, p. 151 Polidori); «sì maturo e vecchio, che ogni
color del letame sia esalato, cioè sfumato» (Volg. P. Cresc., 4, 10, 3);
«Nell’ultimo luogo delle virtudi è da dire d’una virtù, la quale è requie
di tutte le altre, ed è detta eutrapelia, cioè giocondità» (Bart'ol. da S.
Concordio, Amm. degli antichi, IX, rubr.; anche Dante adopera eutrape-
lia: Conv., IV xvii, 6); «prese una fiscella, cioè ima nassa» (Fiorita
d’Italia ); «Awegna che per molte condizioni di grandezze le cose si
possono magnificare, cioè fare grandi...» (Dante, Conv., I, x, 7); «quella
o stetrice, cioè che leva i fanciulli» (Pistola di S. Girol.) 107 ; «volen-
do narrare ’l gioco della palestra, cioè dove i campioni si provavano»
(Mor. S. Greg., I, 6); « proàulo è il secondo, ch’uomo appella verone»
Unteli., st. 61).
Glosse di questo genere provano che la parola era poco meno che
sconosciuta. Minor valore dimostrativo hanno, naturalmente, le glosse
dei commentatori, i quali spiegano di proposito non solo i vocaboli
oscuri ma anche quelli un po’ meno chiari: il Boccaccio spiega (Tes.,
Vili, 94) «la marzial gente» con «guerriera»; il Buti chiosa in Dante
cuna e larva e zona e tanti altri latinismi.
107 Migliorini, Saggi ling., pp. 132-134.
218 Storia della lingua italiana
Il Trecento 219
La tendenza a introdurre nuovi vocaboli latini fa sì che siano man
mano respinti dall’uso vocaboli che prima erano usati esclusivamente.
Così esercito, orazione, repubblica vengono sostituendo oste, diceria,
comune 10S ; pittore dapprima adoperato solo come latinismo, finisce poi
col vincere pintore e dipintore 109 .
Va di pari passo la tendenza alla rilatinizzazione delle parole, cioè
la sostituzione di forme alterate secondo la fonetica toscana con forme
identiche a quelle latine. Nelle coppie cecero-cigno, diecimo-decimo,
dificio-edificio, ettemo-etemo, fedire-ferire, giogante-gigante, guagne-
lo/vangelo-evangeliik), ninfemo-infemo, nicistà/nicessità-necessità, orra-
to-onorato, orrevole-onorevole, sanatore-senatore, sinestro-sinistro, e tan-
te altre, si potrebbe studiare il lento progresso e il definitivo trionfo
della seconda forma a spese della prima. Talora la poesia precorre la
prosa; talora i non Toscani hanno fatto traboccare la bilancia a favore
del latinismo e a spese della forma più «idiotica». Si veda p. es. con
quale sicurezza e stabilità i Toscani nel Trecento adoperano, in prosa
(Boccaccio) e in poesia (Dante, Petrarca) Cicilia, ciciliano («per la
varietà di volgari degli abitanti è oggi da loro chiamata Sicilia, e da noi
Italiani Cicilia »: Villani, Cron., I, 8): poi Sicilia, appoggiandosi al latino,
finirà col prevalere definitivamente.
Invece in un certo numero di casi, la rilatinizzazione è stata
respinta: non basta che il Petrarca adoperi una volta in rima bibo e
describo, o che il Boccaccio scriva limbo per lembo perché l’uso
popolare di bevo, lembo e quello semidotto di descrivo siano intaccati.
Il lessico finisce con raccogliere stabilmente molte e molte centi-
naia di vocaboli: e non solo nell’uso letterario, ma nell’uso quotidiano (e
magari ufficiale, p. es. censo, esattore ).
Ecco un breve elenco meramente esemplificativo di latinismi entrati
nel lessico nel Trecento (senza poter escludere che qualcuno risalga al
secolo precedente): adunco, ambrosia, antropofago, atroce, austero,
autentico, circonferenza, claudicare, compatriota, confabulare, consimi-
le, discolo, energumeno, esistenza, eunuco, evaporare, faretra, frugale,
girovago, ignavia, incolore (Cecco d’Ascoli), indigente, industrioso,
ingurgitare, invitto, mellificare, milizia, ostare, premeditare, prolisso,
puerile, pusillanime (-o), qualificare, rubicondo, serico, settentrione,
siccità, sofistico, spurio, stirpe, transitorio, truculento, venereo, venusto,
verecondo, vigile, vigilare.
Invece numerosissime altre voci, adoperate occasionalmente da
qualche scrittore, non arrivano ad attecchire. Ecco qualche esempio
anche di queste: ablato «cosa portata via» (Sacch., nov. 293); Uiìalare
«respirare» (Cecco d’Ascoli, Acerba, 1 . IV, c. 4); cano «bianco, canuto»
(Sennuccio Del Bene, son. «Amor, tu sai ch’io son col capo cano»); ceno
108 Maggini, Lingua nostra, III, 1941, pp. 76-79; Vili, 1947, pp. 1-3.
1M In documenti fiorentini dei primi del Trecento, quelli in latino hanno pictor,
quelli in volgare dipintore (Davidsohn, Firenze ai tempi di Dante, pp. 379, 416). Gli
Statuti di Perugia del 1342 hanno l’arte dei pentore Q, p. 124 Degli Azzi).
«fango» (Canigrani, Ristorato, cap. XL); comere «pettinare, lustrare»
Tempo, v. 16>, complettere «abbracciare» (Canigiani, Rist.,
cap. XXXyiII)>, convizio «ingiuria» (Maestruzzo); conviziatore «ingiu-
natore» (Bocc., lett. Pino de’ Rossi); cornice «cornacchia» (Petrarca 210>
diversorio «albergo» (Cavalca, Specchio croce, IX); (hìebere «venir meno»
(Petrarca, TV. Fama, I, v. 91); ecc.
In alcuni casi la scomparsa di questi latinismi avventizi si spiega
b .® n f: T , ora b romonimia che li pone a contrasto con altri vocaboli più
vitali: celare «intagliare» (da caelare ) non può resistere a celare «nascon-
dere»; contento da contemptus «disprezzo» (M. Villani; Fioretti, ecc.) e
anche contento nel senso di «contenuto» non reggono in presenza di
c on tento « lieto »; eretto da ereptus «rapito» (Canigiani) non resiste a
eretto «ritto»; fitto da fictus «finto» (Passavanti) cede a fitto « conficca-
to»; invito da invitus «che fa contro voglia» (Boccaccio) svanisce di
contro alla famiglia di invitare, ecc. Invece il latinismo ostare «ostacola-
re* vince il gallicizzante ostare «togliere» (da o ster, óter). Anche certi
significati o costrutti peculiari del latino non arrivano a imporsi,
accanto al significato più generale e più saldo nell’uso: p. es. istituire
nel senso di «educare», offendere a e offendere in nel senso di
«inciampare»; più lunga vita avrà nell’uso letterario discorrere nel
senso di «girare intorno».
21 . Gallicismi ed altri forestierismi
Larga come s’è visto, è la conoscenza, diretta e letteraria, delle cose
francesi. In singole persone, viventi o vissute in Francia, se ne avverte
dirett P : . si legga per esempio, ima lettera scritta nel
1330 da Balduccio Partim, un pistoiese residente in Beaulieu: «...Quan-
do fili a Torso, lo balio volse piagi da me fiorini 500, che io mi
rapresenterei dedens certana giornata a Parigi...» (rr. 29-31); «in questa
dentiera lettera ch’à mandata...» (rr. 54-55), «no ci à valletto nè
ciamberiera che possa durare con lui» (r. 140), ecc. 110 .
E il fortissimo i nfl usso esercitato nel secolo precedente da modelli
francesi e provenzali sulla lirica e sulla materia romanzesca (anche
d argomento classico) continua a scorgersi ancora. Si veda p es la
copia dei francesismi e provenzalismi nella canzone del Pregio di Dino
Compagni («Ché pregio è un miro di clartà gioconda - ove valor
s agenza e si pulisce... en guerra franco a mostrar sua valenza - e
dnturier, quando impronta, al pagare...»). Nella versione del Libro dei
Sette savi leggiamo accollare «abbracciare», aggio «età», astivo «fretto-
loso», calangiare «rivendicare», coprifuoco, dipardio!, merciare «ringra-
ziare», micieffo («il micieffo cioè il disastro», p. 70 D’Ancona) musardo
«perdigiorno», taccia «macchia», ecc.
italiano nella prima metà del Trecento
una ienera mercantile del 1330 e la crisi del commercio
in Arch. stor. ital., s. 7®, 1, 1924, pp. 229-256.
220 Storia della lingua italiana
Verso la metà del secolo, persistono ancora parecchi gallicismi: e
quelli usati in poesia coincidono solo parzialmente con quelli usati in
prosa (abbiamo p. es. dammaggio, plusori nella Teseida, civire, civanza,
saramento, sugliardo nel Decamerone ). Dopo la scelta rigorosa operata
dal Petrarca, i gallicismi da lui evitati nel verso (p. es. naverareì
spariranno definitivamente.
L’afflusso di francesismi nuovi è ormai ridotto a poco: qualche nome
ora penetra con gli oggetti: p. es. dorè e tanè nella tariffa fiorentina dei
tintori (1375), bombarda, nominata la' prima volta a proposito dell’asse-
dio di Brescia del 1311 (che sembra francese per il suffisso), petito
«misura per liquidi nell’Italia mediana». Né sempre i francesismi
mantengono connotazione elegante, ammirativa: ciambra, zambra
dovè in origine, nel Duecento, essere accolto come sinonimo elegante
rispetto a camera. Ma ormai nel Trecento non è più così-, in due sonetti
della stessa corona il Pucci adopera indifferentemente camera e
zambra secondo la necessità del metro: «poi me n’andai in camera con
lei», «po’ che no’ fummo nella zambra entrati»; a Siena ciambra ha
preso (già nel volgarizzamento del del Costituto, che è del 1309-10) il
significato di «pozzo per lo spurgo di materie fetide», e spregiativo è il
derivato zambracca (che è già nel Corbaccio ).
Dalla penisola iberica giungono poche parole: ricordiamo il nome
del gioco delle carte, entrato insieme con esse, nàibi (dall’arabo) 111 , il
nome dei mugàveri o almogàveri. Negli ultimi decenni del secolo si
divulgano le maioliche, il cui nome appare ancora come nome proprio
nel Cennini («belli vasi da Domasco o da Maiolica », c. CVII) 112 .
È difficile dire se siano giunti in questo secolo, oppure già prima,
arabismi documentati ora, come cubebe o tazza o chermisi («cremisi»).
Poche voci penetrano dal tedesco, come il piffero (Pecorone), il gioco
della zighinetta (Lucca 1362). Il nome di sciverta «spada» (da Schwert )
non attecchì Q’usa solo il Prodenzani, Sollazzo, VI, v. 73). Qualche altro
termine, come luffomastro o luvomastro (Villani), dicco («I Fresoni
ruppono i dicchi, ciò sono gli argini»: Villani), è solo riferito ai luoghi
d’origine.
Lo stesso si può dire dei termini usati da mercanti italiani in
Inghilterra: costuma «dogana», cochetto «documento che attesta l’awe-
nuto pagamento dei diritti doganali», fé o «stipendio», ecc. 113 , o dei nomi
greci e orientali usati in narrazioni di viaggi: p. es. Leonardo Frescobal-
di parla di «duecento calori », cioè caloiri, Calogeri 114 .
1,1 V. le testimonianze di S. Debenedettì, Il « Sollazzo », pp. 161-162.
112 Cfr. il secondo trattatello Dell’arte del vetro pubblicato dal Milanesi, cap.
40: «Prendi el vasello di terra secco che vuoi dipingere, secondo fanno quelli di
Maiolica-»-, e nel titolo: «scodelle di maiolica ».
113 E. Re, Arch. stor. ital., LXXI, 1913, pp. 249-282.
114 Anche la Frahceschina del p. Oddi, nel secolo seguente, parlerà de «li
caloiri, li quali sonno religiosi heretici». (II, p. 262).
Il Trecento 221
22 . Voci non toscane
Non intendiamo qui parlare delle parole o frasi dialettali che singoli
scrittori toscani introducono nelle citazioni o nella narrazione per color
locale (cfr. pp. 193-194 e 197). E tanto meno delle numerose parole
dialettali o interdialettali che appaiono negli scrittori non toscani:
enguana «fata delle acque», treppare «saltare», che leggiamo in sonetti
in «italiano» del Vannozzo, còttola «sottana» nel Correggiari, ossorare
nel Catenacci; e dei vocaboli anche più numerosi che si hanno negli
scritti in prosa di autori non toscani, i quali restano come elementi di
«sostrato». Intendiamo invece ricordare che già in questo secolo sono
state accolte nel lessico numerose parole da altri dialetti. Prevalgono le
voci settentrionali, provenienti dal Veneto {madrigale ), o da focolari
non ben determinabili dell Italia padana ( cavezza , corazza, rugiada
tregenda, filugello) 115 .
Anche per qualcuna di queste voci, le oscillazioni sono fortissime:
basti citare i van adattamenti del veneziano dòse (doxe)-. se il Giamboni
e il Boccaccio hanno doge, il Barberino ha dugiè, il Villani dogio, il «Re
Giannino» dugio, il Sercambi dogio o dugio. Certo le varianti sono
dovute all’influenza del latino dux o del volgare duca, dato lo strettissi-
mo contatto semantico (il Barberino nel Reggim., I, iv e I, v parla del
duca di Storlich in verso e del dugie di Storlich in prosa).
Entro la Toscana stessa, gli scambi sono forti: Firenze dà e riceve 118 ;
e se nei testi lucchesi, pistoiesi, senesi, aretini, troviamo ancora
fenomeni e vocaboli caratteristici, non li troviamo allo stato puro, ma
quasi sempre, ormai, mescolati con fenomeni e vocaboli del fiorentino
letterario: ponto, fameglìa, merolla, hanno accanto a sé punto, famiglia ,
midolla.
_ S1 8hifica ancora, conforme all'etimo (follicellu), «bozzolo»: cosi
filogello nel Costituto di Siena, 1309-10; «imparato a trarre seta di filugelli » nel
Sercambi, p. 34 Renier; e anche nell’emiliano Paganino Bonafé «per vermi da
follisela» ( Thesaurus rusticorum, v. 590 del cod. Bologn., ed. Frati). A Lucca
significa «seta di rifiuto o di spurgo» {Statuti della Corte dei Mercanti,
1376, Glossano).
“® Esempi in Castellani, Nuovi testi, pp. 72-78, 104 e passim.
CAPITOLO VII
IL QUATTROCENTO
1. Limiti
Se, invece degli anni secolari, volessimo porre alla nostra trattazio-
ne limiti meno convenzionali, potremmo prender le mosse dalla morte
del Boccaccio, da cui s’inizia quello che, riferendosi al noto compianto
del Sacchetti per la morte del Boccaccio, gli storici hanno chiamato il
«secolo senza poesia» (1375-1475)'.
Una data importante, comunque si debba giudicare dell’efficacia
dell’evento, è quella del Certame coronario (1441); importantissima
quella della stampa dei primi libri in volgare (1470). Le date dell’ultimo
decennio (1492, morte di Lorenzo de’ Medici, scoperta dell’America;
1494, spedizione di Carlo Vili) sono state tanto adoperate e tanto
discusse come date terminali dell’Evo medio che possiamo dispensarci
dal parlarne.
2 . Eventi politici
Le città-stati sono ormai tramontate e anche le piccole Signorie
tendono a sparire, assorbite negli Stati regionali a regime principesco
od oligarchico. Venezia estende il dominio in terraferma eliminando
Scaligeri e Carraresi; Firenze conquista Pisa (1406) e acquista Livorno
(1421), ecc.
Nella prima metà del secolo, assistiamo, dopo i tentativi di espan-
sione di Gian Galeazzo, a quelli di Filippo Maria Visconti; poi alla
conquista della dinastia aragonese di Sicilia, la quale, vincendo la
partita sugli Angioini, riesce a riunire il Napoletano all’isola. Lo Stato
Pontificio risente gravemente delle conseguenze degli scismi; e solo con
Niccolò V toma a consolidarsi e a pesare tra gli Stati italiani. Un certo
equilibrio s’instaura negli ultimi decenni, auspice Lorenzo de’ Medici;
ma i sentimenti di rivalità fra gli Stati sono tanto forti da non
permettere di agire in comune quando la Francia e la Spagna,
costituitesi in Stati nazionali, verranno con pretesti dinastici a impa-
dronirsi di terre italiane e a dirimere nella penisola le loro contese.
* B. Croce, Poesia popolare e poesia d'arte, Bari 1933, p. 233.
224
Storia della lingua italiana
La caduta di Costantinopoli in mano dei Turchi (1453) si ripercuote
sulla politica e sulla vita culturale italiana. E l’espansione dei Turchi
nella Penisola Balcanica spinge all’emigrazione e all’insediamento in
Italia di numerose colonie albanesi e serbocroate.
La posizione degli Stati Sabaudi a cavaliere delle Alpi contribuisce
a dare al francese una posizione importante nel Piemonte. La Sarde-
gna è in questo periodo in mano aragonese e la nobiltà immigrata vi
ottiene forti privilegi. La Corsica dipende politicamente da Genova,
Malta dal regno di Napoli, la Dalmazia costiera da Venezia.
I prìncipi dominano sulle corti, dove hanno modo di manifestarsi il
lusso, l’ambizione e anche la cultura. Se la forza, anzi addirittura
1’esistenza, di questi Stati come tali poggia sull’individualità dei
principi stessi (basta pensare allo «sgonfiarsi» dello Stato milanese alla
morte di Gian Galeazzo e più tardi di Filippo Maria), è ovvio che la loro
influenza personale si manifesti ampiamente sia nella vita di corte, sia
nelle cancellerie, da cui dipende l’organizzazione amministrativa degli
stati Molto più impersonale è l’opera delle cancellerie negli stati
oligarchici.
Si ha un assai notevole movimento di persone, sia entro gli stati
stessi (forti migrazioni dal contado alla città), sia fra stato e stato
(matrimoni esilii, composizione eterogenea delle Compagnie di ven-
tura, e successivi stanziamenti di uomini d’arme, attività di diploma-
tici, ecc.) 2 , talora con importanti conseguenze culturali 3 e anche lin-
guistiche 4 * .
Con gli altri paesi europei e mediterranei si svolge un assai intenso
traffico, sia per terra sia per mare (si pensi ai frequenti viaggi di galee tra
Firenze e Bruges). L’espansione dei Turchi porta invece grave danno agli
stanziamenti coloniali e agli scambi commerciali, che più facilmente si
erano svolti sotto il più tollerante dominio degli imperatori greci. Danni
anche più gravi porterà ai commerci italiani la nuova via delle Indie
aperta dai Portoghesi con la circonnavigazione dell’Africa.
3. Vita culturale
L’entusiasmo per l’Umanesimo, diffondendosi principalmente da
Firenze, si accende per tutta quanta l’Italia. Si mira, attraverso ima — ~
caccia quasi affannosa ai codici antichi, alla riscoperta, o meglio alla
riconquista del mondo classico: e tale riconquista è insieme causa ed
effetto di ima rinnovata fiducia delle forze umane nel costruire una
convivenza civile, di un nuovo sentimento dell’importanza dell’uomo
3 II Beccadelli, nato a Palermo di famiglia bolognese, vive a Siena, a Pavia, a
Napoli; il Pontano è nativo di Cerreto di Spoleto, ecc.
3 Vediamo p. es. che Palla Strozzi, esule a Padova, è uno dei caposaldi della
penetrazione del Rinascimento letterario e artistico nel Veneto.
4 In Firenze si affacciano (nella seconda metà del ’300 e ora) peculiarità
dialettali provenienti dalla Toscana occidentale e meridionale.
Il Quattrocento
225
Q T nd A La ci . ttà : terTena non è più svalutata come mera preparazio-
e alla citta celeste, ma è vagheggiata con amorosa cura nei suoi
elementi materiali e spirituali.
In contrasto con la cultura medievale, che era di carattere quasi
esclusivamente ecclesiastico, la cultura umanistica è prevalentemente
secolare, sia per gli oggetti che la interessano sia per le persone che la
pra icano. All indirizzo aristotelico, tuttora predominante nelle scuole
si contrappongono correnti neoplatoniche e mistiche, che hanno una
torte influenza negli ultimi decenni del secolo, specie a Firenze. «Se il
pnmo umanesimo fu tutto un’esaltazione della vita civile, della libera
costruzione umana di una città terrena, la fine del’400 è caratterizzata
da un chiaro orientamento verso un’evasione dal mondo, verso la
contemplazione» 3 .
- ì’ a !ì a ì£ arSÌ de ® U studi l’antichità fa sì che uno che vi si dedichi a
fondo debba spendervi gran parte del suo tempo - e quindi aspiri a
ricavarne il sostentamento e magari l’agiatezza. Diventa abbastanza
frequente m questo tempo la professione del letterato. C’è poi chi vive
recitando ì propri versi, come Serafino Aquilano - anche se c’è chi lo
considera un «menestrello» 8 .
L esame spregiudicato dei testi nuovamente scoperti pone i fonda-
menti di quella che sarà la filologia testuale. Si cominciano a dibattere
prò emi di linguistica storica: si pensi alla famosa discussione avvenu-
ta a Firenze nel 1435, nell’anticamera di Eugenio IV, se già nell’antica
Ronm esistesse una differenza tra latinità colta e latinità parlata
analoga alla differenza che c’era allora tra latino e volgare 7 , oppure
alla pagina in cui Poggio riconosce una permanenza di lingua parlata
romana in Spagna e e in Sarmazia 8 .
A ! 1 a 1 I ? mirazi °P e P er gh scrittori classici consegue il proposito
d imitarli: anziché scrivere secondo la consunta tradizione scolastica
medievale, ciascuno viene studiosamente costruendo la propria lingua:
chi scegliendo fior da fiore tra i vari scrittori, chi mirando a restringere
il canone verso il solo Cicerone 9 . Giannozzo Manetti si fa interprete di
questa coscienza degli umanisti di essere gli artefici di una lingua
nuova quando asserisce 10 che la lingua non è dono della Natura ma
«subtile quoddam et acutum artificium».
3 E. Garin, L'Umanesimo italiano, Bari 1952 , p. 103 .
1901 ° p f 2oì) SOnett ° meSS ° “ b ° CCa a SUa madre (cit - negU Scritti ~ Monaci, Roma
senza bisugnu a fa da ministriglie
n mezzo a Milano, Mantova et Urbinu.
Th p 7 ^J^}%^w Ìn f U ?. n ,^ Stra ^ XW ’ 1953 ' pp - 64 69 {con Iabibl - Prec.); H. Baron,
b n W ofthe Early Italian Renaissance, Princeton 1955, pp. 304-312 421-429
260 261) Pera ’ BaSllea 1538, p ‘ 54 (cfr ' E ‘ Wa lser, Poggius Florentinus, Lipsia 1914, pp.
Ìo^xt ® abbadim . Storia del ciceronianismo, Torino 1886.
r^r.h- 1 ^ - ™? oso discorso «De dignitate et excellentia hominis» (cit. da G
Gentile, m Giom. stor. lett. it.. LXVII, 1916, p. 67).
226
Storia della lingua italiana
Coluccio Salutati non solo riforma la propria lingua, ma, q u *de
cancelliere 0 deUa repubblica di Firenze, introduce un nuovo stile
““ffidtecute' e talora con accanimento, sulle regole da applicare E
anzitutto gli 'umanisti si scagliano contro il latino tradizionale delle
scuole, e i vecchi manuali quali il Doctrinale e ìtì Grecu r
Le arti figurative sono in lummosa ascesa: ferve lo ,. b
liberarsi dagli schemi medievali, obbedendo a un nuovo realis o
assimilando l’insegnamento degli antichi. Si progettano città ideali, e si
SISonbardiTp°lni urbanisti*. i quali danno una nuova tononma
parecchie città, conferendo loro l’aspetto c ^J^^S^ e( Sevali
strade Der quel tempo assai larghe, senza 1 ingombro delle meaievan
«baldresche», che Lodovico il Moro abor ^. e ^Siri e^S?^ ^ tecnici
Nelle botteghe artigiane convergono sforzi artistici e siorzi tecnici
di maestri cdf allievi! non v'e ancora lo «scienziato, o il .tecmco.ch
^Leonardo puà a buon diritto P"><^lo dXSm
assai più degna della contemplazione o scienza» (Trattato della pittura,
§2 NeUe Z S5rti i prìncipi per lo più favoriscono gli umanisti: essi
medesimi talvòlta sono stati allievi di maestri insigni, o affidano! ad essi
i loro figli. Ma alcuni promuovono apertamente ed energicamente 1 u
del A°Mfiano 12 Filippo Maria Visconti, il quale era anche in grado di
improvvisare pereto discorso in latino, si dilettava della le trna d*
Petrarca e del Boccaccio. EgU fece compilare (intorno al 1440) un
Sin/smo a Guiniforte Barzizza, f^ <x>«tare .l
Petrarca al riluttante Filelfo, fece tradurre Cesare e Curzio Riifo a Pier
Candido Decembrio e, sia stato onoil deliberato p ®.
volgare nella cancelleria milanese, certamente quell oso ‘
rer?hi decenni più tardi, se diamo ascolto a Francesco Tanzi, estere
delle rime di Bernardo Bellincioni (1493), Lodovico Mana Sforza
avrebbtfcbiamato alla sua corte «il faceto poeta Belmzone, a ciò che
.. ,1 Salutati rimprovera a Beuvàtvuto da Imola a 1££°
religiosorum more»: Epistolario, ed. No a nessiine compilazioni su cui nelle
II p. 582) e tanti altn mveiscono contro le Pessime compiiamo Ni u nel
scuole si studiava il latino (Billanovich, Lingua mostra 30/^pp. ^ d e con i
ÌS 0l Ì-? S ator! e l
risnos'ta del Barbaro alle pp. 844-863); nella sua velenosa polemica con Poggio, il
^°^i3 V V 0 l’aocura't^saggìo^^ 8 ^^- ditale, La Ungua volgare della cancelleria
visconteo-sforzesca nel Quattrocento, Varese-Milano 1953.
Il Quattrocento
227
per l’ornato fiorentino parlare di costui e per le argute, terse et
prompte sue rime la città nostra venesse a limare et polire il suo
alquanto rozo parlare» (I, p. 5, della rist. Fanfani). E Lodovico il Moro
affermava a Giambattista Ridolfi (che lo riferì a Pietro de’ Medici) che
«la nazione fiorentina nel dire e nello scrivere volgare passa tutti gli
altri» 14 .
A Ferrara, dove l’insegnamento di Donato degli Albanzani, e poi
quello dell’Aurispa e del Guarini avevano sparso fecondi semi di
cultura umanistica, la corte estense è anche un semenzaio di cultura
volgare 15 . Ludovico Carbone narra (Facezie, CVIII) che un podestà del
Modenese, leggendo in una lettera del duca «capias accipitrem et mitte
nobis ligatum in sacculo ne aufugiat», invece che mandargli un
falcone, gli mandò, prigioniero l’arciprete - e da allora le lettere furono
scritte non più in latino ma in volgare 19 . Alla prima propulsione di
Niccolò III (che fece commentare a Pier Andrea Bassi la Teseida
boccaccesca) fa seguito l’opera sempre più intensa di Leonello e di
Borso 17 . Non meno favorì il volgare Ercole I, spinto forse anche dalla
moglie Eleonora, che ignorava il latino 18 .
Nella corte e nella cancelleria di Napoli, dopo la decadenza
culturale del periodo angioino, si ha una forte ripresa con gli Arago-
nesi. Latino e catalano predominano nella cancelleria 19 , e relativa-
mente rare sono le lettere in napoletano illustre del tempo di Alfonso I.
Ma quando si viene ai tempi della politica decisamente italiana, e non
catalana, di Ferdinando I, il volgare italiano prende il sopravvento 20 , e
il Pontano dà l’impronta del proprio stile alla corrispondenza cancelle-
resca.
In questo clima fervido di studi, prospera l’insegnamento, fondato
14 Galletti, L’Eloquenza, Milano 1938, p. 574.
15 Cian, in Studi... Rajna, Firenze 1911, pp. 263-265; G. Fatini, «Il volgare
preariosteo a Ferrara», in Le rime di Ludovico Ariosto, Torino 1934 (Giom. stor.,
Suppl. XXV.
16 Simile narrazione, riferita al tempo di Niccolò III, si ha in una lettera di
Agostino Mosti pubblicata dal Solerti (Atti e mem. Dep. Storia patria Romagna, s.
3 a , X, 1892, p. 191).
17 Carlo di San Giorgio (o, come si faceva chiamare, il Polismagna) si rivolge
al duca Borso perché lo scusi presso quelli che criticassero i vocaboli d’una sua
traduzione in ferrarese illustre: «io scio che tu sei ferrarese et io ferrarese... et
però non saperla io adriciare la lingua se non al ferrarese idioma, il quale,
secondo . il mio parere, non ha mancho elegantia che alcuno altro italiano
parlare». Egli era stato infatti rimproverato, forse dal duca stesso, per aver
scritto in latino la storia della congiura dei Pio, e la riscrisse in volgare (G.
Bertoni, La Biblioteca Estense e la cultura ferrarese, Torino 1903, p. 123; Fatini, op
cit., pp. 16-17).
18 Fatini, op. cit., pp. 29-41.
18 Nella tesoreria, le cedole saranno scritte in catalano fin circa il 1480 (Croce,
cit. da Folena, Crisi, p. 6).
20 F. Nicolini, nella sua ed. di F. Galiani, Del dialetto napoletano, Napoli 1923,
pp. 113-114.
228
Stona della lingua italiana
in primo luogo sullo studio dei classici latini. I libri per tale studio, che
in questo periodo si moltiplicano, hanno spesso come strumento il
volgare: si pensi alle grammatiche 21 e ai glossari 22 in cui le frasi o i
vocaboli latini sono interpretati in volgare.
L’insegnamento del greco prospera anch’esso, per necessità intrin-
seca dello sviluppo dell’umanesimo e per convergenti spinte estrinse-
che (il concilio dì Ferrara e Firenze per l’unione della chiesa greca con
la latina; l’emigrazione di parecchi dotti dopo la conquista turca di
Bisanzio). Le traduzioni dal greco raramente sono dirette: per lo più
avvengono attraverso la mediazione del latino.
C’è anche chi affronta lo studio dell’ebraico (Giannozzo Manetti,
Giovanni Pico) 28 .
Neanche l’insegnamento mercantile è trascurato, come risulta da
trattati quali la Stimma de Arithmetica, Geometria, Proportioni et
Proportionalita (Venezia 1494) di Luca Pacioli.
Suona nelle chiese la predicazione tradizionale, in latino, in volgare
e talvolta in una miscela dell’uno e dell’altro. Sulle altre s’innalzano
alcune grandi voci: san Bernardino da Siena, il beato Giovanni
Dominici, il Savonarola. E san Bernardino insiste perché il predicatore
parli «chiarozo chiarozo, acciò che chi ode ne vada contento e
illuminato e non imbarbagliato» (pred. Ili, 1427, p. 77 Bargellini).
Qualche volta i predicatori si rivolgevano al popolo anche sulle
piazze. E un po’ per farsi meglio intendere, un po’ per attirare
l’attenzione degli ascoltatori, non mancavano di adattare la loro
parlata a quella del luogo in cui predicavano: sintomatica è l’afferma-
zione di S. Bernardino: «Quando io vo predicando di terra in terra,
quando io giongo in un paese, io mi ingegno di parlare sempre sicondo
i vocaboli loro; io aveva imparato e so parlare a modo loro molte cose.
El mattone viene a dire il fanciullo, e la mattona la fanciulla» (predica
XXIII, p. 505 Bargellini).
Ma sulle piazze s’udiva per lo più la voce dei «cantatori in panca»:
così a Firenze sulla piazza di San Martino. E sappiamo che i Perugini
a ‘ Lo scartafaccio grammaticale di Caselle (nel Canavese) contiene frasi in
volgare accompagnate dalla versione latina (Terracini, in Romania, XL, 19U, p.
435>, Filippo Beroaldo il vecchio, insegnando retorica e poesia a Bologna, si
serviva spesso del volgare (L. Thomdike, in Rom. Review, XLI, 1950, pp. 274-275);
ecc.
22 Citiamo come es. il glossario di G asparino Barzizza (1370-1430), tante volte
stampato nel Cinquecento, il glossario latino-bergamasco pubblicato dal Lorck
lAltbergam. Sprachdenkmàler, Halle 1893, pp. 95-163), il glossario del Cantalicio
fatto conoscere dal Baldelli {Atti e mem. Acc. tose., XVIII, 1953, pp. 367-406),
interessante per il colorito reatino degli interpretamenti. Abbondano i materiali
ancora inediti.
23 Cfr. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento, trad. Valbusa-Zippel, I,
Firenze 1921, pp. 231-232. Gli Ebrei, naturalmente, si servono della loro lingua per
usi liturgici e anche pratici (un testamento in ebraico letto al podestà in volgare, a
Orvieto, 1434: Debenedetti, Sollazzo, p. 112; uno in Sicilia, in Boll. Centro St. Sic., II,
1954, p. 376, ecc.).
Il Quattrocento
229
più volte ricorsero a Firenze (o ad Arowo a „ T >
dei buoni canterini 2 * Arezzo, a Siena, a Lucca) per avere
mczS'S I SutarHJ ,, ?„ Z ?‘ e dal popol °- per cul ecclesiastici e laici di
volare Q’Orfèo m dPi a pnr e dl qUeUe * ««omento classico compiste in
Tanf i® J e l JPoWno, 1480, il Cefalo di Niccolò da Correggio
Collènuccio MB^eSri - SS?? ^Anfitrione volgarizzato da Pandolfo
y i c ’ . ®*, ecc -| non è che un passatempo cortigiano
L umanesimo contribuì anche a modificare la scrittura e l’arfe dol
copiare, e il commercio librario. I libri latini sono S pTù Aerosi di
volgari che ano che cerchi di questi ultimi li dive
v Che n ^tto che l’umanesimo ha fatto nascere in
mvenz i°ne della stampa, valica le Alpi e viene a moXS
“ tutt ° 11 mondo culturale, con conseguenze hnguisti-
SDira^Jbìd?^ 1 » v° C ° d ° P ° V 3 prime stampe di libri latini, VindSSoda
se SI defum oIl^H ae - 147 °’ fl c f^mere del Petrarca; è incerti
«Deo Gratiac:, edlzl one napoletana del Decamerone detta del
p , (^ratias ». Del 1471 sono il Decamerone veneziano del Valdarfer il
SH>IL r01 T a M 0 r, del ^ uer > due edizioni veneziane della Bibbi! e
*1 ^° re dl canzon ette del Giustinian. Nel 1472 appaiono
una dii 1 ! 111 deUa Coi V'™ dia (a Foligno, a Mantova, a Iesi o a Veneria)
p c' <■> Padova), una stampa de/ riSSS
de’ cSitì deUa e ancora A Burchiello, Giusto
nlha pS^ Fl T enze e Maano sono all’avanguardia
hSg?St erva T ci S* o1o8q £ ^ Tùeufsfi £
t^nt^de^S^SS^S ^ 110 ” 0 P ° Chl *” ° 0ntmn -
.. E sintomatico vedere come la priorità, sia cronologica sia quantita-
deUa sta mpa, spetti senz’altro ai tre grandi
leopere asceriSn^XTIIfl S °?°ù fra gli ^ounaboli in volgare, Siche
cl, IS h é a qualche opera pratica (medicina, aritmeti-
m n SlJSJ dUZÌOne ^ b °tteg h e librarie attrezzate a produrre numerosi
H aa °^ nttl av eva cominciato a esercitare certi effetti linguistici
16 pecuUari tà più rare e diffìcili nei testi frequentemen-
te copiati. Ma insomma, finché il libro è manoscritto è desthmto aSTS
o a pochissime persone: quando gli editori cominciano a produrr!
25 D’Aaecina Varietà storiche e letterarie, II, Milano 1885 d 63
imo carius vulgariter S* e Sp.Sf ° “ magm ‘ ™” 5nmt “*»
230
Storia della lingua italiana
Il Quattrocento
231
centinaia o migliaia d’esemplari a stampa, si preoccupano di essere
compresi dal loro pubblico, e di non urtarne il gusto. Da principio il
tipografo non fa che affidare al compositore un manoscritto che gli
capita fra mano; ma poi si manifesta necessaria l’opera dei correttori, e
quest’opera assumerà tanto maggiore importanza quanto più il gusto
generale prenderà forme precise. Il correttore di tipografia, piuttosto
che curare che il libro a stampa riesca conforme al volere dell’autore
(preoccupazione che solo modernamente si è affermata), pensa a
presentarlo con un aspetto grammaticale corretto e coerente, e con
parole largamente intelligibili. Un manoscritto può magari presentarsi
con grafie singolari e parole un po’ strane: non così un libro che si
voglia vendere largamente. Questa è la via per cui l’industria del libro
promosse fortemente l’accettazione di una norma comune, sia nella
grammatica che nel lessico. Non basterà, naturalmente, la generazione
dell’ultimo trentennio del secolo a produrre effetti radicali; ma se
prendiamo in considerazione lo svolgimento dell’italiano comune
anche nelle due generazioni seguenti, fin verso la metà del secolo XVI,
vedremo Che la stampa ha portato un contributo decisivo a una
maggiore stabilità e uniformità della lingua 26 .
4. La «crisi» quattrocentesca
Se esaminiamo complessivamente lo stato della lingua italiana
durante il Quattrocento, notiamo una differenza notevole fra la prima
e l’ultima parte del secolo, e fra l’atteggiamento della Toscana e quello
del resto d’Italia.
Nei primi decenni il volgare è depresso e sminuito nell’opinione
generale, di contro al latino esaltato dal trionfante umanesimo: esso è
ridotto a funzioni modeste, quasi ancillari. Non manca chi scriva in
volgare, in poesia e in prosa-, manca chi lo coltivi con cura, con amore,
con coscienza d’arte. In questo stato di depressione, in Toscana la
norma si fa più indulgente ed eclettica, per non dire anarchica: l’uso
parlato fiorentino accetta largamente forme nuove, in parte provenien-
ti dal toscano occidentale e meridionale, e l’uso scritto le accoglie
senza scrupolo, in concorrenza con quelle tradizionali, quali le aveva
fissate la letteratura trecentesca. Poiché chi vuoLessere elegante scrive
in latino, l’eleganza è scarsamente curata da chi scrive in volgare 27 .
“ Bibliofili e bibliografi sono giunti a una buona conoscenza dell’attività dei
vari centri librari nell’età degli incunaboli; mancano invece ricerche le quali
mostrino in quale misura le singole stamperie abbiano avuto preoccupazioni
linguistiche e come abbiano proceduto al riguardo.
27 Si potrebbe quasi generalizzare quel che nella Famiglia dell’ Alberti,
Lionardo dice per le particolari condizioni dei dialoganti: «torniamo al proposito
nostro, del quale ragioneremo quanto potremo aperto e domestico, senza alcuna
exquisita o troppo elimata ragion di dire, perché tra noi mi pare si richiega buone
sententie molto più che leggiadria di parlare» (II I., p. 155 Pell.-Spongano).
Nei testi senza pretese (come ad esempio le lettere di Alessandra
Strozzi ai figli, deliziosamente fresche e spontanee, o i ricordi domestici
di ser Bernardo Machiavelli) la lingua fluisce schietta e senza fronzoli;
ma se chi scrive ha la più modesta preoccupazione letteraria, sùbito
fioccano dalla penna latinismi in copia. Feo Beicari poteva scrivere
versi come questi:
Prendi esercizio e non fatica nimia
Tieni il cor lieto senza verun nubilo,
se presto vuoi non si veggia il tuo funere-.
questo ti chieggo spero bramo e cupio.
Con tutte le virtù sta in festa e giubilo;
ché d’ogni grazia e d’ogni eccelso munere
ti troverai alfin pieno il marsupio **.
Avvertiva nel secolo seguente il Salviati: «Chi non era da tanto, che
dettar potesse in latino, l’appressarsi quanto potea, e usar modi, che
del Latino avessero, gloriosa opera riputava» 29 . Lo reputava necessario
anche il Landino, nel notissimo passo dell’orazione con cui inaugurava
le sue letture petrarchesche: «È necessario essere Latino chi vuol
essere buono Toscano...: volendo arricchire questa lingua bisogna ogni
di de latini vocaboli non sforzando la natura derivare e condurre nel
nostro idioma.» 30 . «Non sforzando la natura», aggiungeva il Landino;
mentre troppo spesso la sforzarono prosatori e poeti semidotti
Per tutte le condizioni che abbiamo viste (abbandono, incertezza
nella norma grammaticale, abuso del latinismo nel lessico) si è parlato
non a torto di «crisi» della lingua nel primo Quattrocento.
Se per gli usi letterari il volgare è spregiato, per quelli pratici viene
man mano acquistando vigore. Gli umanisti con il loro sforzo di
migliorare la latinità, di sterminare la barbarie medievale mettendo in
auge i modelli classici hanno finito con lo sminuire l’utilità pratica del
latino. Un bando steso nella grossolana e volgareggiante latinità
cancelleresca riusciva intelligibile a molti, sia pure pressappoco,- se il
bando è scritto in latino ciceroniano, potrà essere compreso da poche
persone colte, non certo dal popolo. E siccome i nuovi prìncipi hanno
bisogno del favore del popolo, alcuni di essi favoriscono apertamente
un più ampio uso del volgare.
La crisi del volgare e quella del latino vanno studiate nel gioco delle
reciproche influenze. Vediamo così che l’umanesimo, dopo aver depres-
so il volgare per azione diretta, finisce col riabilitarlo per azione
indiretta. Ma ora il volgare, sciatto in Toscana e mescidato alla
28 Flamini, La lirica toscana del Rinascimento, Pisa 1891 p 371
29 Salviati, Avvertimenti della lingua, libro II, cap. 7.
“. L ’° r * zione è (mediocremente) pubblicata da F. Cor azzini, Miscellanea di
cose inedite o rare, Firenze 1853.
232
Storia della lingua italiana
periferia, pieno di male assorbiti latinismi, non è più in grado di
contentare scrittori diventati più maturi e più esigenti alla scuola dei
classici. E negli ultimi decenni del’400 il volgare risorge, approfittando
di questa più matura esperienza: trionfa quello che è stato chiamato
l’umanesimo volgare. Di nuovo Firenze assurge, con Lorenzo de’
Medici e col Poliziano, a un’alta sintesi, letteraria e linguistica.
Nelle altre nazioni dell’Europa occidentale, la crisi umanistica,
avvenuta più tardi che in Italia, determinerà profonde fratture: il
francese e lo spagnolo (e anche, variatis variandis, l’inglese e il
tedesco), scossi fino alle fondamenta dalle innovazioni lessicali e anche
grammaticali portate dalla cultura umanistica, volteranno addirittura
le spalle al passato e creeranno, su nuovi fondamenti, nuovi canoni
letterari e linguistici, cosicché la fase medievale e la fase rinascimenta-
le di ciascuna di quelle lingue si presentano nettamente diverse. In
Italia invece si ebbe poco più che un riassestamento, ima crisi di
crescenza, tanto salde e già preumanistiche erano le basi della
letteratura e della lingua.
5. Latino e volgare
La vita culturale del Quattrocento italiano si svolge nelle due
lingue, e, come abbiamo accennato, la dinamica delle vicende del
volgare non si comprenderebbe senza conoscere le vicende del latino.
Anche perciò è importante vedere in qual misura si ricorresse all’una e
all’altra delle due lingue, e come esse venissero considerate durante il
secolo 31 .
Tutti i letterati sanno, più o meno, il latino. Ma mentre nel primo
periodo dell’umanesimo troviamo qualcuno dei maggiori che scrive
solo o quasi in latino (p. es. il Salutati), più tardi ne troviamo molti che
esercitano con perizia le due lingue, come il Poliziano, il Sannazzaro, il
Pontano 32 .
Negli usi pratici, il volgare resta saldamente installato anche nel
periodo in cui è letterariamente depresso. La signoria di Firenze scrive
in fiorentino ai propri rappresentanti 33 , ed essi di solito tengono in
31 Notizie confuse, ma in qualche parte utilizzabili, dà l’opuscolo di M. T.
Ruga, Latino e volgare nella letteratura italiana dalle origini alla fine del
Quattrocento, Pescara 1912. Eccellente il saggio di P. O. Kristeller, «L’origine e lo
sviluppo della prosa volgare italiana», in Cultura neolatina, X, 1950, pp. 137-150 (e,
in ingl., in Studies in Renaissance Thought and Letters, Roma 1956, pp. 473-493).
32 n Collenuccio scrive in volgare il suo trattatello De l’educazione, pur
dichiarando la sua preferenza per il latino-, «Ora non so se avrò satisfatto a
tutt’uomo, per esseré stato breve; questo so bene che a me medesimo non ho
satisfatto, si perché scrivo più volentieri in lingua latina, e la dignità de la
materia pare che lo richieda...» (cit. da C. Varese, P. Collenuccio umanista, Pesaro
1957, p. 55).
33 Nel 1401 la signoria scrive in volgare ai propri ambasciatori a Bologna, e
invece in latino a Giovanni Bentivoglio (v. la citazione dei testi, pubblicati dal
Il Quattrocento
233
*.?/• '
volgare le loro orazioni: messer Nello di Giuliano da San Gimignano
mandato ambasciatore a Martino V nel 1425, così si esprime:
sar ebbe di bisogno innanzi a tanta Santità di parlare per gramatica
che Sì I richiederebbe e di quella materia la quale a noi dalla
Sjgn ° na è stata imposta. Ma perché e* non è di consuetudine
degli altri oratori e ambasciadori fiorentini, e etiandio per più propiamente e più
Proposito di quegli che ce l’anno commesso, per vulgare si poterà
meglio soddisfare a ciascuna parte con quella facilità e brevità... 34 .
Nel chiedere libero passaggio per il territorio della Repubblica
fiorentina, gh ambasciatori di Carlo Vili parlano in latino, e in latino
ricevono risposta (1494). Invece gli ambasciatori di Massimiliano (1496)
richiedono aetrusca lingua l’alleanza di Firenze - e la risposta è fatta in
volgare 35 .
Anche le scritture concernenti liti commerciali dovevano, a Firenze
f 7,°, ,gar ^ d0p0 Che la Scoria e i Consigli maggióri, il 27
e 28 marzo 1414, ebbero accolto e trasformato in provvisione la
petizione seguente:
daS u a V -° Ì ’ ma ? nÌflCÌ Signori - signori Priori delle Arti e Gonfaloniere
nf ^ f ’ ch e vi piaccia Provvedere, e pe’ Consigli del Popolo e del Comune
«mihfrn 2 !— 6 solennemente riformare le infrascritte cose, cioè che tutte le
^ iatl 6 s ® n * enzie che S1 faranno o fare si dovranno pe’ Sei o Uficiale
° a!Ì! & l 0 r°“ rte ’ ° neUe corti deU e Arti della città di Firenze, o in
«UriS- d T A ^ tl S1 debbano fare e scrivere in volgare, e non altrimenti: e se
si facessimo non vaglino e non tengano, e non sieno d’alcun valore o
? c ? s }® 1 debba osservare. E che il notaio e qualunque altra persona
che facesse le dette scritture altrimenti che in volgare come è detto, caggi in
^ ni Volt f’ ^ llre . mUle ec ■ E che la Presente leggie cominci a’ dì primo
del mese di gennaio prossimo che viene, e non prima 36 .
Un altra provvisione, del 15 febbraio 1451, stabiliva che i notai della
CanceUena tenessero nota delle spese «scrivendo in volgare, acciò
smtenda pe Ragionieri, che aranno a riscontrare coll’entrata del
Monte» 3 ' 01 ' 6 ^ decta Camera et col Camarlingho della Cassetta del
Nella corrispondenza, pubblica e privata, alcune volte il criterio di
scelta fra latino e volgare è apertamente dichiarato o si può determina-
re. La preferenza per il volgare, nella corrispondenza con altri comuni.
a J' KnsteU ® r - Cult neoL ' x ' 195 °. P 145 n.). Nel 1454 la signoria di Firenze
Per Certl Slcan mandati contro Poggio, scrive in volgare a Santi
Sgato TOntiflcù^ùestY 1 lat w t Ua Si £ n ° ria * BoIo « na e a l cardinale Bessarione,
legato pontmcio (testi ap. Walser, Poggius Florentinus, cit., pp. 389-391).
55 ?'• ^ 544, c ' 123 a > eh- da v - Rossi, Quattrocento, 2 “ ed., p. 166.
(^alletti, L eloquenza, cit., p. 575 .
38 Misceli. Fiorentina, I, pp. 28-29.
37 Marzi, La Cancelleria, cit., p. 591 .
234
Storia della lingua italiana
Il Quattrocento
235
wm
è esplicitamente affermata dai Fiorentini in una loro risposta al Senesi
che avevano scritto in latino:
E perché noi crediam che sia utilissimo a voi e a noi dichiarare bene e
apertamente senza punto di simulazione ovvero dissimulazione qual sia la vera
intenzione e il puro e sincero proposito di ciascuno di noi, abbiamo deliberato di
farvi questa risposta più tosto in volgare che in latino, sì e per soddisfar meglio e
più agli animi nostri, sì etiamdio perché la S. V. non abbia di bisogno
nell’intendere di questo nostro così sincero proposito d’altra interpretazione che
della nostra propria, nè in altro sentimento si possa intendere che in quello che è
il naturale e il vero intelletto delle parole volgari 38 .
Ma, se scorriamo le 49 lettere spedite fra il 1435 e il 1440 dal Cardinal
legato Vitelleschi ai priori di Viterbo 38 , vediamo che sono parte in
latino e parte in volgare, senza che se ne capisca il perché: forse
secondo l’opportunità d’aver sottomano l’uno o l’altro segretario.
S’intende per qual ragione sia scritta in volgare ima richiesta
indirizzata personalmente a un principe poco latinista: così in mezzo
“alle molte lettere latine di Biondo da Forlì spiccano le due in volgare
indirizzate a Francesco Sforza, per raccomandargli il figlio (1459) e per
chiedere un sussidio per la pubblicazione della quarta Decade delle
sue storie (1463): «la quale deca nè altro più non posso scrivere senza
alturio de chi pò et a chi tocha» 40 .
Tra gli scritti non letterari, ci stupisce trovarne in latino qualcuno
riferito ad argoménti molto familiari, per esempio due trattatelli di
cucina, probabilmente provenienti dallTtalia meridionale, di età angioi-
na 41 .
Le traduzioni dal latino in volgare (e anche dal greco, ma spesso
attraverso il latino) sono in questa età molto numerose-, frequente è la
dichiarazione dei traduttori d’aver compiuto il lavoro a utilità dei men
dotti; non meno frequente quella d’aver obbedito alla richiesta di un
principe. Vediamo il povero Boiardo affannarsi alla richiesta del suo
duca (Ercole I) di tradurgli in fretta un pezzo del De Architectura
dell’Alberti fletterà del 17 settembre 1488; II, p. 572 Zottoli): s’intende
chiaramente che, se anche il duca avesse a disposizione il libro, non
sarebbe in grado d’interpretarlo con esattezza.
Che le traduzioni siano più o meno buone, è sempre accaduto e
sempre accadrà. Molto si lagna di quelle disponibili al suo tempo
Matteo Palmieri:
alquanti ne sono volgarizzati, che ne’ loro originali sono eleganti, sentenziosi
e gravi, scritti in latino, ma dall’ignoranza de’ volgarizzatori in tal modo corrotti,
dìe molti ne sono da ridersene di quelli che in latino sono degnissimi, e vie più da
38 Kristeller, in Cult, neol., X, 1950, p. 149.
38 Pinzi, in Arch. Soc. Rom. St. P., XXX, pp. 357-407.
40 Biondo Flavio, Scrìtti inediti e rari, ed. B. Nogara, Roma 1927, pp. 210-212.
41 M. Bouchon, in Arch. Lat. Medii Aevi , XXII, 1952, pp. 63-76.
ridere sarebbe eh me, se io volessi dimostrare che Tullio, Livio, o Virgilio e più
altri volgarizzati autori, in nessuna parte fossero s imili a’ primi, perocché non
altrimenti gli somigliano che una figura ritratta dalla più perfetta di Giotto, per
mano di chi mai non avesse operato stile nè pennello, s’assomigliasse all’esempio
che avvengadio avessi naso, occhi, bocca e tutti i suoi membri, nientedimeno
sarebbe tanto diversa, quanto ciascuno in sé stesso immaginare puote, e forse
ritraendo con l’ali Gabriello, non lo conosceresti dall’infemale Lucifero ( Vita
ernie, Proemio).
Le imperfezioni della traduzione possono dipendere da molte cose.
Anzitutto da difficoltà intrinseche del testo latino; talvolta dal non
esistere nel volgare vocaboli corrispondenti. Il Landino, nell’introduzio-
ne alla sua versione di Plinio, si scusa: «Non so come interpreti
seminario et arbusto, item ablaqueare et interlucare, se non per
circonlocutione o per il medesimo vocabolo».
Può anche darsi che il traduttore tenda a tirar via: Battista Guarirli
criticato dal duca Ercole per la sua versione dell 'Aulularia, scrive al
duca (26 febbraio 1479) mandandogli il Curculio tradotto: «io mi forcio
andare dietro ad le parole dii testo» 42 .
Un severo giudizio, in questo periodo, può anche essere dettato da
diverse opinioni circa la norma linguistica. Giovanni Brancati matera-
no, bibliotecario di Ferdinando d’ Aragona, censura, in una lettera
latina al suo re, la versione di Plinio fatta dal Landino, non solo perché
considera il traduttore un «filosofastro», ma anche perché non gli piace
il toscano, difficile a leggersi e a pronunziarsi 43 .
Attraverso le numerose versioni di questo periodo nuove parole
entrarono in circolazione. Vediamo che proprio alla versione pliniana
del Landino da prima edizione certa è quella di Venezia, Jenson, 1467)
attinge il Pulci nel bestiario da lui inserito nel XXV canto del Morgante-.
di li vengono caprimulgo, ippotamo (sic), ibis, rinoceronte (nel Landino
rhinocerotéì, oltre a qualche parola-fantasma 44 .
Non bisogna dimenticare che si ha anche un certo numero di
versioni dall italiano in latino: delle novelle del Boccaccio furono
tradotte (dopo la Griselda, che il Petrarca mise in latino nell’ultima
delle Senili) il Ciappelletto a opera di A. Loschi, Tito e Gisippo da F.
Beroaldo, Guiscardo e Gismonda da L. Bruni, re Alfonso e messer
Ruggieri da B. Fazio 45 . Il De Prospectiva pingendi di Piero della
Francesca, scritto in volgare, fu, poco dopo, tradotto dal suo conterrà^
neo maestro Matteo. Del resto. Vespasiano da Bisticci diceva di aver
scritto il suo libro «a fine che se alcuno si volesse affaticare a far latine
queste vite, egli abbia innanzi il mezzo col quale egli lo possa fare»
(Discorso dell’autore).
Durante tutta 1 età umanistica è costante e in vario modo operante
42 Bertoni, La Biblioteca estense, cit., p. 131.
43 Croce, in Quaderni della Critica, marzo 1948, pp. 20-22.
44 Merlano, in Lingua nostra, XIII, 1952, pp. 2-3.
45 Ruga, Latino e volgare, cit., pp. 23-24.
530
Storia della lingua italiana
Il Quattrocento
237
a simbiosi tra latino e volgare. Frequenti sono i titoli latini a opere
taliane {Amorum libri, il canzoniere del Boiardo; De prospectiva
ìingendi; Hypnerotomachia Poliphili, ecc.). Nelle lettere in volgare,
nolto spesso l'intitolazione, i saluti e la firma sono in latino 48 . La lettera
li dedica della Summa del Pacioli a Guidobaldo d’Urbino è in italiano e
n latino 47 .
Non è raro, nelle lettere, che frasi intere o pezzi di frasi in latino si
mescolino a un contesto in volgare. Si legga la lettera in cui Taddea e
Matteo Maria Boiardo si lagnano con la comunità di Reggio che sia
stato concesso. di edificare un molino a Barnaba Capraro, «cosa ad nuy
aon mediocrìter molesta duplici rattorte, perché il non se può negare
:he...» detterà 14 genn. 1464).
Oppure l’inizio di una lettera autografa di papa Sisto IV a Galeazzo
Viaria Sforza, del 28 luglio 1474:
Carissime fili salutem et apost. benedict. Ve habiamo scripto molti brevi per li
juali asai ampiamente avete potuto intendere la iustitia nostra in li fati de Cita di
fastello. E per questo si maravigemo assai e non possiam credere quillo n’e
scripto da Fiorensa ciò che voi non solo incitati Fiorentini contro di noi, ma anco
prometete a loro ogni subsidio centra di noi. A, fili carissime, quid tibi fecimus ?
Non se ricordiamo averve offeso mai nec verbo neque opere ; anco per lo singulare
amore vi portiamo tuto quello abiamo potuto fare per voi habiamo fato e faremo
sempre. A a, numquid redditur prò bono malum? Quare foderunt foveam anime
rtee? A, fili carissime consciderate la iustitia de le mie petitione. Considerate
lontra quem agitar...**.
Ovvero una protesta dei Napoletani contro messer Lupo, luogote-
nente della Vicaria (1479):
Imperò requerimo vui messer Lupo ex parte Regine Maiestatis et dictae
civitatis et eo rum civium in genere et in specie sotto quella pena, la quale contene
in nelle diete constituciune, capituli, pragmatica et ordinacione fatte et ordinate
ut supra et per quanto haviti cara la gratta de dieta Maiestà... 49 .
Più ovvio è che l’oratore fiorentino a Carlo Vili, Gentile Becchi, nel
riferire a Piero de’ Medici quello che ha detto al re. in latino, intercali
nella lettera dei passi latini 50 .
— Eufe mis mo e solennità par di sentire in quel tratto di lettera di
Bernardo Dovizi a ser Andrea da Foìano (21 maggio 1490) in cui parla di
un creduto attentato a Lorenzo de’ Medici: «s’è decto che volevano e
venivano per far impresa di grande momento, cioè interficere patronum
nostrum»* 1 ; eufemistiche vogliono essere le parole di don Atteone (nella
« Esempi in Migliorini-Folena, Testi Quattr., passim.
47 Olschki, Gesch. der neuspr. wiss. Literatur, I, p. 152.
48 Pastor, Storia dei Papi, II, p. 766.
40 Altamura, Testi nap. del Quattrocento, Napoli 1953, p. 33.
“ Santini, Firenze e i suoi oratori nel Quattrocento, Palermo 1923, pp. 205-206.
51 Moncallero, Il Cardinale Bem. Dovizi, Firenze 1953, p. 48.
lettera-novella di Sabatino degli Alienti, p. 418 Gambarin) sul «capella-
no don Baptista, il quale laborabat in extremis ».
Frasi e locuzioni latine si trovano frequentemente a proposito di
argomenti religiosi, quando si citano o riassumono testi biblici o
liturgia.
Nelle sacre rappresentazioni, non è raro il caso di personaggi che
adoperino frasi o addirittura strofe intere in latino. Nel Morgante
(XXVII, st. 142) l’Arcangelo Gabriele che appare a Orlando morente gli
ricorda le parole di Giobbe alla moglie citando i passi biblici e poi
traducendoglieli:
E perché pur la moglie si dolea
E’ disse: «Donna mia, ora m’ascolta:
Dominus dedit, lui data l’avea,
Dominus abstulit, lui l’ha ritolta,
Sicut Dominus placuit, in ea
Factum est, così fatto è questa volta».
E poi «Sif nomea Domini » ebbe detto
«Il nome del Signor, sia benedetto».
Anche più numerose che nel Trecento o nel tardo Cinquecento sono
le parole e locuzioni, particolarmente avverbiali, passate dallo stile
cancelleresco latino a quello italiano: assiduo, a utem, ecc.
La miscela più curiosa è quella che notiamo in numerose prediche
degli ultimi decenni del secolo. Accanto a sermoni in latino e a sermoni
in volgare ne abbiamo molti in cui il latino e il volgare si mescolano 52 .
Ad esempio, nel Quaresimale di p. Valeriane) da Soncino leggiamo:
Scis quod facit vulpes quando abstulit galinam illi paupercufae feminae ? La se
ne va in lo boscheto e se mette in la herba fresca e volta le gambe al celo e sta a
solazar cum le mosche. Sic faciunt isti prophete, questi gabadei, questi hypocrito-
ni, sangioni dal collo torto, quando habent plenum corpus de gaiini, caponi,
fasani, pernise, qualie e de boni lonzi de vitello e qualche fìdegeti per aguzar lo
apetito, e lo capo de malvasia, vernaza, vino greco, tribiani e moscatelli cum
qualche prosuto, salziza, cerveladi, mortadelli, beroldi o vero cagasangui a la
bresana per bevere melio. Non vedesti mai, madre mia, li meliori propheti.
Oppure:
Aliquis possit dicere: mundus nunquam fuit sceleratus sicut nunc. Dico quod
non est verum-. que mundus fuit semper una gabia de matti, figurata per archam
Noe piena de ogni bestiame 53 .
52 Galletti, L’eloquenza, pp. 263-266; R. Garzia, «I sermoni maccheronici del
Quattrocento», in Annali della Facoltà di Lettere dell'Univ. di Cagliari, 1, 1928; A.
Viscardi, «Il quaresimale di Pavia di Bernardino da Feltre (1493)», in Cult,
neolatina, II, 1942, pp. 280-291. —
53 Manoscritto nella Bibl. Univ. di Genova, A. Ili, 18, cc. 65 e 67 (cit. Garzia, art.
cit., pp. 23 e 18).
238 Storia della lingua italiana
O, nei sermoni del b. Bernardino Tomitano da Feltre raccolti da un
confratello bresciano 54 : «Quid est illa ballarina nisi una noctua que
ludit su l’archetto per farse remirar?» (p. 6); «Si lex prohibet et non
servatur, ché non ne facciamo scartozi?» (p. I6>,*emisit illam infoca-
tam orationem come una bombarda, et misit ad terrarn Paulum » (p. 275),
ecc.
E simili testi si possono trovare in Gabriele Bareleta, Cherubino da
Spoleto, Giovanni dell’Aquila.
Fino a che punto questa miscela corrispondeva a un uso effettivo?
Se avessimo solo imo o due esempi isolati potremmo interpretarli come
un accidente sopravvenuto nella trasmissione. Potremmo cioè ritenere
che le prediche fossero effettivamente fatte in volgare, e poi raccolte
per mezzo d’una specie di tachigrafia; siccome la tachigrafia insegna-
va ima serie di compendi di parole latine, l’ascoltatore avrebbe
mentalmente tradotto in latino le parole, e in latino sarebbero poi state
decifrate. Ma, in presenza di testi piuttosto numerosi di questo tipo,
l’ipotesi va scartata, e bisogna ammettere che la miscela presentataci
dai testi corrisponda abbastanza fedelmente alla realtà. Data la
capacità dei predicatori di servirsi correntemente delle due lingue, la
scelta fra l’una e l’altra doveva essere dettata da varie circostanze: il
carattere dell’uditorio, il luogo (piuttosto in latino nelle chiese, sempre
in volgare sulle piazze), l’indole del predicatore 55 , l’argomento della
predica 56 . Poiché anche nelle prediche in volgare i testi biblici e
patristici si citavano in latino, l’uditorio era abituato ad ascoltare un
discorso mescidato, considerandolo in qualche modo appartenente al
rito ecclesiastico, e accontentandosi, dove non capiva, di abbandonarsi
al tono e al gesto del predicatore. Di questa consuetudine alcuni
approfittarono per inserire nelle prediche latine frasi intere o pezzi di
frase in volgare, specialmente per raggiungere un tono più confidenzia-
le nelle parti narrative e aneddotiche.
Nasce alla fine del Quattrocento a Padova, con Tifi Odasi autore
della Macaronea e Corrado autore della Tosontea , una nuova stilizza-
zione artistica di questo ibridismo 57 , la poesia maccheronica 56 . La
54 Sermoni del b. Bernardino da Feltre, a cura di p. Carlo da Milano, I, Milano,
1940. —
55 Fra Gabriele Bareleta era famoso per i suoi scherzi, tanto che si era coniato
il motto «nescit praedicare qui nescit bar Iettare».
56 Fra Cherubino da Spoleto avverte (serm. 38) che, dovendo parlare dell’atto
coniugale, «tu praedicator conare honeste dicere quantum potes, et quod non
potes honeste dicere vulgariter dice latine».
57 Nei secoli precedenti abbiamo visto alcune poesie con alternanze di versi
in due o più lingue (il discordo di Rambaldo di Vaqueiras, YAi faus ris attribuito a
Dante, le alternanze di versi teorizzate da Gidino da Sommacampagna): ora
(verso il 1485) il Cantalicio compone una saffica latina, in cui però in ciascuna
strofa l’ultimo verso Q’adonio) è un quinario in volgare: «Surge venantum cito
turba surge... - Chiama Allegretto».
58 U. E. Paoli, Il latino maccheronico, Firenze 1959.
Il Quattrocento
239
mescidanza è diversa da quella dei predicatori, perché nel maccheroni-
co la grammatica, e la metrica latina sono sostanzialmente rispettate, e
solo nel lessico si mescolano a scopo burlesco parole volgari. Nato in
ambienti universitari e con forme umanistiche (come si vede anche
dall uso quasi costante dell’esametro), lo stile maccheronico può aver
preso ispirazione ó dalla lingua mescidata dei predicatori o da altre
miscele latino-italiane, di cui anche nell’università non dovevano
mancare esempi 5 ®.
Ora che abbiamo visto, sia pur molto sommariamente, in quali modi
latino e volgare si opponessero oppure convivessero, ci resta da
accennare alle dispute fra fautori e oppositori dell’ima e dell’altra
lingua 60 .
Numerose testimonianze a favore del volgare portano i personaggi
r \? ra f lso d&Sti Alberti ", ma non ci è possibile contarle come
altrettante attestazioni singole, bensì come segno della tendenza
favorevole dell’autore Giov anni Gherardi 82 .
Per lo più, le discussioni non vertono sui volgare in sé, ma sull’uso
che ne hanno Tatto i tre grandi scrittori. Nel I libro dei Dialogi ad
Petrum Histrum (cioè a Pietro Vergerio di Capodistria) del Br uni
leggiamo 1 asserzione del Salutati che Dante sarebbe superiore ai
Greci e ai Latini se avesse scritto in latino 83 e la tirata del Niccoli sugli
errori di Dante, la sua cattiva latinità e la rozzezza che ne fa un poeta
da fornai 64 ; nel secondo libro il Niccoli ritratta la contumelie e fa le lodi
n w ™»I^J 3, £ S J ntaZÌOne d ' un Pellegrino (cit da V. Rossi, Quattrocento, 2* ed.,
p. 302), maestro Balzagar medico dice a un compare:
...questa arte vuol pratica:
essere ardito e ben ciaramellare,
e qualche volta parlare in grammatica
in is, in ws, in as, e disputare.
. . Proverbiali erano le storpiature del latino che facevano i cuochi, probabilmen-
ro laici i? ei conventi^ si ricordi la Confabulano coquinaria di Ugolino Pisani
(1435) (Rossi, Quattrocento, pp. 528 e 559) e la frase del Valla contro Poggio (1452
arca): «numquid a tuo coquo didicisti?... culinarium vocabulum est» (Liber Poggii
9f ,er “’, Basilea, 1540, p. 368). Sull’espressione spregiativa latin de cuisine,
KOchenlatem stati scritti vari articoli: v. R. Pfeiffer, in Philologus, LXXXVI 1930
pp. 455-459. *
« Y ^j an ’ ‘Pro. e contro il volgare», in Studi... Rajna, pp. 251-297.
c .e < 2 tano specialmente le parole di un interlocutore padovano (Marsilio di
So ® a): «ornai chiaro veggio e conosco che l’edioma fiorentino è si rilimato e
copioso che ogni stratta e profonda matera si puote chiarissimamente con esso
dire, ragionare e disputare».
. . tnGiom. stor., LX, pp. 290-291; in genere, sulla prudenza con cui
bisogna mterpret are il Paradiso degli Alberti, v. Baron, The Crisis, cit., pp. 67-75
... «Dantem vero, si alio genere scribendi usus esset, non eo contentus forem
no ? trls compararem, sed et ipsis et Graecis etiam
anteponerem» (p. 30 Kimer).
64 «Quamobrem, Coluci, ego istum poetam tuum a concilio litteratorum
rlìXam» (pp e 33™ “ ^ lanariis) ’ plstorìbus atc l ue eiusmodi turbae
240
241
Storia della lingua italiana
dei tre scrittori; ma insomma rimane qualche dubbio sulle sue vere
opinioni 65 .
Cino Rinuccini in una sua Invettiva biasima i detrattori dei tre poeti;
Domenico da Prato, difesi Dante e il Petrarca, loda espressamente il
volgare: «O gloria e fama della italica lingua! Certo esso volgare, nel
quale scrisse Dante, è più autentico e degno di laude che il latino e il
greco che essi li detrattori! hanno».
Molto importanti nella loro ponderazione e moderatezza sono i
pareri di Leon Battista Alberti, per l’autorità dell’uomo, versato in
molte scienze ed arti, esperto di molteplici attività, sicuro scrittore ih
ambedue le lingue. Nel Proemio al terzo libro Della famiglia, l’Alberti
afferma che gli scrittori hanno sempre scritto per essere intesi: perciò
«forse e prudenti mi loderanno s’io, scrivendo in modo che ciascuno
m’intenda, prima cerco giovare a molti che piacere a pochi: ché sai
quanto siano pochissimi a questi dì e litterati... 66 ; ... chi fusse più di me
docto o tale quale molti vogliono essere riputati, costui in questa oggi
comune tro verrebbe non meno ornamenti che in quella, quale essi
tanto prepongono e tanto in altri desiderano... E sia quanto dicono
quella antica apresso di tutte le genti piena d’auctorità, solo perché in
essa molti docti scrissero, simile certo sarà la nostra, s'e docti la
vorranno molto con suo studio et vigilie essere elimata et polita...» (pp.
232-233 Pellegrini-Spongano).
Si radica profondamente in questa persuasione, che il volgare sia
capace di esprimere alti concetti purché vi sia chi degnamente lo
coltivi, la gara promossa da Leon Battista Alberti, sovvenuta da Piero
de’ Medici, bandita solennemente dagli Officiali dello Studio, celebrata
il 22 ottobre 1441 nella chiesa di S. Maria del Fiore. Il nome di Certame
coronario, formato di due latinismi, può magari spiacerci, ma corri-
sponde appunto al fine di nobilitazione del volgare che la gara si
proponeva; e mostra che, più che dalla conoscenza - che probabilmen-
te l’Alberti ebbe - di analoghe feste e concorsi piccardi, tolosani,
barcellonesi, l’ispiratore della gara fu guidato dal più o meno vago
ricordo di feste romane 67 .
I versi letti al Certame dagli otto concorrenti sul tèma proposto da
vera amicizia) erano assai scialbi; e i solenni giudici che dovevano
65 Altrove (nella Vita di Dante, scritta nel 1436) il Bruni mette il volgare,
quanto alla poesia, allo stesso livello del latino: «lo scrivere in stile letterato o in
volgare non ha a che fare col fatto di essere o no poeta, nè altra differenza è se
non come scrivere in greco o in latino. Ciascuna lingua ha la sua perfezione e suo
suono e suo parlare limato e scientifico» (Solerti, Le vite di Dante, Petrarca e Bocc.,
p. 106). Per le opinioni del Bruni sul volgare, v. Baron, The Crisis, cìt,, pp. 422-429.
66 L’Alberti aveva già fatto una dichiarazione analoga nella sua prima opera
d’impegno scritta in volgare, il Teogenio: «e parsemi da scrivere in modo ch’io
fussi inteso da’ miei non litteratissimi cittadini» ( Opere volgari. III, p. 160).
67 Si veda specialmente P. Rajna, «Le origini del Certame coronario», in
Scritti vani... Renier, Torino 1912, pp. 1027-1056, A. Altamura, Il Certame coronario,
Napoli 1952.
Il Quattrocento
prenuare il vincitore con la corona d’alloro lavorata in argento,
decisero di non assegnarla. Una «protesta» giuntaci anonima, e che
figura scritta da persona indotta, è probabilmente dell’Alberti stesso 08 .
Il fallimento della gara mostra che nel 1441 la riabilitazione del
volgare non era ancora avvenuta nella comune opinione dei dotti. I
giudici forse ebbero il torto d’intendere la gara come una sfida al
latino, anziché, come l’Alberti la concepiva, un mezzo per far ricono-
scere le capacità del volgare e cooperare ad affinarle.
Basti una menzione delle contraddittorie opinioni sostenute dal
mutevole e venale Filelfo, che commentò il Petrarca e Dante, scrisse un
discorso in volgare (1451) «contro i suoi emuli i quali dicevono esser
Dante poeta da calzolai e da fornai», e poi affermò del volgare «hoc
scrrbendi more utimur iis in rebus quorum memoriam nol um us tran-
sferre ad posteros»; e di quelle del lodatore del passato Vespasiano da
Bisticci, persuaso che «nello idioma volgare non si può mostrare le cose
con quello ornamento che si fa in latino» («Vita di re Alfonso»).
Invece Lodovico Carbone, nella sua Esortazione— al duca Borso
(1459), difende Dante e il volgare («nientedimeno il volgare e materno
idioma è tanto in esso limato e terso con ioconda rima e profonda
sentenzia, che non meno lo fa degno che se in latino fussi composto») 09
11 Landino, professore di retorica e poetica nello Studio fiorentino e
cancelliere della Signoria, è anche commentatore di Dante e del
Petrarca e traduttore di Piimo in volgare: nell’Orazione inaugurale già
citata (1460) vorrebbe vedere meglio coltivate le spontanee doti del
volgare («ciò che di magnificenza e d’eleganza in sé la fiorentina lingua
dimostra si può piuttosto da nativa abundantia riconoscere, che a lima
oratoria attribuire»). Più tardi, proemiando alla Sforziade di Cicco
Simonetta da lui tradotta (1490), lodava «la Fiorentina lingua, laquale è
comune non solo a tucte le genti Italiche, ma per la nobilità dalcuni
scriptori di quella è sparsa et per la Gallia et per la Hispagna» (c. 3 a).
Ma erano intanto passati trent’anni, e l’umanesimo volgare aveva fatto
grandi passi 70 .
6. L’umanesimo volgare
Lo sforzo di Leon Battista Alberti per risollevare il volgare dal-
le basse condizioni in cui era caduto, al livello delle lingue classiche,
per mezzo dei propri scritti e del Certame coronario, può essere consi-
derato un importante avvio all’umanesimo volgare, il quale giun-
68 II Rajna (p. 1032) ha rilevato alcuni persuasivi riscontri tra l’uso dell’Alberti
e quello della Protesta (imperfetto congiuntivo con valore di condizionale- «per
quale la terra nostra molto ne fosse onestata», ecc.).
68 II Borghini, I, 1863, p. U 4 .
™ Vedi M. Santoro, «Cristoforo Landino e il volgare», in Giom. stor. lett it
LXXI, 1954, pp. 501-547.
242 Storia della lingua italiana
gerà a maturazione con Lorenzo e col Poliziano, col Boiardo e col
Sannazzaro.
Il Landino (nell’Orazione inaugurale più volte citata) riconosceva
all’Alberti questo merito:
Ma huomo che più industria abbia messo in ampliare questa lingua che
Batista Alberti certo credo che nessuno si trovi. Leggete prìego i libri suoi e molti
e di varie cose composti. Attendete con quanta industria ogni eleganzia
composizione e degnità che appresso ai Latini si trova si sia ingegnato a noi
trasferire.
A noi la grafia, la sintassi, il lessico dell’Alberti danno l’impressione
di una troppo scoperta intrusione di elementi latini: ma era pur
necessario passare per questa fase per giungere a una più matura
fusione.
All’altezza d’arte di Lorenzo de’ Medici e del Poliziano fa riscontro
la sicura consapevolezza che essi avevano dei meriti della lingua. La
raccolta di liriche mandata nel 1476 da Lorenzo a Federico, figlio di
Ferdinando d’ Aragona (dove predomina il gusto stilnovistico) è prece-
duta da un’epistola critica, scritta con ogni probabilità dal Poliziano, in
cui si celebrano le lodi del toscano:
Nè sia più nessuno che quella toscana lingua come poco ornata e copiosa
disprezzi. Imperocché, se bene giustamente le sue ricchezze e ornamenti saranno
estimati, non povera questa lingua, ma abbondante e politissima sarà ritenuta.
Nessuna cosa gentile, florida, leggiadra, ornata, nessuna acuta, ingegnosa,
sottile, nessuna ampia, copiosa, nessuna altra magnifica e sonora, nessuna altra
finalmente ardente, animata, concitata si potrà immaginare, della quale... con
quegli due primi, Dante e Petrarca... i chiarissimi esempi non risplendano....
Più meditate lodi dà Lorenzo alla «materna lingua», «comune a
tutta Italia» nel Comento sopra alcuni de’ suoi sonetti, che dev’essere di
poco posteriore al 1476. Egli viene «considerando quali siano quelle
condizioni che danno degnità e perfezione a qualunque idioma e
lingua» e le riduce a quattro: la più vera lode della lingua è quella
d’«essere copiosa ed abbondante, ed atta ad esprimere bene il concetto
della mente»; poi «la dolcezza e armonia»; poi l’essere scritte in quella
lingua «cose sottili e gravi e necessarie alla vita umana» (cioè il
possedere un’importante letteratura); infine «l’essere prezzata per
successo prospero della fortuna» (cioè l’avere un’ampia espansione
territoriale). Ci guarderemo bene da anacronistici confronti con i criteri
della moderna linguistica funzionale. Importa invece vedere la sicura
persuasione dell’alta dignità della lingua, in cui i tre grandi fiorentini
hanno espresso «ogni senso». E più ancora si può aspettare dall’avve-
nire: ché la lingua è appena nella sua adolescenza, «perché ognora più
si fa elegante e gentile».
Già i tre grandi fiorentini avevano costituito il principale argomento
per i difensori del volgare nella prima metà del secolo-, nelle parole del
Il Quattrocento 243
Magnifico si ha una pagina d’esaltazione incondizionata dei tre, ai
quali è aggiunto (né la cosa ci stupisce, conoscendo i gusti stilnovistici
di Lorenzo) Guido Cavalcanti.
Non è qui il luogo di tracciare la storia della fama di Dante,
Petrarca e Boccaccio durante questo secolo 71 «di soffermarci su quel
particolare capitolo della storia della fama che è la loro accettazione
come modelli scolastici 72 .
Ricordiamo solo quel verso dell’iscrizione che Bernardo Bembo
padre di Pietro, fece apporre nel 1483 alla tomba di Dante 73 :
N imir um Bembus Musis incensus Ethruscis:
in essa il patrizio veneziano definisce non soltanto sé stesso, ma tutto
l’umanesimo volgare.
Negli ultimi decenni del secolo, insomma, il volgare accoglie in sé le
esperienze umanistiche, e riacquista fiducia in sé affisandosi ai tre
grandi scrittori trecenteschi. Essi avevano sempre costituito l’argomen-
to principale per i difensori del volgare; un segno della loro fama
crescente è la loro accettazione come modelli scolastici.
Per i nostri firn gioverebbe avere una ricerca complessiva sulle
influenze stilistiche, lessicali e talora grammaticali esercitate dalle tre
corone sui vari scrittori 74 , fino a penetrare nella lingua comune.
Strettamente connessa con la celebrità dei tre grandi è la fama di
71 È ben noto che di «tre corone fiorentine» parla Giovanni da Prato, mentre
nel primo dialogo del Bruni il Niccoli parla con disprezzo dei «cosiddetti
tnunviri» («de hisce tuis, ut ita dicam, triumviris», p. 31 Kimer).
72 Si ricordi la meraviglia di Pietro Dovizi nel trovare che a Venezia «sola
nostrorum vatum Dantis ac Petrarche carmina infantiam imbuunt: quo fìt ut
elocutioni tantum vacent, mox liberalibus studiis adolescant. Quare nobis obiter
gaudendum est, quod in patriam alienam tam prospere, tam celebriter vates
nostri extra limen proferantur» fletterà a Marsilio Ficino, 31 marzo 1496, in Della
Torre, Storia dell'Accademia Platonica di Firenze, Firenze 1902, p. 58).
73 Del Balzo, Poesie di mille autori, IV, Roma 1893 , p. 167 .
"Si pensi, ad esempio, alle numerose reminiscenze dantesche che affiorano
nel Prezzi, nel Pulci, nel Poliziano; ma ce ne sono molte anche nei lirici min ori («e
fiere m selva con gaetta pelle»: Cino Rinuccini) e nei prosatori («la corta buffa dei
beni sottoposti alla fortuna»: Palmieri, Vita civile, II; innumerevoli in Giovanni
Cavalcanti). V. più oltre, p. 273 .
Il Petrarca è imitato con intenti diversi: con «ingenua funzione di raffinamen-
to» nell Innamorato, come elemento del bizzarro impasto espressivo nel Morgan-
te, per trarne note malinconiche nella Giostra del Poliziano e nel l’Arcadia del
Sannazzaro (Bigi, Dal Petrarca al Leopardi, Milano 1954, p. 74), per alimentare gli
arzigogoli concettistici del Tebaldeo e di Serafino, o dell’autore di quella
barzelletta a cui allude Maria Savorgnan in una lettera al Bembo (8 agosto 1500):
«poso dir, come quela barzeleta, che d’affanni poi dentro avampa il core»; in
genere del Petrarca trova fin d’ora ampia diffusione il linguaggio amoroso così
largamente fondato sulla metafora.
L’influenza del Boccaccio si sente soprattutto nella struttura del periodo dei
novellatori (Masuccio, Sabbadino).
244
Storia della lingua italiana
Firenze per la dolcezza, l’abbondanza, l’eleganza del dire: e frequenti
sono i giudizi di questo tenore dati dai fautori del volgare. Un Siciliano,
probabilmente l’Aurispa, versa il 1420 diceva d’aver scordato il sicilia-
no e il greco per la dolcezza del toscano e del latino:
Inter tam dulcis quales fert Tuscia linguas
dedidici Graecam, dedidici Siculam 75 .
Tra i volgari, il Filelfo giudicava «elegantissimus et optimus* il
fiorentino e asseriva che «ex universa Italia ethrusca lingua maxime
laudatur» 78 . Il b. Bernardino da Feltre, predicando a Firenze, si scusa:
«non starò a dir secondo l’arte del dir che sta a Fiorenza, ma secundum
evangelium» 77 .
Quanto al nome della lingua, ancora si adoperano promiscuamente
e quasi indifferentemente i termini di volgare, fiorentino, toscano,
italiano 73 : non sono ancora nate le dispute a chiarire le differenze (o,
piuttosto, a invelenire la questione senza chiarirle).
Una delle caratteristiche dello spirito d’espansione dell’umanesimo
volgare è la riconquista di «generi» che le lingue classiche avevano
posseduti, e il volgare non ancora-, la tragedia, la commedia, l’egloga, la
satira hanno i primi esempi in italiano proprio in questo scorcio di
secolo.
Naturale corollario dell’umanesimo volgare è lo sforzo di fissare
delle regole per la lingua.
Abbiamo notizia che l’Augurello andava cercando le regole della
lingua nel Petrarca™. Dei primi tentativi di fissar regole, l’unico
documento quattrocentesco che ci rimane è la grammatichetta che
apparteneva nel 1495 alla Libreria Medicea privata col titolo di Regule
lingue fiorentine o Regole della lingua fiorentina : l’originale è andato
perduto, ma una copia fu fatta nel dicembre 1508, fu posseduta dal
75 Sabbadini, in Giom. stor., Suppl. VI, p. 84.
70 Rossi, Quattrocento, 2* ed., p. 120, rimanda a quattro lettere del Filelfo.
77 Sermoni..., cit., I, p. xxvm.
78 Leon Battista Alberti parla di «lingua toscana» nella Pittura (p. 13 Papinil, di
«nostra linguai, «nostra toscana» nella Famiglia (p. 231, 233 Spong.). Il Magnifico
parla nel Commento di «lingua volgare», «nostra materna lingua», «lingua
nostra», «questa lingua», «nostri poeti fiorentini». Il compendio geronimiano del
Salterio è «tradotto di lingua latina in lingua toschana» da Marsilio Ficino per
Clarice Medici Orsini (Della Torre, Storia dell’Accademia Platonica, cit., p. 846). Il
Landino dice ineM'explicit dell’edizione di Firenze 1490) d’aver tradotto la Sforzia-
de del Simonetta «de sermone litterale in lingua firentina».
Ma quando si viene al confronto con altre lingue vive, si parla piuttosto di
italiano. Nel Piovano Arlotto, traducendo una frase vallona, si dice che «le parole
vogliono significare questo in taliano» (nov. CXD; di un marinaio albanese si dice
che «non sapeva parlare italiano» (motto CLXTV). Nella Farsa dell’ambasciatore
del Soldano (Torraca, Studi di storia letteraria napol., Livorno 1884, p. 277) c’è un
messo «che non sa il linguaggio italiano». Ecc.
79 Flamini, Il Cinquecento, Milano 11902], p. 129.
Il Quattrocento
245
Bembo, e si conserva ora nella Biblioteca Vaticana 80 . Le Regole sono
anonime-, I identificazione dell’autore non è sicura, ma molti indizi
fanno pensare a Leon Battista Alberti 81 .
Appartengono al Quattrocento anche le prime raccolte lessicografi-
che: glossarietti parte metodici parte alfabetici in cui la voce italiana
(veneta) è interpretata in tedesco (bavarese) 82 , il Vocabolista in cui Luigi
Pulci raccolse alcune centinaia di latinismi 83 , l’elenco di vocaboli milane-
si fatto per curiosità da Benedetto Dei 84 , un glossarietto furbesco 83 , il
primo vocabolario italiano-latino, quello di Nicodemo Tranchedino 88 .
7. Il volgare in Toscana
.1 mutamenti grammaticali che appaiono nella lingua parlata negli
ultimi decermi del Trecento e nei primi del Quattrocento si manifesta-
no, come sempre, più scopertamente nella prosa che nel verso. Nel
lessico s’infiltra dappertutto il latinismo, non appena lo scrittore abbia
la minima pretesa letteraria.
Sia nella prosa che nel verso, gli scritti fiorentini sovrastano di gran
lunga, per quantità e per importanza, quelli del resto della Toscana.
In prosa, oltre alle lettere private (Alessandra StrozzD e alle lettere
Poetiche (Rinaldo degli Albizzi), abbiamo trattati civili (Palmieri
Alberti) e trattati ascetici (Beicari, S. Antonino), novelle e facezie (il
pratese Giovanni Gherardi, il lucchese Sercambi, il senese Sennini, il
Grasso legnatolo, il Piovano Arlotto ), sermoni sacri (S. Bernardino da
Siena), memoriali e cronache (Giovanni Cavalcanti, Giovanni Morelli il
bizzarro Bindino da Travale 87 , Benedetto Dei), biografie (V espasiano da
80 V. il testo in appendice a Trabalza, Stona gramm.
V. specialmente C. Trabalza, in Studi... F. Torraca, Napoli 1912 (e in
Dipanature cntiche, Bologna 1920). P
82 Conservati in manoscritti del 1423 e 1424, e in incunaboli del 1477 e 1479 (A
Mussafia, «Beitrag zur Kunde der norditalien. Mundarten im XV. Jahrh.», in
Denkschr. Afe. Wien, XMI, Ì873; O. Olivieri, «I primi vocabolari italiani», in Studi
y 1 ’,, 19 . 42 ’ L ‘ Emer y, in Lingua nostra, Vili, 1947, pp. 35-36).
Volpi, «/( Vocabolista di L. Pulci», in Riv. delle bibl. e degli archivi, XIX
1908, pp. 9-15 e 21-28. Le liste di vocaboli raccolte da Leonardo (e contenute nel
manoscritto Tnvulziano e in un foglietto del codice di Windsor) sono in piccola
parte in ordine alfabetico, ma ciò non prova che egli avesse, come qualcuno
pensò, 1 intenzione di compilare un vero e proprio vocabolario. Vedi A. Marinoni
Gli appunti grammaticali e lessicali di Leonardo da Vinci, I, Milano 1944 - II’
Milano 1952; ivi la copiosa bibliografia precedente.
Polena, in Studi difìlol. ital., IX, 1952, pp. 83-144. Dello stesso Dei è anche un
elenco (inedito) di vocaboli turcheschi.
m ^bblicato da G. Volpi, in Miscellanea Rossi-Teiss, Bergamo 1897, pp. 49-61.
j .! repertori latino-italiani (Barzizza, Cantalicio, ecc.-. cfr. nel Maqré
Dardeqe («Il Maestro dei fanciulli», glossario ebraico-arabo-italiano stampato a
Napoli nel 1488) il volgare ha soltanto valore strumentale.
Curiosa, nella cronaca di Bindino, la mescolanza di versi o di rime.
246 Storia della lingua italiana
Bisticci), commenti (Landino), ecc. Quasi nuovo è il campo delle scritture
tecniche, «cosa non appartenente a’ precetti di rettorica» (Ghiberti, Com-
mentari, p. 2 Morisani): l’Alberti, il Ghiberti, Piero della Francesca, Leo-
nardo-, e così pure quello delle dissertazioni filosofiche (Ficino). La prosa
del Magnifico cerca di introdurre ima nuova eleganza.
Verseggiatori più o meno popolareschi continuano nella prima
metà del secolo l’epica (cantari), la drammatica (sacre rappresentazio-
ni), la poesia burlesca Qo Za, molto «contenutistico», il Burchiello, che
spesso ricerca acutezze o dilettazioni puramente verbali: «Nominativi
fritti e mappamondi», «Sospiri azzurri di speranze bianche»). Nella
lirica la stanca rimeria più o meno petrarcheggiante è ravvivata dagli
scambi con altre regioni, spesso con l’aiuto del canto e della musica
(canzonette «siciliane», calabresi, napoletane, veneziane, strambotti,
ecc.).
Il filone popolaresco seguiterà anche nella seconda metà del secolo,
e senza perder freschezza si solleverà ai fastigi dell’arte nel cenacolo di
Lorenzo: rispetti, ballate, canti carnascialeschi sono una delle tante
maniere di quell’uomo e di quell’ambiente così versatili. Anche il
Morgante si attiene al tono popolaresco. La lirica colta di Lorenzo, con i
suoi accenti neoplatonici e la ripresa dei motivi stilnovistici, si stacca
nettamente dal petrarchismo «fiorito».
Danno testimonianza del risollevato prestigio queste parole del
Calmeta, scritte una decina d’anni dopo la morte di Lorenzo:
la vulgare poesia e arte oratoria, dal Petrarca e Boccaccio in qua quasi
adulterata, prima da Laurentio Medice e suoi coetanei, poi mediante la emulatio-
ne di questa (Beatrice d’Estel et altre singolarissime donne di nostra etade, su la
pristina dignitade essere ritornata se comprehende ( Vita di Serafino, nelle
Collettanee pubblicate nel 1504, p. 11 Menghini, p. 72 Grayson).
Nei canti carnascialeschi, la lingua popolare non è solo imitata, ma
volutamente caricata. La Nencia inaugura il «genere» dei poemetti
rusticali, che sono tipica letteratura dialettale riflessa.
La curiosità per gli altri dialetti e la tendenza a satireggiarli che già
appare in alcuni trecentisti toscani è più che mai viva nel Quattrocen-
to: si ricordino i sonetti del Burchiello che prendono in giro Veneziani,
Senesi, Romani; quelli di Luigi Pulci che fanno il verso ai Milanesi e ai
Napoletani; quelli di Benedetto Dei che enumerano alla rinfusa parole
tipiche dei Milanesi
Anche nei novellieri troviamo più d’un esempio di imitazione
proveniente dall’esempio dei cantari:
e’1 mille quatrociento nove chorriva
che re Vincilago a Siena veniva
(cap. L, p. 38 Lusini),
Iscì ’l castellano di Talamone e cavonne suo fornimento;
lassowi il vino e ’l tormento...
(cap. CLXI, p. 130).
Il Quattrocento 247
realistica o satirica dei dialetti: si ricordi l’oste marchigiano del
Piovano Arlotto («Messore, non dicere chiù, che se ’n ce vene» ecc • n 50
Folena).
Il furbesco comincia a essere occasionalmente, adoperato; a scopo
scherzoso da qualche scrittore (Pulci, Pistoia, Alienti, ecc.).
8. Il volgare nell’Italia settentrionale
Altri notevoli passi compie il volgare in confronto con il secolo
precedente: sia con la maggior diffusione, sia con un ma ggiore
conguagliamento interregionale, avvenuto specialmente attraverso
* f^cettazione ^ elementi latini e di elementi toscani. I testi in prosa
stilati senza intenzioni letterarie nelle città più importanti, dove più si
fa sentire l’influenza di una corte e di una cancelleria, ci mostrano
1 esistenza di altrettante varietà locali, le quali di generazione in
generazione sempre maggiormente si scostano dai rispettivi dialetti
parlati e si avvicinano fra loro.
Si confronti un testo bresciano del 1412, con vistosi tratti specifici
(«O De omnipotent sempiterno, el qual revelast la tua gloria in Yhesu
Christ a tuti U zeng, guarda per l’ovra de la tua misericordia che la tua
giesia sparta per tut el munt debia perseverà cum fe stabella...») 86 , con
un testo della stessa città, steso nel 1431 da un ufficio del comune:
«ìnfrascripta si è la spesa fata per lo Comuno de Bressa per far la festa
de Nostra Dona del messe de avosto de l’ano suprascripto fata per
Antonio de Vachi e pei mi Agostino de Mazii. El Comuno de Bressa de
dare per comperar una vacheta per scrivere susso li rassó del comuno
e de la fabbrica...» 89 . Tra l’uno e l’altro testo si collocano la. conquista
del Carmagnola e l’annessione alla Repubblica Veneta (1430). Oppure
si confrontino i testi veronesi di questo tempo, così scarsamente
caratterizzati, con Quelli dell’età scaligera.
Nei luoghi più lontani dalla circolazione della cultura abbiamo testi
pm vicini al parlato, quindi più rozzi. Verso la fine del secolo, da una
valle del Bergamasco, provengono testimonianze come questa: «A y è
quey da Nes che i ne voraf tor i nos grumey» 80 : lontananza da luoghi di
cultura e scrupoli di scrivano convergono nel darci un testo ancora
fortemente dialettale.
Al contrario, quanto più chi scrive ha intenzioni letterarie, tanto più
la sua lingua è nobilitata. Si confrontino le lettere che ci restano del
Boiardo 91 con i prologhi alle sue traduzioni 92 : non si notano solo
88 Migliorini-Folena, Testi Quattr., n. 13.
89 Migliorini-Folena, Testi Quattr., n. 28.
90 Migliorini-Folena, Testi Quattr., n. 106.
91 Per es. quella del 21 marzo 1492: «Thomaso, vede de remosscolare tuto Rezo
per trovarmi uno strassinazo, et guarda che sia strassinazo proprio e non
aegagna... et cossi diio a mia molgiera che ancora lei pazza cercare.:.» (Migliorini-
48
Stona della lingua italiana
ifferenze di tono, ma di grammatica e di lessico. (Vero è che delle
ìttere ci resta l’autografo, dei prologhi no; quindi non è da escludere
he questi siano stati un po’ rimaneggiati).
jfigrtmma. , nello stesso modo che gli umanisti vengono uno per uno.
on lenta opera personale, fabbricando la loro latinità, disimpegnanao-
i dagli insegnamenti medievali e accostandosi sempre più accurata-
aente ai classici, così quelli che mirano a scrivere in .volgare con
lualche eleganza man mano si adeguano ai modelli riconosciuti, E,
ome già si è visto, i versi sono stati modellati sui grandi autori prima e
>iù dawicino che la prosa 93 . . . ,
Nel Piemonte, per la sua posizione periferica, e la vicinanza al
rancese, l’accostamento al toscano è raro e scarso. Fortemente
lialettale (e con influssi francesi) è il poemetto sulla presa di Pancahen
1410)* 4 un po’ meno la laude di Chieri 85 . Vuol scrivere invece m toscano
etterario l’autore della Passione di Revello (1490), benché si scusi della
scarsa perizia, per il poco uso che si fa della nuova lingua:
la Passione in tal lingua è fatta
che da noi è poco usitata
imperò che non è da maravigliare
se non l’abbiamo bene saputa fare 96 .
«Proprio la poesia religiosa ci attesta la diffusione dell’italiano negli
strati umili e borghesi del Piemonte, in un periodo in cui i documenti
pubblici sonò scritti in latino, e quelli di corte in francese» 97 . Galeotto
Del Carretto «è forse l’unico poeta piemontese che sul finire del sec.
XV vivendo in Corte, poetasse alla maniera dei rimatori cortigiani del
restante d’Italia» 98 . In prosa, si può ricordare solo qualche cronaca
ancor molto rozza. , , ..
In Lombardia, abbiamo già accennato che il volgare era stato
favorito da Filippo Maria Visconti e poi dagli Sforza-, fra gh altri poeti
F°lena >er esej ^ p . o ^ p^ogo della Ciropedia: «Havrete dunque la vita e gesti del
primo Cyrro scripta da Xenophonte grecò, la quale è assai piu utde che
piacevole... Quivi non si vede la incredibile grandezza di Porro... Ma le leggie con
le quali infmo da fanciulli si faccino e populi virtuosi et obedienti ah principi...
Come si conservino li amici e facciansi da principio...» CII, p. 717 ZottohJ.
83 Se n’è accorto l’ignoto padovano autore d una frottola deUa prima metà del
'400 (G. Mazzoni, «Un libello padovano in rima del sec. XV», m Atti e Mem. della
R. Acc. di scienze, lett. ed arti di Padova, VI, 1890), w. 234-235:
Tal è che parla in rima
che non sa dir in pruosa...
85 S^ior^amentòzione metrica sulla passione di N. S., Torino 1886; parzial-
mente rist. in Wartburg, Raccolta, n. 8 . — . . _ tII „ n7
96 De Bartholomaeis, Laude dramm. e rappresentazioni sacre, ili, P- dUY -
87 F. Neri, Fabrilia, Torino 1930, p. 85.
88 G. Manacorda, in Men. Acc. Torino, XLIX, 1900, p. 58.
Il Quattrocento
249
cortigiani emerge Gaspare Visconti, che pur si scusa (nell’epistola
premessa aU’edizione milanese del 1493) «del nostro non molto polito
naturale idioma milanese». Può essere interessante ricordare come egli
stesso glossi la parola fromba che aveva adoperata in un sonetto
(attingendola forse alla Fiammetta o al Margarite ): « Fromba in lingua
toschana è quello che in lingua latina dicitur /unda» 99 .
Per la prosa, siamo abbastanza bene informati sulla lingua della
cancelleria 100 . Interessante, e non ancora ben studiata, è la lingua della
Patria bistorta di Bernardino Corio, che narra le vicende milanesi fino
al 1499 (Milano 1503).
A Bergamo, al principio del Quattrocento, frate Stefano Tiraboschi
copiava, talvolta compendiandolo, l’antico poemetto veronese su Santa
Caterina; e il confronto riesce molto istruttivo. Ecco alcuni versi della
redazione veronese:
L’imperaor Maxengo clama gi credendoli,
gi baron de la corto et altri cavaleri,
e dis: «Or m’entendii quel che voio dire;
e’ v’ò clamado gae e fatovi vegnire:
vui savi de Katerina quel k’ela m’ à fato,
per lei non è romaso ked e’ no sia mato,
ell’ae desorado lo nostro De del tempio... 101 .
Ed ecco il testo in bergamasco ormai italianeggiante:
Lo imperadore Masenzo sì giamà li soi credenderi,
li baroni de la corte e li altri cavaleri,
e disse: «Voy sapeti quello che Katherina me ha fatto,
per ley non è romaso che non sia parso matto.
Ella ha despresiado lo dio nostro del tempio... 102 .
A Mantova la copiosa corrispondenza gonzaghesca ci mostra ima
coinè assai progredita 103 .
Dal Veneto si leva, nella prima metà del secolo, la voce di Leonardo
Giustinian: benché sia quasi impossibile riconoscere le sue caratteristi-
che precise, in mezzo al coro che essa ha suscitato intorno a sé in tanta
parte d’Italia, alcuni forti venetismi risaltano (p. es. golta in rima con
volta, ecc.).
L’espansione delle «giustiniane», aiutata dalla musica, ha fatto sì
che si accogliesse, anche fuori dell’Italia settentrionale, l’apocope in
consonante davanti a pausa («Quel che in sogno tu me fai - fussel vero
88 Rime, ed. A. Cutolo, Bologna 1952, p. 79. Lo spoglio dell’opera, a cura di M.
Vitale, mette in luce il forte colorito latineggiante e settentrionale della lingua del
Visconti.
100 M. Vitale nel citato volume su La lingua volgare della cancelleria visconteo-
sforzesca.
101 Monaci-Arese, Crestomazia, p. 426.
102 Renier, in Studi filai, rom., VII, 1894, p. 32.
•°3 Migliorini-Folena, Testi Quattr., n. 117 (cfr. n. 121).
250
Storia della lingua italiana
e poi morir...»; in ima barzelletta di Serafino «Non mi negar, signora, -
di sporgerme la moni 104 .
In ima redazione rimata dei Sette Savi, della metà circa del secolo,
vediamo uno che «senza essersi impratichito, mediante lo studio, della
lingua letteraria, pretende di scriverla» 105 . Un po’ più tardi, quando il
veronese Giorgio Sommariva traduce Giovenale, e il padovano Cosmi-
co, e il veronese Antonio Vinciguerra tentano la satira morale in
terzine, essi scrivono, pur con qualche settentrionalismo, in toscano
illustre. Si legga qualche verso della 4 a satira di Giovenale nella
traduzione del Sommariva:
Ecco che ’1 mi convien anchor chiamare
Crispino in ogni parte per suo vici,
monstro senza virtude da sprezzare,
debile, infermo, ma forte in flagici,
excetto in le delicie viduile,
ma in l’altri fa mille execrandi exici.
Che zova adunque ha ver le signorile
case con boschi e possessione a lato
al foro, che non son già cose vile,
se alchun maligno esser non può beato... 106
oppure qualche verso della sua Chronica vulgare :
Manfredo, spurio a Federico fìlio,
morto che fu Corrado so fratello,
al regno di Sicilia diè di piglio;
dominò tredece anni intruso in quello
benché dal quarto anatematizzato,
dico Alessandro, fusse col suo hostelo,
per aver preso, morto e mal menato
la gente d’arme e copie de la Chiesa... 107
ih confronto con i versi (lasciati inediti dallo scrittore e pubblicati
modernamente) in cui il Sommariva stilizza la parlata rustica:
O consegieri, e ti nostro massaro,
e tuti vu del borgo mazorenti,
pianzì sta morte, con grandi sbraimenti,
de Pier Zafeta, nostro pare caro...
E1 ne schivava da tuti i sodò («soldati»),
104 Folena, Crisi, p. 40 n.
105 Rajna, in Romania, VII, 1878, p. 26.
106 Treviso 1480, c. 15 b. Il dott. Franco Riva ha voluto riscontrare per me
questo passo e i due seguenti. Sono aggiunti, s’intende, accenti e interpunzione.
107 Venezia 1496, c. 8 b.
Il Quattrocento
251
e dai sberoeri e d’aotra mala zente,
che cerca tor le nostre povertè... 108 .
troviamo varie tà grandissime. Marin Sanudo nei
suoi Diari adopera un veneziano cancelleresco di solido impasto con
ahro C eSmn^ a r en t StlChe dÌalettalÌ ben salde - Invece > per citare solo un
wf° sem Pl°’ 1 antiquario veronese Felice Feliciano mostra nelle sue
lettere una lingua tanto illustre (con molti latinismi e alcuni toscanismi)
PofiDhilfs^en? 0 *!- addi ? ttura attribuire a lui YHypner otomachia
Poliphili.Si senta 1 inizio di una sua lettera a Giov. Bellini- «Le vixere
de la profónda terra mi da gli preciosi metalli, e’1 Tago e ’l Nvllo con le
salse unde di Gangie le margherite, l’India Favori^ e gli olenti hgni
bal f. ami ’ ®. gLi arbori di Sabba mi manda l’incenso, Sydonia
le porpore, e gli picoh vermi di Siria gli sirici drapi, gli cupi e profondi
gorghi il pescie squamoso, e le frondose silve le timide lepori et il
el “tuo 6 cuore »® ecc^ 0 ? 11 V ° lauti ' E queUo amore che P iù è c aro ini dà
. tipog ?\ fl ? * Venezia 110 fa di quella città una
e d ® Ua ttiffiisione del toscano letterario: basti pensare all’im-
portanza delle ediziom aldine del primissimo Cinquecento.
el Friuli (passato nel 1419-20 al dominio di Venezia) si trova che il
™nof C ° ° è tt^PP 0 rozzo, e chi scrive si attiene sempre più a modelli
e Pontahaneggianti 111 . Prete Pietro dal Zoccolo (o Pietro Edo) di
p°^® none ’ . m tre rappresentazioni sacre 112 e in un poemetto su Amore e
Fortuna scrive in toscano con pochi tratti veneti; e nel pubblicare il suo
volgarizzamento delle Costituzioni della Patria del Friuli (Udine 1484)
s P ie f 1 a qual . e oriteno abbia seguito per scegliere tra «le lingue italiane»;
trnnnn gan ia ® to schana» non gli è parsa conveniente «per esser
? h P °x PUl1 - fur lam» ; ria furlana» a sua volta presentava
vane difficolta («non è universale in tutto il Friule», e «mal se pò scrivere
e pezo lezendo pronunciare»); perciò ha finito con l’attenersi al «trivisa-
no» («Imagmai in tal translatione dovermi acostar piutosto a la lengua
Tnvisana che ad altra, per esser assai expedita e chiara et intelligibile da
tutti, come quilla che segondo il mio giudicio partecipa in moltivocabuli
io» r?' S a ^ lr ^ s ’ ? on f M villaneschi di G. Sommariva, Udine 1907 p 14
no S Flocc °-. m Archivio veneto-tridentino, IX, 1926, p. 193 .
. ° n sarà mutile notare che la stampa dei primi libri in volgare a Venezia fu
finanziata da mercanti fiorentini (E. De Roover, Bibliofilia, LV, 1953, pp ; 107 - 115 )
m. 0 *' ia ietera dei 1437 - isissa
112 Nelle quali non manca qualche ipertoscanismo:
Un terremoto forte e smesurato
non sol mi fé rizzire li capei,
ma sbigotir ni fece tutti sei
e cader giù allor, e mio malgrato.
(De Bartholomaeis, Laude dramm. e rappresentazioni sacre. III, p. 298).
252 Stona della lingua italiana
con tutte lingue italiane»). Ma, come si vede anche da queste poche
righe 113 , si tratta di un veneto molto toscanizzato.
Nell’Emilia, il centro più importante di elaborazione del volgare è
Ferrara (cfr. pp. 227), per esperimenti letterari di vario genere. Tra 1
molti verseggiatoti 114 emerge il Boiardo: più che i suoi scritti minori
importa V Orlando Innamorato, in cui l’emiliano illustre decisamente
inclina verso il toscano: accanto a forme e vocaboli dell uso regionale
(gionto, panza, ziglio, cacciasone, fosso «fascio», ve adunati, beccaro,
nioppa, ecc.) si hanno forme e voci toscane ( veniamo , rubesto, stordigio-
ne, ecc.), ipertosc anismi (fraccasso. diffesa, gaglio «gaio», piaccia «piaz-
za», stniccio «struzzo», avancia «avanza», batteggian «battezzali»,
ecc.), latinismi {strato, spato, ecc.). Il poeta approfitta volentieri delle
varianti disponibili per la rima: p. es. si ha scudo in rima con nudo,
scuto in rima con arguto, ecc. La miscela non era certo tale da piacere
agli sc hizzin osi letterati del Cinquecento e alle loro norme assai piu
rigorose. Ma la direzione in cui si muove il Boiardo è quella medesima
in cui verrà a trovarsi, di alcuni passi più innanzi, Lodovico Anosto.
Manca, purtroppo, un saggio che illustri degnamente la lingua del
Boiardo nel quadro della sua cultura. in . , ,
Della prosa letteraria ferrarese ci danno un idea le Facezie dei
Carbone; Sabadino degli Alienti nelle Porretane stilizza, con echi
boccacceschi dovuti al «genere», il bolognese illustre. Molto più rozze
sono le cronache, e in genere le scritture pratiche.
9. Il volgare nell’Italia mediana
Anche la corte urbinate ci dà alcuni testi colti. Giovarmi Santi da
Urbino, il padre di Raffaello, nella sua pedestre Cronaca in rima vuol
arieggiare i Trionfi del Petrarca, e ben di rado adopera forme e
vocaboli regionali (agionto, vinti, Vinesà) o ipertoscam (cniuoao);
Angelo Galli si tiene molto stretto ai grandi trecentisti; solo lievissime
scabrezze dialettali mostrano le rime e le prose (incluse anche le
lettere) del pesarese Collenuccio. . XJ _ ..
Dall’Umbria vengono testi in versi ormai non molto dialettali come
il Soll a zz o e il Saporetto del Prodenzani, le 37 sacre rappresentazioni
messe insieme nel 1405 daTramo di Leonardo d’Orvieto 115 , i numerosi
laudari di diverse città e, nella seconda metà del secolo, 1 molti
poemetti del perugino Lorenzo Spirito. . .
Nella prosa non letteraria, troviamo il solito sfasamento tra le
113 O da un passo qualsiasi: «Perché l’officio del zudese è longissimo,
ordinamo che il zudexe possa prolongar li termini de una et più cause in absentia
de le parte overo de una d’esse...» (c. vi a).
114 Vedi il cit. scritto del Fatini, Le «Rime* di L. Anosto, passim.
,1S P. es. accanto alle forme dialettali deliberamo, giudicamo, mandamo, ecc.
si hanno le forme toscaneggianti cantiamo, adoriamo, danniamo, ecc. (De
Bartholomaeis, Laude dramm. e rappres. sacre, I, pp 339-345).
Il Quattrocento 253
grandi città centri di cultura, in cui la lingua s’italianizza rapidamente,
e i luoghi meno importanti, in cui le caratteristiche locali resistono di
più: a Perugia la -e finale per -i ancora compare qua e là nei primi
decenni del secolo 118 , mentre poi la -i si fa generale; a Spoleto gli Annali
dello Zambolini distinguono bene ueo finali, secondo l’uso dialettale di
quella zona. La cronaca di Todi di I. F. degli Atti, a cavalcioni fra il sec.
XV e il XVI, palesa la lotta fra spinte toscane e spinte romanesche 117 .
A Roma la lingua poetica è quella ormai comune; non solo nei
petrarchisti, come Giusto de’ Conti, ma per es. nel lamento di Paolo
Petrone, carcerato a Viterbo nel 1420:
Roma, dov’è Ilo tuo nobil senato?
dov’è ’1 tuo Cesari che fo ssì altero? 118 .
Invece, il medesimo Paolo Petrone scrivendo in prosa la sua
Mesticanza ha un vistoso colorito romanesco ( tierra , muorto, altro,
monno, menao, ecc.), e così pure altri cronisti (Paolo di Benedetto dello
Mastro, Stefano Infessura) e l’estensore delle Visioni di Santa France-
sca, Giovanni Mattiotti. Ma altri diaristi (Gaspare Pontani, Antonio da
Vasco) adoperano una discreta lingua toscaneggiànte.
Se ci spingiamo negli Abruzzi, troviamo che il corifeo del petrarchi-
smo fiorito, Serafino Cimminelli, non ha quasi più tracce regionali
(avendo del resto passato parte della vita a Roma e nelle corti
settentrionali) 119 . Ma fortemente dialettali sono i Cantari di Braccio-, già
più toscaneggiante la cronaca aquilana rimata di Cola di Borbona.
Tratti dialettali e tratti dottrinali si mescolano nella poesia drammati-
ca (specialmente nel laudario drammatico domenicano dell’Aquila).
Abbiamo pochi esempi di prosa letteraria 120 , mentre i testi pratici
sono fortemente dialettali 121 .
10. Il volgare nell’Italia meridionale
L’uso letterario e pratico del volgare, scarsissimo nell’età angioina,
scarso nei tempi di Alfonso I 122 , diventa vivace a partire da Ferdinando
1,8 P. es. de li gentili homene, gli diete tre frategli, in «Richiesta di cittadinan-
za», Migliorini-Folena, Testi Quattr., n. 19.
117 Sulla lingua di questa cronaca, vedi F. Agéno, in Studi fil. it., XIII, 1955, pp.
167-227.
118 Medin- Frati, Lamenti storici, II, Bologna 1888, pp. 7-12.
118 Se mai, è più facile notare tratti settentrionali (arecordi; stati, pensati, 2-
pers. plur.) che meridionali (saccio, cresi «credetti»),
120 Come la redazione chietina della Fiorita di Armannino (Migliorini-Folena,
Testi Quattr., n. 16).
121 P. es. l’inventario della cattedrale di Teramo (Migliorini-Folena, Testi
Quattr., n. 100): si notino regressioni come pandi «panni».
122 Migliorini-Folena, Testi Quattr., nn. 42 e 56; v. l’annunzio al popolo della
pace con Eugenio IV in De Tummulillis, Notabilia temporum, p. 53 Corvisieri.
:54
Storia della lingua italiana
l23 . Alc uni gentiluomini napoletani, con intenti, se non con risultati,
inaloghi a quelli della cerchia medicea, tentano una linea di tono
>opolaresco: quindi con numerosi dialettalismi 124 .
Ma non mancano le influenze petrarchesche; queste anzi predomi-
ìano nel canzoniere di Pier Iacopo De Iennaro 125 , mentre nelle Sei etate
le la vita umana egli mostra una forte influenza dantesca; in comples-
;o si nota che nella scelta tra più forme possibili egli tende a scostarsi
pianto può dal dialetto. Petrarchismo e classicismo coloriscono i versi
lei Cariteo. _ ...
Nei vigorosi sonetti dello sventurato conte di Policastro, Giannanto-
ùo de Petruciis, forme e vocaboli plebei appaiono accanto a forme e
vocaboli colti: così, egli adopera liberamente l’articolo tool articolo el
lavanti a consonante:
io sole con la luna e con li venti
lo celo con le . stelle è sucto al Fato
(son. I)
el corpo degli affanni ora riposa
(son. XLVI)
non saccio se Io cor de me te premi
el crudo fato credo che blastemi
(son. LI1).
Volutamente ricchi di dialettalismi sono anche i gliòmmeri (nome
mpoletano di quelle che altrove si chiamano le frottole) e le farse : ecco
3 . es. ima scena di streghe dalla farsa Lo Magico di Pietro Antonio
Caracciolo (che fu recitata davanti a Ferdinando I):
Una, la più valente, - in su la forca
nde saglie et là se corca - a la bucune
et taglia poi la fune, - et fa cascare
Yinpisi a le y onore; - et prestamente
chi lloro stirpa un dente, - et chi le lingue,
et chi a llor toglie il pingue, - et chi i denochii,
et chi llor cava l’occhii, - et chi i captili... 129 .
123 V., oltre aLcap. IX del Quattrocento di V. Rossi, A. Altamura, L'umanesimo
tei Mezzogiorno d’Italia, Firenze 1941; Id., «Appunti sulla diffusione della lingua
lei Napoletano», in Conviviutn, 1949, pp. 288 303; Id-, Testi napoletani del
Quattrocento, Napoli 1953; G. Folena, Crisi, passim; M. Corti, Rime e lettere di P. J.
De Jennaro, Bologna 1956. ...
i 2 < L e loro poesie sono raccolte, insieme con versi anonimi, nella silloge ai
Siovanni Cantelmo conte di Popoli (del 1468 circa), conservata nel codice 1035
iella Nazionale di Parigi, e stampata da M. Mandatari, Rimatori napoletani del
‘400 Caserta 1885. Si veda anche la raccolta di poesie contenute nel cod. Vat. lat.
10656, di tono più popolare (ed. L. Berrà, in Giom. stor., LXXXIV, 1924, pp. 241-276).
12S Sul progressivo aderire del De Iennaro alle forme toscane v. M. Corti, m
■Qiom. stor., CXXX1, 1954. pp. 305-351 e il voi. cit., passim. .
129 Da un cod. di Monaco, del principio del sec. XVI: Torraca, Studi di stona
tetter. napoletana, Livorno 1884, p. 432.
Il Quattrocento
255
Un deciso avvio all’accoglimento della norma toscana si ha, sia per
il verso che per la prosa, con l’Arcadia di Iacopo Sannazzaro; mentre
una prima redazione, che risale al penultimo decennio del secolo 127 , ha
ancora un forte colorito napoletano, l’edizione definitiva, preparata
dall’autore intorno all’anno 1500 e pubblicata dal Summonte nel 1504, è
vicinissima al toscano letterario. Il riscontro tra le due redazioni 128
permette di esaminare a un preciso traguardo non solo l’opera dello
scrittore, ma in genere, le tendenze del suo tempo. Le tre componenti
principali (forme e vocaboli dialettali più o meno dirozzati; forme e
parole toscane, attinte quasi tutte alle letture letterarie, principalmen-
te al Petrarca e al Boccaccio; voci latine) si presentano in ambedue le
redazioni, in misura e in combinazioni varie 128 : ma l’eliminazione delle
forme dialettali, nella redazione definitiva, è spinta molto innanzi,
tanto che il Varchi (Hercolano, Venezia 1570, p. 151) potè lodare l’autore
per aver composto la sua Arcadia senz’esser mai stato in Firenze, solo
lagnandosi di lievi trasgressioni.
Data la forte centralizzazione, culturale e burocratica, del regno di
Napoli, l’attività poetica delle province periferiche è molto scarsa 130 .
Per la prosa abbiamo già accennato all’importanza del linguaggio
della cancelleria, e all’influenza che vi esercitò il Pontano, il quale,
umbro di nascita, passò poco più che ventenne al servigio degli
Aragonesi 131 . Una moda letteraria è quella delle epistole, amorose e
d’altro genere: ne incluse alcune nei suoi Notabilia temporum il De
Tummulillis; parecchie di argomento amoroso ne scrisse Ceccarella
Minutolo, imitando lo stile delle opere giovanili del Boccaccio 132 . Nei
memoriali di Diomede Carafa, nel trattato De maiestate di Giuniano
Maio, nell’Esopo di Francesco Del Tuppo 133 , e nel Novellino di Masuccio
Guardati, Tunica opera che abbia una certa importanza artistica 134 ,
127 Ed è principalmente rappresentata dal cod. Vat. 3202, pubblicato dallo
Scherillo.
128 Compiuto da G. Folena nell’eccellente monografia Crisi ecc.
128 Particolarmente saldi sono gli elementi dialettali quando trovano l’appog-
gio di elementi latini omologhi: p. es. medulla, giugo («giogo»), cucumero.
130 Ricordiamo El Giardino dell’agnonese Marino Ionata, e il rozzo lamento in
terzine del cosentino Giovanni Maurello (Migliorini-Folena, Testi Quattr., n. 91).
131 V. le Lettere inedite di I. Pontano in nome de’ reali di Napoli, ed. Gabotto,
Bologna 1893; quelle private sono state pubblicate dal Percopo. Per ricordar solo
un fenomeno, nella stessa lettera a Ferdinando d’ Aragona (7 maggio 1490), il
Pontano scrive «perché Io medico che dà la medicina presuppone etiam che, dopo
la medicina, se faccia Io cristero»... e «resignarò il sigillo» (Altamura, Testi, pp.
107-108).
132 Nell’epistola ristampata in Migliorini-Folena, Testi Quattr., n. 61, e in
Altamura Testi, pp. 89-90, si legge «se Io mio penuso core» ma «tollere el sospetto»,
andaREla, ma sapeRne ecc.
133 Sulla lingua, v. la nota del De Lollis alla sua scelta (Firenze 1886) e A.
Mauro, Francesco Del Tuppo e il suo Esopo, Città di Castello 1926, pp. 192-196.
134 V. il capitolo «Stile e lingua», in G. Petrocchi, Masuccio Guardati, Firenze
1953, pp. 126168.
256
Storia della lingua italiana
permane in varia misura il colorito dialettale, ma sono molti gli
elementi latini e quelli toscani, principalmente boccacceschi
I testi in prosa provenienti da altre province del Regno sono
anch’essi poco numerosi: quelli più letterari (il Libro di Sidrac salenti-
no il Quadragesimale di fra Ruberto da Lecce, l’Esposizione del Pater
noster di Antonio De Ferrariis, pure di Terra d’Otranto) non si scostano
molto dal tipo ora visto; anche i rari statuti in volgare (Statuto di Maria
d’Enghien, Statuto di Molfetta, Capitoli della Bagliva di Galatma)
mostrano un forte ibridismo 13S . . . . ,, .
In Sicilia, gli scritti in versi d’indole religiosa hanno vistosi caratteri
gr amma ticali siciliani, ma sintassi e lessico sono fortemente influenzati
da testi continentali. La Istoria di la traslacioni di Sant’Agata, m ottave,
di autore probabilmente catanese, suona così:
dormendu Gislibertu et repusandu
Agatha santa virginella et pura
li apparsi in sompnu, bella si mustrandu
quali esti in chelu avanti a Cui ipsa adura,
cun li capilli xolti chi parìanu
di oru perfectu, tantu straluchìanu - 1 .
L’andamento familiare e scherzoso spiega il forte colorito dialettale
siciliano della commediola di Caio Ponzio Calogero (o Calono o
Caloria), un messinese che aveva studiato a Padova: eccone gli ultimi
versi:
La condannemu per questa in effectu
che amar lu debia quantu amar si po,
e per lu cor robatu, o volgia o no,
li daga lu cor so che staga in pegnu 137 .
Ma anche qui l’influenza del toscano letterario è notevole (pur
prescindendo da tratti veneti come volgia, forse dovuti al copista). Piu
forte è nello strambotto del medesimo Ponzio:
Per la continua guerra chi a gran torto
sustegno, piglio tanto di rispetto
ch’il stanco corpo a poco a poco porto
a morti, chi con gran piacili aspetto 138 ,
come in genere nei frammenti lirici che del Quattrocento ci rimangono
nelle citazioni di Mario D’Arezzo 138 .
'ss Sulla ling ua degli Statuti di Maria d’Enghien, v. D'Elia, in Atti II Congr.
stor. pugliese ecc., Bari 1954. 1 h
138 G. Cusimano, Poesie siciliane dei secoli XJV e XV , II, Palermo 1952.
137 V. Rossi, «Caio Caloria Ponzio e la poesia volgare letteraria di Sicilia nel
sec. XV», in Scrìtti di crìtica letter., II, Firenze 1930, pp. 4Ì7-45L
138 Rossi, ivi.
134 Sorrento, Diffusione, pp. 31-35.
Il Quattrocento
257
Nella Sicilia del Quattrocento si aveva ima notevole conoscenza
della triade toscana e anche della letteratura volgare religiosa toscana
e umbra 140 .
La prosa letteraria è più toscaneggiante che la poesia: la Leggenda
della beata Eustochia, composta nel 1487-90, si propone di essere in
toscano letterario, anche se i sicilianismi non manchino 141 . Di otto
incunaboli stampati a Messina nello scorcio del secolo, sette sono in
prosa fortemente toscanizzata, anche se trattano di argomenti locali
Q’ottavo è la S. Agata in versi) 142 . Il progresso della toscanizzazione è
evidente nei protocolli notarili di Messina: i bandi, che cominciavano
con le parole Bandu et comandamentu, a partire dal 1492 s’iniziano con
Bando et cómandamento li3 .
Prima di chiudere questa rapida rassegna dello stato della lingua
nelle varie regioni, accenniamo al fatto che gli Italiani che vivevano in
paesi stranieri, messi a contatto con persone di varia provenienza,
tendevano a forme di coinè. Il Libro mastro del Banco Borromei a
Londra 144 è molto più italianeggiante dei documenti milanesi coevi.
II. La norma linguistica
L’ampiezza di oscillazione consentita agli individui è assai larga
durante il Quattrocento; e solo alla fine del secolo si comincia a sentire
l’influenza coagulatrice della stampa. Dapprima la scarsa tutela
esercitata dalla lingua letteraria, più tardi, col prevalere dell’umanesi-
mo volgare, l’abitudine umanistica di mettere insieme a proprio modo
la lingua, come si faceva per il latino, rendono la norma molto
scarsamente imperativa 145 .
Insomma, molte delle consuetudini grammaticali e lessicali anziché
essere univoche e più o meno imperative, come in altri periodi, sono
aperte in varie direzioni; anziché adagiarsi in schemi già fatti, chi
scrive può liberamente ricorrere al modello del latino o al modello dei
tre grandi toscani. Il Boiardo, come s’è visto, scrive scudo secondo l’uso
lombardo e toscano, ovvero sento alla latina, piazza o piaccia, gaio
oppure gaglio, e così via.
140 Sorrento, Diffusione, pp. 42-48, M. Catalano, La leggenda della beata
Eustochia da Messina, 2* ed., Messina-Firenze 1950, p. 41.
141 V. l’eccellente ed. cit. del Catalano, che ha ricostruito criticamente il testo
su due codici, uno con leggiere tracce emiliane e uno con influenza umbra.
142 Catalano, op. cit., pp. 41-42.
143 Catalano, op. cit., p. 39.
144 Migliorini-Folena, Testi Quattr., n. 31.
145 Sull’abbondanza delle varianti morfologiche verbali in Firenze, v. Nencio-
ni, Fra grammatica e retorica, passim.
258 Storia della lingua italiana
O, per citare un altro esempio, gli scrittori meridionali, invece che
attenersi all’uso indigeno dell’articolo lo in tutte le posizioni, accolgono
più o meno largamente le forme toscane el o il.
Verso la fine del secolo, si nota un maggiore avvio alla formazione
di un gusto collettivo; e naturalmente contano molto le spinte di quegli
antesignani le cui opere più largamente piacciono, come il Boiardo e il
Sannazzaro.
Ogni trascrizione tende a eliminare le peculiarità troppo dialettali
del testo 149 . In proporzioni molto maggiori, ciò accade con le opere a
stampa, perché gli editori mirano allo scopo che esse siano intese da un
pubblico molto largo. Talvolta l’editore ha la precisa intenzione di
rimaneggiare il testo che vuol riprodurre, e nell’eliminare gli idiotismi
per lo più toscaneggia; altre volte lascia correre gli idiotismi dell’origi-
nale o ne introduce di propri 147 . In certi casi, anziché correggere, il
tipografo preferisce glossare il suo testo 148 .
La larga libertà di cui gode ciascuno scrittore fa si che l’àmbito
della scelta stilistica sia molto più ampio in confronto con quello della
norma stabile, sia per la grammatica sia per il lessico. Ciò non vuol dire
che regole e tendenze non esistano, valevoli in cerehie culturali più o
meno ampie.
Alcune trattazioni grammaticali e spogli lessicali possono servire di
guida per singoli autori e per il loro ambiente-, per la Toscana si potrà
ricorrere specialmente agli Appunti sulla lingua e al Glossario del
Piovano Arlotto (ed. Folena, Milano-Napoli 1953), agli spogli degli
autografi di L. B. Alberti a cura del Grayson 14 ®, agli spogli del Tanaglia
(ed. Roncaglia, Bologna 1953), alla monografìa del Ghinassi su II
volgare letterario nel Quattrocento e le Stanze del Poliziano, Firenze
1957; altre buone ricerche abbiamo per l’Italia settentrionale 150 e per
quella meridionale 151 .
145 P. es. il verso che in uno strambotto napoletano suona «non vide che se
chiava lo tavolo? » è trascritta dal Boiardo, benché così la rima venga a mancare,
«non vedi ch’el se apre la sepoltura?» (Berrà, in Ciom. star. , LXXXIV, 1924, p. 252 e
272).
147 V., per citar solo un esempio, il diverso procedere delle edizioni milanese
(1483) -e veneziana (1484) di Masuccio Guardati rispetto a quella napoletana del
1476, di cui purtroppo non rimangono esemplari: v. la nota di A. Mauro
all’edizione Laterza e quella di G. Petrocchi all’ed. Sansoni.
148 La prima edizione a stampa di un vocabolarietto italiano-tedesco (Venezia
1477) dava, p. es., i lemmi Luganica, Boldoni, Unto sutil-, la ristampa di Bologna
1479 dà invece Luganica o salciza, Boldoni o cervela, Unto sutile o buttero.
149 Lingua nostra, XVI, 1955, pp. 105-110.
150 Del Salvioni, su vari antichi testi lombardi, in gran parte del sec. XV (in
Ardi, glott. ital. , XII, pp. 381-384); di Bayot e Groult per la S. Caterina del
Mombrizio, pp. 13-41 della loro edizione (Gembloux 1943); del Vitale per la
cancelleria milanese (Varese-Milano 1953) e per Gaspare Visconti (Bologna 1952).
151 Si vedano i citati volumi del Folena sul Sannazzaro e della Corti sul De
Iennaro.
Il Quattrocento
259
12. Grafìa
Nei manoscritti e nelle prime stampe 132 la grafia è molto instabile,
P w r CU 5 e peculiarità: cane o chane o, sporadicamente,
hane , degno, degmo, dengno o dengnio, ecc. 134 . La fortissima influenza
umanistica porta a una predominanza di grafie di tipo etimologico-
maximo, apio, epso ecc. 135 ; esse sono particolarmente frequenti neU’Ita-
" S ^ enn0nae e men ^ ionale . ma anche in Toscana sono molto più
largamente usate che nel Duecento e nel Trecento. Il nesso ci + vocale
f o 1 : e ™ a , c ° n / 1 + vo< ^J e ( ° cl ° ' otio ’ froda - gratta ecc.) come nella grafia
latma del tempo. Ch, th, ph, y, appaiono nei vocaboli greci, e non
sempre collocati al loro posto 1S6 .
Resistono ancora grafìe regionali consuetudinarie: nel Nord c con
valore di z sorda lanci, solacevole, discalci plurale di discalzo ecc.) x per
s sonora; nell Italia meridionale cz e talvolta tz per z sorda; in Sicilia ch
si trova ancora con valore di c palatale, x con valore di se. I nessi Ih per
otrantino) r ^ appaiono sporadicamente nel Sud (p. es. nel Sidrac
,. w No ?- attecc ^ irà la grafia sg che si trova qualche volta in Toscana
Unausgiare, collesgi, Luisgi in Bernardo Accolti).
Leon Battista Alberti vuol evitare gli equivoci che nascono dal
doppio valore, vocalico e consonantico, del segno latino u, e propone
quella distinzione grafica tra u e v che solo alla fine del Seicento, dopo
molte vicende, entrerà nell’uso 137 .
Notevoli osciflazioni presentano le geminazioni consonantiche al-
1 interno di parola, specialmente nei composti con ad- ob- sub-, nei tipi
abbiamo, fuggire, ecc : in Toscana la pronunzia serve di guida, e tutt’al
piu vi può essere 1 influsso della grafia latina; ma nell’Italia settentrio-
<rrafi« rmviare . Per maggiori notizie, al mio articolo «Note sulla
Ung . pp Sf 2 5 ) 1 RmaSClmen ’ m Studi di nioL italiana, XIII, 1955 (e in Saggi
Sia in posizione intervocalica ila hasa) che dopo consonante (per harità )- è
31 >* «
•*-*>**>.
nell’Italia f °” da “ i °’ “ lo per “• ■”“>*“ ■««<»
p - es in “
n L Alberti vi accenna in un passo de De componendo cyfris (ed Meister n
? * aVCrla fatta ‘ aIibi ’ cum de ttteris atqu^ caeteris prtocipSs
gramm a ticae tractaremus»; individuata la v consonantica («quod medium oui-
“ SOne l* ) ’ 1 ' Alberti ritiene che si debba scrivere con il gambo
ilt hasta mflexa scn bendam»). La distinzione tra u e v è fatta anche nelle
^ e ^° t i l laure 1 nzi ^ ne ’ e questo ha indotto parecchi (tra cui il Sensi e il Trabalza) a
idenhficare le Regole con lo scritto dell’Alberti a cui allude il De componendo
260
Stona della lingua italiana
Il Quattrocento
261
naie, dove la pronunzia dialettale ignora, all’ingrosso, le geminate, la
grafia è su questo punto molto barcollante.
Anche più incerta è la rappresentazione grafica dei fenomeni dovuti
a fonetica sintattica: i rafforzamenti del tipo a nnoi, le assimilazioni del
tipo gram bene e illei (= in leD, i fenomeni di enclisi e proclisi. Qui la
spinta all’uniformità promossa dalla stampa ha portato a semplificare
energicamente. Specie per i rafforzamenti, il movente funzionale per
cui è preferibile avere ima forma unica per ogni parola (e quindi è
meglio scrivere a lui, di lui, con lui anziché a llui, di llui, co lluiì, veniva
a convergere con un fattore storico: l’importanza della tipografia a
Venezia, in un territorio che ignora le gemmazioni dovute alla fonetica
sintattica.
Per la rappresentazione dei fenomeni di proclisi e di enclisi, la
grafia oscilla a lungo prima di stabilizzarsi sulle posizioni poi sem-
pre mantenute: nei manoscritti e nelle prime stampe le voci proclitiche
sono spesso scritte unite (ilbene, Idearne ecc.l; in qualche incunabolo
sono scritte unite o separate secondo che c’è spazio nella riga o no.
Manca ancora l’apostrofo, e si scrive lanima, lerrore, longegno (= io
’ngegnoì; è venuta meno la norma per cui nel Duecento e nel Trecento
si scriveva huomo ma iuomo 158 .
Di solito non si adoperano ancora segni per indicare la posizione
dell’accento nelle tronche, e tanto meno altrove. Ma già qualche
tipografo 159 stampa e/, volontà/, mitigo/. G. Ridolfi nel copiare una lista
di parole milanesi raccolte da Benedetto Dei aggiunge gli accenti
(acuto all’interno, grave sull’ultima, secondo l’esempio greco: zighéra,
pinchiemò) l<so .
Quanto all’interpunzione, la grammatica umanistica conosceva
l’uso di tre segni diversi ( virgula sine puncto, virgula cum puncto,
punctus planus), talora di quattro o anche di più 161 . Nei manoscritti e
nelle prime stampe troviamo un’interpunzione scarsa e oscillante: chi
addirittura non adopera alcun segno; chi il solo punto; chi il punto e i
due punti; chi il punto, la virgola e i due punti. Non rara è la sbarra
obliqua, che equivale in sostanza a una virgola (ma può anche servire,
come or ora s’è visto, per indicare l’accento, e, in caso di composizione
tipografica fitta, per staccare due parole l’una dall’altra). Sporadica-
mente si trovano anche il punto in mezzo, 41 punto in alto e la sbarra
obliqua con il punto in basso. Solo nel secolo seguente l’interpunzione
diverrà più ricca e più regolare.
158 II Landino, per es., fa stampare dHecuba, e nel Tanaglia è scritto Ihuomo (e
anche l h ore con l’ aggiunta di hi.
159 V. p. es. l’edizione della Commedia con il commento del Landino, Firenze
1481.
180 Folena, in Studi di filol. it., X, 1952, p. 91. Un accento si ha anche nella
versione toscana del rituale ebraico (1484).
161 Roncaglia, in Lingua nostra. III, 1941, pp. 6-9.
13. Suoni
Negli scrittori toscani, sono ancora prevalenti i dittonghi nelle serie
triema-, pruova, truova-, ceraiuolo-, puose,rispuose. Sembrano propaggini
del toscano meridionale forme come venardì, iarsera, documentate
anche a Firenze. Di contro a domane, stamane dell’uso trecentesco
appaiono domani, stamani. Abbondano le -i- protoniche della serie
filice, piggiore, mimoria, sicondo, tinore.
Nei testi in versi, si avverte non di rado l’influenza della tradizione
poetica: B. Giambullari adopera core (choreì nei versi più elevati, cuore
(quore) in quelli di tono popolaresco. Il Boiardo nel canzoniere usa
suave, nelle ecloghe soave, nelì’Orlando Innamorato oscilla.
L’esito fonetico normale -aio -ari ( danaio -danari, scoiaio - scolari ì
compare ancora non di rado, quantunque indebolito dall’analogia.
Il fenomeno forse più interessante di questo periodo è la reazione
popolare alla copiosissima accettazione dei latinismi, specialmente per
_ quei gruppi che non esistevano nel sistema fonologico toscano. Resta
sempre mal digeribile il gruppo au, che si continua a sostituire con al
( attore , Leonardo) o a semplificare in a tarara, Agazzari) 182 ; e così pure i
gruppi di consonante seguita da 1-. clipeato «clipeato (Gherardi,
Paradiso degli Alberti ), compressione «complessione» (Alberto, Primo,
exempri (in una lettera del Bisticci), frutto «flutto», pepro «peplo» (nel
Vocabolista del PulcO, fragello, oblivione (Leonardo); così è nato
sopperire da sopplire, supplire (Morelli, ecc.) 163 .
La vocale prostetica davanti ai gruppi con s (e a se) si ha non
soltanto dopo consonante (per escriptura, Palmieri, Città di Vita, III, xn,
v. 137, pere scriptum nell’ed. Rooke; per iscienzia, Piov. Arlotto; per
ispelonche, PulcO; ma facoltativamente anche dopo vocale (una sua
ischiava , S. Bernardino; fresco isposo, Alberti; cento iscudi, alcuna
isperanza, Piov. Arlotto) 164 . Anche gn può avere i- prostetica: un tale
ignocco (Pulci, Morg., XXII, v. 42), ignuno passim.
In Toscana, progrediscono i tipi popolari stiena per schiena e
diaccio per ghiaccio.
Davanti alle particelle enclitiche -lo -la ecc. la r dell’infinito e la m
delle prime persone plurali si possono assimilare: co prilla (Bisticci),
pensalle (Pulci; ma anche trovarlo in rima con Carlo), perdonala (Piov.
Arlotto), trovalla (Poliziano); vogliallo (Bruni), finirella (Poliziano) 16S .
Così anche mandàgli «mandargli», Pulci).
162 Cfr. la rima di fausta con guasta e basta nella Città di vita del Palmieri.
163 Per reazione, si ha invece splimere per esprìmere (M. Franco), refligerìo,
plecipitare (Leonardo); il Pulci, definendo fleto nel Vocabolista «pianto ed il
mormorio del mare», mostra di confondere fletus con fretus.
181 Quanto al timbro della vocale prostetica, si noti che il Sannazzaro
corregge esperanza in isperanza (Folena, Crisi, p. 35).
1,5 Ma nelle Stanze non si ha mai quest'assimilazione, sentita come popolare-
sca.
262
Storia della lingua italiana
Il Quattrocento
263
sw
Sempre frequenti le sincopi del tipo s’tu (Pulci), vorres’tu ? (AlbertD,
cades’tu ? (Piov. Arlotto), vedes’tu ? (PulcD e del tipo guarii «guardati»
(Pulci, Lorenzo Med.).
I troncamenti degli articoli, degli aggettivi indicativi, dei qualificati-
vi sono meno frequenti delle forme intere: uno giorno (Piov. Arlotto),
alcuno riscaldamento, quello dono, quello bello vecchio (Alberti!, vice-
versa sono ammissibili troncamenti come buon padri, maggior bellezze
(Alberti).
Abbiamo già accennato (p. 249) alla nuova possibilità, introdotta dai
rimatori settentrionali, della tronca consonantica in pausa; in prosatori
meridionali ne abbiamo qualche raro esempio (vanno ad arrobar.
Carata), che va interpretato come un’estensione ipertoscana dei tron-
camenti nella sequenza del discorso 109 , forse aiutata dall’ispanismo.
Non ci è possibile fermarci sulle peculiarità fonetiche degli scrittori
non toscani, le quali andrebbero studiate luogo per luogo, anzi testo
per testo. Ci accontentiamo di indicare l’estensione dei dittonghi ie, uo
a parole che in toscano non li avrebbero avuti: spierò in una lettera
veneziana (Migliorini-Folena, n. 10, r. 24), infìdieli nel Carbone, crudiele
nel Boiardo, tieco nel bolognese Malpighi 167 , duono nel Sannazzaro 168 ,
buora a Trieste 189 , ecc.
In palese regresso, come tratto dialettale che non trova riscontri in
toscano, è la metafonia, sia negli scrittori settentrionali che in quelli
meridionali: ambasiaduri, ma depentori in ima lettera di Francesco da
Carrara 170 , «armata de’ genoisi», ma «scolari bolognesi » nell’ Alienti (p.
123 e 265 Gamb.), « amorusi sospiri» ma «religiosi» (ivi, p. 208 e 362),
ricchezze e ricchizze (sempre al plur.) nello stesso ms. di Giuniano Maio.
Se mai, la coincidenza di forme metafoniche con forme latine in cui si
ha i od u presta loro una maggior resistenza (profundi nel Sannazzaro).
Le sonore intervocaliche settentrionali cedono alle sorde toscane: in
una lettera (1440) del padovano Antonio de Rido ai Fiorentini 171 ,
abbiamo, accanto a deliberado, zurado, cognosudo, anche deliberato e
potuto. L’Arienti, ipertoscanizzando, parla (p. 227) di «toccare il dato»
(dado). E così via.
Per l’accento, merita un cenno la frequenza con cui, nell’assunzione
di vocaboli classici, dotti ed indotti trascurano la quantità latina,
preferendo di solito la pronunzia piana a quella sdrucciola: arteria,
aureo, funerèo, giubillo, ostico (e persino metonymìce in rima con
allegorice e tropìce -. Mombrizio, S. Caterina, w. 730-735); Amazzóne,
166 Folena, Crisi, p. 39.
167 Cfr. «dormire miego », nelle parole attribuite a un ambasciatore ferrarese
in ima facezia del Piovano Arlotto (n. 69).
168 Non si tratta qui soltanto di una peculiarità individuale, ma la penetrazio-
ne toscana è scesa nel dialetto: Folena, Crisi, p. 28.
109 J. Cavalli, Commercio e vita privata di Trieste, Trieste 1910, p. 291.
170 Migliorini-Folena, Testi Quattr., n. 9.
171 Pastor, Storia dei Papi, I, p. 739.
Antiòco, Borèa, Caucaso, Demostene, Driàde, Eciiba, Eschìne, Euridice,
Gòrgóne, Iapèto, Leonida, Origene, Palàde, Persèo, Prometèo, Proserpìna,
Sermàti («Sarmati»), Sisifo, Sosia, Tesifóne, ecc.
14. Forme
Nella flessione nominale, troviamo con molta abbondanza, nella
serie in -a, plurali in -i: vaghe piami (Palmieri), le porti (Pulci), le bianche
areni (Luca Pulci); nella serie in -ca abbiamo molti esempi latineggianti
in - ce : domestice, pubblice (AlbertD, catolice (Boiardo), mendice (Serafino
Aq.). Nella serie in -co, go troviamo oscillazioni tra velare e palatale:
sindachi, traffichi (CavalcantD, tisichi (Landino), pratichi (Poliziano),
fongi (CammellD, Licurgi (Ficino); con i nomi in -elio è frequente il
plurale in -egli-, frategli (Macinghi, S. Bernardino, Piov. Arlotto, PulcD,
stomegli (Pulci), agneglH Piov. Arlotto). Nella serie in -e sono frequenti i
plurali invariati accanto a quelli in - i -. coteste febbre (Macinghi StrozzD,
le gente, le mente (PulcD, l'ardente fiamme (Poliziano), penne debole
(Leonardo), ecc. Ai singolari del tipo amistà, nimistà, fanno spesso
riscontro plurali non tronchi (amistadi, nimistadi ).
Sono di solito maschili opinione, parete, tigre.
Un tentativo di acclimatare i comparativi latini si trova nel Ghiberti
( densiore , suttiliore ); superlativi di forma latina si hanno nell’ Alberti
(difficiliimo-. Famiglia, passim; ma anche difficilissimo, p. 203 Spong.l.
Per 1 articolo sono molto frequenti le forme el, plur. e-, un po’ meno il,
plur. i; Io, plur. li e gli, perde terreno. La parola re prende di solito come
articolo lo m .
Per i pronomi, si divulgano lui e lei come soggetti, malgrado le
resistenze puristiche suggerite dal confronto col latino: «comprendia-
mo che lui desideri sommamente l’accordo» detterà 1434 della Signoria
di Firenze, in Capponi, Storia, II, p. 506), «ma lui mi rispondea e dicea»
(Alberti, Famiglia, p. 226 Spong.), «Dominus dedit, lui data l’avea»
(Pulci, Morg. XXVII, st. 142), «lei si percuote D petto e in vista piagne»
(Poliziano, Giostra, I, v. 113) 173 .
Incomincia in questo secolo l’uso del pronome di terza persona
riferito a Vostra Signoria : dapprima ella, essa, questa, quella, poi anche
lei, che firn col diventare nel secolo seguente il pronome allocutivo più
frequentemente usato: «pregando essa V. Ill ma S. se degna fare tal
demostrazione verso el dicto Iacopo che lo predicto Matheo et soi
comprendano per mio amore lei lo ha trattato bene et clementemente»
177 Maggiori particolari in Folena, Piovano Arlotto , p. 369. Il fatto che lo re
sia. forma preferita si può spiegare oltre che per la formula messer lo re (Folena,
ivi), per l’influenza dell’uso meridionale cioè di quello che era il Regno per anto-
nomasia.
173 Un commentatore, leggendo nel Sannazzaro (Are., p. 63 Scher.): «(quel
monile) ley per mio amore gliel puse», osserva «ella dicere debuisset» (Scherillo p
ccvm). ’
264 Storia della lingua italiana
Getterà di G. Pontano per la cancelleria aragonese, 9 luglio 1478);
«l’opera qual habia facto... M. Augustino la riferirà pienamente a
bocha alla S. V. R ma , et lei dipoi la potrà significare ad Nostro Signore»
flett. Galeazzo Sforza Sanseverino, 1494) 174 .
Nei numerali, ricordiamo la grande variabilità di due-, duo (Macin-
ghi Strozzi, Lor. Medici), duoi iduoi moderni. Michele del Giogante),
due (di solito davanti a fe mminil e oppure in pausa, uno anno o due, Lor.
Med.), duo. Venti, trenta, ecc. sincopano facilmente davanti ad altri
numeri: venzei, cinquanzei (Palmieri); si ricordi anche la facezia di
Quazzoldi beccaio («quattro-soldi») nel Piovano Arlotto (n. 43).
Nella morfologia verbale, al presente, l a pers. plur., non sono
interamente scomparse le forme anteriori all’espansione di -iamo-.
«verno (Alberto, cognoscemo (P. Arlotto), «Amor qui la vedemo» (canzo-
ne «Monti valli» attribuita al Poliziano), «verno, conoscemo (Lor. Med.,
Altercazione, IV); metaplasmi come vedimo, corrite si trovano solo nel
verso (Palmieri, Città di vita ; Lor. Med.). Siàno, facciano, andiàno sono
varianti popolari.
All’imperfetto, la desinenza in -o della prima persona è un’innova-
zione (in confronto con l’-a trecentesca), ma a Firenze è di gran lunga
predominante (e l’unica registrata dalle Regole laurenziane); pativa,
sapia per la 1“ persona sono arbitrai del Palmieri. La prima persona
plurale di essere ha eravamo e savamo (o anche savano-. Palmieri); la 2 a
pers. eravate o savate. Negli altri verbi la 2 a pers. plurale ha anche - avi
ecc.: voi cantavi, voi dicevi (Alberti).
Al futuro notiamo la 1* pers. plur. del tipo daréno, che è di tipo
popolare. Frequenti sono le alterazioni dovute a combinazioni foneti-
che varie con il tema verbale: uccidrò (Pulci), misurrai (Palmieri),
giosterrò (PulcD, proverrò («proverò», Pulci), troverrete (Piov. ArL), ecc.
Al passato remoto, si ha qualche forma forte diversa da quelle poi
prevalse ibebbi, S. Bernardino; missi. Pulci; tretti, Regole laurenziane).
Alla prima pers. plur. debole, frequentemente è scempiata la consonan-
te (ragionamo «ragionammo»: PulcD. Alla terza plurale forte e alla
terza plurale debole si hanno ampie oscillazioni: andaro, andarono,
andorono, andorno; dissero, disserono, dissono, disseno 1 ™.
Nel congiuntivo presente della 3 a coniugazione si può avere nelle
persone deboli (specialmente nel linguaggio più andante) la vocale - i :
prima pers. sing. ricognoschi (PulcD, 3 a pers. sing. possi, piacci, conoschi,
3 a pers. plur. conoschino (S. Bernardino).
Nel cong. imperfetto, alla 3 a pers. sing. si ha lavorasse e lavorassi,
Il Quattrocento 265
alla 3 a plur. andassero, andasseno, andassino, andassono. Col verbo
essere, prevale fussi.
Nel condizionale, le forme in -ei (l a pers.), -ebbe (3 a pers.) prevalgono
m Toscana, su quelle in -io. 176
Alcuni participi sono diversi da quelli più tardi prevalsi (dolio
Poliziano). I participi senza suffisso sono frequenti nell’uso popolare
(«voi mi avete guasto »: Piov. Ari., ecc.). Quanto agli ausiliari, il riflessivo
ancora non esige essere aversi affannato (AlbertD, s’ha sgretolato (PulcD
coperto m ho (Lor. Med.), io mi ho allevato costui (Piov. Ari.), ecc.
Limiteremo a pochissime le osservazioni sulla morfologia dell’italia-
no delle varie province.
Nell Italia mediana e meridionale abbiamo notevoli residui della 5 a
decimazione latina (fermecze «fermezza» a Roma, faze «faccia»).
Nell italiano settentrionale il ( eli è normale davanti a s impura [il
scudo, Boiardo, il sdegno, Tebaldeo). Nell’italiano meridionale, abbia-
mo già accennato alla rapida penetrazione di il lei) a spese di io 177 .
Tra i pronomi, qualche forma tonica di colorito dialettale resiste
tenacemente: troviamo mi non soltanto in poeti padani: «Misera mi che
ho sedeci anni» nel lamento di una fanciulla ferrarese del Quattrocento
(Fatini, Le Rime dell’Ariosto, p. 23); «O fa l’altri morire o mi campare»
(Boiardo, Ori. Inn., II, v, st. 23); ma anche «lassa far a mi» in ima
barzelletta, forse di Serafino Aquilano, musicata da Josquin des Prés
(Menghim, Serafino, pp. 36-38) e nel coro delle Baccanti alla fine
dell Orfeo del Poliziano, nella redazione originale mantovana:
Chi vuol bever, chi vuol bevere,
vegna a bever, vegna qui.
Voi imbottate come pevere.
I’ vo’ bever ancor mi.
Gli è del vino ancor per ti.
Lassa bever prima a me.
Ognun segua, Bacco, te.
. Sappiamo che il Savonarola, quando venne a Firenze, «diceva mi e
ii, di che gli altri frati ridevano» 178 .
Nei verbi, notiamo per il presente indicativo la vivacità del tipo -«fi
-eti -iti ( pensati , haveti, risponditi, finiti ) negli scrittori lombardi e
emiliani, in prosa e in poesia 179 .
All’imperfetto la forma di l a pers. in -a, se in Toscana è in assoluto
174 Pastor, Storia dei Papi, Supplemento, Roma 1931, p. 499. Le varie fasi
quattrocentesche e cinquecentesche sono esaminate in un mio articolo «Primordi
del lei», in Lingua nostra, VII, 1946 (= Saggi ling., pp. 187-196).
175 L’eccellente saggio del Nencioni, Fra grammatica e retorica, dedica le pp.
50-109 a illustrare come i vari scrittori si comportino nella scelta, e mostra che la
libertà non è capriccio.
ocniamni, m ir. arar., V, 1929, p. 25. Il Poliziano preferisce saria in verso
if» ^ pr ? sa * II jr Gray ? on .ha osservato che nel manoscritto V della Famiglia
99 fl 99 Qi ertl alcune forme in - ia sono state corrette in ‘ebbe {Rinascimento, 1952 pp.
77 Ma il Sannazzaro approfitta volentieri dell’uso promiscuo, e raramente
corregge m senso toscano (Folena, Crisi, p. 69).
Cambi, Storia di Firenze, ap. Capponi, Storia della rep. di Firenze, II, p. 194 .
Le edizioni di Serafino oscillano (son. CIX) tra vivete e viviti.
1 - Storia della lingua italiana
presso, persiste a Nord e a Sud (io ragionava. Boiardo; me maravi-
ava, Arienti; era, Masuccio).
Al passato remoto, la l a pers. plur. lomb,-ven.-emihana termina m
■simo, -essimo, -issimo (oppure -assemo ecc.): « venissemo a questa
delusione» Qett. G. F. della Torre a Lorenzo de’ Medici, 1476);
nfirmasemo (Venezia 1436, in Monticolo, Capitolari delle arti. III,
26); «A cavai rimontassimo in gran fretta» (Bello, Mambriano, VII,
57).
Una notevole caratteristica del napoletano illustre è la presenza di
finiti, participi presenti e gerundi coniugati al plurale, cioè con
ggiunta della desinenza -no per la 3 a persona 180 : «pensa de quisto
igele mun do li beni non esserono se non ombra e fummo» (Del Tuppo,
opo); «cose spectanteno ad uso del bene commune» (G. Maio, De
aiestatéì-, famosi, stamosi, fermamosi per «farsi, starsi, fermarsi»
annazzaro. Arcadia, egl. Vili) 181 .
». Costrutti
Nei fenomeni sintattici di questo periodo avremo spesso occasione
vedere tracce di influenze del latino.
È ben vivo il costrutto appositivo con di appoggiato al semplice
rticolo: «il traditor di Gano» (Pulci, Morg., II, st. 43, IV, st. 50), «1 ottimo
ttadino di Giovanni» (Cavalcanti, Istorie, 1. Ili, c. 6).
Nel complemento di materia, prevale ormai il costrutto non artico-
lo (io palla d’oro), mentre nei secoli precedenti si preferiva dare al
implemento l’articolo determinativo quando il sostantivo reggente
veva pur esso l’articolo determinativo ila palla dell oro) 182 .
Il superlativo può essere rafforzato da intensivi: «la più- ottima
arte de’ mortali» (Palmieri, Vita civile, Proemio); «più ottimo tempo»
Cavalcanti, Istorie, 1. XIV, c. 35), «(costumi) molto lodatissimi » (Alberti,
am., p. 123 Spong.), «(luoghi) tanto alla famiglia utilissimi » (ivi, p. 119),
assai dolcissime parole» (Masuccio, p. 225 Mauro), ecc.
XI possessivo suo serve spesso per una ripresa di tipo popolare-.
Della mia soprawesta il suo colore» (Pulci, Morg., II, st. 52) 183 .
Frequentissimo è il semplice quale col valore di «che» relativo:
Ganimede - qual di cipresso ha il biondo capo avvinto» (Poliziano,
nostra ). ;
Una delle caratteristiche più salienti della smtassi quattrocentesca
180 Molto più raramente si ha -mo e -vo per la l a e la 2*.
181 II Varchi, nell' Hercolano (Venezia 1570, p. 151) esprìmeva la sua meraviglia
ier l’insolita terminazione: «non sò vedere in che modo egli cotale affisso si
omponesse; e più per discrezione intendo quello, che significar voglia, che per
egola». Sul fenomeno, v. Savj-Lopez, in Zeitschr. rom. Phil., XXIV, 1900, pp. 501-
04.
182 Migliorini, Saggi ling., pp. 156-174.
Getto, Studio sul Morgante, cit., p. 138.
Il Quattrocento
267
è l’ellissi di che, sia come pronome relativo non accessorio, sia come
congiunzione dichiarativa. Probabilmente è una moda che si dirama
dalle cancellerie 184 , ma si trova sia nella prosa che nel xerso, sia in
Toscana che fuori: «aveva imo povero giovane istava con lui» (Piov.
Ari., motto 141, r. 4); «per quel vedevo e udivo» (Lorenzo Med., Beoni, II);
«voglio questa mattina facciate» (Piov. Ari., motto 2, r. 26), «Par
di letizia ognun di loro osanni» (Palmieri, Città di vita, III, xxxii,
v. 79), «(quel disio) - so vi consuma, mentre vi favello» (Lorenzo Med.,
Beoni, V).
I costrutti con l’infinito si estendono largamente, per influenza
latina, principalmente in scritture letterarie (Alberti, Lorenzo de’
Medici), ma anche in testi senza alcuna pretesa.
Anche sul modo della reggenza abbiamo alcune influenze singole di
costrutti latini: p. es. «vietono li ragi del sole entrare nel delectoso
boschetto» (Sann., Are., I, 34 ecc.) 185 .
Troviamo il congiuntivo per influenza latina in vari tipi di proposi-
zioni dipendenti: «La natura dello ingegno nostro è tanto universale...
che... in un medesimo tempo alle volte varie operazioni eserciti ...»
(Palmieri, Vita civile ); «vedesi... che l’amicitia sia utilissima a’ poveri»
(Alberti, Famiglia, p. 145 Spong.); «E disse: Chiarion, dimmi chi sia »
(Pulci, Morg., XX, st. 82); «Colui che par di tanti pensier cinto - diss’io al
duca mio, dimmi chi sio» (Lor. Med., Beoni, VI); «a me pare che sien
quattro, delle quali ima o al più due, sieno proprie e vere lodi della
lingua, l’altre piuttosto dipendano...* (Lor. Med., Comento).
Nell’ Alberti troviamo anche l’imperfetto congiuntivo per il condizio-
nale, pure per influsso latino: «Quale austero uomo non fuggisse questi
sollazzi?» (Famiglia, p. 127 Spong.).
Indubbiamente alla stessa spinta è dovuta la soppressione della
doppia negazione: «che in tale casa porti seco nè scandolo nè
vergogna» (Alberti, Famiglia, p. 50); «(i filosofi) della materia lasciano
adrieto nulla» (ivi, p. 120).
Per quel che concerne l’ordine delle parole, un po’ dappertutto vien
meno l’obbligo della posizione enclitica delle particelle atone Qegge
Tobler-Mussafìa): «Vi priego che con attenzione mi ascoltiate...» (Landi-
no, Orazione Petr.\ •■Ci fu qui nuove...» Qett. di Piero de’ Medici, 2 genn.
1467); •Si conveniva che nel venire gli andasse incontro...» (Vespasiano
da Bisticci, «Don. Acciaiuoli»); •Te dico, cusina, quello ch’i’ ho veduto»
( Passione di Revello, I, v. 5978); •Vi comandamo che...» Getterà di re
Alfonso, 1454, ap. Migl.-Folena, Testi Quattr., n. 56); M’è parato Qettera
del Poliziano, p. 63 Del Lungo), ecc. La tradizione, tuttavia, mantiene
ancora discretamente la norma nei testi più letterari 188 .
Sporadico ma sintomatico effetto del latino sull’ordine delle parole
lM Folena, Crisi, p. 75.
185 Folena, Crisi, p. 90.
180 Cfr. le osservazioni di Folena, Crisi, pp. 73-74, Piov. Arlotto, p, 374.
268 Storia della lingua italiana
è la posizione che l’Alberti dà a adunque, anche, collocandoli come
autem, quoque : «Le prime adunque parti del dipingere...» (Pittura, p. 59
Papinil; «per le antiche istorie e per ricordanze de’ nostri vecchi anche »
( Famiglia , Proemio).
16 . Consistenza del lessico
Abbiamo già accennato (p. 257) come la norma sia poco imperativa
durante il Quattrocento: secondo la cultura dei singoli e la loro
provenienza, l’impasto lessicale può essere molto diverso. I Toscani
seguono senza scrupolo il loro uso vivo, ricorrono largamente al latino,
e anche, quasi attingendo al patrimonio familiare, ai tre grandi
trecentisti: com’è ovvio, il loro lessico è più o meno dottrinale, più o
ipeno popolare secondo l’argomento di cui trattano e secondo il loro
temperamento.
Per gli scrittori di altre regioni, le cose si presentano diversamente:
essi si sforzano di evitare sempre più i vocaboli del vernacolo natio,
ricorrendo ora al latino ora ai grandi scrittori toscani. Ma se il lessico
latino offre ima larga gamma di vocaboli, il lessico dei tre grandi
trecentisti è lontano dal fornire tutta la serie di espressioni di cui si
sentirebbe il bisogno. (Non si dimentichi inoltre che, per questo scopo,
manca ancora qualsiasi specie di repertorio).
Le spiegazioni dei lemmi latini nei glossari del Barzizza o del
Cantalicio sono fortemente dialettali, in quanto mirano solo a far
capire le parole latine a scolari che non sanno altro che il loro dialetto.
I campi per cui è più diffìcile l’intercomprensione sono quelli pratici:
per_ indicare, ad esempio, gli oggetti domestici o le piante non
adoperate praticamente, non si hanno altri nomi che quelli locali o
regionali. Un po’ di più circolano i nomi dei pesci, per esigenze del
mercato; ma quelle che il Sacchetti e il Burchiello chiamano acciughe
sono anchiovi per il Boiardo 167 .
Istituzioni che nascono o si diffondono in quell’età, nuovi oggetti,
nuovi modi di pensare, fanno si che si divulghino per tutta la penisola i
rispettivi nomi.
II catasto, istituzione veneziana, già accolta nel Trecento in altre
città, è introdotto a Firenze nel 1427, e se ne accetta anche il nome.
Posta, attraverso i significati di «luogo assegnato a un cavallo»,
«luogo dove si cambiano i cavalli», sta passando a quello di «trasporto
di corrispondenza».
Si istituiscono (anzitutto a Perugia nel 1462, in seguito alla predica-
zione di Barnaba da Temi), i monti di pietà ( monte era comunissimo già
da tempo nel senso di «cumulo di debiti fruttiferi»: Rezasco, s. v.).
I cerretani, persone di Cerreto presso Spoleto, che questuavano per
m E anciiìuhe per Benedetto Dei (fiorentino, ma vissuto a lungo fuori della
città natia).
Il Quattrocento 269
gli ospedali di sant’Antonio, danno il nome a ogni specie di girovaghi
importuni 188 .
Nella terminologia politica, il termine di repubblica, accanto al
significato generico di «stato», prende quello più ristretto che lo
contrappone a regno o principato'**. Si sta sviluppando, si vede, una
precisa terminologia diplomatica: autorità prende valore concreto;
potenzila assume anche il valore di «stato»; si parla di credenzial
lettera (Giovi Cavalcanti). Nella vita militare, il termine di colonnello
per indicare all’incirca quello che oggi chiamiamo «reggimento»,
appare a Milano nel 1472 190 . Appaiono gli stradiotti, milizie greche, e i
g(u)aluppi, addetti alle salmerie, e si cominciano a usare le partigiane.
Di questo secolo è pure il vocabolo facchino.
Il termine di Accademia nei primi decenni del secolo indica ancora
propriamente, presso i dotti, quel boschetto nei dintorni di Atene in cui
si riunivano Platone e i suoi discepoli: «quello santissimo seggio, unico
quasi nido di tutti i philosofi, dove si nutrirono e crebbero tutte le
buone e-sanctissime arti o discipline a bene e onestamente vivere,
luogo chiamato Accademia » (Alberti, Fam., p. 126 Spong.). Per allusione
a Cicerone Gl quale aveva chiamato Academia il suo Tusculano, per
ricordo del giardino di Platone) il Bracciolini, già in una lettera del 21
ottobre 1427, chiamava la sua villa di Terranova Academia Valdarhi-
na 101 . Il trasferimento al significato moderno della parola, per cui non
pensiamo a un ameno luogo suburbano di riunioni ma a un gruppo di
persone riunito per fini di studio, comincia con la riunione di dotti
giovani intorno all’Argiropulo: in questo senso, troviamo la prima volta
usato il nome di «academia» in una lettera di Donato Acciaioli (1455) 192 .
Più famosa quella che si radunava intorno al Ficino a Careggi: c’è
ancora l’idea' di luogo («academiola Phoebo sacrata», «academiola
Phoebea» è la villa stessa), ma l’idea predominante è ormai quella delle
persone (Alamanno Donati è chiamato in una lettera del Ficino del 29
ottobre 1488 «Martem Academiae», ecc.) 193 . Solo nel Cinquecento si
svolgerà in pieno il significato moderno.
■«a Migliorini, in Rom. Phil., VII, 1953, pp. 60-64 (= Saggi ling., pp. 272-277).
169 Maggini, in Ling. nostra, Vili, 1947, pp. 1-3, De Mattei, ivi, IX, 1948, pp. 13-18.
180 P. Pieri, in Arch. star. prov. nap., 1933, p. 149.
101 «His et nonnullis signis (“statue”) quae procuro, ornare volo academiam
meam valdaminam, quo in loco quiescere animus est»: Epist., ed. Tonelli, I,
Firenze 1832, p. 214.
192 A. Della Torre, Storia dell’Accademia Platonica, cit., p. 364.
183 Nei versi del Morgante, c. XXV (uno dei canti aggiunti dal Pulci al poema
primitivo), il vocabolo ha ancora significato prevalentemente, ma non solo,
topografico:
La mia academia un tempo, o mia ginnasio,
è stato volentier ne’ miei boschetti...
E così fuggo mille urban dispetti;
sì ch’io non tomo a’ vostri arìopaghi,
gente pur sempre di mal dicer vaghi.
Il primo verso richiama il v. 18 del framm. petrarchesco del Trionfo della morte
270
Storia della lingua italiana
Il Quattrocento
271
La moda introduce la calzabraca, le frappe, la giornea e chissà
quanti altri termini 164 .
Si co min cia a coltivare il carciofo, si importano il caviale, lo
schienale, la morona, il giulebbo.
Un’ampia illustrazione meriterebbero i termini di belle arti foggiati
o tecniflcati o assunti dalle lingue classiche in questo periodo. Valga
come esempio il vocabolo di medaglia, che prima indicava una moneta,
e prende il significato moderno con il nascere della nuova arte della
medaglistica; o quello di torso, metaforicamente trasferito dalle piante
alle statue mutile e ai corpi umani. La terminologia architettonica è
stata quasi interamente rinnovata da L. B. Alberti 165 . Egli accoglie
senza riserve numerosi vocaboli antichi: «Il capitello... partirassi per
terzo: l’una parte sera il plinto; l’altra lo echino con l’onnuio, il quale
annulo sarà la sesta parte; l’altro terzo serà lo hipotrachelio. Lo
astragalo...» {Alberti, I cinque ordini ). Ma altri avrà maggiori scrupoli:
«E1 capitello è capo della colonna. Vetruvio il chiama epistilio le qui
sbaglia, perché Vitruvio chiama così l’architrave]. Questi vocaboli
antichi lui li usa: io non ve li voglio dire, perché sono scabrosi e non
s’usano oggi dì...» (Filarete, Architettura, c. 56 a del cod. Magliab.l.
Accanto a lume e ombra, bianco e nero compare la coppia asindetica
chiaro oscuro, e «il termine acquista nell’atmosfera leonardesca parti-
colare intensità e valore semantico nettamente coloristico e tonale» 196 .
I nuovi termini talora attecchirono, talora furono respinti: non
ebbero fortuna, ad esempio, due termini geometrici adoperati dall’Al-
berti per sostituire rispettivamente circonferenza e diametro-, ghirlanda
e linea centrica {Pittura, p. 17 Papini).
Le invenzioni tecniche portano alla formazione di terminologie
nuove: ricordiamo i numerosi vocaboli riferiti alla stampa: stampare,
imprimere, informare, libri da stampo, libri in forma, componitura,
compositore, ecc. 197 .
Le scienze della natura, per l’esempio degli antichi e per l’intuito di
qualche pioniere, assumono figura meglio definita, e danno luogo a
nuove terminologie. Abbiamo già accennato all’importanza della ver-
sione pliniana del Landino-, attraverso di essa penetrarono in italiano
«La mia Academia un tempo e il mio Parnaso» (e l'accostamento fra accademia e
ginnasio echeggia, forse indirettamente, Cicerone, Acad. poster., I, 4: «in Acade-
mia, quod est alterum gymnasium»). Il passo del Pulci probabilmente intendeva
rispondere alle critiche dei Ficiniani (Della Torre, op. cit., p. 288). La definizione
del Vocabolista («iscuola o setta di savi») insiste sulle persone, ma è ancora
piuttosto vaga.
164 A Ferrara troviamo un primo adattamento del turco yelek sotto la forma di
ghelèr, gheler o, gilereto (Bertoni, in Arch. Rom., IV, pp. U9-120).
196 Folena, in Lingua nostra, XVIII, 1957, pp. 6-10.
196 Folena, in Lingua nostra, XII, 1951, p. 61.
197 Una ricerca speciale sulla terminologia della stampa sarebbe desiderabile
e, data la ricchezza di materiali messi insieme dai bibliografi, non difficile.
non solo alcuni nomi di singoli animali e piante, ma anche termini
corrispondenti a nozioni scientifiche, p. es. insetto 138 .
Le osservazioni ed esperienze di Leonardo si concretano anche in
vocaboli tecnici: si pensi all’uso che egli fa di solo, falda, grado, nel
senso in cui più tardi i geologi useranno strato, 1 ™ o di ghiara ricongela-
ta, congelazione nel senso di «conglomerato, conglomerazione» 200 .
Mentre scienze e tecniche vengono formando le loro terminologie, i
vari gruppi sociali accolgono in varia misura i termini relativi. Una
viva curiosità per le terminologie più varie mostra il Pulci nel
Morgante -. vocaboli militari, marinareschi, musicali, farmaceutici,
ecc. 201 .
La curiosità del Pulci si manifesta anche per i termini rari,
dialettali, esotici; e non è soltanto sua, ma di tutta una cerchia di amici,
fra cui va ricordato particolarmente Benedetto Dei. Grazie a tale
curiosità penetrano in questo periodo dal Levante tafferuglio 202 , ciriffo
(«sceriffo, discendente di Maometto»), bizzeffe 283 . Si imparano a cono-
scere in Levante quelle imposte graticolate a cui si attribuisce (per il
sentimento che si presume abbia dato loro origine) il nome di gelosie
(«una porta di rame alta tre passi, lavorata a gelosie »: Barbaro, ap.
Ramusio, Navig. e viaggi, II, p. 105); se ne introduce l’uso in Italia
(Vitale, Cancelleria, Gloss.), e si estende l’uso della parola, applicandola
a certe maniche tagliate (Carbone, Facezie, 1470 circa) e al metodo di
moltiplicazione «per gelosia» o «per graticola» (Pacioli, 1494).
Pure attraverso i viaggiatori giungevano notizie e nomi dai mari
settentrionali: per es. dello stoccafisso 2M .
Qualche parola gergale arricchisce la lingua scherzosa-, parlare in
gramuffa «parlare in grammatica, latineggiando».
Tra i mutamenti semantici, alcuni fra i più notevoli sono determina-
ti dal ravvivamento del significato antico in vocaboli di origine latina
(virtù non più, o non soltanto, nel senso cristiano, ma nel senso di
«valore, eroismo») o dall’inserimento nella nuova concezione del
196 Meno fortunato fu il termine di mollicchi, riferito nella versione del
Landino a quelli che si chiamarono più comunemente animali molli, o anche solo
molli, finché apparve e trionfò il termine di molluschi (Óuvier, 1795).
100 Rodolico, in Lingua nostra, II, 1940, p. 129.
200 Cod. Leicester 8 b, ap. Fumagalli, Leonardo omo sanza lettere, Firenze 1938,
p. 102.
201 Getto, Studio sul Morgante, cit., pp. 146-149; cfr. anche Ageno, in Lingua
nostra, XIV, 1953, pp. 69-76.
202 Migliorini, Saggi ling., pp. 300-303.
263 Una lettera del Pulci al Dei del 1481 comincia: «al mio caro Benedetto Dei,
salamale c» (p. 162 Bongi).
261 Dal viaggio di Pietro Querini alle Lofoten, 1432 Ustocfisi seccano al vento et
al sole senza sale»: Messedaglia, in Atti Ist. Vera., CXI, 1952-53, pp. 1-27), dalle
notizie che Raimondo da Soncino inviava da Londra (Migliorini-Folena, Testi
Quattr., n. 119).
272
Storia della lingua italiana
mondo degli umanisti (« piacere non vuole più dire peccato, ma senti-
mento, condizione e molla dell’esistenza») 205 .
Questa corrispondenza alle idee del tempo spiega la voga di cui
godono alcune parole 200 : per es. unico, che il Petrarca applicava alla
Vergine, e nel petrarchismo fiorito diventa un complimento («Unico
Bernardin, l’opra è sincera», son. di Serafino Aquilano a un pittore;
l’Unico Aretino, epiteto onorario di Bernardo Accolto. Divino già sta
estendendosi nell’uso, e la sua fortunata carriera culminerà nel ’500.
Pure nel ’400 è cominciata la grande fortuna di pellegrino nel senso di
«elegante» 207 .
Nelle metafore nate in questo periodo ora agiscono spinte perpetue
dello spirito umano, ora spinte congruenti con lo spirito del tempo, ora
lampi d’ingegni singoli: perla riferito a donna 208 , cicala «donna chiac-
chierona e maldicente» 208 , «a/pie overo aringe » riferito a cavalli ma-
gri 210 , ecc.
Delle copiosissime locuzioni documentate per la prima volta nel ’400
{averi,' assillo, far la civetta, far castelli in aria, ecc.) chi può accertare
che esse siano nate allora, e non invece nate molto prima, e messe per
iscritto solo in quel secolo?
Negli scrittori toscani, la componente fondamentale del lessico è il
loro uso spontaneo. Molti vocaboli senesi si hanno, per esempio, in san
Bernardino o nel Sennini. A vocaboli di altre regioni i toscani attingono
qualche volta, per cose di provenienza forestiera 211 o per vezzo
stilistico 212 . Molto più difficile a precisare è quanto rimane di lessico
«spontaneo», tradizionale, dialettale, negli scrittori di altre regioni.
Anche quelli che più si sforzano, per rivolgersi a un più ampio uditorio,
di ricorrere a parole latine o toscane, conservano, specialmente per le
cose domestiche, vocaboli dialettali o regionali.
Basti una rapidissima scorsa attraverso alcuni testi più o meno
letterari. Troviamo nel Comazzano caravaggia «lavandaia», gradizza
«grata», ecc.; in Gaspare Visconti capigliara «parrucca», pristinaro,
ecc.; in Fiore dei Liberi brena, bucolero, ingualivo-, nel Carbone caleffare
«ingannare», scorano «seggiola», ecc.; nel Boiardo gallone «fianco»,
moglio «bagnato», stanco «sinistro», streptplone «bastardo, mascalzo-
205 Spongano, jn Giom. stor., CXXX 1953 p. 297.
208 Vi sono poi le parole care a singoli scrittori (p. es. verde, che dà il tono a
tante scene boiardesche, matto, strano, ghiottone, cari al Pulci del Morganté): non
mancano le ricerche stilistiche di questo genere.
207 Weise, in Romanistisches Jahrb., Ili, 1950, pp. 381-403.
208 Flamini, La lirica toscana, cit., p. 411.
200 Nella ballata del Poliziano «Donne mìe».
210 Lettera di Bernardo Bembo, 1478 (Pintor, in Studi... Rajna, p. 800).
211 P. es. «Secchi miglior sono e’ fichi di Marca - e nominati lì fichi pinzuti »
(Tanaglia, I, w. 952-953).
212 Per es.: «E non dina la festa mademane - crai e poserai e poscrilla e
posquacchera - come spesso alla vigna le Romane» (Pulci, Morg., XXVII, st. 55):
su questa espressione, cfr. specialmente Spitzer, Italica, XXI, 1944, pp. 154-169.
Il Quattrocento
273
ne^ zambello «lite», e tante altre parole dialettali; persino per indicare
liriche e GLXVm a ^ qual{ ? le tennine locale: troviamo nelle
SSbra sSTS de^Sèl^H nel .^ nso * ‘ sfogo ’ conforto» (che
L’AHentf h«^ Ì k del Verb ° arsurèr, lat. *re-ex-aurare).
i, iTlr ’ P ,‘ es - barbano «zio», calcedro «recipiente di rame» ferletta
«bacchetta», lambrecchia «trappola». ux rame», renetta
Nella Franceschina dell’Oddi troviamo cerqua «quercia» Danrella.
SESfeS nei c “ tari * B ">~ -
In Masuccio leggiamo àstrico «terrazzo», iopparello «giubba» làza-
àl^no T 0gUe * ca l Z °làio» PP ecc. Nefsa^azzSo,
«mLiTT» gema «leccio», lùgigìiola «acetosella», mantarro
«di nascosto» brandnUe Le§ Senda della, beata Eustochia, ammuchuni
t®,™*' .ondane «cero», brugula «tumore», catoio «latrina» e
molte altre voci (illustrate nel glossario del Catalano)
™J3, Ual< ? e VOlta lo scrivente , che sa che in due regioni diverse la
nozione è espressa da parole differenti, agevola il lettore con una
coppia di smommi: Leonardo, parlando di concrezioni pietrose trovate
nelle vene di persone vecchie, dice che «eran grosse come castali di
fogfi r B, e a°10 l b)^. tartUfÌ ’ OVVer & l ° PPa ° maro ^ na di ferro» (De anat.,
Balese ’ an . < r h f se , non sempre individuabile nei particolari è l’in-
solikf Ji le f SS1CO letterario dagli scrittori del Trecento. Di
f° b ?° tratta solo dei tre grandi; ma il cenacolo mediceo tien conto
stl { novistl - L’influenza dantesca è riconoscibile per l’appa-
m?no d?n?emn 1 ^!^ì 0 ? 0 R r T e: ? ltre al solito io * 21s - cagnazzo, bolgia o
no)- lurrhf b . ob ° lce ' scappellarsi, punga, sorpriso (Polizia-
no), lurchi, rubesto (Boiardo), ecc. Per la minore appariscenza del
lessico petrarchesco, è più diffìcile riconoscere influenze di questo tino
S^r;i? Store ’i P ? 1Ì f an0: rìtentire ’ Boiard o), ma è modeUata SS
SSSS^ tutta quanta la terminologia amorosa (l’Amore che colpisce o
prescindere dagli aspettf stilSSi^ SU VOCabolÌ smgoU non può mai
Q a £ 0 rmaz i 0n - e ^ nuovi voc aboU, si ricorre ai consueti procedi-
ffimchienS) ai SStóara V S 1? f dSr °2° da aggettivi e Participi: furibonda re
UlurchieUo) scusare (Pulci), sportare «aggettare» (G. RuceUai), ecc.
Tra i prefissi, non è ancora morto caia («se mi ci cogli, non mi ci
Folena, Crisi, pp. 169-173.
258 n.) Cfr ’ 16 “PP 1 ® taut °l°giche nell’edizione bolognese del Vocabulista (vedi p.
*• * - -
274
Storia della lingua italiana
catacogli »: S. Bernardino, pred. XLII). Dis- piace all’ Alberti, che foggia,
P Tr^f^i^s^^ono fertili -aie (boccale, Lorenzo Med., conale,
Ghiberti nazionale, 1° esempio 1488, nel Rezasco, vampate, Bern.
Giambulari; si ricordi anche il bugiale di Poggio, «mendacionim v^uti
officina»), -ardo ( rossardo , S. Bernardino), -ecchio (grossecchio, Nencia),
-esco (burchiellesco, Bellincioni), -ile (yerginile. Palmieri), -eggiare (setteg-
giare «dividersi in più sètte», Bruni), ecc. . . .. .
Non è difficile notare le inclinazioni di autori singoli verso certi tipi
di formazione: Giovanni Cavalcanti ha numerosissimesempi^ aggef
tivi in -esco (cerbiesco, cosimesco, volpmesco, ecc.); il Palmienn^a Città
di vita, in cui abbondano le citazioni dantesche, toma alle fomiaziom
parasintetiche del tipo induare ecc. (imbenarsi , mcmnore, mltóarel,
f Alberti tenta formazioni di stampo latino («Piladee e Lette amicitie
Fam p 142 Spong.); il Pulci si lascia spesso andare al suo estro
capriccioso e chiama dragata un «colpo dato con un drago» d * ™
Binante (XIX. st 38)- in un’altra scena scherzosa, inventa il nome di un
SSpe di Baldacco, «XV, st. 294) a < co*--
via. L’uso più o meno vario, più o meno ricco dei suffissi alterativi
dipende dal gusto dei singoli scrittori: i sostantivi e aggettivi in -ozzo
sono, com’è noto, frequentissimi in san Bernardino; il Pulci si serve
volentieri di diminutivi, accrescitivi, peggiorativi: «un altra
trovò strana», «Orlando è co rbacchion di campanile», «Volle menargli
d’un suo bastonacelo», ecc. La cerchia medicea saette particolmmen-
te di forme diminutive: oltre al largo e febee uso che ne fa il Poliziano ,
ricordiamo Lorenzo 217 e il Franco 21 ®.
Meriterebbe una speciale indagine (certo difficile) la scomparsa
dall’uso parlato toscano di parole vive nei secoli Precedenti. L avale
della Nencia sembra mostrare che la paroìa era ndotta ^ uso del
contado. Invece l’uso che il Sannazzaro fa di otta non può avere
analogo valore (egli trovava la parola in Dante e Petrarca! Notiamo
anche qualche ravvivamento conscio di parole poetiche disusate, p.
il desiamo del Poliziano (Stanze, I, 37).
zi® .vi sembrano così freschi e immediati, eppure la spinta e 1 *PP°S8do gli
viene tatara dagli antichi, dai Greci, da Catullo» (Falena, m Approdo, apnle-
gÌU f^°Sia 5 néu’uso poetico («con munuscoli e lettruzze», canz. 92,
diminutivo umanistico con uno popolaresco), sia neUa riflessione critica ( Comen
t0 ' lettera del 1485 in cui Matteo Franco descrive igrfovinetti
S£ 0 conw umTsperctooflieto e^ttS^^
Medici nel 1485, ed. I. Del Lungo, Bologna 1868).
Il Quattrocento
275
17. Latinismi
Abbiamo visto a più riprese come il punto di vista umanistico ren-
desse il volgare succubo del latino. Per i singoli autori e i singoli testi
possiamo notare un’influenza maggiore o minore-, anzi nell’àmbito di un
testo medesimo si possono osservare differenze secondo le diverse in-
tenzioni stilistiche dell’autore: il Proemio e il quarto libro della Famiglia
dell’ Alberti sono più latineggianti del resto. In certi testi l’ordito gram-
maticale volgare regge un lessico quasi tutto latino: si legga ad esempio
un passo dell’epistola di ser Domenico da Prato a Giovanni di Salvi:
«molti ferocissimi apri et onagri et linci dintorno alle foltissime selve
veggio, et poi prospicio li nuovi bubi et milvi et vespertilli et noctoraci,
che per l’aere volano. Quici non filomene in dilettevoli gabbie sento
cantare, ma gracidare assaissime monedole s’ode» 218 .
Una spinta che porta ad usare parecchi latinismi è la moda
letteraria dei versi sdruccioli, favorita da certi generi, come l’egloga 220 ,
ma non limitata a quelli (si ricordino le Pistole di Luca Pulci; o certi
schemi metrici con sdrucciole di Serafino Aquilano).
La curiosità erudita spinge parecchi, che si rendono conto di avere
ancora molto da imparare, a vocabulizare 221 , cioè a tener nota di
vocaboli rari, per lo più di origine latina o greca, che si possano
all’occorrenza adoperare scrivendo in italiano: l’ha fatto il Pulci, nel
suo Vocabolista 222 , e Leonardo ne ha piluccato i risultati e ha fatto
anche lui la sua raccolta 223 .
219 Paradiso degli Alberti, ed. Wesselofski, I, n, Bologna 1867, p. 362.
220 Già il Sansovino osservava, a proposito della opportunità di accogliere vo-
caboli latini che il verso sdrucciolo offriva al Sannazzaro: «gli diede anco animo il
verso sdrucciolo, che s’usava molto in quei tempi, nel quale egli si poteva accomo-
dare di molte voci latine, e formarne anco delle nuove» (cit. da Folena, Crisi, p. 55).
221 La parola è registrata due volte da Leonardo nel cod. Trivulziano
CMarinoni, Gli appunti grammaticali e lessicali di Leonardo, cit., I, p. 31; II,
Repertorio, s. v.).
222 II Vocabolista ci permette in qualche modo di valutare la conoscenza che
aveva dei latinismi una persona di cultura mezzana e di curiosità grande.
Tuttavia dobbiamo anche tener conto della possibilità d’una intenzione pedagogi-
ca: se no, sarebbe troppo strano veder registrate parole che, già adoperate
dall’uno o dall’altro dei tre grandi trecentisti, potremmo presumere ben conosciu-
te-, adulto, aura, biga, borea, cloaca, cuna, egregio, fertile, frenesia, inesorabile,
insidie, mostro, opportuno, pristino, tortura, ecc. La definizione è in qualche caso
molto istruttiva, perché ci fa vedere con quale significato la parola sia dapprima
penetrata nel lessico: pausa «il punto, quando si scrive tra nome e nome», teatro
«luogo tondo dove si facevano giuochi» (anche il Boccaccio adoperava la parola
riferendosi a teatri di tipo romano). Per qualche parola il Pulci si confessa incerto
t simbosio «dove molti fanno una cosa a parte, come e’ credo»), è molto
approssimativo o addirittura sbaglia: clima «una parte delle tre, o Asia o Affrica
o Europa», esbeston «una pietra, che acesa non si può ispegnere», squalido «non
equale», ulco «ispezie di ciccioni» (evidentemente credeva che si trattasse di un
ulcus, *ulci anziché di ulcus, ulcerisi. —
223 Sul modo della compilazione e sulle intenzioni di Leonardo si è discusso a
lungo: a risultati persuasivi giunge l’opera citata del Marinoni.
'6
Storia della lingua italiana
Il Quattrocento
277
T"
Riguardo alla forma in cui i latinismi sono accolti in italiano, abbia-
ci già visto che la grafìa oscilla molto. La tendenza generale è quella di
condurre alla scrittura latina le parole di cui si riconosce l’origine:
oto è più frequente di atto, e simili Ma mentre un toscano che usa dire
ffrica, piggiore, cicala non scrive altrimenti, nelle altre regioni si scrive
sesso Africa, peggiore e magari cicada. Malgrado l’appoggio unanime
si Trecentisti, Cicilia e cicilìano sono venuti al paragone con Sicilia e
ciliano : la Macinghi Strozzi e il Poliziano preferiscono la forma con la
, mentre Lorenzo scrive con la s- [Corinto, v. 150; Amori Ven., w. 21, 106
unioni) 224 .
Di solito le desinenze dei latinismi sono adattate alle esigenze morfo-
igiche italiane: si ha qualche raro nominativo in -o della terza (ingrati-
ido. Pulci; Rectitudo, Del Tuppo) oltre a quelli già tradizionali (Apollo ,
upido, ecc.). Per qualche nome antico meno noto si mantiene talvolta
i desinenza consonantica del nominativo ( Venus , Satumus, Burchiello;
ocrates, Demostenes, ma anche Socrate, nel Libro de la vita de filosofi,
180; Ercules, Del Tuppo-, Ceres, Poliziano). Lorenzo de’ Medici usa nume
ppure numine. Nelle parole di tradizione liturgica la consonante finale
pesso riceve una vocale d’appoggio-, chirieleisonne (Burchiello), «Per la
irtù del Tetragrammatonne » (Pulci, Morg., XXV, st. 242).
Si piegano solo a qualche lieve adottamento fonetico ( ipso facto, isso
itto o anche esso fatto, Alessandra Strozzi) gli avverbi e le congiunzioni
itine. Questa serie è penetrata, come s’è visto (p. 257), attraverso l’uso
ancelleresco-. assiduo, autem, breviter, demum, etiam, ex tempore, imme-
iate, immo, improviso, in futurum, ipso facto, maxime, nuper, praeser-
\m, praeterea, prò viribus, quidem, quodammodo, quominus, quoniam,
aro, solum, sponte, taliter qualiter, tanto minus, tantum, vero, ecc.
Chi adopera latinismi talvolta, per riguardo al lettore, dà una spiega-
ione o aggiunge un sinonimo: «certo flore che li antiqui chiamavano
[marantho, però che non secca mai: da li nostri il veggio chiamare con
iiversi nomi: il suo colore è d’un bello carme sino a 225 ; *testudinato owe-
o in volta», «salotti ovvero triclinii s 228 .
Le parole antiche vengono assunte in italiano più o meno col
ignifìcato che avevano - in quanto il sistema lessicale italiano sia in
.rado di assorbirle. Qualche volta non si è preso il significato che
tvevano, ma quello che si credeva che avessero. Un esempio tipico è
luello del verbo tradurre, che deve il significato attuale a Leonardo
ìruni 227 : tradurre si diffonde durante il Quattrocento con quel significa-
324 II Boiardo, che aveva scritto con c- nel II libro (XXVII, st. 1 e 40), scrive con s-
lel III (V, st. 22).
225 Nella relazione (1482) sulla farsa II triumpho della fama (Torraca, Studi st.
etter. napol., cit., p. 420).
226 Francesco di Giorgio Martini, Architettura, ed Promis (cit. da Olschki,
Tesch. wiss. hit., I, p. 135).
227 Sabbadini, Rend. Ist. Lomb., s. 2°, XLIX, 1916, pp. 221-224. Il Sabbadini pensa
:he il Bruni abbia attinto quel significato a un passo di Gellio (I, 28, 1), dove
ignifica veramente «trasportato» e non «tradotto».
to, eliminando gli altri che prima aveva 228 , e sostituisce traslatore,
tralatare, che anteriormente era il vocabolo più adoperato nel signifi-
cato di «tradurre» 229 .
Si ha anche qualche tentativo di imitazione del latino per mezzo di
calchi: l’Alberti nella Pittura ricalca l’aggettivo latino simus dando
all’italiano scimmio lo stesso significato-, «altri aranno le narici scimmie
et arrovesciate aperte» (p. 88 Papini); Lorenzo adopera selva (Selve
d’amore ) nel significato in cui il Poliziano aveva usato silvae, sylvae.
Per dare ima sia piu pallida idea dell’enorme contributo che il
latineggiare del ’400 ha dato al lessico italiano, ecco un elenco (solo
esemplificativo) di latinismi che risalgono, a quel che sembra, a quel
secolo: aggetto, amaranto, amatorio, ameno, amminicolo ( adminicolo -.
Alberti, Fam.), anelante, applaudire, arboreo, arbusto, armigero, bisonte,
bonificazione, cataratta (di fiume), certame, cèrulo, clava, concinnità,
connubio, edicola (term. eccl.), emolumento, epidemia ( epidimia : Alberti,
Luca Pulci), esangue, esilarare (exh-), esonerare (in senso concreto,
eufemistico: «exonerare il ventre»: Arienti), facezia, fanatico, fisetere
( fisisteri : Boiardo), frontispizio (term. arch.), ilare, incile, insetto (v. p. 297),
lenocinlo, lepido, madido, marittimo, missiva, mutilo, obliterare, onoma-
topea ( pia-. Landino), opulento, ottemperare, pagina, paraninfo, plettro,
prodigioso, quintessenza (dal lat. alchimico), reboare, satellite («guardia
del corpo»), sodalità, specioso, stria, tragelafo, tragicommedia, trofeo,
veemente, vitreo, ecc.
Le voci dell’elenco che precede hanno vinto la loro battaglia, e sono
riuscite a inserirsi nell’uso dotto o addirittura nell’uso quotidiano. Ma
innumerevoli altre, fra le troppe che nel Quattrocento si adoperarono,
sono state meno fortunate. Ecco un altro gruppetto di esempi di questa
ultima serie: aborrendo (Masuccio, Nov., p. 232 M.), àlere («quella virtù
che t’ha prodotto ed aie», Lor. M., son. LXXII), alienigena Qett. 1497, in
Migl. - Folena, Testi Quattr., n. 119), alimonia (Comazzano, Prov., I),
amitto («veste» in gen., Tanaglia, I, v. 157), ammissura («accoppiamen-
to» di animali, Tanaglia, passim), animante (Alberti, Fam., p. 89, 125
Spong.), arbuscolo (Sann.), armo («spalla», Tanaglia, II, v. 136), arvale
(Intenz. fav. Gualterio), aspicere (Arienti, Porr., p. 181 Gambi, assentato-
re («adulatore», Alberti, Fam., passim), assentazione (Collenuccio, lett.
1491), àtavo (Boiardo, egl. II), attitudine (ap-, «opportunità*.- Masuccio,
228 Per es. «avevano traducta l’età sua nell’arml» (Alberti, Fam. p. 185 Spong.);
«mercantie... tradocte da que’di casa nostra sin dalle streme provìncie» (Alberti,
ivi, p. 200).
228 Trafilature ha numerosi esempi trecenteschi; e ancora nel sec. XV treletato
(Cola de Iennaro, 1479, ap. Migliorini-Folena, Testi Quatte., n. 93); « Istralatata fu la
bella historia - nel mille quattrocento ottanta trene» (Francesco Cieco Fiorentino
Il Persiano). Anche il francese, lo spagnolo, il portoghese accolgono dall’italiano il
tipo rinascimentale «tradurre», mentre l’inglese si attiene al tipo medievale to
translate.
278
Storia della lingua italiana
ir _ ini. Pnntn.no in Migl.-Folena, Testi Quattr. , n. 99)> aure
^orecchie»: G. Cavalcanti), bàccare (Avochi, JSSSjj*-
bàculo (Alberti, Pulci, Franco, Ghiberti, Sannazzaro), ^innare (Cor
nazzano, Nov.), calamo (Sann.1, calcalo (^assolino»: AlfcjF&m.,
Snone ) càpolo (Sann.), càsside (Refrigerio, Rim. boi. Quattr., p. 109),
castramelnUato (P. Zambolini), cèntrico (Alberti, Pittura, passim), certare
(Sannazzaro) cistula (Sann.), elude (Iacopo Brecciolini), cogmtore
Sh Xletone p. 310 Gamb.), collacrimare (Sann.), coltrare
(Alberti Fam , Proemio), commorare (Oddi, Francescana, I, p. 123),
notare, «tare, -azioni (.combattere. .Alberti
f Albpr+.i Pittura p 30 Pap.), conscendere (Alberti, Famiglia, p. 13bpong. ,
SSoddi Francescana, II, p. 348) corticc SanmX crotalo
(Sann) cunicolo (Sann.), deihìiscere (Sann.), desidia (Alberti, ^am.,
passim), detestando (Masuccio, Nov. p. 246 M.), diffignere ^
Certami coronario], èbulo (Sann.). eccieo ««sgP"»-
(Tanaglia, passim), elato CLor. M., I, p. _ . A ntfT n
(Alberti Landino), elongarsi (Lod. il Moro, m Migl.-Fol , Testi Jj-
m Servato (Alberti, Fam.. p. 54 Sp.), epuar. (.uguaghare. R ftoselb,
• piqtyìipì T.irira n 405) èauore (Serafino, Egl., 11, 278), esizio iperu.
Pulci) esorare (Gherardi, Paradiso Alb., passim), esii/ero («come
Sto al sole estifero»: Boiardo, egl. VII), estruso (Tanaglia, III, v .726 ,
estuante (Sann.), esuvie (exuvie-. Alberti, Fam., 12 Sp ), evagmare J*sguai
nare»: Alienti, Porr., p. 68 G.), exprobrare (CoU^
ciò Nov p. 246 M.), fenerare (Bem. Machiavelli, Ricordi, p . _ 116), Ettore
U scultore»: Ghiberti, I), fluvio (Sann., Serafino), fulgetro ( («folgore»: «h
SicTvulcan le sue fulgetra»: Lor. M., Selve), galliamo (Sann.),
gen rmez?oT la^fa^^on “i
^“‘ri^lr’.oTra Sa, o"o c^e’neUo scendere a
strati nonolari la forma o il significato talvolta si alterino (io Papa
Mund^mappàmondo, Giovai da Uzzano, in Pagnim, La Damma.
IV, p. 281).
18. Forestierismi
Un certo numero di vocaboli forestieri entra nel lessico per ì
freauenti contatti con gli altri paesi dell’Europa e con il Levante.
1 più numerosi sono i vocaboli francesi. Citiamo alcuni termini
militari come franco arciere, riferito dal pulci con forte a^^cro 1 ^ 1 ®
tpmni di Carlo Magno 230 , o fortiere (relazione dell ambasciatore fiorenti
no l?IS Aicuni sono fatti conoscere dalla spedizione di
Carlo Vili: «polvereri (così li chiamano loro) cmquanta» Qettera del
«o L’ordinanza di Montil-lès-Tours Ù448) chiamava frane l’arciere che ciascu-
na parrocchia doveva fornire, perché esente dalla taille.
Il Quattrocento
279
Boiardo, 26 agosto 1494), «te gentedarme regie» Qettera del card. F.
Sanseverino, 19 die. 1494). Non c’è bisogno di ricordare che quella
spedizione importò in Italia quello che fu detto il. mal francese.
Vengono in questo secolo nomi di oggetti (pattini. Pulci), di passa-
tempi vari (farsa. Luca Pulci; scangè, da escourgée. Piovano Arlotto),
designazioni di persone ( ceraldo «ciarlatano», da charalt-, mignotta ),
termini di mestiere (mazzoneria , Antonio Manetti), e anche alcuni
termini generici come dibatto.
I poemi cavallereschi francesi non erano dimenticati (si sa con
quale fervore fossero letti alla corte estense): e i francesismi abbonda-
no infatti nei poemi cavallereschi italiani: far carnaggio, franco combat-
tante, pitetto, ecc.
Le strette relazioni con la Savoia e con la Francia rendono ragione
della forte influenza francese in Piemonte: la Passione di Revello, che
secondo le intenzioni dell’autore è scritta in italiano, ha numerosissimi
francesismi: contrea, fassone, regnarne (-o), ecc.; sintomatica è la presen-
za della congiunzione car «poiché».
Gli iberismi sono soprattutto frequenti nel Napoletano e in Sicilia,
per influenza degli Aragonesi ( verdatero , Giun. Maio), ma qualcuno è
già diffuso in tutta Italia (nel Boiardo, per es., si ha algalia «zibetto»,
giannetta «lancia», giannetta «cavallo», nel Pulci marrano, ecc.).
I pochi germaniSmi si riferiscono a contatti militari: i lanzi già
fanno sentire il loro goden dacché («buon giorno»). Può essere venuto
per via militare anche l’aggettivo di colore fàlago «morello» (Pulci,
Morgante, XV, st. 105).
Insignificanti sono gli anglicismi: per es. gli aldrimani sono citati
per color locale dall’Arienti (Porr., XXII).
— Dal Levante s’importano profumi e dolci (belgiuì, bongiuì, Piov.
Arlotto, Lorenzo Med.; giulebbo), vi s’imparano a conoscere fogge di
vesti (albemuccio, bemuccio ; ghelèr, p. 296), e usi religiosi e civili
( moschea , in luogo del più antico meschita-, ciriffo-, falquiero alterazione
di faqir, Oddi; tafferuglio «festa chiassosa», poi «mischia» 231 ). Il tartaro
urdù è adattato sotto la forma lordò «campo militare senza recinti» 132 .
Questi imprestiti sono dovuti agli stretti rapporti delle città marinare
col Levante; ma ci rivelano anche la viva curiosità che si aveva per le
terre lontane (cfr. p. 271): curiosità che ebbe non piccola parte nella
scoperta del nuovo continente.
221 Migliorini, Atti Acc. Tose., XVII, 1952 (- Saggi ling., pp. 300-303).
*“ Zaccaria, Raccolta, p. 18.
CAPITOLO Vili
IL CINQUECENTO
1. Limiti
Cadono poco prima dell’inizio del secolo le grandi date simbolica-
mente prese a indicare la chiusura del Medioevo e l’inizio dell’età
moderna: 1492, 1494. Più difficile è segnare un limite non del tutto
convenzionale tra l’ultima generazione del Cinquecento e la prima del
Seicento, essendo fortissime le congruenze tra loro. Un confine molto
più evidente si potrebbe porre poco dopo la metà del secolo, al 1559,
data del trattato di Cateau-Cambrésis, o al 1563, data della chiusura
del concilio di Trento: tanto forte è la diversità sia sullo scacchiere
politico che nell’atmosfera culturale tra la prima parte del secolo e la
seconda.
Date fondamentali, per ciò che riguarda la storia della lingua, sono
il 1501, data della pubblicazione del Petrarca aldino, che il Bembo curò
con particolare riguardo all’ortografìa, il 1525, in cui uscirono le Prose
della volgar lingua, dello stesso Bembo, il 1582, data tradizionale della
fondazione della Crusca (o il 1583, armo in cui il Salviati le diede nuovo
impulso e indirizzo), il 1612, data della prima edizione del Vocabolario
degli Accademici.
2. Vicende politiche
La Francia e la Spagna, le due grandi potenze che hanno appena
raggiunto l’unità statale, e lTmpero, col nuovo impulso conferitogli
dalla congiunzione con la potenza spagnola in seguito alla quadruplice
eredità di Carlo V, conducono le loro guerre di predominio principal-
mente in Italia, dopo che la calata di Carlo Vili ha rivelato che alla
superiorità culturale italiana non fanno riscontro né forza militare né
compattezza morale. I principi italiani sono presi nell’ingranaggio di
queste potenze tanto più grandi di loro, e anche quelli che gridano
«fuori i barbari» e si proclamano «difensori d’Italia» non possono far
altro, per combattere gli stranieri, che appoggiarsi ad altri stranieri.
Dopo alterne vicende, la Francia è superata dalla Spagna, e già la pace
di Cambrai-(1529) e il congresso di Bologna (1529-30) sanzionano la
sostanziale vittoria spagnola; dopo alcuni altri sussulti, la pace di
Cateau-Cambrésis (1559) conferma, anzi rafforza questo predominio
282
Storia della lingua italiana
Il Cinquecento
283
spagnolo; la Francia porterà ormai maggiore interesse verso il Reno
che verso le Alpi e l’Italia.
Sporadici tentativi e velleità di resistenza s minuis cono di ben poco
il complessivo adagiamento nella «pace spagnola». Milano, soggetta ai
viceré, ha perduto così ogni importanza politica. Invece in Piemonte
Emanuele Filiberto riesce ad allontanare gli stranieri, e opera un
energico riassetto, che trasforma lo stato feudale in stato assoluto.
Genova, rimasta repubblica oligarchica per opera di Andrea Doria, ha
per allora ricuperato la Corsica. Venezia è l’unico stato d’Italia che
possa svolgere con prudenza ima politica antispagnola; ma la sua
potenza sta lentamente diminuendo, per la pressione turca e per lo
sviamento dei commerci, prodotto dalla scoperta dell’America.
I Medici, più volte cacciati e più volte tornati a Firenze, ne spengono
gli spiriti repubblicani; anche l’indipendenza senese è soppressa-, Co-
simo, nominato nel 1569 granduca, riorganizza lo stato con salda mano.
Il porto di Livorno acquista notevole importanza sotto Ferdinando I.
Lo Stato della Chiesa, che nella prima metà del secolo ha visto
spesso in lizza con gli altri principi d’Italia papi guerrieri e papi
nepotisti Ci Borgia, i Medici, i Farnese) nella seconda metà del secolo si
riorganizza saldamente (Sisto V); al riacquisto di Perugia e di Bologna
fa séguito quello di Ferrara. Le conseguenze della riorganizzazione
religiosa dovuta ai Papi della Riforma cattolica, da Paolo III a Sisto V,
si fanno sentire prima e più che altrove nello Stato della Chiesa.
Nei due vicereami di Napoli e di Sicilia gli interessi della Spagna
prevalgono di gran lunga su quelli delle popolazioni, e se vi è
resistenza, è più per difesa di privilegi di singoli ceti che per il bene
comune. Ma insomma, gli scambi col resto d’Italia permangono vivi;
invece la Sardegna, direttamente soggetta alla Spagna, ha scarsi
contatti con la Penisola.
Gli Ebrei, che erano già stati sfrattati dalla Sicilia, nel 1539 vengono
allontanati dal regno di Napoli; a Venezia nel 1516, a Roma nel 1555,
più tardi in altre città vengono obbligati a concentrarsi nei ghetti; ma a
Livorno e in alcuni stati dell’Italia settentrionale sono protetti dai
prìncipi.
Dopo il periodo degli sconvolgimenti, gli stati che hanno ricuperato
una sia pur relativa indipendenza si vanno riorganizzando, con forte
tendenza all’accentramento nelle mani dei rispettivi sovrani la buro-
crazia già cresce di numero e d’importanza.
L’arte della guerra ha subito forti mutamenti per l’importanza
assunta dalle armi da fuoco; la fanteria prevale sulla cavalleria; alcuni
stati ormai accettano il principio su cui aveva tanto insistito il
Machiavelli; l’arrolamento dei sudditi anziché le truppe mercenarie.
3. Vita sociale e culturale
Se le vicende politiche del secolo impedirono che l’Italia conseguis-
se, in un modo o nell’altro, quell’unità politica a cui altre grandi nazioni
già erano arrivate, il sentimento di una civiltà comune (linguistica,
letteraria, artistica) è diventato persuasione generale; la quale è
confermata, anziché scossa, dalle numerose polemiche. Se si discute
quale debba essere il canone della lingua, già si sottintende che si
debba usare una lingua unica come espressione di un’unica cultura
nazionale.
È vero che i protagonisti di queste dispute, come in genere quelli
che in questo secolo tengono la penna in mano, appartengono alle
classi culturalmente più elevate. Della vita, delle opinioni, del parlare
della plebe appena traspare qua e là qualche scarsa notizia: anche i
lamenti e le parole dei contadini o dei venturieri che sentiamo nelle
commedie di Ruzzante non sono voci autentiche di contadini o di
venturieri, ma stilizzazioni ad opera di uno scrittore colto.
La circolazione di persone è molto intensa, per i più vari motivi: la
milizia, le mutazioni politiche che spingono agli esilii (ricordiamo, fra i
tanti fuorusciti fiorentini, gli Strozzi, il Nardi, il Giannotti, Bartolomeo
Cavalcanti, l’Alamanni), i traffici, ecc. 1 .
— Anche la Riforma spinse parecchi a emigrare, ma fuori d’Italia:
specialmente numerosi furono gli esuli lucchesi.
L’Italia ebbe a subire per effetto della Riforma e della Controrifor-
ma minori sconvolgimenti materiali che altri paesi; forti invece furono
le conseguenze nell’orientamento della vita pubblica e privata. Le
definizioni dottrinali e le prescrizioni disciplinari del concilio di Trento
(1545- 63) sono applicate con rigore e con zelo particolare nello Stato
della Chiesa e nei territori spagnoli. In parecchi i nuovi orientamenti
portano a un sincero fervore religioso: testimonianze se ne possono
vedere nel sorgere, e nel fiorire, dopo la Riforma protestante, di nuovi
ordini religiosi (teatini, cappuccini, barnabiti, gesuiti, somaschi, carme-
litani, fratelli della dottrina cristiana, oratoriani) e negli inizi della
predicazione missionaria fuori d’Europa. Molti altri invece si acconten-
tano di lasciarsi andare alla corrente, con un inerte conformismo o con
l’ipocrisia dell’«intus ut libet, foris ut moris».
È dovuta al concilio di Trento l’istituzione dei registri parrocchiali
(di battesimi, cresime, matrimoni, morti) che contribuì indubbiamente
alla stabilizzazione dei cognomi. Il concilio regolò anche la lettura
della Bibbia, sostanzialmente riserbandola solo a quelli che sapessero
il latino. L’istituzione dell7ndex librorum prohibitorum portò alle
edizioni espurgate; inoltre gli autori cominciarono a evitare parole e
frasi poco ortodosse (o che potessero sembrar tali).
Molto attiva è la vita di società. Il Castiglione nel suo Cortegiano ci
dà una vivida immagine di quel che erano le corti nel primo quarto del
secolo come centro di colta conversazione. Oltre che nelle corti
' Per ricordar solo un esempio cospicuo, Torquato Tasso, nato a Sorrento di
padre bergamasco e di madre napoletana oriunda pistoiese, visse in gioventù a
Salerno, a Roma, a Urbino, a Venezia, a Padova, a Bologna, prima di trovare un
appoggio alla corte ferrarese.
284
Storia della lingua italiana
principesche, nelle case nobili e presso le «cortigiane oneste» si discute
di problemi d’amore e di onore, o si fanno giochi di società 1 2 , si canta e
si danza.
Dei più vari argomenti si disserta nelle Accademie, sorte in
moltissime città, e diventate luoghi di scambi culturali, quasi sempre in
volgare.
Nelle Università predomina la cultura aristotelico-scolastica, in
latino. Numerosi sono gli stranieri che vengono da varie nazioni a
studiare nelle università della Penisola, e che in quest’occasione
imparano più o meno bene l’italiano. Principalmente dagli insegnamen-
ti del Robortello all’università di Padova escono le regole letterarie
pseudoaristoteliche, così conformi alle tendenze di quell’età.
Prìncipi e repubbliche per il disbrigo della loro corrispondenza e per
le loro faccende amministrative hanno bisogno di persone che sanno
maneggiar bene la penna, e infatti parecchi letterati insigni hanno
speso molti anni della loro vita in questo modo: l’Ariosto, il Guicciardi-
ni, il Guidiccioni con funzioni di governo; il Machiavelli, il Bembo, il
Bemi, il Tolomei, Bernardo Tasso, il Caro, il Muzio, il Contile e molti
altri come segretari.
Altra occupazione pratica che assorbe l’attività di parecchi letterati
è l’editoria, attiva in parecchie città e specialmente a Venezia: in quella
città furono stampati nel primo terzo del secolo forse la metà di tutti i
libri editi in Italia, e anche dopo essa mantenne il primo posto. Ora si
tratta di cooperazione saltuaria come quella data dal Bembo al
Manuzio, ora di occupazione duratura: il Doni, il Dolce, il Domenichi, il
Ruscelli, il Sansovino e parecchi altri furono per anni revisori e
compilatori professionali.
Cominciano a circolare manoscritti i manifesti satirici (detti a Roma
pasquinate ) e i pubblici avvisi; lettere ed opuscoli sui fatti del giorno già
precorrono il giornalismo moderno (ricordiamo i nomi dell’Aretino, del
Doni, del Giovio, del Muziol.
Mentre le polemiche politiche e quelle religiose soggiacciono, come
è ovvio, a forti limitazioni da parte delle autorità, queste non vedevano
affatto di malocchio le polemiche su argomenti meno scottanti, lettera-
ri e linguistici.
Le lettere e le arti, che nei p rimi decenni del secolo s’ispirano a un
individualismo gioioso, che aspira a un mondo di perfezione ideale
(Ariosto, Castiglione, Raffaello), più tardi si muovono in un’atmosfera
dominata da severi canoni intellettuali e morali, più grave, più fastosa,
più cupa, che tuttavia non impedisce, anzi contribuisce a far nascere
una esuberanza fantastica (prime manifestazioni barocche nella lette-
ratura e nelle arti figurative; nascita del melodramma). Con la sola
1 Quali ce li descrivono I. Ringhieri ( Cento giuochi liberali et d'ingegno,
Bologna 1551) e Girolamo e Scipione Bargagli (G. B., Dialogo de ' giuochi che nelle
veglie sanesi si usano di fare, Siena 1571; S. B., Trattenimenti, Venezia 1587).
Il Cinquecento
285
pretesa di divertire il popolo, la commedia dell’arte (cioè dei comici di
mestiere) schematizza i suoi personaggi in maschere.
4. Latino e volgare
Dopo la prima fioritura duecentesca e trecentesca, dopo la levata di
scucii degh umanisti che erano riusciti per breve tempo a ridurre entro
ben modesti limiti 1 uso del volgare, l’italiano riesce nel Cinquecento a
conquistare una posizione incrollabile, ed a superare il pregiudizio che
lo metteva al di sotto del latino.
Benché, com’è ovvio, non sia possibile separare nettamente la storia
del progressivo espandersi dell’italiano dalle polemiche che accompa-
gnarono questa espansione, cercheremo anzitutto di dare un’idea dei
progressi del volgare sul latino, per poi dare un cenno sulle polemiche
relative. —
La stragrande maggioranza di quel che si scrive e si stampa nella
seconda metà del Quattrocento è in latino. Nel Cinquecento l’uso del
volgare si estende molto in tutti i campi, pur senza ancora uguagliare
la mole di quel che si scrive e si stampa in latino. La cultura si fa più
vasta e piu profonda, e si scrive e si stampa molto più che nell’età
precedente: perciò se in certo senso è vero che l’espansione del volgare
ha luogo a spese del latino, bisogna ricordare che la mole degli scritti
sia in volgare sia in latino, è enormemente più .vasta.
Non c’è bisogno di ricordare che il latino era stato profondamente
mutato dal movimento umanistico. Mentre tutte le opere scritte in
prosa latma nel Duecento e nel Trecento presentavano una gamma
relativamente uniforme, di tipo scolastico, l’Umanesimo ha portato
man mano a un enorme differenza fra un tipo letterario, elegante, che
per la prosa si modella con assoluta prevalenza su Cicerone, per la
poesia con predilezione su Virgilio, e un tipo pratico, considerato dai
letterati assai barbaro, che persiste negli scrittori di medicina e di
diritto, e negli usi amministrativi e giudiziari.
La vittoria del ciceronianismo bembiano sul libero e geniale ecletti-
smo che sullo scorcio del Quattrocento aveva avuto come insigni
rappresentanti il Poliziano e il Pontano, rende il latino molto rigido e lo
scosta recisamente dal volgare, senza più permettere quell’adegua-
mento, conscio o inconscio, alla lingua viva, e quella continua creazio-
ne di neologismi che avevano permesso al latino di sopravvivere come
lingua culturale durante tutto il Medioevo. Così il latino letterario,
purificato e imbalsamato, è veramente ridotto una lingua morta E in
suo confronto, il volgare arriverà più facilmente ad imporsi.
Altra via il latino prenderà fuori d’Italia, con il vivace eclettismo di
un Erasmo e di un Mureto.
Quanto agli usi pratici del latino, l’influenza esercitata su di essi dal
purismo umanistico è lenta e scarsa: vi sono, sì, scienziati e giuristi che
286
Storia della lingua italiana
entro certi limiti si accostano al modo di scrivere degli umanisti, ma
ima enorme quantità di testi ne risente ben poco 3 .
L’insegnamento 4 si fa in latino, salvo pochissime eccezioni: qualche
scuola pratica per futuri commercianti, e quelle prime classi in cui
s’impartiva l’insegnamento del latino a fanciulli che ancora non lo
conoscevano 5 . L’insegnamento universitario era tutto quanto in latino;
né ebbe effetto la proposta fatta nel 1518 dal rettore dei giuristi
dell’università di Padova che le lezioni pomeridiane (cioè le meno
importanti) dei professori di diritto fossero in italiano 8 .
Il Gelli cita come notevole esempio quello di Francesco Verino che
nello Studio «leggendo filosofia e veggendo talvolta venire a udirlo il
capitano Pepe, il quale non intendeva la lingua latina, sùbito comincia-
va a leggere in vulgare» e «poco innanzi che egli si morisse, per
dimostrare la inestimabile bontà sua, leggendo publicamente ne lo
Studio Fiorentino il duodecimo libro de la divina Filosofia d’ Aristotile,
volse esporlo in vulgare, acciocché ogni qualità d’uomo lo potesse
intendere» 7 .
Di un insegnamento della lingua e della letteratura italiana sarebbe
stato addirittura assurdo parlare al principio del secolo. Il Trissino
attesta: «hoggidi, quasi a niuno se insegna Italiano, ma a tutti se
insegna Latino, e poi lo Italiano se impara da sé» 6 . E il Varchi precisa:
«mi ricordo io quando era giovanetto, che il primo, e più severo
comandamento, che facevano generalmente i Padri a’ Figliuoli, e i
maestri a’ discepoli era, che eglino nè per bene nè per male non
leggessono come volgare (per dirlo barbaramente, come loro) e Mae-
stro Guasparri Mariscotti da Marradi, che fu nella gramatica mio
precettore, huomo di duri, e rozzi, ma di santissimi, e buoni costumi,
havendo una volta inteso in non so che modo, che Schiatta di Bernardo
Bagnesi, et io leggevamo il Petrarca di nascosto, ce ne diede una buona
grida, e poco mancò, che non ci cacciasse dalla squola» 9 . Solo nel 1589,
veniva istituita nell’Università di Siena la cattedra di «lettore di
toscana favella», a cui fu nominato Diomede Borghesi.
In altre università, parecchi studenti stranieri prendevano lezioni di
lingua, specialmente da maestri toscani.
Se le Università erano rocche del latino, invece per lo più le
Accademie erano centri di diffusione del volgare. Si lagna verso il 1537
3 II disdegno che fin dal Cinquecento si è nutrito verso queste scritture
pratiche ha avuto per conseguenza che nessuno si sia curato di studiarle dal
punto di vista linguistico; né ancora si è posto rimedio a questa lacuna.
4 Manca purtroppo un’opera complessiva analoga a quella del Manacorda
per il Medioevo.
5 Questa è la sola eccezione all’uso del parlare latino, il quale è prescritto
dalla Ratio studiorum (Napoli 1598) per tutte le scuole tenute dai Gesuiti.
6 I. Facciolati, Fasti Gymnasii Patavini, Padova 1752, III, p. 3.
7 Capricci del bottaio, p. 194 Gotti. ~
8 Dubbii grammaticali, Vicenza 1529, c. 3 a.
8 tìercolano, Venezia 1570, p. 186.
Il Cinquecento
287
il Florido nella sua Apologia che chi ha speso pochi giorni a studiare il
v d Ue , Clttà toscane, ma per lo più anche in omelie
frretricfiS n ^ le .o SÌ T legge Dante e ^trarca P si discute dTpoeticJ
e eli retorica in volgare . In minor numero sono quelle dove l’uso del
atino predonuna, come l’Accademia Papinianea di Torino7ondata nll
1573, dove vige la severa prescrizione.- «Si quis in Academia temere
allt ® r ^ u am latine sermonem habuerit, iure statini reiicito» 11
dei ^ùonnat a ori b fus S o ’ a proib ^ ce > ^ opposizione alle richieste
aei niormaton, luso del volgare nella liturgia 12 . Le versioni delle
Bibbia ancora circolavano nel Quattrocento e nel primo Cinquecento 13
modo°l??o°1a Bibbia 6 ? f Chiesa a che 1 laici leggano e SSret£o a
moao loro la Bibbia si fa sempre piu viva- e con il mnriiin rii Tronfi „•
amva alla proibizione. L’Indice dikolo IV (1559) stabile chiatte le
Senza decanto 6 Uffìzio f° SSan 1 ° stampare ° leggere o tenere senza
ncenz. a .1 baiao Uffizio; le regole approvate da Pio V nel 1564 fissano
fatteda eretti menfr^ ^ tradazioni “ vol S are del Nuovo Testamento
latte da eretici mentre ì vescovi possono dare il permesso di leeeere le
aduziom eretiche dell’Antico Testamento; anche per le traduzioni
snnn°i Vate 1 laici debbono avere un permesso scritto. Ancora più severe
(1596)^ prescnziom deg U Indici di Sisto V (1590) e di Clemente Vili
Negli usi amministrativi e giudiziari fi volgare si estende semnra
quest^funto dfvS tt "dah^ lvhr^ 0 ^ GSame degli statuti cittadiiùda
3,®"° punto df vlsta; dalle bibliografie relative non sempre è possibile
neZ r e n o C l?,fnra eZZa 16 d&te * c °™ p d a zione e, in quafche caso!
Ef e si sono . scritti. La maggioranza sono ancora in
Smezzo TSSa. 6 SOn ° m latm ° anChe Statuti * città toscane
S Brevoitll^fSori^ZtZ^l 1 1““° SÌ recita neUa immune lingua italiana»:
Infiammati di Padova, eco antlchlsslma nobiltà ecc., Pavia 1570, c. 13 a), gli
'2 p ° m< *ridianae sessiones, Torino 1580, p. 170.
SgS piSSSSS
vogare CTerrarinf ““ 0razione
15891 Ro ""‘ 1519 “ «"»» Perugia
288
Storia della lingua italiana
Ma parecchi sono in volgare: di Moffetta del 1474 e del 1519 (ed.
Volpicella, 1875); dei mercatanti di Bologna del 1550 (ed. 1550); della
Corte de’ mercadanti di Lucca del 1555 (ed. 1557 e 1610); di Castiglion
del Lago e Chiugi (sic) del 1571 (ed. 1750); di Corsica del 1571 (ed. 1843,
ritoccata nella lingua); del fondaco di Lucca del 1590 (ed. 1590); dei
cavalieri di S. Stefano del 1590 (ed. 1620).
Un caso interessante è quello dello statuto di Lucca, che nel 15j39 fu
pubblicato contemporaneamente in due volumi, imo con il testo
ufficiale latino, l’altro con la traduzione in volgare. Le ragioni sono
esposte nel retro del frontespizio dell’edizione in volgare-.
Dovendo essere le Leggi Norma, e Regola delle operationi di tutti li huomini,
furono meritamente sempre da ogni Legislatore nel proprio Idioma del populo a
chi si davano scritte. Et li Romani havendole da gli Greci nella Greca lingua
riceute, da molti di loro, ma non da tutti intesa, a commune uso di tutto il populo,
nella loro latina lingua tradur le fecero, la quale havendo dipoi insieme con le
potenti arme per tutto lo Imperio loro s tesa, fu per un tempo da tutti gli suggetti
del ditto Imperio conservata, col quale essendo dipoi declinata, e in pochi ridotta,
Ha giudicato el Magnifico Generale Consiglio del Populo, e Commune di Lucca,
cosa honorevole, & utile, che le sue municipali Leggi, a publico bene, dalla ditta
latina lingua da pochi intesa, nella volgare, & nativa Toscana più commune, &
universale tradotte siamo, accioche non siano li suoi Cittadini ignoranti della
ragione, nella quale conversano, e dalla quale governati sono. Sperando che non
per cavillare, ma per bene, et honestamente secondo quelle vivere, studiate siano,
et così essorta 16 .
La corrispondenza con prìncipi oltramontani è sempre in latino,
mentre quella con italiani è ora in latino ora in volgare. Per citare solo
un esempio, il papa Leone X scrive al card. Farnese in latino (20 luglio
1513), mentre è in italiano la solenne lettera al Bembo (1 gennaio 1515)
in cui gli comunica l’adozione nella famiglia Medici, per cui d’ora in poi
potrà chiamarsi Pietro Bembo de Medici 17 .
Sinigaglia 1531 (ed. 1533); Arezzo 1535 (ed. 1536); Modena 1546 (ed. 1590); dei notai di
Modena 1548 (ed. 1549); Valtellina 1548 (ed. 1668); Urbino 1556 (ed. 1559); Castro e
Ronciglione 1558 (ed. 1558); Montegranaro 1564 (ed. 1564); Ferrara 1566 (ed. 1567);
Brescello 1569 (ed. 1697); Mondovì 1570 (ed. 1570); Carrara 1574 (ed. 1574); Montegior-
gio 1577 (ed. 1730); Pistoia 1579 (ed. 1579); Roma 1580 (ed. 1580): civili di Genova 1588
(ed. 1589); dei drappieri di Bologna 1593 (ed. 1594): Cologna Veneta 1593 (ed. 1762).
San Marino 1599 (ed. 1834); criminali di Savona 1600 (ed. 1610). La distribuzione
geografica è molto irregolare, perché il Mezzogiorno ha pochissimi statuti, e nelle
città dell’Italia settentrionale e centrale gli statuti si riformavano abbastanza
spesso, ma si ristampavano solo a lunghissimi intervalli. Debbo la maggior parte
delle indicazioni alla competenza e alla cortesia dell’amico Piero Fiorelli.
16 Alcune volte, si conosce o s’intravede qualche intervento personale deter-
minante. Nel 1546, a Lucca, l’Offizio sopra le scuole redasse in latino, per
influenza di Aonio Paleario, i nuovi Capitoli, «a differenza di quanti ne furono
fatti prima e dopo, e sono molti, i quali sono tutti in volgare» (P. Barsanti, Il
pubblico insegnamento in Lucca, Lucca 1905, p. 151).
17 Pastor, Storia dei Papi, trad. ital., IV, ii, p. 638 e 641.
Il Cinquecento
289
Tutto codesto non è ancora stato studiato nei particolari; ma che in
complesso 1 uso del volgare faccia passi notevoli ci è testimoniato alla
metà del secolo dal Gelli: nel suo Dialogo sopra la difficultà dello
ordinare detta lingua (fiorentina) egli congettura «che ella abbia ancora
a farsi piu ricca e molto più bella» da due cose, una delle quali è «il
cominciare ì Principi, e gli huomini grandi e qualificati, a scrivere in
questa lingua, le importantissime cose de’ Governi de gli stati, i
maneggi delle Guerre, e gli altri negozij gravi delle facende, che da non
molto m dietro si scrivevano tutti in lingua Latina» 18 .
Quanto ai processi, le interrogazioni agli imputati e ai testimoni si
facevano m volgare; nei verbali le domande figurano ora riportate in
v ° lg ?; re . ora riassunte in latino, mentre per lo più le risposte sono
riferite m volgare.
Per un processo fatto al rappresentante napoletano dei Gioliti per
aver tenuto libri proibiti, fu interrogato dal Sant’Uffizio a Venezia
Gabriele Giolito, e il verbale è redatto così:
.. Cpnshtutus jn Officio dominus Gabriel Giolitus de Ferrariis de Tridino
Montisferrati mercator et impressor librorum Venetiis, degens iam annis XL“
citatus prò habenda informatione super infrascriptis, medio iuramento quod
prestitit, respondit ut infra. H
, Et Primo interrogatus: «Dove et in che città et terre lui ha corrispondenza et
bottega. » respondit «Ne ho una m Napoli, et un’altra in Bologna, et un’altra in
Ferrara, et qui m Venetia alla Insegna della Fenice appresso il ponte di Rialto»
D sono i suoi fattori et agenti nella bottega di Napoli?» R. «Un Gio
Batta Capello Bolognese»
Quibus habitis non fuit ulterius interrogatus sed dimissus, animo etc
quatenus etc. 19
Talvolta, i compilatori dei verbali mescolano pezzi di riassunto in
latmo e pezzi testuali in volgare: leggiamo così nel sommario del
( P 1599 ) SS ° fatt ° ^ vescovo SquiUace a fra Tommaso Campanella
Mauritius Rinaldus dixit de auditu à Campanella de mense Julii 1599 non
recordatur de contestibus, che voleva far brugiare tutti li libri latini perche era un
imbrogliar le genti che non intendono, et che voleva far esso libri volgari, subdens
n ° n t ^ COrdan an dixerit de hbris latinis de fide tractantibus che imbrogliassero le
Ragionamento intorno alla lingua, ap. Giambullari, De la lingua, p. 38.
20 T A 0n ^’i An £ ah rn d X Gabriel Giolito de’ Ferrari, I, Roma, 1890, pp. cm-crv
inno ili ™ c ,Fra I: Campanella, la sua congiura, i suoi processi ecc., Napoli
1882, III, p. 439. Si confronti 1 attestato (1601) di un medico napoletano, nello stesso
processo: «Per questa fò fede io Giulio Jasolino Medico in Napoli l 1. Essendo
dunque costui persona malitiosa, come si dice, vafer, callidus, et astutus; se ha da
"5'^® j he la P azz m sia simulata; de eo tamen nihil certi affirmare studeo:
rei cnoi d ° me aUl custodl continoamente l’osservano» (Amabile, cit., Ili,
p. 502*. 1 1
290
Storia della lingua italiana
Se nei processi è soprattutto lo scrupolo di riprodurre testualmente
le risposte che porta all’uso del volgare nei verbali, in altri casi si evita
il latino per sfuggire alle difficoltà della nomenclatura. Per es. quando
il tesoriere della chiesa di Treviso, dopo la morte dell’umanista G.
Augurello, va nella sua casa a fare l’inventario dei beni (1524), redige il
principio e la fine del verbale in latino, ma l’elenco dei beni in volgare 21 .
Nel campo filosofico, si adopera quasi esclusivamente il latino 22 .
Alessandro Piccolomini, dedicando nel 1550 a papa Giulio III la sua
Filosofia naturale, si vantava d’aver trattato per primo tutta la filosofia
naturale e morale in italiano. Importante è l’atteggiamento del Bruno,
ribelle aU’aristotelismo delle università e alla precettistica umanistica,
il quale scrive i suoi Dialoghi in volgare durante la sua residenza in
Inghilterra, spinto dalla consapevolezza che un nuovo pensiero vuole
una lingua nuova 23 .
Analoghi moventi anticonformistici vediamo anche nell’uso del
volgare fatto dal Campanella. Quanto alla presentazione che Sertorio
Quattromani, sotto il nome di Montano Accademico Cosentino, fece
della Filosofia di B. Telesio ristretta in brevità e scritta in lingua toscana
(Napoli 1589, rist. G. Troilo, Bari 1914), va anche considerato che il
Quattromani era studioso del Bembo e cultore del volgare.
Nel vasto dominio delle matematiche 24 , l’uso del volgare è diffuso in
quei campi che hanno importanza pratica: tra la fine del Quattrocento
e il principio del Cinquecento Frate Luca Pacioli pubblica la Summa de
Arithmetica, Geometria, Proportioni et Proportionalita (Venezia 1494, 2 tt
ed. Toscolano 1533), scritta «in materna e vemacula lingua», ma con
passi latini di tanto in tanto, e la Divina Proporzione (Venezia 1509, rist.
Vienna 1889), anch’essa in un volgare molto incòndito.
Nel 1547, sorge tra Girolamo Cardano (secondato dal suo allievo, il
bolognese Lodovico Ferrari) e il matematico bresciano Niccolò Tarta-
glia una polemica per noi assai istruttiva: il Cardano cerca di far
pesare la sua cultura filosofico-matematica, espressa in molte opere
latine, sul Tartaglia che è autodidatta e scrive in volgare. Alla
pubblicazione del Tartaglia Quesiti et inventioni nuove, il Ferrari
divulga (10 febbraio 1547) un cartello in cui l’accusa di plagio; e il
Tartaglia replica minacciando «di lavare ottimamente el capo ad
ambidui (il Ferrari e il Cardanol in un colpo solo, cosa che non sapria
fare alcun barbier in Italia». La maniera plebea mosse a sdegno 1 due, e
21 G. Pavanello, Un maestro del Quattrocento , G. A. Augurello, Venezia 1905,
pp. 258-262.
22 Teniamo conto, qui e più oltre, delle belle e sicure ricerche di L. Olschki
IGesch. wiss. Lit., 1, 1919; II, 1922): l’opera meriterebbe di trovare chi la continuasse
e l’approfondisse per le singole discipline.
23 E forse anche dallo sviluppo che la prosa scientifica stava assumendo in
quegli anni in Inghilterra (G. Aquilecchia, in Cult, neol., XIII, 1953, pp. 165-189).
24 È sempre utilissima la Bibliografia matematica di P. Riccardi, Modena 1870-
1880.
Il Cinquecento
291
1 r lattoo - d * cendo <“ "«-tram nelle
matemaUTO U e ^KnMiomo^ dMettera 1SP ° n< * eVa 121 aprUe 15471 d ' esser
de l^AutnH^i p 0 t & ° 7 Pera ^ T® medesim °. con lo agiutto de molti vocabolisti: &
s^s^SS^*****
. S< r ^ scrivesse in latino - continua il Tartaglia - la risposta
riuscirebbe forse inferiore a quella del Ferrari (se pur è del FemiriI
*&&£&£££ EgtfSSiii E££?£!£iSX
tOS f Ca) egLi e neces sario (non volendome servire di quegli
ve dÌ £ Sta JiÌH^ feSS1 ° ne ’ C ° me fati forse voi) che la Prononhamta me
e aia m nota per Bnsciano, cioè un poco grassetto di loquella...
ei? li M TaSth« 0deSt0 Ch ?. c ’ e ? tra con !» sostanza della questione? Se
gb fl ìw???’ i P ^ S n e larabo e volesse proporre i quesiti in arabo?
decSo^rivpi a S e v° segue ? te maggio 1547), dice d’essersi ormai
voi ni hngua volgar ’ dapoi che chiaramente confessate
giamaix^EsmjrhoTn’ n ® mG ? ^ e 11 la , greca esservi fatto alcuna stima
ffi^taharS * argomento deUa Iin g u a, la polemica prosegue ormai
L astronomia era materia d’insegnamento universitario fondato
principalmente sul Tractatus de sphaera del Sacrobosco (s XIII) Ma
non mancavano traduzioni e commenti in volgare ricorffiamo la
spiegazione della cosmografia tolemaica che Alessandro Piccolomini
?a n ^ra P w m ^ na Laudomia (Venezia 1540) e Si uSSgTS
ia Sfera, e de gli orti et occasi de le stelle (Venezia 1545) di Giacomo
di Trifone, l’amico del Bembo). Ricevendo in dono il
astrofog?St?nuto 0< S Vai1 Gabriele d’essere «non solamente eccellente
la oSata a^oi^n)V - mSiei ? e a " cora maest ro della Toscana lingua,
la quale a noi Vimziam non è molto agevole ad apprendere sì che ci
settembre 15451 bene 6 regolarrnente scrivere...» Qett. da Roma, 25
pÌr P ta Spett - Va e bi architettura ormai si scrive per lo più in volgare
volgare 1 ?! T Al ? n ’ ° he già nel 1526 aveva pubblicafo in
olgar eli Toscanello m musica, sente ancora il bisogno pubblicando il
Lucidano, Venezia 1545, di giustificarsi di non avi? sce?to la ÌS^a
25 Tant è vero che è in grado di tradurre gli elementi di Euclide (cfr. p. 320).
292
Stona della lingua italiana
«più nobile e degna»: ha scelto di scriverla «nel Idioma nostro nativo»,
«per manco fatica» dei lettori.
Nella medicina, i grandi trattatisti (Fabrizi d’ Acquapendente, Fal-
loppio, Eustachio, Cesalpinol scrivono in latino, e solo qualche manua-
le pratico è in volgare.
Le farmacopee sono per lo più in latino, ma è notevole l’ampio
Ricettario fiorentino, stampato una prima volta nel 1499 (Nuovo
Receptario composto dal famossisimo Isicl Chollegio degli eximii doctori
della arte et medicina della inclita cipta di Firenze ), e poi ricompilato per
ordine di Cosimo I (El Ricettario dell’arte et Università de medici et
spettali della città di Firenze, Firenze 1550).
La metallurgia, disciplina prevalentemente pratica, trova un tratta-
tista in Vannoccio Biringuccio (De la Pirotechnia, Venezia 1540, 2 a ed.
1550; rist. del primo libro, Bari 1914).
Le narrazioni di viaggi e scoperte al principio del secolo sono
ancora spesso in latino; la grande collezione di G. B. Ramusio Delle
navìgatìoni et viaggi (Venezia 1550-59) mette a disposizione del pubbli-
co un poderoso insieme di narrazioni originali e di traduzioni in
volgare.
Questi pochi esempi mostrano che per ciascuna disciplina l’uso del
volgare è ora più ora meno robusto in confronto con l’uso del latino,
per un vario convergere di spinte: la forza della tradizione umanistica
e della scolastica aristotelica da un lato, le esigenze pratiche e
l’umanesimo volgare dall’altro. Nel 1589 all’Accademia della Crusca
l’Arciconsolo Pierfrancesco Cambi propose il quesito: «Se la lingua
toscana sia capace di ricevere in sé le scienze» e il 21 dicembre
Francesco Marinozzi lesse un suo scritto sull’argomento: è sintomatico
che se ne discuta, e ancora in forma dubitativa.
Oltre che di scritti originali, si tratta anche di traduzioni. Il
Cinquecento è forse il secolo in cui si tradusse maggior copia di opere
scientifiche dal latino e dal greco (incluse molte opere di autori
moderni) 28 .
Aristotile, che era stato conosciuto durante il Medioevo per via
indiretta (arabo-latina), e ritradotto dal greco in latino nel Quattrocen-
to (dall’ Argiropulo), ora è tradotto direttamente in volgare. Bernardo
Segni dedica la sua versione dell’Etica (1550) a Cosimo I, pregandolo di
non sdegnarla perché è fatta
in questa sua moderna, bella, et da tutti amata; nella quale quello, che forse
appresso di pochi ella perderà, che la giudicassino scolpita in materia men’de-
gna, senza dubbio riacquisterà ella viepiù appresso di molti, che la vedranno in
materia da poter’essere da piu genti partecipata, et fruita 27 .
28 Tuttora indispensabile, perché non sostituita da analoga opera più moder-
na, è la Biblioteca degli volgarizzatori di F. Argelati, Milano 1767.
27 L’Ethica d’ Aristotile tradotta in lingua vulgare fiorentina et comentata per
Bernardo Segni, Firenze 1550, pp. 4-5.
Il Cinquecento
293
Euclide fu tradotto piu volte (da E. Danti, da N. Tartaglia); Cosimo
Bartoh volse dal latino, con certa eleganza accademica, la Protomathe-
-"535) del delfinese Oronce Finé (Opere di Orontìo Fineo, Venezia
1587J,
T ’ìmvt/N'wl.n J i V r • I « 11. ...
L importanza data a Vitruvio nell’architettura del Rinascimento ci
spiega il susseguirsi delle traduzioni: C. Cesariano (Como 1521) G B
Caporali (Perugia 1536), D. Barbaro (Venezia 1556), G. A. Rusconi
(Venezia 1590), oltre ad altre rimaste inedite.
) u^tporianza data alla farmacologia o «materia medi-
ca» di Diosconde spiega le versioni che se ne fecero: quella di Fausto
da Lontano (1542), di M. Montigiano (1547), e quella riccamente
^°™P ientata ^ p - A - Mattioli (vers. lat., Venezia 1544; vers. it., Brescia
1544J.
T «....* tji « i ^ . _
I Mechanicorum libri di Guido Ubaldo del Monte (Pesaro 1577)
furono tradotti da F. Pigafetta (Le mechaniche, Venezia 1581).
Le erudite opere mineralogiche e metallurgiche del tedesco Giorgio
Agricola furono tradotte in italiano e pubblicate pochi anni dopo le
opinali, in latino (De la generatione de le cose ecc., Venezia
1550; De torte de metalli, trad. da Michelangelo Fiorio, Basilea 1563).
L importanza del volgare rispetto al latino è già molto diversa se
passiamo a considerare la storia: la storiografia in italiano è senza
confronto piu considerevole che quella in latino. A Firenze, i molti e
importanti storiografi scrivono tutti in italiano: una delle pochissime
eccezioni sono le Historiae Florentinae di Gian Michele Bruto, venezia-
no antimediceo, che le pubblicò a Lione nel 1562. Fuori di Toscana si
scrive nell una e nell altra lingua. L’Equicola difende il proprio assunto
di scrivere m italiano la sua Cronica de Mantua (Mantova 1521) pur
sperando che essa sia tradotta in latino 28 . Camillo Porzio, che aveva
cominciato a scrivere in latino la storia della Congiura dei Baroni
passa a scriverla in volgare per consiglio del card. Seripando.
Di regola sono in latino gli scritti di erudizione storico-antiquaria-
non però le eleganti dissertazioni di Vincenzio Borghini.
Si hanno anche in questo campo numerose traduzioni (Livio
bvetomo, Plutarco, ecc.). Va specialmente ricordata la gara col france-
se e col latino che volle compiere Bernardo Davanzati con le sue
versioni da Tacito, mirando soprattutto alla concisione 29 .
Nell oratoria sacra, l’italiano ha una predominanza quasi esclusiva;
... *^on 80 9 ua! nasuto ardisca con ragione reprenderme che nel comune
idioma italico scriva... Io desio che questo mio compendio sia equalmente a tutti
exposto; e, se ad extere nationi è più intelligibile la composizione latina, io poco
curo che miei scritti passino mare o alpi, di miei cittadini lectori contento: et forse
latino si leggerà piu tosto che altri non existima» (p. 209).
i T- c ’ : parmi aver pareggiato Cornelio, se non di maestà, di viveza; e superato-
foTrlii Cl ^ areZ f- e p P nt ^ : tanta è la possanza é la destreza e l’eccellenza della
tavella fiorentina che vive, e nel mare della natura sceglie, chi punto vi bada voci
e mamere operantissime» Qettera a Baccio Valori, 1595, premessa al volgarizza-
mento del primo libro degli Annali, Firenze 1590 ).
294
Storia della lingua italiana
nell’oratoria civile, che ha sempre più di rado la sua vera funzione di
convincere un’assemblea pubblica e sta diventando un elegante ceri-
monia, ambedue le lingue si adoperano secondo le circostanze-. Piero
Angeli di Barga recitò in volgare l’orazione funebre di Enrico II di
Francia nel duomo di Firenze (1559), e invece in latino quella per le
esequie del granduca Cosimo nel duomo di Pisa (1574). Ma ormai il
volgare predomina. „ „ T
Lo stesso si può dire per l’epistolografia. Vediamo per es. Luca
Contile che scambia con un suo condiscepolo, Federigo Orlandim,
numerose lettere in latino; poi il Contile passa all italiano, persuaso
che si possa esprimere in esso accomodatamente e con abbondanza
ogni ordine d’idee, talvolta meglio che in latino detterà 12 ottobre
1541 ) 3 °. ji Fracastoro e l’Aldrovandi pubblicano solo opere latine, ma
nella corrispondenza privata usano un italiano semplice e realistico .
Continua a prevalere, naturalmente, il latino quando si tratta di
argomenti filosofici e filologici, e nella corrispondenza con stranieri.
Le lettere si scrivono spesso non per comunicare privatamente con
un ami co, ma per manifestare pubblicamente la propria opinione con
eleganza di stile 32 . Anzi è questo il secolo in cui piu abbondano gli
epistolari, dopo l’esempio chiassoso di quello dell’Aretino.
Per gli altri campi letterari, questo bilancio comparativo tra le
opere scritte in latino e le opere scritte in italiano non avrebbe ragione
d’essere 33 . Possiamo sì ricordare che l’attività umanistica in latino
continua, con egloghe, elegie, poemi sacri, didattici, epici, qualche
commedia, qualche tragedia, e che alcune di queste opere ancora si
celebrano per insigne valore artistico. E possiamo osservare che un
forte sostrato classicistico appare in tutti gli scrittori m italiano. Ma
ormai un senso d’emulazione trionfante anima gli scrittori in volgare.
La Rosmunda del Rucellai e la Sofonisba del Trissino sono scritte
intorno al 1516 per rinnovare la tragedia classica; L Italia liberata dai
Goti dello stesso Trissino avrebbe voluto essere il poema eroico
moderno; il Tolomei dice di aver scritto l’Orazione della Pace (aprile
1529) «per mostrare al mondo come questa nostra lingua Toscana era
atta ad esprimere altamente e in orazioni tutti i grandi concetti, la, qual
cosa in quei tempi da certi letterati di debile stomaco non era creduta»
(Leti., c. 61 a). , ,
Abbiamo già accennato quale importanza abbiano anche nei
campo delle lettere le traduzioni dalle lingue classiche, molto numero-
30 L. Contile, Lettere, Pavia 1569, I, c. 45.
31 Olschki, Gesch. wiss. hit., II, P- 328.
33 Lo Speroni protesta contro la pubblicazione di lettere poco eleganti ( Lettere
volgari, Venezia 1553, I, p- 112). ,.
33 Oppure avrebbe un carattere esclusivamente aneddotico: si dice per es.
che Ercole Strozzi sia passato dall’elegia latina, in cui eccelleva, ai soletti
petrarchistici per amore di Barbara Torelli, alla quale piacevano i versi rimati (v.
i versi di Daniel Fini citati dal Carducci, Opere, XIII, p. 340J.
Il Cinquecento
295
se in questo secolo. I traduttori sono animati dal desiderio (disinteres-
sato o no) di far conoscere i classici a quelli che non sarebbero in grado
di leggerli nell’originale; qualche volta dall’intenzione di aprire alla
lingua moderna territori in cui ancora non era stata sperimentata;
qualche volta dal proposito di cimentarla nel confronto con le lingue
antiche 34 .
La stretta simbiosi che ancora in questo secolo vige fra latino e
volgare dà luogo a contatti e miscele varie. Alle lettere in volgare di
Maria Savorgnan il Bembo appone in fine qualche postilla, per lo più in
latino, concernente le circostanze di tempo in cui aveva avuto le
lettere. Nella corrispondenza epistolare indirizzi, intestazioni e talora
firme perdurano a lungo in latino. E qualche volta, in contesti volgari,
s’insinuano passi latini. Ecco per es. il poscritto di una lettera di
Scipione Forteguerri (Carteromaco) a Aldo Manuzio:
Io sono ito dal Cardinale Hadriano, et mostroli quella parte della lettera
vostra, il che li fu assai grato. Ragionammo molto di lettere, oc mul* a etiam de te.
Aspetto lo esemplare corretto per darglielo, nec alia occurrunt. Vale iterum, et
scrivete spesso, si potes, et dirizzate le lettere al Secretano dell’ Ambasciatore
veneto. Romae die 19 decembris 1505. Tuus S. Cart. 35 .
O una lettera del card. Rorario al Sadoleto (14 febbr. 1525):
...havendo Sua Santità deliberato gerere se tamquam patrem omnibus commu-
nem et servare la neutralità, el re di Franza... inviò un esercito per lo stato della
Chiesa od temptandum regnum neapolitanum : donde S. S. fu costretta aut sumere
arma, quibus nec poterat nec volebat uti, aut dare fidem regi neutralitatis...
Oppure il passo di una lettera del nunzio Stella al Cervini,
dell’ottobre 1548:
lei Qa duchessa Renata! è quasi doventata riffuggio di s imili Qiereticil, et s’ode
da digne persone che alioquin essa signora ha buona mente, ma arbitratur se
obsequium prestare De o per le persuasioni di costoro 30 .
Persiste largamente l’uso di singoli avverbi e particelle latine,
specie in testi senza pretese.
Alle molte miscele che si presentavano nella vita e nella letteratura
(italiano intercalato nel latino, latino intercalato nell’italiano) s’ispira-
no due stilizzazioni utilizzate a fini artistici, il maccheronico e il
pedantesco-fidenziano.
Non c’è bisogno di ricordare che nella latinità maccheronica il
34 Si ricordi la lettera del Caro sulla sua traduzione d eli’ Eneide «cominciata
per ischerzo» e continuata «fra l’esortazioni degli altri e un certo diletto che ho
trovato in far pruova di questi lingua con la latina, » Getterà 14 settembre 15651, e
la premessa già citata del Pavanzati (1595) alla sua versione degli Annali.
33 Lettere di scrittori ital. del s. XVI, ed. G. Campori, Bologna 1877, p. 17L
30 G. Spini, Tra Rinasciménto e Riforma: A. Brucioli, Firenze 1940, p. 107.
296
Storia della lingua italiana
sapore comico è dato dalla intrusione di parole dialettali in un contesto
correttamente latino 37 ; e invece nel pedantesco s’intercalano in un
contesto italiano latinismi in abbondanza.
Il maccheronico, cominciato già nel Quattrocento, dà ora la sua
massima prova col Folengo. Nato in ambienti universitari, continua a
riferirsi alla barbara latinità che i filosofi universitari adoperano:
Dum Pomponazzus lègit ergo Perettus, et omnes
voltat Aristotelis magnos sottosora librazzos,
carmina Merlinus secum macaronica pensat
et giurat nihil hac festivius arte trovali
IBaldus, 1. XXII, w. 129-132).
Il pedantesco e il fidenziano satireggiano i dotti che non s’acconten-
tano del volgare e vogliono o parlar latino o intercalare nel loro
discorso italiano parole latine, intatte ovvero munite di desinenze
italiane. : -
Il Castiglione, nemico di ogni affettazione, biasimava quelli che
«scrivendo o parlando a donne usano sempre parole di Polifilo»
I Corteg ., Ili, lxx). Si crea così un personaggio di commedia, il pedante
(Francesco Belo, Il Pedante, 1529; Pietro Aretino, Il Marescalco, 1533;
Giordano Bruno, Il Candelaio, 1583; e in tante altre commedie), con
discorsi come questi:
Omnia vincit Amor, et nos cedamus Amori. Certamente pare al giuditio de i
periti, che totiens quotiens un uomo esce dalli anni adolescentuli, verbi gratta un
par nostro, non deceat sibi l'amare queste puellule tenere (Belo, Il pedante, I, se. 4).
Un altro pedante dice nel Marescalco dell’Aretino CV, se. 10):
La parsimonia del sobrio prandio non mi incita ad espurgarmi, e però
cominceremo latine, perché Cicerone ne le paradoxe non vuole che si parli in
volgare del sacrosanto matrimonio.
e il conte risponde:
Parlateci più a la carlona che voi potete, che il vostro in bus et in bas è troppo
stitico ad intenderlo.
C’è spesso, in queste commedie contro il pedante, qualche perso-
naggio che ne sottolinea la ridicolaggine, difendendo la generale
37 «Il latino maccheronico... presuppone ima conoscenza perfetta del lessico,
dello stile poetico, della prosodia e della metrica latina. Le deviazioni dalle forme
regolari sono volontarie, e appunto perciò distribuite, graduate, adattate con
finissimo senso d'arte» (U. E. Paoli, Il « Baldus », Firenze 1941, p. 59). Una più
minuta analisi nel cit. volumetto dello stesso autore, Il latino maccheronico.
Il Cinquecento
297
diffiJJm 1 o U !? à ? el / a ? are38 ovvero Agendo di non capire le parole
Dòreh to „°^5° ndend ° CO E U u e con scr °f ule ^ o storpiando ipocrita in
porcnita, ambiguo m anghibuo e s imili 39
da un^Piefrn di . quest ? linguaggio pedantesco s’intitola
aa un Pietro Giunteo Fidenzio, pedante di Montagnana che esistè
vJ?^ ir*™* 1 Cm Scroffa attribuì una serie di sonetti composti
verso il 1550 e pubblicati nel 1562 e forse anche prima. Eccone uno:
Le tumidule gemile, i nigerrimi
occhi, il viso peramplo e candidissimo
1 exigua bocca, il naso decentissimo,
il mento che mi dà dolori acerrimi;
Il lacteo collo, i crinuli, i dexterrimi
membri, il bel corpo symmetriatissimo
del mio Camillo, il lepor venustissimo,
i costumi modesti ed integerrimi;
D’hora in hora mi fan sì Camilliphilo,
ch’io non ho altro ben, altre letitie,
che la soave lor reminiscentia.
Non fu nel nostro lepido Poliphilo
di Polia sua tanta concupiscentia,
quanta in me di sì rare alte divitie.
, 0“* s .i satireggiano non le desinenze latine più o meno fittizie ma i
IfSSFT lessicab usatl dai pedanti, come già nel Vocabulario del Luna
0536) le paroìe eh un gentiluomo ai suoi staffieri: «O famuli famuli
abreviatimi questi sustentacoli, che son troppo prolissi! » 40 .
frpmfJTtf™o bl f ma - deIla scelta fra latino e volgare si poneva ancora
^ u* if 1 r quecentls ti, è ovvio che i più notevoli fautori
loro Abboni bngUa abblano cercato di far propaganda per le
deU f P J° se deìla v ?M ar lingua bembesche, Ercole Strozzi
difende la lingua latina come più «degna e onorata» contro la volgare
«vile e povera», ma 1 autore fa che rispondano vittoriosamente ai suoi
Il parlare «in bus e in bas » è deriso anche nelle Satire del Nelli ai, xx):
Usavan quel ch’hoggi usano i pedanti,
parlare in bus e in bas...
1? d£/e f“ de la lingua volgare del Citolini (Venezia 1540) Il Gelli nei
la°c^uTàtm r 195 G ° t t ti) ’ ci p , arla di 1111 tì P° bizzarro, soprannoiato
„ ... storpiatura delle parole, specialmente di quelle dotte è la nrincìnalp
carat enstma della lingua detta «grazianesca»: vedinequalcheesemilnjf
inedlt \ Commedia dell'arte, Firenze 1890, p. l cxxin e in V
yST e cWrtto * » “'*>«-• -iiTi, 1 ."- ;
40 Qualche altra variante in Migliorini, Lingua e cultura, p. 27.
298
Storia della lingua italiana
argomenti gli altri tre interlocutori, Carlo Bembo, Giuliano de’ Medici e
Federigo Fregoso.
Nel novembre del 1529, inaugurandosi solennemente l’anno accade-
mico nell’Archiginnasio di Bologna, l’umanista udinese Romolo Ama-
seo pronunziò due orazioni De Linguae Latinae usu retinendo (pubblica-
te in Orationum volumen, Bologna 1563-64), che suscitarono larga eco
di discussioni per la solenne difesa che in esse si fa del latino. Nella
prima orazione l’Amaseo sostiene che il volgare non è che una
corruzione del latino: perché dunque sforzarsi a imparare due lingue,
di cui una buona e l’altra corrotta? Nella seconda orazione l’Amaseo
confuta l’opinione che il volgare sia utile, allegando gli immensi tesori
di sapienza pratica deposti dagli antichi nelle loro opere. Inoltre, non è
vero che l’italiano costi meno fatica del latino; non solo perché il
maggiore sforzo speso per imparare la lingua antica è compensato
dalla diffusione universale del latino, ma anche perché in Italia stessa
si disputa se la lingua debba esser toscana o cortigiana.
La presenza in Bologna dei sommi rappresentanti della Chiesa e
dell’Impero dava occasione all’Amaseo di celebrare insieme la restau-
razione del Sacro Romano Impero e della lingua di tutto il mondo
civile. Ma si sa quanto v’era ormai di anacronistico in questa doppia
celebrazione.
In quegli stessi anni, nel De disciplinis (1531), Lodovico Vives
prediceva la fine del latino, pur dolendosi che ciò avrebbe prodotto un
grande straniarsi fra gli uomini.
Le orazioni dell’Amaseo suscitarono larga eco. D Bembo rispondeva
a monsignor Soranzo, che l’aveva informato su di esse, con un
argomento ad hominem-.
Ho veduto quanto V. Sig. mi scrive della infamia data alla lingua volgare, e
veggo che la poverella sarà molto male per lo innanzi, in quella guisa vituperata
da così grande uomo. Ma io vorrei da lui sapere, per qual cagione egli medesimo,
che così la biasima, leggeva pochi mesi sono ed isponeva a suo figliuolo, ed a
non so quale altro fanciullo, le regole di questa medesima lingua da me scritte, e
perché egli molto prima le ha diligentemente apprese a sua utilità, come
egli dicea. Ma lasciamo il parlare di ciò, che è soverchio più che assai ( Lettere , II,
vili, 24).
Replica all’Amaseo il Muzio con tre libri Per la difesa della volgar
lingua (composti verso il 1533, e inclusi poi nelle postume Battaglie ).
Ma sono anche riattizzati gli ardori dei latinisti: in una lettera di
quegli anni Francesco Bellafìni manifesta, rivolgendosi all’amico Mar-
cantonio Michiel, il suo dolore
quippe qui maiestatem Romani eloquii inepto quodam vemaculae linguae
ardore contaminali et perditum iri cerno.
C’è gente che perde tempo a interpretare Pape SatanAleppe invece che
a leggere i classici:
Il Cinquecento
299
. q . ua< r. plebis est, plebi linque, linque institoribus, nugivendis,
rarcidatonbus, lanus, fartonbus, ambubaiarum et id genus collegiis, historiae
^P tam ; oratori mconcinnam, philosopho omnino repugnantem, quibu-
sdam tantum fabellis et apologis, amatoriisque cantionibus gratam....
Rincarava la dose Francesco Florido nella sua in L. Aedi Plauti
alwrumque Latinae linguae scriptorum calumniatores Apologia (1537
circa), severo contro tutti quelli che avevano scritto in volgare, e solo
con qualche indulgenza per il Petrarca, il quale aveva scritto tutte le
sue cose sene m latino e solo quelle frivole in volgare...
Nel Dialogo delle lingue di Sperone Speroni Qa cui azione si finge in
Bologna nel 1530, e la cui composizione è di qualche anno posteriore) si
allude al clamoroso episodio dell’Amaseo. L’autore fa che Lazzaro
Bonamico difenda il latino e oppugni il volgare; mentre un cortigiano
sostiene ì menti della lingua parlata e il Bembo quelli dell’italiano
trecentesco. Dentro il dialogo è inserito un secondo dialogo, che
lautore immagina sia avvenuto anni prima fra Giovanni Lascari e
Pietro Pomponazzi, dovei© stesso problema è discusso rispetto «.Un
filosofia, e il Pomponazzi sostiene 41 che l’essenziale è ragionar bene
anche se si ragioni in dialetto 42 .
Risponde con buone argomentazioni ai fautori del latino Alessan-
dro Citohni di Serravalle (Treviso) nella Lettera in difesa della lingua
volgare, Venezia 1540 43 . ®
Fanatico difensore della lingua antica è invece Celio Caleagnini
B ' Giraldi (Cinzio) (Aliquot opuscula, 1544) esprime
? he 1 italiano e tutte le opere scritte in questa lingua siano
dimenticate, come espressione di «foedissima barbaries».
Con equilibrio più degno di uno storico, Carlo Sigonio, in una
prolusione veneziana De Latinae linguae usu retinendo (1566) difende il
latino senza vilipendere il volgare («detur utrique quod utrique debe-
tur»). Altri confrontano i meriti rispettivi dell’italiano e delle due lingue
classiche, celebrandole tutte e tre 44 .
Una discussione assai ampia e interessante per ricchezza d’argo-
mentazioni e concretezza di esempi è quella contenuta nel dialogo
latino di Uberto Foglietta genovese (De linguae Latinae usu et prae-
stantta libri tres, Roma 1547): il secondo libro è tutto dedicato a rispon-
, *' A 110 * 16 nel Dialogo della istoria lo Speroni attesta che il Pomponazzi « aveva
ÌS3. 8 S£ l ” S *' lombardo alla maniera della sua patria, eenra
L® 00 delTanaìoga disputa che s’era svolta nel Quattrocento a
fi r lo ^ fl ciceroniani (Ermolao Barbaro) e filosofi «barbari*
(G. Pico della Mirandola). Cfr. p. 228 .
oli ” NeUa firude appaiono per la prima volta nettamente opposte le lingue vive
alie lingue morte (Faithfull, in Modem Lang. Review, XLVIII, 1953 , pp. 278-292)
Casa ' * Frammento d'un trattato delle tre lingue», in Opere III
, 172 ?: PP- 381-384; V. Borghini, nella novella allegorica di Elias, Lazia é
Tyrsine, in Lingua nostra. I, 1939, pp. 38-40.
300
Storia della lingua italiana
dere al problema se il latino sia adatto ad esprimere i concetti moderni,
e fino a che pianto si possa ampliare a tale scopo il vocabolario classico.
Man mano che si procedeva nel Cinquecento, nei riguardi della
lingua letteraria il problema si risolveva con i fatti; e la superiorità del
volgare s’imponeva 45 .
5 . Contatti con altre lingue moderne
Le spedizioni armate di stranieri, purtroppo così frequenti nella
prima parte del secolo, fanno venire gran parte degli Italiani in
contatto, per lo più rude, con persone di altre lingue: Spagnoli,
Francesi, Tedeschi. E ancor più forte è l’influenza esercitata quando le
armi e le leggi danno tutto il potere in mano dell’uno o dell’altro degli
stranieri occupanti. Vi soggiacciono non solo i loro fautori, ma anche
gli altri.
D’altra parte anche molti Italiani viaggiano o si stabiliscono
all’estero, o per proprio conto, o come rappresentanti di una potenza
italiana, o ad servizio di una potenza straniera. C’è chi muta addirittura
di lingua 46 , altri accolgono vocaboli o costrutti stranieri in misura e con
intenzioni assai varie-, il caso più comune è quello di vocaboli stranieri
accolti in scritti concernenti quei paesi.
La lingua straniera di gran lunga predominante nell’Italia cinque-
centesca è lo spagnolo, per l’intensa simbiosi stabilita tra dominanti e
dominati 47 .
Il Galateo, il Bembo, il Castiglione, il Valdés alludono alle conoscen-
ze che gli Italiani avevano o affettavano dello spagnolo-, e più tardi il
Tansillo, continuo del viceré Toledo e compagno di armi del figlio di lui,
confessa che
il viver con spagnuoli, il gir in volta
con spagnuoli, m’han fatto uom quasi novo
e m’ hanno quasi la mìa lingua tolta.
45 Sugli argomenti rispettivamente -addotti dai «latinisti» e dai «volgaristi»
Q'àmbito delle due lingue in confronto tra loro; gli intrinseci pregi dell’una e
dell’altra; la dipendenza della lingua moderna dall'antica o viceversa la sua
autonomia; 1’esistenza di regole per il volgare) si vedano i miei cenni in Problemi e
orientamenti. III, pp. 6-9.
49 Così, per citare il più insigne fra gli esempi, Cristoforo Colombo: ma alcuni
italianismi Ce parecchi lusitanismi, dovuti al fatto che egli cominciò a scrivere in
spagnolo durante la sua residenza in Portogallo) furono rivelati nei suoi scritti
dall’acuta analisi del Menéndez Pidal, Bull. Hispanique, XLII, 1940, pp. 5-28 (rist. in
volumetto a sé. La lengua de C. C., Buenos Aires 1942).
47 B. Croce, che già aveva tracciato un lucido quadro della conoscenza dello
spagnolo e dell’influenza da esso esercitata nel saggio La lingua spagnuola in
Italia, Roma 1895, riprese più brevemente questo argomento, ma inserendolo nel
più ampio quadro delle relazioni italo-spagnole, nel volume La Spagna nella vita
italiana durante la Rinascenza, Bari 1915 Ce successive edizioni).
Il Cinquecento
301
«, Mas»»?-
S e cS"di e ,i P S° dal X enezia “ “ Carena rSèloTel
“ nte desiderava, X & conclone ’ 1 ccSf SSgUoTon ptt
spagnoleggi ariti appaiono non di rado nSìe coSZ® 0
Beokxffa n ° n Uet ® es P erie nze di scorrerie soldatesche: il
P un suo personaggio (e burlescamente spiegare ad
« £° Ce ’ ® pa ^ a . Cit., p. 156.
Campane/to, S Toitao r f940, p° mi^n.™?) 16 ' ***' L ‘ FÌrP °' Bibliogr dè 8 u scritti di T.
“ Lettere familiari, II, Venezia 1587, pp. 163-64
d-/io,f Tod > » ÓM1. Biografia esp.ny o,a
* <VtcoUun, uriteimo di
rendersi conto di quel che fosse- doì b^rengena, probabilmente senza
diede notizia nell 1 * avviso a? b* ^ C £ e 81 trattava di melanzane, ne
XCIV, 1951-52, p 1291 t0r6> Messedaglia, in Ann. Acc. Agric. Torino,
presenza d'ctemente^Vn e^Cadò V*7 a , Bologna in
personaggio che parla spagnolo P bbcata a Venezia nel 1533, ha un
d«. C LS f H\ S Xst n cto Pr .°ÌT tt i )" a 5X?" zlone ‘“bustino (KOS), rivolgen-
barbares, tant en moeurs qu’en lanvave A , re P ut . olent ) ad is les Franqais
ment les uns les autres et s'aHarUmu w'n P res ent s entrentendent sans truche-
obeissance que plusieurs autres aux habille^enii tt t nt Ce ^ K sont soubs votre
Et par continuation sera Si toStìS? 1 ™” t * maniere de yivre de France.
d Astisane et de tout le Piemont » «li ca Sm u fa ?°n ainsi que 1 on voit de ceux
francese parecchie canzoni e nelle sue 1 astigiano Alione compose in
francese ' 6 neUe sue commedie vi sono personaggi che parlano
302
Storia della lingua italiana
un altro) le frasi che si dovevano sentire: «Càncaro, gi è superbitisi
quando i dise: ‘Vilà cuchìn pagiaro, per lo San Diu a te magnarè la
gola’» 55 .
Fra i numerosi esempi di influenze colte ricordiamo quelle esercita-
te alla corte di Ferrara da Renata di Francia, figlia di Luigi XII, la quale
ebbe Marot come segretario e ospitò Calvino.
Emanuele Filiberto volontariamente favorì l’uso dell’italiano, ma
dall’oratore veneto F. Morosini (1570) apprendiamo quali fossero le sue
conoscenze: «a me ha detto più volte, che se gli occorresse dover fare
un lungo ragionamento di cose serie, non lo sapria far meglio in alcuna
lingua, che nella spagnola. Parla anco eccellentemente il francese,
essendo si può dir quella la sua lingua naturale, poiché tutti li duchi
passati parlavano sempre francese, così come parla ora sua eccellenza
quasi di continuo italiano» 5 ®.
Molto meno noto era il tedesco, anche per la molto maggiore
diversità strutturale. I rapporti diplomatici con l’Impero si svolgevano,
naturalmente, in latino. Ma le parole dei soldati tedeschi e svizzeri
colpivano per la loro rudezza, e briciole di parole e di frasi tedesche si
trovano in canti carnascialeschi attribuiti a lanzi venturieri: «Noi
trincare un fiasche piene - per le sante anime fostre », « Trinche gote
malvasie - mi non biver oter vin», ecc. 57 .
Ai confini d’Italia, la pressione è più forte: specialmente in quella
parte della Lombardia che è venuta in mano degli Svizzeri, e nei
territori nord-orientali che dipendono dall’Impero 58 .
I Veneziani sentono, in Levante o a Venezia stessa, varie parlate
esotiche, slave, greche, turche, arabe, zingaresche; e in alcune comme-
die ne troviamo imitazioni più o meno precise, dovute a quella stessa
spinta espressiva per cui s’introducono nelle commedie i personaggi
dialettali 59 . Ma la satira degli stranieri in commedia finì presto col
diventare un espediente comico assai scipito 60 .
55 Parlamento de Ruzante..., in R. Viola, Due saggi di lett. pavana, Padova 1949,
p. 86.
58 Albèrì, Rei. degli Ambasciatori ven., II, i, p. 158.
57 Singleton, Canti carnascialeschi, Bari 1930: Id., Nuovi canti carnascialeschi,
Modena 1940, passim; cfr. Chiappelli, Lingua nostra, XIII, 1952, pp. 44-45.
58 Nel 1523 i Triestini scrivono ai Camiolini, a proposito di una causa da
discutersi nel consiglio dellTmpero, che intendono rispondere in latino e non in
tedesco; nel 1581 i Tolminesi chiedono che gli atti per l’esazione di certe tasse
siano fatti in tedesco, e i Goriziani rispondono che è loro diritto e dovere di
redigere gli atti «in lingua Italiana overo Latina» (F. Pasini, Idioma e parola,
Torino 1948, p. 83 e 139).
50 E. Teza, «Voci greche ed arabe nelle commedie del Giancarli», in Rend. Acc.
Lincei, 5 a s.. Vili, 1899, pp. 135-145; G. Sala, «La lingua degli stradiotti nelle
commedie e nelle poesie dial. del sec. XVI», in Atti Ist. Ven., CX, 1951-52, pp. 141-188,
291-343.
60 E il Lasca, nel Prologo della Spiritata (1561), assicurava che nella sua
commedia non «ci si udiranno né Tedeschi, né Spagnoli, né Franciosi, cinguettare
in lingua pappagallesca, odiosa, e da voi (spettatori! non intesa».
Il Cinquecento
303
italiana SSS'Sio più 0^1™ a "' eSter ° della a da « a
6. La lingua letteraria
QufttrofSTo dS SfiTdS g?* anoh , e d,arta *«U ultimi anni del
tacile dire da quale rSe movtenT^S 0 ' °‘ è 61 soUto ^bastanza
Cinquecento il cosa fLXXSvote ?” ta i? nadel
denti era un’attività individualmente wflimESÌ h? • . nei , s . eco11 Prece-
regionali diversi, diventa nel n n m,nn U f pa a , dai singoli su sostrati
correnti di gusto collettivo in cent .°. 1111 attività dominata da
nonne
bell? 5 S>. accanto alle arti
stazioni sciitteTS “«Sto Par ° Ia i 16 ? 6 sue
insonuna, e parte notale "defSs^nelS ^ “ ,8tt8ratara -
tra te p S em“l® tr^^naS^ T® SCIlt,a sl sta
Bandi, carteggi inSMJfr ■ parlata Sl è accora molto indietro®*,
alle contingenze pratiche <?e nr m genere ^ 1 testi fortemente legati
trione o dS MezSomo dalle cancellerie del Setten-
smi. Gli scritti tecnici e scientifici mw 8 f ° rtem ® nte ùitrisi di regionali-
metallurgia, ecc.) hanno qua e là^mlrvS a ^ chltettura . ^ farmacia, di
con numerosi termini tecnici dei ^ reglonale ’ insieme
Le commedie, Xe ch^simnir^? dlVulga la con oscenza.
linguistico: con un accentuato n^f C {2 ì ' Spe *?° puiltano sul Pimento
personaggi dialettali e stranieri r°nn™r^ atl f° “ Toscana, e con
“teiST 1 schematiz P zaM 0 te 0 m f SS?r COmmedla
già la pubbU^Snfa nS^nSS' ^ j»*** »»
medesimi mostra che la lettera è colsiderma^^er^e.teS
natroni d’Itaha, come... hS^tto^di^pera^ che habb d T f0rma S ° la per tutte le
fra non molto nelle persone non volgari to non ^ da ® ssere co1 fav °r di Dio
e contraria al decoro che in narW ° lodo - anzl ten g° P er cosa difforme
Lombardo, ò un Calabrese vSess^n^rinr ^" 0 tr * loro - dunque sia, un
riso da ciascheduno. Onde si ved<F ch^ r ^ SC&n ^’ che cosl si farebbe degno di
Senato Veneto quando ornilo ò mtSoL m ° lta Pudenda in questo grato
perfettamente & perfetti S SS7r SOn ,? dottissime, & che sanno
tuttavia di non uscir dal parlar loro ordinnrin ° na ^ ng } la 71 1 ostra - si guardano
tutte quelle sorti d’ornamenti che il der-n^f * n -?’ m quanto abe voci, usando poi
(G. Ruscelli. De’ commentarti, Venezfa i 58 i & p 543 )^ tQ della COSa può ricever e»
304
Storia della lingua italiana
altrui, ma vogliono costruire qualche cosa di durevole, di «monumenta-
le». Il culto del «bello stile», la ricerca dell’eleganza, che sono tratti
perenni della lingua e della letteratura italiana, ora predominano
talmente da diventare una «maniera»: per questo periodo possiamo
parlare anche noi, come gli storici dell’arte, di «manierismo».
Chi, come il Bembo, mira a una gradevole armonia con la rigorosa
scelta e con la collocazione delle parole; chi si fonda piuttosto, come il
Castiglione, su un equilibrio tra i vari membri della frase. Le esigenze
logiche e quelle artistiche variamente si contemperano nel Machiavelli
e nel Guicciardini. I contemporanei non trovarono abbastanza elegan-
te né la prosa del primo, incline a forme popolaresche ormai in declino
già al tempo suo, e molto dipendente nel lessico dagli usi cancellere-
schi; né quella del secondo, anch’essa sovrabbondante di latinismi. Pur
nella loro diversità, ambedue miravano alle cose molto più che alle
parole.
Nella poesia, quel tipo di petrarchismo platoneggiante a cui apre la
strada il Bembo signoreggia quasi incontrastato - salvo la reazione
antiaccademica e a suo modo popolaresca del Bemi e del Lasca.
L’Alamanni tenta di raggiungere imo stile elevato per altra via, con le
sue liriche pindariche. L’Ariosto maneggia con fresca genialità l’ottava
cavalleresca, la terzina, gli sdruccioli sciolti: quando rivede i propri
scritti si piega, sia pure con quella scarsa regolarità che il suo estroso
temperamento gli consente, alle nuove prescrizioni grammaticali. Il
Tasso, nel modulare con melodia or molle ed ora solenne i versi del suo
poema preannunzia già il barocco nel fasto e, qua e là, negli arzigogoli,
mentre i versi canori dell' Aminta preannunziano l’opera musicale.
Gli atteggiamenti stilistici infinitamente vari dei singoli autori, le
loro poetiche solo in parte conformi tra loro, e quel che in ciascuno di
essi dipende dal luogo e dall’ambiente da cui traggono origine, in parte
condizionano anche l’uso grammaticale e lessicale di ciascuno: e ciò si
nota più fortemente nei primi decenni del secolo, quando ancora
l’àmbito d’oscillazione è maggiore e si ammette che i singoli possono
attingere a fonti assai più varie.
H principio d’imitazione spinge a ricorrere ampiamente agli «auto-
ri», cioè agli scrittori che hanno toccato il culmine nell’arte dello
scrivere 62 . E opinione concorde che si possa attingere liberamente ai
modelli latini; più o meno quasi tutti gli scrittori lo fanno, e ciò ha lievi
conseguenze per la morfologia, forti per la sintassi, fortissime per il
lessico. Quanto agli scrittori italiani, le cose non sono altrettanto ovvie.
In genere, si leggono e si ammirano i tre grandi trecentisti 83 . Ma in qual
® G. Santangelo, Il Bembo critico e il principio d'imitazione, Firenze 1950.
83 II senese Sinolfo Saracini, ambasciatore toscano in Francia, dichiarava a
Enrico Stefano che il francese non poteva, nonché esser superiore all’italiano,
nemmeno esser confrontato con questo, perché la Francia non aveva autori di
fama se non il Ronsard allora vìvente, mentre l’Italia aveva i tre famosi e altri
ancora (S. Bargagli II Turamino, Siena 1602 , pp. 35-36).
Il Cinquecento
305
^Sitto S1 df S,‘ U Ì‘° ra TOU * ‘S me modeU1 - e «*>« Più » quale meno,
e oggetto di forti discussioni. Il Bembo, «balio» della lineila imitn
fthh^ C r«^ Pe , tr arca e il Boccaccio e ritiene che nel Trecentoil volgare
abbia raggiunto la perfezione; ma (benché nel 1502 avesse nuhhlirafn
fe “ S 6 " 8 Commed ‘“ 1 il suo culto per l'astSSone e per il S
con oso Eri 31a molto ,enero per Dante . Posi concreto e talora
S so - Pf 1 . 1 conosce e apprezza anche altri trecentisti- ed è sua
(1525) del duecentesco Novellino uscita col nome del Gualteruzzi
P«tSjì a C ° n q Y ale larghezza sia stato accolto l’insegnamento del
Petrarca non solo con l’imitazione di movenze di stile e di ritmo ma
nnY 1 accettazione di molti vocaboli scelti e leggiadri del suo lessico-
anclf^ ne^l^ Drosa, a Nmi Yr - altrì gene ? m P° esi a (si pensi all’Ariosto), e
ancne nella prosa. Non ci meraviglia che Maria Savorenan scriva
al SUO Bem ho («Aspetto vostre letere per hora
Xm° e »°lett 7n a frrT vtìa A *’ 1 ® tt „ 34; * seria troncato il filo dii mio
40, ecc.); ma se Aomo Paleario può scrivere nella lettera
indirizzata alla moglie, alla vigilia dell’estremo supplizio (3 luglio 1570)-
«attendete i alla famigliola sbigottita che resterà», vuol dire che per lui
Kme n„ dS arc ■ *■ T™ e f "«“<> 0 Cfmmurn,
Eppure fin dai primi decenni del secolo c’è chi protesta contro
Firenzuola S ° n ° anzitutto 1 Toscani, come il
irenzuoia, 1 Aretino (nel Marescalco e nei Ragionamenti • ma nelle rime
petrarcheggia anche lui), il Bemi, il Doni, il GrazzS mTanche^n
T P^te Se me - ?° rnelÌO Ca staldi e più tardi Giordano Bruno.
rn jJ°t este si levano anche qua e là da parte del Firenzuola del
bocc£ce?cà del LenZom ’ del NeUi ecc - con tro la stucchevole imitazione
_■ d ^ alviat i’. V 1 tutta la sua opera risoluto fautore del «buon secolo»
ricercatore di testi trecenteschi, e soprattutto ammiratore e studioso
del Boccaccio, trova che un solo scrittore contemporaneo è So a
Sa c 5 ^neTGaiSeo am 3 nte Y eUe P arole e nello stile treceiSesco, il
oSrìtr? nhJ ” 1 Gal f eo ’ * d finale, oltreché non ha voce, ò maniera di
le^modf ^^h^a^ena^ar^acmdei^ quStefch^F^uitore
propno, e vero stile dettarlo di quel buon secolo»- ’
Ma la principale pietra di paragone è l’atteggiamento degli scrittori
306 Stona della lingua italiana
rispetto alle parlate moderne. H Bembo accettando la norma trecente-
sca, escludeva un contemperamento: nelle Prose (libro D fa dire a suo
fratello Carlo che «l’essere a questi tempi nato fiorentino, a ben volere
fiorentino scrivere, non sia di grande vantaggio»; e a Ercole Strozzi,
che suggerisce di mescolare la lingua toscana antica e quella nuova,
Carlo Bembo risponde che «il pane del grano non si fa miglior pane per
mescolarvi la saggina» (conclusione del I libro).
Il Bembo, e con lui molti non toscani, preferiscono nel plasmare la
loro lingua letteraria cercare un solido fondamento nei libri, anziché
nelle parlate italiane così diverse e fuggevoli, ovvero nell’uso toscano o
cortigiano, anch’essi più o meno labili.
Invece i Toscani, che si trovano ad avere a disposizione, già per
natura, ima grammatica e un lessico in gran parte conformi alla norma
già accolta, non hanno da far altro che servirsene, tutt’al più accettan-
do anch’essi qualche suggerimento dai grandi trecentisti. Nel valersi a
scopi letterari dei mezzi espressivi di cui già dispongono, si accorgono
che volendo attingere all’uso dei nobili, della borghesia e del popolo
possono mietere e spigolare locuzioni vivacemente espressive per
inserirle nei loro scritti. Lo fanno ampiamente il Firenzuola, l’Aretino,
il Doni, il Varchi, il Cecchi, il Davanzati e tanti altri: è molto difficile
dire (e si può fare solo uno per imo, perché i loro atteggiamenti sono
vari) in che misura si tratta di «retorica popolaresca» 85 , di sforzatura
manieristica. _ . t
Pochi sono i non Toscani che si sforzano di adeguarsi alluso
parlato fiorentino. Il più notevole è il Caro, marchigiano, che nel
Commento di Ser Agresto asseriva di non voler usare «nè la boccacce-
vole, nè la petrarchevole, ma solamente la pura e pretta toscana
d’oggidì, e della comune quella parte, che ancora da essi Toscani è
ricevuta»; mentre stava scrivendo gli Straccioni chiedeva agli amici
fiorentini di fornirgli modi di dire 68 , e nella polemica col Castelvetro
sosteneva «essere di più vantaggio che non pensate, l’haver havuto
mona Sandra per balia, maestro Pippo per pedante, la loggia per
iscuola, Fiesole per villa, haver girato più volte il coro di Santa
Riparata, seduto molte sere sotto il tetto de’ Pisani, praticato molto
tempo, per Dio, fino in Guaifonda per saper la natura d’essa [lingua]» 67 .
Altri che pur valutano altamente l’importanza della lingua parlata,
e non vogliono riconoscere a Firenze e alla Toscana altra priorità che
quella già conclusa con l’attività dei grandi trecentisti, puntano
sull’importanza della lingua che si parla in altri luoghi di Italia.
Anzitutto nelle corti, e in primo luogo in quella di Roma, che è il centro
intemazionale del cattolicesimo e uno dei principali luoghi d’incontro
65 A. Momigliano, Studi di poesia, Bari 1948, p. 72.
68 «Io vi ricordo, che voi faceste già. ricolta di molti proverbi toscani; se me gli
poteste mandare, mi tornerebbero forse in qualche luogo a proposito» detterà a
Luca Martini, giugno 1543: Lettere fornii., I, p. 278 Greco).
67 A. Caro, Apologia de gli Academici di Banchi, Parma 1553, p. 168.
Il Cinquecento 307
della vita politica e culturale italiana; e inoltre in corti come quelle di
Mantova, di Ferrara, di Urbino.
I tratti comuni che queste varietà di «lingue di corte» possedevano
(molti elementi uguali dovuti all’accoglimento dei modelli letterari
trecenteschi, un numero notevole di latinismi del tipo populo, commu-
ne, anatomia contrapposti alle forme toscane popolo, comune, notomia,
ecc.) non costituivano una vera e propria lingua sufficientemente
compatta, ma erano tuttavia abbastanza numerosi da offrire argomen-
ti a quegli scrittori che intendevano accogliere forme e parole in uso
nelle corti, e non ritenevano né di doversi limitare all’uso trecentesco
né di piegarsi all’uso toscano. Vedremo nel § 8 quali argomenti
vengono addotti, nei primi decenni del Cinquecento, per difendere e
per oppugnare questo punto di vista.
La libertà di scelta è proclamata da quelli che parlano di lingua
italiana, comune, universale; e c’è chi ritiene che la lingua debba
essere «mista» 68 .
Altri fa professione d’adoperare la lingua della propria città:
«Zoan» Gonzaga dichiara scritto «in lingua mantuana» un suo libretto
sul principe 69 ; G. Filoteo Achillini ritiene «ch’el fa mal chi die’ dir
quando si slingua», e perciò mantiene il «dir felsineo» suo 70 ; Baldassar-
re Olimpo da Sassoferrato dichiara: «La compositione mia... è secondo
la mia dolce e cara patria dove so’ inteso e non curo andare altrove, e
perché ivi, in quel freddo, nudo et asperrimo Sasso nacque chi me
costrenge a far tal cose...» 71 ; Antonino Venuti dice di scrivere «in siculo
idioma constructo per esser in queste nostre parti con più facilità di
tucti inteso, nobilitato anchor dalcuni vocaboli da quella ecelsa et
principale lengua toscana» 72 . Questi ed altri autori che fanno analoghe
dichiarazioni, non si scostano tuttavia quanto si potrebbe credere dal
tipo d’italiano letterario che si sta generalizzando 73 .
68 Don Anseimo Tanzi, milanese, nella sua prefazione alla versione da Boezio
(1520) dice di essersi servito «d’un volgar piano, chiaro et intelligibile, non in sola
lingua Napolitana, ne Tosca ne Lombarda, ma mista, et in comune, et dimestico
parlare...» (cit. da Argelati, Biblioteca d. volgarizzatori, I, p. 164).
89 Cian, Studi... Rajna, p. 292.
^-Fedele, 1. II, c. xvm (ap. Del Balzo, Poesie di mille autori, IV, p. 544).
71 Ed. 1539 (cit. in Arch. rom., IV, 1920, p. 90).
72 De agricultura opusculum, Napoli 1516 (cit. da L. Natoli, Studi su la
letteratura sicil. del s. XVI, I, Palermo 1896, p. 17).
73 Se ne scosta parecchio, invece, il siciliano illustre teorizzato dal siracusano
Mario d’ Arezzo, nelle Osservantii dila Lingua siciliana et Canzoni in lo proprio
idioma, Messina 1543; p. es.: «disputando si la lingua siciliana, la quali hogi noi
tentato, per havir tutti soi vocabuli distisi, & interi, non mezi & mutilati, et per
potirsi schietta scriviri, et per tutta Italia intendiri, appari tanto bona, corno di
tutti altri contrati chiusi di l'Appi, & di l’uno, & l’altro mari» (c. 10 a.- ho sott’occhio
la ristampa a cura di G. B. Grassi, Palermo 1912): è un esperimento «autonomista»
curioso, ma non molto significante. Cfr. il cap. IV del saggio di L. Sorrento,
Diffusione. Nemmeno riuscì il tentativo di Girolamo Araolla di dare alla
Sardegna una lingua letteraria (fondata sul logudorese settentrionale, con
308 Storia della lingua italiana
Nella seconda metà del secolo, divulgatisi numerosi testi in verso e
in prosa di scrittori contemporanei, placatesi le dispute sulla lingua,
consolidatesi le norme in trattati grammaticali e repertori lessicali, è
ormai raro trovare negli scrittori dichiarazioni di scelte indipendenti:
anche se il canone non è uniforme, si tende piuttosto a conciliare le
diversità che a esasperarle. Non manca tuttavia chi, come il Bruno,
mantiene una sua estrosa indipendenza 74 .
7 . L’uso letterario dei vernacoli
La consapevolezza che ormai c’è una lingua letteraria comune
valida per tutta l’Italia (consapevolezza a cui si giunge durante la
prima metà del secolo) dà la spinta al fiorire della letteratura dialettale
riflessa 75 . Gli scritti in dialetto anteriori a questa età miravano, salvo
poche eccezioni 78 , a una lingua il più possibile dirozzata, pronta a
risolversi in coinè; gli scritti in vernacolo che ora cominciano ad
apparire sono stilizzati in forme realistiche, volutamente fedeli alla
rozzezza dei singoli vernacoli, in quanto questi venivano ormai
contrapposti alla lingua generalmente accolta.
Il «genere» che meglio si presta a questa contrapposizione, attra-
verso il gioco scenico dei vari personaggi, è la commedia: troviamo un
villano che parla faentino in una Commedia nuova di Pier Francesco
da Faenza (non datata, ma probabilmente dei primi anni del Cinque-
cento); nelle farse dell’Alionè agli interlocutori astigiani si mescolano
dei francesi, un milanese, un «lombardo»; nella Venexiana , allo scorre-
vole veneziano delle due gentildonne si contrappone l’italiano un po’
stentato e affettato del giovane e il bergamasco di un facchino; nella
italianismi e spagnolismi nei casi in cui mancasse la voce sarda): v. la ristampa
delle Rimas spirituales a cura del Wagner, Dresda 1915, e dello stesso, La lingua
sarda, cit., pp. 49-51.
74 E, di tanto in tanto, qualcuno ancora protesta contro il toscanismo
arcaizzante: così il milanese Lomazzi ( Grotteschi , Milano 1587, p. 290) o il perugino
Caporali ( Viaggio di Parnaso, parte II, Il pedante ).
75 «Il fare libri nel dialetto proprio agli autori non toscani cominciò tardi e fu
per gioco...», osservava già G. Capponi, Nuova Antol., XI, 1869, p. 676. Si veda B.
Croce «La letteratura dialettale riflessa, la sua origine e il suo ufficio storico», in
Critica, XXIV, 1926 (rist. in Uomini e cose della vecchia Italia, I); L. Sorrento, «La
poesia dialettale e il Parnaso siciliano», in Rassegna, XXXV, 1927, pp. 105-122; Id.,
«Per la storia della poesia dial. in Italia», in Atti I Congr. tradiz. popol., Firenze
1930; B. Migliorini, «Dialetto e lingua nazionale a Roma», in Capitolium, luglio
1932 (rist. in Lingua e cultura, pp. 109-123)-, M. Sansone, «Relazioni fra la letteratura
italiana e le letterature dialettali», in Problemi e orientamenti, JV, -pp. 261-327.
Anche J. Gilliéron distingueva nella storia del francese l’ère des dialectes dall’ère
des patois.
78 Abbiamo trovato delle eccezioni specialmente nel Veneto-, abbiamo ricor-
dato Francesco di Vannozzo e Antonio Beccari nel '300 (pp. 188189); ma citando il
quattrocentista veronese Giorgio Sommariva abbiamo anche osservato che i suoi
sonetti rusticali non furono pubblicati che molto più tardi (p. 250).
Il Cinquecento
309
prima commedia di Ruzzante, la Pastorale, due contadini pavani hanno
a clie lare con un medico bergamasco e il suo servo 77 . La presenza di
imo o piu personaggi che parlano nel loro dialetto finisce col diventare
un espediente comico usuale nella commedia della seconda metà del
Cinquecento e del Seicento 78 ; e la caratterizzazione delle maschere
avviene anche per mezzo del dialetto attribuito a ciascuna di esse.
Anche m alcune commedie toscane entrano in scena personaggi
rustici, con dialettalismi spiccati 79 . ^
S’intende bene che, abituatosi il pubblico al pimento dialettale vi
possono anche essere commedie in cui tutti i personaggi sono plebei e
parlano m dialetto: resta sempre presente la virtuale contrapposizione
alla lingua usuale.
Non mancano scritti dialettali di altri generi, specie nella seconda
metà del secolo e nell’Italia settentrionale: le rime e le lettere di A.
Calmo m veneziano, le liriche veneziane di Maffeo Venier; un poemetto
eroico con reminiscenze ariostesche, l’anonimo Pulon matt di Cesena, e
qualche altra lirica (ricordiamo G. B. Maganza «pavano», B. Cavassico
bellunese. Paolo Foglietta genovese).
Diverso è l’atteggiamento dei Siciliani, che tentano un dialetto con
molti elementi locali, ma culturalmente raffinato 80 .
Anche del gergo furbesco si ebbero nel Cinquecento alcune stilizza-
zioni letterarie - o quasi 81 .
8. La questione della lingua
Tutto il Cinquecento è pieno di polemiche letterarie, e a guardar
bene si potrebbe cavare qualche frutto linguistico da ciascuna di esse:
- , DalIe , vaUl bergamasche provenivano numerosi a Venezia i servi e i
6 la ] r ozzezza del l0I l 0 dialetto rese proverbiale Bergamo come sede del
v , ec ! a J? 0 l e numerose testimonianze allegate dal Cian a
fn S-!!. deUa ^ a ui! d ® 1 Castiglione («non vi ristringendo voi a dichiarir qual sia
Potrebbe 1 omo attaccarsi alla bergamasca come alla fiorentina»:
Uorteg., 1. 1, cap. xxx). Il Davanzati postillando la sua traduzione degli Annali QV
7 (!nnfrr- Che una «goffissima lingua bergamasca o norcina» era adoperata «dà
Z anni o Ciccantom » per far ridere.
™Jl NeUa C ° mmedia La ve dovo di G. B. Cini (1569) vi sono personaggi che
nnn^fHo^f e H ian< iV berg t* masco ’ slciliano - napoletano. I testi di questo genere
non ci dtinno di solito molte garanzie di autenticità; ma per il pavano è preziosa
Che 06 dà 11 Beolco > e P er B romanesco della fase antica la
filasi ^ raffl ^ ata da C - Castelletti nelle
specialmente a quelle dei Rozzi di Siena; ma anche in alcune
commedie del Cecchi v è qualche personaggio che parla il fiorentino plebeo.
xvr ?. NaS ol ll, j U ?. a S£W : ra ra PPresentazione siciliana del sec.
X a*' -F 1 VI (rist. m Studi di antica letteratura sicil., Catania 1935 ).
italiano • tU w-’ C ^ enm sull'uso dell'antico gergo furbesco nella letteratura
pp L 30 )*’ Mlscellanea Gra f’ Bergamo 1908 (rist. in Svaghi critici, Bari 1910,
310
Storia della lingua italiana
le dispute su Petrarca e il petrarchismo, sul Boccaccio, su Dante; la
diatriba fra il Caro e il Castelvetro; le discussioni suscitate dal Tasso.
Ma la polemica più importante è quella cui fu dato il nome di
«questione della lingua» 82 . Essa è il prodotto delle riflessioni nate
dall’incertezza della norma linguistica nei primi decenni del seco-
lo e dal desiderio di porvi rimedio. Intervengono nella discussione
alcuni fra i più autorevoli rappresentanti del gusto letterario e lingui-
stico, a difendere quel tipo di lingua verso cui si erano orientati come
scrittori.
Nella prima metà del secolo si distinguono bene tre correnti: quella
arcaizzante che fa capo al Bembo, quella che inclina verso una lingua
di tipo eclettico, più o meno ispirata alla coinè delle corti, e infine la
corrente toscana, che ritiene che la lingua debba prendere per modello
il fiorentino o più genericamente il toscano moderno.
Cominciamo a vedere le opinioni del Bembo. Il dotto veneziano
sostanzialmente trasferisce nell’umanesimo volgare le teorie sull’imita-
zione dei classici che egli professa quale scrittore latino. Nel febbraio
1512 egli ha già pronto il primo libro delle Prose della volgar lingua, e il
1° aprile dello stesso anno invia il secondo libro a Trifone Gabriele e ad
altri amici per riceverne consigli, e ancora nel 1522 attende all’opera,
benché nel pubblicarla (nel 1525 ) egli la presenti come definitivamente
conclusa prima del marzo 1516 (certo per rivendicare la priorità sul
Fortunio).
Le Prose figurano come un dialogo che sarebbe avvenuto a Venezia
nei giorni 10 , 11 , 12 dicembre 1502 tra Giuliano de’ Medici (poi duca di
Nemours), Federigo Fregoso, Ercole Strozzi e Cario Bembo (portavoce
delle idee del fratello).
Nel primo libro (dopo la discussione, a cui abbiamo qui addietro
accennato, sui pregi del volgare e del latino) si parla delle origini della
letteratura in volgare e dell’influenza esercitata dai Provenzali. Poi si
viene a trattare delle diversità del volgare in Italia, e delle opinioni del
Calmeta sulla lingua cortigiana, nel suo libro (ora perduto) sulla poesia
volgare. Ma la lingua cortigiana non è una vera lingua: è vero che essa
si parla alla corte pontificia, «ma - dice Giuliano de’ Medici - questo
favellare tuttavia non è lingua, perciò che non si può dire che sia
veramente lingua alcuna favella che non ha scrittore» (affermazione
assai discutibile, ma tipica, e atta a spiegare l’impostazione letteraria
sempre mantenuta in Italia dalla questione della lingua). Per mostrare
che il fiorentino è la lingua più regolata, Giuliano allega i suoi «due
Toschi», «il Boccaccio e il Petrarca senza più». Carlo Bembo spiega
come il fratello abbia dettato gli Asolani «in fiorentina lingua», nello
82 Un ampio resoconto del dibattito è nel mio articolo pubblicato in Problemi e
orientamenti. III, pp. 14-42. Dei molti scritti intorno alla questione, basti citare V.
Vivaldi, Storia delle controversie (farraginosa ma utile), Th. Labande Jeanroy, La
question de la langue, B. T. Sozzi, Aspetti e momenti (che sottolinea soprattutto gli
aspetti sociali della questione), M. Vitale, La questione della lingua, Palermo 1960.
Il Cinquecento
311
stesso modo che i Greci preferivano la lingua attica perché «più vaga e
più gentile». La lingua fiorentina delle regolate scritture, ben s’intende
che quando si vedono i fiorentini seguire l’andazzo dei tempi, si dubita
«che 1 essere a questi tempi nato fiorentino, a ben volere fiorentino
scrivere, non sia di molto vantaggio». Giuliano difende i suoi concitta-
dini, affermando che «le scritture, sì come ancor le veste e le armi
accostare si debbono e adagiare con l’uso de’ tempi, ne’ quali si scrive»’
Bemb 1 ° ns P° nde che « la lingua dalle scritture non deve a
quella del popolo accostarsi, se non in quanto, accostandovisi, non
perde gravità, non perde grandezza». E se si contemperasse l’antico e
il moderno, suggerisce lo Strozzi. No, no, risponde Carlo: «il pane del
grano non si fa miglior pane per mescolarvi la saggina».
Nel secondo libro si passa a parlare della scelta e della disposizione
delle voci Bisogna scegliere «le più pure, le più monde, le più chiare..
le piu belle e grate voci». Perciò è meglio lasciar da parte Dante, che
talvolta adopera voci «rozze e disonorate». Un opportuno contempera-
mento di grazia e di piacevolezza fa bella ogni scrittura, e per ottenere
queste occorre badare al «suono», al «numero» (cioè al ritmo), e alla
«variazione». Si passa quindi a discorrere della distribuzione delle
rune nei versi, della posizione degli accenti (nei vocaboli e per ottenere
il ntmoJ, e infine delle voci arcaiche.
Il terzo libro è un’esposizione dei punti più importanti della
grammatica italiana, fatta da Giuliano. L’abbondante esemplificazione
è tratta in grande prevalenza dal Decamerone e dal Petrarca, ma non
mancano citazioni da Dante, dalle opere minori del Boccaccio e da
poeti duecenteschi.
L impostazione del Bembo è, come s’è visto, eminentemente retori-
ca: egli si rivolge agli scrittori, e li spinge a cercare una lingua elegante
attraverso 1 imitazione dei migliori trecentisti toscani. Egli usa promi-
scuamente i termini «fiorentino, toscano, volgare»: la disputa su quei
vocaboli non era ancora nata, e più tardi il Bembo evitò Centrarvi 83 .
Il Bembo è anche mtrodotto come protagonista nel Dialogo delle lingue
P° co d °P° 11 1530, da Sperone Speroni padovano. Nel dialogo, oltre lillà
disputa sulla preminenza del latino o del volgare (v. p. 299), si dibatte fra il
ìgiano e il Bembo 1 argomento già esposto nelle Prose. «Dunque se io vorrò
VOlgarmen te - dice il Cortigiano - converrammi tornare a nls^r
ner ^wZàf* NaSCer "V ns P on d e « Bembo - ma studiar Toscano; ch’egli è meglio
offLriTTt^o nas ? er Lora , l ? ardo ’ < ? he Fiorentino; perocché l’uso del parlar Tosco
oggidì è tanto contrano alle regole della buona lingua Toscana, che più nuoce
n& H 0 * queUa Provincia che non gli giova» (p. 59 De Robertis). Lo
ouale no^hff a ^?® ntuandol f- l’opposizione, bembesca al toscano vivo, il
h alcun difensore nel dialogo, giacché il Bembo sostiene la sua tesi
ouettmtLoc 11 Cortigiano quella dell’uso delle corti de poche parole che
qq ) ® s ‘ ultuno sembra spendere a favore del fiorentino moderno - p. 60 - servono
®°J°P® r Provocare la confutazione del Bembo). Lo Speroni tessè anche le lodi del
D£?o«o^X 0 S5«‘ to ' Sbre ^ 8 t0m6 “W“ nel tordo
312
Stona della lingua italiana
Vediamo ora le opinioni dei fautori delle tesi eclettiche moderne
(lingua cortigiana, lingua comune italiana).
H primo nome in cui ci imbattiamo è quello di Vincenzo Colli, detto
(dal nome d’un «pastor solennissimo» nel Filocolo del Boccaccio) il
Calmeta 84 . Nato di famig lia «insubre» a Chio nel 1460, morto nel 1508,
fu mediocre poeta. Aveva scritto un trattato Della vulgar poesia, in
nove libri, che è andato perduto, e che solo conosciamo attraverso
quello che ne dicono il Bembo (nelle Prose ) e il Castelvetro (nella
Correttione d' alcune cose nel Dialogo delle lingue di B. Varchi, et una
Giunta al primo libro delle Prose di M. Pietro Bembo , Basilea, 15721 . Il
Calmeta a quelli che volevano scrivere in versi «commenda oltre a
tutte le altre lingue d’Italia» la fiorentina, consiglia lo studio di
Petrarca e del Boccaccio, e per affinare e arricchire la lingua che così si
saranno procurata raccomanda di attenersi al modello della corte m
Roma: di qui il nome di lingua cortigiana di cui si serve il Calmeta .
Altri fautori della lingua cortigiana sono Mario Equicola, Angelo
Colocci e Giovanni Filoteo Achillino, i cui nomi troviamo, insieme con
quello del Calmeta, nelle Collettanee Grece Latine e Vulgan che furono
pubblicate nel 1504 per onorare la memoria di Serafino Aquilano.
Mario Equicola, nato ad Alvito (fra Sora e Cassino) nel 1470, iu
segretario dei Cantelmo di Sora, e poi alla corte di Mantova, ff suo
libro De natura de amore, che egli aveva composto in latino in età
giovanile, fu poi da lui stesso tradotto (benché egli pensasse di
attribuire la traduzione a suo nipote Francesco Prudenzio); la prefazio-
ne contiene un’apologià della lingua cortigiana e un invettiva contro la
toscana^recchi pagsi del Ubro rEquico i a s j sofferma sulla scelta tra il
parlar fiorentino e il parlar cortigiano, praticamente inclinando verso il
secondo. Egli loda Giovanni Iacovo Calandra mantovano perché nella
sua Aura «non con vocaboli dal latino fastidiosamente tratti ha sua
inventione vestita ma di parole con indefessa diligenza dalla corte
elette» (c. 38 b dell’ed. 1531). Più oltre dà consigli a chi frequenta le corti
sul modo di parlare-, è bene evitare le forme plebee del proprio naturale
84 Tutto quello che ci rimane del Calmeta è stato pubblicato da C. Grayson,
B ° ’VLe testimonianze non coincidono del tutto, probabilmente perché il Bembo,
che aveva conosciuto il Calmeta e aveva discusso con lui a Urbino, si riferisce
alle idee del Calmeta quali le ricordava, mentre il Castelvetro s attiene più da
'ao p Rajna «La lingua cortigiana», in Miscellanea linguistica... C. I. Ascoli,
Torino 1901, pp.' 295-314; F. Neri, «Nota sulla letteratura cortigiana del Rmasamen-
to» in Bulletin italien, VI, 1906 Crist. in Letteratura e leggende, Tonno 195L PP- 1-9)-
87 Nel testo stampato del Libro de natura de amore, Venezia 1525, 1 Equicola
espone molto più in breve le sue idee (nella dedica a patella dEstel
Si veda il testo della prefazione ap. Remer, Giom. stor. iett. ital., XIV, 1889, p. 227,
per l’attribuzione della traduzione e per le pagine introduttive v. ora G. Castagno,
Lingua nostra, XXIII, 1962, pp. 74-77.
Il Cinquecento
313
dialetto, attenersi al fiorentino solo se si è sicuri di proferirlo bene, cosa
difficilissima, dilettarsi delle parole che non siano aliene o remote dal
comune uso (cc. 161-162 dell’ed. cit.).
Angelo Colocci di Iesi, dal 1497 stabilito a Roma con importanti
uffici presso la Curia, oltre che lo studio delle lingue classiche, coltivò
quello delle lingue neolatine. Nell’Apologià di Serafino (nelle Colletta-
nee già cit.) difende il Ciminelli per non essersi reso familiare il toscano:
pongasi da un lato l’auctorità de’ Toscani, dicamo ch’egli habbi usato el suo
materno ydioma, che ben era iusto che in tante carte da lui vergate & scripte
qualche segno della sua propria ve rimanesse. Et lassamo star che Dante,
secondo che lui dice, con ogni industria sforzavasi ampliar la sua vemacula
lingua, & pur nell’alta Comedia più tosto dicer volse la nostra pica che la sua
ghiandaia & altri nostri vocabuli infiniti, in ciò scusandolo se alle volte non è
stato verecundo della novità delle vocabuli. Benché nisuno edicto ne prohibisce
proferir quelle parole (sì sono ingenue) che la nostra nutrice con le canzon de la
cuna & con l'arte n’ha insegnato; senza che essendo el Sleraphinol subdito &
propinquo al Regno di Napoli, non è fuor d’honestà ch’a Sicilia, matre delle rime,
se sia alle volte conformato (p. 31 della rist. Menghini).
Dagli appunti del Colocci (conservati nel manoscritto Vat. 4817)
possiamo conoscere le sue opinioni intorno alla lingua, le quali si
distaccano sia da quelle del Calmeta, sia da quelle del Trissino: «La
lingua è comune. Ma quando ben in Italia non sia una lingua comune,
certo quella che Petrarca di tante lingue ha facto per imitazione, è
comune» (c. 1 a). L’inconveniente maggiore nasce dagli idiotismi, di cui
il fiorentino abbonda («le metaphore che da lingua a lingua sono
diverse, e’n questa fanno ornato e difficultà alli peregrini»); cita come
esempi cilecca, schembo, ribotoli, chente e il dantesco s’insala ; «la
fiorentina è la più pericolosa di queste metafore, che è quasi tra loro
una cifra» (c. 54 a). Egli vorrebbe ricollegare la sua «lingua comune»
alle lingue preromane d’Italia: «È mia opinion che sempre fu el
Vulgare. Altra cosa era la lingua latina, altra la picena (citata prima
fra le altre dall’autore iesinol, osca e tosca et sabina. Nui che
componemo nella comune lingua de Italia, non la latina, ma la comune
cerchiamo imitare» (c. 115 a) 88 .
Abbiamo citato tra quelli che parteciparono alle Collettanee anche
Giovanni Filoteo Achillino, che ne fu, anzi, l’editore. Troviamo l’espres-
sione delle sue idee nelle più tarde Annotazioni della volgar lingua
(Bologna 1536), in forma di dialogo, nelle quali è satireggiata la lingua
toscana e difesa la «comune». Egli vorrebbe scrivere cognosco e non
conosco, Gieronimo e non Girolamo, Olempo e non Olimpo, epistola e
non pistola, e così via. Alcuni vocaboli di Dante, di Petrarca e del
Boccaccio, che l’Achillino trova strani, sono severamente biasimati.
“ G. Salvadori, «Lingua comune e lingua cortigiana negli appunti di A.
Colocci», in Fanfulla della domenica, 16 maggio 1909.
314
Storia della lingua italiana
Il Cinquecento
315
A colloqui sulla lingua tenuti alla corte di Urbino si ricollegano
anche le pagine del Cortegiano di Baldassarre Castiglione. Benché, per
il titolo del famoso suo libro, egli sia stato ritenuto fautore della «lingua
cortigiana» (come tale lo fa intervenire il Tolomei nel dialogo II Cesano),
egli non adopera mai questo termine 89 .
Nei capitoli 28-39 del I libro del Cortegiano il Castiglione immagina
di riferire certi ragionamenti tenuti alla corte di Urbino, nel 1507: si è
stabilito per gioco di «formare con parole un perfetto Cortegiano», e fra
le altre qualità sociali che il cortigiano deve avere, c’è quella della
lingua. I principali interlocutori sono il conte Ludovico di Canossa, che
interpreta le opinioni del Castiglione, e Federigo Fregoso, che sostiene
idee molto affini a quelle del Bembo. Meno importanti sono gli
interventi di altri, come il magnifico Giuliano de’ Medici (che già
conosciamo dalle Prose del Bembo), il card. Bibbiena e altri ancora.
Anche per ciò che concerne la lingua il canone essenziale è un
canone di buon gusto sociale: evitare l’affettazione. Dunque, sostiene il
Canossa, bisogna anzitutto evitare gli arcaismi. Non però scrivendo,
controbatte il Fregoso. E il Canossa si sofferma sui rapporti fra lingua
parlata e lingua scritta: «è ragionevole che in questa si metta maggior
diligenzia, per farla più culta e castigata; non però di modo, che le
parole scritte siano dissimili dalle dette, ma che nello scrivere si
eleggano le più belle che s’usano nel parlare».
Il Fregoso sostiene piuttosto che nella scrittura sia bello usar parole
«non dirò di difficultà, ma d’acutezza recondita». Meglio di tutto, anche
per evitare le difficoltà che nascono dalle diverse consuetudini delle
città nobili d’Italia, è attenrsi all’uso del Petrarca e del Boccaccio.
L’ideale del Canossa è invece eclettico: non è nemico del toscano, ma è
tutt’altro che incline a limitare ad esso la scelta: vuole che si usino
«scrivendo e parlando quelle Iparolel che oggidì sono in consuetudine
in Toscana e negli altri loci della Italia, che hanno qualche grazia nella
pronuncia». Saranno da evitare gli arcaismi, ma non quei francesismi e
quegli spagnolismi «che già sono dalla consuetudine nostra accettati».
Insomma il suo ideale è una lingua che «se ella non fosse pura toscana
antica, sarebbe italiana, commune, copiosa e varia».
Nella lettera dedicatoria (premessa all’edizione del 1527, cioè di
parecchi anni posteriore" alle discussioni provocate dal Bembo e dal
Trissino), il Castiglione risponde, piuttosto che ai dissensi suscitati dai
ragionamenti del Cortegiano in quelli che intanto l’avevano letto, alle
censure mosse alla sua lingua; e conferma di non essersi voluto
obbligare a seguire la consuetudine del toscano modernamente parla-
to, e tanto meno quella degli scrittori toscani antichi. Se in Toscana si
usano «molti vocaboli chiaramente corrotti dal latino, li quali nella
Lombardia e nell’ altre parti d’Italia son rimasti integri e senza
88 Probabilmente, come ha pensato il Rajna, per non confondersi con i
partigiani della tesi del Calmeta.
mutazione», perché attenersi alle forme toscane? Il Castiglione insiste
qui sugli argomenti che già aveva svolti nel dialogo, a proposito di
coppie come popolo - populo, orrevole - onorevole e s imili fin cui tuttavia
egli non si rende conto che le forme che considera rimaste integre sono
invece latinismi). Non «credo - conclude il Castiglione - che mi si
debba imputare per errore lo aver eletto di farmi piuttosto conoscere
per lombardo parlando lombardo, che per non toscano parlando
troppo toscano» (secondo il noto aneddoto di Teofrasto, il quale fu
riconosciuto come non ateniese perché parlava troppo ateniese).
Risulta chiaro che le discussioni sulla lingua erano frequenti nelle
cor ^\„ s ®^ ;en ^ 0 ? a ^ (specialmente Urbino e Mantova) e alla corte
pontifìcia nei primi lustri del secolo, e si inclinava in esse alla soluzione
«cortigiana».
Giangiorgio Trissino, gentiluomo vicentino, portò a rincalzo dei
partigiani di quella tesi l’autorità di Dante o almeno di ciò che egli
credette di vedere nel De vulgati eloquentia quando fu venuto in
possesso di una copia del trattatello dantesco (e cioè dell’esemplare
che poi passò alla Biblioteca Trivulziana). Il Trissino fece conoscere il
contenuto dell opera (e forse ne fece vedere il manoscritto) a quel
gruppo di letterati che si radunava negli Orti Oricellari, in uno dei suoi
soggiorni a Firenze, probabilmente in quello del 1514; e continuò a
parlarne nelle sue permanenze a Roma (1514-18, 1524, 1526). ®°.
Il Trissino verso la metà del novembre 1524 pubblicava la sua
Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana, in cui
giustificava la nuova grafìa, con gli e e gli w, applicata nella sua
edizione della Sophonisba nel settembre dello stesso anno.
Nella lettera il dotto vicentino parlava, fin dal titolo, di «lingua
italiana», e distingueva nettamente, specie per la pronunzia, tra un uso
toscano (o tosco, o fiorentino ), e un uso cortigiano e commune. La nuova
ortografia, a suo credere, avrebbe aiutato «mirabilmente ad asseguire
la pronunzia Toscana, e la Cortigiana, le quali senza dubbio sono le più
belle d’Italia». Nella Sophonisba, egli dice, «tanto ho imitato il Toscano
quanto eh io mi pensava dal resto d’Italia poter esser facilmente inteso;
ma dove fi Tosco mi pareva far difficultà, l’abbandonava; e mi riduceva
al Cortigiano, e commune». Qualche volta egli si è «troppo al Fiorenti-
no accostato», come nella pronunzia aperta dei dittonghi ie e uo,
«perciò che giudico manco riprensibile peccato 1’accostarsi troppo al
Toscano, che ’l discostarsi troppo da esso» 91 .
L’Epistola sollevò un coro di proteste, principalmente fra i Toscani:
Lodovico Martelli, Angelo Firenzuola, Claudio Tolomei (sotto il nome di
Adriano Franci) impugnarono le proposte ortografiche del Trissino; e
. . *? Nacque dai colloqui fiorentini un’operetta vivacemente polemica del
Machiavelli, di cui parleremo più sotto (p. 320).
, ^^uesto passo figura molto accorciato nella seconda edizione dell’Epistola,
pubblicata nel 1529. Lo cito dall’edizione originale, tuttavia abbandonando le
peculiarità grafiche trissiniane.
316
Storia della lingua italiana
ad essi si unì anche un veneto, Nicolò Liburmo. Insieme
argomenti più propriamente ortografici, gli avversari del Tnssmo
discussero il nome di «italiana» dato alla lingua dal dotto vicentin :
specialmente il Martelli sosteneva la fiorentinità della lingua ed
impugnava l’autenticità del De vulgati eloquentia.
Il Trissino rispose nel dialogo II Castellano, composto nel 1528 e
pubblicato nel 1529. L’azione del dialogo è coUocata poro dopoda
pubblicazione dell'Epistola: vi prendono parte Giovarmi RuceUai Gnomi
Sato da Clemente VII castellano di Caste 1 Sant Angelo e imorto nel
1525, il quale presenta le opinioni del Trissino, suo fraterno ami ,
Filippo Strozzi Gl quale spesso cita letteralmente ì passi del Martellìi,
Iacopo Sannazzaro, Antonio Lelio e Arrigo Dona: J^^ribiSce
fratello di quel Giovanni Battista Dona a cui il Tnssmo _ tnouisce,
nell’edizione di quello stesso anno 1529, la traduzione del De vulgari
eloquentia. I due principali interlocutori Gl Rucellai e lo Strozzi) sono, si
noti, ambedue fiorentini. , .
Da principio il Trissino sta sulla difensiva. Gli avversari lo rimpro-
verami di aver «spogliato la Toscana del nome della sua lingua»;
niente affatto: egli ha solo parlato di «lingua
considera che la lingua toscana è italiana, e una fra le Più ^i^i tra le
lingue italiane. Poi egli passa (sempre per bocca del Castellano)
all’offensiva: non è vero che i più antichi scrittori abbiano adoperato
toscano: i più antichi poeti sono stati i Siciliani, «alle cui canzoni e
sonetti troverà essere più simili le rime di Dante e del Petrarca, chenon
sono a quelle di coloro che hanno scritto m fiorentino P^o ^ome il
Burchiello, Battista Alberti, Matteo Franco, Luigi Pulci e altri» (p. 21
dell’ed. Daelli). Infatti fi Petrarca ha evitato di scrivere vocaboh «propri
fiorentini» come testé, costì, costinci, cotesto, guata, allotta, suto. Lo
Strozzi obietta, riportando le parole del Martelli: si provi a prendere gh
scritti di Dante, del Petrarca, del Boccaccio, o magari quelli del Tnssmo
stesso, e si provi a farli leggere nel contado di Ferrara, o di ^enzaodi
Genova, e poi invece in quello di Firenze: si vedrà che : solo
naturalmente intesi saranno». Alcune pagine piu in là Ipp. 37-38 Daelli)
il Castellano dirà rispondendo:
vi dirò che ’l Petrarca meglio s’intende in Lombardia che in Fiorenza;... che 1
Petrarca sia naturalmente inteso altrove che in Toscana si può non solamente
SnoTcere per gli uomini, ma ancora per le donne, in cui più nmane la puntèdel
parlare delle loro regioni, che negli uomini, perciò che ^J^^^^amentt
hanno così pratica di forestieri come loro. Quelle di Lombardia certamente
meelio intendono il Petrarca, che le nostre di Toscana; e questo avviene perché
neU’etrarca è molto del parlare comune, e poco del particular nostro fiorentino.
Per intendere questa strana asserzione, dobbiamo evidentemente
riferirci alle gentildonne che il Trissino frequentava, e non alle donne
di auegli strati popolari a cui invece si riferiva il Martelli.
Le argomentazioni intorno al nome da darsi affa som-
condotte con definizioni e classificazioni di tipo scolastico: vi si discute
Il Cinquecento
317
di generi e specie, di sostanze e accidenti, senza approdare a nulla. Si
cerca di chiarire la questione del nome della lingua per mezzo d’un
paragone con una persona (Filippo Strozzi che può esser chiamato
Filippo Strozzi come individuo, oppure uomo come specie, o anche
animale come genere): è un paragone che tornerà spesso nella disputa,
malgrado la sua fallacia d’individualità storica di una lingua è molto
diversa da quella di una persona, perché più multiforme e diuturna).
Le dottrine dantesche che il Trissino ha ricavate dal De vulgati
eloquentia sono continuamente presenti, anche se il trattato viene
citato solo verso la fine. Ma il Trissino interpreta a modo suo il trattato
di Dante: anzitutto identificando senz’altro il volgare illustre cercato
da Dante con la lingua italiana; poi allegando la Commedia a riprova
del modo con cui la lingua si deve mettere insieme:
la Commedia istessa il manifesta, sendo piena di vocaboli, e di modi di dire di
tutta i’Italia, i quali per nessun modo si possono dir fiorentini.
Il criterio dantesco della discretio, che è principalmente «eliminazio-
ne», è inteso dal Trissino come «mescolanza»:
per meglio conoscere poi la lingua di Dante e del Petrarca, pigliamo i loro scritti
in mano, e veggiamo se i vocaboli di quelli sono tutti fiorentini, o no; e
chiaramente vedremo, che non saranno tutti fiorentini: perciò che ed aggio e
foraggio, e dissero e scrissero, e molti simili, che sono formazioni siciliane; e poria,
e diria, e molti simili, che sono lombarde, e guidardone, alma, salma, despitto,
respitto, strale, coraggio, menzonare, scempiare, dolzore, folla, cria, scaltro, quadrel-
lo, mo, adesso, sovente, e moltissimi altri vi si leggono, che non sono fiorentini.
Adunque non essendo i loro vocaboli tutti fiorentini, nè toscani, non si può la loro
lingua con verità nominare fiorentina, nè toscana... (pp. 45-46).
Infine, va osservato che, nell’appoggiare la propria tesi al De vulgati
eloquentia, il Trissino non distingue minim amente le condizioni dell’età
di Dante da quelle del suo tempo.
Con ogni probabilità di poco posteriore all’Epistola del Trissino, e
cioè del 1524 (benché l’azione del dialogo sia posta al tempo di Leone
X), è il Dialogo della volgar lingua dell’umanista bellunese Giovanni
Pierio Valeriano, ossia Giovan Pietro Bolzani 82 . Abbiamo, propriamen-
te, un dialogo inserito in un altro (come nell’operetta dello Speroni): il
Valeriano immagina che Angelo Colocci riferisca ad Angelo Marostica
e a Lelio Massimi (fautori come lui della lingua cortigiana, e spregiatori
dell’andazzo toscaneggiante venuto di moda ai tempi di Papa Leone)
un dialogo a cui l’ecclesiastico iesino avrebbe assistito presso il
cardinale Giulio de’ Medici (il futuro Clemente VII): vi partecipano,
92 II dialogo fu pubblicato a Venezia nel 1620, e poi ristampato a Belluno nel
1813, e a Milano nel 1829 e nel 1842. Sull’atteggiamento del Valeriano, v. Croce,
nella Critica, XLII, 1944, pp. 113-120.
318
Stona della lingua italiana
dopo alcune parole del cardinale stesso che si dichiara neutrale, il
Trissino, Alessandro de’ Pazzi, Claudio Tolomei, Antonio Tebaldeo.
Parte della conversazione verte sulle origini remote dell’italiano,
cioè sui rapporti di esso con il latino, il greco, l’etrusco; e su questo
punto possiamo sorvolare. L’autore evidentemente parteggiava per le
idee sostenute con garbo e moderazione dal Trissino (e, con maggiore
decisione e asprezza, dal Tebaldeo): ma non tanto da non lasciar
esporre con ima certa efficacia dal Tolomei e dal Pazzi la tesi toscana.
Poche volte si viene all’esemplificazione concreta, e quasi sempre
nel campo lessicale: il Trissino nega che parole come corpo, regno, vasi,
fiumi si possano dire toscane, perché tutta ITtalia le possiede; mentre
considera come voci propriamente toscane cinguettare, cavalcioni,
civanza, tuttatré... arrubinargli... gnaffe...-, sono i vocaboli che si leggeva-
no nel Boccaccio, ma non erano entrati nell’uso comune. Quando passa
a considerare qualche particolarità fonetica toscana, il Valeriano
punta sui plebeismi: da un laudando del Petrarca egli trae, per bocca
del Trissino, ima doppia argomentazione: contro i fiorentini moderni
che pronunziano laldando (vizio che egli attribuisce anche alle persone
colte, tant’è vero che egli fa che cosi legga anche il Pazzi); e a favore del
largo uso dei latinismi ( laudare in luogo di lodare ), uso che è caratteri-
stico della lingua cortigiana, mentre il toscano preferisce le forme
proprie, che dal latino si sono discostate (ciò che per il Tolomei era un
vanto, e per il Trissino un demerito).
Man mano che si va innanzi nel secolo, le menzioni della lingua
cortigiana si vengono facendo sempre più rare ed incerte 93 .
Difende il nome e il concetto di lingua italiana anche Girolamo
Muzio (anzi Hieronimo Mutio, per attenerci alla sua volontà). Il volume
postumo intitolato Battaglie in diffesa dell’italica lingua (Venezia 1582)
comprende scritti concepiti e composti in periodi diversi, dal 1530 al
1573: dalla risposta ai due famosi discorsi dell’Amaseo alla Varchina,
diretta contro YHercolano del Varchi. In tutto il libro, più o meno
severamente secondo i tratti, il Muzio nega un qùalsiasi primato del
fiorentino: il Bembo con qualche riguardo aveva detto che non era di
molto vantaggio il nascer fiorentino; egli ritiene addirittura che sia uno
svantaggio. Mira sempre alla lingua degli scrittori «che universalmen-
te per tutta Italia viene intesa» (c. 31 b della cit. ed. del 1582). Gli
stranieri che vengono in Italia potranno facilmente imparare l’italiano,
ma non il fiorentino che è così pieno d’idiotismi (c. 79 a).
È necessario a chi vuole che gli scritti suoi con laude siano ricevuti da tutte le
regioni d’Italia, studiare et dar opera a’ buoni libri, et conversar anche fra noi
altri Italiani (a’ Thoscani parlo) per tinger anche de’ colori della nostra tintura.
83 Ancora Paolo Giovio al principio del Dialogo delle imprese, composto nel
1550 circa, professava di non volersi obbligare «alla severità delle leggi di questo
scelto toscano; perché io voglio in tutti i modi esser libero di parlare alla
cortigiana».
Il Cinquecento
319
differenza farà da chi con la lingua appresa dalle balie et dal popolo
3 . n ^rl ere ’ a ^ Ual !. haverà data opera a £ U ornamenti ch’io dico; tante dico
SttSSS ? lo WL* de gU ^ a « ueUi de a ^. ^ante dalla Eneida
Da’ libri bisogna imparare a scrivere, ributtando la opinione di coloro che
hanno per sofficienti maestri di buona lingua le balie, & il popolo (c. 116 b).
Biasimato una volta a Firenze, in casa di Tullia d’Aragona di non
® ape f. benG s 1 CI } vere fiorentino, perché forestiero, rispose con un
proclamaI e0Plat0negglante * TuUÌa (c ’ 35 a) ’ la cui ^ima terzina
Et si vedrà che non i fi umi Thoschi,
ma 1 del, l’arte, lo studio, e 7 santo amore
dan spirto e vita a i nomi et a le carte 94 .
si vede, più ancora che i fautori della lingua cortigiana, che
s appellano a un modello sociale, sia pure difficilmente afferrabile il
Muzio insiste sulla necessità per i singoli d’un raffinamento letterario
eclettico per raggiungere un linguaggio ideale.
deUa lingua, «comune», «cortigiana», «italiana», si appun-
tano principalmente contro le forme troppo idiomatiche del fiorentino e
in genere del toscano, mirando insieme alla nobiltà dell’espressione e
i7cc,vtr a ux V versaU ! :à - i Essi preferiscono nelle peculiarità fonetico-
lessiCAh conformarsi al latino piuttosto che al toscano (febre, obedire
patrone, populo, Capitoli o, dicere, facere, honorevole e non horrevole
palazzo e non palagio), accolgono forme analogicamente regolari (dei
tipo legger leggiuto), rifiutano i toscanismi che si oppongono alla
1 ® tt ®. rai ? a &ià invalsa (messi , detti, per misi, diedi). Certo è
ben valida 1 obiezione che fanno i Toscani, che non si tratta di una
«lmgua» completa, ma solo di particolarità singole, sulle quali anzi non
w è a fi C ° rd ° tra 1 y an Antitoscani: questa pretesa lingua, obietta il
pare < ?£ e chiainar Cortigiano si deggia, quanto il
odorifero delle sagrifìcate vittime, sagrificata carne chiamar si
deve» (Risposta alla Epistola del TYissino, c. 5 a).
I tratti che accomunano queste teorie sono l’aspirazione a una
lingua comune svincolata dalla dipendenza dal toscano e fondata sulla
letteratura; ciascuno scrittore avrebbe potuto e dovuto formarsela a
proprio modo, con una libera scelta della propria elocuzione.
A queste tesi variamente eclettiche si opponevano i Toscani, e in
94 Similmente nell’Arte poetica (c. 70):
Siccome a’ Greci, e siccome a’ Latini
nascer assai non fu greci o latini,
cosi non basta il nascimento tosco.
La beltà, la nettezza della lingua ~
si conserva tra i libri, © da* scrittori
scriver s impara, e non da volgo errante.
320
Stona della lingua italiana
particolar modo i Fiorentini, su cui ci dobbiamo ora soffermare. Le
discussioni sulla lingua, che certo si erano fatte a Firenze anche nel
Trecento e nel Quattrocento, furono rinfocolate dalla scoperta trissi-
niana del De vulgati eloquentia : il ricordo delle conversazioni tenute
negli Orti Oricellari a proposito del trattatello rimase vivo per decenni
e fu raccolto dal Gelli e dal Varchi.
Fu allora (probabilmente nell’autunno del 15 14)® 5 che il Machiavelli
dovette prender la penna e scrivere quel suo Discorso ovvero dialogo in
cui si esamina se la lingua in cui scrissero Dante, il Boccaccio e il
Petrarca si debba chiamare italiana o fiorentina. Egli viene discutendo a
favore della fiorentinità della lingua contro quelli «meno inonesti» che
vogliono che sia toscana e quelli «inonestissimi» che la chiamano
italiana. Bisogna confrontare, egli dice, la lingua di Dante, di Petrarca
e del Boccaccio con quella di tutti i luoghi d’Italia; per semplicità si
potrà tener conto solo delle «provincie», cioè Lombardia, Romagna,
Toscana, terra di Roma e regno di Napoli. Se si tien conto, come è
necessario, anche della «pronunzia», delle «circumstanze», delle paro-
le, e si confrontano gli scritti delle tre corone con «qualche scrittura
mera fiorentina o lombarda o d’altra provincia d’Italia, dove non sia
arte, ma natura» (per Firenze il Machiavelli prende il Pulci), si vedrà
che hanno scritto in fiorentino. Qui s’innesta il dialogo in cui Niccolò
prende a tu per tu Dante, e con buoni argomenti misti a cavilli
avvocateschi fa che il poeta riconosca d’aver torto.
Non v’è lingua, continua il Machiavelli, che sia semplice, tutte sono
miste-, ciò che più conta è la capacità di poter assorbire bene le parole
forestiere:
— quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha
accattati da altri, nell’uso suo, ed è sì potente, che i vocaboli accattati non la
disordinano, ma ella disordina loro; perché quello ch’ella reca da altri, lo tira a sé
in modo che par suo.
Quindi anche un certo numero di parole prese da altre fonti non
impediscono che si continui a dare lo stesso nome a una lingua, purché
rimangano intatte le caratteristiche fonetiche e morfologiche:
tu [Dante!, che hai messo ne’ tuoi scritti venti legioni di vocaboli fiorentini, ed usi i
casi, i tempi e i modi e le desinenze fiorentine, vuoi che li vocaboli awentizii
facciano mutar la lingua?
Se si considera poi il parlare delle varie corti, si vedrà che è molto
vario e mutevole. Il Machiavelli nota che gran parte della comunanza
di lingua che a suo tempo già esisteva fra gli Italiani colti era dovuta al
fatto che nelle varie regioni si era diffuso il culto dei tre grandi
trecentisti, e «molti vocaboli nostri sono stati imparati da molti
85 P. Rajna, «La data del Dialogo intorno alla lingua di N. Machiavelli», in
Rend. Acc. Lincei, s. 5 a , II, 1893, pp. 203-222.
Il Cinquecento
321
ed osservati ^ loro, talché di propri nostri son diventati
P ?- L n ° n T ? x scani affrontino generi letterari in cui manchi-
no modelli antichi, com è specialmente la commedia, debbono ricorrere
al toscano se non vogliono fare troppo sgradevoli miscele come
dafia nrim°« lta h su . ccess ? all’Ariosto nei Supposta 01 Machiavèlli cita
dalla prima redazione, m prosa). Se si vedono ora «assai Ferraresi
7c entim e Veneziani che scrivono bene» (Fautore alludè
al Sannazzaro al Tnssmo, al Bembo), ciò si deve al fatto
che Dante, il Petrarca e il Boccaccio hanno scritto prima di loro e così
nelle vane regioni si è dimenticata la «naturale barbaria».
Se lasciamo da parte le argomentazioni contro Dante, vivaci ma
cavillose, lo scritto del Machiavelli è ricco di spunti notevoli: special-
mente la rivendicazione dell’importanza dei tratti fonetici e morfologi-
, affennazione della capacità delle lingue di riplasmare
strutturalmente le parole avventizie.
. , Un’altra energica difesa della tesi fiorentina è quella di Lodovico
<^? e - 1Ca Ì a ,! a prima parte (cc - 2 a • 8 W della Risposta
(ola del Trissino delle lettere nuovamente aggionte alla lingua
volgar fiorentina (pubblicata a Firenze alla fine del 1525 ). Il Martelli
£re a - quel f- he 41106 U Trissino n eda sua lettera, quando parla di «tre
delle Italiane lingue... ciò è Toscana, Fiorentina et Cortigiana». Sicco-
me «ogni lingua nasce dall’uso di chi parla» (c. 2 b), provi il Trissino a
* D ,? nte 6 del Petrarca ’ 6 veda se «per il FeSSese
ri V nt T’ Ò Genovese od altri simili... cotali scritti sono dalli
volgari huomim di quelli luoghi intesi» (c. 3 a); invece nei «contadi
T 6so f^ et Pertieolarmente di Fiorenza... tutti naturalmente intesi
seranno»: perché pa.tna. cfi una lingua è propriamente quella dove «da
dubita che sSaDanfe QUaM ° <J ° e ™ lgaH il Marteili
n Machiavelli che il Martelli impugnano principalmente la tesi
italiana, mentre considerano insieme fiorentino e toscano
« Fiorentino, delle Toscane pronontie ha fatto ima elettione, et è in
niese^ Nlartem 1 ^^ ia ) lstessa ’ guanto al pregio, che in Grecia l’Athe-
„l come abbiamo già accennato, il Trissino rispondeva
m ® tter } dom bocca di Filippo Strozzi, debitamente virgolati,
parecchi passi del Martelli. 6 ’
Altro autorevole partecipante alla discussione è Claudio Tolomei il
bufiti 1 SUQ1 s1 ^. dl iC 1 pa ^ e Perduti, o rimastici in compendio) vide o
ì^7»fri^L P f reCChie * d « quelle ve P tà che poi la linguistica ottocentesca
scopri per suo conto . Senese, il Tolomei fiancheggia i Fiorentini nel
, . ** h Tolomei scrisse parecchio sulla lingua, ma forse per l’intenzione che ehhe
S C “ e 'T vasta °P e ™ complessiva nèn diede fuori nemmeno ^o s^tto
linguistico con il suo nome: il Polito fu edito sotto altro nome, ”o“ua
322
Storia della lingua italiana
combattere la tesi arcaizzante e quella cortigiano-italiana, ma quando
si tratta di scegliere tra la formulazione «fiorentina» e quella «tosca-
na», sta per la seconda.
Nel Polito, scritto dal Tolomei e pubblicato nel 1525 sotto il nome di
Adriano Franci, si tratta delle nuove lettere trissiniane, e non si discute
del tipo della lingua né del suo nome: vi si parla però spesso di
«Toscana lingua», «Toscane parole», «Toscana eloquentia».
Invece la questione è affrontata in pieno nel dialogo II Cesano,
scritto nella seconda metà del 1527 oppure nel 1528, e pubblicato nel
1555 97 . Il Tolomei finge di riferire un dialogo tenuto alla mensa del
cardinale Ippolito de’ Medici, fra l’aprile e il settembre del 1525 (infatti
vi si sollecita la pubblicazione delle Prose del Bembo). Veramente, più
che un dialogo, lo scritto è una serie di cinque discorsi successivamente
tenuti dal Bembo, dal Trissino, da Baldassarre Castiglione, da Alessan-
dro de’ Pazzi e da Gabriele Cesano (amico e portavoce del Tolomei). Il
Bembo difende il nome di volgare. Il Trissino, meravigliandosi che
questa difesa sia fatta proprio da lui («chi fu mai tra’ nobili spiriti, che
cercasse tanto dal volgo allontanarsi, quanto il Bembo?»), sostiene che
si debba parlare d 'italiano o di lingua di sì. Il Castiglione è. fatto
portavoce del nome di lingua cortigiana, richiamandosi a Dante.
Alessandro de’ Pazzi fa appello al riscontro con la lingua parlata,
perché la lingua letteraria fuori della Toscana è avventizia, e in
Toscana stessa ha principal sede a Firenze («ella in Fiorenza è nata, ivi
ha fatto il nido suo, ivi è nutrita, ivi cresciuta, ivi si parla, ivi s’usa
perfettamente »).
Il Tolomei tratta poi, per bocca del Cesano, della natura del
linguaggio, della funzione dell’uso, della formazione «della toscana
nostra» che ritiene «assai» del latino, «un poco» dell’etrusco, e «parte»
delle lingue dei barbari invasori 98 . In queste pagine, il Tolomei risponde
a coloro che ritengono il toscano null’altro che la latina lingua corrotta,
e come egli faccia merito al toscano di alcune peculiarità, quale
l’articolo. Detto della natura del toscano, si viene a parlare della sua
«escellenza». Poi il Cesano toma alla discussione sul nome, risponden-
do agli argomenti di ciascuno dei predecessori. La parte più interessan-
te della discussione è quella rivolta ad Alessandro de’ Pazzi. Il Cesano
(che è di Pisa e parla per il Tolomei senese) vuole che tutti i Toscani
amorevolmente godano con i Fiorentini la gloria e il pregio della
saputa. Dei materiali rimasti inediti alla sua morte si valse largamente (anzi
troppo largamente) Celso Cittadini.
97 Cfr. Rajna, «Quando fu composto il Cesano?», in Rassegna, XXV, 1917, pp.
107-137.
98 Probabilmente, il lungo escorso intorno alla lingua in generale e ai pregi
del toscano risulta da un’inserzione nel dialogo di materiali tolti dal primo libro
di un'opera De l'escellenz a de la lingua toscana, che il Tolomei aveva cominciata,
di cui perdette il secondo libro durante il sacco di Roma, e che a più riprese ebbe
l’intenzione di completare.
Il Cinquecento
323
lingua. Riconosce si, parlando della lingua del Boccaccio, che
fSSSSSS
assunto e C ° n -° d l certe Piccole differenze come tra
ggiunto e aggionto, bramarei o bramerei -. tanto più che se no <:i
anche ” volgari fiorentino, “oS?i SJSJ
t vo dargnene buona parte, sta sera, eco. Del resto anche Dante e il
coSl^^ì.5^ SS 1 *' 0 parote tosc '*‘ , e * Unsua toscana -
secato ^P^ante, Perché l’autore (che nel suo
^ 14 fra le conoscenze linguistiche le quali solo con
1 Ottocento dovevano affermarsi) tien conto che una lingua esiste
poscia li siritSri d che? lgenZe letterari 1 e («Prima certo sono le parole,
’ h ' B ® magnano quelle con destrezza ed eleganza
riconosca eh?!?' non fi»™’- V° 4 ? aeUi) ’ benché - naturalmente,
ZSmn Lr fia mai. ch’una lingua abbia splendore, se ella
(pp^63 DaeUit d qU6St ° CtUar ° ® quasi eterno sole deUe scritture»
La tesi «fiorentina» è sostenuta con ardore, verso la metà del se-
V^ S^PP®** 0 di studiosi, Giovan Battista Gelli, Pierfrance-
f« n G ^ bldlan : Ca ri° Lenzoni, Benedetto Varchi 99 : quelli ai quah nel
^^tSa Fl ° rentina aveva dato l’incarico q di scrivere i£a
• ..Francesco Giambullari (autore di un’opera dedicata al Gelli e
per ^ ld Il ~ Gell °' 1546 > dov e espone la sua bizzarra idea deila
discendenza dei fiorentino dall’etrusco e di questo dall’arameo) nel
CosiiSo il suo^r a S C ^f t0 n don Francesco de’ Medici, primogenito di
cosuno, il suo trattatello De la lingua che si parla e scrive in Firenze
H™ó , f 51 B Stil r ftor ' , ' che è la &■»» sSSL’ScaTS
a utore toscano dopo le Regole quattrocentesche.
tn w “ a4tateUo è accompagnato da un Ragionamento sopra le difflcol-
foZt Tri? F g °^ la .^ tr , a lin Z ua ’ scritto da Giovan Battista Celli
^ * GeUÌ SteSS ° 6 Cosimo Bartoli > e dedicato al
a sono differenze tra una città e l’altra di Toscana e susciterebbe
grande invidia cavar le regole solo da Firenze «non ci èssendo cùtaSe
195e” pp F mS£.‘ P ' GiambuUari e la riforma dell’alfabeto», in St. filai, ital., XIV,
324
Storia della lingua italiana
Il Cinquecento
325
alcuna che signoreggi tutta Toscana», e peggio ancora «fare un
composito di tutte quante». I «forestieri» non contano, e male han fatto
quei Toscani che hanno accettato alcune parole abusivamente intro-
dotte da quelli, e che hanno consentito a chiamarla lingua italiana.
Bisognerebbe considerar la lingua nel suo culmine, e mentre alcuni,
specialmente non Toscani, ritengono a torto che essa abbia toccato il
suo massimo nel Trecento, il Gelli e il Bartoli sono d’accordo nel
pensare che «è molto più bella universalmente, che ella non era nei
tempi loro», giacché «e la è viva e va all’insù». Se un’accademia è bene
che non s’incarichi ufficialmente dello spinoso lavoro del fissare le
regole, può farlo benissimo un privato, come appunto il Giambullari 100 .
Carlo Lenzoni compose ima Difesa della lingua fiorentina (pubblica-
ta postuma nel 1556 da Cosimo Bartoli, dopo che il Giambullari se ne
era preso l’incarico, ed anche lui era morto).
Nella Prima giornata dell’opera, partecipano al dialogo il Lenzoni, il
Giambullari, il Gelli, Cosimo Bartoli e un gentiluomo forestiero che
^desidera consigli, e la discussione si svolge principalmente fra il Celli e
10 straniero, il signor Licenziado; le idee sostenute sono infatti vicinissi-
me a quelle esposte dal Gelli nei suoi scritti.
Echi dei colloqui tenuti intorno al 1550 in Firenze, con argomenta-
zioni ed esempi simili a quelli del Gelli e dei suoi amici, troviamo anche
nei Marmi del Doni (1553): curiose le tre lettere scritte una «in toscano»,
una «in lingua volgare», una «in lingua italiana», lette da uno dei
dialoganti (libro I, ragion. 8, disc. 4): quella in toscano è simile per
lingua e per tono allo scrivere consueto del Doni, quella «italiana»
è mescolata di dialettalismi (altrove nei Marmi egli disapprova que-
sto «italiano» che consiste nell’usare «una parola orvietana, l’altra pu-
gliese, l’altra calabrese»), quella «volgare» è in stile ricercato e boc-
caccevole.
Fautore della tesi fiorentina, ma con significativi accostamenti
«tattici» alla tesi del Bembo, è YHercolano del Varchi, terminato nel
1564 e pubblicato postumo (nel 1570). Il dialogo si riferisce principal-
mente alla questione della lingua, e di scorcio alla disputa fra il Caro e
11 Castelvetro a proposito della canzone «Venite all’ombra de’ gran
gigli d’oro» (disputa che solo in piccola parte riguarda la lingua, e su
cui perciò non ci soffermeremo).
Insieme con la tesi della fiorentinità, il Varchi vi discute parecchi
argomenti di filosofia del linguaggio (tutta una prima serie di quesiti è
dedicata agli argomenti affacciati da Dante nel De vulgati eloquentia ),
e l’esposizione è piuttosto farraginosa e pesante. Il Varchi definisce la
100 Le idee del Gelli sono ribadite altrove nei suoi scritti: così nella lettera del
15 novembre 1551 a Bartolomeo Tolomei (Opere, Firenze 1855, pp. 445-446) e nei
Capricci del Bottaio, dove il Gelli afferma che solo i Fiorentini scrivono con
bellezza e con grazia: il Martelli ha dimostrato molto bene che la lingua è
«fiorentina propria», e che «chi non è nato ed allevato in Firenze, non la impara
perfettamente» (ivi, pp. 200-201).
lingua: «un favellare d uno o più popoli, il quale o i quali usano, nello
sprimere ì loro concetti, i medesimi vocaboli nelle medesime significa-
zioni, e co medesimi accidenti» (p. 87 dell’ed. Venezia, Giunti, 1570), e
giustamente dà parecchia importanza alle particolarità fonologiche e
morfologiche («accidenti»). Essenziale per le lingue è che esse siano
parlate:
lo scrivere non è della sostanza delle lingue, ma cosa accidentale perché la
propria, e vera natura delle lingue è, che si favellino, e non che si scrivano, e
qualunque lingua che si favellasse, ancora che non si scrivesse, sarebbe lingua a
ogni modo (p. 91).
Quindi «ima favella la quale non habbia scrittori, si può, anzi si dee,
solo che sia in uso, chiamar lingua» (p. 101): prova ne sia il basco («là
favella biscaina»); è vero tuttavia che non sarà «lingua nobile».
Venendo a cercare in Firenze il modello della lingua, egli distingue
quattro strati: i letterati, i non idioti (che possono essere anche nobili e
ricchi, ma non hanno studi di greco e di latino), gli idioti, e infine
«1 infima plebe e la feccia del popolazzo», e ritiene «vero, e buono uso
principalmente quello de’ letterati, e secondariamente quello de’ non
180). Egli non ritiene possibile che uno possa, scrivere
perfettamente una lingua viva senza averla imparata da coloro che
1 hanno ricevuta per natura - almeno fino a tanto che in quella ling ua
non si sia scritto di tutti gli argomenti (p. 182). Quanto all’«oppinione di
coloro, ì quali tengono, che così si debba scrivere a punto come si
favella», è «manifestamente falsissima» (p. 186).
. 1uòS° capitolo è destinato ai pregi che si possono attribuire alle
lingue (ricchezza, bellezza, dolcezza, nobiltà, gravità, onestà), e al
confronto del toscano con il latino e il greco.
A coronamento dell’opera, si viene a discutere l’argomento che fin
dal principio (p. 21) il Varchi aveva annunziato (dicendo però che
conveniva chiarire prima «molte e diverse cose intorno alle lingue»), e
cioè «se la lingua volgare, cioè quella con la quale favellarono e nella
quale scrissero Dante, il Petrarca e il Boccaccio si debba chiamare
Italiana, o Toscana, o Fiorentina». Il ragionamento è del solito tipo
scolastico, e non manca il tradizionale confronto con il nome delle
persone: «chi la chiama Fiorentina, la chiama Cesare, chi Toscana
huomo, chi Italiana animale: il primo la considera come individuo, il
secondo come spezie, e il terzo come genere» (p. 258): quindi, secondo il
Varchi, ha ragione il primo. Il De Vulgati eloquentia è respinto come
probabilmente spurio, e al Trissino è opposto con lodi il Martelli.
* Qua e là per tutto il libro il Varchi coglie le occasioni per elencare
numerose serie di sinonimi e modi di dire fiorentini: per es. le pp. 39-86
sono dedicate alla sinonimia dei vocaboli che si riferiscono al parlare.
Lo scopo che egli si prefigge è di mostrare la ricchezza della lingua e
specialmente del fiorentino parlato. Ma benché il Varchi si debba
collocare tra i fiorentimsti, la sua posizione è notevolmente diversa da
326 Storia della lingua italiana
quella del Machiavelli e del Martelli. E la ragione sta principalmente in
questo: che nei quarant’anni trascorsi tra il Bembo e il Varchi 1 ietterati
fiorentini hanno largamente accolto la codificazione bembesca, hann
accettato fi principio che entro l’uso fiorentino così ampio e variato è
necessario operare una scelta, secondo i modelli scritti del Trecento e
la schematizzazione che i grammatici ne hanno fatta e ne stanno
faC Basta vedere le calde lodi che il Varchi fa del Bembo come scrittore
e come storico; persino a proposito di quella frase che aveva desta o
tanto scandalo tra i fautori del fiorentino moderno, che non era cioè di
giovamento l’esser nato fiorentino, il Varchi si sforza di scagionare d
Bembo: non, s’intende, accettando il giudizio, ma riferendolo alle
condizioni di quarant’anni prima. , q1
Anche la divisione dei Fiorentini in quattro strati, abbozzata dal
Varchi è in servigio del compromesso che si sta . dehneando: 1
Fiorentini colti sono quelli che sanno di latino e di greco, e che hanno
accettato la codificazione grammaticale. E il Varchi mette bega, in
chiaro che non chiede affatto che si scriva come si parla: vuol soio che
si serbino i contatti con i «non idioti», con la lingua parlata dalla
b ° r Ipha^n > tutta la vita sociale italiana aria di conformismo, politico,
religioso, culturale: e non meno che altrove a Firenze, sotto Cosimo I,
Francesco I, Ferdinando I. Abbondano gli storici, gli eruditi, 1 gramma-
tici, mancano gli scrittori di primo piano. Tutto questocontnbuiscea
spiegare come i Fiorentini cólti sostanzialmente s accostino alla formu-
lazione bembesca. Parlando di fiorentino o di toscano s intende ormai
principalmente la lingua dei grandi trecentisti, e solo m via accessona
il fiorentino o il toscano parlato 101 . . ,
Contribuirono specialmente al prevalere del fiorentino arcaizzante
Leonardo Salviati e l’Accademia della Crusca. .
Il Salviati già nel 1564 aveva scritto un 'Orazione in lode della
fiorentina lingua, in cui sono grandi lodi per la lingua del Boccaccio e
biasimi per quelli che «maremmanamente parlando* pretendono che
la lingua del Boccaccio sia «così loro come nostra». Egli ntiene che ^per
«la dolcezza incomparabile» del fiorentino e la «dilettazione* che tu
l’Italia ne prende, in breve esso si divulgherà anche senza che vi
contribuisca l’«imperio».
101 Si ricordi che intanto, con l’annessione di Siena ^ 555 ), lo Stato fiorentino è
divenuti Stato toscano, e Cosimo 1 ha ottenuto nel 1569 il titolo di Granduca di
Toscana- quindi i motivi politici favoriscono la divulgazione del termine toscano,
che salva meglio l’amor proprio dei Toscani non fiorentini (secondo 1 argomenta-
zfoneiel Tolomei), mentire i Fiorentini tendono a interpretarlo come«ilbnguag-
«rio narlato in tutto lo Stato, di cui il fiorentino è la varietà migliore». Il Granduca,
scrivendo al Consolo dell’ Accademia Fiorentina il 2 gennaio 1572, parìa di«regoie
deil^Ungua toscana» e di «parlar fiorentino ». Nel 1589, Diomede Borghesi è
nominatola 1 copnre nello studio di Siena una cattedra di lingua toscana.
Il Cinquecento
327
Molto studio dedicò il Salviati al testo e alla lingua del Decamerone,
in occasione della famigerata «rassettatura». Nel 1573 i «Deputati»
avevano preparato un’edizione dell’opera del Boccaccio, espurgata per
ciò che concerneva la morale e la religione; né si erano potuti evitare
troppo energici tagli. Alla cattiva accoglienza fatta all’edizione, il
Granduca cercò di rimediare, con il consenso di Sisto V, incaricando il
Salviati di medicare le ferite troppo profonde inferte all’opera; e la
nuova edizione uscì nel 1582.
Gli studi filologici e le osservazioni grammaticali del Salviati sono
esposti nei due volumi Degli Avvertimenti della lingua sopra ’l Decame-
rone CVenezia 1584; Firenze 1586; il terzo volume, che doveva completar
l’opera, non fu mai scritto). Il Salviati discute, principalmente nel
secondo libro del primo volume, i criteri dell’uso e la necessità dellq,
grammatica. L’ideale del Salviati è la lingua del Trecento, «il buon
secolo»: essa da allora è decaduta, specialmente per il troppo latineg-
giare; la lingua scritta ha ricominciato a migliorare dacché il Bembo e
il Casa si sono affisati nei classici, mentre «piccol racquisto» s’è fatto
«nell’opera del favellar domestico». Chi vuole scrivere per le età che
verranno, deve proporsi di imitare la pura e dolce e leggiadra lingua
del Trecento, e malissimo fanno quei segretari che si attengono allo
sconcio uso corrente.
Il Salviati annunziava negli Avvertimenti (I, p. 129) il suo proposito
di compilare un vocabolario-, nel 1589 egli morì senza lasciare quest’o-
pera, ma presto si accinse a darla l’Accademia della Crusca.
Un po’ diversa era la posizione di Bernardo Davanzati, che,
osservando la differenza tra la lingua fiorentina viva e «quella comune
italiana che non si favella, ma s’impara come le lingue morte in tre
scrittóri fiorentini, che non han potuto dire ogni cosa» Getterà a B.
Valori, 20 maggio 1599) 102 e riconoscendo che «in quella italiana molti
grandi hanno scritto mirabilmente», trovava tuttavia che «avrebber
superato sé stessi, se avessero scritto in questa fiorentina come quei
tre», e rivendicava a sé il diritto di scrivere in fiorentino «senza tagliare
i nerbi alla lingua, che sono le proprietà», cioè le locuzioni vivacemente
espressive. In ima lettera al senese Belisario Bulgarini, egli professa
«ch’ogni patria debba scrivere come ella favella, e favellare come
usano i nobili, quantunque forse men bene che un’altra» (27 luglio
1602) 103 .
I filologi senesi, dietro l’insigne esempio del loro maggior rappresen-
tante, il Tolomei, professavano in genere la tesi della lingua toscana:
così Diomede Borghesi e Celso Cittadini, l’uno dopo l’altro lettori di
lingua toscana nello Studio senese. Orazio Lombardelli bilanciava i
meriti delle due città, e concludeva che «a voler dir lingua Toscana
perfetta, si dee dir, come si dice in Fiorenza per proverbio, Lingua
102 Opere, Firenze 1853, I, pp. lxxiv-lxxv.
103 II, p. 546 dell’ed. citata.
328
Storia della lingua italiana
Fiorentina in bocca Sanese» 104 . Un guizzo di vivace campanilismo si ha
invece in Scipione Bargagli (Il Turammo, Siena 1602), secondato da
Adriano Politi e Belisario Bulgarini: ma avremo occasione di parlarne
nel cap. IX.
Nei frontispizi di molte opere (specialmente delle traduzioni, dove è
necessario dire in che lingua si traduce) troviamo spesso indicata la
lingua con un nome che in qualche modo manifesta le opinioni
dell’autore e dell’editore. Il nome più frequente è quello di volgare,
lingua volgare, volgar lingua, non di rado accompagnato da epiteti
complementari (nostra vulgare, lìngua volgare toscana, lingua vulgare
fiorentina) o laudativi (buona lingua volgare, vulgare elegantissimo ).
Alcuni altri preferiscono questa lingua o lingua materna. Parecchi
parlano di toscano, lingua toscana, lingua fosca, thosco idioma . e si
tratta sia di Toscani sia di non Toscani fautori della lingua trecentesca
(per es. il Libumio). Rara è l’affermazione di lingua fiorentina e di
lingua senese-, e anche piuttosto raro lingua italiana, lingua regolata
italiana 105 .
9. Grammatici e lessicografi
D fiorire dell’umanesimo volgare faceva sentire la necessità di poter
disporre anche per il volgare di regole precise 100 . Le Regole della lingua
fiorentina rimasero manoscritte fino ai nostri giorni e quindi ebbero
un’influenza insignificante. I p rimi grammatici furono veneti: mentre
Pietro Bembo indugiava a presentare al pubblico le sue Prose della
volgar lingua (che uscirono solo nel 1525), Gian Francesco Fortunio (un
uomo di legge di origine dalmata, vissuto a lungo a Pordenone)
chiedeva nel 1509 un privilegio al Senato di Venezia per pubblicare un
libretto di «regule grammaticale di la tersa vulgar lingua, cum le sue
ellegantie et hortografia», e nel 1516 pubblicava ad Ancona le Regole
grammaticali della volgar lingua, molte volte poi ristampate negli anni
successivi. L’operetta consta di due libri soltanto, che considerano «il
variar delle voci» (morfologia) e «l’orthographia»: l’autore non pubblicò
mai gli altri tre libri che prometteva, e che dovevano trattare «delli più
riposti vocaboli, della construttione varia delli verbi, della volgar arte
metrica». Il Fortunio si attiene al modello dei grammatici latini,
specialmente di Piisciano, anche per la terminologia, e fonda l’esempli-
ficazione sui tre grandi trecentisti. Le pagine sull’ortografia curano
1M I Fonti toscani, Firenze 1598, p. 29.
105 Ma si vede che questa espressione guadagna terreno: mentre don Pietro
da Lucca delle proprie Regole della vita spirituale aveva detto 0538) che erano «in
lingua materna, e toscana», l’editore di Venezia 1592 affermava che erano in
«lingua italiana» flM. Regali!, Dialogo del Fosso di Lucca e del Serchio, Lucca 1710,
p. 56).
108 Le sommarie indicazioni di questo paragrafo si potranno approfondire per
mezzo di Trabalza, Storia gramm. e di Kukenheim, Contributions.
Il Cinquecento
329
particolarmente di istruire il lettore sulla scrittura semplice o geminata
m0lt0 Senttta dal «tlOtBl
Nelle Prose della volgar lingua del Bembo (1525) la Darte niù
propriamente grammaticale è contenuta nel terzo libro; ed è Sempre S
01 U ^ la reto ? ca e * una Poetica fondate sull’imitazione Come
vSJlh? 1 in S ^I ere ele ? a . ntam f. nte latino imita Cicerone in prosa e
Virgilio in poesia, cosi m italiano si dovranno seguire soprattutto il
Boccaccio in prosa e il Petrarca in poesia. Ma l’esemplificarione non è
limitata a questi due scrittori: spesso è citato Dante, anche se non
sempre con lode; non di rado Guittone e altri duecentisti I tenSS
grammaticali, conforme al tono discorsivo che il dialogo porta con sé
meTo 1 tSc/l -™ 1 r^’ 6 Spesso sostltuit i da indicazioni! di apparenza
iMmSiriSf 1 CU ? m . t °’ per esem P io < è chiamato voce senza termine
^ pendente tem P°- Del verbo il Bembo ammette quattro
maniere, cioè «coniugazioni», come in latino.
L effetto prodotto gialle Prose del Bembo, come abbiamo già accen-
nato, fu grandissimo: molti letterati si posero a seguirne le norme e
rn 0n ^ armUatlC1 a r° mpiiare manuali conformi ai suoi principi! Tali
, per esempio. Le Tre Fontane di Nicolò Libumio (1526) che
contengono elenchi di voci ricavate dai tre grandi fiorentini mescolate
con osservazioni grammaticali e retoriche ' mescolate
«ricini 29 i i^ rissil \? (che S* 0, nel 1524 > entrando in lizza per la riforma
ortografica, diceva di avere da «molti anni» pronta una grammatica)
la Gr ^mmatichetta, che (salvo l’applicazione dei principii
£5S£Ì? defi’autore) è sostanzialmente descrittiva e fondate S
NeU medesim ° il Trissino pubblicava i Dubbiigram-
mancali, dove si tratta principalmente di questioni ortografici
n P pp«S°’ com ?.~ sl vede - era all’avanguardia nel manifestare la
necessità duna codificazione grammaticale della lingua, e nel provve-
vS^r^lVAth^en^Sf^ “ e f idi ? nale usciva nel 1533 la Grammatica
^tl^^^Antomo Ateneo Carlino), contenente solo il
h * Del Nome * : a fondamento del suo canone stanno
il petrarca, il Sannazzaro e gli Asolani del Bembo 107
Alla metà del secolo i trattati si moltiplicano (Jacomo Gabriele
Regole grammaticali, Venezia 1545; Rinaldo Corso Fondamenti del
fire^a*Vene°’ Xt*n? a 15 , 49; Lodovico Dolc e, Osservàtioni nella volgar
lingua, Venezia 15501, e solo allora troviamo la prima grammatica d’un
frattato de?r^Slu De a v,J, ngUa Che si parla e scrive in Firenze. Nel
trattato del Giambullan, pubbhcato, come s’è detto (p. 323) nel 1551-52
troviamo parecchie innovazioni terminologiche. Anche il Giambullari
chiama pendente l’imperfetto; dimostrativo l’indicativo ecc • egli conia
tutta una serie di numi nuovi per sostituire i nomi SecTdeUe %Se
sa^.’s £■£ •iàsr"*" laMni sui
330 Storia della lingua italiana
grammaticali (non ancora, al tempo suo, entrati nell’uso): aggiugnin-
nanzi (prostesi), aggiugninmezo (epentesi), lev’innanzi (aferesi), ecc. Fra
i numerosi trattati della seconda metà del secolo va ricordata l’ampia e
farraginosa compilazione grammaticale-retorica di G. Ruscelli, De’
commentarli della lingua italiana libri sette, Venezia 1581.
Il problema più grave di fronte a cui i grammatici si trovano è la
difficoltà di formulare in regole brevi, chiare, facilmente accessibili, un
uso molto oscillante, siaper l’intrinseco carattere della lingua, sia per il
mancato consflnsn nel riconoscere una norma unica. In molti casi i
grammatici finiscono con lo scegliere l’una o l’altra delle forme in lotta,
restringendo così la gamma delle opzioni: e la scelta cade per lo più
sulle forme arcaizzanti. Ma specialmente quando si tratta di gramma-
tici non toscani, non mancano di suscitare il malcontento di quelli che
si ritengono i soli legittimi depositari del buon uso 108 . Tuttavia agisce
fortemente la spinta «per ridur con le ragioni e con l’autorità gli
studiosi à seguire il meglio, e così parimente la lingua ad unione» 109 .
In alcuni studiosi, l’interesse per i problemi grammaticali s’inserisce
in più vasti e ricchi interessi filologici. Già conosciamo l’ampiezza
d’orizzonte di Claudio Tolomei 110 . Anche gli scritti del Castelvetro
(Giunta fatta al ragionamento degli articoli et de verbi di M. Pietro
Bembo, Modena 1563; Correttione d‘ alcune cose nel Dialogo di B. Varchi,
et una giunta ecc., Basilea 1572), malgrado le sottigliezze e i cavilli,
mostrano acume e vastità d’inieressi.
In occasione della revisione ecclesiastica del Boccaccio, parecchi
studiosi fiorentini avevano approfondito filologicamente le ricerche
intorno alla lingua trecentesca. Importanti osservazioni sono contenu-
te nelle Annotationi et discorsi sopra alcuni luoghi del Decameron fatte
dalli... Deputati sopra la correttione (Firenze 1574), dovute alla penna di
Vincenzio Borghini, il «priore degli Innocenti», che le poche opere
pubblicate e i copiosi appunti inediti ci fanno conoscere come studioso
competentissimo della lingua trecentesca 111 . Non meno importanti sono
108 p er c itar solo qualche esempio fra molti, N. Granucci nel suo Specchio di
virtù (Lucca 1556) si lagna «delle regole e osservazioni, uscite allora intorno alla
lingua quasi che fosse non più lingua dal nativo terreno data alla provincia-, ma
una scienza fatta con arte dagli huomini»; il Borghini rimprovera ai grammatici
non toscani di appigliarsi all’analogia quando non conoscono abbastanza l’uso
dei grandi scrittori e dei parlanti odierni: «analogia... è una cotal regola che va
dietro al simile e vuol essere il riparo di chi è straniero in una lingua, o sa poco
della propria natura» L Annotazioni dei Deputati, p. 45 Fanf.); «molto e’ [il Ruscellil
s’appicca all’analogia, che gli è gioco forza, perché e’ non ha l'uso» (Ruscelleide , I,
p. 23), ecc. Nelle Argute e facete lettere (Brescia 1562, p. 165) C. Rao asserisce che «i
Bergamaschi hanno scritto certe regole Toscane e l’hanno mandate ai Fiorentini,
acciò fossero da quegli osservate».
109 Ruscelli, Commentarli, p. 375.
110 II Tolomei si raccomandava agli amici perché gli facessero conoscere testi
antichi, (v. la lettera al Paganelli, 1546, in Lettere, Venezia-1547, c. 206 b).
111 È sua l’edizione del Novellino del 1575, condotta in parte sul codice
Panciatichiano.
Il Cinquecento 331
i già citati Avvertimenti della lingua sopra il Decamerone a opera di L.
Salviati (1584-86), che contribuirono all’orientamento arcaizzante della
nascente Accademia della Crusca.
A Siena, l'insegnamento del Tolomei ha qualche eco in D. Borghesi
(Lettere familiari, 1578-1603), O. Lombardelli (con molte opere, fra cui la
più importante è l’Arte del puntar gli scritti, Siena 1585), C. Cittadini.
A questi interessi filologici (e ad analoghi studi e discussioni
francesi) si ricollegano le prime e ancora barcollanti ricerche etimologi-
che: lasciando stare le bizzarrie per cui andò famoso il nome del
Carafulla 112 e le aberrazioni del Gello del Giambullari, ricordiamo fi
Varchi 113 e Ascanio Persio, nel suo Discorso intorno alla conformità
della lingua Italiana con le più nobili antiche lingue, e principalmente
con la Greca, Venezia 1592.
Le stesse aspirazioni che diedero la spinta alla compilazione delle
grammatiche condussero anche a redigere i primi lessici italiani.
Prescindendo dai repertori latino-italiani, i p rimi vocabolari veri e
propri nascono solo dopo le Prose del Bembo. Abbiamo anzitutto dei
glossari: Le tre fontane (1526) del Liburnio, già ricordate, constano
principalmente di spogli lessicali; un Vocabulario è premesso da
Lucilio (o Lucio) Minerbi alla sua edizione del Decamerone (1535).
Il primo repertorio complessivo è il Vocabulario di cinque mila
vocabuli Toschi, pubblicato a Napoli nel 1536 da un bizzarro letterato,
Fabricio Luna. Vi si leggono errori stranissimi, come quando il Luna!
avendo letto nell’Anosto che i Francesi bevono volentieri vino, rima-
nendo come la lasca all esca (cioè presi come pesci all’amo), non capisce
(perché non conosce quel pesce che si chiama lasca), e tira a indovinare
spiegando «favilla del foco». Così egli scambia l’estro con l’ostro e Deio
con Delfo, e scrive limosina e luterano con l’apostrofo. Ma queste
ultime almeno sono probabilmente sviste del suo tipografo, «Giovanni
Sultzbach alimanno».
Nella seconda metà del Cinquecento si susseguono diverse opere
sempre meglio corrispondenti alle esigenze lessicografiche: quelle di A
Acarisio ( Vocabolario , grammatica, et orthographia della lingua volga-
re, Cento 1543), di F. Alunno (Le osservazioni sopra il Petrarca, Venezia
1538, Le ricchezze della lingua volgare sopra il Boccaccio, Venezia 1543
La Fabbrica del mondo, Venezia 1546-48), di ArCitolini (La Tipocosmia,
Venezia 1561), di G. Mannello (La copia delle parole, in due parti,
Venezia 1562), di G. S. da Montemerlo (Delle Phrasi Toscane, Venezia
1566); più fortunato di tutti, il Memoriale della lingua volgare di G.
Pergamini (Venezia 1601), che si continuò a ristampare anche dopo che
la Crusca ebbe pubblicato il suo vocabolario 114 .
112 F. Ageno, in Lingua nostra, XX, 1959, pp. 1 - 3 .
m h ^?, rrent °' Varchi e gh etimologisti francesi del suo secolo, Milano 1921.
O. Olivieri, «I primi vocabolari italiani», in Studi di filologia italiana VI
1942 pp 64-192, Id„ in Cultura neolatina. III, 1942, pp. 268-275, C. Messi, in Atti Ist.
veneto, CU, 1942-43, pp. 589-620. ’
332 Storia della lingua italiana
Nel terzo decennio del secolo cominciano ad apparire anche i primi
rimari, quello di Pellegrino Moreto o Morato, mantovano, Rimano di
tutte le cadentie di Dante e Petrarca (Venezia 1528), seguito da quelli di
Giovanni Maria Lanfranco (Brescia 1531), di Benedetto Di Falco (Napoli
1535) e poi da quello di Girolamo Ruscelli, il quale occupa gran parte
del suo trattato Del modo di comporre in versi nella lingua italiana
(Venezia 1559) e fu ristampato numerosissime volte nel Cinquecento e
nei secoli seguenti 115 .
L’interesse per i proverbi (che già nei secoli precedenti aveva dato
luogo alla compilazione di serie proverbiali e a illustrazioni di tipo
novellistico, come quella del Comazzano) fa nascere alcune raccolte,
come quella assai ampia del Serdonati, tuttora in gran parte inedita, e
quella del Pescetti (Venezia 1598, più volte ristampata e rifatta).
10. Interventi di autorità. Opera di accademie
L’ordinanza di Villers-Cotteret del 1539, che ebbe tanta importanza
nel promuovere in Francia l’uso del francese in luogo del latino, trovò
per alcuni anni applicazione anche nella Savoia e nelle parti del
Piemonte occupate dai Francesi 11 ®.
Nel 1560 Emanuele Filiberto emana un analogo editto, prescrivendo
che negli affari giuridici e amministrativi non si adoperi più il latino,
ma la lingua volgare, ogni provincia la sua (cioè l’italiano e il francese
secondo le reciproche posizioni) 117 .
Nel 1561 egli precisa con un altro editto che nel ducato di Aosta si
deve usare il francese 118 , e rifiuta di aderire alle richieste di restaurare
l’uso del latino 118 .
I tentativi di influire per una soluzione unitaria della questione
della lingua attraverso interventi consensuali o autoritari restano pii
desideri. Un «concilio della lingua» tentato nel 1525 a Roma dal
Tolomei e dal Firenzuola non potè aver luogo; e nemmeno un secondo
tentativo, fatto nel novembre 1529 dallo stesso Tolomei 120 , in occasione
della presenza a Bologna del Bembo e di ima «selva di gentili ingegni».
Né potevano avere miglior esito le speranze espresse dal Di Falco
nel suo Rimario (Napoli 1535): «Piacesse al cielo... che alcuna romana
segnoria, qual che oggi è la Venetiana, con la consulta de’ dotti
115 O. Olivieri, «I primi rimari italiani», in Lingua nostra. III, 1941, pp. 97-102.
1,8 II Gelli (Ragionamento , cit., p. 22) conosceva l’ordinanza, e lodava Enrico II
di farla osservare.
117 C. Duboin, Raccolta per ordine di materia delle leggi, editti ecc. della Reai
Casa di Savoia, III, i, p. 318.
118 Duboin, cit., V, pp. 844-845 (cfr. Fiorelli, Arch Alto Adige, XLII, 1948, pp. 370-
371).
Fiorelli, ivi, p. 370.
120 Si veda la lettera al Firenzuola, erroneamente datata 8 novembre 1531
nell’edizione 1547 delle Lettere, c. 77 GFlajna, La Rassegna, XXIV, 1916, pp. 1-13).
Il Cinquecento
333
riformasse 1 idioma italiano, e che fosse una sola lingua comune a tutti
e c e generalmente si potesse usare senza biasimo, come n’era una
latma m tutto 1 mondo...».
Vanno qui ricordati i tenaci tentativi di Cosimo I per promuovere lo
studi 0 della lingua e per regolarizzarla. H Davanzati, nell’orazione in
morte del granduca, ne riassume così l’opera: «creò l’Accademia
fiorentina, ottenne da Roma il Boccaccio 121 , chiedeva il Machiavello 122 -
voleva regolar la volgar lingua fiorentina» (II, p. 469 Bindi).
In questa «politica della lingua» Cosimo pensò dunque di valersi
anzitutto di un accademia.
L opera delle Accademie a prò degli studi volgari non va sottovalu-
tata: un indagine minuta mostrerebbe che esse sono state, in molte
città centri importanti di diffusione della letteratura in volgare e
quindi della lingua. 6 ’
v * Sì 1 **"* Ori cellari si erano fatte discussioni sulla lingua, e già
1 Accademia Senese, auspice il Tolomei, aveva avuto l’idea di una
monna dell ortografia. Ora Cosimo pensa di servirsi di una privata
adunanza di dotti ùl Seggio degli Umidi, intorno al Padre Stradino) e di
trasformarla in un organo del suo regime. Con decreto del 23 febbraio
Ì541-42 egli conferisce all’Accademia Fiorentina «autorità onore e
privilegi, gradi salario ed emolumenti» del rettore dello Studio di
(con un suo tribunale e giurisdizione su librai, scolari, ecc.),
alhnché gli Accademici seguitassero «i dotti loro esercizi, interpetran-
o, componendo, e da ogni altra lingua in questa nostra riducen-
T 5 ;;-* - Cosimo voleva che l’Accademia fissasse per iscritto le «regole
della lingua»; il 3 dicembre 1550 essa dà a cinque suoi membri (il
Giambullan, il Gelli, il Lenzoni, il Varchi, il Torelli) l'incarico di
redigerle; il Lasca punzecchiava i riformatori rendendo nota l’aspetta-
tiva del pubblico: F
Sono aspettate con gran sicumera
queste regole vostre dalla gente,
però che in breve tempo ognuno spera
scrivere e favellar correttamente;
e ancora nel 1564 il Salviati, nell 'Orazione in lode della fiorentina
/avelia, le promette («Di qui gli scrittori usciranno, questa Accademia
arà le regole della lingua»); avendo di nuovo il granduca espresso
1 intenzione di far redigere le regole, da leggersi nelle scuole, il Borghini
m una lettera a B. Baldini (28 die. 1571) diede alcuni consigli 124 in
seguito ai quali Cosimo, il 2 gennaio 1572, scrisse al consolo dell’Acca-
m °Ì te ^ n ?» Ì1 ?? nse , 1 ì?° aUa nuova revisione del Decamerone.
uà • - e 11 Machiavelli fosse tolto dall’Indice.
Firen ' 1 5^ 1 ’ ^ ,to J 7l ° a & li “omini illustri dell’Accademia Fiorentina,
F R 17 ?°’ P; XXI; E - Bmdi, prefazione alle Opere del Davanzati, I, p. xvm.
124 Barbi, Propugnatore, n. s., II, 1889, t. n p 37 *
334
Stona della lingua italiana
Il Cinquecento
335
demia di «far intendere» a B. Barbadori, B. Davanzati e G. B. Cini di
compilare le «regole della lingua toscana», man mano conferendo con
V. Borghini e G. B. Adriani, «perciocché pare che la purità del
linguaggio fiorentino sia oggi assai corrotta, e che si vada giornalmen-
te corrompendo, il che non pare sia con onore della città» ,2S . Ma
neanche questa volta il desiderio del granduca fu esaudito.
Grande importanza per la lingua ebbe invece l’Accademia della
Crusca 18 ® Sorta da conversazioni amichevoli, meno compassate di
quelle dell’Accademia Fiorentina, tra le varie occupazioni filologiche
assunse quella che doveva poi diventare la sua principale, la compila-
zione di un grande vocabolario della lingua. Ci sfuggono le date delle
prime riunioni amichevoli della brigata dei Cruscotti, in cui si tenevano
cruscate (termine che, come i sinonimi pappolata, pastocchiata, favata,
voleva dire «discorsi senza capo né coda»); la data della fondazione è
posta dai frammenti di diario del Trito (Piero de’ Bardi) al 1582; ma
importa molto di più la trasformazione avvenuta quando il Salviati
(ammesso nell’ottobre 1583 fra i Crusconi), disse, secondo il citato
diario: «Non più crusconi ci facciamo chiamare, ma Accademici della
Crusca ».
Fu lo stesso Salviati che interpretò in altro senso il nome di crusca-.
«quasi per dire che l’Accademia doveva procedere a una scelta fra il
buono e il cattivo». I primi anni sono dominati dall’attività dell’Infari-
nato (il Salviati): basti ricordare quanto rumore fece la polemica
tassesca da lui condotta. Egli trasfuse nell’Accademia non solo le sue
opinioni sulla lingua (priorità del fiorentino trecentesco), ma anche
l’idea di un’opera alla quale egli si era personalmente accinto e che
non potè condurre a termine, per la morte che lo colse nel 1589: un
vocabolario in cui contava di raccogliere e dichiarare «tutti i vocaboli,
e modi di favellare, i quali abbiam trovati nelle buone scritture, che
fatte furono innanzi all’ anno del 1400» 127 . Il 6 marzo 1591 si discusse
all’Accademia «del modo di fare un vocabolario» e si assegnarono agli
accademici i primi spogli da fare.
Nel 1592 si erano messe insieme circa 1300 voci per la lettera A. Nel
1597 si dibattevano ancora numerosi quesiti tecnici («Se nelle parole
dell’uso si debba citare l’autorità de’ moderni», ecc.); intanto si era
diffusa l’aspettativa per il vocabolario (Lombardelli, I Fonti toscani, p.
61). L’opera uscì in pubblico, come è noto, nel 1612, e avremo occasione
di riparlarne nel cap. IX.
125 R. Galluzzi, Storia del granducato di Toscana, rist. Capolago 1841, III, p. 135.
120 G. B. Zannoni, Storia dell'Accademia della Crusca, Firenze 1845; C. Marcon-
cini, L’Accademia della Crusca dalle origini alla prima edizione del Vocabolario,
Pisa 1910, e l'opuscolo L’Accademia della Crusca, Firenze 1952.
127 Avvertimenti, 1. II. cap. xii.
il. Tentativi di riforme ortografiche
Dei mutamenti dell ortografia, e di qualche singolo perfezionamen-
to penetrato nell uso durante il secolo (ad esempio l’apostrofo e il punto
e virgola) ci occuperemo più oltre (v. § 14). Invece fallirono alcuni
tentativi più massicci d’introdurre segni nuovi per rendere l’alfabeto
latino più adatto alle necessità fonologiche dell’italiano.
Giangiorgio Trissino si accinse con fervore all’impresa, mirando a
perfezionare 1 ortografia italiana in tre punti: la distinzione tra le
vocali e ed o aperte e quelle chiuse; la distinzione tra i ed u con valore
di vocale e con valore di consonante 128 ; la distinzione tra z sorda e
quella sonora. Per la prima differenza ricorreva alle lettere greche e ed
w; per le altre alle varianti già esistenti nella scrittura (/, v, gì.
Rinunziava invece, per il momento, a distinguere la s sorda da quella
sonora 129 .
Con queste innovazioni il Trissino fece stampare tra il maggio e il
luglio 1524 la, Canzone a Clemente VII, e la Sophonisba-, e poi nel
novembre l’Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua
italiana, che è il manifesto dell’ortografia riformata.
Negli altri punti, l’ortografia del Trissino è in complesso piuttosto
conservatrice. Egh mantiene la h etimologica, pur essendo persuaso
della sua inutilità funzionale, mantiene la x e parecchi gruppi conso-
nantici nei latinismi ancor riconoscibili come tali, e anche y th ph nei
grecismi. Conserva anche, in questa edizione, la ti etimologica e scrive
pronuntia, innovatione, ecc. Del doppio suono, velare e palatale, di c e g
non si preoccupa, e continua a scrivere eia ce ci ciò ciu, ca che chi co cu,
e similmente per la g. Anche per gl, gn, se non ci sono proposte di
innovazione.
Già della riforma trissiniana si era cominciato a discutere fin dalla
primavera di quell’anno 130 ; ma la bufera si scatenò subito dopo la
pubblicazione dell’Epistola, con il Discacciamento delle nuove lettere del
Firenzuola (1524), con la Risposta alla Epistola del Trissino del Martelli
(1524) e col Polito del Tolomei, uscito (1525) sotto il nome di un
giovanetto senese, Adriano Franci 131 . Contro la riforma trissiniana
moveva l’anno dopo (1526) anche Nicolò Libumio, in un breve dialogo
in fine a Le tre fontane.
Unico sostenitore della dottrina del Trissino, e non molto valido né
per forza di argomenti né per nitore di stile, fu il perugino Vincenzo
128 Come abbiamo visto nel cap. VII, già L. B. Alberti aveva distinto la v dalla
u proponendo, nel De cifra, di scriverla hasta inflexa, e il Nebrija nella Gramatica
de la lengua castellana (1492) aveva applicato anche praticamente la distinzione
128 Rajna, La Rassegna, XXIV, 1916, pp. 257-262, Migliorini, Lingua nostra, XI '
1950, pp. 77-81.
130 V. la lettera di Alessandro de’ Pazzi a F. Vettori, riportata nei due articoli
citati.
131 Rajna, La Rassegna, XXIV, 1916, pp. 350-361.
336 Storia della lingua italiana
Oreadini, in una lettera latina diretta al suo concittadino Tommaso
Severo degli Alfani (Perugia 1525) 132 . ..
Il Trissino non fu minim amente scosso dall eco sfavorevole suscita-
ta tanto che negli ultimi mesi del 1528 e nei primi del 1529 ricominciò a
pubblicare i propri scritti, per i tipi di Tolomeo Gianicolo (un bresciano
stabilito a Vicenza), con alcune ulteriori innovazioni.
Solo l’Epistola fu ristampata dal Gianicolo con ì caratten della
prima foggia 133 ; nel Castellano, composto e stampato poco prima del
gennaio 1529, nella traduzione del De vulgan eioqumti^ nei Doto w
grammaticali, nella Poetica, nella Sophomsba, nella Gram,Tn.tóc?re«a.,
nel rarissimo Alfabeto, tutti man mano stampati nei mesi seguenti,
sono adoperati i caratteri della seconda foggia. In essa:
e continua a valere e aperta; - __ lo „
co designa non più la o aperta come nella prima foggia, ma la
chiusa;
/ è applicata per indicare la s intervocalica sonora;
q designa la z sonora;
j serve per la consonante;
v serve per la consonante;
li indica la linguale palatale Idolja, Iji);
ki vale chi, seguito o no da vocale (ki, kiamo, feiodo, genocki).
Anche per le maiuscole si hanno caratteri speciali. È confermato 1 uso
di x, y, h, th, ph, per le voci greche e latine. Nessuna innovazione per eh,
^ Malgr ado la pertinacia del Trissino, nessuno accolse, né allora né
poi, le sue inn ovazioni per le due vocali e ed o ai ; la ; e la v entrarono;
nell’uso, ma molto più tardi, e solo la v per runane ^ 1 meontrastata; la J
fu accolta come segno ortofonico in qualche vocabolario moderno (ma
in parallelo con la 3 , ciò che mostra che l’innovazione dipende piuttosto
dal Tolomei o dal GiambuHari che dal Trissino). .
Il più notevole fra gli scritti cui diede la spinta l’Epistola .del Irissmo
fu il Polito di Claudio Tolomei, da cui è necessario prender le mosse per
conoscere il sistema di riforma ortografica del dotto laHno
Il Tolomei era altrettanto convinto del Trissino che 1 alfabeto latino
s’adattasse imperfettamente alla lingua italiana; anzi egh rivendica a
sé e ai suoi sodali dell’ Accademia Senese 1 averne disputato «giàdodici
anni o più sono» (Polito, c. 18 a). Si ordinò un intero aJfabe o al^m lo
ador>erarono e il Trissino potè averne notizia; «se quei giovem
nobilissimi questa cosa punto apprezassero costringerebbono costili a
.32 Gli opuscoli della polemica sono tutti ristampati neU’edizione delle Opere
del Trissino curata da Scipione Maffei (Verona m 9 ): ma negli scotti del dotto
vicentino non sono adoperate le lettere speciali, e negli scotti degli alto la grafi
6 edizione, il Trissino adopera nei latinismi zi e non ti -,
pronunzto^njm e^one ^ repertorio anne sso alle Regole del Gigli (v. p. 460).
Il Cinquecento 337
spogliarsi quelle penne di che s’era vestito per parer Pavone» {Polito, c.
44 a).
Un privato non può arbitrarsi di introdurre così grandi innovazioni
come a suo tempo non aveva osato l’Accademia: potrebbe portare
all’auspicata riforma solo consenso di dotti e autorità di prìncipi.
Il Tolomei rileva difetti ed errori del Trissino (il non essersi accorto
che le vocali atone sono chiuse, l’aver rivelato con le sue trascrizioni
l’imperfetta conoscenza della pronunzia di alcune parole); non gli
piacciono le lettere greche, ecc. L’atteggiamento incerto e contradditto-
rio del trattatello nasce dal contrasto fra il sostanziale consenso sulla
desiderabilità della riforma ortografica, e il risentimento perché il
Trissino aveva fatto la prima mossa; v’era inoltre un certo numero di
dissensi tecnici.
Da lettere del Tolomei posteriori di parecchi anni risulta che egli
aveva compilati due alfabeti diversi: «l’uno per tenerlo segreto e
godermelo solamente con qualche caro amico, l’altro per allargarlo e
lassarli correr la sua fortuna» (lettera a F. Figliucci, in Lettere, c. 224 b).
Il primo era «del tutto nuovo... con bei misterii e sottili avvertimenti»
Qettera ad A. Citolini, ivi, c. 121 b), con lettere tracciate in modo che si
riconosceva subito se si trattava di vocale o di consonante, di muta, di
liquida, ecc. (lettera di F. Benvoglienti a M. Celsi, 15 sett. 1547, ivi, c. 234
a), e non ebbe, anche per volere del Tolomei, applicazione pratica. Nel
secondo non vi sono forme nuove di lettere, ma solo varianti scelte in
modo da non disturbare chi non vuol saperne di questi problemi, e da
aiutare invece chi si preoccupa di distinguere le due o, le due e, le due s,
le due z, e qualche peculiarità, «tal che ogniuno starà a rischio di
guadagnare, e non perdere» (ivi, c. 234 a). L’alfabeto fu applicato (salvo
poche sviste) dal Benvoglienti nell’edizione giolitina delle Lettere (Vene-
zia 1547); e lo illustra in pieno la chiave fornita dal Benvoglienti stesso
all’inizio della Tavola. L’inopportuna inclusione nell’epistolario di
alcune lettere politiche procurò gravi fastidi al Tolomei e al Benvo-
glienti, e li costrinse a giustificarsi faticosamente presso le autorità
senesi 135 ; nelle successive edizioni delle lettere non si ha più traccia
delle peculiarità ortografiche introdotte nell’edizione del 1547.
Nel 1544 erano intanto uscite due opere con indicazioni ortofoniche.
Un trattatello di Marsilio Ficino sull’amor platonico (scritto in latino da
Marsilio e poi da lui stesso tradotto in volgare) intitolato Marsilio
Ficino sopra lo Amore o ver’ Convito di Platone, fu pubblicato a Firenze
nel 1544: l’editore, sotto il nome di Neri Dortelata, in una lunga lettera
agli «Amatori della lingua fiorentina» spiega perché si sia sforzato di
fare «intelligibile la Pronunzia Fiorentina... senza avere alterato la
scrittura in modo, ch’ogn’altro uomo non se ne possa valere come
prima». Ma probabilmente un individuo col nome di Dortelata non è
mai esistito, e la grafia del volumetto è dovuta a Pierfrancesco
135 L. Sbaragli, C. Tolomei, Siena 1939, p. 93.
338
Storia della lingua italiana
Giambullari e a Cosimo Bartoli (il quale apre il volume con ima breve
dedica al duca Cosimo, con un’esortazione a seguitare a «dare animo a
gli studiosi di questa lingua»).
Le indicazioni ortofoniche riguardano anzitutto l’accento, che è
segnato su tutti i polisillabi in forma di acuto; sulle parole tronche e sui
monosillabi tonici si ha il circonflesso. La e aperta è indicata con un
piccolo uncino in alto a destra, la o aperta con un carattere più largo.
La u vocale è distinta dalla v consonante. La i senza punto è adoperata
per la i semiconsonante o semplicemente diacritica {bianco , piace,
piaggia). La s corta indica la sorda, la s lunga la sonora; e s imilm ente la
z corta, indica la sorda 136 e la z caudata la sonora. Il metodo, insomma,
è intermedio fra quello del Trissino e quello del Tolomei, che in qualche
modo poteva già esser giunto a cognizione del Giambullari e del
Bartoli 137 . Pure sotto il nome di Neri Dortelata fu pubblicata nello
stesso anno e con il medesimo alfabeto anche l’opera del Giambullari,
De’l Sito, Fórma & Misùre dello Infèrno di Dànte 138 .
Parecchi discussero il nuovo metodo, ben pochi vi si attennero.
Risalgono al metodo del Tolomei gli espedienti ortofonici adottati
dal Citolini nella sua grammatica, tuttora in gran parte inedita,
dedicata verso il 1565 a lord Hatton, ma probabilmente composta assai
prima 139 , e quello applicato da Giovanni Fiorio nelle sue opere per
l’insegnamento dell’italiano agli Inglesi 110 .
Anche il Ruscelli aveva preparato il manoscritto dei suoi Commen-
tala con indicazioni ortofoniche del tipo di quelle del Tolomei, ma
l’opera fu pubblicata dopo la sua morte senza quelle indicazioni
G. A. Gilio, nei suoi Due dialogi (Camerino 1564, cc. 32-33) proponeva
di adoperare per le e ed o aperte i segni delle maiuscole UiuOmo, pOrto,
lascerEbbe, farEbbe ).
V. Buonanni, probabilmente svolgendo uno spunto del Dortelata
(«alcuni de’ nostri antichi... posero un t davanti al zeta, & scrissero
,3 ® Essa vale sia per le parole del tipo amicizia che per quelle del tipo
distruzione, per cui l’autore della prefazione dichiara di non essersi «voluto
risolvere a raddoppiarla» (p. 25).
117 II Tolomei, ringraziando il Lenzoni di avergli mandato il volumetto del
Dortelata, constatava le somiglianze, astenendosi da un giudizio, ma non da
un’insinuazione: basta ch’io non so s’egli è stato furto o imitazione, o simiglianza
di spirito. Queste sono cose state trattate, disputate, e risolute in una nostra
Academia, e comunicate con molti» (Lettere , cit., c. 80 b).
136 II Giambullari applicò parzialmente nel proprio autografo delle Regole
della lingua fiorentina (cod. Magliab. IV, 59) e in altri manoscritti la 6tessa
scrittura ortofonica (Fiorelli, in Studi filol. it., XIV, 1956, pp. 193-198).
138 L. Fessia, «Alessandro Citolini esule italiano in Inghilterra», in Rend. Ist.
Lomb., LXXIII, Lettere, 1939-40, pp. 213-243.
. 140 Ma se egli distingue le e e le o aperte da quelle chiuse (e uncinata, o
normale per le vocali aperte di contro a e normale, o corsiva per le chiuse),
applica poi (p. es. nel New World of Words, Londra 1611) il segno della vocale
aperta anche a quelle parole derivate in cui le e e le o vengono a trovarsi in
posizione atona, ignorando la regola già messa in luce dal Tolomei nel Polito.
Il Cinquecento
339
belletza, patzo, matza, & spetzo», p. 25), stampò un Discorso sopra la
prima cantica del divinissimo theologo Dante d’Alighieri... (Firenze 1572)
m cui la sola peculiarità è l’uso del digramma tz per z (gratzia
accortetza, altzare, metzo ecc.) 141 .
L’elenco di 29 lettere che troviamo in un manoscritto del Varchi (ms.
Rinucc., filza 9, inserto 23), l’inventario delle 32 «pronunzie» dato dal
Salviati negli Avvertimenti Q. Ili, cap. i, pari. 3), l'elenco dei 35 «caratteri
degù elementi de la favella Toscana» dato da Giorgio Bartoli nel
trattato Degli Elementi del parlar toscano, Firenze 1584 142 , non rappre-
sentano tentativi di introdurre nell’uso generale nuovi segni ma
inventari dei fonemi italiani.
. Per ^ di circostanze, ma essenzialmente per il carattere
fortemente conservatore dell’ambiente letterario, i tentativi di riforma
dell ortografia usuale fallirono.
12. L’accettazione della norma
Si è visto come la norma grammaticale e lessicale tende a un rigore
crescente. Alcuni antesignani fissano i precetti, la grande maggioranza
si sforza, con risultati or più or meno felici, di seguirli; solo una mino-
ranza non obbedisce alla tendenza generale o addirittura reagisce.
. importanza acquistata dall’editoria contribuisce in modo decisivo
all instaurazione sempre più rigorosa della norma: le opere degli autori
vivi e ancor più quelle degli autori morti sono sottoposte a revisioni
linguistiche talora assai forti. Agli inizi del secolo, gli interventi sono
ancora saltuari, ma qualcuno è insigne e ricco di conseguenze (penso
all opera congiunta del Bembo e del Manuzio con le edizioni del
Canzoniere, 1501 e della Commedia, 1502). Più tardi l’attività dei letterati
di tipografia, editori essi stessi o stipendiati dagli editori, diventa una
vera professione: il Dolce, il Domenichi, il Ruscelli, il Porcacchi, il
Sansovino preparano per le stampe numerosi volumi, più o meno
ritoccandoli secondo il loro gusto e secondo le loro opinioni grammati-
Non va dimenticato che anche i tre classici maggiori esercitano il
loro influsso non in una veste genuinamente trecentesca, ma con
un ortografia in parte più umanistica. Per citar solo un esempio ecco
come si presenta un verso del primo sonetto del canzoniere petrarche-
sco nell’autografo del Petrarca:
Quàdera I parte altruom da Q1 chi sono
141 II tentativo fu giudicato severamente dal Salviati, Avvertimenti, I, in i
part. 14. * •
ìr I i operetta fh pubblicata postuma da un altro Cosimo Bartoli (omonimo di
quello nn qui studiato), ed è di notevole importanza linguistica (E Teza «Un
maestro di fonetica italiana nel Cinquecento», in Studi filol. rom., VI, 1893, pp. 449 -
340
Stona della lingua italiana
Il Cinquecento
341
ed ecco come si leggeva nell’edizione aldina del 1501 curata dal Bembo
e in quella del 1521 curata dal Vellutello:
Quand’era in parte altr’ huom da quel, ch’i sono.
Gli editori mirano in generale a rendere più regolare l’ortografia,
più ricca e razionale l’interpunzione; ma gli arcaismi, i dialettalismi, i
latinismi troppo spinti sono talvolta sostituiti 143 , con un metodo che a
noi pare intollerabilmente arbitrario - benché talvolta sia coonestato
dall’asserzione gratuita che gli autori stessi avrebbero corretto cosi le
loro opere 144 . A . , . .
Non poche revisioni di testi sono dovute agli autori medesimi, e
spesso si arriva a discemere quali correzioni sono dovute a un
mutamento di concezione, quali invece all’adeguamento a un nuovo
gusto stilistico, quali all’accettazione di norme grammaticali prescritte
come tassative.
Ritoccano i loro testi alcuni scrittori meridionali, come il bannazza-
ro e il Cariteo-, tra quelli settentrionali le revisioni più note sono quelle
del Castiglione e dell’ Ariosto.
La laboriosa formazione linguistica del Castiglione è stata ricostrui-
ta dal Cian con lo studio dei numerosi manoscritti castiglioneschi
pervenutici, fra i quali è particolarmente importante il manoscritto
Laurenziano del Cortigiano (che è un apografo del 1524, con correzioni
autografe del Castiglione e del Bembo) 145 .
Ma l’esempio più insigne di passaggio da un volgare illustre di tipo
«padano» al toscano letterario è quello di Lodovico Ariosto, passaggio
sulle cui fasi siamo abbastanza largamente informati. Ci rimane
dell’ Ariosto un ricco carteggio, e conosciamo parecchie delle modifica-
zioni da lui apportate alle commedie e alle satire; ma soprattutto
possiamo confrontare le tre edizioni déìl’Orlando Furioso compiute dai
tipografi sotto la sua vigilanza (ma senza che egli fosse soddisfatto) nel
1516, nel 1521, nel 1532 146 .
143 Nel son. 219 del Petrarca, «Il cantar novo e ’l pianger de li augelli - in su ’l
di fanno retentir le valli...» si legge, dall’Aldina in poi, risentir.
144 Si veda per es. la prefazione al Laberinto d'amore di Bernardo Giunta
(Firenze 1516): «ci ho usato tanta diligenza in emendarle, che io ardirò dire che il
Boccaccio stesso altrimenti non le harebbe racconce che elle si siano».
145 V. Cian, La lingua di Baldassarre Castiglione, Firenze 1942 (v. specialmente
i capitoli III e IV «Le prime redazioni del Cortegiano » e «La lingua del Cortegiano
nel testo definitivo»). .
146 II Debenedetti ha dimostrato che un certo numero di correzioni lurono
introdotte mentre i singoli fogli si stavano tirando. Dei nuovi episodi entrati a far
parte della terza edizione, oltre che di alcune stanze rifiutate, abbiamo frammen-
ti autografi. Per studiare le varianti si può ricorrere alla ristampa letterale di f .
Ermini (Roma 1909-1913); per la 3“ edizione bisogna tener presente 1 ottima stampa
laterziana curata dal Debenedetti o quella ricciardiana del Caretti (che si
avvantaggia anche di schede lasciate dal Debenedetti). Dello stesso autore si
veda l’edizione dei Frammenti autografi dell'Orlando Fur ., Torino 1937 ^Importanti
anche per la lingua gli «Studi sui Cinque Canti» di C. Segre, m St. difil. i tal.. All,
Il testo del 1516 risente ancora molto del padano illustre (benché sia
molto più toscano ded' Orlando Innamorato o del Mambrìano). Nel
consonantismo si oscilla molto nell’uso delle doppie; nell’uso di c e z
davanti a eoi (roncino è più frequente di ronzino ); nell’uso di se; comuni
sono i tipi giaccio, gioito e iusto, love. Abbondano i latinismi lessicali:
cicada, crebro, dicare, difensione, mal dolato, ecc. Qualche pentimento
si manifesta nell’errata-corrige: l’Ariosto rifà due passi in cui aveva
usato mano al plurale (un terzo gli sfugge, e lo correggerà nella
seconda edizione).
I ritocchi per l’edizione del 1521 sono relativamente pochi: per es.
volgo mutato in vulgo, ciucca in zucca, perse in perdette, ecc.; ma più
interessanti che le correzioni introdotte nel testo sono le intenzioni
espresse nell’errata-corrige: egli vorrebbe aver scritto non summo ma
sommo, non reverire ma riverire, non devere ma dovere, non vo lontieri
ma volentieri, non parangone ma paragone-, vorrebbe di e del e non più
de e dii, ecc.
Le correzioni dei frammenti autografi, quelle dei Cinque Canti e
dell’edizione del 1532 sono fatte secondo questa medesima linea
direttiva, ma con molto maggiore ampiezza e fermezza dopo la
pubblicazione delle Prose del Bembo (1525). Per alcune peculiarità
l’Ariosto procede con deliberata decisione, per altre con maggiore
esitazione, tanto che qualche volta toma indietro. Tutta l’opera di
correzione è dominata dall’adesione al gusto e alla grammatica del
Bembo: ma quest’adesione non è né pedissequa né consequenziaria,
perché l’Ariosto non è un grammatico ma un poeta (e i poeti spesso
sono distratti!).
Egli introduce molte volte i dittonghi uo e ie [ruota, scuola, figliuolo,
truova, e viene, priego, tiepide ). Dreto è sempre mutato in dietro-,
viceversa egli corregge schiena in schena.
I raddoppiamenti sono molto più vicini che nelle due prime edizioni
all’uso toscano (tuttavia mutò anche comodità in commodità, uccellator
in ucellator, verone in vetrone, ecc.).
È per lo più abbandonata la x ( esperimento , esempio-, nei frammenti
autografi, exempio od essempio ).
Persiste anche nell’edizione del ’32 la serie gianda, giotto. Predomi-
na il tipo giumenta, giusto, Giove (fuorché in alcuni prenomi: Iocondo,
Iulioì.
L’uso dell’articolo è quasi sempre conformato alle regole e alla
prassi del Bembo 147 : el è abbandonato per il, e al plurale e per i; davanti
1954, pp. 23-76. Possono esser tuttora utili il saggio di M. Diaz, Le correzioni
all'Orlando Furioso, Napoli 1900 e gli articoli ed edizioni comparative parziali di
G. Lisio; il mio articolo «Sulla lingua dell’ Ariosto», in Italica, XXIII, 1946 (rist. in
Saggi ling., pp. 178-186) cerca di cogliere i tratti essenziali; ma una monografia che
considerasse tutti i materiali disponibili sarebbe molto opportuna.
147 II Dolce [Modi affigurati, cc. 300 b - 301 a) faceva osservare che il Bembo,
dopo avere scritto «Una sol voce in allettando il spirto, » aveva corretto il verso in
342
Storia della lingua italiana
a s impura è introdotto io-, i gruppi in lo, in la, in V sono sostituiti da nel
ne lo, ne la (o altrimenti, se il verso non lo consente).
Anche le particelle pronominali sono portate all’uso ancor oggi
vigente.
Nel presente indicativo le forme in -amo -emo -imo sono di regola
mutate in -iamo. Gli imperfetti di prima persona in -o (ero, andavo,
potevo ) sono abbandonati per quelli in -a, contrariamente all’uso del
fiorentino parlato, ma conformemente alle prescrizioni del Bembo 148 .
Ad esse è anche dovuto il mutamento di presto in tosto 149 .
Di questa deferenza dell’ Ariosto per il maestro insigne ci restano
anche testimonianze dirette: la lettera indirizzatagli il 23 febbraio 1531
(«io son per finir di riveder il mio Furioso-, poi verrò a Padova per
conferire con V. S., e imparare da lei quello che per me non son atto a
conoscere»), e i versi in onore di lui aggiunti nell’edizione del ’32:
là veggo Pietro
Bembo che il puro e dolce idioma nostro,
levato fuor del volgar uso tetro 150 ,
qual esser dee, ci ha col suo esempio mostro
(XLVI, st. 15).
Se, terminata la revisione, nel poema è rimasto ancora qualche
tratto padano o latineggiante, in complesso la fisionomia della terza
edizione déìl’Orlando è diventata conforme al tipo del toscano lettera-
rio. Uno scrittore maledico come il Lasca celebra dell’ Ariosto anche la
lingua:
Ma dove, dove l’Ariosto resta
che ben che non sia nato fiorentino
sì fiorentinamente l’asta arresta
che si può dir che sia tuo paladino? 151 .
Accanto alle revisioni compiute dagli stessi autori (fra cui il più
insigne esempio è quello che or ora abbiamo visto), sono numerosissi-
me le revisioni di opere antecedenti compiute per adattarle alle nuove
«una sol voce in allettar lo spirto », e altrove «Et odo dir in l’herba » in «Et odo du-
ne l’herba ».
us Debenedetti, St. rom., XX, 1930, pp. 223-225. Nei frammenti autografi si ha
ancora potevo.
149 Debenedettì, ivi, pp. 217-222.
150 II «volgar uso tetro» è quello dei poeti cortigiani dell’ultimo Quattrocento,
come Serafino e il Tebaldeo; e certo ormai l’Ariosto includeva fra i poeti partecipi
di quella tetraggine anche il suo insigne predecessore, il Boiardo.
151 Solo più tardi, nell’acredine delle dispute fra i fautori del Tasso e quelli
dell’ Ariosto, Benedetto Fioretti censurerà con pedanteria le forme e le parole non
toscane del Furioso.
Il Cinquecento 343
esigenze stilistiche e grammaticali: ora con certa delicatezza ora con
pesante arbitrio 152 .
Manca, purtroppo,, una larga esplorazione delle edizioni cinquecen-
tesche con 1 occhio rivolto a questi ritocchi: i pochi esempi che qui
daremo mostrano quale interesse potrebbe avere la ricerca.
Non è ancora definitivamente assodato se la lezione in cui l’imolese
Girolamo Chiaruzzi (0 Claricio) presentò nella sua edizione del 1521
1 Amorosa Visione del Boccaccio sia fondata su una seconda redazione
di cui si sono perdute altre tracce 153 , oppure se si tratti di un
rifacimento dovuto al Claricio 154 : quel che è certo è che, anche nella
prima ipotesi, numerosi mutamenti grammaticali, metrici e stilistici
sono stati introdotti dall’Imolese 155 .
Un ignoto nel 1526 introdusse nei manoscritto autografo della Fenice
e del canzoniere di Lorenzo Spirito, tuttora conservato a Perugia, nrm.
serie di correzioni grammaticali e lessicali, dirette principalmente a
eliminare i peruginismi e i latinismi live, ogge corretti in ivi, oggi; longo
m lungo ± satisfare in sodisfare, ecc.), e inoltre altre modificazioni
suggerite da un gusto più raffinatamente petrarchesco 158 .
il testo delle Istorie del Regno di Napoli di P. Coìlenuccio fu
pubblicato dal Ruscelli nel 1552 con molte modificazioni «trovandolo
pieno di scorrezioni et errori nella lingua et in altre parti»: si ha così
non più exprobrare, eversioni, instrutti, ma rimproverare, rovine infor-
mati, ecc. 157 .
n *5 testo ancora fortemente tinto di milanese e pieno di la tinismi della
Patria Histona di Bernardino Corio (Milano 1503) fu rimodernato con
poco rispetto dal Porcacchi (Venezia 1554 ).
La Spiritata del Lasca può costituire un esempio delle correzioni che
ì tipografi usavano eseguire: nel 1561 i Giunti pubblicavano a Firenze la
commedia, e subito dopo la ristampò a Venezia il Rampazetto,
mutando uffizio, benefizio in ufficio, beneficio, qualunche in qualunque
doppo m dopo, sopperire in sopplire, ecc. 158 .
Della Chronica de Mantua di Mario Equicola (s. 1., 1521) aveva
mtrapreso la correzione nel 1574 F. Sansovino; un testo «riformato
«Chi diavol riparerebbe a certe sorte di stampature? Ché un correttore
corregge m un modo e quell’altro a un altro, chi lieva, chi pone, certi scorticano e
certi albi intaccano la pelle» (Doni, I Marmi, I, p. 94 Chiorboli). Per impedire tali
sconci, Federigo Badoaro aveva proposto che l’Accademia della Fama vigilasse
SU1 ,9?^; ettor ? (Maylender, Storia delle Accademie, V, Bologna 1930, p. 4381.
iE 4 n m ? so ® t ® nuto il Branca, nella sua dotta edizione critica, Firenze 1944.
®rni cone ’ Belfagor, 1, 1946, pp. 474-486; Raimondi, Convivium, 1948, pp. 108-
134; 258-311; 438-459.
155 Contini, Giom. stor., CXXIII, 1946, pp. 75-83.
.. , ‘ M t J; Baldelli, «Correzioni cinquecentesche ai versi di L. Spirito», in St. filol
ital., IX, 1951, pp. 39-122.
157 v - la nota del Saviotti all’ed. Laterza, I, pp. 330-331, e C. Varese P
Coìlenuccio umanista, Pesaro 1957, pp. 130-133.
158 A. Grazzini, Teatro, ed. G. Grazzini, Bari 1953, p. 591 .
344 Storia della lingua italiana
secondo l’uso moderno di scrivere istorie» fu pubblicato a Mantova da
B. Osanna nel 1607 (e poi di nuovo nel 1608 e nel 1610).
Molto al di là dei ritocchi grammaticali e lessicali vanno i rabbercia-
toli del Boiardo: accanto al più famoso rifacimento, quello del Bemi
(compiuto nel 1531 e pubblicato nel 1541) che ebbe tre secoli di fortuna,
va ricordato quello del Domenichi (1545) 159 .
In altri casi, constatando che la lingua di testi antichi riesce difficile,
l’editore vi unisce dei glossari.
Il desiderio di conformare la lingua alle regole grammaticali che si
stanno sempre più rigorosamente prescrivendo fa sì che qualche
scrittore sottoponga un proprio scritto a un competente: il Cellini
richiese la revisione del Varchi, il Vasari quella del Caro, ma ambedue
gli interpellati si limitarono a qualche consiglio. Il Guarini chiese sul
Pastor fido il parere del Salviati, e mentre tenne scarso conto delle
osservazioni concernenti l'azione, accettò quasi tutti i suggerimenti
linguistici 1 ™.
Se l’adeguamento alla norma grammaticale è una tendenza assai
largamente sentita in tutta l’Italia periferica, non altrettanto entusiasti
ne sono per lo più i Toscani: se c’è il Guicciardini che, come s’è visto, si
preoccupa delle regole bembesche, molti riluttano: per es. l'Aretino
protesta «per le notomie che ogni pedante fa su la favella toscana» 181 , il
Grazzini, nel Principio della Strega, si lagna che «la poesia italiana,
toscana, volgare, o fiorentina che ella si sia, è venuta nelle mani di
pedanti» (Teatro, p. 186 Grazzini).
13. L’italiano fuori d’Italia __
Nella seconda metà del Quattrocento e per tutto il Cinquecento,
raggiungendo forse l’acme in quella prima metà del secolo, quando
eserciti francesi, spagnoli, svizzeri, imperiali calpestano la penisola, la
cultura italiana in tutti i suoi aspetti (non solo l’arte e la letteratura, ma
139 Mentre gli aspetti stilistico-lette rari dei rifacimenti sono stati discreta-
mente studiati CM. Beisani, in Studi di letteratura italiana, IV, 1902; V, 1903; P.
Micheli, Saggi critici. Città di Castello 1906, ecc.), una precisa analisi linguistica
comparativa non è stata ancora fatta. Si può notare che mentre la grande
maggioranza delle correzioni del Bemi è conforme alle tendenze generali del
tempo, in qualche caso egli toma, per così dire, indietro, come quando corregge
giacere in lacere.
100 V. Rossi, B. Guarini e il Pastor fido, Torino 1886, pp. 212-213, 304.
1,1 Lettera del 1531 (I, p. 31 Nicolini). Cfr. quel che dice di lui il Montemerlo:
«uscito il primo liberamente fuori di alcuni legami di superstitione, non si è
ritenuto più lungamente dentro a’ carceri di quelle regole, che ad alcune voci e
testure quotidianissime, et più che necessarie, freno ponevano, o interdicevano al
tutto il farsi vedere: come sarebbe di non porre la voce lui nel caso primo: di non
soggiungere l’articolo il dopo la particella per: non rifiutando per buona la voce
adesso et altre cose facendo di simigliante maniera» (Montemerlo, Delle phrasi
toscane.... Lettera ai lettori).
Il Cinquecento
345
a-ncrie le scienze, la moda, i giochD esercita un’enorme influenza su
tutta 1 Europa.
Gli scambi si esercitano per innumerevoli vie oltre alle due più
importanti delle guerre e dei commerci: sono Italiani che emigrano
mettendo le loro capacità a servizio di sovrani stranieri (Colombo,
Vespucci, Caboto; Leonardo, il Cellini), sono principesse che vanno
spose in corti straniere (Caterina de’ Medici in Francia, Bona Sforza in
Polonia), sono ecclesiastici e laici che emigrano abiurando il cattolicesi-
mo (Ochmo Vergerio, la Morata, i Socini, i Burlamacchi, Alberico
Gentile il Citoluu, Michelangelo Fiorio); sono Spagnoli o Francesi cui
sono allietate funzioni di governo, che vengono a studiare nelle nostre
università piu famose, che viaggiano per istruzione, per cura, per
diporto nella penisola, che esercitano le loro arti in Italia (come il belga
Orlando di Lasso, maestro di cappella al Laterano). A Lione, a Londra
altrove, si stampano parecchi libri in italiano.
La letteratura italiana è riconosciuta come una delle grandi lettera-
ture classiche, allo stesso livello della latina e della greca, ed esercita
un influenza grandissima sulle letterature rigenerate dal soffio del
Rinascimento. Si pensi, per la Francia, alla scuola lionese o a Marghe-
rita qi Navarra, per la Spagna a Boscàn e Herrera, per l’Inghilterra a
Wyatt, a Sidney, a Spenser.
Dappertutto si petrarcheggia, e appaiono nuove forme metriche
modellate su quelle italiane (sonetto, terza rima). Le traduzioni di libri
italiani si moltiplicano: Castiglione, Bandello, Leone Ebreo, Machiavel-
li e tanti altri autori si possono leggere nelle principali lingue europee
anche da chi non conosce l’italiano.
Ma, nelle classi più elevate, conoscere l’italiano è un segno di
distinzione, di raffinatezza. Carlo V lo parla, e legge in italiano i libri
Sf- ~* 10 ,^ 10 ’ £ r ancesco I conversa in italiano con Benvenuto Cellini
Elisabetta d Inghilterra è entusiasta della nostra lingua ed è in gradò
di scriver delle lettere in essa; Montaigne scrive il suo giornale di
viaggio in italiano, a cominciare dal suo soggiorno a Bagni di Lucca
Imo al Moncenisio.
La moda dell’italiano giunge in alcuni sino all’infatuazione, e trova
naturalmente degli impugnatori. Questi tuttavia non trascurano di
valersi, in difesa delle loro proprie lingue e letterature, di quello che
avevano imparato dai trattatisti italiani: nella rivendicazione dello
spagnolo di Luis de León si sente l’eco del Bembo, nella Deffence et
lllustration de la langue frangoyse di Joachim du Bellay si ritrovano i
ragionamenti del Dialogo delle lingue di Sperone Speroni.
In servizio degli studiosi d’italiano si cominciano a pubblicare
grammatiche: Jean Pierre de Mesmes pubblica una Grammaire italien-
ne composee en frangois (Parigi 1548), modellata sul Bembo; W. Thomas
P r * ,nc * , P a l Rules of thè Italian Grammer , with a Dictionarie for
aT unders f an dyng of Boccace, Petrarch and Dante, Londra 1550;
G. M. Alessandri traccia II Paragon della lingua toscana e castigliana
Napoli 1560. ®
340
Storia della lingua italiana
Il Cinquecento
347
Poiché spesso la lingua più familiare agli stranieri quando scendo-
no in Italia è il latino, il napoletano Scipione Lentulo (1567) e il
fiorentino Eufrosino Lapini ( 1574 ) scrivono grammatiche latine ad uso
dei forestieri; e il gallese John David Fthys (Rhoesus), vissuto alcuni
anni in Italia, pubblica un De Italica Pronunciatione et Orthographia
libellus (Padova 1569) 162 .
Giovanni Florio (figlio di Michelangelo Fiorio, emigrato per motivi di
religione e autore di una grammatica intitolata Regole de la lingua
thoscana ) 163 compose dei trattateli! per l’insegnamento dell’italiano, i
First Fruites (1578), i Second Fruites (1591), e un dizionario italiano-inglese
intitolato A Worlde of Wordes (1598) 164 .
Già precedentemente erano usciti il primo vocabolario italiano-
spagnolo e spagnolo-italiano, quello di Cristóbal de las Casas, Vocabu-
lario de las dos Lenguas toscana y castellana, Siviglia 1570 (più volte
ristampato), e il primo italiano-francese e francese-italiano, di Giovanni
Antonio Fenice (Phénice, Félis), Dictionnaire frangois et italien e
viceversa, Morges e Parigi 1584 (altre edizioni, da quella di Ginevra 1598
in poi, portano il nome del revisore P. Canal).
Vanno anche ricordate le edizioni poliglotte del Calepino, e le
raccolte di colloqui in più lingue 185 .
A queste importanti posizioni dell’italiano sul continente europeo
fanno riscontro quelle nel Mediterraneo. Anzitutto vi sono i possessi
diretti di Venezia, specialmente nell’Adriatico 166 : ma anche più impor-
tante è il prestigio. Mentre nelle corti dei paesi continentali, osserva il
Muzio, ci si può far intendere in italiano, e in alcune anche in latino, in
Levante il latino non si conosce, e l’italiano predomina: «Andate alla
Corte del Signor de’ Turchi, ritrovate chi sappia Latino: ritrovatene
appresso il Re di Tunisi, nel regno del Garbo, di Algier, & in altri luoghi;
la nostra lingua ritrovarete voi per tutto» 167 . Nei paesi di diretto
dominio, poi, i sudditi devono imparare il veneziano (o l’italiano tinto di
veneziano) «per la necessità di comparire dinanzi a’ tribunali de’
magistrati in ragione» 168 .
Nelle relazioni con i Turchi, l’italiano è di uso abbastanza comune:
la cancelleria fiorentina, che aveva scritto in greco al Gran Turco nel
162 Sul Rhys e sul Thomas, vedi T. G. Griffth, Avventure linguistiche del '500,
Firenze 1961.
163 Cfr. G. Pellegrini, Studi di filol. ital., XII, 1954, pp. 77-204.
181 F. A Yates, John Fiorio, Cambridge 1934.
165 La prima edizione dei Colloquia del Berlaimont che contiene anche
l’italiano, è quella di Anversa 1558 (Emery, in Lingua nostra. Vili, 1947, pp. 36-38).
165 Sulle coste dalmate, gli uomini sanno per lo più «parlar francamente», cioè
farsi capire in italiano (N. Vianello, Lingua nostra, XVI, 1955, pp. 67-69). A Ragusa
nasce in questo secolo una letteratura in lingua croata, plasmata su modelli
italiani.
167 Battaglie, c. 192 b.
198 Castelvetro, Correttione, p. 224. Vedi, per le condizioni di Corfù, M.
Cortelazzo, in Lingua nostra. Vili, 1947, p. 45.
1501, gli scrive in italiano nel 1508, nel 1528 168 : si hanno testi italiani
anche per la corrispondenza e i trattati con altri paesi 170 .
Date queste circostanze, la penetrazione di vocaboli italiani sia
nelle lingue dell Europa continentale che in quelle del Mediterraneo fu
in questo periodo assai forte.
14. Grafia
Passeremo ora a esaminare rapidamente la principali caratteristi-
che grammaticali e lessicali di questa età, con particolare riguardo a
ciò che appare di nuovo in confronto con i secoli precedenti. E
incominciamo con la grafìa (e l’interp unzione) 171 .
Al principio del secolo, trent’anni dopo la stampa dei p rimi incuna-
boli, la situazione della grafia, sia negli scrittori che nei libri, è ancora
assai caotica. Predomina decisamente la grafia che l’influenza umani-
stica ha imposto al volgare, cioè la grafìa etimologica: h dove l’ha il
latino, ti per zi, digrammi (eh, th, ph) nelle parole greche, gruppi
consonantici (et, pt, x, ps, ecc.) latini non assimilati, qualche esempio
sporadico di ae, oe. Ma, principalmente per l’intervento di un grande
editore e di un grande scrittore e filologo, le condizioni stavano per
mutare. Nel 1501 escono presso Aldo Manuzio il Vecchio 172 Le cose
volgari di Messer Francesco Petrarca-, l’originale su cui fu condotta
l’edizione ancora ci rimane, ed è il manoscritto Vat. 3197, curato da
Pietro Bembo. In confronto con l’autografo del Petrarca, il Vat. 3195 173 ,
l’Aldina è parte più latineggiante, parte meno. Il Bembo accolse dalla
grafia umanistica l’hjho; autogr. o), il ti (spatio, gratta come nell’auto-
gr., ma anche topati-, autogr. topagiì, i digrammi greci (cethera «cetra»,
autogr. ceteraì, ma invece rappresentò decisamente l’assimilazione dei
gruppi consonantici (tt, non et, pt)-. peculiarità che è, se si vuole, un
ritorno a quella che era la grafìa prevalente nel Petrarca, ma segna un
160 G. Mailer, Documenti delle relazioni delle città toscane... coi Turchi, Firenze
1879; Marzi, La Cancellerìa, cit., p. 413 .
170 V. per es. E. de la Charrière, Négociations de la France dans le Levant, I, pp.
122-129, pp. 285-294. Ma di rado rimangono gli atti originali, e è diffìcile
distinguere, senza particolari indagini, quale è la lingua in cui i documenti furono
dapprima stilati.
171 Ho compiuto un esame più serrato delle varie peculiarità della grafìa nel
mio articolo «Note sulla grafia italiana nel Rinascimento», in Studi di filol ital
XIII, 1955 (rist. in Saggi ling., pp. 197-225).
Jf®® era uscita dalla stessa tipografia relegantissima Hypnerotoma-
crua Poliphili, latineggiante anche nella grafia (persino con ae, oe), nel 1500 le
Epistole devotissime de Sancta Catharina da Siena, anch’esse con la solita grafia e
punteggiatura.
173 Che in quell occasione probabilmente il Bembo adoperò solo per un
riscontro, e molto più tardi acquistò; cfr. G. Salvo Cozzo, Il cod. vaticano 3195 e
l edizione aldina del 1501, Roma 1893, G. Mestica, in Giom. stàr., XXI, 1893 dd 300-
* Z't'-
348
Stona della lingua italiana
deciso distacco dalla grafia dominante in quegli anni Ritroviamo
questo metodo applicato dal Bembo anche negli Asolarti (1505); e il
metodo guadagnò man mano, sia pur lentamente, terreno, in modo che
alla metà del secolo possiamo considerarlo in notevole prevalenza.
Anche la x è quasi del tutto abbandonata in questo periodo, sostituita
da ss: l’unico punto che dà luogo a divergenze notevoli è la serie di voci
che avevano in latino ex- e che dapprima si trascrivono anch’esse con
-ss- (essempio, ecc.), mentre poi, attraverso oscillazioni che durano tutto
il secolo, si passa a -s-.
Invece le altre peculiarità, la h, il gruppo ti, i digrammi greci,
specialmente nei nomi propri, si mantengono pressoché stabili nella
prima metà del secolo, fuorché nei riformatori più radicali 01 Trissino e
il Tolomei tendono a e limin arli, pur con diversi metodi e con qualche
contemperamento con l’uso; le stampe di Neri Dortelata seguono una
grafìa coerentemente fonetica-, la h e i digrammi sono aboliti e si passa
a zi 1. Ma, nella seconda metà del secolo, i Toscani man mano vengono
abbandonando tutte queste peculiarità làtmeggianti; invece il Setten-
trione e il Mezzogiorno sono molto più restii ad abbandonare le grafie
tradizionali, che offrono agli scriventi il vantaggio di appoggiarsi al
latino. Per la h, già l’Ariosto, secondo la testimonianza del Giraldi 174 ,
aveva detto che «chi leva la H aH’huomo non si conosce uomo e chi la
leva aWhonore non è degno di onore. E s'Hercole la si vedesse levata
dal suo nome, ne farebbe vendetta contro chi levata gliela avesse, col
pestargli la testa colla mazza...». Il Bruno attribuisce a un pedante
toscanofilo (De la causa, I, p. 167 Gentile) il proposito di sopprimere la h,
e lo mette in cattiva luce. Per la z, sia nelle voci dotte che avevano in
latino ti (come gratta = grazia ), sia in quelle che avevano ti preceduto
da consonante come dettone (= azzione = azione), si discute acremente
negli ultimi anni del secolo fra Toscani fautori della z e non Toscani, in
generale avversari 175 .
In conseguenza dell’abbandono delle peculiarità grafiche latineg-
gianti, vengono a prodursi o piuttosto a rivelarsi parecchie omonimie.
Certe distinzioni che erano mantenute, almeno per l’occhio, dalla
grafia, spariscono, e di conseguenza o sussistono nella lingua due
parole (omofone e omografe) con significati diversi (per es. otto da acto
e atto da opto) ovvero gli inconvenienti dell’omonimia spingono a
eliminare la meno usata delle due voci (spariscono orto da ortus, esterno
da hestemus, correzione, direzione da correptio, direptio, mentre soprav-
vivono orto da hortus, esterno da extemus, correzione, direzione da
correctio, directio.
Le oscillazioni sono piuttosto frequenti nell’uso delle doppie, spe-
cialmente dove il toscano non concorda col latino. Non si dimentichi
che nell’Italia settentrionale le doppie sono quasi sconosciute alla
174 Dei Romanzi , negli Scritti estetici, rist. Daelli, I, pp. 141-142.
175 V. specialmente O. Lombardelli, La difesa del zeta, Firenze 1586.
Il Cinquecento
349
Fortmiio^rì pdi>n per . questo * grammatici, a cominciare dal
alcuna distinzione per tuttofi So SStra^Srse fiSoS £
“Doliate 6 ’ benChé “ dlVCrSe d ‘ re2ioni - dal
La separazione delle parole è ancora incerta al principio del secolo
quando si tratta di proclitiche U libri o ilibri ).
doliw^w^ con 4 trib 1 u *° aUa chiarezza ortografica è l’introduzione
l^eS del’^n Bemb ,°. e al Manuzio, n segno, accolto secondo
del . greco nella scrittura del volgare, per indicar l’elisione
appare la prima volta nel Petrarca aldino dei 1501 e penetra assai
entamente nell’uso; alla metà del secolo è accolto generalmente e solo
restano oscillazioni fra l’ambito dell’elisione e quello del troncamento
e per qualche minore peculiarità Isu’l, ecc.).
Anche gli accenti grafici sono esemplati sull’uso greco come si vede
daUa preferenza data all’acuto nell’interno di parola foriSri calfS
6 r al ^ ^ Dopo calche spora£crcompam? nS
SSi AsllSni fwoSi ri 0 } vf SS ° è i ? trodotto dal Bembo e dal Manuzio 175
afSecì m i nrS 5 ’ cbe b annoai CU ne volte il grave sulla finale (menò,
aU’Sémo (S). ° ’ CaSMa ’ 6CC ) 6 qualche rara volta Accento
scarsissima nei manoscritti e scarsa e 1
ricca e r^ni n . Stan ? Pe * principio del secolo, diviene man mano più
alVodfe^f 1 bo t m c ° mpl !f° ah» ^e del secolo è ormai molto simile
a11 K^fi rna ’ tr ?,Y ato dei trattatisti che la regolano minutamente 177
Nella scrittura, 1 mteipunzione rimane più a lungo scarsa e confusa
c< ? nos 1 ce B punto <ehe serve anche datola e da pirnS e
go a), la virgola e il punto doppio (che si equivalgono) l’interroirati-
^hi a j arentesi> l aC ? ento e ^apostrofo; ma non li f doperà quSi mai
nello scrivere consueto» 178 . Il Guicciardini conosce solo la virgola (nella
fn^fw/V due punb (applicati anche per il punto e virgola e per il punto
WmnMf^ P ° S1Z1 r ne ]' d punto fe rmo (solo in fine di periodo), il punto
interrogativo, ma li adopera molto parcamente 17 ®
soint^, 1 5SFE? P - Ù autore y° U che anche in quésto caso danno una
spinta a una maggiore regolarità e uniformità: lo avvertono trià i
trattatisti come il Dolce e il Lombardelli avvertono già i
Accanto ai testi con interpunzione sommaria (con soli punti e
virgole; oppure con punti, due punti e virgole) trSriL^o testi con
interpunzione elaborata. Nel Petrarca aldino appare, sembra, per la
m a Pe ! Tarca e ù Dante aldini avevano solo il verbo è con l’accento Brave
.'!! f • Debenedetti, I Frammenti autografi dell’Orl. Furioso cit n xwvn
170 Spongano, neU’ed. dei Ricordi, pp iixix-uoo: ’ ’ P ‘ xxxvn ’
350
Stona della lingua italiana
prima volta 180 il punto e virgola, per indicare ima pausa intermedia tra
la virgola e i due punti. Il Bembo l’adopera (e l’adopererà nelle opere
successive) in molti casi in cui oggi useremmo la semplice virgola,
particolarmente davanti a proposizioni relative 181 .
Nell’edizione aldina dei carmi latini dell’Augurello (1505) il punto e
virgola è adoperato con una funzione diversa: esso appare alla fine di
ogni lirica come pausa assoluta.
Si badi che il punto serviva a segnare due pause diverse: quella alla
fine di una proposizione seguita immediatamente da un’altra (nel qual
caso è chiamato «punto minore» o «punto mobile», e dopo di esso si
può trovare la minuscola), e quella più lunga alla fine del periodo
(«punto fermo»).
Il punto esclamativo («affettuoso») arriva molto lentamente a distin-
guersi dall’interrogativo e a imporsi nell’uso. Lo descriveva chiaramente
Aldo Manuzio 182 , ma senza adoperarlo nelle proprie edizioni.
Dedicano alcune pagine all’interpunzione il Giambullari, il Dolce, il
Ruscelli, il Salviati; con ampiezza e minuzia talvolta pedantesca ne
tratta Orazio Lombardelli 183 .
15. Suoni
Anche per ciò che concerne le peculiarità fonetiche le divergenze
sono assai forti al principio del secolo, mentre si vanno in buona parte
conguagliando man mano che una norma grammaticale s’impone.
Differiscono i Toscani dai settentrionali e dai meridionali, i prosatori
dai poeti; ma anche se confrontiamo l’uso di due Fiorentini di cui ci
restano autografi, il Cellini e il Guicciardini 184 , vi scorgiamo differenze
sensibili.
180 Come segno tipografico, esso già compariva negli incunaboli di alcune
tipografìe nell’abbreviazione dell’enclitica latina que (<?;) e anche in italiano in
dunq ; e simili.
161 Abbiamo, per es., nel Petrarca aldino, c. 9 a-.
Sé l’honorata fronde; che prescriue
L’ira del ciel, quando 1 gran Gioue tona;
Non m’hauesse disdetta la corona...
O, nell’edizione principe delle Prose della volgar lingua (1525), c. m a: «Era per
aventura quel di il giorno del natal suo; che a dieci di di Dicembre veniva; ne ad
esso doveva ritornar piu-, se non in quanto infermo e con poca vita...».
182 «puncto scilicet ad imam litteram, supra posita linea, si interrogatio fuerit,
retorta, si affectus recta»: Institutionum grammaticarum, p. 181 dell’ed. giuntura
del 1516.
183 Dapprima più brevemente nel trattatello De ' punti e de gli accenti che ai
nostri tempi sono in uso..., Firenze 1566, poi nel volumetto su L'arte del puntar gli
scritti 1585. V. anche G. Vittorij, Modo di puntare le scritture vulgati, et latine.
Perugia 1598.
184 V. i buoni spogli di C. Hoppeler, Cellini, di R. Spongano, nella cit. ed. dei
Ricordi ; v. anche quelli di E. Raimondi, nella sua ed. dei Dialoghi del Tasso (voi. I).
Il Cinquecento
351
Prevale ancora il dittongo nel tipo truova, pruova (anzi abbiamo un
Uova corretto mtruova nel Guicciardini: Spóng. lxxxiii); brieve è nel
Machiavelli e nel Cellini, ma nel Guicciardini predomina breve .
Laiternanza tra forme dittongate alla tonica e monottongate
atona è abbastanza rispettata dai Toscani: hanno osservato la
regola e la prescrivono il Varchi Percolano, p. 143) e il Salviati (Awert.,
l’alternanza 188 InV6Ce fuori ^ Toscana l’analogia fa spesso violare
L’esito di -er- da -ar- è normale a Firenze e nei dintorni, mentre già a
Siena e ad Arezzo -ar- persiste 187 . Nella serie dei futuri e dei condiziona-
li te torme m -erò, -erei s’impongono, conforme alle prescrizioni dei
grammatici 188 .
Qualche scrittore settentrionale o meridionale ancora si attiene alle
forme in -arò, -arei (come il Giovio nelle lettere, ecc.); ma avendo il
yergeno adoperato invocarò, pendarò, trovarete, il Muzio lo rimprovera
della trasgressione {Battaglie, c. 51 a): gli sfuggiva, evidentemente, che i
xutun m -erò erano dLorigine fiorentina.
?. e * a serie si imponeva per il suo valore morfologico, invece
negli altri casi (per es. nei tipi -eria, -eretto ecc.) le forme in -er- avevano
un cammino meno facile. I grammatici stessi non vi si raccapezzavano
bene: per es. il Salviati (Avvertimenti , l. Ili c. n, part. il), pur trovando
nel Boccaccio ambedue le forme, preferisce Barberia a Barbaria in
quanto gli sembra che la seconda «abbia dello straniero». Il Castiglio-
ne scrive vecchiarella, il Valeriano parla dei giovanotti dottarelli,
1 Ariosto nell ed. del 32 usa pescarecci e vecchiarei, ma Bulgheria, il
185 Ma leggiamo un huomaccio nel Cellini (Hoppeler p 7 )
Vedo Bembo inhispagnuolita (Prose , Venezia 1525, c. xin). truovare nel
Sansovmo, vuolere e persino buontà nell’ Agostini ecc
J 1 Tol « m | i distogue nel Polito fra -arà dei verbi in -are e -erà dei verbi in -ere.
ajppiamo da Fabio Benvoglienti che il Tolomei volontariamente si atteneva ad
? ^ ne Particolarità grammaticali, come amarò per amerò, legge imperativo per
Per , V f° n ° (Tolornei ’ Lettere - Venezia 1547, c. 234 b), probabilmente
f 1 u f0m ì e sen , esi storicamente più giustificate di quelle fiorentine.
AnO tt: alt ^°T C ,^o mC ^ e ad a PP rovare altri senesismi, come risulta dalla
lettera al Cmuzzi, del 1543: «Quanto a la grammatica, parmi che vi siate lassato
noteO^r da ruso del parlar Senese, la qual cosa se ben si
potesse difendere, dicendo che voi scrivete ne la lingua Toscana de la città
vostra, come han fatto molti poeti, e prosatori Grechi ne la lingua de la lor patria-
f gh è megho fuggir sempre ogni scoglio, benché piccolo, che urtarli;
^. non y? S1 rom Pa. E certo ne nostri tempi son cresciuti certi
(Lettenl cft * c^o* b)* ^ tr ° ppa debilezz a di stomaco non sopportano».
rìnnp 8 nece ssità eziandio, che, in tutti i verbi della prima maniera, la o si
ponesse nella penultima sillaba... Ma l’usanza della lingua ha portato che vi si
E°P®. la e m ij uePa vece ’ ® dipesi amerò, porterò » (Bembo, Prose, p. 131 Dionisotti). Il
Gra ™P}? tlc hetta dà solo honorerò, honorerei, ecc. Il Salviati
(Avvertimenti, II, c. 16) biasima le forme porterò, portarei, «che alcuni scrittori a i
nostri tempi hanno voluto introdurre, 01 Nencioni pensa che alludesse al Varchi
eclettico nell’uso dei due tipi). •
352
Storia della lingua italiana
senese Piccolomini vestarella, Pietro Aretino petrarchescaria, mentre il
Muzio conia il termine di fiorentinaria.
Un punto in cui si ha ancora forte oscillazione è l’adattamento dei
latinismi con u breve: vulgo / volgo, congiugazione / congiogazione,
traduzione / tradozzione (Contile), suggetto / soggetto, sustanza /
sostanza, facultà / facoltà, capitulo / capitolo, ecc.
Nei latinismi che contenevano ou s’era diffusa una pronunzia al
(laldare, aldace ) che il Castiglione, il Valeriano, il Muzio, il Lombardelli
considerano un vezzo fiorentino da non imitare.
La iod iniziale di parola nei latinismi ora è conservata, ora è resa
con g palatale Giocondo / giocondo, Iulio / Giulio ecc.) 18 ®.
Le alternanze nell’uso delle palatali sibilanti (bacio / bascio) sono
ormai rare 190 ; non mancano esitazioni tra sorda e sonora (brugiare per
es. nel Caro-, straginare nel Vasari); fuori di Toscana la g palatale
scempia è spesso sostituita dalla doppia (malvaggio, raggione nella
lettera di Raffaello e Baldassar Castiglione sulle antichità di Roma,
caggionare in G. Bruno, ecc.).
Si hanno oscillazioni fra il tipo cingere e il tipo cignere (aggiugnere,
dipigne: Guicciardini; istignere : Cellini; cignerò: Cecchi, ecc.), in cui i
grammatici mal si raccapezzavano 1 ”.
Il tipo mugliare, ragliare. Figline vince in questo secolo mugghiare,
ragghiare, Figghine, come reazione alla pronunzia contadinesca del
tipo migghia per miglia 192 .
Lotta tra forme plebee e forme civili si ha in Toscana anche nelle
serie schiavo / stiavo, ghiaccio / diaccio (stiavo : Mach.; stiaccia, mastio :
Cellini; diacere, diacitura : passim; diaccido-, Soderini, ecc ); e qualche
traccia ne permane (mastio come termine di fortificazione, diaccio,
ecc.).
Invece l’alterazione che a Firenze aveva cominciato a manifestarsi
nei gruppi di l + cons. (altro) 193 non lasciò tracce.
Dei fenomeni di fonetica sintattica alcuni sono un po’ obliterati
dalla stabilizzazione ortografica dovuta alla stampa (a loro, il re, anche
se la pronunzia toscana è alloro, irré).
188 Talvolta anche dove l’i era vocale: il Muzio rimprovera al Varchi d’aver
scritto gionica perché l’i era vocale (Battaglie, c. UO) - e vuol’esser chiamato
Hieronimo. Il Dortelata stampa invece san Ghieronimo e cosi pure interghiezione-,
conghiettura si trova dal Trecento al Cinquecento.
190 Ma il Norchiati nella nota lettera al Varchi (1540) attesta che alcuni
pronunziavano rucello in luogo di ruscello, e- non più bascio e camiscia (Prose
fiorentine, p. IV, voi. I, lett. 52).
l “ Il Sansovino (Ortogr., s. v.) afferma che «dipignere dicono i poeti», ma poi
dice anche che «cingere è del verso».
*“ Castellani, in Lingua nostra, XV, 1954, pp. 66-70.
183 II Muzio (Battaglie, c. 38 b) asserisce che «il Varchi maestro della lingua...
pronontiava ascoita et una aitra volta». Ma si doveva trattare solo di una
alterazione embrionale: il Salviati assicura che il suono «pare un i... a coloro a cui
l’idioma è straniero» (Avvertimenti, voi. I, III, in, part. 6).
Il Cinquecento
353
T and £ Una m . veng& a Covarsi alla finale, di
ecf ^ CoTlt ShihS™ i - ® - n0 ? Sia davanti a labiale): possian dire,
praticai per ferrnaUo CAxmst^Cb^lYir 6
Mandragola* vedello
possa ° si debba troncare in prosa e in verso è
regole I^ll^ 0 Ì t rnS SCUSSl t 0m, i dat ° che è Pressoché impossibile fissar
regole. Nella prosa, mentre le spontanee consuetu dini toscane sono
Se CC /nùfr “S u StÌ di tdno familiare 190 , negli scrittori non toscani si
sente talora 1 influenza dei moduli boccacceschi: per es «quella
Sia * neUa l^ra dedicatoria del Cortegiano. Il
fsmelbJ ^ d dir f e cSÌgnore e simili senza troncamento
wntarii, p.^ 55 ? 6t C ° me proprio del Parlar’ abbruzzese» (Com-
dfiirAHnJn rSÌ n SÌ ^ Sputa sulla legittimità di troncamenti come quelli
, V u- S £ nor ’ ° 1 tìran te S ue l castello», « Mifabil voci e
io c qUe w Uo del Tasso neUa Gerusalemme liberata
U P l f rdon "’ Perdona» (infelicemente mutato nella
Conquistata m «Amico hai vinto; e perdono io, perdona»),
16 . Forme
eiteiinazione di varianti morfologiche è in complesso piuttosto
forte e dovuta m gran parte ai grammatici.
naradimn^h^mafo A ® 1 no “ e \ n ° tiamo d tardo stabilizzarsi del
d Jfr ArùSfn ■ te m ? m: la forma etimologica le mano, usata
pnma red f zl one, è successivamente eliminata; la
forma analogica la mana / le mane è usata dal Cellini 188
ti dei SOStant ivi m -ca e -ga, e degli aggettivi corrisponden-
ti, 1 oscillazione per influenza latina, è fortissima, e troviamo numerosi
esempi contrari agli schemi che poi si consolideranno: prcSZe S osto*
rerZ^ÀT 0 di P arti <*nci (canto carnascialesco «Quanto è dura »)
KdSl^ eg^beStao^segTendo
354
Storia della lingua italiana
famelice (Ariosto), diabolice, filosofìce, grece (Doni), Filippice (Speroni),
ecc.
Pure assai forte è l’oscillazione per i nomi e aggettivi in -co e -go:
equivochi (Tolomei), sindachi (Nardi), distichi (Baldi), dittongi, trìttongi
(passim), dialogi (Contile); pratichi (Salviate), ecc. 199 .
Per l’articolo, nella prima metà del secolo si ha qualche esempio di
el anche nei fiorentini: Cosimo firma spesso el duca di Fiorenza. Ma poi
finisce con l’imporsi l’uso di il, che è la forma consigliata dai
grammatici 200 . La distribuzione di il e lo quale è codificata dal Bembo
(Prose, p. 91) comprende anche i tipi da ’l e lo’ nganno-, davanti a s
implicata i grammatici (Bembo, Varchi, Muzio, Salviati) raccomandano
lo, ma di fatto troviamo numerose eccezioni. Davanti a z, si usa il. Il
Bembo {Prose, p. 92) prescrive lo dopo per e messer; ma la norma è lungi
dal trovare il consenso generale {per il passato, per il futuro, Gelli; per il
passato, Lenzoni; perilche, Giambullari-, per il contrario, Guicciardini;
per il fango accanto a per lo suo buon verso nelle Annotazioni dei
Deputati, ecc.; in altro nesso postconsonantico far lo satrapo, Caro); al
Ruscelli {Comm., p.-5l6) già per lo papa suona provinciale («abruzzese»);
il Montemerlo loda l’Aretino d’esser sfuggito alla «superstizione»
d’usare lo dopo per, mentre il Salviati QI, n, xxn) ammette pel «favorito
dalla voce del nostro popolo, che altramente non dice mai» e biasima
per il «del moderno stil cortigiano». In la, combattuto dal Bembo {Prose ,
p. 155), perde molto terreno: e spesso l’Ariosto lo eliminò nella sua
revisione.
Per il plurale, la distribuzione è analoga al singolare: e è in forte
regresso, ecc. Riguardo all’oscillazione fra li e gli il Salviati (II, n, xxii)
contesta che il Bembo abbia ragione di preferire per li a per gli ; il
Ruscelli {Comm., pp. 511-512) raccomanda di non usare gli quando sia
vicino un altro gli.
Per i numerali, si hanno ancora numerose forme per indicare il 2:
duo, dui, doi, duoi, due, du\ dua. I vari autori usano per lo più due o tre
forme ora promiscuamente, ora secondo il genere del nome che segue,
secondo la collocazione del numerale (prima del sost. o dopo) e, qualche
volta, secondo il suono iniziale del vocabolo seguente (da’ davanti a
vocale). Vi è ima certa tendenza nei poeti a distinguere duo per il
maschile e due per il femminile, secondo la regola latina e frequenti
esempi del Petrarca (duo amanti, 115, 1; due rose fresche, 245, 1): è questa
la regola seguita dall’ Ariosto (non senza eccezioni, e con raggiunta che
i plurali in -a per lo più vogliono duo.- dua dita, dua cornai e dal Tassò.
In prosa duo abbonda nei fiorentini (Machiavelli, Gelli, Guicciardini) e
ad essi è rimproverato (cfr. Salviati, Avvertimenti, I, II, 19); anche duoi è
180 Cfr. anche domestichissimo (Castiglione), ecc.
200 II Bembo (Prose, p. 91 Dion.) registra solo il, e così il Trissino; l’Acarisio (p. 1)
conosce el solo «in compositione» (per e ii); il Ruscelli {Comm., p. 517) considera el
(e il plurale e) «non solamente vitio, ma orrendo & spaventoso mostro nella lingua
nostra».
Il Cinquecento
355
piuttosto del fiorentino parlato. La Crusca, abbandonando ogni distin-
zione di genere, raccomanderà due in prosa e duo in verso,
j Un Pun to s . u .grammatici non arrivano a imporsi è l’ostracismo
da essi dato a Im e lei come soggetti. Anche l’ostilità con cui parecchi di
essi impugnano il nuovo valore allocutivo di Ella e Lei non arriva a
opporsi all ondata dell allocuzione in terza persona. Si possono distin-
^ ^espansione 201 : nella prima fase (che si svolge principal-
mente nel Quattrocento) si generalizza l’uso dei pronomi quella, ella,
if ’ rif e rim ento ad allocuzioni astratte come Vostra
Signoria, Vostra Magnificenza, ecc. (allocuzioni che trionfano nell’uso
cortigiano mentre i letterati si sforzano di tener vivo, promiscuamente
con esse, il voi); nella seconda fase (primi decenni del ’500) divulgatosi
per influenza spagnola l’uso di dar del signore a tutti (v. p. 359), e quindi
generalizzatosi il trattamento di Signoria, spariscono le altre forme
pronominali, Quella, Essa, ecc., lasciando posto a ima sola, Ella - Lei
(con Ella come soggetto e Lei per i complementi con preposizione- ma
anche con Lei come soggetto); nell’ultima fase (metà del Cinquecènto)
1 allocuzione prende ima fisionomia propria, intermedia tra il Voi e il
Vostra Signoria completo 202 .
Gli per «a lei», frequente nell’uso, è biasimato dal Ruscelli, dallo
Varchi 202 ^ Salviatl ’ gli per * a loro> * Pure frequente, è biasimato dal
Gliele come forma per tutti i generi e numeri, è raccomandato dal
P- 110 Dl ° n) e si trova spesso (anche sotto la forma più
popolare gliene o gnene); ma alla fine del secolo lo Strozzi raccomanda
di evitarla ( Osservazioni , pubblicate in appendice al Buonmattei).
mo ZÌ. i e J ltra neU ’ u ^> in questo secolo, specialmente nell’Italia
me Ti t j° na ^ e p ® r es - m G- Bruno) ed è uno spagnolismo 204 .
i 3 j dimostrativo cotesto è dai non Toscani male adoperato: per es il
Randello parlando dei propri scritti, parla di «co testo sorte di novelle»
Proemio I parte), oppure evitato (v. la testimonianza del Ruscelli
Commentarli, p. 132). ’
Il possessivo enclitico del tipo frateimo, màtrema, che ormai nell’uso
toscano è limitato a pochi esemplari e agli strati infimi della popolazio-
ne, compare solo in qualche testo di tono popolare (in commedie del
Machiavelli e del Cecchi, in modi di dire citati dal Doni); i grammatici,
pp 187^96^ 0rm1, ‘ Priinordi del lei “’ in Lingua nostra, VII, 1946 (rist. in Saggi ling.,
casHeUanl'rit^ M ‘ A1 . essandri - nel Paragone della lingua toscana e
castigliana, rat., c. 64: «Un altro mal uso regna oggi, ch'è di alcuni signori i quali-
parlando o sraivendo ad alcun che lor paia disonorarlo col Vaie dì tronno
dargU deU 5 Sl Sn°na gli parlano e scrivono in terza persona eguali
Senno» ’ SU6 ’ 6d ^ Che m ° lte Volte non se ne P uò «avar sentimento
ima^oha ^Hercotono.^ 11 ^ ' (Question ' * 185) - si ^a almeno
204 D’Ovidio, Varietà filologiche, pp. 294-301.
350
Storia della lingua italiana
che trovano qualche esempio in Dante e nel Boccaccio, spiegano le
forme, ma le sconsigliano («bassissima voce»: Bembo; «per lo piu
parlare di volgo»: Varchi; «voci plebee»: Citolini); anche nell’uso
toscano plebeo ben presto esse spariranno.
Quanto al verbo, alcune delle forme emerse nel 400 e che ancora al
principio del secolo hanno una certa voga, sono man mano eliminate.
Vengono ricacciate così le forme di 3 a persona plurale del presente di l a
coniugazione in -ono (pensono, s'ingannono: Mach.; prestono, somiglio-
no : Gelli ecc.) 205 . ■ . .
Gli imperfetti in -o (-avo, -evo, -ivo, ero 1 sono adoperati esclusivamen-
te dagli scrittori fiorentini più spontanei (Celimi); altri scrittori oscilla-
no fra -o ed -a, e i non Toscani volentieri obbediscono ai grammatici
(Bembo, Trissino) che ammettono solo -o: fu così che l’ Ariosto passò,
nell’ultima revisione del Furioso, alle forme in -a. Alla 2 a persona
plurale, la forma in -avi, -evi, -ivi, che è largamente attestata per 1 uso
vivo (voi davi. Celimi; voi potevi, Gelli; voi havevi. Doni; voi gli volevi
dare. Bramante), è condannata dal Salviati.
Le forme di 3 a pers. del cong. imperfetto in -assi, -essi, -issi (mancassi ,
volessi. Machiavelli) sono aborrite dai grammatici (Tizzone Gaetano ne
fa strage nella sua edizione del Poliziano).
Nel condizionale, le forme in -ia sono ormai limitate alla poesia,
salvo pochi esempi in prosa (nel Cellini, nel Vasari: forse per aretini-
Sm Le forme dei perfetti forti in -o no (scrissono ) cedono nella seconda
metà del ’500 alle forme in -ero, a cui il Bembo e altri grammatici
avevano dato vigore 208 . . , „
I paradigmi sono molto meno stabili che quelli odierni, e le forme
aberranti abbondano (perfetti deboli come vivette. Varchi; morette.
Dav anz ali; participi come fondato, Cellini, ecc.). E anche maggiore è la
oscillazione negli scrittori periferici: per es. nel passato remoto e nel
condizionale affiorano presso i settentrionali, malgrado il monito del
Bembo, forme in -assimo, -essimo, -issimo (noi andassimo «andammo»,
noi potressimo «potremmo»); presso gli scrittori meridionali si trovano
ancora infiniti, participi e gerundi con affissi di plurale («per essemo
essi usciti in campo a spasso»; Bruno, De la causa, I, p. 150 Gentile;
«a vendono quelli a-sue male spese imparato»: Bruno, Cena delle ceneri,
I, p. 25 Gentile, ecc.).
II costrutto tranquilla e pacificamente, che l’italiano antico aveva
posseduto, ma che non era stato accolto dai maggiori scrittori trecente-
schi, ricompare ora nell’uso, specialmente cancelleresco: il Varchi
scrive nel 1. V della sua Storia fiorentina «molto lunga e particolarmen-
505 Tizzone Gaetano sconciava il Poliziano pur di eliminare le forme in -ono-.
dopo aver mutato erono in erano, per salvare la rima doveva anche mutare posa
ferono confine imperano , e così via (v. l’Introduzione dell’ecL Permcone, p. xxxixJ;
il Ruscelli e il Salviati danno pure l’ostracismo alle forme in -ono.
206 Nencioni, Fra grammatica e retorica, passim.
Il Cinquecento
357
te (per usare ima volta ancor noi questo nuovo modo di favellare)», e
questa nuova introduzione nell’uso ci rende certi che si tratta di un
ispanismo 207 .
17. Costrutti
È ancora molto usato nel Cinquecento nell’apposizione col di,
accanto al tipo col dimostrativo (« quella cicala della Brigida»; Gelli), il
tipo col semplice articolo («ZZ semplice dello istrice»: Firenzuola; «il
beccone del marito»; «ZZ fastidioso di suo cognato»: Bandello) 200 .
L’uso dell’articolo con ellissi del sostantivo, quale può essere
esemplificato da un passo della dedica dell’Orazìa dell’Aretino a Paolo
III (1547): «la vita di Gesù Cristo e Za di Maria Vergine, eia di Tommaso
d’ Aquino» o da ima lettera del Parabosco («Questa mattina ho avuto la
di V. S....»: Lettere, Venezia 1546, e. 19 a), è certo uno spagnolismo.
Tutti può essere seguito dal sostantivo senza articolo: tutti mali,
tutti corpi (Tasso).
I comparativi e i superlativi si presentano talvolta ancora con
avverbi intensivi: «quella che più è migliore » (Bembo, Prose, p. 42 Dion.),
«beono sempre i più pessimi vini» (Aretino, Cortig., Ili se. 6).
L’ènclisi pronominale all’inizio di proposizione è ancora predomi-
nante, specialmente negli scrittori arcaizzanti (per es. nel Bembo), ma
ormai gli esempi negativi alternano con quelli positivi (si può, ti
ringrazio, ma dirotti nella stessa scena della Pinzochera del Grazzini, I,
se. 6).
Nelle coppie pronominali, il tipo se gli (se li), se le 200 è più frequente di
gli si, le si-, il tipo lo mi, la mi ecc. è più raro di me lo, me la, ecc. 210 :
esempi tuttavia non ne mancano 211 .
Nelle costruzioni participiali assolute, il participio spesso rimane al
maschile singolare: «fatto Pasqua» (Bembo, lettera del 1503), «straccia-
to la scritta e licenziato Nicodemo» (Grazzini, Spiritata, I, se. 3),
«restato la femmina contenta» (Doni, nov. XIII), «gli operai, vistosi in
vergogna» (Vasari), «conchiuso le proposizioni a rovescio» (Davanzati),
ecc.
207 Migliorini, Saggi ling., pp. 148-155.
208 La spiegazione del Salviati che vede nel primo membro una sostantivazio-
ne astratta («dove l’addiettivo infelice per lo sustantivo infelicità è posto senza
alcun fallo»; Avvertimenti, II, ii, cap. 101 non è accettabile: basti pensare a
femminili come «la trista della volpe» (Firenzuola).
209 Cioè il tipo V della classificazione del Lombard, in Studier mod. spr., XII,
1934, pp. 19-76.
210 Tipo III del Lombard. Il Bembo, opponendo un uso «italiano» a un uso
«toscano» (Prose , p. 106 Dion.), si rende conto che questo secondo sta perdendo
terreno (ma per suo conto preferisce attenersi all’uso arcaico).
211 Molti nel Bembo; «perché la le diè Astolfo» (Ariosto, Ori., XXXII, st. 48);
«cercando pur di tortomi davanti», (ib., XXIV, st. 39); «la ti chero» (Giraldi,
Hercole, Vili); «diteiemi» (Tenzoni, Difesa, p. 20 ), ecc.
158
Storia della lingua italiana
La tendenza a un periodare sostenuto, e perciò a una subordinazio-
ie complessa, è cosa troppo nota perché ne dobbiamo parlar qui Ctan
dìù che P un esame analitico richiederebbe troppo lungo ^corsoi Fo
progressi fa là costruzione dell’accusativo con 1 infinito . L azione
•'onscia dei gr amma tici, con gli scrupoli di chiarezza che introduce,
regredire fortemente le ellissi dei che relativi e dichiarativi; tuttavia se
ae hanno ancora esempi («di quello vi sia di buono»; Machiavelli; «
hmrfimpnto aveva fatto al suo signore»; V ettorlr .
Nelle proposizioni concessive, sebbene si usa quasi sempre con
l’indicativo, benché col congiuntivo: «le quali cose se bene pi^evano
allo universale» (Guicciardini, Ricordi, C 21 s pongano), «IGmdol non
poteva, sebbene gli dispiaceva, tenere le nsa» (Vasan, Vita di Buffai
macco) 214 .
18. Consistenza del lessico
In questo paragrafo e nei successivi, potremo toccare solo. come è
ovvio di alcuni fenomeni più generali, senza poterci soffermare .sull
peculiare fisionomia che assume il lessico dei singoli secondo il timbro
del La 1 cono P sce S nza a denessico durante il Cinquecento si allarga notevol-
me^e °"a per la quantità del vocaboli donnnat daUe persone di
aualche cultura, sia per il numero crescente di tah persone.
I Toscani hanno il vantaggio di potersi appog^areallorolessico
patrimoniale, e parecchi di loro vanno cercando con cmiosità vocaboh
e locuzioni colorite (che in parte riescono poco ìntelligibih ai non
Toscani, e sono accolte da questi solo limitatamente). Settentoion^ie
meridionali indulgono in misura sempre rnmore ai loro dialettahsmr
Per restare sul saldo terreno della tradizione scritta, essi inclinano
molto più che gli scrittori toscani ad accogliere latinismi.
Le dichiarazioni programmatiche sono lungi
l’uso effettivo: il «lombardo» Castighone ha, in complesso pochi
lombardismi e l’arcaizzante Bembo ha, come rilevava già d Caro,
moltissime voci che non erano state adoperate dal Boccaccio.
La lingua del Cinquecento conserva molti vocaboli che ’J^jJcati
dal punto di vista di oggi, sembrano arcaici, ma che allora erano ben
vivi e sono stati sostituiti solo nei secoli seguenti: si i pensi a
stufa «bagno pubblico» o come fornire per «finire». Altre parole mvece
21^ U. Schwendener, Der Accusativus cura Inf. im Italienischen, Sàckingen
213 II Salariati a proposito del passo boccaccesco «io credo, se
perseverato il mio duro proponimento si sarebbe piegato» all, nov - ■
ch”SdarJ “esso il che è usanza del Boccaccio e graziosa proprietà della
Spongami, ed. cit. dei Bicordi, p. cxxxvn, Scoti-Bertinelli, G.
Vasari scrittore, Pisa 1905, p. 200.
Il Cinquecento
359
già erano in decadenza, e rimanevano in uso soltanto nella lingua dei
ceti inferiori.
Gli scambi tra regione e regione, assicurati da un’attiva civiltà
letteraria, si mantengono sempre vivaci e contribuiscono a conguaglia-
re le divergenze. Tuttavia i letterati tendono a staccarsi dalla vita, a
fare quasi una casta a sé L’ambiente diventa man mano sempre più
chiuso, pesante, conformista: si ricerca il grave, l’eroico, il pomposo.
Latinismi e spagnolismi spesseggiano.
L’importanza data ai modelli trecenteschi ha consolidato un notevo-
le numero di doppioni, che i grammatici in qualche modo giustificano
attribuendo a ciascuno una porzione dell’uso: quelle distinzioni tra
forme popolari e forme più o meno letterarie per cui i grandi scrittori
del passato si erano regolati secondo il loro gusto, ora diventano
oggetto di prescrizioni più o meno rigorose. Non solo si distingue tra
parole adatte alla prosa e parole adatte alla poesia, ma fra parole più o
meno convenienti a dati generi letterari.
L'apparizione di nuove cose, la conoscenza che se ne acquista, la
elaborazione di nuovi concetti, il mutamento dell’angolo visuale fanno
sì che molti nuovi vocaboli compaiano e parecchi altri mutino di
significato.
Per quel che concerne la vita civile e sociale, ecco alcuni esempi.
Stato, che, riferito alla politica, aveva ancora nel Trecento il significato
di «regime», dalla fine del Quattrocento in poi si riferisce sempre più al
«territorio» su cui si esercita una signoria, e il Machiavelli contribuisce
a precisare questo significato della parola, il quale diventa comune in
Europa nel Cinquecento.
Di questo secolo è anche la diffusione di ragion di stato, ricalcata
sulla locuzione classica ratio reipublicae 2ls .
Appare il termine di democrazia, contrapposto, nei primi esempi in
cui appare (F. Baldelli, ecc.), a quelli di monarchia e aristocrazia,
secondo la nota tripartizione aristotelica.
Signore, il titolo che prima si dava solo a quella o quelle persone che
esercitavano il potere (la signoria ), si estende molto largamente, per
influenza spagnola: l’Ariosto si lagnava nella satira indirizzata a suo
fratello Galasso (1519) che dessero questo titolo perfino agli stranieri e
alle cortigiane:
«Signor», dirò - non s'usa più «fratello»
poiché la vile adulazion spagnuola
messe la signoria fin in bordello! -
«Signor» (se fosse ben mozzo di spuola)
dirò...
{vv. 76-80).
E signora potè nel Cinquecento significare, senz’altro epiteto.
215 De Mattei, in Lingua nostra. Il, 1940 pp. 97-100
360
Storia della lingua italiana
«cortigiana». Del resto, il termine stesso di cortigiana prende significa-
to spregiativo proprio per l’uso eufemistico che se ne fece m que
SeC L’aegettivo galante Centrato in italiano nel ’400, dal francese, ma
non sfnza concomitanti influenze spagnole) esprime le moltephci
qualità dell’uomo di mondo, alla cortesia si unisc ® * ^XJverso
raffinatezza, la probità, la gentilezza ora cerimoniosa oraardita verso
le donne; il galantuomo è tipo di perfezione sociale (e fra le qualità
finisce poi col prevalere quella di probità).
In contadino la nozione di «lavoratore» predomina ormai su quella
di «abitante del contado» 219 . , . aUa _ oll „ 7ione
Lo scadimento della vita monastica che ha portato "illaxione
delle rendite di parecchie abbazie come benefici ecclesiastici fasiche
abate si riduca a un semplice titolo-, «è qui un gentiluomo il quale ha un
fieri io di dieci anni abate » (Casa, Prose, II, p. 35).
L’aggettivo bravo sostantivato viene a indicare un «uomo manesco»
(Giannotti), con «la coltella a cintola» (Doni):
vita di questo tempo, spesso rappresentata nelle scritture , sono ai
auest’età anche bravare, bravata, bravura™. __ . „„„„
Le capacità che più si apprezzano, in questa raffinata civiltà s
considerate come altrettante virtù-, di qui il nuovo sigmficato di virtuoso
nato nelle corti e applicato agli artisti, ai letterati, ai canton .
L’instaurarsi di stabili usi teatrali porta al concretarsi di una
precisa terminologia: nel Negromante dell' Ariosto 1 versi terminah de a
redazione del 1520 sono sostituiti, otto anni dopo, da altri in cui la
forma è più spedita e la terminologia rinnovata:
Or fateci
con lieto plauso, o spettatori, intendere
che non vi sia spiaciuta questa favola 220 .
«...la voce contadino è tutfaltra cosa, se benda P^j^f^^corsf lì"?
parte de’ nostri abusandola, la pigliano per “lavoratore » (Borghuu, Discorsi, il. p.
518 \.v p N i C olini. «I bravi nella letteratura del Cinque e del Seicento», in Nuova
Ant ° l * ’NeirìtaUa^ettentrionale. accanto al nome di bravo figura qualTparfa
Esterne - E nkS?U Calmela ““ S*-. p. 70 Gwaonl -
vertuoso.
220 Folena. Crisi, pp. 154-155.
Il Cinquecento
361
Spettatori figura anche come termine ormai affermato, nel rifaci-
mento del Bemi, che è di quegli anni.
Peripezia, riferito dapprima alle vicende dell’intreccio teatrale in
discussioni aristoteliche (Speroni, ecc.), viene poi applicato alle vicende
della vita (Sassetti); probabilmente anche catastrofe risale alla Poetica
di Aristotile.
Si concretano nel Cinquecento anche le figure ed i nomi di
parecchie maschere teatrali-. Zanni, che è la personificazione del
contadino bergamasco avvenuta a Venezia, il Magnifico, personifica-
zione del vecchio veneziano (cui poco dopo si attribuisce il nome di
Pantalone ), il dottor Graziano, con i tratti del dottore bolognese, il
Capitano ICap. Spavento, Gap. Fracassa, Cap. Matamoros) per lo più
napoletano o spagnolo, ecc. Nella maschera di Arlecchino un comico
dell’arte italiano che si trovava a Parigi verso il 1570-80 (forse il
bergamasco Alberto Ganassa) fuse le caratteristiche della figura
tradizionale degli Herlequinis (buffonesca degenerazione della mesnie
Hellequin, processione di dannati, nota fin dal sec. XI) 221 con le
caratteristiche degli Zanni.
Sorge in questo secolo il costume e il vocabolo deU’improwisare (nel
Varchi anche prowisare).
Si fissa al principio del'500, sembra, il significato musicale di
concerto.
Molti nuovi nomi si danno a nuovi balli: ricordiamo la moresca e la
pavana (v. p. 388).
Nascono a Roma le pasquinate, satire affisse al torso di Pasquino, e
a Venezia i primi avvisi e le prime gazzette manoscritte (così chiamate
dal nome della moneta che bastava per pagarne una copia).
Il ducato nuovo di zecca prende a Venezia il nome di zecchino (1543).
Il nome di umanista, destinato a prendere poi tanti significati,
appare (in latino alla fine del Quattrocento, in volgare ai primi del
Cinquecento) come termine scolastico per designare chi insegna le
humanae litterae.
Rinascita prenderà solo nell’Ottocento il suo moderno significato
periodicizzante: ma già il Vasari si propone di scrivere le sue Vite
distinguendole in tre età, «da la rinascita di queste arti sino al secolo
che noi viviamo» (prefazione II parte: II, p. 95 Milanesi).
Gotico, tratto dal nome dei Goti, considerati come i principali
eversori della civiltà romana, viene applicato dagli umanisti all’archi-
tettura ogivale, da essi ritenuta «barbarica».
Pedante, foggiato come nome decoroso del ripetitore che accompa-
gna gli scolari, può ancora avere valore obiettivo («Pierfrancesco
pratese, stato pedante del duca»: B. Segni), ma i dileggi dell’Aretino, del
Caro, del Grazzini finiscono col dargli una connotazione spregiativa; e
221 Dalla quale anche derivano V Alichino dantesco e IVUchino ariostesco (Ori.
fur., VII, st. 50).
362
Storia della lingua italiana
spregiativi sono tutti quanti i derivati Ipedantuzz o, -eria, -aggine, -esco,
-are).
Il termine di gusto, buon gusto, trasferito in Spagna dalle sensazioni
corporee ai sentimenti estetici, e accolto anche in Italia in questo
significato («l’aver avuto in poesia buon gusto » nel noto verso dell’ Ario-
sto, Ori. fur., XXXV, st. 26).
Mentre Accademia prende ora stabilmente, come abbiamo accenna-
to, il significato moderno, Liceo e Museo muovono i primi passi dalle
antiche carte alla realtà: si chiama Liceo una riunione di eruditi in
Roma in casa di Claudio Tolomei 222 , Paolo Giovio chiama Museo la
propria villa di Como, con una raccolta di ritratti 223 .
I sommovimenti portati dalla Riforma e poi la restaurazione
cattolica hanno numerosi echi. Si foggiano nomi come luterano (dappri-
ma anche luteriano), ugonotto, protestante (scelto come più obiettivo,
meno «odioso» di quello di luterano) 22 *-, si designano nuove istituzioni
cattoliche (per es. cappuccino, gesuita).
II nome ghetto passa ora da Venezia ad altre città, man mano che si
obbligano gli Ebrei a risiedere in un quartiere isolato.
Chi è poco osservante in fatto di religione è facilmente accusato di
ateismo.
Il nuovo rigore instaurato dalla Controriforma porta a espurgare
molti libri-, i nomi di destino, fato, fortuna e simili sono talvolta eliminati
o sostituiti da Provvidenza; divino, che era stato adoperato negli ultimi
decenni del’400 e nei primi del ’500 con incredibile abbondanza 225 ,
regredisce rapidamente quando si fa sentire la Controriforma 226 ;
locuzioni come per Dio, per la tua fede, e persino vatti con Dio sono
evitate per timore di fastidi; certi nomi odiosi vengono sostituiti da
perifrasi (non si parla più del Machiavelli, ma del Segretario Fiorentino);
in occasione della «rassettatura» del Decameron, i revisori romani
volevano che si togliessero espressioni come bellezze eterne e non potere
222 Contile, Lettere, Pavia 1564, 1. c. 19 b.
223 Lettera all’Aretino del 1538 CI, p. 207 Ferrerò) e altre lettere, passim. Un
altro Museo fu poco dopo istituito da Alberto Lollio.
221 Viceversa quello di riformatore suscitava scrupoli cattolici (Speroni,
Orationi. p. 67).
225 Per es. «questi signori hanno formato un Cortigiano tanto eccellente, e con
tante divine condizioni» (Castiglione, Cort., Il, § 98). Lo stesso Ariosto accredita
l'epiteto dato all' Aretino-, «il flagello - de’ principi, il divin Pietro Aretino» (Ori.
fur., XLVI, st. 14) e a sua volta riceve il medesimo titolo {neH’edizione principe
dell’Erbolato, ecc.). Ben legittimamente l’epiteto di divino, che era stato più volte
riferito a Dante e al suo poema fin dal tempo del Boccaccio, prende definitiva
consistenza nel titolo della Divina Commedia, a partire dal frontispizio dell’edi-
zione giolitina curata dal Dolce nel 1555 (O. Zenatti, La « divina » commedia e il
« divino » poeta, Bologna 1895).
228 La dedica dei Madrigali del Cassola, fatta ancora nel 1544 al divinissimo
Signor Pietro Aretino, è mutata l’anno seguente in una dedica all'eccellentissimo
Signore. (Cosi, nella commedia Aquilana di Torres Naharro, «aquella divina
mano», giorn. I, v. 58, è sostituito, in ediz. censurate, da bendila o admirable ).
Il Cinquecento
363
Sm,S V ^ negaSSe i! , I ;, bero arbitrio). Ma non mancano tracce
rnn^* he i dl reazione a11 1 P°cnsia dilagante, come la coniazione di
collo torto o la connotazione spregiativa data a chietino
Stat1 ’ ^ organizzazione degli uffici assume aspetti moderni:
ma penche dascuno stato e autonomo, le istituzioni, anche analoghe
2 ^Tc Cre T e ' hanno spesso nomi diversi. Le congrega-
rono rnSi- da SlS i° v P ,? r a governo dell ° Stato della Chiesa non
diver i e da qu , elh che in altri stati si chiamavano consigli
b ® 1 e . cc ’ : Emanuele Filiberto istituisce un senato a Torino e uno
a Chambery (corrispondenti ai «parlamenti» francesi)
„ bes , tenders ^ dell’organizzazione burocratica fa sì che si coniino
trachzi?iX C tP 2 ° 1 6 COStFUttÌ nuovi: e stile e lessico urtano i letterati
Anche 1 abbondanza dei termini tecnici non piace ai letterati, i quali
Ll eri | SC f 0n ° i C1 ° che e tradizionale e ciò che è generico: invece gli
r^ llS1 ’ D Che ne s f ntono la necessità, non mancano di difenderli
Avendo il Ramusio fatte certe osservazioni a un dialogo (latino) del
rJm^f St0r ° ? 54 ? * quest | sl Palesa contrario ad accoglierne alcune: gli
sembra contro la verosimiglianza «dar’ alla persona del Navagero, la
sua eloquentia, e non usare alcune distintioni dialettice & scolastice, le
quali gli usati negli studii humani non ponno sentire, ma qui è da
es?e S rne r pIeno e X » Dial ° go le patisse - o nò, però ch’io vedo Platone
S a . c °u clus ion e del Trattato dell’arte de la pittura
^ laa ° 1584 > P’. 680 >.si difende dall’accusa di aver adoperato termini
ìci, magari semidialettali: «Quanto alle parole meno approvate
annresso TniEnr?’ "V* 1 quest ’ arte e per consequenza così significanti
a P,P e8so 1 Potori, che non si potevano in alcun modo tralasciare
nnS? esser r mte ?° : pOÌ che con un’altra parola sola non era
possibile significare il medesimo e volendo circonscriverla con molte si
veniy a anzi ad intricar le cose che ad esplicarle»
cnn^PrfnHn‘1? 6 P ° ter P. resentare alcune di queste terminologie,
Qh» X • ? i? incr f mentl e 1 riassestamenti subiti durante il secolo-
• traUass ® dl art i figurative o di musica, di artiglieria o dì
metallurgia, i risultati sarebbero importanti 229 .
Mi accontenterò di dare un breve cenno sulla terminologia gram-
^ ra . ovvl ° che S1 trasportassero alla grammatica italiana i
ocaboli che già si usavano per la grammatica latina: così troviamo nel
dpi cap , i . to1 ? dedicato dal Salviati (Avvertimenti, I, n, v) alla lingua
inclinTafie voS «"dP a n' ° n° m f ° ggi Si dice lor °' Segretari di corte», troppo
Borghesi nelle LetVl d^ofltve ^ CenSUTe rivolge a sin S ole vo « D.
sm di uo rnini illustri, Venezia 1560, p. 724.
li Firenze W 52 P nassùrùpo ment i e xf m 2 Stra ^ <Studi sul Un 8uaggio del Machiavel
sèrie ri? vorphnift i k - 1 Machiavelli dia precisione terminologica a una
sene di vocaboli politici concernenti la biologia degli stati
364
Storia della lingua italiana
Bembo vocale e consonante, sillaba, nome, verbo, genere, numero,
condizionale passato, passivo, ma molti altri termini che pur figurano in
gra mma tici contemporanei ( apocope , sincope, transitivo, avverbio, ecc.)
si cercherebbero invano nelle Prose. Invece è palese un certo sforzo di
ricorrere a vocaboli della lingua comune per sostituire termini che
dovevano sembrare troppo tecnici [genere del maschio e non maschile-,
participante voce per participio-, pendente tempo per imperfetto -, proponi-
mento o segno di caso per preposizione, ecc.) (cfr. p. 329).
Anche il Giambullari accetta parecchi dei termini tradizionali
(nome, verbo, pronome, soggiuntivo, participio, ecc.), ma per altri è
restio: non parla di modo indicativo, ma di dimostrativo o pronunziati-
vo, e conia tutta una serie di vocaboli nuovi per le figure grammaticali
e retoriche ( aggiugninnanzi , aggiugninmezo, aggiugninfine per proste-
si, epentesi, paragoge, rompiparole per tmesi, ecc.) (cfr. p. 329-330).
Per quei capitoli della grammatica per i quali non esisteva una
salda terminologia latina, vi sono molte incertezze: mentre il Dolce e il
Salviati chiamano coma la virgola (e il Toscanella comma), il Giambul-
lari e il Lombardelli chiamano corno i due punti. Il Salviati indica col
termine di mezzo punto i nostri due punti, mentre il Lombardelli
chiama mezzo punto il punto e virgola, ecc.
Invece quei termini che hanno l’appoggio dei corrispondenti voca-
boli latini o greci guadagnano man mano terreno sulle innovazioni
proposte, «perciocché il dir pronome, participio, congiunzione, meglio
s’intende dalla più parte, che se tu dica vicenome, partefìce, giuntura, e
sì fatti» (Salviati, Avvertimenti, I parte. Proemio del 3 libro).
Nella coniazione dei termini nuovi, si attinge alle fonti consuete. Si
hanno alcune nuove onomatopee: il gioco del tric trac ricordato dal
Machiavelli, e «un tric trac di pianellette» nel Piccolomini; bronfìare
nell’Aretino, barbandrocco in un sonetto del Caro, ecc.
Dei suffissi sono sempre fertili -ezza (rarezza. Caro), -ita (medesimita ,
Borghini; petrarcalità. Caro-, sororità, .Corbinelli), -mento (il Muzio,
Battaglie, c. 54 a, si lagna dei troppi astratti in -mento del Castelvetro),
-erta (petrarcherie e bemberie. Lasca), -ale ( invernale ), -ario (bancario )
-esco ( concubinesco , Davanzati), -ile (fratile, Nelli), ecc. ...
Imitando il Boccaccio, il Bembo aveva foggiato numerosissimi
aggettivi in -evole (difendevole, diportevole, notevole, sirocchievole, ecc.);
il suffisso è molto frequente anche nel Giovio (cartellevole, salamandre-
vole, ecc.)-, e appunto per satireggiare l’imitazione del Boccaccio si
foggiò boccaccevole (Tasso, Cecchi, Salviati).
Tra i prefissi sono molto fertili in- (indifeso), anti- ( antisatira ), ecc.
Pseud o- tende già a diventare prefissoide: pseudogazza, pseudolaude
(Giovio). , , T .
Non mancano le formazioni parasintetiche ( àttoscaneggiare , loio-
mei; impamasare, spoetarsi. Caro; svescovato, Muzio) e quelle dirette
(complimentare, statuare. Celimi; ghiribizzare, Vasari; concerto tratto da
concertare qcc ).
Tra i composti, accanto alle molte formazioni del solito tipo
Il Cinquecento
365
imperativale («quei minuzzapetrarchi, lambiccaboccacci e altri stracca-
lettori »-. Firenzuola), abbiamo parecchie formazioni latineggianti (piovi-
fero. Alamanni; moltifronte. Caro-, metallificare, Biringuccio; univalve,
Citolini, ecc.). Anche elementi greci cominciano a essere adoperati sia
da soli, sia in combinazione con elementi latini, per formare neologi-
smi: specialmente ma non esclusivamente 230 per nuove dottrine (la
filografia di Leone Ebreo, l’ornitologia di Ulisse AldroVandi, ecc.) e per
nuovi strumenti scientifici (grafometro , olometro, planisferio, ecc.) 231 . La
formazione dotta di questi nomi facilita la loro circolazione intemazio-
nale: e infatti qualcuno dei termini citati è stato foggiato fuori d’Italia e
accolto fra noi 232 .
Numerosissime sono anche le innovazioni lessicali cinquecentesche
dovute a mutamenti semantici: scapolo, che passa dal significato di
«libero» a quello di «celibe», cotto per «ubbriaco», balaustro trasporta-
to dal bocciolo del melograno alla colonnina che ne imita la forma, ecc.
Le lingue speciali forniscono molte metafore: contrattempo attinto alla
equitazione o alla scherma, dar nelle scartate preso dai giochi di carte,
ecc. Le più difficili a interpretare sono le locuzioni riferite a persone o
luoghi di cui si sia perduto notizia: è un caso se sappiamo che parere il
secento per «pavoneggiarsi» trae origine dal soprannome di un cavallo
che era stato pagato seicento fiorini dalla famiglia Benci. Ma chi sarà
stato (anzi, sarà esistito davvero) quel Buraffa a cui si allude nella
locuzione più dotto che il can di Buraffa? 233 .
19. Latinismi
Nel secolo precedente, latinismi e grecismi erano affluiti senza
misura nel lessico; ora l’afflusso è più regolato, per il maggior rispetto
che si ha per il volgare; ma i nuovi rami delle lettere e delle scienze che
si cominciano a trattare in italiano anziché in latino esigono numero-
sissimi termini nuovi, e la via più semplice, ove gli antichi avessero già
elaborato quelle nozioni, non è di coniare termini nuovi, ma di
attingerli alle due lingue antiche.
Così, dalle traduzioni di Euclide fluiscono nel lessico numerosi
termini che s’installeranno stabilmente nel lessico italiano: cateto,
lemma, ecc. Anche più importanti sono le traduzioni di Vitruvio 234 , da
230 Ho ricordato altrove (Lingua e cultura p. 241) il greco àiMa rifatto in
ateismo.
231 Ricordiamo, dopo il Poliphilo, il Philolauro (commedia, Bologna 1520) e i
nomi delle Accademie dei Filarmonici, Verona 1543, dei Filomati, Siena 1571, ecc.
232 Descrittione et uso dell'Holometro per saper misurare tutte le cose... per Abel
Fullone valletto di camera del Re di Francia, Venezia 1564.
233 Cfr. F. Ageno, «Nomignoli e personaggi immaginari, aneddotici, proverbia-
li» in Lingua nostra, XIX, 1958, pp. 73-78.
234 Già nel secolo precedente, del resto, avevano accolto termini di Vitruvio L.
B. Alberti, Francesco di Giorgio Martini e l'autore del Poliphilo.
366
Storia della lingua italiana
Il Cinquecento
367
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cui molti termini penetreranno anche nella pratica: scenografia (nel
senso di «prospettiva»), stria, vestibolo, voluta, euritmia, simmetria, ecc.;
le traduzioni da Dioscoride per la terminologia botanica, quelle da
Tolomeo per le voci geografiche, ecc.
Qualche traduttore si rende ben conto del proprio compito rispetto
alla lingua. Filippo Pigafetta, traducendo col titolo di Le Mechaniche il
trattato di Guido Ubaldo del Monte (Venezia 1581), si giustifica d’aver
conservato un certo numero di latinismi, promettendo di spiegarli man
mano. Qualcuno attecchì poi definitivamente, come equilibrio 23S , qual-
che altro sparì, come trutina 238 .
Una miglior conoscenza del passato e un maggior rispetto per le
sue istituzioni fanno sì che gli storici si adoperino ad evitare gli
anacronismi. Nell’Arte della guerra, per es., il Machiavelli mette in
rilievo alcuni termini antichi: «il deletto di essi (uominil, ché così lo
chiamavano gli antichi; il che noi diremmo scelta, ma per chiamarlo per
nome più onorato, io voglio gli serviamo il nome del deletto »; «l’ufficio
del tergiduttore, che così chiamavano gli antichi quello che era
preposto alle spalle dell’esercito». E si senta quello che il Borghini
osserva in vari suoi scritti: «Io ho detto equite e equestre, e non cavaliere
e cavalleria, perché... ci rappresenterebbe cosa assai diversa dall’uso e
proprietà romana», «vi rinchiusero dentro, per usar le loro voci, la
palestra, il ginnasio», «il vestimento di Cesare (che propriamente
nell’espedizione dicevano paludamento )», «una deliberazione del sena-
to pubblico, che si direbbe alla romana senatoconsulto », «quegli altri
(Consolil Suffetti (che noi diremmo per avventura o sostituiti, o
surrogati)», ecc.
Numerosi sono anche i vocaboli come collaudare, erogare, firmare,
omologare, che passano dalla latinità giuridica all’uso burocratico 237 .
Anziché da opportunità tecniche (e anche gli scrupoli storici del
Machiavelli o del Borghini rappresentano una forma particolare di
tecnicismo) l’impiego di latinismi può dipendere da un desiderio di
eleganza o di solennità. Così si spiegano molti dei latinismi usati dal
Tasso 238 ; e siccome un simile gusto era largamente diffuso al suo tempo,
235 «Dove si legge questo vocabolo latino equilibrio intendasi per eguale
contrapeso, cioè che pesa tanto da una banda quanto dall’altra in pari lance, ò
libra, ò bilancia che si dica» (c. 29 a).
238 «Trutina è quella cosa, che sostiene tutta la bilancia, laquale Trutina
piglia il Perno, ovvero l’Assetto, & nomasi in questi paesi Gioa, altrove Giovola,
overo l’orecchie della Bilancia, & in altre contrade Scocca, tal che non si trova sin
hora vocabolo, che in Italia communemente vi si confaccia, ne alcuno di questi
sarebbe inteso per tutto. Onde io ho scritto cosi la Trutina, sperando, che si
habbia a fare tendine, & parola generale a tutte le nationi d’Italia» (c. 2 a-2 b).
237 Talvolta si tratta di voci di conio assai discutibile (per es. interinare,
importato nel Piemonte e nella Lombardia al tempo di Luigi' XII dal latino
giuridico francese).
236 Rimando ai due ricchi articoli di R. M. Ruggieri, in Lingua nostra, VI, 1944-
45, 44-51; VII, 1946, pp. 7634.
parecdu hanno saldamente attecchito. Si pensi all’aggettivo precoce,
che il Tasso considerava una licenza stilistica: «con frutti di cortesia (se
è lecito d usare una parola latina) precoci» Getterà al march. Boncom-
pagni, 1580, in Lettere, II, p. 87 Guasti), e che poi entrò nell’uso corrente.
Nell adoperare singole parole spesso gli autori non attingono a un
generico uso latino o greco, ma ricorrono (e talvolta alludono) a un
passo preciso. Adoperando offa negli Asolani («al corpo quello che è
bastevole si dà, quasi un’offa a Cerbero, perché non latri»), il. Bembo
a uj 8, V 11 notissìmo passò dell’Eneide (VI, v. 4201, Giordano Bruno
nella dedica del Candelaio parla di vitello saginato riferendosi alla
parabola del fìgliuol prodigo (Luca, XV, v. 23), e similmente in numero-
sissimi casi. Qualche volta si riadoperano latinismi o grecismi di Dante
°. ~ e J. Petrarca > come quando il Davanzati in un sonetto chiama
«infelice entòma » il baco da seta, o si usano aspe per «aspide», cornice
per «cornacchia», pavé per «teme», serpe per «serpeggia», ecc. per
ricordo petrarchesco.
Persistono gli avverbi, le locuzioni avverbiali, le congiunzioni, che
già abbiamo visto largamente accolti come briciole di la tini tà curiale
nell uso quattrocentesco ( autem , continuo, etcetera, solum e così via):
ma l’abusarne è considerato pedanteria 238 .
Invece, salvo qualche caso di citazione o allusione, i nomi, gli
aggettivi, i verbi 240 sono adattati agli schemi della flessione italiana
Quanto alla grafia, abbiamo già visto il contrasto fra le varie tendenze
su alcuni punti importanti: gruppi consonantici (absente / assente ), h, ti,
lettere greche. A molti vocaboli d’impronta popolare vengono a
contrapporsi le corrispondenti forme latine. In altri casi (singolare /
singultire, volgo / vulgo, ecc.) si tratta di adattamenti più o meno
radicali delle stesse voci dotte. Ecco alcuni esempi di queste coppie
nelle quali di solito finì col trionfare l’una o l’altra forma: adonco /
adunco-, ancella P anelila-, angosto / angusto; oriento / argento 2 * 1 ;
aumento / augumento-, Campidoglio / Capitolio-, carena / carina-
celabro / cerebro-, cerusico / chirurgo-, cicala / cicada-, Chimenti ì
Clemente-, coltura / cultura; conchiudere / concludere-, contempio /
T Per ,« s ' neUa Cortigiana dell’Aretino Alvigia dice al Rosso, «al tandem ella
verrà», e il Rosso replica: «Dillo in volgare, ché il tuo tamen, il tuo verbi gratta e il
tuo al tandem non lo intenderebbe il maestro delle cifere» dV, se. 19; cfr. le battute
seguenti. A scherzi di questo tipo si devono espressioni come conquibus («Col
conquibus, disse il Gonnella»: Aretino, Ragion., p. I., g. Ili, p. 128 ), fare il
coramvobis-.ctr. gli avverbi in -aliter, -iliter che troviamo intercalati nella prosa
volgare di lommaso di Silvestro (corruscaliter, processionaliter) o del Giovio
(caldarostaliter, campaniliter).
, . . 440 L’ariostesco «Di quelle che non fan per te intelligitur » (Lena, III, s.c. 2) è un
latinismo isolato, dovuto allo sforzo per finire il verso con ima sdrucciola.
«L Ariosto ancora ©gli, nella prima impressione del suo Furioso, pose
sempre anento. Ma dapoi considerando, che la voce argento è più piena, oltre ch’è
di nulla alterata dal Latino, lo levò, e vi ripose pure argento » (Dolce, Modi
affiguratt, cit., p. 227).
368
Storia della lingua italiana
Il Cinquecento
369
contemplo ; detto / ditto-, degno / digno-, Giorgio / Georgio ; Girolamo /
Hieronimo-, ingegnoso / ingenioso-, lettere / littere -, liolnfante / elefante-,
laico / logico ; maestrato / magistrato-, òmero / ùmero-, openione,
oppenione / opinione-, oriuolo / orologio-, ortolano / (hìortulano ; padre /
patre ; padrone / patrone-, partefice / partecipe-, particolare / particulare-,
pontefice / pontifice-, premessa / premissa ; prencipe / principe ; propio /
proprio-, quaresima / quadragesima-, sagro / sacro-, seno / sino-, soave /
suave-, soggetto / suggetto-, squittindìo / scrutinio-, volgo / vulgo, ecc.
Appunto su tali parole verteva principalmente la disputa tra fautori
della lingua cortigiana o italiana e fautori della lingua fiorentina o
toscana: i primi consigliavano di attenersi alle forme latineggianti 242 , i
secondi difendevano le forme della tradizione popolare toscana" 3 .
Del diritto d’attingere più o meno largamente al lessico latino (e
greco) si disputa da molti, sia genericamente, sia riferendosi a singoli
vocaboli per difenderli o per oppugnarli.
I grammatici e i lessicografi dei primi decenni del secolo sono di
solito piuttosto favorevoli: il De Falco loda i latinismi dell’Ariosto e di B.
Martirano, l’Acarisio approva quelli del Boccaccio, ecc. Ma più tardi
sopravviene una forte reazione, e non solo nei Toscani come il
Borghini 244 , il Salviati 245 , il Borghesi, il Lombardelli 248 , ma anche nei non
Toscani: il Castelvetro rimprovera al Caro alcuni latinismi della
famosa canzone, e il Muzio (Battaglie, cc. 46-49) viene elencando molti
lat inismi del Machiavelli e del Guicciardini, considerandoli un loro
grave difetto.
Sono un indizio di questo mutato atteggiamento i latinismi sostituiti
in riedizioni o rifacimenti: ne elimina l’Ariosto 247 , ne muta il Bemi (che
scrive, per es., stabilito in luogo del boiardesco statuito), ne toglie il
Ruscelli (per es. compilare, eversione, vilipendio) nel pubblicare le
Historie del Collenuccio; il Tasso, dopo varie oscillazioni, si disse
disposto a togliere dalla Gerusalemme alcuni dei latinismi che gli
rimproveravano.
242 Fra le molte affermazioni in questo senso (Equicola, Castiglione, Achillini,
Castelvetro), citiamo questa molto esplicita del Trissino: «Quando le parole sono
in dui o più diversi usi, secondo le diverse lingue d’Italia, quello uso a me pare,
che sia da elegere, e da stimare più Illustre e Cortigiano, il quale più al latino
s’accosta»: perciò è da preferire nudrire a nodrire, sopra a sovra, ecc. (Dubbii
grammmaticali, c. U b).
243 Avendo il Ruscelli nel Rimario raccomandato: « Scrutinio bellissima voce,
se ben non so per qual fato di questa favella sia chi gode di dire squitinio*, il
Borghini nella Ruscelleide Q, p. 70 replicava che «la lingua nostra ha più care le
sue voci che quelle d’altre», e trovava pedantesco scrutinio.
214 II Borghini se la prende contro il Ruscelli, non solo nel passo ora citato, ma
spesso altrove, per es. a proposito della voce lance (Ruscelleide , II, p. 50).
M Negli Avvertimenti, I, ii, cap. 7-, li, cap. 3, e passim.
248 Il Lombardelli rimprovera al p. Cornelio Musso i troppi latinismi delle sue
prediche.
247 II Dolce (Modi affigurati, p. 366) cita l’esempio d’una voce «troppo Latina»
sostituita (tuta).
, H n ?|, s ^ or ^ circostanziata dei latinismi dovrebbe tener conto, oltre
che dell introduzione e dell espansione delle parole singole, anche delle
ripugnanze e dei biasimi dei grammatici 248 e del regresso nell’uso.
Gli autori che adoperano una parola latina o greca non ancora
penetrata nella consuetudine, talvolta credono opportuno spiegare
perché sarebbe opportuno accoglierla, ovvero aggiungono qualche
chianmento: s’é già visto l’atteggiamento del Pigafetta a proposito di
equilibrio e del Tasso a proposito di precoce, e molti passi analoghi si
potrebbero aggiungere 249 .
I vocaboli greci qualche volta si presentano in forma non adattata
scritti m caratteri greci 258 ovvero latini 251 , e con qualche traccia di
flessione greca 252 . Si notino anche alcune tracce della pronunzia
cinquecentesca del greco: rj proferito i (rittorici , Libumio; rìtorico,
Castelvetro; tecmirio o temmirio da xexjxripiov, Caro; sisamo, Serdonati-
ecc.), ot pronunziato pure i (sinalife, Tolomei), ecc.
, ,. U . n 1 ? r f ve elenco, solo esemplificativo, potrà dare un’idea dei
latinismi (e grecismi) che si cominciano a usare nel Cinquecento
(beninteso con la solita riserva della possibilità di retrodatazioni)-
abolire (Guicciardini), aliquoto (Firenzuola), anfibologia (Tolomei), argu-
zia («questi presso gli antichi ancor si chiamavano detti; adesso alcuni
le chiamano arguzie »: Castigl., Cori., II, cap. 43), assioma (Varchi),
attinente (Caro, Guicc.), canoro (Ariosto), circonflesso (Firenzuola), circo-
spezione (Guicc.), clinica (clinice nella versione di Vitruvio del Caporali)
comparabile (Ariosto, Guicc.), congenito (Gelli), congerie (Zuccolo), conti-
nente (Giacomini), crisalide (Domenichi). decoro, decore sost. (Caro,
Vasari) 253 , dialetto (Salviati), ecatombe (Bem. Martirano, cit. in Lingua
«Affettare... non si trovando in libro niuno, ne usandosi per niuno, se non
per persone ignoranti, che parlano latino in vulgare, come sono notai & maestri
da scuola, che insegnano le prime lettere a fanciulli, & simili» (Castelvetro,
Lorremone, p. 58); «il verbo Espurgare è stato fin qui meritamente sbandito, e si
dee sbandir per innanzi d’ogm leggiadra, e nobile scrittura toscana» (Borghesi
Lettere, p. 345); e numerosi passi similL
249 Augusto «pregava li Iddii che concedessero tanto a lui, quanto a tutti i suoi
simili eutanasia... che vuol dire buona morte» (Del Rosso, nella traduzione di
bvetomo, 1554, p. 114); «Sono alcune voci Latine, che non si possono spiegar
volgarmente.- come peraventura è equità, che vai giustitia, ma pure v’è non so che
di differenza fra luna e l’altra» (Dolce, Modi affigurati, p. 240).
258 «A dir Apjtvta sarebbe cosa molto xaxoqxotxà (lettera di G. G. Trissino 1507
ap. Morsohn. Giangiorgio Trissino, cit., p. 384); «alcune cose... che i Greci hanno
chiamato x<x jrpoXefóiieva (Segni, Ethica, Firenze 1550, c. U>, «gli chiamano
avaxóXouda» (Borghini, Annotazioni dei Deputati, Ann. XIV); (il Bembo! «xopucatoc
et invero degnio di esser da tutti lodato» (Borghini, ms. Magliab., II, X. 80, c.5), ecc.
«quel segno con che si dimostrano alcune trapposizioni. Grecamente
chiamato Parentesis-, voce, che si pronuntia con l’acuto nell’antepenultima»
aJolce.Osservotioru, p 171 deUed 1566); il Pantheon (Serlio, passim).
Rimanendo all’esempio di jcpoXe-rópevoc, il Gelli (Espos. di Dante lez I)
salve: «1 hanno chiamate alla greca prolegomena*-, il Varchi (nelle Lezioni II)
ada “ a ., la P arola ' chiamavano da loro grecamente Prolegomeni ».
Il concetto di «decoro» tratto dalla Retorica di Aristotele, è diventato un
370
Storia della lingua italiana
nostra, III, p. 99), eccentrico, eccentricità, elocuzione (Muzio), entusiasmo
(G. Camilla, Enthosiasmo de misterii, Venezia 1564), esagerare (nel
significato moderno, Davanzati), etra (Ariosto), gimnico (Segni), illibera-
le (Caviceo), industre (o industrio) (Ariosto), minatorio (Guicciardini),
mirteto (B. Martirano), munifico, munificenza (Caro), nenia (Firenzuola),
obeso (Salviati, Soderini), omonimo (Caro), ottica (Della Porta), parafrasi
(Firenzuola), parossismo (Sanudo), penisola (Giambullari; peninsola.
Caro), peripezia (Speroni), plastico agg. (Garzoni), plastica (Lomazzo),
preferire (Firenzuola), pugile (Caro), questuare (Guicciardini), rapsodia
(Giraldi), scenografia (Barbaro), somministrare (Firenzuola), stolido (Da-
vanzati), tirocinio (D. Guidalotti, Tyrocinio de le cose vulgari, Bologna
1504), trilingue (Caro), tripode (Caro), utero (Ariosto), villoso (Caro), ecc.
Altre parole, che nei secoli precedenti avevano fatto qualche
sporadica apparizione, ora entrano nell’uso corrente: educare, elegante,
frivolo, peculiare, ecc.
Naturalmente bisogna anche tener conto di particolari accezioni
latineggianti-, per es. numero nel senso di «ritmo». Forcipe è ancora
usato al femminile e preso nel senso latino di «tenaglia» (G. Rucellai),
non in quello specificamente ostetrico. Interpellare ha ancora il signifi-
cato d’« interrompere» nel Calmeta (quello giuridico è nel Varchi). Il lat.
seminarium «vivaio» è trasferito all’uso di «scuola per futuri ecclesia-
stici» dalle disposizioni del Concilio di Trento, mentre a Genova
seminario indica (dal 1576) quei 120 cittadini dai quali si dovevano
estrarre a sorte i magistrati (Rezasco, s v ) Eccentrico, eteroclito già
figuratamente designano persone ° cose «strane».
Richiedono un cenno a sé numerosi calchi sul latino e sul greco.
Cito qualcuno di quelli che in definitiva non hanno attecchito: aia nel
senso in cui invece prevarrà il latinismo area 254 . errante per pianeta
(rcXavriTTii;) 255 ecc. 25 ".
Un elenco di latinismi e grecismi che in definitiva non attecchirono
riuscirebbe estremamente lungo, per la forza con cui agivano i motivi
che abbiamo illustrati 257 . Ne daremo un brevissimo saggio: aligero
(Ariosto), allicere (Bembo, Tasso), amurca, amorca (Alamanni), apro
luogo comune in tutti i critici del Rinascimento (Spingarn. La critica letteraria nel
Rinascimento, Bari 1905, p. 87).
252 «Casa nuova si stima ancora che sia sull’aia della vecchia formata»
(Tolomei. Cesano, p. 65 Daelli); «chiunque ha il diametro di qualsivoglia tondo, sa
ancora l'aia, cioè il suo pieno» (Varchi, Lezioni su Dante).
255 Stella errante è usato spesso; il Tasso adopera la parola sostantivata al
maschile; «i sette erranti » {Mondo creato, g IV).
256 Abbiamo già visto tutta una serie di calchi nei termini grammaticali e
rettorici foggiati dal Giambullari con l'intenzione di sostituire i termini greci
corrispondenti.
257 L’abbandono di alcune particolarità grafiche latine che porta non solo
all'omofonia ma anche alla omografia (orto da ortus e orto da hortus, direzione da
directio e direzione da direptio, ecc.: v. p. 348); il costituirsi d’un gusto classico, che
vede malvolentieri i troppi latinismi cancellereschi (v. p. 368). ecc.
Il Cinquecento
371
rr^° ? b ( 1 c ° rsa *’ Tansillo), àtavo (Firenzuola, Speroni), bibliopòla
Alamanni), calato (Molza), clade (Ariosto), clivoso (Bruno)
coahre (Sodenm), compedi (Machiavelli), contennendo (Machiavelli)’
(Caro), demolcere, demulcere (Calmeta!
AchiHuu), direptione (Mach., Gùicc.), discrime (Bruno), displicenza (Paru-
ta), efflcere (Cesanano), efflagrare (Canteo), elego («verso elegiaco»-.
Ariosto, Firenzuola), erugine (Giovio), ecc.
20. Voci dialettali e regionali
Se scorriamo un’antologia di testi letterari cinquecenteschi vi
troviamo pochissime peculiarità di carattere dialettale: ma ne trove-
remmo molte di più, specialmente nella prima metà del secolo, se
sfogliassimo testi di carattere pratico. Non sarebbe diffìcile continuare
(«n»i^ 1550 6 n nCh K ^ P ° ° ltre una raccolta ^ «testi non toscani»
’onn Che COn un glovane collega ho messo insieme per il
ouu e per il 400).
rr,„^r biam ° gl . a visto , (nel § 7) coi ne la persuasione che si sia ormai
g nti a una lingua letteraria comune abbia portato a una netta
decantazione fra lo scrivere in italiano e lo scrivere in dialetto: sorge in
meati luoghi una letteratura dialettale riflessa, e per converso si cerca
sempre piu di far sparire dalle scritture in italiano le tracce locali.
quelle che ancora possiamo trovare vanno considerate secondo il
vano ambiente culturale di ciascun autore, cioè anzitutto secondo il
luogo, poi anche secondo il tempo (tenendo conto cioè dell’abbandono
sempre piu rapido delle peculiarità locali), e infine secondo l’argomen-
to: se nella lirica o, poniamo, nella prosa filosofica non c’è da aspettarsi
di trovar tracce dialettali 258 , più se ne troveranno nella poesia satirica e
giocosa e, in prosa, nei bandi, negli inventari, nei diari, nelle lettere
ecc.: tanto piu appariscenti e numerosi quanto più ci si accosta alle
contingenze della vita pratica, che trova ancora la sua espressione in
vocaboli spesso diversi secondo i luoghi.
, u In T ° scana stessa < è possibile scorgere qualche differenza lessicale
(oltre che grammaticale) negli scrittori senesi, come il Tolomei il
Binngucci il Mattioli. Ma per parecchi scrittori toscani, specialmente
(Berni ’ 1 9°™- Varchi, Cecchi, Davanzati), bisogna anche tener
conto di una particolare ricerca di idiotismi lessicali (metafore, locuzio-
ni colorite): quasi un’ostentazione di una peculiare ricchezza del
liorentino.
Citiamo Q ua lche esempio di particolarità dialettali in scrittori del
primo Cinquecento. L Equicola ha qualche vocabolo meridionale (come
patrio loCeS STSiSS” "" d?rWere ,C °"‘ e " "■ SC ■>“'* C ‘““°
Fa che tu sippa. Padre santo, in mare,
el Turco deroccando e tartusando...
372
Storia della lingua italiana
roscio «rosso») e termini padani (scarana «seggiola», zenzala «zanza-
ra»). Il Castiglione ha numerose voci specificamente mantovane o
genericamente padane: angonia, cerasa, fodra, sentare, varola 2 * 9 . Il
Trissino scrive e stampa, per es., acciale, cappa «bica», faglia «covone»,
di sbrisso «di scancio», ecc.; il suo concittadino Antonio Pigafetta scrive
armellino «albicocca», braghessa, garbo «acido, aspro», guchiarollo
«agoraio», occafo «papero», ecc. 280 . Il Bembo ha parecchie voci venezia-
ne, soprattutto nelle lettere: calmo (di vite) «innesto», coppo «tegola»,
frezzoloso, frisetto, zenzala, ecc. L’ Ariosto, che ha qualche vocabolo
ferrarese nelle commedie (per es bigonzoni - rimproveratogli dal
Machiavelli - nei Suppositi, bambola di specchio nel Negromante ), nel
Furioso adopera pochi dialettalismi lessicali. Il Giovio, nelle estrose sue
lettere, non solo è attaccato ai propri settentrionalismi (ponteghe
vecchie, lett. 262 Ferrerò), ma va cercando volentieri espressioni
dialettali colorite («maturare presto questo bugno, come dicono li
Bolognesi», lett. 262). Pietro Nelli, senese, vissuto a lungo a Venezia, ha
nelle sue Satire alla carlona molti venezianismi ( cazza «mestola»,
galozza «zoccolo», gàttolo «fogna», morbino «ruzzo», santolo «padri-
no», ecc.) e indulge volentieri a peculiarità fonetiche veneziane che
coincidono con quelle senesi ionto «unto», nomi in -aria).
Giovanni Mauro, di Arcano (Udine), passò invece gran parte della
sua vita a Roma e nei Capitoli adopera dei romaneschismi:
Tal che fu già pizzicaruolo od oste
or è gentile; e tal che già poc’anni
gridava calde alesse e calde arroste...
Nel diario autobiografico (1535-41) dell’architetto militare G. B.
Belluzzi, detto il Sammarino, troviamo vocaboli locali come carabina
«puledra», lasta «striscia», mercatale «luogo di mercato», ecc.
Un po’ diverso è il carattere delle voci regionali che troviamo in
Annibai Caro, perché è dovuto a un preciso disegno stilistico. Gli piace
d’inserire nei suoi testi per dar loro vivacità non solo termini dell'Italia
mediana, specie marchigiani (catollo «grosso pezzo», scomberello «reci-
piente», ecc.) ma anche vocaboli del fiorentino parlato (colleppolarsi,
incapperucciare «farsi frate», ecc.).
Nella seconda metà del secolo, benché la screziatura dialettale sia
minore, troviamo lombardismi nel Lomazzo (anta, civiera «attrezzo
agricolo», scosso «grembo», sferlo «ramoscello», zibra «pantofola»),
venetismi nel Palladio ( arpice «gancio», goma «gronda»), umbrismi nel
Caporali ( biocca «chioccia», cerqua «quercia», chiòchena «chiavica»,
pigna «pentola», vettina «recipiente»), napoletanismi nel Bruno (balice
259 V. il paragrafo sui «dialettalismi» in V. Cian, La lingua di B. Castiglione,
Firenze 1942, pp. 80-86.
280 Sulle peculiarità del Pigafetta, v. D. Sanvisenti. in Rend. Ist. Lomb., LXXV.
1941-42. pp. 469-504, LXXVI, 1942-43, pp. 3-33.
Il Cinquecento
373
«valigia», iùtumo «giuggiola», lesela, streppare, ventaglio, ecc)- per lo
piu in testi di carattere realistico o tecnico. P
orni- si ” go . li ha ™° bisogno di mantenersi a contatto con il loro
n^ b ^?r te v, a clrcolazio 1 ne fra città e città, fra regione e regione, aperta
P „ che concerne le nozioni più elevate, per le quali del resto il
vita pr-atic? consolldato ' e lnvece scarsissima per molti campi della
, 0 H? PnS / deria r ^ Ue casi es tremi. Come potrebbe il Bembo nelle sue
lettere toccando di istituzioni veneziane, dire altrimenti che data
pieggena, podestaressa, pregadi, procurane ? E si capisce bene che tale’
necessita rimarrà ancora viva nei secoli seguenti.
C.j iceve ™ vediam ° £ > uell ° che acca de per i nomi dei giorni della
settimana. Il tipo senza -dì è ancora prevalente nell’italiano settentrio-
nale nei primi decenni del secolo (il Bembo, il Pigafetta, il Castiglione
ancora adoperano luni, marti, mèrcore, giove o giobia, vènere ) Ma la
comspondenzfi di questi nomi con quelli di tipo toscano con -dì era
!f ! mgUa sc J ltta non poteva far altro che accettare una norma
unica , e ben presto 1 nomi in -dì si generalizzarono
“ u ™® rosi . c asi. intermedi fra questi due, si fece qualche passo
so 1 unificazione, ma solo qualche breve passo, tant’è vero che
ancor oggi sono numerose le coppie o le terne di parole equivalenti ma
con diversa base territoriale («geosinonimi»): cacio / formaggio ■ filugel-
lo / baco da seta-, merletto / trina / pizzo, ecc.
_^ ccanto ad aran cto ( a) si ha ancora narancio ( a) (Ariosto, Tasso
cW ’ “ CJi mela 2 rancia <Grazzini), poma
più , comune zanzara si ha zenzara (Tasso), zenzala
acquicola, Nelli ecc.), zampana (nei Viaggi in Moscovia del viterbese R
Barberino, 1565).
Il desiderio di farsi capire ampiamente (e talvolta un certo gusto di
sfoggiare vaste conoscenze) fa sì che alcuni scrittori elenchino più
norm di uno stesso oggetto 282 . Assai frequenti sono tali equazioni
onomasiologiche nelle trattazioni naturalistiche 263 e nei vocabolari
£ e r a ’ Ci £ è - ! a possibilità di adibire le due forme diverse a due diverse
S ^ UI 2 s? tUre ^ ? l ® nl ^ ca to, come in altri casi fu fatto.
P r utte ' . ch , e . voi chiamate ghiandaie » (Firenzuola, Disc.
amm.l, «e intanto fece fare le bisciaccole a due suoi cittoletti- quello che noi
DrinSfi^n?o Fir r? Ze 1 aU ? le P’ a ; e a pisa anciscocolo- a Colle il pendio- a Roma la
prendendola- a Genova lo balsico-, a Napoli la salimpendola e a Milano lidoca
gli altri* H m ® g ° * nte , ndiate ’ ® oni ' La seconda Libraria, lett. I); «un legnatolo che
r ^ legname, ò marangone » (Varchi, Hercolano. p. 48) ; «quegli
che son d ® Ul vermicelli, o bacchi (sic), o cavalieri, o bigatti o brache o
ptafzaulTvTalì ffig’ ° SeC ° nd ° 1 luo * hi d ' ltalia ^si» Garzoni,
Dioscoridellchlàm N ^ ttioli a commento della Materia Medicinale di
OUvetta aUrib^X d Li e ustro - Guistrico, altri lo chiamano
uiivetta, altri divella, et altri Ghambrossene», 1. I, cap. 105, «Chiamano
374 Stona della lingua italiana
I vocabolari, i quali mirano a far comprendere al lettore un
vocabolo che non capisce piuttosto che a suggerirgli come deve
scrivere, sono in genere molto aperti a registrare vocaboli regionali. I
vocabolari del Valla e dello Scobar sono pieni di sicilianismi, quello
dello Scoppa di napoletanismi, ecc.
Gli autori di vocabolari latino-italiani, più o meno adattando il
Calepino, aggiungono voci dialettali in veste italianeggiante: per es. nel
Calepino del 1592 troviamo alla voce stilla tutta questa serie di varianti:
goccia, ghiozza, goccio, ghiozzo, gozza, gocciola. I compilatori di
vocabolari italiano-latini, oltre che servirsi dei vocaboli che usano
spontaneamente, attingono a questi materiali ibridi, cosicché troviamo
per es. nei lemmi del Dittionario (italiano-latino) del Minerbi (1554)
numerosi vocaboli regionali, specialmente veneti ed emiliani, e parec-
chie equazioni di questo tipo- «Buttiro vai smalzo, burro et onto sottil.
Buthyrum, ri ».
II Sansovino, nella sua Ortografia... o vero Dittionario volgare et
latino (1568), dopo aver tradotto Refe con filum, aggiunge «Voc.
fiorentino, accia dicono a Venetia»; traduce Ritorte con vincula e
aggiunge altri sinonimi: « legami, vincigli, disse il Bocc., stroppe, a
Padova».
Anche i primi vocabolari esplicativi, sempre a scopi pratici, adope-
rano, sia nei lemmi che nelle interpretazioni, molte voci dialettali 264 e
equivalenze sinonimiche' 565 .
A questo criterio si attengono spesso anche i compilatori di manuali
per l’insegnamento dell’italiano agli stranieri o di lingue estere agli
italiani. Valga per tutti l’esempio delle opere di Giovanni Fiorio, che già
nei First Fruites aveva incluso molti vocaboli regionalLtdmeda, nezza,
soppiare, ecc.), e nel Worlde of Wordes (1598) fece esplicita professione di
includere quante più parole potesse, non solo dei linguaggi tecnici ma
anche dei dialetti 266 .
Per completare il quadro degli scambi interregionali bisogna anche
tener conto dei vocaboli dialettali accolti nell’uso generale o nell’uso
tecnico per la divulgazione delle «cose» corrispondenti. Citiamo il
carosello napoletano, che in origine era un gioco in cui cavalieri vestiti
alla moresca lanciavano agli avversari palle di creta piene di cenere. Il
gioco fu importato a Napoli dagli Spagnoli, ma il nome è di origine
dialettale ( carosiello «salvadanaio», ricalcato sullo spagnolo alcancia
«id.»), e presto si divulgò in tutta 1'Italia (il Tasso nel dialogo II Romeo
volgarmente il Periclimeno chi Matriselva, chi Vincibosco e chi Caprifoglio», 1. IV,
cap. 14-, e passim), o nei trattati agricoli del Soderini («l’appio è quella pianta
d’erba che dai volgari si chiama seiino , e dai più idioti sedano»).
264 Olivieri, in Studi fiL it., VI, passim.
285 Per es. « Taccola proferito breve, come fiaccola, in Lombardia è quell'uccel-
lo, che noi domandiam mulacchia, e in molti luoghi chiamano pota .. » (Porcacchi,
Vocabolario nuovo in appendice alla Fabrica dell'Alunno).
286 Spampanato. Sulla soglia del Seicento. Milano 1926, pp. 93-120.
Il Cinquecento
375
dice che «giuoco è quel delle canne e de’ caroselli «J 287 Così s’imnarò a
E 81 -e &SKZ
C0 ^wi°b ìa llU costnuto dal Palazzo degli Uffizi a Palazzo Vecchio 268
2L Voci antiquate
scrittori trecenteschi e 11 culto votato ah acci q fl i i At ,_ i ,
pratTi ì' tt laS | at ° ^dere^dilmoto parole toeleutSchi ? fino a eh?
lS,i4e tt n 1 3ia S sto«r , T CÌtÌ a farle rivivere - Molte centinaia erano
paSsSSSSS
°y ale (Cocchi), cotta 286 , dónora (Firenzuola, Cecchi) fmare
^acati^otì^Srì> a f\ maÌn ì', ° Ua ferialmente nelle locuzioni
’ ° tta ^ VKJ endo), ecc. Molte altre, sparite dall’uso parlato
zsz neiruM ,e “
ri m Lf (ìaZZO dell’imitazione trecentesca sulle orme del Bembo tende a
mC Ì te Untate rancide S^^no
V 1 sraihl, e non finiremmo più se volessimo elencare le
toscane antiche^rfù n TU* f e ^operando a “roSHoc!
co^ glt .sfmni^alavl^^° del Valerlan0 “ Marosttaa protesta
vmte eMUno uo^n P* 3 ™ 881 * 110 per p *none usando so-
vente, eglino, uopo, cliente, e biasimando gli altri per «accenti o vocaboli
262 Dialoghi, III, p. si3 Raimondi
~ *» Scott-Bertinelii, Va «w. p, ,37.
r
376 Storia della lingua italiana
o figure di dire che non sono toscane» (cioè di classici toscani). Il Citolini,
nella sua Lettera in difesa della lingua volgare (V enezia 1540) protesta
contro quelli «i quali non si stimano poter 'esser e tenuti buoni scrittori,
se le lor carte non puzzano di uopo, testé, hotta, altresì, guarì, costinci,
sezzai, e se non ficcano unquanco in un sonettuzzo». Il Gelli ( Caprìcci ,
rag. V) protesta contro l’uso di guarì, altresì, sovente, adagiare, soverchio ;
il Lenzoni (Difesa, p. 22) contro guarì, altresì, i participi accorciati (gonfio,
pago, scaltro ), amar meglio, ecc.; il Marcellino (Diamerone, Venezia 1565,
pp. 29-30) non vuole alpostuto, peritoso, mora, meslea, burbanza, atare, e
meno che mai altresì. Anche un fautore del '300, mons. Della Casa, che il
Salviati loda per essersi fedelmente attenuto ai trecentisti, biasima
(Galateo, xx) epa, spaldo, uopo, primato, sezzaio.
La satira, così ampiamente diffusa, del toscaneggiare arcaico, dà
origine all’espressione di favellare per quinci e quindi 270 .
Va ricordato l’atteggiamento particolare del Davanzati, che miran-
do al popolaresco e al caratteristico, tende soprattutto a salvare quegli
idiotismi che sono sul punto di sparire, del tipo di quelli citati più su:
atanto, finare, gina. In complesso, la tendenza a rimettere in circolazio-
ne i toscanismi arcaici non ebbe effetti molto vistosi: tuttavia un certo
numero di vocaboli, come altresì, guarì, autorevole, sovente, soverchio,
testé, uopo e qualche altro, rientrano in questo periodo nell’uso
letterario, e alcuni addirittura torneranno per questa via a radicarsi
nell’uso quotidiano.
22 . Gerarchie di parole
Per vie diverse, sono venute ad affluire nel lessico letterario un gran
numero di forme plurime: varianti fonetiche e morfologiche e doppioni
lessicali, dovuti a diversa origine territoriale, all’affluenza dei latinismi,
al ravvivamento di peculiarità e di vocaboli arcaici per imitazione
letteraria.
Ricordiamo come esempio di oscillazioni tra forme provenienti da
vari luoghi, burro e butirro 27 '; ciliegia, ciriegia e ciregia-, fatica e fatiga 272 ,
freccia e frezza; la terna già citata legnaiuolo, falegname e marango-
ne 272 , ecc. Grammatici e lessicografi si ritengono spesso in obbligo di
ammonire contro l’uso di forme da considerarsi dialettali 274 .
270 Quinci è citato fra le parole arcaizzanti in un capitolo del perugino Alfano
Alfani, del 1545 circa (ed. da A. Fiossi, Perugia 1887).
271 « Burro per butirro pur di Dante - osservava il Ruscelli - ma da lasciarlo
rancire per non lo metter mai nelle vivande di scritti buoni»: e il Borghini lo
compassionava: «O poveretto, i' ti vo' dire, che tu sei arrivato bene: come se
queste voci si usassino mai altrimenti in Toscana nostra! » IRuscelleide , II, p. 23).
272 Fatiga è frequente nei Senesi (A. Piccolomini, ecc.).
273 Tutte e tre queste voci sono registrate dal vocabolario del Bevilacqua.
274 «Usarono i Thoscani poppa... e non poppe : come noi Vinitiani diciamo...»
(Dolce, Modi affigurati, c. 225 b). Una parola che dà luogo a molte, discussioni è
adesso-, 1’accolgono il Tolomei e l’Aretino, ma altri la considerano abusiva.
Il Cinquecento 377
La tendenza ai latinismi, viva particolarmente, come s’è visto, fuori
di Toscana, oppone per es. cerebro a celabro, chirurgo e chirurgia a
cerusico e cinigia, officio a ufficio, ecc.
L’autorità degli antichi oppone diede a dette, renduto a reso, feruta a
ferita, ecc.
I singoli autori, posti di fronte a una quantità di scelte stilistiche
forse maggiore che in qualunque altro periodo della storia della lingua,
tenderebbero ad attenersi alle abitudini culturali del loro ambiente; ma
non di rado si lasciano dominare dal prestigio di riconosciuti maestri di
stile e di lingua-, così vediamo il Castiglione e l’Ariosto seguire le
prescrizioni del Bembo 275 .
Non di rado i consigli che davano i grammatici, fondati su criteri
diversi, erano discordi: basta sfogliare i Tre discorsi del Ruscelli contro
il Dolce, o i libri del Castelvetro, o le Lettere discorsive del Borghesi, per
immaginare l’imbarazzo in cui dovevano trovarsi i lettori, che ansiosi
di affidarsi a una norma si trovavano invece in presenza di affermazio-
ni e consigli contraddittorii.
Poiché la norma che tendeva a predominare era l’imitazione dei
trecentisti, e i trecentisti presentavano forme diverse, è ovvio che le
difficoltà di giungere a forme uniche erano insuperabilmente grandi.
Se i modelli erano letterari, letterari erano anche i criteri di scelta:
grammatici e retori consigliano di attenersi alle parole «belle», «genti-
li», «oneste», «vaghe», «illustri», e di evitare quelle «brutte», «vili»,
«disoneste», ecc.
Nell’impossibilità di decidere tra due o più varianti, appoggiate ad
autori diversi ma tutti autorevoli, i grammatici e i lessicografi tendono
in molti casi ad attribuire a ciascuna una sua propria sfera, riconoscen-
do una specie di gerarchia tra le forme e le voci da riserbare alla prosa
e quelle da adoperare nei versi.
I critici più sensati additano gli esempi, e lasciano all’arbitrio degli
scrittori il seguirli più o meno rigorosamente 276 ; ma c’è una distinzione
che spesso si fa con precise intenzioni normative, quella fra parole
prosastiche e parole poetiche. Si distinguono così, non senza arbitrio,
anche (prosa) da anco (verso), gastigare (p.) da castigare (v.), fraude (p.)
da frode (v.), maraviglia (p.) da meraviglia (v.), menomo (p.) da minimo
(v.), mutolo (p.) da muto (v.), spirito (p.) da spirto (v.), veduto (p.) dà visto
(v.), ecc. 277 .
275 II primo muta, per es., palagio in palazzo (Cian, La lingua di B. Castiglione,
cit., p. 63), il secondo presto in tosto (v. p. 376).
278 V. per es. le pagine del Mintumo, nell'Arte poetica, Venezia 1563, pp. 301-
304, 321-322.
277 E ancora: «Dopo si doppia da Prosatori; ma nel verso non si pone
altrimenti, che con sola P» (Dolce, Osservationi, ed 1566, p. 145); «Buio, voce
popolaresca, e non da versi leggiadri, se ben molto Toscana» (Ruscelli, Del modo
di comporre in versi, s. v.) ; « soffre è de’ Poeti, e non de’ Prosatori» (Borghesi, Lettere
disc., p. 197), e similmente in molti autori, moltissime volte.
i
378 Storia della lingua italiana
Frequenti sono poi le discussioni sul grado delle parole, sulla loro
convenienza alle circostanze, e per lo più i grammatici tentano
d’imporre il loro parere. Il Gelli fu censurato per aver intitolato una sua
commedia la Sporta, nome «troppo vulgare e basso» (v. la dedica della
commedia), il Varchi usò la parola ciurma nel discorso in cui rendeva il
consolato dell’Accademia e fu biasimato; e piene di tali censure a
singole parole e costrutti sono le polemiche sul Caro, sul Tasso,
suU’Ariosto.
Quelle differenze che nel Poliziano o in Lorenzo de’ Medici erano
gradazioni liberamente scelte dall’autore in una gamma tonale sono
ormai sottoposte a norme estrinseche: ciò che i grandi scrittori del
passato avevano scritto diventa non più un luminoso esempio, ma un
limite e una rèmora.
Non diversamente nascono ora, da una miope interpretazione di
Aristotile, le regole delle unità teatrali. È la tendenza di quest’età, in
tutte le sue manifestazioni.
In questo modo un certo numero di parole ricevono la qualifica di
parole «poetiche» (e alcune peculiarità grammaticali si ritengono
ammissibili solo nei versi), e per oltre tre secoli domineranno nell’alta
poesia.
Che poi questo lessico speciale e quest’«alta poesia» venissero così
a essere straniati dalla vita quotidiana, è la dolorosa conseguenza
della limitatezza di questa civiltà letteraria cinquecentesca, la quale
anziché inserirsi in una unità sociale e pratica conseguita da tutti gli
Italiani, è solo il frutto raggiunto da una cerchia relativamente
ristretta di letterati, in nome d’ùn ideale di bellezza considerato
accessibile a pochi eletti.
23. Forestierismi
Le lingue che influiscono più fortemente sul lessico italiano in
questo periodo sono il francese e lo spagnolo; ma per la grande
apertura d’orizzonte dovuta alle scoperte geografiche dobbiamo tener
conto di numerose altre fonti.
I contatti bellici e culturali con la Francia fanno si che un numero
non trascurabile di francesismi entri in questo periodo in italiano.
Naturalmente, gli scrittori che parlano di cose francesi ne adopera-
no molti di più di quanti sono poi effettivamente entrati nell’Uso: e tale
impiego è ovvio quando si tratti di titoli, di istituzioni, di peculiarità
francesi.
II Machiavelli, per es., nel Ritratto delle cose di Francia (scritto nel
1510, dopo tre missioni a Luigi XII) parla di «/auto d’argento», del
« preposto dello ostello», dei Ungi «cioè tovaglie e tovagliuoli», ecc.
L’Equicola in una lettera da Blois (1505) parla di «tucte le gendarme ». E.
occupandosi più tardi nel Libro de natura d’amore di poeti nelle due
lingue di Francia, parla di trovadori e giocolari che componevano
Il Cinquecento
379
H^nZ S H^u enVante f (SÌC) cou P eletz et lettres et ballades d' amour (c 181 a
(c Ì b) Fpd e fi H“ r ? a ^ P ° et ? Che canta ‘ in laude d e ^a maestressa»
le. 185 b) Federigo Fregoso, che viveva in un’abbazia presso Divinnp
donde si mosse nel 1526 con la speranza di riprende^f autorità Tn
Genova sotto 1 egida francese, scrive al Montmorency con qualche
Invece che non Presserò tenuto pe? così sotto»)-,
invece che dire «re di Francia» si dice spesso Roy 2n
istituzionTdfS^toiin/^^^ dann ,° fre( l uenti notizie di cose e
istituzioni di la. Giuliano Sodermi parla del re di Francia che riceve
1 ambasciatore imperiale «in una grande sala o galleria bene ornata di
Saf e Z nf!?r H IO ?/^ Ì n araZZU: lettera 1528 - in Sanudo, Diarii, XLVII c(J
^ 1 C ^ lini narra co me il re volesse mettere il Giove «nella
sua bella galleria. Questo si era, come noi diremmo in Toscana una
loggia, o si veramente un androne...» (Vita, II, cap xli)- si tratta di un
uso caro a Francesco I, e il fatto che ci sia bisogno di sp egare la paroto
mostra che essa non era ancora nota in Italia. Gli oratori vene£ n
Francia parlano dei lacche del sovrano (M. Soriano, 1562), del gabinetto
S Rflr!-i^p eVe 1 p ? u ® tr . ettl consiglieri (G. Michiel, 1572), della notte di
Luccicone™ Sn Heìr/ U att °- com ®. dicono i francesi, il massacro, cioè
i uccisione» (ìb.) della «porzione di beni» del principe ereditario «o
(come dicono in Francia) del suo appannaggio » (G Michiel 1578) 280 dei
ritenta Ch essl dicono (P Duodo. iSs^’vocf ancor
riferite a cose francesi, mentre più tardi le troveremo adoperate anche
con riferimento a usanze penetrate in Italia 282 .
Ludovico Guicciardini, nella Descrittione di tutti i Paesi Bassi ( 1567 )
spiega che cos e la Borsa, termine originario di Bruges 283 che cosa sono
S SaTedóvr d6ll ° S,at °“ ChC C ° S ' è 11 *5-* <**
P !,n im Porta vedere come alcuni vocaboli francesi siano già penetra-
o convoli? Sl haano P are cchi termini militari.- batteria, con voto
o convoglio, foriere o funere™, marciare, petardo, picca trincea o
nncera, ecc. Il Machiavelli, nei Discorsi sopra le deche, osserva che al
tre «.'.“r?™ 'tilSneln f iSn ° r (arde? Sorno andò a* torte con dui o
y 2s 0 1 Navarre» (Speroni, in Orationi, Venezia 1596, p 40)
2(a M ol e I lsp f llv e relazioni nella raccolta deH Albèri.
(Diate** sS Emendi! 1 ““osT'*'" 0 r, ' er “° * M-e
“ Henry, in Lingua nostra, XIV, 1953 p 19
ni neuSrSSKX™' Ch ' "* S ‘ a '° lmpor,ato dai No ™“
IZnc”afc^S°„” e 'p“ C 8 !̰ P ““ den, « d ‘ am fasciatori fiorentini in Francia
380
Storia della lingua italiana
termine di fatti d’arme si sta sostituendo il » vocabolo francioso
giornate » (p. 162 Mazzoni-Casella). In rollo (più tardi ruolo) e in tropo,
(più tardi truppa ) convergono e lottano influenze spagnole e francesi .
C’è Qualche termine di marineria, come equipaggio
Per l’abbigliamento, citiamo il nome di un drappo, il grograno. Il
termine di dorura non è, come si potrebbe credere, un francesismo
individuale del Celimi («gioie e dorure francese», nella
comune a Firenze nel tardo Cinquecento (v. gli esempi del Tommaseo-
Bel per cibi e bevande ricordiamo il potaggio ipotagio nel Tansillo) e il
gigotto bigotto nello Scappi), il claretto e la birra Ibira nel Sanudo).
88 Qualche francesismo importato in questa età (come busta «borsa,
guaina», pacchetto «plico di lettere») si riferisce alle comunicazioni. E
aDDaiono anche termini generali come regretto, risorsa.
Porremmo arricchire di molto questa esemplificazione se v includes-
simo anche voci regionali, specialmente piemontesi (per es. desbauciar-
si^andar appresso a follità» nel Promptuanum del Vopisco-, basa nel
Roterò — e nel Giovio — ; ecc.). . ,
Siche più numerosi dei francesismi sono in questo periodo gli
Ìb6 Sfsi riferiscono alla vita sociale: baciamano , complimenta > e » U
relativo complire (cioè «complimentare»), creanza («parola nuova tratta
di Spagnai Lenzoni, Difesa , p. 135) e anche creare nel senso di
«allevare educare» e creato «famiglio», privanza «familiarità», impe
gno e disimpegno, sforzo «ardire, bravura» e sforzato «energicamente
oneroso» disinvoltura , sussiego, sfarzo -, anche il nuovo significato di
flemma ù calma, lentezza») è di provenienza spagno a
senso dell’onore si riferiscono disdoro e puntiglio (il «piccolo punto
donore) Tra le persone che aiutavano i signori, ol re a creato
ricordiamo aio e mozzo «che l’Ariosto offre italianizzato, ma ancor
caldo della sua provenienza straniera: se fosse ben mozzo da spuola»^
Non mancano, come accade spesso, termini d insulto: marrano
fanfarone, vigliacco , agli Spagnoli, per il loro frequente intercalare,
da sSdiffondono largamente, secondo l’esempio spagnolo ì titoli di
signore (cfr p 395) e di don («quel don sì caro allo Spagnuol ventoso»:
Caporali). Marchese fa al femminile marchesa per influenza spagnola.
lM ST fi S lìngua spagnola in itali* B°m» »«■_«.»
sotti
Zaccaria, L'elemento iberico nella lingua italiana, Bologna 19 .
Croce. La Spagna, cit., p. 156.
Il Cinquecento
381
Si apprezza il titolo di grande di Spagna, si accoglie anche in Italia
l’istituto del maiorasco o maggiorasco.
Per quel che concerne la casa, penetra in Italia il termine di
appartamento («copia di stanze o, come oggi li chiamano, appartamen-
ti »: Borghini). Si hanno nomi di stoffe Maniglia «tela fine»), di guarnizio-
ni ican{n)utiglia), di vesti ( faldiglia , zamarra o zimarra, monderà «specie
di berretta»), di ornamenti ( maniglia «braccialetto»; ma anche «mani-
cò» e «manetta»), di profumi ( ambracane ), ecc.
Giungono poi nomi di cibi: il bianco mangiare, il mirausto o miragu-
sto, la sopressata (spagn. sobreasada), il torrone (fatto con mandorle tosta-
te), la marmellata (dal portoghese marmelada «cotognata»).
Parecchi vocaboli si riferiscono alla vita militare: continuo «guardia
del viceré», bisogno «soldato nuovo» 289 , guerriglia, casco, morione,
zaino, parata, quadriglia «schiera di quattro uomini», ecc. Ricordiamo
anche i molti termini riferiti ai cavalli.- alazano «sauro» (Giovio),
rabicano, ro(vkmo, ubèro, pariglia «coppia di cavalli», ecc.
Molti sono pure i termini di marina: almirante, flotta, rotta, baia,
cala, tolda, babordo, arpone, ecc.-, e molti più se contiamo anche le voci
imparate nelle imprese marittime compiute sotto gli auspici della
Spagna e del Portogallo (v. qui sotto). Anche i nomi dei punti cardinali,
nord, est, ecc., pur essendo, come è noto, di remota provenienza
anglosassone, giungono ora in italiano per tramite spagnolo 290 .
Alcuni termini si riferiscono all’amministrazione: azienda, dispaccio
e dispacciare, ecc.
Ricordiamo anche alcune misure ( quintale , tonln)ellata) e oggetti
vari ( astuccio , dal catal. estoig, cartiglio, ecc ).
Ci si rende conto della forza di penetrazione esercitata dagli
iberismi sul nostro lessico anche attraverso le molte parole generali
che allora vi penetrarono: accudire, buscare, render la pariglia, ecc.,
grandioso, lindo, ecc. In qualche caso lo spagnolismo incide addirittura
289 Lo Zaccaria registra bisogno fra gli iberismi; mentre il Terlingen (Los
italianismos en espanol, Amsterdam 1943 s. v.) lo considera un italianismo: si
tratterà di un vocabolo nato In Italia dal contatto fra truppe spagnole e
popolazione italiana secondo la spiegazione che ne dava nella Comedia soldade-
sca Bartolomé de Torres Naharro, che trascorse a Napoli e a Roma la seconda
metà della vita, al principio del Cinquecento:
l Y por qué causa o razón
los llamàis bisonos todos?
Porque si quieren pedir
de corner a una persona
no sabràn sino decir:
«Daca el bisono, madona»
(II, w. 46-47, 51-54; cfr. la ricca nota del Gillet, alla sua ed. della Propalladia, III,
pp. 418-420).
290 Sono dapprima più frequenti le forme ispanizzanti aorte, oeste, ecc., poi
sopraffatte dalle forme preferite in Francia.
382
Storia della lingua italiana
sull» grammatica: abbiamo già ricordato l’uso di lo che, particolarmen-
te vivo negli scritt ori mendion '• „ Kami si potrebbero citare in
SssSsSSa^SSssissBS!
Ha origine nei paesi tedescto 1 uso dei brmn si ^ ch e
-iSSlSti W— la locuzione
^.rssssr*. ha * ssate
^^«“Slirco^togno Utupfersteinì, mergolo, forse
copparosa. istituzioni si conoscono come propri dei paesi
g er£S= SS. bSEEKi borgomastri* (Machiavelli), nel Tool»
» Spariranno 1 più tra 1 termini ài “X>
«malgrado» (Giovici, operadi.OTca» (Sassetol.^ecc^ tedesc ^ corae si vede
d^^“fS°pSe q à^rSi1SLimanni IKmrmoppl a ài UmMchP^cH
“"^féSiGtnateo. XXE«.»»r^“ SESSf’ràf^S.'ìS^S-
st^WiSiisres^ - -
formazione spagnola. . . .,-
»« lìngua nostra, XIII, 1952, pp. 44-45.
Il Cinquecento
383
si paga la steura (Sanudo, Diarii, XXXIX, col. 15), ecc. L’autorità di Uri e
di Svitto nel Ticino è esercitata dai lanfogti.
Gli stretti rapporti commerciali con i Paesi Bassi danno luogo
all’importazione di droga, termine che sarà molto adoperato nei
commerci d’oltremare, e alla conoscenza di vocaboli come caramessa
(«fiera», kermesse ), stapula «deposito». Si ha notizia anche delle dune e
dei dicchi «dighe» («che dentro i dicchi della bassa Olanda»: Chiabrera)
e della turba o torba.
Gli anglicismi sono scarsi, e quasi tutti riferiti a cose dell’isola di cui
trasmettono la conoscenza quelli che vi sono stati (gli ambasciatori, gli
esuli rifugiati in Inghilterra, come il Bruno e il Fiorio). Citiamo, per es.,
ala «specie di birra», smalto «malto». C’è spesso, nell’adattamento di
voci inglesi, oscillazione, come si vede per es. dal nome dell’ordine della
Giarrettiera: l’ordine «del Gartier » (Castiglione, Cortegiano, III, n),
«della Giarrettiera... ima cinta delle gambe, addomandata in lingua
inglese garter » (Giacomo Soranzo, ap. Alberi, Vili, p. 56), «della
Gartiera » (Sansovino, De(ia origine de Cavalieri, Venezia 1570), «il
Nobile Ordine de la Garatjèra » (Fiorio, dedica dei First Fruites, 1578),
«Niccolò Careo, cavalier gerrettiero» (Davanzati, Scisma, in Opere, II, p.
378 Bindi), ecc.
Quanto all’Europa centro-orientale, le parole slave e ungheresi che
ne provengono passano spesso attraverso il tramite tedesco ( cocchio ,
pistola, trabanti, usseri ). Ma qualcuna vien direttamente dal croato:
sciabola («quelle che i Corvatti chiamano sabglìe »: Sansovino) 295 ,
stravizzo «invito a bere» 298 , forse tacchino, oltre a vocaboli di color
locale come bario, ecc.
Dai Greci viene la moda dei mustacchi™ 7 . Voci arabe, turche,
persiane penetrano attraverso i fitti contatti con il prossimo Oriente:
sofà, divano (che nel Levante significa «luogo d’udienze» e «tettuccio»;
naturalmente il primo significato si ha solo nelle descrizioni di color
locale, metre il secondo viaggia con l’oggetto stesso). Chiosco e
serraglio sono noti come palazzi del Sultano. Tra le vesti orientali
tornano frequenti il nome del dolimano e quello del turbante™. Giunge
notizia dei sorbetti (sotto la forma di tzerbet, scerbet, presto trasformata
per raccostamento a sorbire ) e del caffè, col nome arabo di buna (P. A.
Michiel) e con quello turco di cave ( cavee nella relazione di G. F.
Morosini, 1585). Ricordiamo anche un nome di colore preso dal turco,
quello di mavì.
L’influenza araba si fa ancora sentire in alcune scienze: abbiamo
per es. alcohol «solfuro di antimonio» (per influenza di Paracelso, il
295 Zaccaria, Raccolta, p. 330.
“* Vidossi, in Lingua nostra, XIII, 1952, p. 108 .
287 Reichenkron, Zeitschr. franz. Spr., LVIII, 1934, pp. 48-55.
288 E si sa che tulipano non è che una trasposizione metaforica del nome del
turbante (Migliorini, Lingua e cultura, p. 286).
384
Storia della lingua italiana
termine assumerà poi anche il significato oggi usuale), toc «sostanza
medicinale semifluida», rob «sugo di frutta concentrato», ecc.
L'aprirsi dell’era delle grandi scoperte ha conseguenze importanti
per la lingua: anzitutto per l’importazione, o almeno per la conoscenza
di animali e di piante prima ignoti, che fa entrare nel lessico nuovi
nomi, o attinti alle lingue indigene, o coniati nelle lingue dei popoli
esploratori, o foggiati in Italia.
Le novità più importanti vengono dall’America 2 “, per tramite
spagnolo o portoghese, più di rado francese 3 ". Ecco alcuni nomi di
animali come caimano, condor, iguana, vigogna (parole indigene) e
cocciniglia (parola spagnola), ecc. Si hanno nomi di piante e frutti,
come ananas, batata e patata, cacao, mais, tornate, coca, guaiaco, ecc.
Ma talvolta invece della parola esotica, o accanto ad essa, si conia una
parola o una locuzione nuova: accanto a mais si ha granturco (nel
senso di «grano di provenienza esotica»), accanto a tornate, si conia
pomodoro, accanto a guaiaco si ha legno santo, accanto a tabacco si ha
in Toscana erba tomabuona (da mons. Niccolò Tornabuoni che importò
la pianta sotto Francesco I dei Medici), ecc.
Ricordiamo poi nomi di oggetti vari come la canoa e la piragua (più
tardi piroga ), l’amaca e la ciccherà (più tardi chicchera, «recipiente fatto
col guscio d’un frutto», poi «tazza»).
Nelle navigazioni s’incontra il salgazo o sargazo (più tardi mutato
per influenza francese in sargasso); attirano l’attenzione certe forma-
zioni geografiche, come le zavane (più tardi savane ) e i vulcani (il cui
nome, tratto ovviamente da quello mitologico, e localizzato dapprima
nella più meridionale delle isole Eolie, si divulga in Europa a proposito
dei vulcani dell’America centrale) e fenomeni atmosferici (gli uragani,
tipici nel golfo del Messico, che gli indigeni chiamavano col nome del
dio delle tempeste Hurakan, «quello con una sola gamba»).
L’errore cosmografico di Colombo dà all’antico nome di India,
indiano un’estensione abnorme. Il nome etnico dei Caribi si divulga,
sotto la forma di cannibali, con il valore di «antropofagi» («earum
terrarum incolae Canibales esse affirmant, sive Caribes, humanarum
camium edaces»: Pietro Martire d’Anghiera, dee. Vili, cap. 6).
2 “ Molti passi di scrittori, e discussioni sull’origine dei vocaboli singoli si
troveranno in G. Friederici, Amerikanistisch.es Wòrterbuch, Hamburg 1947; per le
prime attestazioni italiane si ricorrerà principalmente a E. Zaccaria (Raccolta e
Elemento iberico). Una ricca serie di articoli di L. Messedaglia ha portato preziosi
ChÌS £ Gli Spagnoli attinsero una prima serie di parole dall'aruak delle Grandi
Antille (ed essi stessi diffusero per tutto il continente alcune di queste voci, per es
canoa); altre ne presero nel Messico dall'azteco, altre nell’America meridionale
dal quechua. I Portoghesi attinsero nel Brasile numerosi termini dal tupi e dal
guarani; i Francesi nell’America Settentrionale dall’algonchino e daH'urone. E
accaduto non di rado che voci penetrate in questo periodo in Italia sotto forma
spagnoleggiante siano state più tardi sostituite da doppioni di forma francese o
inglese (v. cap. X).
Il Cinquecento
385
Anche le spedizioni nell’India propriamente detta e nell’Estremo
Oriente portano nuove conoscenze e nuove parole 301 : si tratta anche
qui ora di vocaboli indigeni fortemente deformati (il nome del tè, che
appare sotto la forma di qua nel Sassetti e di chia nel Maffei tradotto
dal Serdonati, pagodo «idolo», bonzo, monsoni, tifone, ecc.), ora di
vocaboli portoghesi con nuovi significati, talvolta presi tali e quali
(casta, cocco), talvolta ricalcati (.venti generali «venti periodici»). Anche
zebra, adoperato dai portoghesi per un animale da essi scoperto nel
Congo, non è voce indigena ma ibero romanza 302 . Banana proviene
dall’Africa equatoriale.
24. Italianismi accolti in altre lingue
Già nei secoli precedenti, l’importanza dell’italiano, specialmente
nel campo marittimo e nel campo commerciale, aveva avuto come
conseguenza una notevole penetrazione d’italianismi in varie lingue
europee; ora che tutti i paesi occidentali vedono nell’Italia un modello
di più alta civiltà, l’afflusso nei loro lessici si fa molto più copioso, e ci
permette di vedere questo ideale di superiore civiltà incarnato in ima
serie di nozioni i cui nomi si attingono all’italiano.
Nella vita sociale assistiamo all’espandersi del termine di cortigiano
(accolto in spagnolo nel 1490, in francese nel 1539, in inglese nel 1587);
anche più largamente è accolto il femminile cortigiana, col significato
spregiativo che ben presto ha assunto (il femm. si ha anche in tedesco
nel 1566).
Fra i nomi di vesti si possono ricordare il cappuccio (fr. capuchon,
sp. capucho, ted. Kapuze, ecc.). Tra i cibi, indichiamo i maccheroni
(frane, macarons, 1552, più tardi macaroni-, sp. macarrones-, ted. Macaro- .
nen; ingl. macaroni, 1599P 03 ; la cervellata (fr. cervelat, 1552, poi cervelas ),
la mortadella (fr. mortadelle, 1505); tra le piante da orto, citiamo il
carciofo (it. settentr. articiocco, da cui fr. artichaut, 1530, ingl. artichoke,
1531, ted. Artischocke, 1556). Tra gli accessori dell’eleganza, citiamo il
profumo (rifatto in francese in parfum, e dal francese diramato all’ingl.
e al ted.) e la pomata (fr. pommade, 1540, ecc.).
Dei termini riferiti ai trasporti ricordiamo facchino 30 * (fr. faquin.
301 Si consulteranno con frutto (oltre agli spogli dello Zaccaria): H. Yule-A. C.
Bumell, Hobson-Jobson, Londra 1903, R. Dalgado, Glossario Luso-asiatico, Coim-
bra 1919-21.
302 L'etimo è probabilmente equifer.
303 I maccheroni potevano ancora essere di forma sferica, una specie di
gnocchi (Paoli, in Lingua nostra, IV, 1942, pp. 97-99), tant’è vero che dal medesimo
termine italiano nasce anche il nome degli «amaretti», che degli antichi
«maccheroni» hanno la forma (fr. macarons, ingl. macaroons, ted. Makronen).
304 Troviamo la parola anche con significato spregiativo, come in italiano, non
solo in francese e spagnolo, ma pure in polacco, dove si ha fakin e facin anche per
«garzone di pasticceria» e per «buono a nulla».
386
Storia della lingua italiana
1534-, sp. faquinì. Molti vocaboli riferiti al commercio e alla circolazione
del denaro {banco, bancarotta, ecc.) già si erano diffusi prima del
Cinquecento: ora si divulgano bilanciò - bilancia, tariffa, numero, e
anche zero, che passa al francese, allo spagnolo, all’inglese (mentre il
tedesco nel significato di «zero» ricorre all’italiano nulla : Nulle, più
tardi Nulli.
Parecchi termini riferiti alla vita militare sono stati largamente
accolti all’estero: soldato (fr. soldat, 1548; sp. soldado-, ted. Soldat, 1522,
ecc.), caporale (fr. caporal, 1552; sp. caporal, 1537; rifatto in ted. in
Corporal, 1608), colonnello (fr. coronel, 1542, e poi colonel; sp. coronel, 1511;
ingl. colonel, 1548), sentinella (fr. sentinelle, 1546; sp. centinela, 1525) e così
via. Non meno numerosi sono quelli riferiti all’architettura militare:
casamatta (fr. casemate 1539; sp. casamata, 1536; ingl. casemate, 1575),
bastione, parapetto, terrapieno, ecc.
Anche per la navigazione già parecchi termini si erano diffusi nei
secoli precedenti; ora altri ne seguono. Piloto già si trova in francese
sotto la forma pilot nel sec. XIV, e in spagnolo era entrato nei primi
decenni del sec. XV, ma ancora in una lettera del 1502 Cristoforo
Colombo ha bisogno di spiegare la parola {Scritti, II, p. 162, ap.
Terlingen, p. 241); portolano dà al fr. portulan, 1578, e allo spagn.
portulano, 1512; bussola dà allo spagnolo la forma, alterata dall’etimolo-
gia popolare, brùxula, 1492 (mod. brùjula ) e al fr. boussole, 1564; il nome
della calamita si presenta nel fr. caiamite, 1512, e nello sp. calamita,
1520; tramontana (nel senso di «vento del nord») appare nello spagn.
tramontana, 1502, nel fr. tramontane, 1549, nell’ingl. tramontane, 1615.
I termini concernenti cose religiose dipendono più spesso da
vocaboli latini della Curia (fr. nonce, caudataire, ecc.) che da vocaboli
italiani: ecco tuttavia cappuccino (fr. capucin, sp. capuchino, ted.
Kapuziner, ecc.).
II contingente più ricco e importante di italianismi nelle lingue
europee è quello che concerne le lettere e le arti. Le forme italiane di
poesia che penetrano in questa età nelle altre letterature portano con
sé i loro nomi: il sonetto (sp. soneto, s. XV ; fr. sonnet, 1525; ingl. sonnet,
1589), il madrigale (fr. madrigai, 1542, ingl. 1588, ted. 1596, spagn. 1615), la
poesia maccheronica (fr. macaronique, 1546; sp: macarrónico-, ingl.
macaronic, 1611), ecc.
C’è anche qualche termine musicale, come fuga (sp. fuga, 1553; fr.
fugue, 1598; per tramite francese, ingl. fugue, 1597; ted. Fuge, 1619).
Si divulgano parecchi nomi di maschere: zanni (fr. zani, 1550, ingl.
zany, 1588) e Pantalone (fr. pantalonnade, 1597, ingl. pantaloon, 1590); s’è
già visto (p. 361) che arlecchino è di origine italo-francese.
Fra i termini di belle arti, assai numerosi, citiamo facciata (fr.
faqade-, sp. fachada), piedestallo (fr. piédestal, 1545, sp. pedestal, 1539;
ingl. pedestal, 1563), balcone (fr. balcon-, sp. balcón, 1591, ingl. balcony,
1618), cartone (fr. corion, 1570; sp. cartóni, ecc.
Bastano questi pochi esempi fra i molti che si potrebbero citare per
il Cinquecento
387
dare un idea dell’ampia penetrazione culturale dell’italiano nelle lin-
gue occidentali.
Con la scorta delle ricerche fin qui compiute 305 si vede che l’influen-
za in Francia e in Spagna si è svolta principalmente attraverso le classi
colte, ma non senza una notevole partecipazione popolare; in Inghilter-
ra la mediazione compiuta dagli «italianati» colti, principalmente
urante 1 età elisabettiana, si limita ai ceti più alti; nei paesi di lingua
tedesca e olandese l’azione è molteplice, ma discontinua; in Polonia il
principale contingente è dovuto alla corte della regina Bona.
Quanto ai paesi scandinavi, gli italianismi vi arriveranno più tardi
quasi sempre per mediazione francese o tedesca.
, P® 1 tutto diverso è il quadro che traspare dagli italianismi accolti
nei Levante in prima linea in greco, e poi, per lo più per tramite greco
in turco: si tratta nella grande maggioranza di vocaboli concernenti la
vita materiale Abbiamo parole attinenti alla casa (àXxàva, xavxtva,
aofixa), il mobilio (PaCo.XaPexat, (i-Ppóxa), le vesti (f3Éaxa, xàXxaa, òuBpéXa
’ la cacma , e i cibi (xouCtva, Tuvtàxoc, aapSéXa, cppoòxa). Altre concernono
, guei T a (ap^XXapia, P-ouaxexo) e la marineria (xpocuovxàva, «rafia). Ma
ui queste voci sono penetrate nel neoellenico dopo il sec. XVI 306
e abbiamo creduto opportuno di farne cenno solo per delineare ii
diverso carattere dell’espansione degli italianismi in Levante
Quanto alle voci italiane accolte nelle lingue occidentali, numerosi
probiemi che le concernono meriterebbero d’esser studiati dawicino.
bi dovrebbe esaminare da quali centri esse si diramano, e si vedrebbe
forJa ^ e ^L P ^° ran i ÌC ) Ì , su , "espansione degli italianismi danno B. E. Vidos. La
f di espansione della lingua italiana, Nimega Utrecht 1932 e C Battisti
pp^agTlf “aliane nel vocabolario europeo», in Italiani nel mondo. Firenze 1942,'
*?. singole lingue, oltre ai vocabolari storici ed etimologici e ai repertori di
ralfc i n r / Sml ’ S1 pu ° rlcorrere a queste monografie: per il francese B. H. Wind Les
mots itahens mtroduits en frangais au XVI ' siede. Deventer 1928, B E Vidos
p “ roi f. marinaresche italiane passate in francese, Firenze 1939; per lo
spagnolo, J. Terlingen, Los itahanismos en espahol, Amsterdam 1943- per il
A h ® sco non esiste una monografia, ma abbiamo ricche notizie negli articoli di E
Ohmann, negli Annales Ac. Scient. Fennicae, B, LI 2 e B LII1 2 e nelle Neunhilnì
tSSSTZ : a- ™,* 8g 8 nell ° 8tudi ° « M- Wli. ni Mfcì 2 toSlS
Vìnnnlv A ' ,„ VI1 - 1955 ' per l’ ol andese, E. Óhmann, in Verslagen en Med K
Orrf , n Ac h a f emie . 1955. pp. 131-152: per le lingue scandinave, K. Nyrop. Italienske
SJ monam k k C Sandfdd e r ^ P , Hòybye - ‘ N °g ,e norditalienske laaneord». in In
memonam K. Sandfeld, Copenaghen 1943. pp. 94 100; per l'ungherese F Karinthv
OlaszJovevenyszavamk, Budapest 1947; per il neogreco, G. Meyer Neugr. Studien
rom U XXn Ur JfS e nn^ Ph his ‘ K1 • CXXXII. 1895; H. kahane, in Arch.
rom., XXII, 1939, pp. 120-135; per il turco, H. e R. Kahane e A. Tietze The Lingua
cenm Ca hihlio^-Ìrf Vant ' 1958; per altre lin Kue basterà rimandare ai miei
Battisti*, 1 art. 8 cu! Ì pp m 4iT15. Cl,l ^ Uantenn * 0 * R ° SSÌ ’ pp 25 26 e a puelli del
in CTa^arte S da fnnH fi H-ì1’ ® iaper . il cara , ttere stesso di questi vocaboli, attestati
‘ d foptl dia!ettah , sia per le condizioni della lessicografia greca
dire con sicurezza da Quando datano.
388
Storia della lingua italiana
l’importanza di Roma (da cui parte per es. corridore in luogo di
corridoio) e dell’Italia settentrionale (abbiamo già ricordato articiocco
per carciofo); può anche accadere che diversi prestiti risalgano a
varianti territoriali della stessa parola: il ted. Pomeranze, 3. XV, il
polacco pomarahcza provengono da pomarancia, il greco vapàvroa,
l’ungherese naranch (1481), mod. narancs, riproducono il veneziano
naranza. Ma non possiamo qui addentrarci nei particolari 307 come
potrebbe fare un’auspicabile monografìa sugli italianismi europei, con
un ampio glossario in cui l’espansione dei vocaboli italiani dovrebbe
esser considerata non lingua per lingua, ma nel suo complesso. Si
vedrebbe così, ad es., che pavana, nome di un ballo italiano rustico del
contado di Padova 308 , giunto in Spagna, prese colà carattere aristocra-
tico, e la Spagna diventò, qualche decennio dopo, un nuovo centro
d’espansione del vocabolo (come può mostrare la forma pavaniglia, che
è certo un ispanismo).
Del resto si potrebbero citare numerosi altri esempi di vocaboli che,
nati in un paese ed emigrati in un altro, trovano in questo un nuovo
centro di espansione: fregata è greco ma è dall’Italia che giunge in
francese, ecc.; schizzo dà origine all’ingl. sketch non direttamente ma
per il tramite dell’oland. schets, ecc.
Il complicato intreccio di scambi tra le varie lingue d’Europa va di
volta in volta dipanato considerando la concordia discors con cui le
varie nazioni hanno per secoli operato.
307 Non si dimentichi inoltre, che la maggiore o minore accoglienza fatta a
certe parole dipende in parte dalla struttura delle lingue accipienti: lo spagnolo,
per es., accoglie con facilità parole sdrucciole t àndito , esdrùjulo ) che al francese
riescono ostiche e, se accolte, vengono deformate (per es. boussole).
308 A. Messedaglia, in Atti Acc. Agric., Scienze e Lettere di Verona, s. 5*. XXI,
1942-1943, pp. 91-103. Il primo esempio fin qui indicato è del 1508: J. A. Dalza,
Pavana alla venetiana cioè danza padovana scritta secondo il sistema dei
musicisti di Venetia.
CAPITOLO IX
IL SEICENTO
1. Limiti
_ Termini più ragionevoli che anni secolari potrebbero essere per
1 nuzio quelh che sono stati indicati delimitando il Cinquecento (1503
ch ! usura ^el Concilio di Trento; 1582-83, fondazione e
, Sal ™ tesca de ^ Accademia della Crusca), per la fine quella
SterariL che Se *? a 1111 mutamento nella filosofia, nella
ìorfdl? ’d st ® s . se mode 1 ; sintomatica è anche la data della
fondazione dell Arcadia (1690).
2 . Eventi politici
La carta politica dell’Italia rimane pressoché immutata, in confron-
to <ì° n 1 lineamenti fissati dal trattato di Cateau Cambrésis. Qualche
cambiamento si ha solo nell’Italia settentrionale, in seguito alle due
frrfw, < M«^i CeS f̰ ne ? Mantova e Monferrato. Dopo Ferrara (1598),
ll631) entr a a far parte integrante dello Stato Pontificio. La
Valtellina, dopo aver suscitato contesa, rimane per questo secolo e il
seguente in possesso dei Grigioni.
Le lotte tra Francia e Spagna toccano la penisola solo episodica-
, Qo stat .° c ^ e P lù ne risente è il Piemonte, spesso coinvolto nella
guerra!, ma le ripercussioni sono continue e fortissime: i territori
soggetti alla Spagna devono sempre fornire contingenti di uomini e di
«vr!> < n 0: ne ? h Stat 1 1 indipendenti il dilemma se appoggiarsi all’ima o
all altra potenza domina la politica e la diplomazia
Il trattato dei Pirenei (1659) segna la fine della Spagna come grande
potenza europea; Luigi XIV a moltissimo aspira e parecchio consegue.
Venezia è soprattutto impegnata nelle guerre del Levante; perde
ma conquista il Peloponneso. La sua resistenza all’espansione
turca verso Occidente non è meno importante delle lotte che si
sostengono allo stesso scopo sul continente (vano assedio dei Turchi a
Vienna, 1683; liberazione di Buda, 1686 ).
La divisione d’Italia in staterelli ostacola, ma non impedisce, una
' Croce, Storia dell'età barocca, Bari 1929 , p. 2U.
390
Storio della lingua italiana
l„ r£ m circolazione di uomini e di libri. Il sentimento di appartenere a
SSSL è diffuso, ma non tantoché, specialmente alla
Pe 1S«Sa Se ^n^ e éTav"almen.e nelle progne»
soggette alla Spagna.
3 . Vita sociale e culturale
All’età baldanzosa delle scoperte umanistiche, al maturo e sereno
eauilibrio del Rinascimento segue un’età di ristagno: è nnn civdtà
cnnmmmatura che vive delle rendite accumulate nelle età precedente
rSnT^Usòciale dominano le questioni di forma, per cui si rivolge
una attenzione grandissima alle precedenze, ai titoli, al cerimoniale. Al
SSo eSo Sanità l’ostentatone. E alla pressione pohhca e
forte nel primi decenni del
secolo tó «Sia eccleslastloa è di solito piuttosto severa*
Il gusto mondano coinvolge fortemente la vita ecclesiastica, bast
ridato la Sensualità di tante pitture e statue , sago, e le rutto
pratiche conformi al gusto del secolojpuò anche «parche « senta
Cantar cu la ciaccona il miserere» (Rosa, batire , i, v. zv*).
TSstenLa di numerosi stati e di altrettante capitali fa progredire il
conguaglio ^ambitodeOe ^^^^^01000010 è
scbìaSatadàl peso della laminazione spagnola. Venezia e <ueno™
mantengono la loro indipendenza con fermezza iquestione de te
a Venezia) anche se non sempre con fortuna (resistenza
Genova a Luigi XIV). Firenze non ha più una posizione di prunat
^^S’nffptoSra. * ag»
seguenti: «Chiunque avrà Sorte Fatale Destinare e si fatti vocaboli,
intenderà per Fato, Fortuna. Destoo, Sorte, Fat^uesumu ^ Paradiso.
le seconde cagioni ministre della somm Ad ^ ^0 che luogo delizioso.
Dea. Idolo, Divino, Beato, Santo Sacro e Morare.noii cosa onesta , cosa
donna bella, oggetto amato, R?. 3»’narte Venezia 1625); «Pregoti poi
glorio» o cra 1 «SSTS 5£”St*E: FO^Si S Deità, Afrori,
ijasr™. i22&re%ggg~ aj-ssKSjssssss
praìinr» rISS» Mg»* «eòa su o Ploo co^ ch e Jo .^ py^dol g£S
Romolo Paradiso sostituiva con tre stelle Fiorentino per
'SS rS • *£Sgr* "*
l’outor della Giunta anziché nominare 1 eretico Casteivetro.
Il Seicento
391
letterario né artistico, ma la sua tradizione di pacata compostezza
costituisce ima remora all’ondata barocca che muove da Napoli e da
Roma-, Galileo e i suoi discepoli ne fanno un importantissimo centro
scientifico.
Roma, centro politico e diplomàtico del mondo cattolico, e centro
della nuova attività delle mis sioni (istituzione della Congregazione De
propaganda fide, 1622) è anche centro di notizie, «ricovero di tutti gli
avisi del mondo»'*, e centro linguistico di grande importanza, in quanto
i cortigiani si spogliano delle loro 'peculiarità linguistiche locali acco-
standosi ai Toscani, e lo stesso fanno a Roma i Toscani medesimi 5 .
Le arti figurative (Bernini, Borromini, Caravaggio) hanno caratteri
facilmente paragonabili con quelli della letteratura, fatta sempre
ragione della diversa «materia» e della diversa tecnica: tant’è vero che
dalle belle arti si è modernamente trasportato alla letteratura l’epiteto
di barocco.
Il predominio che nel gusto barocco i suoni hanno preso sui concetti
fa sorgere un nuovo tipo di spettacolo, il dramma musicale: nei libretti
di O. Rinuccini (Dafne , 1594; Euridice, 1600; Arianna, 1608), e negli
innumerevoli che seguono, la parola è al servizio della musica. L’opera
in musica prende radici così salde che si fondano teatri appositi, in cui
una spettacolosa scenografia contribuisce al diletto del pubblico.
L’osservazione e il raziocinio si vanno applicando non più soltanto
a catalogare i fatti, ma a chiarire l’andamento della Natura. L’esigen-
za, di cui è antesignano il Galilei, di arrivare a formulare leggi
obiettivamente constatabili, porterà a un nuovo abito scientifico
radicalmente diverso da quello dei peripatetici, filosofi in libris.
Prospereranno scienze come l’ottica e la meccanica, feconde di risultati
teorici e pratici, e sara nn o invece definitivamente screditate pseudo-
scienze come Fastrologia e l’alchimia. Il nuovo spirito d’osservazione
porterà a nuovo rigoglio anche le scienze biologiche.
La vecchia erudizione e le nuove scienze s’incontrano e talora si
scontrano nelle Accademie, che si moltiplicano in questo secolo come
non mal Sono, per lo più, salotti che si allargano ad accogliere le
persone «letterate» delle città, le quali vi dissertano secondo regola-
menti più o meno rigorosi.
Hanno segnato tracce durature l’Accademia della Crusca, della cui
opera diremo più oltre, quella dei Lincei, antesignana della ricerca
scientifica, quella del Cimento, utilmente operosa nella sua breve vita.
Per tutta l’Italia si diramarono subito dopo la fondazione dell’Arca-
dia (16901 le sue «colonie»: più che i vantaggi e i danni portati dal gusto
arcadico, c’interessa questa larga diffusione livellatrice.
Gli eruditi non solo vengono accumulando nei loro repertori vaste
4 M. Bisaccioni L’Albergo, Venezia 1637 (cit. da Croce, Storia dell’età barocca,
p. 99).
s L’osservazione è di A. Politi, in fine all’introduzione (datata 1613) al
Dittionario toscano, Roma 1614.
392
Storia della lingua italiana
raccolte di notizie sulle età passate, ma accumulano libri; alcuni dei
più ricchi depositi librari italiani (l’Angelica, la Casanatense, la Maglia-
bechiana, ecc.) risalgono a questo secolo.
Oltre alla sempre fitta corrispondenza politica e diplomatica,
s’intrecciano ora carteggi fra dotti di tutta la «repubblica letteraria», i
quali si scambiano le ultime notizie in fatto di libri, di scoperte, ecc.
È questo anche il secolo in cui gli «avvisi», che prima correvano
manoscritti, si cominciano a stampare periodicamente, con notizie di
avvenimenti politici e di fatti di cronaca. Cominciano anche rassegne
erudite come il Giornale dei Letterati (Roma 1668 segg.) o la Galleria di
Minerva (Venezia 1695 segg.).
4. Latino e italiano
Il latino ha ancora una posizione di privilegio in molti campi.
L’insegnamento universitario è impartito esclusivamente in latino, e
solo le lezioni private 8 e certi compendi paragonabili alle nostre
dispense sono in italiano. Quanto all’insegnamento meno elevato,
ricordiamo che ancora la Ratio studiorum della Compagnia di Gesù nel
1661 non considera affatto la lingua materna.
Le trattazioni filosofiche e scientifiche sono nella loro assoluta
maggioranza in latino. Nel 73° Ragguaglio della I centuria del Boccali-
ni, i «virtuosi d’Italia» chiedono ad Apollo di «abilitare la bellissima
lingua italiana a trattare cose di filosofia»; ma Apollo rifiuta, consen-
zienti le scienze, che «in modo alcuno non volevano ridursi alla
vergogna di esser trattate con le insipide circonlocuzioni italiane, ma
che volevano esser disputate co’ loro ordinari termini latini». Il Fioretti
è biasimato da «persone di gran letteratura» di aver scritto in toscano
anziché in latino i suoi Proginnasmi ; e se ne difende Q, prog. 14).
Di capitale importanza a questo riguardo è la presa di posizione del
Galilei. Ancora nel 1610, egli aveva pubblicato in latino il Sidereus
nuncius per rivendicare i propri diritti di priorità davanti a tutti i dotti;
dopo essersi trasferito a Firenze, comincia a scrivere di preferenza in
italiano: del 1611 è la lettera a mons. Dini sui pianeti medicei, del 1612 il
Discorso intorno alle cose che stanno sull’acqua e le tre lettere al Welser
sulle macchie solari; e in italiano saranno poi tutte le sue opere
maggiori. È suo dichiarato disegno 7 allontanarsi dalla lingua della
scuola, chiusa e senza contatti con la vita, e parlare a uomini vivi e
veri, uomini d’arme, politici e tecnici. E questo pur rendendosi conto del
pericolo di affievolire i contatti con i dotti d’altri paesi-, non gli
8 Abbiamo notizia che Gustavo Adolfo volle da Galileo «nell’istessa casa di
lui (con l’interesse di esercitarsi insieme nelle vaghezze della lingua toscana)
sentire l’esplicazione della sfera, le fortificazioni, la prospettiva» (Opere, ed.
nazionale, XIX, p. 629).
7 V. specialmente la lettera a Paolo Gualdo (16 giugno 1612 ) e gli altri passi
citati nel mio volume Lingua e cultura, pp. 137-144.
Il Seicento
393
n ^s 16 raccusa 81
traduzioni in latino dei suoi scritti continueranno a chiedere
ind JSSSSSffiK a,"™ 51alS?^ e oH ter r? su * u
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Castelli, il Torricelli il Vivianf^hb SU °Ì dlr 1 ettl discepoli, come il
pubblic;ziom ? SScei À SiS S not f ole efficacia ’ Mentre *
di naturali evertente TttaW “ ^ ' SaSgÌ
lattao ab”am“,Se e s cX n to iSf ^"^ante Produzione in
Marcello Malpighi e così Dure latino soao le opere di
anatomici del Bellini (che furono nnhhr' Lorenzo Bellini; i Discorsi
seguente da A^ComM hanno m ono^/r’* 1 ’ ì 1 noti ’ sol ° nel ««calo
mostro qui... Guardateci quanti muscoli ^rùiTen^JI^r h^ 011 ? ( * VÌ
mandati da città del doSmo venetJe da ^ri 0 ^ 11 (16 ,° 6) Vari oratori -
ma l’oratore del duca di Unntnvo 6 i . n s ^ atl - parlano in volgare,
Pietro DuSSzol dog? Salmi ? SL laUn ° 1 la «>“& «
con poesie italiane e poeSe n iathie 1 . 620) SÌ StamPa ™ VOlume onorario -
' ttera 3 1640, in Opere, ed. naz. XVIII n 939
“ tradU1Tà ^ latÌno
sin» •
394
Storia della lingua italiana
Dal pulpito i predicatori parlavano per lo più in volgare, ma ce
n’erano che preferivano il latino, tant’è vero che, per es., i capitoli della
Congrega dei Cento di Empoli, a cui partecipava il Buonmattei,
stabilivano l’obbligo di far la predica in volgare e non in latino 11 .
Anche alcune recite teatrali si facevano in latino, principalmente a
scopo di esercitazione scolastica. Ma se, in occasione di uria recita di
una tragedia del p. Stefonio al Collegio Romano, gli uditori 12 si misero a
gridare contro i malvagi «Dagli! Dagli!», il Fagiuoli narra di aver
sentito da fanciullo un San Genesio in latino, e che i più se ne andarono
senza aver capito nulla.
5 . Scrìtti letterari e scrìtti pratici
A chi consideri nell’insieme come si scriveva nel Seicento, sùbito si
presenta il vistoso fenomeno della letteratura barocca, accompagnato
dalle resistenze attive e passive che essa suscitò.
La moda stilistica instaurata dagli scrittori barocchi trovò seguaci e
ammiratori 13 , ma non durò~molto a lungo. Le sue innovazioni ebbero
(per intrinseca necessità della poetica della «meraviglia», che esigeva
continue esplosioni di novità) carattere occasionale: metafore ardite,
collocazioni vistose per parallelismo o contrapposizione, ecc. Di conse-
guenza, non appena la moda barocca venne a noia, essa non lasciò
nell’uso linguistico stabile quasi alcun sedimento.
Se gli architetti barocchi rimaneggiano senza scrupolo le chiese
romaniche e gotiche sovrapponendovi i loro svolazzi, l’atteggiamento
dei letterati loro contemporanei è altrettanto irrispettoso verso la
tradizione letteraria italiana, che è misconosciuta e in complesso
disprezzata. Essi sono entusiasti di sé e fermamente convinti che le
loro opere sono molto migliori di quelle dei secoli precedenti, e che la
loro lingua è molto più elegante 14 .
11 Nel 1640 non avendo il predicatore designato voluto riscrivere in volgare
una predica latina già pronta, oppure scriverne una nuova, il Buonmattei lo dovè
sostituire (Diario della Congrega, tenuto dal Buonmattei, ms. Magi. VI, 161, c. 210).
12 Anzi «il popolo di buon senno» dice S. Pallavicino, che narra l’episodio
(Croce, Nuovi saggi sulla lett. del Seicento, 2 • ed., Bari 1949, p. 150).
13 II Marino si appellava allVuniversal gusto del mondo, il quale è ormai stufo
delle cantilene secche» Qett. allo Stigliami e il Minozzi (Impazienze d'amore,
Firenze, 1633, p. 122, cit. da Croce, Storia dell’età bar., p. 176), asseriva che «le rose
d'un puro stile, che oggidì si chiama semplice e goffo, non piacciono se non sono
attorniate dalle frizzanti spine di sottilissime arguzie, d’ingegnosi lambiccamenti
dell’intelletto...».
14 H Tassoni, posto il quesito «Se trecento anni sono meglio si scrivesse in
volgare o nell’età presente» (Pensieri , L IX, quisito 15), confronta il proemio del
Villani con quello del Guicciardini, e conclude raccomandando di evitare gli
arcaismi; il Beni fin dal sottotitolo della sua Anticrusca o Paragone dell’italiana
lingua si propone di «mostrar chiaramente che l’Antica sia incolta e rozza, e la
Moderna regolata e gentile»; il Pallavicino (Considerazioni sopra l’arte dello stile,
Roma 1646, p. 353) ritiene i moderni superiori ai trecentisti; il Tesauro, nel
Il Seicento
395
differei?z°a a - distin S uere uno «stile nobile», ma a
«"* corpT^
9? 1 carattere enciclopedico che prende in molti lu ovili
J - lenChÌ * C ° f Se ’ tutt ’ al più Selliti con qualche epiteto
lh£i 5 6Vlta termini m osofici o scientifici 13 .
v> sono b 11 , 01 ? he adoperano senza scrupolo ter mini come atomo
SS'totocSf w‘ Per ' , - te ’, eCa '’ : ” Lubr “°- to ™ sonetto taS
dolla tesaitura latlmMm e locuzioni perifrastiche con termini tecnici
Trasforma il cibo in stame; e torce e spreme
da le viscere sue globo lucente-
fatto subbio del sen, spola del dente
ordisce in trame le salive estreme 18 .
concettì°^?vmf e Ìfl?^ 0P b° deUe 1 ? magini ’ la ricerc a artificiosa di
f rgutl . «^assembra una coda di pavone spiegata in faccia al
Sole: tanto vana ne’ colori, quanto incostante» 13 ; quei «senri soM osf»
SOTO «rnù tobm a pizzicare il cervello che a muovere il cuore »- e vh
if bamJSf 1 * concettls fi non Potevano non rendersene conto 21 ’
1 atteggiamento sobrio e razionale - quello stesso chi fe"otì!o siSSppo
ss sftsssìss*x p ™‘ , ’^ coio i
hamccu pp aSe asserzioni analoghe cita il Croce, Storio All’età
nel l\rst eS ^t^stm CCem 1161 ^ VI> St ‘ 26 ' 38 ’ ° gU elenchi
lastìvò^aS im S lvlL e n 0 eTla e L^^ V0 ' < ^®L cul * de languendo occhio
molto grosse» (XV st 77 ^ 1 -ormi , 1 - a passo dritto - Due parallele andar non
» (S mS,; » <“ Chiromanzw eco.
18 Ivi, p. 410.
m Cartoli Deli ’huomo di lettere, Firenze 1645, p. 175 .
AVI, p, 178.
I, p. 226 Borzeffi-Nicolini) pr6mere più neUe dottn ne che nelle frasche» (Epistol.,
396 Stona della lingua italiana
in Firenze del metodo galileiano - era poco sensibile al turgore
barocco.
Scarso valore artistico e scarsa importanza linguistica ebbe la lirica
tradizionalista. Più importa la melica, svoltasi nella voluttuosa atmo-
sfera musicale dell’ultimo Cinquecento, con il fraseggio più studiato
d’un Chiabrera o quello più andante delle villanelle. Il Chiabrera tenta
vari accorgimenti metrici e ritmici: versi brevi fortemente ritmati, versi
sciolti, sdrucciole non rimanti fra loro, versi tronchi in consonante 22 ; dei
«ditirambi» diremo fra un momento.
Un’altra moda secentesca fù quella della poesia eroicomica e
giocosa: anch’essa fondata sulla poetica della meraviglia (ottenuta in
questo caso per mezzo di accostamenti incongrui), anch’essa tutta
artificiosa, ma confessatamente tale. La Secchia rapita del Tassoni, lo
Scherno degli Dei del Bracciolini, V Eneide travestita del Lalli, l’Asino del
Dottori, il Malmantile del lippi, la Presa di Saminiato del Neri, il
Torracchione desolato del Corsini hanno maggiore interesse stilistico e
linguistico che le decine di poemi epici scritti nel Seicento. L’accentua-
ta espressività nasce per lo più da raccostamenti inaspettati di antico e
moderno, di solenne e di triviale, di italiano e dialettale: è aperta quindi
la strada a una grande varietà lessicale.
I Toscani (e più degli altri il Lippi) ne approfittano per spargere a
piene mani nei loro versi parole e locuzioni popolari, che non essendo
state adoperate dai classici non avevano ancora trovato posto nei
vocabolari.
Questa preoccupazione estranea, di portare dei contributi a un
ideale Museo della lingua toscana, non conferisce certo alla spontanei-
tà e sincerità di questi poemi. Ma se il loro valore artistico è scarso, la
documentazione raccolta per questa via indiretta non è senza interes-
se, e non rimase senza effetto sull’ulteriore svolgimento della lingua, in
quanto attraverso la lettura di questi testi e dei commenti che se ne
fecero 23 e attraverso gli esempi che ne furono tratti per la Crusca e per
gli altri vocabolari, ima larga serie di parole e locuzioni toscane
finirono col penetrare nell’uso generale.
I legami di questa letteratura ribobolaia con la Crusca sono palesi
nella persona di Michelangelo Buonarroti il giovane, che lavorò alla l a
e alla 2 a edizione del Vocabolario e compose, oltre a un poema giocoso,
l’Aione, due commedie, la Fiera e la Tancia M . La Fiera (1618) rappresen-
ta, in cinque giornate di cinque atti ciascuna, una moltitudine di
scenette, spesso vivaci, che l’autore immagina accadute durante una
33 Talvolta l’influenza delle Odelettes di Ronsard si combina con quella delle
villanelle: si ricordi quel che s’è già detto nel cap. VII a proposito delle
giustiniane.
33 II Malmantile ebbe un ampio commento di Paolo Minucci, amico dell’auto-
re, e nel secolo seguente altre erudite postille di A. M. Biscioni (Firenze 1731).
34 Anche la Fiera e la Tancia ebbero un ampio commento a cura di A. M.
Salvini (Firenze 1726).
Il Seicento 397
fiera; viceversa altre scene allegoriche sono freddissime. La Tancia è
una commedia rusticale: il «rusticale» è la varietà toscana del «dialet-
tale», ed è noto che la letteratura riflessa in dialetto ha avuto nel
Seicento uno sviluppo amplissimo (v. qui sotto, § 7).
La poesia fìdenziana, che anch’essa si presentava ormai come un
esercizio giocoso piuttosto che come una satira dell’eccessivo latini-
smo, ebbe numerosi cultori.
Altra forma capricciosa, cara al Seicento per la sua caricata
espressività, è il ditirambo. I primi che composero ditirambi in italiano
furono il Chiabrera e il Fioretti IPolifemo briaco, 1627); il più felicemente
riuscito, o piuttosto il solo che meriti d’essere ricordato dal punto di
vista artistico, è il Bacco in Toscana del Redi; ma dal punto di vista
linguistico pure i minori c’interessano perché contribuirono a divulgare
un nuovo tipo di parole composte lebrifestoso, ecc.) (v. p. 439).
Anche la satira ebbe una notevole vitalità, e merita d’esser
ricordata perché i satirici, nei loro frequenti tratti realistici, adoperano
volentieri parole plebee o dialettali: ciò che del resto è a mm esso per
tutta la poesia faceta 25 .
I danni portati alla poesia barocca dalla poetica della meraviglia
spinta alle estreme conseguenze inficiano più o meno anche ima
notevole parte della prosa. Nell’oratoria sacra furoreggiano i «concetti
predicabili» giunti dalla Spagna attraverso Napoli 28 . Si tratta, com’è
noto, di prediche che da cima a fondo svolgono una metafora principa-
le attraverso tutte le sue possibili diramazioni.
Ben altra intrinseca serietà hanno le prediche del Segneri, la cui
«sveltezza potente» piaceva al Tommaseo.
Nella prosa descrittiva eccelle Daniello Bartoli, importante oltre
che per l’interesse stilistico e per il valore d’esempio che ebbe presso i
neoclassici 01 Giordani lo giudicava «terribile, stupendo, unico, singola-
re»), per la sua ricchezza terminologica 27 .
Nei più insigni rappresentanti della prosa scientifica ancora non è
25 II Menzini codifica questa norma nell’Arte poetica: «Tu che delTumil stil
contento sei - gl’idiotismi, et i proverbi, e i motti - pur della Plebe in mente aver
tu dei» Q. Ili, w. 280-282).
26 «Quei Pensieri de’ Sacri Oratori, che volgarmente chiamar si sogliono
Concetti Predicabili: con tanto favore; & con tanta ammiration ricevuti dal Sacro
Teatro, che la Divina parola pare hoggimai scipida, & digiuna, s’ella non è
confettata con tai dolcezze» (Tesauro, Cannocchiale aristotelico, p. 43 dell’ed.
Bologna 1675). Più oltre, egli dedica ima buona metà del cap. IX a un «Trattato de'
concetti predicabili»: egli dice come «alcuni Ingegni Spagnuoli naturaimente
arguti; e nelle Scolastiche Dottrine perspicacissimi, trovarono or non è gran
tempo, questa novella maniera d’insegnar dilettando, e dilettare insegnando, per
mezzo di questi argomenti ingegnosi; detti volgarmente Concetti Predicabili » (ivi,
p. 333); «debbesi dunque a gli Spagnuoli la gloria di quelle novelle merci; le quali
per cagion dell’Hispano commercio per terra e per mare, di colà parimente
sbarcarono a Napoli; onde in Italia, che non ancor le conosceva, fur chiamate
Concetti Napolitani » (ivi).
37 Cfr. G. Gamba, in Arch. glott. it„ XLII, 1957, pp. 1-23.
398
Storia della lingua italiana
avvenuto quel divorzio che nei secoli venturi separerà radicalmente le
scienze dalle lettere-, si pensi al Galilei, che pur facendo qua e là
qualche concessione al gusto del tempo, conduce dimostrazioni scienti-
fiche in cui il «discorso» è chiaro e sobrio senza esser arido e
impersonale. Il proposito di Galileo di tenere un tono accessibile aUe
persone colte, anche se non spécialiste, ha per corollario il metodo che
egli segue quando ha bisogno di ter mini tecnici: anziché ricorrere al
greco o al latino per trame vocaboli nuovi, preferisce ricorrere a parole
us uali, stabilmente adibendole a una nozione specifica 28 . La via scelta
da Galileo è ancor oggi, in complesso, quella preferita dai fisici: e una
sua influenza in questo campo ci sembra certa. Altri scienziati in altri
campi preferirono la strada opposta: si pensi, per avere dei punti di
confronto, alla proporzione enorme che gli elementi greci e latini
hanno in terminologie come quella medica.
Quelli che s’ispirarono a Galileo come maestro di metodo ne
risentono anche l’efficacia stilistica: la «chiarezza», l’«evidenza»-a cui
aspira il Redi sono aspirazioni galileiane prima che cartesiane.
Al desiderio di chiarezza il Magalotti unisce un vivo gusto per il
sapore delle parole; la severità contro i forestierismi che vediamo nei
suoi scritti giovanili è vinta più tardi da un misurato cosmopolitismo.
Se, in tutte le edizioni secentesche del Vocabolario, la Crusca fu
sempre molto aliena dall’accogliere i termini scientifici e tecnici,
promosse tuttavia (con quei modesti effetti che un intervento estrinse-
co può produrre) ima letteratura scientifica di tono tradizionale:
attesta Orazio Rucellai in una lettera del 1665 2 *: «Ila Cruscai perché in
nostra lingua non ci abbiamo scrittori di materie scientifiche, ha dato
la cura al Sig. Carlo Dati, al Sig. March. Vincenzio Capponi, al Sig.
Lorenzo Magalotti, e a me, che c’induchiamo di provarci» 20 .
Gli scritti legali in volgare, come si è accennato, ormai non
mancano, e spesseggiano di termini tecnici trasportati dal latino
curiale. „ . ,..
I termini dottrinali abbondano anche nelle compilazioni erudite
(come i Proginnasmi del Fioretti o le Stuore del Menochio), in cui si
ostentano larghe cognizioni antiquarie. . _ .
Sciatta e pur pretenziosa è, salvo rare eccezioni, la prosa dei
romanzi, scritti «con locuzione monca e stoipiata», come lamentava lo
Stigliarli 31 . , „
Negli scrittori storici e politici la necessaria aderenza ai fatti e alle
as v. gli esempi che ne ho dati nelle pp. 145-152 del mio saggio su «Galileo e la
lingua italiana», in Lingua e cultura.
» Saggio di lettere di O. Rucellai, Firenze 1826, p. 5. . , „ . .
» e a Panciatichi derideva lo sfoggio di terminologia scientifica fatto dal
Rucellai: «Vuoi con dotta ambizione esser tenuto per un altro Bartolim (-..del
not omis ta favello), pasteggiando a tutt’andare co' gli esofagi, mesenteri e perito-
nei...» («Contràccicalata», in Scritti vari, Firenze 1856, p. 97).
31 Lettera del 4 marzo 1636, in Marino, Epistolario, II, p. 345.
Il Seicento
399
istituzioni molteplici fa sì che abbondino di vocaboli finora estranei
alla lingua letteraria.
Ciò si nota tanto più nelle scritture di argomento pratico, ammini-
strative e simili, stese dai segretari. Sappiamo quanto il Salviati
disprezzasse quel modo di scrivere; invece il Politi, nella prefazione
alla sua traduzione di Tacito, scritta sotto il nome di Orazio Giannetti
(1603), trova che i loro contributi al lessico sono stati utili, «dovendosi
dare un equilibrato incremento ai vocaboli, a cui molto impulso hanno
pur dato i segretari de’ nobili e de’ prelati». Coniatori di neologismi
amministrativi, i segretari si dilettavano anche d’usare parole «illustri»
e qualche volta arcaismi
Quanto più gli scritti pratici scendono di livello per tenersi a
contatto col popolino, dobbiamo aspettarci di trovarvi tracce di
vernacolo. Riportiamo, fra gli innumerevoli esempi che si potrebbero
citare, due frammenti di scritti burocratici pieni di termini dialettali.
Ecco un passo di una relazione scritta a Napoli nei primi anni del
secolo: «... tutte le taverne che faranno cocina e teneranno tavola de
comodità da mangniare, pagaranno un tanto pemiascheduna taverna,
accausa che per li soverchi forestieri... faranno soverchio guadangnio-,
tutti li potecarì de l’arte lorda, come sono quelli che vendono lardo,
coscio, presotta, salcicioni, ovvero altra robba salata che si conviene a
lo loro mistiero, pagaranno un tanto per ciascheduna poteca...» 32 . Un
bando pubblicato dal capitano di Palazzolo (Siracusa) nel 1613 prescri-
ve: «A lettere di S. E. date in Palermo a 31 gennaio p. p. tutti i maestri
corvisierì di questa terra non presumano vendere l’opera di co jro a più
preczo, v. d. scalpi di cordovano alla francesa a dui soli, a tari 5.10, li
calzerotti di agnilotto a tari 5. IO...» 33 .
Anche certe trattazioni di arti strettamente connesse con nomi e
usanze locali abbondano di vocaboli dialettali: per es. il traduttore
veneto di un trattato sull’Arte di tagliar gli alberi di Monsù della
Quintinyè (cioè Jean de la Quintinie) 34 , distinguendo le varie specie di
innesti, ci dice che « Ylncalmo a Subiotto serve per i Maroni, Castagne e
Figheri », ecc.
6. Artifici del concettismo
Tutti gli scrittori, anzi tutti gli uomini si sono sempre serviti del
parlar figurato; ma negli scrittori concettisti le figure non rampollano
spontanee: essi le vanno a cercare, le ostentano, le accumulano, le
prolungano.
Il principale teorizzatore del parlare ingegnoso, il Tesauro, dà
questa definizione della metafora: «parola pellegrina, velocemente
32 Spampanato, Sulla soglia del Secento, cit., p. 312.
33 Boll Centro St. Fil. Sic., II, 1954, p. 405.
34 Nella Galleria di Minerva, II, 1696, p. 345
400
Stona della lingua italiana
Il Seicento
401
significante un obietto per mezzo di un altro» 35 , e poi la divide in otto
specie (metafora di proporzione, di attribuzione, di equivoco, d’ipotipo-
si, d’iperbole, di laconismo, di opposizione, di decezione) con dovizia,
d’esempi latini e italiani e con applicazioni pratiche. «Se tu chiami
l’Amore un fuoco : volendolo tu esagerare, puoi tu per semplice hiperbo-
le chiamarlo una. Fornace portatile, una Face di Megera, e non d’ Amore,
un Fulmine di Cupidine..., una Bomba animata, un Mongibello del petto,
una Zona torrida... Et così puoi andar discorrendo tutto l’Indice delle
Sostanze Naturali, ò Artefatte, Vere o Fabulose; trahendone altresì gli
Epitetti, i Verbi, gli Avverbi, i Superlativi...». Per fabbricar poi «Proposi-
tione Hiperboliche», si può ricorrere all’indice delle categorie, e
attingere alla quantità (per es. Il Vesuvio è una piccola favilla di quella
fiamma), alle relazioni di somiglianza e contrarietà (A paragon di quel
fuoco, ogni altro fuoco è neve), ecc.
Le metafore già petrarchesche ( fiamma per «amore» e per «persona
amata») e quelle foggiate dai corifei del barocco costituiscono una serie
di equivalenze quasi stabili: l’« occhio» è una stella o un sole, i «capelli»
sono dei ruscelli, una pioggia o una selva, le «lacrime» sono perle,
l’«acqua» è un cristallo, le «bianche membra nude» sono nevi o avori o
alabastri, ecc. Per la natura stessa della lingua, la costante ripetizione
tende a far perdere a queste immagini ogni valore espressivo (come per
es quando il Marino dice di un guercio che era «del destro sole orbo
rimaso»: Adone, XIV, st. 123), e ciò spinge gli scrittori barocchi a
cercare metafore sempre nuove. «Sol mundi mensor dictum est peranti-
quum. Ingeniosius iam videatur - ironizza Famiano Strada nelle sue
Prolusiones Academicae (Roma 1617, p. 346) - si plusculum audeas,
eumque appelles coeli tabellarium, pistoremque lucis, umbrarum cami-
ficem, arvorum coelestium aratorem» 39 . E Salvator Rosa può lamentarsi
(Sai., II) che «le metafore il sole han consumato».
Se una metafora sola non sembra abbastanza espressiva, se ne
accumulano parecchie: «Questa picciola dimostrazione della mia
devota osservanza... è scintilla della fornace, stilla dell’oceano, scarsis-
sima ricognizione degl’infiniti obblighi miei» (Marino, Epistolario, I, p.
170)
Altro modo per riattizzare la vivacità d’una metafora già un po
consunta è il prolungarla, deducendone una serie di metafore collate-
rali. «Se tu chiami la Rosa Reina de' Fiori - insegna il Tesauro
C Cannocchiale , p. 321) - puoi tu raffrontar tutte le Circostanze della
Rosa con quelle d’trna Reina: facendo da quella sola Metafora di
proportione, come da feconda radice coltivata con ingegno, pullular
mille rampolli di pellegrini Traslati per ciascuna Categoria:
36 Cannocchiale, p. 203 dell'ed. cit. Cfr. E. Raimondi, nr Lingua nostra, XIX,
1958, pp. 34-39 e II Verri, agosto 1958, pp. 53-75.
36 Cit. da Belloni, Giom. stor., XXXI, 1898, p. 380.
Rosa
Pianta eminente
Rossor delle foglie
Odori
Reina
Dignità sublime
Porpora del manto
Prof umi
(Substantia)
(Quantitas)
(Qualitas)
Così si costruivano i «concetti predicabili» già ricordati: per es.
l’azione della penitenza come lavacro salutifero è minutamente con-
frontata con le operazioni della lavandaia, descritte ima per una, in
una nota predica del p. Emmanuele Orchi, «Penitenza differita alla
morte» 37 .
Grande importanza ha per i concettisti la scelta degli epiteti, per
completare, rinforzare, correggere gli effetti ottenuti con i sostantivi 3 ®.
Uno schema largamente adoperato dai barocchi è il rovesciamento del
rapporto fra sostantivo e aggettivo, per cui invece di uccello canoro si
parla di canto volante, o di violino alato, con innumerevoli altre
variazioni 3 ®. Una «fitta foresta» è per il Marino (Adone , Vili, st. 23) un
horror frondoso-, le «lepri» in un sonetto del p. Lubrano 40 diventano
animati tremori, ecc.
L’antica metafora «cristallo» = «ghiaccio» prende nuovo aspetto in
un sonetto dell’ Aitale 41 , per cui gli occhiali sono nevi addensate («Non
per temprar l’altrui crescente sudore - sugli occhi usa costei nevi
addensate»).
In un caso come questo la piacevole meraviglia che l’autore vuol
dare al lettore è simile al piacere di chi risolve un enigma: e del resto la
moda degli enigmi nasce e fiorisce proprio nel Seicento. Si ricordino le
perifrasi con cui il Testi (canzone «Con artifìci egregi») parla del papiro
e della pergamena adoperati come materie scrittorie:
Dall'egizia palude
con bel furto involò frondi straniere
e di fosco color note vi pinse;
lanosa greggia estinse
e con penna sagace in varie guise
segnò le spoglie dell’agnelle ancise...
Un altro fra gli espedienti che producono meraviglia è il contrasto
di due espressioni vicine: contrasto che può assumere forme diversissi-
me. Le tre ottave in cui il Marino dà ima serie di definizioni dell’Amore
(VI, st. 172-174) sono quasi tutte formate di antitesi:
37 Prediche quaresimali, Venezia 1850 (cfr. p. Giovanni [Pozzi! da Locamo,
Saggio sullo stile dell’oratoria sacra del Seicento esemplificata sul P. Emmanuele
Orchi, Roma 1954).
38 Un apposito repertorio, quello di G. B. Spada, Giardino degli epiteti, ebbe
due edizioni (Bologna 1648 e 1665).
“ J. Rousset, La littérature de l’àge baroque en France, Parigi 1954, pp. 184-189
40 Getto, Marinisti, p. 413.
41 Getto, Marinisti, p. 403.
402
Storia della lingua italiana
lupo vorace in abito d'agnello...
lince privo di lume, Argo bendato,
vecchio lattante e pargoletto antico...
Altre volte gli autori puntano sul contrasto fra concreto ed astratto:
per es. Valeriano Castiglione [Statista regnante, c. XLV) parla di Carlo
Emanuele I, che «co’ cumuli del formento nelle sue Città, conseguisce...
cumuli di eterna lode».
La molla principale della poesia eroicomica e in genere giocosa
consiste nel contrasto fra il solenne e il triviale, come p. es. nella st. 54
del I canto della Secchia rapita del Tassoni-,
gli Anziani appo lui col lucco in dosso
seguivano a cavallo in lunga schiera
sopra certe lor mule afflitte e grame,
che pareano il ritratto della fame.
I due ultimi versi chiudono burlescamente un’ottava che pareva
solenne. Inattesa, anche se non sempre contrastante, scoppia spesso la
chiusa nei sonetti del Marino e dei marinisti: ecco per es. in un sonetto
caudato (Murtoleide , fischiata 36) il Marino che enumera, con la gioia di
un pittore di «nature morte», una congerie di vegetali:
Onor de l’insalata inclito, erbette
rose, borace, cavoli fronzuti
e così va in diciotto versi: poi i due ultimi scoccano ima frecciata contro
l’avversario, e ne vien fuori un quadro secondo la maniera dell’Arcim-
boldi.-
tessete voi la laurea trionfale
onde si faccia il Murtola immortale.
Contano sulla meraviglia prodotta dalle rime difficili non solo il
Marino e i suoi seguaci -
Ma se nato di quercia aspra e villana
fossi là tra’ Rifei, tra gli Arimaspì,
— e se bevuto dell’estrema Tana
Tonde gelate avessi o i ghiacci Caspi,
se te di sangue e di velen l’Ircana
tigre e’n grembo nutrito avessi gli aspi...
[Adone, XII, st. 247)
- ma anche un antimarinista come Salvator Rosa [Anassimandrì :
Alessandri: Licandri, sat. II, v. 905 ss.; iride : Busiride-. Osiride, sat. Ili, v.
41, e passim).
Dove più i secentisti sfoggiano, è nelle paronomasie o bisticci:
parole uguali o parzialmente s imili collocate di proposito in posizioni
vicine-.
Il Seicento
403
I pria sì grati e poi sì gravi affanni
„ , t „ , (Marino, Adone. I, st. 4)
De la bella rubella in voce amara
flV, st. 34)
Fa de le proprie infamie oscena scena
_ (VII, st. 184)
O mia dorata, et adorata Dea
. (XV, st. 99)
Corsi a le labra, e, quant 'ardente ardito
con grata allor non grave
violenza soave
( Poesie varie, ed. Croce, 47)
e così via. Talvolta le due parole sono della medesima famiglia e
abbiamo la «figura etimologica»: li cani di Atteonel «al lor re sconosciu-
ti m ostrar sconoscenti » [La Sampogna, «Atteone», w. 199-200)
à 'fnf 1 H?t parola ^ origine latina nel suo significato etimologico
è un altro artificio non raro:
Di smeraldi cader vezzo serpente
si lascia al sen con negligenza accorta
(Adone , Vili, st. 33)
Qonda lucente!
che ’n sì ricco canal mentre s’aggira
le sue delizie ambiziosa ammira
(Adone, Vili, st. 51).
A^«™ flgUr ® n °? rar ^ anche nei secoli precedenti, ma che ora si
singolare frequenza, è l’antonomasia: «gli Homeri moder-
rLhur ^ a y ranno 1© tenebre dell’antichità a mendicar gli AchiUi,
(AcfoUm 1 , lettera a Luigi XIII, 1629), «l ’ Achille degli argomenti» è «il più
ffi^cllìni le »^w® ttere V' J ann ° Ar 8hi gl’intelletti ciechi»
j^uagù cent. I, rag. 89), «Chi fa dell’opre sue virtù
1^*’ A r hl la hbertà ha P er Arturo» (Salv. Rosa, Sat., I, v. 501- V, v
fa m an °, a ,\ dX ì B felici amanti - c °n torte braccia i Briarei
del Sfi? 7 & h alber \ deUa . Cresta: Adone, VII, st. 107), «tu del ciel, non
noL^f (SÌ ^Galileo.- Adone, X, st. 45), «il Zoilo della
poesia» (cioè lo Stigliarti: Hemco; L Occhiale appannato, p. 51), ecc
Altre antonomasie sono tratte da nomi di luogo: «Un Caucaso di nevi
w 1 * cbl ° me> kon. di G. Battista, in Croce, Lirici marinisti, p. 432), «il
S r è ^JT~;' u 61 n ? to so ? etto m Giuseppe Artale sulla Maddale-
na i« ijradir Cristo ben dee...»).
smoderatezza barocca si vede nelle enumerazioni: «Son que’
Zerbinotti , quegh Adoni, que’ Ganimedi, che han per nobil vanto...»
“ Migliorini, Dal nome proprio, p. 139 .
C ° me ai sa ’ vle ? e da 1111 nome Proprio, Io Zerbino dell’Ariosto
abgUormi’ Dal nome proprio, p. 183), ma ormai nel Seicento la parola è divenuta
404
Storia della lingua italiana
(Brignole Sale, Il Satirico innocente, Genova 1648, p. 263), magari
combinate con giochi verbali «La Medea, la Medusa e la Megera - che ne
l’alba al mio dì portò la sera» (Adone, XTV, st. 237).
I titoli dei libri danno ricchissimi esempi di metafore vistose 44 . Le
raccolte erudite s’intitolano Giardino, Tesoro, Teatro ", Galleria, Scena
(D. Calvi, Scena letteraria degli scrittori bergamaschi, Bergamo 1614),
Cornucopia, Officina, Miniera e via dicendo. Opere più specifiche
indicano il loro contenuto con metafore più o meno pertinenti: la Pietra
del paragone politico del Boccalini si propone di saggiare l’oro e
l’orpello della politica dei principi, l’Astrolabio di stato del Della Torre
(Genova 1647) vuol «raccoglier le vere dimensioni dei sentimenti di
Cornelio Tacito»; la Visiera alzata dell’Aprosio (Parma 1689) indica gli
autori di numerose opere pseudonime; la Chiave della Toscana Pronun-
zia dell’Ambrogi (Firenze 1674; la l a ed. s’intitolava Lucidoro ; cfr. p. 459)
serve «al chiudere ed aprire delle vocali E, ed O» e così via. L’iperbole
tien poco conto della modestia: si pensi all'Oracolo della lingua d’Italia
del Franzoni (Bologna 1645).
Spesso si ha irradiazione sinonimica, cioè una metafora dà origine
ad altre analoghe: la Bilancia va con la Stadera e con la Libra (e anche
il galileiano Saggiatore volutamente si rifà al titolo della Libra del p.
Sarsi: «E tanto è più esquisita una bilancia da saggiatori, ch’una
stadera filosofica!»).
Nel titolo stesso, oppure nelle divisioni in capitoli, si ha qualche
volta una continuazione della metafora iniziale: G. B. Racani scrisse
una Navicella grammaticale, nella quale chiunque s’imbarcherà con
corso felice, e breve, arriverà al bramato Porto di quest’ Arte (Venezia-
Macerata 1686), la Bottega dei Ghiribizzi di C. Giudici (Milano 1625) si
divide in «scatole», le Ghirlande vaghissime di canzonette musicali di G.
Lirinda (Pavia 1659) si dividono in «intrecci», la Biblioteca volante di G.
Cinelli (1677 segg.) consta di più «scansie», il Cane di Diogene di F. F.
Frugoni (Venezia 1687 segg.) si fa sentire in sette «latrati» (cioè
altrettanti volumi), e così via. Anche qui abbondano i nomi mitologici e
storici presi per alludere all’argomento dell’opera: ricordiamo l 'Euterpe,
raccolta di canzonette di D. Brugnetti bolognese (1606), la Flora overo
cultura di fiori di G. M. Ferrari (stampata prima in latino, 1633, e poi in
traduzione italiana, 1638), il Mercurio, storia dei correnti tempi, pubblica-
to per molti anni (dal 1635) da V. Siri 48 , e così via 47 .
44 Già nel tardo Cinquecento se ne avevano esempi, anche se non così
numerosi e ostentati. T. Garzoni aveva dato, per es., alle sue opere una serie di
titoli metaforici bizzarri: Il Teatro dei veri e diversi cervelli mondani (Venezia 1583),
la Piazza universale (Venezia 1585), la Sinagoga degli ignoranti (Venezia 1589),
YHospidale dei pazzi incurabili (Venezia, 1589), ecc.
46 Numerosi esempi in Calcaterra, Parnaso in rivolta, Milano 1940, pp. 167-168.
48 II primo esempio fin qui citato di applicazione del nome di «Mercurio» a
raccolte di notizie è il Mercurius gallo-belgicus di M. van Iselt, Colonia 1592.
Mercurio divenne anche nome generico per indicare un «periodico» (Dal nome
Il Seicento
405
Un altro campo in cui ebbe libero gioco l’ingegnosità fu la scelta dei
nomi accademici: di solito essi «debbono aver riguardo al concetto
generale significato dall impresa dell’Accademia» 48 : così, per es alla
Crusca gli accademici si scelsero (dal 1590 in poi) nomi che avessero
nierunento al grano, alla crusca, al pane, al forno e concetti affini:
1 Inferigno, il Lievitato, il Macinato, ecc.; gli Apatisti ricorsero invece
sj^sr&mmi ( Ostilio Contalgeni, nome accademico di Agostino
Coltellini, ecc.); gli Arcadi a un nome greco o finto greco di pastore,
accompagnato da un etnico pure greco (Alfesibeo Cario, nome accade-
mico del Crescimbeni), e così via.
L’amore di novità dei secentisti li rende piuttosto favorevoli alla
coniazione .di parole nuove: ma di questo accenneremo più oltre.
Piuttosto, diremo qui di un modo particolare di usare scherzosamente
le parole che fu per qualche tempo di moda, la cosiddetta lingua
lonadattica 4 . Si tratta della sostituzione di molte parole con altre che
cominciano con le stesse lettere: invece di fagioli si diceva fagiani
- mvece di gote rosse, gomita rotte, e per dire a uno vi riverisco di tutto
cuore si poteva dire vi rivesto di tutto cuoio. Su questo «scioperatissimo
idioma» (come lo chiamava lo stesso Panciatichi) fecero alla Crusca
una cicalata e una contraccicalata, nel 1662, Orazio RuceUai e Lorenzo
Panciatichi : esso non fa che esagerare fino alla mostruosità quelle
mascheratine di parole che troviamo diffuse nell’uso popolare e qua e
là affiorano nella letteratura fin dai primi secoli 51 . Queste mascheratu-
re per lo più si facevano con nomi propri di persona e di luogo e così
era ancora nel primo Seicento 52 . ’
propno pp 145-146), ed è tuttora adoperato e adoperabile come titolo
Altri titoli invece, anche di opere non scientifiche, si ammantan o di parole
dotte, specialmente greche: ricordiamo la Partenodoxa di C. Cittadini (Siena 1604 )
? e < ? el l a . c f nz . one del Petrarca alla Vergine, i Proginnasmi di B.
^ c Ghirardelli (Bologna 1630), la Cronoprostasi
felsinea del Montalbam (Bologna 1653), ecc. (cfr. p. 487 ).
48 B Buonmattei, cit. nella Vita di lui scritta da G. B Casotti
migliori- esser questa favella della lingua Ionica, e sì
dell Attica fedelissimo ritratto» (cicalata di O. Rucellai)
F i rLfZtZ''T^‘ Ì 1723 - pa " e 1,1 1 pp “- 1611 L - va*
f S1 nel l®;t e n zo ne con Orlanduccio il rimatore duecentesco Pallamides-
se (cod. Vat., n. 699) ha venire al Batastero per «venire a battaglia»; Dante nella
Burchiello^* nef Pulci, ecc. ^ 6 ™ VÌa nel Sacchetti, nel
PunoI^c^tH^ti 1 ^ 61 ^ 8, de o Pupol ° aUa Pupola e la risposta della Pupola al
Pupolo scritti dal Manno: «Signora, io son sì fattamente nel labirinto d’ Amore
2 Persio, né per uscirne so ritrovare il Varchi, se la vostra cortesia non
(Epistol., II, pp. 93-96). Ne danno esempi (quasi sempre con
J?? 1 ? r ° p . Monosmi, Flos Linguae Italicae , Venezia 1604 , pp. 423-428 e N.
Svernamento dell’Accademico Aideano sopra la poesia giocosa, Venezia
1634 p. 80 (anima Petrarca «di pietra», leggere il Mattioli «essere un po’ matto»
sen^a°far°nulSl ai ecc baSt0nare> ’ S *° re ° Bellos 8uardo «star a guardare gli altri
406
Storia della lingua italiana
Il Seicento
407
Anche da questo esempio vediamo che non c’è, si può dire, un solo
tipo di artificio secentesco che non sia stato adoperato in altre età: solo
che in questa se ne è fatto uso senza discrezione, É poco o nulla è
riuscito a sopravvivere.
7. Uso effettivo e uso riflesso dei dialetti
I dialetti ancora vigoreggiano: dobbiamo presumere che, aU’infuori
della Toscana e di Roma, il toscano letterario fosse scarsamente
divulgato nell’uso parlato quotidiano, e che in ciascun luogo predomi-
nasse il rispettivo dialetto, fin che si parlava fra concittadini. Qualche
sforzo lo facevano solo le persone più elevate 53 . Ma scrivendo è di
regola usare l’italiano, anche se qua e là rimanga qualche traccia
dialettale. Sappiamo dai suoi biografi che Salvator Rosa, il quale
scrivendo in versi e in prosa adoperò solo l’itahano (pur rendendosi
conto di incespicare ogni tanto: «il tosco mio guasto idioma», egli dice),
anche a Roma e a Firenze parlando continuò a servirsi del proprio
dialetto, e le sue satire agli amici le commentava con frasi napoletane
USiente chisso vè, auza gli uoccM.
I molti scritti dialettali che troviamo nel Seicento vanno considerati
quasi tutti non come stesi da popolani per il popolo, ma come opera
conscia di persone colte, che utilizzano il dialetto quale pimento
espressivo, quale colore letterariamente inconsueto 54 : qualche cosa di
simile a un ballo mascherato con costumi di popolani 55 .
Abbiamo numerosi poemi giocosi, spesso con scene di vita locale
(per es. il Maggio romanesco del Peresio), traduzioni in vari dialetti di
poemi classici e moderni (fra cui parecchie versioni intere o parziali
della Gerusalemme liberata), novelle e dialoghi in prosa (meritamente
famoso è il Cunto de li cunti del napoletano Basile) 56 , commedie con
personaggi dialettali 57 .
53 II Testi scriveva nel 1641 a Francesco I d’Este: «Loderei bensì, che colla
lettura de’ più scelti autori toscani o coll’assidua conversazione di persone o
fiorentine o senesi o lucchesi, il signor Principe s’impossessasse esattamente
della nostra lingua o volgare o italiana o toscana, che vogliano chiamarla, non
tanto per lo scrivere, quanto per quella politezza del parlare ordinario, che sta
così bene nella bocca de’ personaggi grandi».
54 Abbiamo qualche sacra rappresentazione con scene in italiano di colorito
regionale e scene in dialetto, opera di persona colta o semicolta per il popolo:
risale al Seicento la composizione del Gelindo piemontese, sacra rappresentazio-
ne pastorale (v. il testo datone da R. Renier, Torino 1896), e così pure il poemetto in
versi siciliani con molti elementi semidotti, intitolato Historia siciliana supra lu
riccu Epuloni cu Lazzaro, di Vito Di Renda, Messina 1668.
55 Su questa letteratura, v., oltre all'articolo fondamentale di B. Croce, «La
letteratura dialettale riflessa», in Critica, XXTV, 1926 (rist. in Uomini e cose della
vecchia Italia, Bari 1927, I, pp. 222-234), la bibliografia cit. a p. 308.
68 Oltre a ciò che ne ha detto il Croce, v. L. Hàge, «Lo cunto de li Cunti » di G.
Basile: eine Stilstudie, tesi, Tubinga 1933.
57 Fu anche esumato qualche testo dialettale più antico: la Vita di Cola venne
pubblicata la prima volta a Bracciano nel 1624.
Non di rado nei poemi giocosi in italiano appaiono passi in dialetto
messi in bocca a singoli personaggi.
Testi di questa letteratura dialettale riflessa si hanno in quasi tutte
le grandi città, centri di vita intellettuale. In Toscana invece essa
Pre. nde aspetto leggermente diverso: il linguaggio che il poeta
stilizza è la parlata «rusticale». Anche qui non mancavano i precursori,
dalla Nencia in poi: ma ora i testi si moltiplicano Qa Tancia del
Buonarroti, il Cecco da Varlungo del Baldovini, ecc.).
Mentre i componimenti rusticali accentuano la caricatura del
villano attribuendogli una gran quantità di parole storpiate, gli scritti
dialettali non di rado attenuano il colorito dialettale accostandosi ora
piu ora meno all’italiano usuale. Esempio tipico è il Maggio romanesco
del Peresio, che nell’edizione a stampa (Ferrara 1688) è sensibilmente
meno dialettale che in una precedente redazione 58 , Il Jacaccio overo il
Palio conquistato : 1 autore ha temuto (o l’editore gli ha messo la paura)
di sembrare troppo plebeo.
In qualche caso l’uso conscio del dialetto, oltre che dalla ricerca di
color locale, nasce dall attaccamento alla patria regionale: come
quando il Boschim nella sua Carta del navegar pittoresco (Venezia 1660)
dichiara: «Mi che son venezian in Venezia, e che parlo de pitori
veneziani, ho da andarme a stravestir?». Una captatio benevolentiae
rondata sul valore patriottico del dialetto voleva essere quella di Carlo
Emanuele I, quando, dopo la morte di Enrico IV, scriveva in veneziano
ai Veneziani per sollecitarne l’alleanza:
Havemo el sangue zentil e no villan,
credemo in Dio, et si semo cristiani
ma sopra tutto boni Italiani...
Semo insieme ligai et si ben stretti
come conviene a nostra libertae...
Amor di campanile e antitoscanesimo convergono nelle lodi che
Milanesi 59 , Bolognesi, Napoletani, Siciliani fanno dei loro dialetti come
piu antichi e importanti del toscano 80 .
8. Il vocabolario della -Crusca
Tra le varie esercitazioni letterarie e filologiche a cui si dedicò
1 Accademia della Crusca nei primi decenni della sua vita (v. p. 334 ),
(Roma 1939) — — ’ i*™****^«»m» vu oui meuiusuiiiiu aa r. Ugolini
” 11 p ròsian de Milan de la pamonzia milanesa (nel Varon Milanes Milano
1606) vanta il parlar milanese come «el più bel che sia al Mond»: quanto a «la
lengua Fiorentenna», «l’è nassù da la nosta, ma lor ai l’an lecà insci on pochin»
GCC. lp. 57).
00 Trabalza, Storia gramm., p. 344.
408 Storia della lingua italiana
fattività lessicografica venne emergendo sempre più. Il 31 maggio 1606
il vocabolario era quasi pronto, e l’attesa, degli Accademici e di molti
letterati italiani, era ormai grande. Il titolo, con cui l’Accademia
pensava di riaffermare la sua posizione nella questione della lingua, fu
a lungo discusso: nel 1608 si pensò d’intitolare l’opera Vocabolario della
lingua toscana degli Accademici della Crusca-, nel 1610 si decise d’ag-
giungere un inciso importante: Vocabolario della lingua toscana cavato
dagli scrittori e dall’uso della città di Firenze dagli Accademici della
Crusca ; nel 1611, alla vigilia della pubblicazione, si preferì ima dicitura
meno compromettente: Vocabolario degli Accademici della Crusca-, e
con questo titolo il volume uscì il 20 gennaio 1612 presso il tipografo G.
Alberti a Venezia, dove Bastiano de’ Rossi era andato a vigilare la
stampa.
La prefazione e il modo con cui l’opera è condotta permettono di
vedere la stretta aderenza al criterio del fiorentinismo arcaizzante.
L’opera mira soprattutto a «conservare la lingua», appoggiandosi
all’uso scritto, specie a quello del Trecento. Gli accademici professano
di attenersi al canone preconizzato dal Bembo: «Nel compilare il
presente Vocabolario (col parere dellTllustrissimo Cardinal Bembo, de’
Deputati alla correzion del Boccaccio dell’anno 1573 e ultimamente del
Cavalier Lionardo Salviati) abbiamo stimato necessario ricorrere
all’autorità di quegli scrittori, che vissero, quando questo idioma
principalmente fiorì», cioè nel Trecento. Per l’elenco degli scrittori gli
Accademici si riferiscono pure al Bembo, al Borghìni e principalmente
al Salviati. In prima linea si citano Dante e il Petrarca, il Boccaccio e il
Villani, e comunque scrittori fiorentini o che hanno voluto scriver
fiorentino: dei non fiorentini si citano solo le parole «belle, significative,
e dell’uso nostro».
Le voci di minore autorità (tratte da cinquecentisti o dalla lingua
parlata) sono citate in coda alle voci più autorevoli: così calappio o
galappio sotto accalappiare-, carota e carotaio alla voce cacciare, sotto
la quale è citata la frase cacciar carote; cifera e gergo sono ricordati alla
voce enigma, ecc.
Vengono registrate numerose varianti di parole ( avolterio - adulte-
rio, notomia - anatomia, cecero - cigno, spelda - spelta, ecc.), ciò che si
spiega dati i criteri di spoglio, ma dà molto imbarazzo a chi ricorre al
vocabolario per averne consiglio in caso di dubbio.
Per ciascun significato si citano, ove sia possibile, esempi di poesia
e di prosa. I modi di dire e i proverbi sono registrati con una certa
larghezza, anche se non documentati negli autori.
Il Vocabolario rappresentava un notevole progresso sulle opere dei
predecessori, per il maggior numero di vocaboli, la ricchezza di
suddivisioni, lo sforzo di definire anziché spiegare per mezzo di
sinonimi. L’impostazione salviatesca gli dava un aspetto complessivo
piuttosto arcaizzante: ne furono delusi quelli che si aspettavano di
trovarvi una codificazione del miglior linguaggio contemporaneo; ma
la notorietà dell’ Accademia e i meriti intrinseci diedero al vocabolario
Il Seicento
409
una posizione di preminenza che gli procurò (come meglio vedremo nel
paragrafo seguente) adepti fedeli e avversari accaniti.
1]C ^ oche son P T le modificazioni introdotte nella seconda edizione
SS\a?^de^R? n T a - fi® 1 1623, presso Iacopo Sar zina (sempre a cura di
Si i Ros fì vl fuLro ?° agemmti alcuni vocaboli dimenticati sia
della tradizione letteraria (come eroe), sia dell’uso.
attbdtf^i^n?^ 1611 * 1 - rAccade ™ a ebbe 1111 Periodo di scarsissima
’ unaenererica «Presa si ebbe quando entrò fra gli Accademici
ne . Evenne segretario Benedetto Buonmattei. Il lavoro per il
Vocabolario fu ripreso nel 1641; rallentatasi un’altra volta Sera ebbe
nuovo impulso nel 1663, quando fu eletto segretario Carlo Dati. Il
p ™‘; lpe Leopoldo, protettore dell’Accademia 81 , fece raccogliere per
questa edizioni voci scientifiche, voci nautiche, voci d’arti e mestieri 82
m Perché U parere d’escludere i Su di
professioni e d arti prevalse sempre.
Nel 1664 il Vocabolario si cominciava a copiare per la stamna- ma
Se! r la m ° rte del Dati 1 lavori rafcmSrSy e
nel W77 col nuovo segretario Alessandro Segni. Uno dei più dotti e
il g R H CCa i demÌCÌ ’o Magalotti ’ es P 0 se ad alcuni colleghi a’ab.
Strozzi il Redi il can. Bassetti) certi criteri che, se fossero stati
applicati, avrebbero molto giovato al Vocabolario 83 . Gli stranieri si
Vofabn/a^H^V^ trovarsi ingannati delle dieci volte le otto dal
7 nov 1677 Ì Pe if C , hé . mclude ^PPi arcaismi» Qett. al Redi,
™ Pi 5 perch f 11 Vocabolario non serve solamente per i toscani
™, a p ? r } romani, ì milanesi, i napoletani, i ffanzesi, gli svizzeri e
gl rndiam ancora, come sapranno questi che si può dire datemi ' lo
specchio, e non si dee dire datemi lo speglio, quando troveranno che
re e se°sf è tutt ’mio?».Egli vorrebbe dunque che per distingue-
re se si tratta di voci arcaiche, poetiche, plebee, «si aggiungessero
diversi contrassegni, come si fa alle città nelle carte geografiche che
afiepiscopah si mette un pastorale sul campanile» efc Va bene
da? m«r. le i T 0 ! C ° n larghezza - ma P er non meritare il rimprovero di
dar «mescolata la crusca, o più tosto le reste e la paglia istessa con la
arma» bisogna che siano date, a Italiani e a stranieri tutte le debite
nL« t rtenZ f Q - ett al can ’ Bassetti ’ ciU Ma era troppo tardiper applicare
questi criteri senza sconvolgere il lavoro già fatto, e troppo presto
P ? be _ a sl Potesse sperare di vincere la forza della tradizione P
La 3 edizione uscì nel 1691, m tre volumi, pubblicata dalla «Stampe-
«£ r ££?£?£££ “ seio1 * de8 “ Accad “ tei ru *°
dell edizione Cambiasi a una lettera del Redi (Lettere famiUatt ' I, Firen^Tp.
rrw, pp S 63-70 Ia lettera al Can ' Bassetti * m Magalotti, Lettere familiari, II, Firenze
410
Storia della lingua italiana
ria dell’Accademia della Crusca». Erano stati spogliati, in più delle
edizioni precedenti, una cinquantina di autori antichi e altrettanti
moderni: s’era finalmente incluso il Tasso e anche il Pallavicino 64 . Si
andarono cercando, per arricchire il numero dei lemmi, esempi di
astratti verbali, si aggiunsero come voci a sé molti diminutivi, accresci-
tivi, superlativi 65 .
Nessun’altra lingua moderna aveva, alla fine del Seicento, un
vocabolario che potesse degnamente competere con quello della
Crusca
9. Discussioni sulla norma linguistica
«Si vedon hoggi - scriveva nel 1629 da Messina Scipione Herrico a
Gaspare Trissino 68 - più opinioni contrarie, & diverse intorno questa
grammatica, & ortografia, che non sono quelle che nelle scuole si
sentono: & è più facile apprendere le regole d’ogni altra più forestera
lingua, che non di questa, nella quale communemente si parla...». Che
si fossero fatti molti passi verso ima relativa unità della lingua
letteraria, non c’è dubbio: ma permanevano ancora forti dissensi sui
criteri fondamentali.
Naturalmente, le discussioni si facevano solo tra persone colte, nei
ceti più alti 67 . Le opinioni erano polarizzate principalmente prò o
contro la Crusca, fattasi antesignana di ima toscanità di colorito
arcaico. Già prima dell’uscita del Vocabolario, G. B. Pinelli nel
volgarizzamento dei Salmi di san Bonaventura (1606) dice di rimettersi
quanto alla lingua al giudizio della Crusca, di cui era stato nominato
accademico. Quando il Vocabolario fu pubblicato, trovò dei seguaci
che si ritennero in dovere di seguirlo arcaizzando. «Conosco io di
quelli, che le vanno cercando He voci antiche!, come suol dirsi, col
fuscellino, per adornarne, come essi credono (e bene, se con giudizio lo
fanno), i loro componimenti. E non hà guari, che io una orazione vidi
d’un valent’huomo, nella quale ve n’erano incastrate al numero di
quindici, ò venti». Così ci attesta il Pescetti, che nella Risposta
M Ma ciò parve soverchio ardimento ai compilatori della quarta edizione, che
ne espunsero gli esempi.
06 Fu anzi questa ricerca di voci da aggiungere che diede a Francesco Redi,
compilatore di numerose schede per questa edizione, la tentazione di foggiare
alcuni esempi fittizi, attribuiti ad autori di cui il Redi stesso asseriva di possedere
codici. La storia di queste falsificazioni fu tracciata da G. Volpi, in Atti della R.
Accademia della Crusca , anno 1915-16, pp. 33-136.
86 Herrico, L’Occhiale appannato, Napoli 1629, p. 84.
87 «Hoggidì tutta la Nobiltà d’Italia si è assuefatta a parlar, e scriver assai
Toscanamente. Dico la Nobiltà: che per altro ben sì sa che ogni Città ritiene i suoi
Idiotismi della gente popolare, e plebea»: così affermava, verso la fine del secolo,
il marchigiano L. Mattei, Teorica del verso volgare e prattica di retta pronunzia.
Venezia 1695.
Il Seicento 411
&W Anticrusca si era mosso a difendere l’accademia dalle accuse del
Beni 68 .
Il Beni, professore a Padova 89 , contrario all’impostazione arcaistica
del Vocabolario e offeso per gli scarsi riguardi che Bastiano de’ Rossi
aveva avuti per i letterati veneti 78 , l’anno stesso della pubblicazione
diede in luce L’ Anticrusca o vero il Paragone dell’italiana lingua : nel
qual si mostra chiaramente che l’Antica sia inculta e rozza: e la Moderna
regolata e gentile, Padova 1612. Il Beni sostiene la superiorità dei
cinquecentisti sui trecentisti; difende strenuamente il Tasso, e invece
combatte il Boccaccio, biasimandone forme e costrutti (e per esperi-
mento riscrive in stile cinquecentesco il principio della novella dei tre
anelli). Contesta la superiorità del fiorentino («o perche fia meglio dir
mandorlo e mandorla, che mandolo e mandola, o pur, amandolo e
amandola come costuma quasi il restante d’Italia?», p. 13), e soprattut-
to si lagna che i Cruscanti, «intanto che lo stile e de’ Cari e de’ Tassi lor
pute», abbiano esumato «le Tavole rìtonde, i Giacoponi, i Morganti » e
persino i «Quaderni de’ conti» (p. 81).
La Crusca rimase incerta se difendersi o no; poi si decise per il no:
non solo non venne pubblicata la risposta già abbozzata col titolo di
Antiminosse, ma Bastiano de’ Rossi indusse il Fioretti a sopprimere il
Frullone dell' Anticrusca che aveva preparato. Intervenne invece perso-
nalmente Orlando Pescetti, di Marradi, con la sua Risposta all' Anticru-
sca (Verona 1613), in cui difende il Boccaccio e il nome di «lingua
fiorentina». Il Beni replicò con un altro volumetto II Cavalcanti overo la
Difesa dell’ Anticrusca, scritto sotto il nome di Michelangelo Fonte e
dedicato ad arte al granduca Cosimo (Padova 1614): ribadendo i propri
argomenti, accusa il Salviati di avere vantato l’assoluta superiorità
della lingua e degli autori fiorentini; a favore dei moderni, allega i
Pensieri del Tassoni recentemente pubblicati; contesta poi gli argomen-
ti che contro di lui aveva adoperati il Pescetti.
Alessandro Tassoni, che era stato nominato accademico della
Crusca, e ad essa aveva dedicato nel 1608 la prima parte dei suoi
Pensieri diversi, quando fu pubblicato il Vocabolario fu deluso: troppe
le anticaglie, troppe le voci moderne mancanti. Qualche anno dopo il
1612, mandò all’Accademia un fascicolo intitolato Incognito da Modena
contro alcune voci del vocabolario della Crusca, e si adirò molto quando,
all uscita della seconda edizione, vide che non ne avevano tenuto
conto. D fascicolo mandato alla Crusca è andato perduto, ma il
Muratori aveva visto e citato una copia della minuta; inoltre tre
68 Più di mezzo secolo dopo il card. De Luca ( Difesa della lingua italiana, p. 34)
afferma di non pretendere di professare «la favella Italiana culta» o di «essere
uno degli assistenti ò magnati dell’Accademia della crusca (frenesia oggidì resa
tanto comune a molti)».
" U. Cosmo, in Giom. stor., XLII, 1903, pp. 132-137; A Belloni, «Un professore
anticruscante all’università di Padova», in Arch. veneto-trid., I, 1922, pp. 245-269
70 II Cavalcanti, p. 44.
412
Storia della lingua italiana
redazioni di postille fatte dal Tassoni alla seconda edizione ci permet-
tono di conoscere bene il suo atteggiamento, che traspare anche da
alcune delle note apposte alla Secchia rapita col nome di Gaspare
biasima gli idiotismi fiorentini, come abituro, agghiadare,
contradio, guari, testé, e domanda: «perché moccichino,
tutt’Italia dice fazzoletto, melone?*. Biasimale voci arcaiche e pedante-
sche come abbagliare, abbassagione, abitaggio, accalappiare, ecc., nota
SpMtooggi è un rancidume*, e al titolo del Vocabolario aggiunge
«delle voci arcaiche». Avverte la mancanza di molte voci come accanto,
amaranto, anemone, azzardare, circospezione, cumulo, davvero, decoro,
delitto equestre, lusso, nazionale, orrendo, plurale, regalare, scena,
vigliacco, e tante altre* Trova a ridire sulle definizioni per ,es_a
proposito di secchia «vaso cupo di rame, o di ferro, col quale s attigne
l’acqua»: annota «perché no di legno?». , ..
Una nota alla Secchia a proposito della voce pitale sottolinea
l’importanza che il Tassoni dà all’uso colto romano: «egli ebbe opinione
che la favella della corte romana fosse così buona, come la fiorentina, e
meglio intesa per tutto». . , „ -
Un’altra serie di Annotazioni alla prona edizione della Crusca,
benché sia stata pubblicata dal Fontanini sotto il nome del Tassom
(Venezia 16981, è invece opera di G. Ottonelli.
Un altro focolare di opposizione alla norma fiorentina si ebbe ai
principio del secolo a Siena. Il Tolomei, il Borghesi, il Cittadini, il
Lombardelli nel Cinquecento si erano sforzati di mantenere Siena allo
stesso livello di Firenze, ma senza troppo insistere suiie peculiarità
differenziali: invece Scipione Bargagli Ul Turammo, ovvero del pariaree
dello scriver sanese, Siena 1602) sottolinea molto le divergenze anche
quelle che ormai erano obliterate o si stavano obliterando: contrappo-
ne alle forme e alle voci di Firenze quelle corrispondenti di Siena-.
povaro, dipegnare, longo, lassare, bacoca, citta, rantaca.re, sfare a gallo,
ecc • e insiste perché «da’ Cittadini di Siena si metta in carta tuttavia
(non pur si parli e si ragioni), neUa pura forma e nella schietta
maniera, ch’a quelli porge, & insegna la pr 0 pna Natura» (p. ll5)_
Uscito il Vocabolario della Crusca, il senese Adriano Politi (1542
1625), che non ne era affatto entusiasta, pensò tuttavia di valersene,
riassumendone lemmi e definizioni e ponendo acanto Ji t
spiccatamente fiorentine il loro equivalente senese (cfr pp. 479-4801 U
volume del Politi fu vistosamente intitolato, non sappiamo se per volere
dell’autore o dell’editore, Dittionarìo toscano, Compendio del Vocabola-
rio della Crusca (Roma 1614), ma l’Accademia protestò vivacemente, e
7 i T casini «Il Tassom e la Crusca», ìnRiv. crit. lett. ital., II, 1885, coll. 93-94; U.
Renda cT^sonl e U Vocabolario della Crusca» in Miscellanea Tassomana,
Modena 1008, pp. 277-324.
71 Seicento
413
nelle .successive ristampe (che dal 1615 seguitarono fino al 1691) l’opera
portò solamente il titolo di Dittionario toscano 72 .
Parole e firasi in toscano arcaizzante sono fatte oggetto di satire da
parte di scrittori non toscani 73 .
Altri s’accontentano di esprimere il loro dissenso esponendo i criteri
a cui vogliono attenersi: così Pietro della Valle, nel pubblicare le lettere
intorno ai suoi viaggi: «Non devo lasciar di dirti, curioso lettore, che
queste lettere io non ebbi mai presunzione di scriverle in un linguaggio
toscano puro, scelto ed elegante, che potesse servire altrui di esempio o
fare autorità nella lingua, di quella fatta che ad un oratore o a buoni
istorici senza dubbio sarebbe stato dicevole; ma che solo mi bastò di
dettarle secondo il materno mio dialetto romano, senza errore, con
parlar tuttavia ordinario e corrente, senza neanche affettazione alcuna
di squisitezza, quale appunto in lettere familiari si vuole usare e si
ricerca».
Marc’Antonio Savelli, nella Pratica universale (cit. a p. 434) si scusa
di non aver «osservato le regole della Crusca, e bel parlare Toscano»,
parendogli «la materia, e fine non comportare siffatta ostentazione».
Dei grammatici faremo cenno più oltre. In genere, essi accolgono il
canone toscano e attingono largamente i loro esempi agli scrittori
trecenteschi: lo fa anche il p. Daniello Bartoli, che, accettando il nome e
il concetto di «buon secolo», biasima tuttavia l’affettazione d’arcai-
smo 74 e rivendica il diritto di usar parole e modi di dire al di fuori
dell’italiano trecentesco Ul Torto e il Diritto del Non si può, Roma 1655,
cap. lxxx).
Abbiamo visto che anche qualche accademico di mente aperta,
come il Magalotti, si rendeva ben conto delle due distinte funzioni che
adempiva la Crusca: la registrazione delle voci arcaiche, plebee ecc., e
il sigàio di autenticità che conferiva al «più bel fiore» delle voci
classiche.
Persisteva, nell’insegnamento retorico, la divisione tradizionale dei
vocaboli in «tre schiere». Così ne traccia la distinzione, per es., il
Pallavicino ( Considerazioni sopra l’arte dello stile, e del dialogo, Roma
1666, cap. xxi>. «La prima è de’ vocaboli consueti ascoltarsi da noi nelle
bocche, e nelle scritture di persone risguardevoli... La seconda schiera
è di quelle parole, che hanno ritenuto egualmente commercio colla
72 C. Neri, «Il Dittionario toscano di A. Politi», in Lingua nostra, XII, 1951, pp.
5-10.
73 Per es. nella Secchia rapita del Tassoni (X, st. 6) nei Ragguagli del Boccalini
CHI, ragg. 82), nel Viaggio di Parnaso di G. Cesare Cortese (Venezia 1621, V, pp. 21-
29), nelle Rivolte di Parnaso di S. Herrico (Venezia 1626, II, v), nella commedia II
Servo finto di G. C. Monti (Viterbo 1634), nelle Satire di Salvator Rosa di, w. 487-
495), ecc.
74 Per satireggiarlo, egli inventa una frase: «Chi non fa le piacimenta della
divina volontà, uopo è che vadia alle luogora dello scuro nabisso del Ninfemo»,
ecc.
414 Storia della lingua italiana
nobiltà, e col popolo... La terza finalmente è di quelle voci, le quali si
sono tanto avvilite nella domestichezza colla sola plebe degli huomini,
e de’ concetti, che contaminerebbon le penne, e i pensieri più signorili».
Una delle censure che più spesso lo Stigliarli rivolge al Marino,
conformemente ai principii retorici, è quella di aver adoperato «voci
basse»: per es. accattare, asticciuola, guercio, scarmigliato. Il Fioretti
(Nisieli) nel compilare il suo Rimario (Venezia 1044) si propose di
raccogliere solamente parole «confacenti allo stile sublime». Il Menzi-
ni, dopo aver adoperato, nel terzo libro dell’Arte poetica, la voce muso,
annota: «Parola bassa, e del volgo. Ma qui si serba il carattere delle
Poesie familiari, e facete», e dopo aver citato Dante e l’ Ariosto delle
Satire, aggiunge: «Ai poeti satirici le parole tolte di mezzo alla Plebe
vagliono altrettanto, che le nobili agh Eroici» (Opere, II, p. 208).
Ma, nella difficoltà di stabilire una volta per sempre le diverse
«schiere» di parole, i trattatisti (per fortuna!) si rimettevano al «gusto»,
al «giudicio» dei parlanti e degli scriventi.
Tornando al filo principale del nostro discorso, ricordiamo che
verso il 1680 Lionardo di Capua, medico e naturalista, antiaristotelico e
antimarinista, iniziava a Napoli ima scuola filotoscana e arcaizzante,
che fu chiamata dei «capuisti» ed ebbe fra i suoi seguaci il Vico 75 .
Si può dire, inso mma, che per tutto il secolo la Crusca sia stata la
pietra di paragone nelle numerose discussioni sulla norma linguistica.
Quanto al nome della lingua, benché le designazioni di «fiorentino»,
«toscano», «italiano» appaiano tutte e tre, la seconda è di gran lunga
predominante, adoperata qualche volta anche da chi non accetta la
disciplina della Crusca 78 . Primo, che io sappia, Loreto Mattei parla
della «nostra national favella» 77 .
10. Grammatici e lessicografi
Ci basterà accennare alle trattazioni grammaticali più importan-
ti: chi desideri maggiori particolari potrà ricorrere all’opera del Tra-
balza 78 .
fi Trattato della lingua di Giacomo Pergamini di Fossombrone u*
ed., Venezia 1013) ha una impostazione chiara e abbastanza adatta
all’insegnamento. Più ricco di interessi generali e di finezza nell’analisi
dei fenomeni grammaticali è il trattato Della lingua toscana di B.
Buonmattei (Firenze 1043; edizioni parziali erano state prima pubblica-
78 F. Nicolini, La giovinezza di G. B. Vico, Beai 1932, passim.
78 II bizzarro Lepòreo professa di adoperare vocaboli «Etruschi sì ma non già
Cruschi identici» (Raccolta di ingegnose, vaghe e varie composizioni, Roma 1698, p.
73).
77 Teorica del verso volgare, cit., p. 127.
78 Storia gramm., capitoli IX-XI. Si veda anche jl paragrafo dedicato agh studi
di lingua nel sec. XVII, nelle Ricerche letterarie di F. Foffano, Iivomo 1897, pp. 288-
312.
Il Seicento 415
te col titolo Delle cagioni della lingua italiana, Venezia 1023; Introduzio-
ne alla lingua italiana, Venezia 1826). Il Buonmattei non accetta la
riduzione delle parti del discorso a 7, come aveva fatto il p. Sanchez,
ma le porta a 12, considerando anche le interiezioni.
Importanti sono anche le Osservazioni della lingua italiana del p.
Marcantonio Mambelli detto il Cinonio, che trattano delle Particelle
(cioè l’articolo, il pronome, l’avverbio, la preposizione, la congiunzione,
l’interiezione) (Ferrara 1644) e del Verbo (Forlì 1685). Benedetto Menzini
discusse con finezza i rapporti fra grammatica e stile nel trattato Della
costruzione irregolare della lingua toscana (Firenze 1679).
Il Torto e il Diritto del Non si può pubblicato dal p. Daniello Bartoli
sotto il nome di Ferrante Longobardi (Roma 1655, con 150 osservazioni,
portate a 270 nell’ed. Roma 1668) si oppone alle censure troppo
sollecitamente pronunziate in nome dei principii della Crusca: non
vanno considerati come criterio esclusivo «le decisioni de’ grammatici,
non l’uso o sia del popolo o de’ più eletti, non le prerogative del tempo»,
ma «un buon gusto proveniente da un buon giudizio».
Una serie di Avvertimenti grammaticali per chi scrive in lingua
italiana furono pubblicati dal card. Sforza Pallavicino sotto il nome di
Francesco Rainaldi (Roma 1661).
Vanno anche ricordati alcuni trattateli! dedicati a singoli campi
della grammatica, specialmente a quelli di maggiore interesse pratico:
l’ortografia, l’interpunzione, la pronunzia 78 .
Le numerose edizioni che si fecero di parecchi di questi scritti
mostrano quant’era vivo l’interesse per la lingua e quant’era sentito il
bisogno di aver delle regole.
Più volte ristampato, anche dopo la pubblicazione del Vocabolario
della Crusca, fu il Memoriale della lingua volgare di G. Pergamini
(Venezia 1601), con discreti spogli d’autori, e notazioni come «nob.»,
«pop.», «di verso», «di prosa». Della Crusca abbiamo già detto, e anche
del Dittionario toscano del Politi 80 .
A. Monosini, nei farraginosi Floris Linguae Italicae libri IX, Venezia
1604, dà una larga raccolta di proverbi e modi di dire.
70 Lo scritto del p. Bartoli, Dell'ortografia italiana (Roma 1670) è eclettico come
Il Torto e il Diritto. La Prosodia italiana del p. Placido Spadafora (Palermo 1682,
più volte ristampata) dà un lessico delle parole di accento dubbio, e regole di
pronunzia. G. M. Ambrogi nel dialogo Lucidoro (Roma 1634; poi B. Ambrogi,
Chiave della toscana pronunzia, Firenze 1674) e L. Mattei, Teorica del verso volgare
e prattica di retta pronunzia, cit., danno regole per la pronunzia delle parole con
le vocali e ed o. (Insieme con osservazioni ragionevoli, troviamo nel Mattei
freddure come questa: «E così tetto, chi può indovinare perché vada proferito
chiuso? forse chi fù il primo a proferirlo, temeva non gli piovesse dentro la casa,
se il tetto non era ben chiuso»: op. cit., p. 101).
80 Scarsa diffusione ebbe invece il repertorio «delle men note, e più importan-
ti voci», opera postuma del p. Pio Rossi, pubblicata sotto il titolo di Osservazioni
sopra la lingua volgare perché conteneva anche due trattatelli grammaticali
(Piacenza 1677).
416
Storia della lingua italiana
Il Seicento
417
Sono andati perduti i materiali che G. B. Doni aveva raccolti per un
grande Onomastico, i cui venti libri dovevano comprendere tutti i
vocaboli delle scienze, delle arti, degli usi domestici”. Ci rimane,
invece, un importante dizionario speciale, il Vocabolario toscano
dell’arte del disegno del Baldinucci, Firenze 1681.
Cominciano anche ad apparire i primi vocabolari etimologici. Carlo
Dati aveva iniziato, in collaborazione con altri accademici della
Crusca, un Etimologico toscano, ma Egidio Menagio (Gilles Ménage)
prevenne i colleghi fiorentini con le sue Origini della lingua italiana
(Parigi 1669; II* ed., Ginevra 1685) 82 . Vi sono parecchie etimologie
assurde; ma molte sono giuste: dalla erudizione si sta lentamente
enucleando la filologia 83 .
IL Rapporti con altre lingue
La lingua straniera di gran lunga più nota in Italia nella prima
metà del secolo era quella dei dominatori, la spagnola, e sappiamo di
autori italiani che scrissero in spagnolo (per es. Pier Salvetti), di
compagnie teatrali che recitavano a Napoli in spagnolo, ecc .® 4 H
francese dapprima era poco noto 86 : vediamo che solo man mano i
commediografi che mettono in scena il personaggio di Claudio o
Claudione o Raguetto o Raguetta, che rappresenta il francese , 88 si
fidano a fargli adoperare parole di quella lingua 87 .
81 I. B. Doni, Lyra Barberina, Firenze 1763, I, pp. 184-185.
82 J. Zehnder, Les « Origini della lingua italiana » de Gilles Ménage, Parigi 1939;
F. Branciforti, «Carlo Dati... e i suoi appunti di Origini », in Siculorum Gymnasium,
n.s. Ili, pp. 126-143.
83 Di gran lunga inferiori le Origines linguae Italicae di O. Ferrari, Padova
1676.
M In Sardegna la vita culturale si svolgeva quasi esclusivamente in spagnolo:
sintomatico il fatto che i drammi sacri scritti in campidanese dal cappuccino
Antonio Maria di Esterzili avessero le didascalie in spagnolo (cfr. R. M. Urciolo,
nella sua edizione della Comedia de la Passion, Cagliari 1959).
85 La lettera scherzosa a don Lorenzo Scoto con cui il Marino esprime la
meraviglia su quel che ha visto arrivando a Parigi (1615), fa vedere che il suo
interlocutore conosce poco o nulla il francese-. «Infino il parlar è pieno di
stravaganze. L’oro s’appella argento, n far colazione di dice digiunare. Le città
son dette ville. I medici, medicini. I vescovi, vecchi. Le puttane, garze. I ruffiani,
maccheroni, n brodo, un buglione-, come se fussero della schiatta di Goffredo...»
(Epistolario, ed. Borzelli-Nicolini, I, p. 201). Carlo Umberto di Savoia (1626)
ricevendo una comunicazione di un ufficiale in francese, rispondeva di non saper
scrivere in quella lingua (Calcaterra, Il nostro imminente risorgimento, Torino
1936, p. 486). Il p. Segneri, in una lettera a Cosimo III, diceva di non conoscere il
francese (Viani, Diz. di pretesi francesismi, I, p. xlv).
88 Croce, Nuovi saggi sulla lett. it. del Seicento, 2 a ed., pp. 217-224.
87 V. Verucci, nella commedia Li diversi linguaggi (1609), ricorre quasi soltanto
alla storpiatura delle parole italiane per mezzo di una e finale; F. Richelli, nella
Serva astuta (1632) fa dire per es. a Monsù delle Scarpette: «Che diable è possibile,
che non le posse tener dantre la masone queste pultrone».
Più tardi il fulgore del Re Sole si riverbera in prestigio culturale e
conoscenza della lingua. Salvatore Rosa chiude una lettera a un amico
(1654) con la formula «con queste e con molte altre belle sciose» (ed. De
Rinaldi, p. 70); il Redi nel Bacco in Toscana fa che Bacco, lodato il
«Regio Senato» della Crusca, dica al segretario Segni di scriverne gli
atti «e spediscane courier - A monsieur l’abbé Regnier », e che continui
dicendo della malvasia: «È buona per mia fé - e molto a gré mi va». I
segni di una larga divulgazione del francese non mancano: e il Menzini
nelle Satire se ne lagna.
Vedremo più oltre (§ 19) un saggio delle serie piuttosto numerose di
spagnolismi e di francesismi penetrati allora in Italia.
Quanto alla conoscenza dell’italiano fuori d’Italia, essa è ancora
notevole. Molti stranieri vengono a studiare nelle università più
famose della penisola, e v’imparano l’italiano 88 . Per la corrispondenza
scientifica i dotti stranieri adoperano più spesso il latino, ma talvolta
anche 1’italiano 89 .
Nella Francia di Luigi XIII e Luigi XTV vi sono molti che conoscono
bene l'italiano e apprezzano le commedie recitate dai nostri attori e le
opere di maestri italiani (si ricordi come il Lulli s’ambienta a Parigi). Il
Baldinucci nella biografia del Lippi 90 narra che quando Lorenzo
Panciatichi andò a ossequiare Luigi XIV, questi «lo ricevè con queste
formali parole: “ Signore Abate, io stavo leggendo il vostro grazioso
Malmantile" ». Conoscevano egregiamente l’italiano il Ménage, lo Cha-
pelain", il Régnier 92 ; e così pure alcune gentildonne 93 .
Fiero avversario della nostra lingua fu invecé il p. Bouhours (autore
degli Entretiens d' Ariste et d'Eugène, Parigi 1671 e della Manière de bien
penser sur les ouvrages de l’ esprit, Parigi 1687), il quale trovava l’italiano
sdolcinato con tutti i suoi diminutivi (cfr. p. 437 n. 163): «si l’Espagnol est
propre a représenter le caractère des matamores, l’Italien semble fait
pour exprimer celui des charlatans».
A. Oudin e il ginevrino N. Duez avevano compilato discreti vocabo-
lari (Parigi 1639-40; Leida 1641); e i dotti padri di Port-Royal, Lancelot e
88 V. quello che dicono per Siena il Bargagli (Turammo, p. 68) e il Politi
( Lettere , p. 397).
88 M. Welser (di Augusta, già scolaro a Padova) scriveva in italiano non solo a
Galileo, ma anche ad altri dotti tedeschi residenti in Roma, come il p. Clavio e
Giovanni Faber.
90 Notizie de’ professori di disegno, t. XVIII, Firenze 1773, p. 14.
91 Fu sottoposta alla Crusca la disputa fra i due sull’interpretazione del verso
del Petrarca «Forse (o che spero) il mio parlar le duole»; e fu decisa (nel 1654) a
favore del secondò.
“ Il Régnier, secondo il Panciatichi, parlava «troppo bene» la lingua toscana,
con complimenti alla boccaccevole e frasi del Petrarca stemperate in prosa
Getterà al Magalotti, 2 gennaio 1671, p. 266 Guasti).
83 Lo stesso Panciatichi dice che la duchessa di Vitry parlò con lui «nella
nostra lingua meglio di quello che scrive in essa il Prior Rucellai» Qett. 24 ottobre
1670, p. 260).
418
Storia della lingua italiana
Amauld, redassero una Nouvelle Méthode pour apprendre facilement et
en peu de temps la langue itaiienne (Parigi 1660).
Nei paesi di lingua tedesca la conoscenza dell’italiano era relativa-
mente abbastanza diffusa nel ceto più elevato. Abbiamo già ricordato
Marco Welser, di cui il Guarini diceva «che le sue lettere gli paiono
dettate da huomo nato, & allevato in Firenze» 84 . A Vienna, scriveva il
Magalotti nel 1675, «non c’è chi abbia viso e panni da galantuomo, che
non parli correntemente e perfettamente l’italiano». L’imperatore
Ferdinando III lodava Antonio Abati, autore delle Frascherie, «con un
madrigale acrostico, il cui italiano tien qualche cosa d’imperiale sapor
tedesco» 95 ; e suo figlio, l’arciduca Leopoldo, fondava un’Accademia
italiana 89 .
L’italiano si studiava con manuali di conversazione, grammatiche,
vocabolari, in latino o in tedesco”.
In Inghilterra, l’interesse per le cose italiane accesosi nel Rinasci-
mento è tuttora vivo 98 . Si può ricordare che Shakespeare adoperava i
manuali e i vocabolari di Giovanni Fiorio, e che Milton compose alcuni
sonetti in italiano. Un diplomatico inglese, che aveva soggiornato -
qualche tempo a Zurigo, dopo tornato in Inghilterra tenne (nel 1649 e
anni seguenti) con il capo della chiesa di Zurigo un carteggio italiano 89 .
Il vocabolario del Fiorio, pubblicato la prima volta nel 1598, apparve
di nuovo ampliato dall’autore nel 16U, e rimaneggiato da G. Torriano,
nel 1659 e nel 1687-88 100 .
12. I fatti grammaticali e lessicali
Le accanite discussioni sulla norma grammaticale ci mostrano che
si è ben lontani da un uso compatto o almeno relativamente uniforme
della lingua.
Il Torto e il Diritto del Non si può del p. Bartoli, che appunto si
sofferma a discutere dei problemi grammaticali più controversi, dà
un’idea delle oscillazioni nell’uso; anzi dobbiamo ritenere che fossero
anche più ampie nell’uso effettivo, se teniamo conto di ombreggiature
dialettali che un grammatico poteva ritenersi dispensato dal registra-
re, come manifestamente erronee.
84 Pascetti, Risposta all'Anticrusca, p. 16.
96 Carducci, Opere, VI, p. 247.
98 De Gubematis, in Atti Acc. Crusca, 1905-06, pp. 35-37, Santoli, in Problemi e
orientamenti, IV, p. 233.
87 V. la serie d’articoli di L. Emery, «Vecchi manuali italo-tedeschi» in Lingua
nostra, VIII-IX-X.
98 Informazioni, specialmente sui testi per l’apprendimento della lingua, dà R.
C. Simonini jr„ Italian Scholarship in Renaissance England, Chapel Hill 1952.
99 Calgari, in Lingua nostra, XVI, 1955, pp. 69-73.
100 Simonini, op. cit., pp. 55-68 e 74-80, A. L Messeri, in Lingua nostra, XVII,
1956, pp. 108-111.
Il Seicento
419
Anche nel lessico troviamo varianti in numero fissai notevole: e la
Crusca, anziché spingere a sopprimerle, con i suoi larghi spogli da
scrittori antichi contribuì piuttosto ad aumentarle.
, v,?* osc ^ a ancora fra dopo, dopò e doppo, si discute se truppa si
debba scrivere o no con due p; accanto alla forma toscana crogiuolo v’è
chi scrive crocciuolo (Marino) o cruciolo (Vannozzi). Prencipe si legge
frequentemente accanto a principe. C’è chi scrive butirro (Buonarroti),
chi butiro (Redi), chi biturro (Tassoni). I Senesi preferiscono ancora
fadiga a fatica, a Roma si scrive spesso abbrugiare, defonto, lograre
® così Y 18 " n tipografo romano che stava per stampare il trattato
di Galileo sulle Macchie solari aveva composto intiero-, il Galilei vuole
che stampi intero (Opere, V, p. 18).
Talvolta l’una variante è caratterizzata rispetto all’altra con nota-
zioni ambientali: forma plebea, voce poetica, ecc. Specialmente ampia
è la sene di forme e di vocaboli qualificati come «poetici»; usciti
dall uso parlato, hanno esempi nel Petrarca, nel Tasso, ecc., e sono
perciò tuttora ammissibili nel verso 101 .
Chi desideri studiare nei particolari questi fenomeni non può
dispensarsi dal ricorrere direttamente ai manoscritti e ai testi a
stampa, perché le grammatiche e i vocabolari contemporanei sono
tutti, più o meno, redatti con intenzioni normative, e quindi presentano
un tipo di lingua molto meno variegato di quanto fosse in realtà; e gli
spogli moderni, per la scarsa considerazione in cui è stata tenuta la
fiorentini^ barocca ’ com P ren dono ben poco di più che gli scrittori
13. Grafia
I casi più importanti di oscillazione nella grafia secentesca sono
quattro: in tre fl uso della h, 1 uso di fi o zi, la s scempia o doppia da ex-)
vediamo la resistenza fatta alla periferia cedere man mano alla grafia
della Crusca; nel quarto Qa distinzione tra u vocale e v consonante) il
suggerimento trissiniaho è accolto da qualcuno qua e là, e trionfa solo
dopo che si è generalizzato presso gli stampatori d’oltralpe.
La h etimologica nella prima e nella seconda edizione del Vocabola-
rio della Crusca figura solamente in ho, hai, ha, huomo e derivati; per
nuopo, huosa, huovo, huovolo si rimanda alle voci senza h. Nella terza
edizione persistono solamente ho, hai, ha, hanno, mentre per huomo e
derivati non c’è che un rinvio a uomo.
.. I T7 ? ra ““ natici ® gM stampatori toscani seguono per lo più la Crusca,
e il Fioretti dice d essere stato per ciò «lacerato da molti Aristarchi». Il
Magalotti vorrebbe andare anche più in là: egli è fautore di ò, ò in
luogo di ho, ha, che a loro favore non hanno altro motivo che la
- -J 01 es ;. il Marino ha ancora havièno «avevano» (e M. Zito, La bilancia
critica, Napoli 1685, pp. 30-33, difende il Tasso che ha usato uscienó).
420
Storia della lingua italiana
Il Seicento
421
4
consuetudine 102 . Anche il bolognese Lampugnani è «disdevoto dell’H»,
e il romano Pallavicino la conserva solo in tutta la coniugazione di
bavere e in huomo. Ma la difendono D. Franzoni, Domenico d’ Aquino;
non ne parla, ma continua a adoperarla il Bartoli. E in complesso, i
tipografi non toscani la preferiscono ancora 103 .
L’uso di h nei digrammi greci è quasi scomparso: ma il Marino
scrive ancora theatro, thesoro, christallo m ; e qualche volta salta fuori
qualche h inattesa 106 .
Anche per la z (in grazia, ecc.) l’esempio del Salviati e della Crusca è
accolto dai Toscani, e solo man mano da altri. Ricordiamo che con il
problema della sostituzione di ti con zi se ne intreccia un altro, quello
della scempia o della doppia: i conservatori in genere scrivono ti dove
in latino c’era ti, ma tti, dove c’era cti o pti ; gli innovatori si dividono in
due schiere: chi distingue zi da zzi, chi scrive come la Crusca sempre zi.
Nella polemica fra il Beni e il Pescetti, vediamo che il Beni
anticruscante scrive ti e tti (gratta , construttione ), il Pescetti sempre zi
(locuzione, dizionario ). Galileo fa stampare nel 1606 le Operazioni del
compasso-, ma nel rileggere ima sua lettera al Nozzolini dove l’ama-
nuense aveva scritto affetìone sovrappone zz-, e negli autografi trovia-
mo per lo più zz anche dove s’aspetterebbe z (confutazzioni, dimostraz-
zioni, ecc.).
Il De Luca accetta la grafia con z, ma distingue la z scempia
(alterazione) da quella doppia (erezzione, adozzione ): non sappiamo se
anche nella pronunzia.
I grammatici toscani e pochi altri stanno per la z: il Buonmattei
raccomanda la sola z (grazio), escludendo sia gratta che grazzia. Al
Lampugnani rimproverano la sua zettazione; invece il Franzoni difende
la grafia con fi, e il Bartoli, pur lasciando libera la scelta (conforme alla
linea consueta del suo Torto e diritto), parteggia per fi e vi si attiene nei
suoi scritti ( osservatione , ma scorrettioné). A favore della fi si pronunzia
anche il Menagio, che, rispondendo nel 1657 alle censure della Crusca
sulle sue osservazioni all’Aminfa, si difende allegando il Muzio 108 .
Quanto alla distinzione fra z scempia e z doppia tra vocali per
distinguere z sonora e z sorda (gaza , rozo di contro a asprezza, bellezza)
v’è ancora qualcuno che l’osserva (per es. il Marino; vi aveva rinunzia-
to la Crusca scrivendo, per es., azzimo, gazza, rozzo come asprezza,
bellezza, polizza, ecc. 107 . Non aveva alcuna probabilità di attecchire la
102 Lettera a O. Falconieri (1094), in Lettere fornii., cit., I., p. 88.
103 Non senza qualche abuso: per es. «a mense abho minan de e crude»
(Graziarli, Conquisto di Granata, c. XXII).
•« La Partenodoxa del Cittadini (Siena 1004) porta questa grafia nel frontispi-
zio, ma i titoli correnti hanno Parthenodoxa.
105 II Mattei, che nella Teorica del verso volgare pur scrive teorica, ortografia,
ditirambo, scrive poi etherogeneo ed etheroclito.
1<K > Mescolanze, Venezia 1730, p. 108.
107 L’Ottonelli nelle Annotazioni (che però nel titolo corrente sono sempre
chiamate Annotationi) difende la grafia poliza.
proposta dell’ignoto autore di una Neagrammalogia di ricorrere, come
aveva già fatto il Trissino, alla p 106 .
Nelle parole con es- o ess- iniziale da ex-, l’uso ha ancora qualche
oscillazione al principio del secolo: Galileo scrive nei due modi
essempio o esempio, ecc.; il Marino di regola essaltare, essangue,
essercizio, essule, ecc. La Crusca adopera nel Vocabolario soltanto es-, e
il Bartoli (Ortografia, c. IX, § 5) pur allegando numerosi esempi antichi
con ess-, si dice fautore della grafia e della pronunzia con es-, lo
Spadafora nella sua Prosodia 108 rinvia da essala, essarcato, essodo,
essotico a esala, esarcato, esodo, esotico (non così per essagono).
Quanto alla distinzione tra la u vocale e la v consonante, essa
s’impone assai tardi: nella prima metà del secolo la grafia quasi
costante è v (o V) all’iniziale, u all’interno di parola, sia con valore
vocalico che consonantico. Poi comincia ad apparire qualche sporadico
esempio di spartizione: per es. il p. Aprosio in un suo opuscolo (C.
Galistoni, Il Buratto, Venezia 1642) distingue modernamente u e v.
L’esempio viene principalmente dall’estero: parecchie edizioni italiane
degli Elzeviri (Il Nipotismo di Roma del Leti, Amsterdam 1667, Il Pastor
fido, 1678, Il Goffredo, 1678) distinguono la vocale dalla consonante 110 .
Mentre l’edizione del Quaresimale del Segneri di Venezia (1685)
segue il vecchio metodo, il Cristiano istruito di Firenze (1685) segue
quello nuovo 01 ; nel 1695 il Mattei 02 nota come ormai la distinzione «si
osservi nelle Stampe più corrette, nel modo anco che rigorosamente
l’osservano tutte le Stampe Oltramontane» 03 .
Nella terza edizione della Crusca, le u e le v sono distinte secondo
l’uso moderno nel testo, ma sono ancora considerate come un’unica
lettera nei lemmi in maiuscoletto e nell’ordine alfabetico (Avaro,
Avdace, Avello...) 04 .
La j serve principalmente come variante della i dopo un’altra i :
principalmente in fine di parola ( incendi j), ma anche all’interno (propri -
jssimo, pronuntijno). Guadagna terreno l’uso di considerare la j finale
come compendio di i + j, purché la i sia atona e il gruppo conti come
una sola sillaba: nell’Arte poetica del Menzini (ed. 1688) troviamo
incendi, precipizi, ma «ne’ Pierij campi» (di quattro sillabe).
106 V. la discussione del Mattei, Teorica del verso volgare, cit., pp. 223-240.
108 Lo Spadafora ci dà anche la curiosa testimonianza d’una pronunzia discit
per dixit «di certi vecchi, che talora si fa sentire, non senza riso, e scherno»: è
certo ima pronunzia siciliana dovuta al valore che anticamente si attribuiva alla
x in spagnolo.
110 Ma nel volume galileiano Discorsi e dimostrazioni matematiche, 1638, vi è
ancora nuoue scienze, centro di grauità.
111 G. Hartmann, in Rom. Forsch., XX, 1905, p. 213.
111 Teorica del verso, pp. 230-231.
1,3 Per la doppia v, troviamo qualche volta la grafia uv (per es. auviene,
auvilite, ecc., nello stesso libro del Mattei).
114 Anche il Bacco in Toscana del Redi (Firenze 1085) ha solo V nelle maiuscole,
mentre distingue u e v modernamente nell’interno delle parole.
422
Storia della lingua italiana
Si sostituisce sempre più frequentemente nella scrittura alla et
latina, rappresentata dal compendio &, l’una o 1 altra delle forme
italiane e o ed: ma c’è chi insiste per mantenere il segno latino .
L’accento è segnato molto di rado all interno delle parole: c è cm
indica così qualche parola inconsueta, adoperando di regoia 1 acuto
(per es. lucere, intrèpido, giue nel Mondo nuovo dello Stigliam, Roma
1628 Quadrupedi, malèdici. Decòro, asilo nella Vergine trionfante del
Tesàuro, Torino 1673, ecc.), ma qualche volta anche il grave ( ancóra ,
sèguito, metròpoli nel Turammo del Bargagli, Siena 1602).
Piuttosto abbondante è l’accentazione dei monosillabi, benché il
Buonmattei ne abbia rilevata l’inutilità, e la riservi esclusivamente a
distinguere i monosillabi omofoni (e - è, di - di, la - la, si -
Nell’interp unzi one, notiamo l’uso quasi costante della virgola da-
VaJ La tronfiezza secentesca trova espressione nell’abbondanza delle
maiuscole, invano combattuta nel Marino dallo Stigliami Esempi ad
apertura di libro; «Tanto corrotta è la Histona m questo Secolo, che
appresso a molti horamai di Arte Oberale, è divenuta Mecamca;
deposta la Tromba, suona dell’Arpa» (E. Tesarne > Apologia contro, la
esamina del dottor Capriata, Torino 1673, p. 1); «L Humana loquela è
proprietà sì naturale della Ragionevol Creatura, che meglio dell esser
Risibile distingue l’Huomo da’ bruti, che perciò muti ammali si dicono»
(L. Mattei, Teorica del verso volgare, cit., p. 87) U7 .
14. Suoni
Le varianti fonetiche che notiamo in alcune serie sono dovute in
parte a oscillazioni antiche non eliminate nella codificazione dell «alia-
no letterario, in parte all’affioramento di peculiarità locali, m parte al
vario modo tenuto nell’assimilare i latinismi.
L’esito fiorentino -er- da -or- nei futuri e condizionali è di gran lunga
predominante, anche nei non Toscani (piuttosto rare le forme come
soverchiarebbe, Salvator Rosa-, spiegarà, L. MatteiT. Piu frequenti sono
le eccezioni fuor del sistema verbale: per es. sonnarello, Manno-,
115 M A Severino, La querela dell'A accorciata, Napoli 1644.
in c Scrive di più Giardino colla prima maiuscola, e Nume, e Garzone, e
Vecchio, e Giovane, e sì fatti altri nomi appellativi, che deono ordinariamente
andar tutti con minuscola...» (Occhiale, p. 503).
117 E tutti ricordano il profluvio di maiuscole, nel passo attribuito alla
goffaggine ambiziosa deh’ anonimo secentista nell’Introduzione ai Promessi Sposi
manzoniani- imitazione molto felice, salvo forse un a meno, che mi pare un
francesismo entrato in Italia un po’ più tardi, quando il barocco spagnoleggiante
cede il campo al francesismo 6 primi esempi sono nel Magalotti).
118 II Gagliaro ammette una forma peccareste «benché sanese» per evitare il
susseguirsi di troppe e, lasciando prevalere il criterio retorico dell eufonia su
quello grammaticale (Trabalza, Storia gramm., p. 317).
Il Seicento
423
zàccare, S. Rosa; ballarina, G. L. Sempronio, ecc.; l’uso cancelleresco
romano ha Cancellarla, Dataria, ecc.
B dittongo no in posizione libera si mantiene bene a Firenze, mentre
a Roma si ha una spiccata tendenza a monottongare: nel glossarietto
pubblicato dal Baldelli 119 si oppone l’uso fiorentino di cuori, camiciuola,
lenzuola a quello romano di cori, camiciola, lenzola.
La regola del dittongo mobile è spesso male osservata, come si vede
dai molti esempi contrari 120 , e dal modo stesso con cui parlano i
difensori della regola (Pallavicmo, Mattei).
L’aferesi dell’i iniziale Uo 'avocare e sim.) è applicata dalla Crusca,
ma trova freddissima accoglienza 121 .
L’apocope nella sequenza del discorso è soggetta molto più al gusto
che alle regole: la libertà allora concessa non solo nel verso 122 ma
anche in prosa, era maggiore di quella che non si abbia ora-, «uomini da
bene e buon Cristiani» Qett. N. Lorini, 1615, in Galileo, Opere, XXIV b, p.
297), «que* buon Padri» Qett. Redi al p. Kircher), ecc.
L’apocope in fin di verso è propria della melica.
Nel consonantismo è forte l’oscillazione tra scempie e doppie; e il
caso più difficile è quello in cui l’uso fiorentino, vivo o codificato sui
classici, si scosta dall’uso latino, sia per aver scempiato sia per aver
rafforzato. I grammatici in questi casi sono tolleranti: «in alcune voci
(nota il p. S. Pallavicino, Avvertimenti gramm., p. 46) la pronunzia
fiorentina è diversa da quella del rimanente della Toscana e dell’Italia;
come in dire Abate, Ufizio, Roba, con le consonanti semplici: Immagine,
Innalzare, Owidio, con le raddoppiate. In questi e simili casi non sarà
degno di riprensione chi seguirà l’una o l’altra maniera». Lo stesso
Pallavicino adopera, per es., immitare, immitazione, scommunica.
Le lettere per cui si ha maggiore incertezza sono b e g palatale
(specie per la tendenza meridionale a proferirle rafforzate): greggia
(Herrico), palaggì, Pariggi, naufraggio (Rosa) e viceversa sogetto (Rosa),
esagerare, generalizzatosi di contro a esaggerare (cfr. pp. 428-429), ecc.
Ma si oscilla anche per altre consonanti: abbiamo zuffolo, e invece
pifero (Marino): c’è un sonetto della Murtoleide (xxxvi) in cui 0 Marino
parla di popponi, carciofi, carotte, tartuffi e spinacci -, tutte parole per
cui non esisteva, si può dire, ima tradizione letteraria.
Si discuteva sui casi in cui si dovesse rafforzare nelTunire un’encliti-
ca a una parola tronca: avendo lo Stigliarli adoperato votti «ti voglio»
(nel verso «Roldano, con mia man punir non votti*), la Crusca ebbe a
censurarlo, ed egli si difese abbastanza bene Qett. 1619, in Marino,
Epistolario, II, pp. 276-288).
119 Lingua nostra, XIII, 1952, p. 38.
130 Nel Malmantile del Lippì si ha per es. giuocando a, st. 42).
m II Politi nell’Introduzione al Dittionario trova l'invocare «maniera non
solamente più sicura, ma più naturale, e più ordinaria di questa lingua».
m Al Tasso fu rimproverato il troncamento di qualche plurale (« Espugnar di
Sion le nobil mura»): lo Zito, Bilancia critica, Napoli 1685, p. 9, lo difende.
424
Stona della lingua italiana
Il Seicento
425
wrrr-
Oscillazioni si hanno anche nel rafforzamento dopo prefissi: sopra-
naturale (Galileo), traffiggere (Marino), ecc.
I due esiti popolari toscani sti- per schi- e di- per ghi- figurano in
qualche parola messa in circolazione da scrittori toscani: oltre a mastio
già usato dal Celimi, che appare ora in significati tecnici, si ha per es.
mastio, stidione (Buonarroti il giov.>, diaccio, diacciare non destano
scrupoli, mentre diacere è sentito come solo popolaresco.
La prostesi vocalica davanti a s impura ( non istare, per isposaì è
bene osservata nell’uso popolare, mentre qualche volta si sgarra nella
scrittura.
Nei nomi poco frequenti l’accento non sempre è conforme alla
quantità latina: frammèa «framea» (Rosa), Pegàso (Marino, Herrico-, lo
Spadafora l’ammette come licenza), Archilòco, Gorgia (Rosa), Inarìme
(Marino), ecc. Accanto a dissenterìa, si sentiva a Firenze dissentèria
(Menzini-, cfr. Spadafora, s. v.).
15. Forme
Per l’articolo, davanti a z si usa di regola il, mentre al plurale
prevale gli. Si trovano esempi di li davanti a consonante, specialmente
fiiori di Toscana; ammette ancora la variante il Buonmattei, mentre Pio
Rossi la condanna recisamente. Insieme con la preposizione per i
grammatici più rigorosi richiedono l’articolo lo (per lo, plurale per li),
ma il Politi, il Bartoli, il Mambelli, il Menagio dichiarano ammissibile
anche per il.
Nella morfologia del nome, è sempre molto incerto il trattamento
dei nomi in -co e -go, che a parere del Buonmattei (tratt. Vili, c. xxrv)
«non si può ridurre a regola»: in molti casi l’uso è diverso da quello poi
prevalso: aprici, bifolci; fantastichi, reciprochi, stitichi, teologichi K3 ,
dialogi, ecc. Analoghe oscillazioni troviamo nei superlativi (cattolichis-
simo, laconichissimo, diabolichissimo F 4 .
I plurali in -ei da -elio (bambinei, ruscei ) sono ormai confinati all’uso
poetico, il quale ammette anche alcuni plurali in -a ormai non accetti in
prosa (le poma).
Nei numerali, due prevale decisamente (ma ancora si hanno esempi
di dua, non raro nel Galilei, di duo, di doi ).
Lui, lei, loro come soggetti sono frequenti nell’uso, ma quasi tutti i
grammatici li combattono: non solo il Buonmattei, ma anche il Bartoli
(Torto, c. xxxxii) 125 .
123 II Beni, Anticrusca, p. 117, biasimando il filosofichi del Boccaccio e
affermando che «ora si amerebbe filosofici » sembra accennare al prevalere di -ci
negli aggettivi dotti.
E anche in alcuni derivati, come cattolicismo (Panciatichi) o cattolichismo
(De Luca, Baldinuccì).
125 II Politi, nell’Apologià premessa al suo volgarizzamento di Tacito, avverte
che a Siena sono preferiti.
Lei ha preso ormai fisionomia a sé come trattamento allocutivo
staccato da Signoria Vostra (cfr. p. 39O) 120 . Ma sia Lei che Signorìa
Vostra stentano a penetrare nell’uso popolare 127 .
Cotesto stenta ad essere accolto fuori di Toscana, e spesso è inteso a
sproposito (Buonmattei, Della lingua toscana, tr. XI, cap. x; P. Rossi,
Osservazioni, p. 243).
Gli è adoperato spesso sia per «a lei» che per «a loro» («la natura-
mai non trascendente i termini delle leggi impostegli»; Galileo, lettera
alla grand. Cristina: Opere, V, p. 316; «alli padri Gesuiti... gli potrà dar la
copia della lettera»; Opere, V, p. 295), malgrado l’opposizione dei
grammatici (Buonmattei, ed anche Bartoli). La forma gnene per gliene
affiora anche in qualche scrittura non plebea («io gnene darò un tocco
martedì prossimo»: lettera di F. Redi, 5 genn. 1681-82). Troviamo ancora
qualche esempio dell’ordine accusativo + dativo nelle sequenze di
pronomi atoni («non si può dubitare, nè se gli può contradire»: Galileo,
Nuove scienze, in Opere, Vili, p. 130, e passim).
Abbiamo ancora qualche esempio di mia come plurale di mio («mia
affezionati padroni»: Galileo, lett. 19 nov. 1629; «E io cheto, e vo a fare i
fatti mia*-. P. Salvetti).
Nelle coppie avverbiali, si perde non di rado, secondo l’esempio
spagnolo, il primo dei due - mente : «favellando poetica, ed amatoria-
mente risponde il poeta a Laura...» (Tassoni), ecc.
Venendo a dare qualche cenno sulle peculiarità secentesche della
morfologia verbale, troviamo al presente indicativo della l a coniugazio-
ne che la desinenza in -e della 2 a pers. sussiste solo in poesia ( apprezze ,
ti vante ); la desinenza in -ono della 3 a plur. (trovono) è ancora viva, ma
biasimata dai grammatici. ~
Quanto alle forme in -isc- della 3 a coniugazione, se ne ha qualche
esempio anche nelle voci arizotoniche ( rapischiamo , Neri, al cong.); il
Buonmattei ammette senza -isc- soltanto la 2 tt persona plur. ind. nutrite,
ma vorrebbe evitare la prima pers. plur. dell’indicativo e la prima e
seconda persona plurale del congiuntivo di questi verbi, considerandoli
tutti difettivi: «non si dirà mai non solo ambischiamo nè colpischiamo,
ecc. ma nè anche ambiamo, nè colpiamo, nè ambiate, nè colpiate », e
suggerisce di: sostituirli con sinonimi (siamo ambiziosi e simili): «solo
finiamo par che alcuna volta si lasci sentire, almeno dalle bocche del
popolo, e in particolare in quell’affisso finianla, o finiamola...* (tratt.
XII, cap. xxxxii).
126 Se ne lagna il Vannozzi, Suppellettile degli Avvertimenti politici, ecc., Ili,
Bologna 1613 , pp. 300-301: «Usano alcuni parlare in terza persona con quelle
persone, alle quali non voglion dare, ò dell’Illustrissimo, ò dell’Eccellenza, e pare
ad essi, che ciò sia un gran rimedio, e molto acconcio, per sbrigarsi d’un grande
intrigo-, ma io non l’hò mai tenuto, ne per bello ne per buon rimedio».
127 La Tancia (II, se. 5) mette in caricatura una curiosa giustapposizione di
Signorìa Vostra al voi contadinesco. Cecco comincia impacciatamente un discor-
so: «Se voi voleste la signoria vostra...».
426
Storia della lingua italiana
Il Seicento
427
W'-
Notiamo anche, alla l a persona plur. Gtnd. e cong.l, le forme
tenghiamo, venghiamo, ponghiamo, salghiamo, esclusive o di gran
lunga prevalenti
All’imperfetto, la forma in -a per la l a persona è di regola nello stile
più solenne; altrove accanto ad essa si trova frequentemente, specie
negli scrittori toscani, la forma in -o (per es. nel Saggiatore del Galilei si
ha solevo, dicevo, ma aveva). Tra i grammatici, il Buonmattei ammette
le due forme, mentre il p. Bartoli, di solito tollerante, considera
arbitraria la -o. Il tipo avea è ammissibile non solo nel verso ma anche
in prosa. Alla 2 a persona plurale, è frequente il tipo eri, meritavi,
desideravi (Galilei); ma il Buonmattei lo giudica «volgare».
Al futuro, accanto alle forme in -ero per la la coniugazione appare
qualche esempio in -arò nei Senesi o nei non Toscani (cfr. p. 467); ma i
grammatici li rifiutano recisamente 128 . Qualche volta si ha la -rr- del
fiorentino parlato (tr everremo, Galilei). Avrò prevale su arò, che pure ha
qualche esempio (Galilei).
Nel passato remoto abbiamo un certo numero di forme forti in
luogo delle deboli o viceversa ( veddi , Galilei; creddi; volsi, ecc.), forme
ignote ai grammatici o da essi sconsigliate (il Bartoli sconsiglia anche
persi e raccomanda perdei ).
Alla l a persona plurale i settentrionali, e qualche volta anche i
meridionali, continuano a adoperare le desinenze in -assimo, -essimo,
-issimo applicate al tema debole ( vedessimo «vedemmo», S. Rosa), e
anche -imo applicato al tema forte ( discorsimo , S. Rosa). Alla 3 a persona
plur. le desinenze in -omo e -orono stanno sparendo ipensomo, si
fermoron, Galilei).
Al presente congiuntivo della 2 a e 3 a coniugazione, le desinenze in - i
per la 3 a sing. e -ino per la 3 a plurale sono ancora adoperate {possi,
debbi, vadino, eschino, intendine, Galilei; aggiunghino, Politi; ferischi-
no, N. Villani), ma i grammatici le condannano.
Non mancano formazioni anomale, diverse da quelle poi prevalse:
vadia «vada» (Galilei), vaglia «valga», togga (Galilei), sagga, sagghiate
«salga, saliate» (Magalotti), ecc.
All’imperfetto congiuntivo, oscilla specialmente la 2 a persona plur.:
se voi l’avesse, se voi mi dicesse (Galilei); dialettale è vorrei che mi
spiegassivo (S. Rosa).
Al condizionale, il tipo in -ia è frequente nèTverso: ma si trova usato
in prosa, anche familiare («mi bisogneria liberarmi di alcuni obblighi»:
lett. del Galilei, 18 giugno 1610; «per fame quel capitale che si dovrebbe,
si richiederia ...»: lett. del Panciatichi, agosto 1674). Come per il futuro,
abbiamo qualche -rr- fiorentina {crederrei, Galilei). Alla l a pers. plur.,
Il Buonmattei dichiara: «non si dice che amarò non sia voce toscana;
giacch’ella si usa da persone erudite, e da popoli numerosi della Toscana; ma
ch’ella non è di quella Lingua, della quale qui si ragiona», e ricorre alle norme
date dal Bembo e dall'Acarisio, i quali, come non toscani, non possono sembrare
parziali (Delia lingua tose., tratt. XII, cap. 37).
troviamo anche una forma con -ebb- nella desinenza llauderebbamo,
Galileo), oltre alle solite forme settentrionali in -aressimo, -eressimo,
-iressimo (considerate dal Bartoli «peccato mortale di lingua»),
16 . Costrutti
Ci limiteremo anche qui a pochi casi salienti.
L’accusativo con l’infinito è in regresso: il Beni, dopo aver citato
parecchi esempi boccacceschi, avverte che «tal maniera di ragionare,
come quella che hora vien’assai meno usata, non può non offender
l’orecchie» {Anticrusca, p. 37).
Sono frequenti i costrutti di in (senza articolo) con l’infinito (in
dipigner: Dati; «/n sentirvi lodar le nostre donne»; Rosa) e con il
gerundio («Siccome i fiumi in ricevendo i rivi»: Corsini; «in sentendole
leggere a me»: lett. del Redi).
In un secolo incline all’enfasi troviamo abbondanza di forme e
costrutti elativi. Abbiamo superlativi di sostantivi: padronissimo (Alle-
gri; Fagiuoli), elefantissimo (Galilei), «questa mia spadissima » (un
capitano smargiasso, in D. Cini, Desiderio e Speranza ), mulissima
(Marino), bricconissimo (Bellini); superlativi relativi e assoluti di aggetti-
vi che hanno già valore elativo: «le fortezze più principali » (Bentivo-
glio), « ottimissime sono state le tre mutazioni» (Redi), « arciscioperato -
naccissimo » (Redi); superlativi di locuzioni avverbiali: «Dante a propo-
sitissimo» (Fioretti). Entra ora nell’uso anche stessissimo, foggiato, a
quel che dichiara il Fioretti (introduzione al Polifemo briaco ) su modello
greco.
Tipico è il rafforzamento dell’aggettivo e del sostantivo per mezzo
della ripetizione della stessa parola munita di un affìsso elativo: «vera
arcinegghientissima negghienza» Qett. Redi 1656); «affetti casti, castis-
simi» (Magalotti, lett. al Redi 1679); «chiara, evidente, evidentissima,
arcievidentissima» (Redi, lett. al Magalotti, 1683); «è dovere arcidovere
consolarlo» (Redi, lett. ad A. Segni, 1680): «è ima frottola frottola
frottolissima» (Redi, lett. al Segneri, 1682); «ima scodella scodellissima
tonda» (Magalotti, lett. sui buccheri, 1695); «quell’acqua di fior d’aran-
ci... si è poi trovato che era di ginestra ginestrissima» (Magalotti,
Lettere scient., ed. 1721, p. 95), «un vero taglio taglissimo» (Bellini, Disc.,
XI)' 29 .
Altro tipo elativo frequentemente usato è quello di origine biblica
«re dei re»: troviamo nel Marino, oltre a «la reina de’ regi» (IV, st. 15) e
«reina... de le reine» (XI, st. 95), «il bel del bello in breve spazio accolto»
129 II Redi inventò l’esempio di luissimo , incluso per sua testimonianza nel
vocabolario della Crusca (« Si accorse esser lui luissimo»), attribuendolo a
Giordano da Rivalto, il quale aveva adoperato un curioso superlativo del
gerundio: «Andronne in ninferno ? Sì bene, ritto, ritto, correndissimo» (Volpi, Atti
Acc. Crusca, 1915-16, p. 49).
428
Storia della lingua italiana
Il Seicento
429
QII, st. 196); «quel piacer de’ piacer ch’ai mondo è solo» CVIII, st. 40), ecc.
E ricordiamo il titolo dell’opera del Basile, Lo Cunto de li cunti.
È probabile che sia giunto dalla Spagna, e che abbia attecchito
anzitutto nell’italiano settentrionale, il costrutto esclamativo formato
da che davanti all’aggettivo isolato: «Che bello!», costrutto ancor oggi
male accetto in Toscana. Lo troviamo, per es. neU’Orchi: «che beato
l’orecchio...» 130 .
17. Consistenza del lessico
Il lessico ereditario subisce parecchi mutamenti e riceve da varie
parti aggiunte numerose, per soddisfare alle varie esigenze del tempo:
di una società formalistica e dissimulatrice, di una letteratura enfatica
e cercatrice di novità, di una erudizione saccente, e anche dei mirabili
passi fatti dalle scienze sperimentali.
Dove più forte pulsa la vita di quell’età notiamo parole prima rare
che diventano consuete e talora prendono significati nuovi; parole di
nuovo conio; parole assunte da lingue classiche e straniere.
Effimera è, in complesso, l’influenza del concettismo, perché lo
sforzo s tilis tico che porta a impiegare una parola in un significato
nuovo e sorprendente è sentito come momentaneo; non si perde la
coscienza di un uso normale, stabile, al di sotto e al di là della brillante
sforzatura; e la continua ricerca di produr nuove meraviglie impedisce
a queste accezioni momentanee di prender salda consistenza.
In questo secolo dev’esser nato l’uso di foriero, foriere nel senso di
«chi, che precede e annunzia» («l’aprile - vago forier d’un odorato
maggio»: Achillini; «Fin che col terzo di l’Alba foriera - da l’onde uscì:
Ghelfucci, Rosario, XXV, 4) per metafora dai procacciatori di foraggi
che precedevano gli eserciti.
Dalle riflessioni e dalle polemiche sul modo di parlare e di scrivere
nascono numerosi significati o vocaboli nuovi: concetto passa dal
significato filosofico a quello di «argutezza», e sene traggono, oltre che
alterati come concettuzzo (Rosa) e concettino (Magalotti), i verbi
concettare (Pallavicino) e concettizzare (Tesauro). Brillante si applica a
chi sa ben concettizzare e alle sue capacità (persona «di spiriti vivaci e
brillanti »: Redi), mentre freddura prende il senso di «argutezza mal
riuscita» («le medesime voci, che col discreto uso paiono scintille, con
l’abuso saran freddure»; Tesauro, Cannocchiale, p. 170). È facile che imo
sia ritenuto manierato o ricercato o lambiccato 131 . Travestire per «paro-
diare» prende le mosse dall’ Eneide travestita del Lalli (1634). Esagerare 132
130 P. Giovanni da Locamo Saggio, cit, p. 111.
131 Lambiccare, porre in lambicco nasce ora, probabilmente per irradiazione
sinonimica dalla locuzione già antica distillarsi il cervello.
132 Secondo l’etimo latino ( exaggerare , da agger), si ha per lo più nel Seicento
esaggerare, ridotto in Toscana per falsa regressione a esagerare (questa è la grafia
data dalla Crusca fin dalla 3* edizione): cfr. p. 423.
era un termine di retorica che voleva dire «amplificare»: la parola ora
si adopera nelle più varie circostanze: TAchillini con l’intenzione di
«celebrare» l’altezza dell’Appennino intitola un sonetto «Altezza esag-
gerata del Monte Appennino»; di eserciti che hanno conseguita la
vittoria si dice che debbono «pubblicarla, esagerarla, proseguirla,
incalzar le reliquie dell’esercito battuto» (Montecuccoli); i -comici
dell’arte esagerano quando sfogano rumorosamente sulla scena i
propri sentimenti («Valerio mentre esagera lascia il figlio in disparte»...;
«Valerio dopo l’esagerazione dice al figlio Vien ecc.») 133 .
In questo secolo in cui si dà tanta importanza alle formalità
esteriori, si trasporta cerimoniale, dal precedente significato di «libro
che elenca le cerimonie prescritte», a «insieme di cerimonie» e
«sovrabbondanza di cerimonie»; si attinge allo spagnolo il termine di
etichetta' 3 *.
Penetrano nell’uso anche formalizzarsi e formalista. Omaggio non
ha ormai più che il senso estensivo di «manifestazione di ossequio».
L’aspirazione a sempre nuovi e sempre più alti titoli dà luogo a
numerosi interventi di autorità (per es., Urbano Vili nel 1630 dà il titolo
di Eminenza ai cardinali, ecc.); ma l’officiosità continuamente estende i
titoli oltre i limiti legittimi («è venuta a tal segno questa vanità, che s’è
cominciato a chiamare qualcuno Marchese per adulazione, e molti se lo
lasciano dare senza replicare niente»: così i ricordi di T. Rinuccini a
proposito di Firenze per gli anni intorno al 1670).
Nella vita religiosa si moltiplicano le missioni interne ed esterne e i
missionanti (poi missionari ). Ma è anche il secolo in cui l’antica piaga
del nepotismo risorge, e già la coniazione del nuovo nome suona
condanna. Lubrico, che secondo l’esempio latino significava solo
«sdrucciolevole», prende il nuovo significato di «impudico»; e si foggia
ima parola che serva come aggettivo accanto a peccato, cioè peccami-
noso. La meditazione sulla morte si fissa con insistenza sul punto ; il
Chiabrera dichiara nella sua autobiografia che non cessò di «pensare
al punto della sua vita», e il Bartoli considera L’Huomo al punto, cioè
l’huomo in punto di morte (Roma 1667). Gli uomini religiosi condanna-
no i libertini (nel doppio senso, intellettuale e morale); ma viceversa c’è
chi deride l’esagerata devozione coniando i nomi di bacchettone e ba-
ciapile.
Fra i termini d’arte ricordiamo la pittura di genere (cioè, originaria-
133 A. Bartoli, Scenari inediti della Commedia dell’arte, Firenze 1890, p. 38 e
passim.
134 II francese étiquette «cartellino», giunto alla corte spagnola per il tramite
della casa di Borgogna, aveva preso la forma di etiqueta e il significato di
«protocollo scritto in cui è fissato il cerimoniale di corte», e poi in genere di
«costume, stile». Il Magalotti narra come, giunto nel 1668 in Spagna, cominciò ad
adoperare lui stesso la parola; e così fecero altri in quegli anni, cosicché «quattro
giovanotti tornati di Spagna furono buoni, si può dire, a far la fortuna d’una
voce» ILett. scient., ed. 1721, pp. 238-239).
430
Storia della lingua italiana
Il Seicento
431
mente, quella che si limita a un solo genere di cose) 135 , la bambocciata,
pittura realistico-burlesca sul tipo di quelle del Bamboccio (P. van
Laer), e la caricatura, a cui probabilmente il nome fu dato da Annibaie
Carracci 138 .
Sui teatri trionfa l’opera, che era, propriamente, uno spettacolo
in cui cooperavano la recitazione, la musica e varie macchine sceni-
che 137 : per chi attende a queste macchine si conia il nome di macchi-
nista™.
Gli scenari della commedia dell’arte descrivono quello che gli attori
devono fare, compresi i lazzi. E alle vecchie maschere se ne aggiungo-
no di nuove, come Meneghino e Pulcinella.
Entrano in circolazione nuovi mezzi di trasporto: le portantine
(introdotte a Genova nel 1645) 139 , i calessi o sedie rullanti giunti dalla
Francia 140 . Le poltroncine vennero pure dalla Francia nel 1672, secondo
la testimonianza di T. Einuccini, ma ebbero nome italiano (propr.
«carrozze adatte per chi vuol essere trasportato con comodo», con
riabilitazione semantica del vocabolo poltrone ).
Non potremmo certo enumerare tutte le innovazioni della moda:
ma vanno anzitutto ricordati i termini di moda e di modante, e qualche
nome come marsina, pastrano (poi pastrano ), ciamberga, tutti e tre,
sembra, dai nomi dei personaggi che ne iniziarono l’uso.
Tra i colori, piace a un certo punto V amaranto 1 * 1 . La moda dei
profumi imperversa: di qui il nome dei bùccheri «recipienti di argilla
profumata»; quello di moscardino («pastiglia profumata di muschio»,
da cui «zerbinotto») e tutti quelli ben noti alla setta degli odoristi
(Magalott i).
Alcune bevande di cui si era avuto nel secolo precedente notizia
come di cose esotiche entrano ora nell’uso familiare, e se ne divulgano i
nomi: il cioccolato 1 * 2 , il caffè, il tè'* 3 .
L’uso del tabacco porta alTintroduzione della pipa.
Nelle operazioni militari si comincia a parlare di reggimenti, e di sin-
goli corpi ( fucilieri , granatieri)-, le partite sono invece «corpi irregolari».
135 Croce, Nuovi saggi, 2 a ed., pp. 336-337; Id., La Critica, XXVI, 1928, pp. 385-
390.
138 Lo afferma G. A. Mosini, nella prefazione a Diverse figure... disegnate... da
A. Carracci, Roma 1646.
137 Calcaterra, Poesia e canto, Bologna 1951, pp. 238-240.
138 La parola è usata, per es., nella Prefazione alla tragedia musicale Irene di
G. Frigimelica, Venezia 1695.
139 Bianchini, nota alle Satire del Soldani, Firenze 1751, p. 111.
140 Panciatichi, Scritti, p. lxxi e 177-178.
141 «‘Dichiaratela amaranto, e sarà alla moda’, disse pochi armi sono il
Connestabile al Principe di Belvedere, che non si risolveva a comprare una
carrozza di velluto rosino pel figliuolo sposo» (Magalotti, Lett. scient., ed. 1721, p.
109).
142 Migliorini, Lingua e cultura, pp. 245-251.
143 Dei due nomi dà e tè (che risalgono a due diversi dialetti cinesi) prevale
ora il secondo (anche per influenza francese).
La curiosità per i monumenti antichi e i luoghi celebri fa sorgere i
ciceroni 1 **.
Quanto alle singole discipline, in molte di esse le singole terminolo-
gie si precisano e si ampliano; e parecchi termini tendono a penetrare
nella lingua quotidiana.
L impiego sempre più frequènte dell’italiano a usi giuridici fa si che
gran parte della vasta terminologia dei vari rami del diritto riceva ora
una traduzione, che è per lo più un semplice adattamento: molti
termini giuridici hanno come prima testimonianza italiana quella
vasta compilazione che è II Dottor volgare del card. De Luca (1673).
Tuttavia la lingua letteraria non accoglie volentieri i termini
spiccatamente giuridici. Avendo il Politi adoperato nella sua traduzio-
ne di Tacito la voce patrocinio, un critico gli disse che era da lasciare
«a procuratori e agli avvocati», ed egli rispose: «Ha forse ragione di
non volere ammettere l’uso di questa voce Q’adopera anche il Malavol-
ta e il Guicciardini), perché come egli dice essendo voce di dottori non
conviene agli idioti» 145 . Carlo de’ Dottori fu rimproverato per aver usato
neU’Aròfodemo le voci curialesche competente e incompetente 148 Altret-
tanta era l’ostilità per i termini filosofici: lo avverte esplicitamente il
Pallavicino: «addomesticandosi i termini sopradetti nelle più scelte
scritture, potrebbono a poco a poco deporre quella viltà, la quale ora
nel concetto degli huomini, più che i termini d’ogn’arte meccanica,
hanno quelli della filosofia; per essere stati ricevuti meno che tutti gli
altri nella familiarità della dicitura elegante» 147 .
Nel diritto si trattava essenzialmente di attingere a un lessico già
saldamente concresciuto sulle fonti antiche e medievali. Invece nelle
scienze fisiche_e naturali, è tutto un fervore di novità: gli oggetti
dell osservazione, le spiegazioni che se ne danno, gli apparecchi
scientifici che si escogitano spingono a coniare nuovi nomi. E, malgra-
do^ lo sforzo compiuto dal Galilei e dalla sua scuola per dar vigore
all uso del volgare nel campo delle scienze, permane vivissima la
necessità di intensi scambi con gli scienziati che si occupano degli
stessi argomenti in altri paesi, e che continuano a servirsi del latino.
Per designare nuove nozioni e nuovi oggetti, Galileo preferisce
parole di stampo popolare: momento, candore, ancora, bilancètta,
pendolo, ecc. Questa preferenza, che già risulta chiara dagli esempi,“è
esplicitamente professata nel carteggio con Federico Cesi: quando i
144 Migliorini, Dal nome proprio, pp. 141-142.
145 Apologia, nell'edizione 1604 della sua versione di Tacito. La Crusca include
patrocinare ma non patrocinio nella prima ed. del Vocabolario (invece nella 3 a
appare anche patrocinio !, nel Dittìonario il Politi include patrocinare e patrocinio
con brevi spiegazioni. Gfr. p. 489.
148 N. Busetto, Carlo de’ Dottori, Città di Castello 1902 , p. 320.
147 Considerazioni sopra l’arte dello stile, p. 398. Cfr. quello che dice il Politi
contro anagogia e derivati: «Anagogia, anagogicamente e anagogico sono termini
teologici, e non di questa lingua» {Dittìonario, s. v.).
432
Storia della lingua italiana
prefo^enza'derCesi^per Celilp^» 0 ^ f^tósco^a^roperfTftì
certo r/oSott volere di.Gameo, Menu e *»—
"“SSSm S SSjrsJKS
Ut^rZ^PlsZere i due tip. <U apparecchio
SHsis:- w '-Si
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fslsas
B^.rs£S“S
designarla già esista J°' iat Ub d ®g U Agghiacciamenti, e il nome
i« Migliorini, Lingua e cultura, pp. 146-148.
'« Ronchi, in Lingua nostra, V, 1943, PP;. /. : ornoa Giove da lui detti stelle
SZ£J a S* £££* « ÓSK comincio . chiamarli satellite* (par metafora
a - p— « -
to “^“°^S°“cS. P lSS?.™ d »ie^ flsicha: s . 5- XXV. i«. pp. 30-37.
Il Seicento
433
saprei, che cosa me le dire. Un nome generale, che comprenda e
specifichi il tutto, non panni che in nostra lingua vi sia; ed il comporre
di voci greche una parola lunga un mezzo miglio, mi parrebbe una
pedanteria» Qett. 31 gennaio 1685-86, in Lettere, ed. 1779, I, p. 132).
Lo stesso Redi pubblica (sotto il nome di G. Cosimo Bonomo) le
Osservazioni intorno a’ pellicelli del corpo umano . sono quelli che nel
secolo seguente gli scienziati chiameranno piuttosto con il nome greco
di acari.
Nei consulti e nelle lettere del Redi troviamo spesso, come è ovvio,
le voci usate dai medici e dalle farmacopee del tempo; ma non senza
qualche protesta contro «i termini reconditi e misteriosi, che usa l’arte
medicinale» e contro i «suoi greci, e arabici, e barbari nomi da fare
spiritare i cani » ( Consulti , p. 41 dell’ed. Marmi), «con quelle Iere, con
quelle benedette lassative, con que’ Diacattoliconi, con quei Diafinico-
ni, Diatriontonpipereoni, ed altri nomi da fare spiritare i cani » (lett. 12
giugno 1688: I, p. 186, ed. 1779).
La lingua scritta non è disposta ad accogliere l’afflusso di vocaboli
di lingua parlata se non con molte cautele, e limitatamente ad alcuni
«generi». Piacevano i poemi eroicomici, piaceva a Firenze (ma non
altrettanto altrove) la letteratura ribobolaia (la Fiera del Buonarroti, il
Malmantile del Lippi). Molti vocaboli popolari furono accolti nel
Vocabolario della Crusca per questa via; per il fatto stesso d’esser
registrate, parole come ammazzasette, lestofante acquistavano maggio-
ri possibilità di entrare nell’uso letterario e poi nell’uso generale.
Ciò accadeva anche se molti si ribellavano all’egemonia fiorentina
sulla lingua, come abbiamo già visto. Del resto, se il Fioretti asseriva
che soltanto i Fiorentini avessero «dispensa ampliativa», il Magalotti
si rendeva ben conto di non poter adoperare senza spiegarlo un
vocabolo come sotto, e infatti aggiungeva tra parentesi (nei Saggi di
naturali esperienze, p. Ili) «così diciamo a Firenze della neve quando
ella fiocca, e avanti dell’agghiacciare». Quando Ottavio Falconieri (a
cui il Magalotti mandava a rivedere i fogli dei Saggi prima della
stampa) criticò come toscanismo affettato la voce asolare per «rigirare
intorno a un luogo frequentemente», il Magalotti la difese come parola
viva nell’uso toscano-, «Credo, che qualche parola non sarà intesa da’
non Toscani: ma se questo dovesse attendersi, servirebbe a poco il
nascere in Toscana, e apprender la più perfetta favella d’Italia, se in
occasione di scrivere si dovesse uno astenere dalle sue maggiori
bellezze, per farsi intendere a quelli che parlano una lingua inferiore».
Tuttavia il Magalotti non si rifiutava di venire a un compromesso:
«Sappiate però, che tutte quelle maniere nostre, che, senza scapito di
chiarezza a noi Toscani, posso levare, le levo» Getterà 5 agosto 1664: 1,
pp. 89-90 dell’ed. 1769). In un altro punto dei Saggi , si legge cenquaran-
zeesima: ma l’avevano voluto gli Accademici, renitente il Magalotti (ivi,
p. 92).
Alcune testimonianze, che contrappongono l’uso senese e quello
romano all’uso fiorentino, ci permettono di conoscere parecchie delle
434
Storia della lingua italiana
Il Seicento
435
differenze che davano nell’occhio. Per Siena abbiamo le notazioni del
Dittionario del Politi, del tipo delle seguenti:
camperello. Sen. campiello, dim. di campo.
camporeccio. Fior, per selvaggio.
grattugia. Sen. anco grattacacia.
malato. Fior, per ammalato.
marchio. Fior, per marco, contrassegno.
moscio. Sen. dicesi d’erbe, di frutto o d’altro, che s’appassisca, e si
faccia languido.
nullo. Fior, per niuno.
pimaccio. Sen. capezzale.
Nel giudicare di queste notazioni, si ricordi tuttavia che spesso
l’indicazione di «fiorentino» non si riferisce al fiorentino vivo, ma al
fiorentino trecentesco registrato dalla Crusca.
Più genuina, anche se più sommaria, è la raccoltina di un anonimo,
conservata a Roma nella Biblioteca Angelica, e pubblicata da I.
Baldelli 153 . Si tratta di notazioni tratte dalla vita quotidiana, che
prescindono in complesso dall’uso scritto e si riferiscono all’uso parlato
di Firenze e di Roma. Esse concernono per la maggior parte varianti
fonetiche: CF.) camiciuola - (R.) camiciola; cuori - cori-, lenzuola - lenzola-,
abate - abbate-, gabella - gabbella-, moscadello - moscatello ; cucchiaio -
cucchiaro-, guantaio - guantaro, ecc.; altrove si tratta di varianti
lessicali: beccaio - macellaro-, burro - butirro-, ciottoli - selci; galletto -
pollastro; giubba - giustacore-, grembiule - zinale-, guanciale - cuscino-,
legnatolo - fallegname-, magnano - chiavaro-, orìuolo - orologio; pesche -
perziche-, pesciaiuolo - pescivendolo-, pezzuola - fazzoletto; pizzicagnolo -
pizzicarolo-, popone - melone-, sarto - sartore ecc.
Si osserverà che in alcuni casi le due varianti ancora sussistono;
per lo più è prevalsa la forma fiorentina, più raramente quella romana.
L’incertezza della nomenclatura costringe qualche volta gli scritto-
ri, anche toscani, a tener conto delle sinonimie territoriali: «quel male
che a Firenze si chiama Vaiuolo e a Roma dicesi Morviglioni» scrive il
Redi in un consulto 155 .
Notizie e indizi vari ci permettono di renderci conto della provenien-
za di vocàboli e locuzioni oggi comunemente accettate. Dallo Stigliarli
sappiamo che alzarsi usato assolutamente per «levarsi di letto» è un
napoletanismo; dalla testimonianza del Redi (Voci aretine le dall’uso
del Malmantile (« folla di gente») sappiamo che folla voleva dire ancora
a. Firenze soltanto «calca, moltitudine», mentre ad Arezzo e a Roma
folla già voleva dire «calca di gente».
Varianti dialettali (non crudamente vernacole ma riportate a ima
veste fonetica italianeggiante) affiorano con particolare abbondanza
153 Lingua nostra, XIII, 1952, pp. 37-39
154 Sartore è osservato come del «parlar romano» anche nella Fiera del
Buonarroti, II, IV, se. 13.
155 Consulti, in Opere, t. VI, Firenze 1726, p. 6.
nei testi pratici Qettere, verbali, inventari, statuti): a Bologna abbiamo
per es. gli Statuti dell'Honoranda Compagnia de’ Gargiolari... (1667) 158 , a
Roma gli Statuti dell’antica e nobile arte de’ Ferrari (1690), ecc. Nelle
lettere di Vincenzo Gonzaga 157 si parla indifferentemente di césani 158 o
di cigni.
Salvator Rosa adopera parecchi dialettalismi nelle lettere, e qualcu-
no anche nelle Satire-, per es. lo spregiativo faldone nella lettera del 23
febbraio 1653 («Comedie non ne ho voluto sentir nessuna, attesoché
sono troppo faldone...», p. 105 Limentani) e nella Satira III, v. 236 «talun
che col permei trascorse - a dipinger falcioni e guitterie» 159 .
Anche il Marino è piuttosto largo nell’accogliere, non solo nella
corrispondenza ma anche nei versi, varianti fonetiche (librazzo, poe-
mazzo, Scaramuzza, seguso, trutta «trota») e voci regionali (alare
«anelare», letturino «leggio», ecc.). Eppure i teorici che ammettevano
nello «stile umile» (per es. nella satira) parole familiari, non le
consentivano nell’epica e nella lirica.
L’accoglimento di vocaboli regionali che non fossero già sanzionati
dall’uso letterari© è molto più scarso in questo secolo che nei secoli
precedenti. Ma se l’affiorare dei dialettalismi «di sostrato» è represso,
vi sono scrittori che si compiacciono di colorire l’espressione ricorren-
do a dialettalismi di altre regioni, come quando Salvator Rosa adopera
in una lettera il venetismo spegazzo «sgorbio» («semplice spegazzo del
pensiero», lettera del 1663, p. 130 Limentani) o il Magalotti ricorre in ima
cicalata al napoletanismo smaferare.
Una via per cui un certo numero di dialettalismi emergono e
tendono a diffondersi nell’uso è il divulgarsi della conoscenza di
peculiarità locali, fenomeni naturali, modi di vita, cibi, procedimenti
usati in dati luoghi. Il fiorentino A. Neri nel descrivere la tecnica della
lavorazione del vetro (L’Arte vetraria, Firenze 1612) si serve di alcuni
termini veneziani ( pùliga «bollicina», riàvolo «rastrello del vetraio»),
che si spiegano col prosperare dell’arte vetraria a Venezia. Quando
Geminiano Montanari descrive le isolette di canne che si staccano dal
fondo delle lagime e galleggiano alla superficie, le chiama 160 col nome
veneto di quore (cuora, femm., dal lat. coria). Il Boccone (Osservazioni
naturali, Bologna 1684, p. 368) conosce «la Sciara, o quella massa
ferruginea prodotta dalla materia ignivoma, che vomitò il Monte
Etna». Il Magalotti (Lettere , I, p. 9) parla della « Zolfatara di Pozzuoli». E
così via.
158 È il bolognese garzul&r «canapaio».
157 Nell’ed. Laterza dei Ragguagli di Parnaso del Boccalini, pp. 348 e 352-354.
168 Cfr. le forme dialettali citate nel REW, n. 2435, s. v. eyenos, cycinus.
15B Sulle voci napoletane di S. Rosa abbiamo un articoletto di E. Rocco, nel
periodico Giambattista Basile, VII, pp. 75-76. Il Baldinucci (Notizie dei professori...,
XIX, p. 7l parla degli «spassosi trattenimenti» di Salvator Rosa, e inclino a vederci
un napoletanismo introdotto dal Rosa stesso fra gli amici fiorentini.
160 II Mare Adriatico, in Raccolta di autori italiani che trattano del moto
dell'acqua, IV, Bologna 1822, p. 467.
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Stona della lingua italiana
Il Seicento
437
«rr-r
Quanto ai vocabolari, se quello della Crusca professa di registrare
solo voci di buona fiorentinità, quelli compilati a scopi pratici abbonda-
no, sia nei lemmi sia nelle spiegazioni, di termini non toscani: G. Vittori
(Victor) nel Tesoro de las tres lenguas [francese, italiana e spagnola!
Ginevra 1609, per tradurre voci francesi o spagnole adopera parole
come fioppa «pioppo», lasina «ascella», regabio «rigogolo», e così altri
compilatori forestieri di vocabolari poliglotti. Anche il p. Spadafora, nel
registrare nella sua Prosodia Italiana voci il cui accento può lasciar
dubbi, abbonda nell’accogliere lemmi dialettali: bonìgolo, cótica, gran-
cévola, mammana, pirone, ràgano, ecc., talvolta aggiungendo che si
tratta di voci «lombarde» o dicendo da che scrittore le attinge.
Quanto agli arcaismi, bisogna distinguere tra quelle numerose
parole che, scomparse da tempo dalla lingua parlata, costituivano
invece parte integrale della lingua poetica; e l’esumazione di voci del
Duecento o del Trecento. Mentre l’uso delle voci della prima serie non
destava scrupoli nei poeti, solo pochi scrittori (e in verso piuttosto che
in prosa) ardiscono ricorrere a voci veramente arcaiche. Qualcuno vi è
indotto (iall’ammirazione per quei secoli e quegli scrittori a cui la
Crusca dava la palma: come quando il Dati scrive [Dell’ obbligo di ben
parlare ) «le diffalte della plebe ignorante»; qualche altro per virtuosi-
smo linguistico o opportunità di rima: anche il Marino nell’Adone
adopera feruta, mate male, visaggio (e anche, per erronea reminiscenza,
ammiraglio nel senso di «specchio», Vili, st. 29). Ma quando il Fioretti
adopera nel suo ditirambo Poiifemo briaco voci come approccia,
allegranza, foraggio (e non manca di segnalarlo, nel «Documento» che
illustra il Poiifemo, Proginn., Ili, lo fa principalmente per la loro
stranezza.
Il Lepòreo, pur professando in un sonetto di cercare «parole nuove»,
di fatto si attiene piuttosto a voci antiche ravvivate:
Vo a caccia, e in traccia di parole, e pescole,
dal Rio del Cupo Oblio le purgo, e inciscole
da ferrugine e rugine rinfrescole
e da la muffa, e ruffa antica spriscole ... 161
I più sono contrari agli arcaismi: il Tassoni (Pens. diversi, IX, quisito
15) dichiara che vanno usati estremamente di rado, e nella Secchia (X,
st.7) mette in burla il conte di Culagna che esalta così la sua donna:
- O, diceva, bellor dell’universo
ben meritata ho vostra beninanza.
Gli stessi cruscanti trovano che molte voci boccaccesche sono
ormai morte: O. Rucellai dice (Lettere, pp. 5-6 Moreni) che nei propri
scritti filosofici non si troveranno «molte affettazioni toscane alla
foggia del Boccaccio», «nè cliente, nè neghienza, nè tracotanza o
somiglianti».
Il desiderio di nobilitare il linguaggio, oltre che con parole illustri
e sonore, con parole antiquate, tentava anche i non letterati: Panfi-
lo Persico (Del Segretario, Venezia 1620, p. 88) ammette che > voci
«dal co mmun uso del parlare... intermesse, ritornino quasi dall anti-
chità a fargli grafia, ornamento, quali sariano malore, retaggio, arroge,
trapelare ».
In complesso, l’enorme maggioranza dei vocaboli ricordati come
arcaici rimasero tali: ina qualcuno riuscì a riprender vigore, come
malore o tracotanza o trapelare.
La formazione di vocaboli nuovi, specie come vezzo stilistico, è m
questo secolo assai abbondante, anche se quelli che attecchiranno non
siano particolarmente numerosi.
Si ha qualche voce onomatopeica, come cicisbeo. Si hanno sposta-
menti di categoria semantica, come pendolo agg. preso da Galileo
come sostantivo 162 , formazioni immediate (senza suffisso) di sostantivi
(il gonfia, una deroga ), di aggettivi (concia frangipana , tela sangalla ), di
verbi (romanzare, velocitare; accipitrare, cespugliare, mongibellare: Te-
sauro). . .
La formazione dei femminili si estende a nuovi nomi, anche di
animali (augello, corsiero. Marino e di cose (vocesso, spreg., Tassoni).
Frequentissimi gli alterati, che ben si adattavano a trasformare le
parole pur mantenendo i legami con la tradizione-, si pensi a un triplice
alterato come lo scrupolettucciaccio del Redi 183 .
Nella formazione suffissale di nuovi sostantivi, si hanno numerosi
nomi di agente (missionante ; fuciliere, ecc.) fra cui molte formazioni in
-ista (Ariostista, Fioretti; bombista; caffeista. Redi; casista; fattista, De
Luca; galenista. Redi; galileista; marinista, Stigliarli; o dorista, Magalot-
ti; quietista, e innum erevoli altri). Per gli astratti, se ne hanno parecchi
in -ismo (eroismo, nepotismo, quietismo, ecc.), in -aggine (sanesaggine,
Bargagli), in -eria (franceseria , romanzeria, Tassoni).
Anche per gli aggettivi, accanto alle molte formazioni di carattere
intellettuale (calamitico, Galileo; geografico, Galileo-, o Igebraico; cicloide
agg. e sost.; ecc.) ne abbiamo innumerevoli di carattere affettivo
162 Lingua e cultura, pp. 146-147 (per un riscontro con alcuni usi popolari
toscani della parola, v. Lingua nostra, VII, 1946, p. 19).
163 Nelle note al Bacco in Toscana, il Redi, a proposito dei versi «O di quel che
vermigliuzzo - brillantuzzo - fa superbo l’Aretino» avverte: «Un gentilissimo e
pulitissimo Scrittore esalta la moderna lingua Franzese, perché non ammette i
Diminutivi; biasima l’antica, perché gli costumava-, non loda la Italiana, perché
ne ha dovizia. Io per me sarei di contrario avviso, e crederei, che i Diminutivi
fossero da annoverarsi tra le ricchezze delle lingue, e particolarmente, se con
finezza di giudizio, e a luogo, e tempo sieno posti in uso. La Lingua Italiana si
serve non solamente de’ Diminutivi; ma usa altresì i diminutivi de i diminutivi, e
fino in terza, e quarta generazione» (p. 53 dell’ed. Firenze 1685).
181 Raccolta, cit., p. 24.
438 Storia della lingua italiana
Il Seicento 439
( moscareccio , Lalli, metaforuto, di cui lo Stigliarli attribuisce la forma-
zione al Marino, ecc.l.
Tra le formazioni prefissali, abbondano per la tendenza all’iperbole
gli arci- ( arcasino , Vannozzi; arcimusa, ironico, Stigliarli; « arcirtasarca
di tutti i nasi», Marino; arcifreddissimo, arcilunghissimo. Redi), gli
altra-, i sovra- fio Stigliarli biasimava oltrabello, oltramortale, sovramor-
tale usati dal Marino; abbondano gli ariti- (A. Guarirli, Anticupido,
Ferrara 1610; P. Beni, Anticrusca, Padova 1612) e i vice- (Vicefebo-, il papa è
chiamato Vicedio nella canzone del Testi a Innocenzo X, mentre il
Bartoli chiama Vicedio Mosè). Sono, anche numerose le formazioni
negative con dis- e in- ( disartifizio , Fioretti; disamabile, Chiabrera;
disappassionato, Redi; impassibile, inconspicuo, indispensabile, infran-
gibile, usato da Galileo nei Massimi sistemi, e sentito come nuovo
da G. Paganino, secondo egli dichiarava in una lettera del 1633 al
Buonmattei).
Tra i nuovi verbi formati con suffissi, se ne hanno alcuni in -izzare,
{concettizzare, famigliarizzarsi, fraternizzare ) 184 e innumerevoli in -eggia-
re : qualcuno nato per opportunità terminologiche {anticheggiare. Fioret-
ti; fraseggiare, Menzini; ritmeggiare, G. B. Doni), molti foggiati occasio-
nalmente ( ametisteggiare , augelleggiare, asineggiare, colombeggiare, co-
ralleggiare, cristalleggiare, cuccioleggiare, edereggiare, gondoleggiare,
i soleggiare , labbreggiare, usignoleggiare...: «ve ne sono le miniere
inesauste» avvertiva L. Mattei, Teorica del verso, p. 102) per esprimere
apparenze cangianti («aver colore di ametista») o azioni momentanee
metaforiche («baciarsi come le colombe»). Si vede come questo filone
neologico ben convenga al secolo che ama le cangianti apparenze: ma
poche erano, come è ovvio, le probabilità che simili coniazioni momen-
tanee attecchissero stabilmente.
Numerose sono anche le formazioni parasintetiche: qualcuna nomi-
nale {correligionario, Magalotti), molte verbali Idisanellare, discifrare,
disviscerare... immedesimare, imporporare, inarenare, inartigliare, infie-
lare, ingarzonire, instellare...; sfilosofarsi, sgemmare. Al Fioretti
queste parole piacevano molto: «se in nostro idioma componessimo
interribilire, per la sua ruvidezza sarebbe magnifico, e attonato al
164 Inoltre, verbi in -izzare già antichi si divulgano: organizzare, che esisteva
nella lingua fin dai tempi di Dante, prende ora il significato estensivo di
«ordinare, disporre»; cristallizzarsi entra nell’uso come termine di fisica (il Nuovo
Testamento aveva xpuaxaXXi^iv nel senso di «esser trasparente come cristallo»; e
forse il cristallizzarsi è formazione moderna e indipendente).
155 Lo Stigliarli, in un sonetto in cui satireggia lo stile allora di moda, abbonda
in versi di questo tipo:
il baldo nibbio.... scorre indi e boemi
e l’arrostita zona e T annevata;
poi giù piombando ove il terren s’imprata
(Croce, Lirici marinisti, p. 19)
subbietto; per la sua novità, avrebbe del pellegrino» IProginnasmi, IV,
Molto fertile è la composizione, la quale soddisfa bene la duplice
esigenza sentita in tutti i tempi e più che mai in questo: la «necessità»
delle scienze e la «leggiadria» o «piacevolezza» dei poeti (Fioretti
Progmnasmi, III, prog. 164).
In complesso sono più in auge i procedimenti dotti che quelli
popolari. Si ha qualche composto imperativo come scalzacane, scalza-
gatto, sputaincroce «ateo», facibene, facimale, facidanno : il Chiabrera
che nel dialogo II Bamberini trova «senza leggiadria» il procedimento
e cita come esempio «il reo tagliaborse », nel suo ditirambo adopera
tuttavia cacciaffanni, spezzantenne.
Le giustapposizioni di due sostantivi sono spesso sfruttate a scopo
scherzoso: pesciuomo (Stigliami, donnadragone (Tesauro>. anche più
artificioso 1 ctsinibbio {asino + nibbio ) del Peresio.
a .^ u ?? eros Ì 1 , < ? >m P ost i. artificio si sor £ono con la poesia ditirambica.
Aristotile nell Arte Poetica aveva detto che «i nomi composti maggior i q-
mente convengono ai ditirambi», e quando in una scena della Fiera del
Buonarroti (1618) uno studente parla del carro perlismaltato di Teti, un
altro lo interrompe dicendo «Or così: fammi un po’ del ditirambico -
com oggi è più che mai stil de’ poeti» (Giom. Ili, atto II, se. 13).
Il Chiabrera nell’autobiografìa si fa un merito d’aver introdotto
nella Poesia ditirambica l’uso di parole composte come oricrinita fenice
crocaddobbata aurora. Il suo «Ditirambo all’uso dei Greci» è probabil-
mente anteriore al Polifemo briaco (1627) del Fioretti 1 "; sovraccarichi di
compostisono i ditirambi di F. M. Gualterotti, di C. Marucelli (1628) di
N. Villani (1634); più misurato, e più fortunato, fu quello del Redi (1673
finito nel 1685).
Troviamo in questi ditirambi diversissimi tipi di composti e di
giustapposti. Abbiamo un certo numero di sostantivi di formazione
verbale («Bacco cacciaffanni», Chiabrera; una struggicuori, Gualterot-
“V* 9. 1111 prtmo elemento è coordinato al secondo ( liricetra
Gualterotti) o retto dal secondo ( ventipreda , Gualterotti). Abbiamo verbi
copulativi ( cantipiange «canta e piange», Gualterotti) o formati con un
complemento, il quale può essere diretto (sonniprendere, Gualterotti) o
anche nfenrsi al verbo in modo più vago Uinfemifoca il mio core»,
KediJ. La maggioranza dei composti ditirambici è costituita da aggetti-
vi: coppie di aggettivi coordinati ilietofestoso, leggiadribelluccia, Redi)-
coppie con riduzione di suffisso {musimagico «musico + magico»,
Gualterotti, homicavallico, Marucelli), composti in cui il primo elemen-
to ha valore di avverbio, come nei composti latini del tipo altitonans
{dolcipungente, Gualterotti), ecc.
“* p,ù vocl to dMone - “ m ' è
440 Storio della lingua italiana
Questo allargamento arbitrario delle possibilità compositive della
lingua ‘"conduce spesso a risultati mostruosi, e va considerato come un
breve capriccio stilistico dei poeti ditirambici e in minor misura, di
quelli eroicomici, non come un effettivo arricchimento del lessico.
Ma anche la lingua filosofica, quella giuridica, quella scientifica
hanno crescente bisogno di parole composte, le quali attecchiranno se
si tratta di necessità permanenti. Ricordiamo solo qualcuno dei
numerosi elementi compositivi che già avevano questo valore in latino
ma che ora danno largamente origine a parole nuove: tra i nomi
formati con -cida appaiono e scompaiono co ridda (Fioretto e fioricida
(Marucelli), sparirà anche amanticida (Neri), mentre resterà ussoricida
(Allegri), in quanto legato a un concetto giuridico; moschicida, foggiato
per gioco dal Lalli, tornerà a servire quando si metteranno in commer-
cio dei prodotti moschicidi.
Analoghe considerazioni potremmo fare per vocaboli coniati in
questo secolo i quali hanno il primo elemento latino: i molti con semi-
(termini ecclesiastici come semidigiuno, semiluterano, semipelagiano,
«concistoro semipubblico », o voci scherzose come semidottore, Tesauro;
semifilosofo, Buonarroti; semigigante, Mascardi; semilibro, Galilei, ecc.),
quelli citati (p. 484) con vice-, quelli con orini- ( onnivoro , Oudin;
onnifecondo, Bellini) e con uni- lunisillabo o unisillabico. Fioretti), ecc.
Ma, come è noto, in latino la composizione era limitata a poche
serie; invece il greco aveva possibilità illimitate. Nella coniazione di
terminologie scientifiche si ricorre spesso al greco per foggiare nomi di
scienze, nomi di strumenti, titoli di libri: anzitutto in latino ( omitholo -
già, Aldrovandi, 1599, giologia «geologia», Aldrovandi, 1603; phytoiatria,
nelle Tabulae phytosophicae dei Lincei-, kosmologia, O. Boldoni, 1641;
telescopium, thermometrum, ecc.), poi anche in volgare (si pensi per es.
all ’Etopedia del Menzini o alla Ginipedia ovvero avvertimenti civili per
donna nobile di V. Nolfi, Bologna 1662; cfr. p. 447).
Non si contano i ter mini con proto- e con ipìseudo- foggiati ora. Ma
più importante è l’installarsi in italiano dei composti del tipo tosca-
no-romano, melico-comico, heroico-satirico, cefalo-faringeo, la cui vocale
copulativa, che è -o- secondo l’esempio dei composti greci, rimane di
regola invariabile nella flessione: p. es. C. C. Scaletti, Scuola mecani-
co-speculativo-pratica, Bologna 1611, M. Kramer, Ragionamenti Tede-
sco-Italiani secondo la favella Toscano-Romana, Norimberga 1679
Meno frequente è il metodo di considerare i due aggettivi come
meramente giustapposti, anche se uniti con un trattino: G. Tornano,
Della lingua Toscana-Romana, Londra 1657, Dimostratione Histori-
ca-Astronomica (Tesauro, La Vergine Trionfante p. 97)‘“.
107 Non mancano, nei poeti ditirambici, forti arbitrii nella derivazione: per es.
il Gualterotti (Morte di Orfeo, v. 121) foggiò altissimevolmente, su cui poi fu
modellato precipitevolissimevolmente (Moneti, La Cortona convertita. III, st. 65): v.
Natali e Migliorini, in Lingua nostra, XVIII, 1957, p. 55.
,aa Si veda, oltre al mio cenno in Saggi sulla lingua del Novecento, pp. 26-27, la
Il Seicento 441
Ma non mancano esempi di composti, anche non burleschi, con la
vocale copulativa -i- ( amante stoltisavio, Stigliarli, traduzione prosipoe-
tica. Fioretti); gli aggettivi in -e restano semplicemente giustapposti
( favola morale-politica, 1617).
18 . Latinismi
È sempre largamente spalancato al lessico italiano il serbatoio
della latinità (e, in limiti un po’ più ristretti, quello della grecità), per
attingervi vocaboli nuovi 16 ®. Scienziati e letterati ricorrono alla latinità
classica, a quella cristiana e a quella scolastica, e inoltre a quella che
le scienze di recente costituzione si vengono foggiando.
I latinismi sono accolti nel lessico italiano anzitutto per servire
come termini dottrinali per le discipline più varie (specialmente quelle
che prima si trattavano in latino, come i vari rami del diritto).
Mentre non v’è remora, si può dire, all’assunzione di termini tecnici
finché si rimanga nell’ambito delle singole discipline, per i vocaboli più
generali v’è una certa resistenza, e quelli che adoperano latinismi
nuovi sentono di dover mettere le mani avanti: Buonarroti il giovane
nel proemio àR'Aione parla delle «ore che un buon pedante chiamereb-
be sussecive»-, il Villani, nel Ragionamento sulla poesia giocosa, p. 101,
parla delle lodi che il Lalli sta per acquistarsi risultando « Olimpionice ,
per così dire, nello stadio della poesia» 170 ; intransitivo è ancora nuovo
quando se ne serve il Segneri nella Manna dell'anima : «in senso, come
dicono, intransitivo »; ecc.
La resistenza è variamente testimoniata. Uno dei biasimi che
frequentemente muove lo Stigliarli al Marino è di adoperare nello stile
«nobile» parole latine, che hanno un tono troppo tecnico: per es.
biblioteca, cute, disco. Quando l’epiteto che Benedetto Fioretti si era
scelto, apatista, fu col suo consenso applicato da Agostino Coltellini
all’Accademia degli Apatisti, qualcuno non ne voleva sapere, dicendo
«ch’ei la poteva chiamare degli Spassionati, nome più intelligibile, & a
noi più naturale, che quello di Apatisti» 171 .
Specialisti che si rivolgono a non specialisti qualche volta si
soffermano a spiegare i loro termini: «luna giovinettal dotata di un
abito di corpo carnoso, e che da’ Medici con vocabolo greco vien
chiamato pletorico » (Redi, Consulti, I, p. 6).
Un breve elenco di termini scientifici entrati nel lessico italiano in
solida monografìa di A. G. Hatcher, Modem English Word-Formation and Neo-
Latin, Baltimore 1951, dove l’origine di questa -o- dal greco per il tramite del latino
scientifico è molto ben documentata.
168 «Ognuno può cavarne (dal latinol quel che gli fa bisogno, salvo il suo
dovere al giudizio e all’uso» (Bartoli, Il Torto e il Dir., oss. ccxm).
170 II p. Spadafora, nella Prosodia, dà Olimpionice come parola piana.
171 IF. Cionacci), «Vita di B. Fioretti», premessa alle Osservazioni di creanze,
Udeno Nisieli autore, Firenze 1675, p. XXIII.
442
Storia della lingua italiana
questo secolo (salvo retrodatazioni, sempre possibili) varrà a dare
un’idea dell’importanza di questo afflusso, anche se l’elenco sia
meramente esemplificativo: anfratto, antenna, antictoni, apogeo, bub-
bone, bulbo (dei peli), caruncula, cellula, coerente, condensare, conoide,
crostaceo (crustaceo, Redi), cuticola, deferente (anat.), digressione
(astron.), estrudere, fecola, ignicolo, iniezione, iperbole (mat.), molecola
(dalla filosofia di Gassendi), obbiettivo (ott.), oculare (ott.), ovidutto,
papilla, patologia, placenta (anat.; da placenta uterina ), pleura, pleuriti-
de, podice, precessione, prisma (cristall.), proietto, pube, rarefazione,
scheletro, scroto, sfacelo (« cancrena»), stratificare, vortice, ecc.
Accanto a questi, vanno ricordati numerosi altri latinismi che,
adoperati dall’uno o dall’altro scienziato nel tentativo di fame termini
tecnici, non hanno avuto fortuna, essendo state preferite altre parole.-
distrarre e distraibile nel senso di «dilatare, dilatabile», eiaculazione
come termine elettrico, incalescere (med.), labefattare («labefattata la
virtù conco ttrice del medesimo stomaco», dice senz’ironia il Redi,
Consulti, I, p. 194), lozione, lubricare, perspicuità (ott.), stertore, titubazio-
ne, ecc.
Un’altra serie notevole è quella dei termini giuridici che ora
cominciano a penetrare in italiano-, aggressione, agnazione, censire,
condominio, consulente, dirimere, grassatore, patrocinio (cfr. p. 431),
premorienza, prescindere, subornare, società (commerciale), tergiversare,
usucapione, ecc. 172 .
Dalle più varie discipline ricevono l’aire innumerevoli altri latini-
smi: acrostico, allidere, analfabeta, ascitizio, assurdità, convellere, cospi-
cuo, cromatica tmus.), elaborare, elogio, emanazione (teol.), incongruo,
incongruenza, incutere, indagare, indagine, letale, monotono, -ia, notu-
la, onomastico, oriundo, panegirico, parodia, posticipare, sintassi, sintesi
(gramm.), taumaturgo, tesi, ecc.; oltre a innumerevoli altri che hanno
attecchito poco o nulla: amie, esardere, esoleto, espiscare, fasce, ferrugi-
ne, novercale, parergo, sinoride, ecc.
Alcuni latinismi, già sporadicamente adoperati nei secoli preceden-
ti, ora si diffondono parecchio: per es. atomo, entusiasmo, escandescen-
za, ecc.
Poiché questo attingere ai latinismi è un fenomeno comune a tutta
172 Vogliono deridere l’abuso dei termini legali questi versi del Malmantile del
Lippi (VI, st. 87-88):
ed io sarei stimato anc’un Marforio
a acconsentire a un atto perentorio.
Perché sempre de jure pria si cita
l’altra parte a dedur la sua ragione;
poi s’ella è in mora viensi a un’inibita
e, non giovando, alla comminazione,
che in pena caschi delle forche a vita:
e se la parte innova lesione,
allor può condennarsi, avendo osato
di far, causa pendente, un attentato...
Il Seicento
443
1 Europa colta, accade ormai spesso, e sempre più accadrà nei secoli
seguenti, che ì vocaboli siano attinti non direttamente alla lingua
antica, ma ad una lingua moderna che a sua volta è ricorsa al latino:
cosa che si ncava ora da diretta testimonianza, ora da qualche
?Aoi^ a j? tà ° * significato. Per es. lo Stigliarli (Arte del verso, p.
162) ci dice che il termine assonante (nel senso metrico moderno per
indicare un tipo di rima imperfetta) è stato attinto allo spagnolo
(«chiamasi da gh Spagnuoli Rima assonante, cioè di suono 8 non
medesimo ma vicino»), E che un altro latinismo, pòcolo, sia di
provenienza spagnola si vede dalla semantica («bevanda» anziché
«tazza»), I numerosi latinismi (e grecismi) scientifici coniati come
abbiamo accennato, nei vari paesi dell’Europa colta, circolano libera-
mente-. Galileo non avrebbe parlato di selinografia m se già Bacone non
avesse adoperato il termine (sotto la forma selenographia ).
La pressione delle voci latine si esercita anche sulla forma di
parecchie voci italiane, specialmente scientifiche.- anatomia guadagna
terreno su notomia (anche perché l'agg. è soltanto anatomico ), chirurgo
è preferito a cerusico e cirugico, clistere vince cristeo o cristero, emorroidi
e pretento a moroide o morice, ecc. La forma proprio, che corrisponde
sentori™ latm ° che prop ‘°- si le ese ormai nella maggioranza degli
Una certa preferenza per le forme latineggianti si scorge nei non
Toscani: il Manno scrive, per es., ebeno e Africa-, fra oriuolo e orologio i
Romani preferiscono orologio (v. il glossario citato a p. 434) ecc.
I grecismi vengono di solito adattati attraverso le forme latine con
poche eccezioni eh scrittori più eruditi («qualche àvéxSoxa di Pri-
s ciano»: [Villani], Considerazioni di Messer Fagiano, p. 257; «questa
ligxu-a da Greci è chiamata roxpo>8ia» : Redi, Annotazioni al Ditirambo
p. OoJ. *
19 . Forestierismi
„ i? 1 T P eriodo di soggezione politica e di scarsa indipendenza
culturale è ovvio che i forestierismi abbondino nella vita comune
Alcum scntton li accolgono senza tanti scrupoli, e talvolta lo dichiara-
si!’ fa COr ^ 6 ran0 ’ 1 conservatori Più rigorosi protestano contro que-
173 Lingua e cultura, p. 151.
ira L Oracolo della lingua d'Italia, cit., pp. uo-lll.
mente *^ e ^H^ SSer;niÌ valuto ^ moIte vocl straniere: ma non già inaveduta-
i h i? 1 SOn ° parse esser P iù significanti dell’altre, e di maggior
forza ad esplicar i Concetti delle materie, che io tratto » (G Frachetta/Z
seminano dei governi, Venezia, 1613, Introduzione).
n . . Buonarroti il giovane in una cicalata (Prose fior.. Ili, i, p. 28) fa che i
3£*d™h AccademfH der tf° ? ntmr ? ^ ^ COrte ° masc herato, siano tenuti a
senno dagli Accademici «che rigorosi, siccome voi sapete, veggon per la loro
444
Stona della lingua italiana
Nella prima parte del secolo continua quell’afflusso di spagnolismi
che già si era aperto la strada nel ’500 177 .
Abbiamo, anzitutto, voci concernenti la vita sociale: entra allora,
nel primo quarto del Seicento, la voce bri o-, abbiamo già ricordato (p.
474) etichetta-, aggiungiamo paraguanto nel senso di «mancia».
Citiamo, fra i termini di moda, il guardinfante, introdotto a Napoli
nel 1631 e cantato da F. Frugoni nel poemetto La Guardinfanteide
(Perugia 1643) 178 , la marsina, la pastrana, la ciamberga già ricordate, la
mantiglia, la pistagna, eòe.
Fra gli oggetti domestici, ecco la posata (nel senso di «posto a
mensa» e di «strumenti da tavola»), i recipienti di bucchero (o buccheri ),
allora tanto in uso, lo scarabattolo, il baule, eco.
Tra i cibi, ricordiamo Yogliapodrida-, si divulga il nome di baccalà,
prima usato solo in traduzioni dallo spagnolo 179 .
Si accolgono il cioccolato e le pastiglie.
Il nome di scorzonera (che sembra a prima vista un composto
italiano) viene dallo spagnolo escorzonera, catal. escurgonera, perché la
radice della pianta era considerata un antidoto contro gli animali
velenosi.
Numerosi sono anche in questo secolo gli ispanismi riferiti alla vita
militare: recluta (che lo Spadafora considera parola piana e definisce
«riempimento, o rifornimento d’una squadra»), borgognotta; ai volteggi
del cavallo in pace e in guerra si riferiscono caracollo (sp. caraeoi
«chiocciola»; fig. «volteggio ») 180 e caracollare (caracolear).
Piuttosto numerosi sono i termini di marina come nostromo (dallo
spagn. nuestramoì o risacca.
Fra i nomi di giochi e di passatempi abbiamo la pilotta o pillotta
(spagn. pelota), la ciaccona e la sarabanda, il gioco dell’omòre ihombre,
un gioco di carte).
Lazzarone si diffuse a Napoli al tempo della rivoluzione di Masa-
niello 181 e divenne ben presto noto al resto d’Italia (mentre guappo ebbe
più scarsa diffusione).
Anche termini generali come floscio giungono a imporsi.
Molti degli iberismi che pine in questo periodo avevano raggiunto
introduzione andar la lingua per la malora, ed hanno una stizza con queste
nuove parole regali, viglietti, stipi, gabinetti, bauli...». E il Dati (nel discorso
Dell’obbligo...)-. «Vada per alcuni moderni che tratto tratto senza bisogno e senza
grazia infilzano ne' loro componimenti voci prette Latine, Spagnuole, Franzesi,
Romanesche e Lombarde».
177 Ricorriamo principalmente ai citati scritti dei Croce e dello Zaccaria lElem.
iberico ).
178 Croce, Storia dell’età barocca, pp. 389-390; Nuovi saggi... Seicento, 2* ed., pp.
247-248.
178 Zaccaria, Elem. iberico, pp. 39-40 e 429-430.
180 Già C. Corte, Il cavallerizzo, 1573, ha: «insegnare il caragolo, over lumaca».
181 Croce, in Arch. trad. popol., XIV, pp. 187-201 (rist. in Aneddoti di varia letter..
Ili, pp. 198-211).
Il Seicento
445
una certa circolazione, nei secoli successivi scomparvero. Qualche
volta si tratta di parole legate a usanze o oggetti poi spariti: per es.
candiero «bevanda di uova, latte e zucchero» (dallo spagn. candiel )
polviglio «droga in polvere», sciotta «polvere che si versava sulla
cioccolata» (da achiote) (Magalotti), ecc. Altre volte si tratta di vocaboli
usati per lusso, per eleganza, per scherzo, come amariglio «giallo»
iManno), ammucciarsi «coprirsi col manto», mogno «crocchia di capel-
li», lastima «dispiacere», cotorera «pettegola» 182 , corazzane («Forato
aVe £^7 ,. petto e 1 corazzane»: Lalli, Eneide trav., IV, st. 2), ecc.
Molti dei termini burocratici erano anch’essi destinati a sparire: per
es. aiuto di costa «soprassoldo» o stimar preciso, usato nei Gridari
milanesi nel senso di «ritenere necessario».
Altre parole si riferivano a persone e cose di Spagna: per parecchio
tempo tutti conobbero il tipico «mendicante briccone» reso celebre dal
romanzo (h Mateo Alemàn, Vida del picaro Guzmàn de Alfarache (trad
ìt. di B. Barezzi, 1615): piccaro, piccaresco, piccariglio.
La penetrazione degli spagnolismi fu notevole nel dialetto lombardo
e ancor più forte nel napoletano. In qualche caso, le parole soprawivo-
no m qualche dialetto: per es. ammuinare, che ha parecchi esempi di
scrittori secenteschi in lingua, vive tuttora nel napoletano. L’aggettivo
comparativo masgalano, sostantivato in locuzioni come combattere il
masgalano, portare il masgalano, e simili, indica tuttora imo dei premi
del palio di Siena. E deve risalire a quest’età anche papello, papiello
voce scherzosa per «documento», benché non se ne abbiano esempi
antichi.
Qualche voce tedesca o fiamminga penetra in Italia per via
spagnola (per es. bellicone «specie di bicchiere», attraverso lo spagn
velicomen). E, per tramite spagnolo o, molto più di rado, portoghese'
continuano a giungere nel lessico italiano voci americane ( chinachina
sassafrasso, ecc.) e orientali {mandarino «alto funzionario cinese» '
Carletti).
_ Passando ora a dare un cenno sui gallicismi, notiamo anzitutto il
tatto che in molti casi l’influenza spagnola e quella francese convergo-
no.- per es. il significato astratto di carriera o il nome del bompresso (fi-
beaupre .catal. bauprès, spagn. bauprés ) sono dovuti alla spinta conco-
mitante delle due lingue. Viglietto, che appare ora accanto a biglietto,
sembra dovuto alla pronunzia spagnola del vocabolo. Caserma viene
dalla Francia nella prima metà del secolo, e a Milano troviamo
parallelamente la forma italiana case berme e quella spagnola casas
yerrnas, con raccostamento di caseme all’aggettivo ermo {yermo) m .
L influenza francese, che nei primi decenni del secolo si sentiva
ancora debolmente, al tempo di Luigi XIV diventa predominante e
sopravanza di gran lunga quella spagnola, che è in forte regresso.
182 Lingua nostra, XIII, 1952, p. 56.
183 Prati, Voc. etim., s. v. ; in Spagna caserma appare solo più tardi (Corominas
uicc. etim. critico , s. v.).
440
Storia della lingua italiana
Citeremo qualcuno dei principali termini penetrati in italiano in
questo periodo. Alcuni vocaboli che precedentemente si adoperavano
solo in riferimento a cose francesi entrano anche nell’uso comune: per
es. lacchè e gabinetto.
Per la vita sociale ricordiamo la semantica di obbligante e di
suscettibile; libertino e libertinaggio nel senso di «libertà di spirito» 18 *.
Per la moda citiamo anzitutto il termine medesimo di moda, e poi le
chincaglie, la coccarda, i galloni, l& lingeria, il giustacuore, e aggettivi di
colore come dorè, gridelino [gridelin, gris de lini, ponsò.
Dalla Francia si diffonde in Italia l’uso della parrucca, portando a
un cambiamento di significato del vocabolo, che nei secoli precedenti
significava in Italia «capigliatura naturale», e passato in Francia vi
aveva preso il nuovo significato 185 di «capigliatura posticcia».
Tra i mobili appaiono il buffetto e il canapè; nelle città si hanno le
barriere.
Nel campo dei trasporti entrano i termini di convoio ( convoglio ), di
treno, e di equipaggio (che già nel secolo precedente si era diffuso come
termine di marina); appaiono, insieme con le cose, i nomi di calesse e di
sedia rullante o rollante.
Fra i termini militari citiamo plotone, reggimento, distaccamento,
blocco, bivacco, tappa, ramparo 188 , decampare, bandoliera. Reparti di
gendarmi furono istituiti in Piemonte nel 1676.
Piattaforma compare come termine militare e marittimo-, ricordiamo
anche l’altro termine marittimo di brulotto.
Entra il nome di parrocchetto, applicato sia al pappagallo sia a un
tipo di vela.
Tra i balli ebbe voga la burè-, nei giochi si cominciano a adoperare i
gettoni.
Numerose sono le parole generali: azzardo, contraccolpo, dettaglio
(Magalotti), rango, rimarchevole, salvaguardia-, se per queste vi è chi fa
sentire obiezioni, più facilmente attecchiscono i latinismi esemplati sul
francese, come agire, installare, progettare-, e così pure i calchi di
locuzioni figurate, come fare il diavolo a quattro (Redi), valer la pena
184 II Frugoni, Del cane di Diogene, Venezia 1687 segg.. Ili, p. 363, VII, p. 309
biasima la cosa; il Magalotti, in una lettera del 1690, difende la parola.
105 Nel 1615 il Marino notava la cosa a Parigi come una costumanza bizzarra:
«tengono un’altra testa posticcia con capelli contraffatti, e si chiama parrucca »
( Epist ., I, p. 198).
Nel 1681 il Redi, scrivendo a Carlo de' Dottori (Opere, IV, Firenze 1731, pp. 112-
113) dà come normali a Firenze il significato di «zazzera posticcia» e le forme di
parrucca e parruca-. «Egli è bensì vero, che vi sono alcuni giovanotti leziosi, i quali
dicono permea per più avvicinarsi all’originale franzese.- imperocché fa loro
nausea qualsisia cosa che non venga dalla Francia, e che non odori di franzese».
Ma i timori che questa forma avesse a prevalere risultarono poi infondati.
188 Ramparo «terrapieno» è accolto da molti, ma respinto da altri (il Redi
scrive al Magalotti: «Ma perché vuol ella lin una canzone) dire rampari, essendoci
la voce ripari"?*, lett. 1 marzo 1682-83), e in definitiva non attecchì.
Il Seicento
447
(Magalotti), mettere sul tappeto 187 , ecc., e così anche a meno che, presso a
poco»
Ancora si preferisce, di regola, «addomesticare» (Fioretti, Proginn
IV, prog. 37) i francesismi, cioè adattarli alla fonetica italiana- ma
cominciano ad apparire con una certa larghezza le parole scritte e
pronunziate alla francese: il Marino adatta parterre in perterra («vaghi
.f °* te 0 s . che erbose»: Adone, XI, st. 21) 188 , il Neri [Presa di
bamimato, V st. 8) parla di fare il rendevosse; ma il Magalotti scrive
parterre e rendez-vous, e altrove resource, calzoni aux bas roulés, pigliar
le contrepied, guardare de haut en bas, ecc.
Molti dei francesismi insinuatisi in questo periodo furono più tardi
eliminati: alea nel senso di «viale» (Marino) 189 , allianza per «matrimo-
S5agSotìS n ecc a5rimani (LÌppÌ) ’ buona mina (Magalotti), menageria
Più ricettivo in confronto delle altre regioni è sempre il Piemonte
ftftQft * roviam ° già per es. nell’uso burocratico il termine di intendente
(1896: legge citata dal Rezasco, s. v.).
Senza confronto meno numerosi e meno importanti sono i forestieri-
nwvLS™? m Ì t< ^ a J da altre fonti: per es - Patrona e provianda
(Montecuccoli) dal tedesco, renna dallo scandinavo, musulmano dal
persiano (già musliman, 1623, in Pietro della Valle), ecc.
Si conoscono prodotti orientali, come il cacciti, capòc, il ginsèng e
giunge notizia di alcune costumanze di quei paesi, con i relativi nomi
per es. palanchino.
20. Italianismi diffusi in altre lingue
o P grande prestigio di cui godeva l’Italia del Rinascimento è
affievokto ma non estmto negli altri paesi d’Europa: continua soprat-
tutto 1 ammirazione per le opere d’arte antiche e moderne; e aumenta il
fascino esercitato dalla musica italiana.
Vediamo, così, numerosi termini d’arte entrati in francese e in altre
lmgue: attitude «atteggiamento (plastico)» (fr. 1653, ingl. 1668), calquer
costume («un pemtre qui ignore ce qu’on nomme il costume. »• Fénelon)’
coupole (fr. 1666; Fingi, ha cupola già nel 1549), filigrane (fr. 1673; ingl’
‘Vorrei ancora che non fossimo tanto dispettosi di non voler ammettere
CSpr f, SS1 ° t V. oobili cava te dalle lingue straniere, le quali tutti quelli che
ssmno quelle tali lingue, veggo che vien loro fatto il tradurle nella nostra
l0F foi 3 a ’ 0 nobiltà - Mi sovviene adesso: mettere un negozio sui
l^, Ì .’, h Ji Fra u Z ®f 1 11100110 dal tappeto della tavola del consiglio mi pare un
E 223 ) n ° blle ’ Che 11 n ° Str ° mettere in tavola» (Magalotti, lettera 1677 al RedhI,
nnJZ/^ adattamenti del Marino sono molto più arbitrari: fusetta per fusée
5 , Pavé - ohe u Baldelli vede nei francesismi «la novità più
fort f a9 ^? llessi0 ? de11 Adone» (Atti 2° congr. Studi ital., Firenze 1958, pp. 148-iSl)
Che troviamo tuttavia ancor vivo nel piem. la lea.
448 Stona della lingua italiana
1668- ted. 1688), fresque (1669; Tingi, ha fresco già nel 1548; ted. a fresco
malen nel 1697), fronton (fr. 1653; ingl. 1698), miniature (fr. 1653; per 1 mgl.
è registrato un es. fin dal 1586), ecc. . _ . -
Fra i termini di teatro ricordiamo lo pera (che m Francia tu
introdotta dal card. Mazzarino verso il 1646; ingl. 1644; ted. 1680); in
francese entrano anche comparse e virtuose (ingl. virtuoso virtuosa). 11
tedesco e lo svedese accolgono violiti (che in inglese era entrato già nel
secolo precedente); l’inglese adagio, grave, largo come termini musicali
^Tra ’i nomi di maschere che ebbero fortuna all’estero ricordiamo
Pulcinella (fr. Polichinel, poi Polichinelle-, ingl. Polichinello e Punchmel-
lo, da cui l’abbreviato Punch). Anche lo Scapin di Molière risale alla
maschera di Scappino (derivato di scappare). _ .. T
Comincia a diffondersi il mito del dolce far niente degli Italiani
(«personne n’est plus touchée que moi du famiente des Italiens»: lettera
di Madame de Sévigné, 1676). La conoscenza delle feste italiane fa che
si accolgano il nome della girandola (fr. girandole 1642, ingl. girandolo
1644) e della regata (ingl. regatta, 1642, fr. régate, 1679).
Fra i cibi ricordiamo il nome dei sedani, che emigra sotto la torma
romana di s'elleri (fr. cèleri, 1680; ingl. celery- ted. Sellerie), e quello dei
vermicelli (fr. vermicelle, 1675, ingl. vermicelli 1669).
Passano ad altre lingue anche alcuni termini commerciali, come
agio (fr 1679, ted. 1695), fattura (ted. Factura, 1662; il fr. ha facture m
questo senso fin dal 1611, e sarà forse da considerare anch esso come
italianismo), franco (ted. 1695). , . , . . .... .
Nei paesi tedeschi si diffondono anche alcuni termmi militari
( Granate , 1616; Kaserm, Kasarm, ancora mantenuto in dialetti bavaresi e
svevi, mentre altrove prevalse il francesismo Kaseme) e voci riferite ai
trasporti (Carotze, poi sostituito da Karrossé).
In lingue più periferiche giungono soltanto ora italianismi già prima
diffusisi nelle lingue limitrofe: per es. nello svedese entrano nel 600,
oltre a violin già citato, bandit, altan, gondol, lasarett, bastant. Tuttavia
molto in questo campo resta ancora da esplorare.
CAPITOLO X
IL SETTECENTO
1. Limiti
Per Settecento, intendiamo col Croce «culturalmente, a un dipresso
il secolo che va dall’ultimo quarto del decimosettimo alla fine del terzo
del decimottavo» 1 Data caratteristica - e che potrebbe essere conside-
rata come iniziale - è quella della fondazione dell’Arcadia (1690),
mentre alla fine vanno sottolineate la data della soppressione della
Crusca per decreto di Pietro Leopoldo (1783) e, capitale, quella dell’inva-
sione francese (1796).
A mezzo il secolo, segna un’importante demarcazione Tanno della
pace di Aquisgrana (1748): da allora la penisola persegue più attiva-
mente la ricerca d’una migliore vita civile; finché non la getteranno di
nuovo nel turbine le conseguenze della Rivoluzione francese.
2 . Eventi politici
Nei primi decenni del secolo l’Italia è coinvolta in numerose vicende
belliche, mentre dal trattato di Aquisgrana all’invasione francese si ha
un lungo periodo di pace. I territori della casa di Savoia si allargano
fino al Ticino; importante è l’annessione della Sardegna (1718), perché
la vita amministrativa e culturale dell’isola, che prima si svolgeva in
spagnolo, si viene orientando, seppur molto lentamente, verso la lingua
italiana.
Si estinguono in questo secolo le dinastie dei Gonzaga, dei Farnesi,
dei Medici, dei Cybo, degli Estensi, con spostamenti dell’assetto
politico-territoriale.
Il ducato di Milano e quello di Mantova passano in mano degli
Austriaci (mentre la Valtellina è tuttora in possesso dei Grigioni). A
Parma (1731) e a Napoli (1734) si installano due dinastie borboniche. In
Toscana diventa granduca (1737) Francesco Stefano di Lorena, ma
l’influenza linguistica francese dei suoi cortigiani lorenesi ha breve
durata: predomina presto in Toscana l’orientamento politico austriaco,
1 La letteratura italiana del Settecento, Bari 1949, Avvertenza.
450
Storia della lingua italiana
dovuto al legame matrimoniale fra il Lorenese e 1 asburgica Maria
Teresa
Mentre la Lombardia, la Toscana, il Napoletano più o meno
celermente si mettono sulla via deUe riforme, i vecchi stati non
dinastici Qo Stato della Chiesa, Genova, Lucca, Venezia) non possono o
non vogliono accedervi. Genova, impotente a domare 1 ennesima
insurrezione della Corsica, più pericolosa perché condotta da un uomo
di forte tempra, Pasquale Paoli, cede l’isola ai Francesi (1768); ma forse ì
Corsi non avrebbero voltato le spalle alla cultura e alla lingua italiana,
fino allora esclusivamente predominanti, se non fosse nato m Corsica
colui che doveva cambiare il volto all’Europa in nome deUa Francia
Gran parte dellTstria, parte della Dalmazia e dell Albania, le Isole
Ionie sono ancora in mano della repubblica di Venezia.
Si risente ormai sui mari italiani il peso dellTnghilterra, diventata
potenza mediterranea. La guerra d’indipendenza americana (1776-1783)
suscita echi notevoli; e ben più forti la
sconquasso comincia con la campagna d Italia di Bonaparte (1796) e
tutte le sue conseguenze.
3. Vita sociale e culturale
Il cosmopolitismo di cui tanti si fanno un vanto vuol dire, in
sostanza, un riconoscimento che l’Italia ha perduto fi primato culturale
in Europa e che è necessario mettersi al passo con gli altri paesi
europei, e soprattutto con la Francia, accogliendone le opinioni e le
usanze. Ma questa corrente generale tocca direttamente soltanto le
persone più colte, e in modo tutt’altro che uniforme: agh strati mfenon
della società ne giunge solo ciò che filtra attraverso le classi colte.
Il confronto con la situazione della Francia e dell Inghilterra fa
sentire la scarsa coesione degli Italiani, la mancanza di una capitale, di
un centro a cui tutti facciano capo 2 . . ■ . ..
Le divisioni fra stato e stato ostacolano la circolazione delle
persone e delle idee. Se l’Alfieri vuole «spiemontizzarsi», cioè piena-
* «La vera accademia è ima capitale, dove i comodi della vita i piaceri la
fortuna vi chiamino da ogni provincia il fiore di una gran un^arte^deltó
novecentomila persone si elettrizzino insieme... Ci sarà aUoraun £ lingua
conversazione- si scriveranno lettere con disinvoltura e con grazia, la lingua
diverrà ricca senza affettazione»: Algarotti, lettera a Voltaire 6740, ^ Opere, IX.
on 85-86)* «In Italia ogni provincia ha un Parnaso, uno stile, un gusto, e secondo il
gk£ dei clima uri plrtito, una lega, un giudizio separato daU’altre.. Mi pareva
ben dilettevole andar cambiando nazione e costumi cambiando ì cavalli da posta
e trovare deUa no^tà, ch’è il premio d’un viaggiatore, ad ogni passo. Ma nn
noiava eziandio il non saper mai dove fosse l’Italia, e dove prenderne giusta
idea A dire il vero io penso, che se in fatti l’Italia avesse un centro, un punto
d’unione, sarebbe più ricca d’assai nettarti, nelle lettere e forse nelle : s “ el Sf T ’
non qualunque altra nazione...»: Bettinelli, Lettere inglesi , Il (Opere. 1 ed., XII, PP
157-159).
Il Settecento
451
mente italianizzarsi, nella commedia piemontese II conte Pioletto
«affiora il senso della lontananza, del distacco e del contrasto verso gli
abitanti delle altre parti d’Italia. Il Cont Piolett dà un sobbalzo nel
veder Pippo che fa un gesto come se metta mano alla spada: “Alla
larga! D’ volte sti italian a pòrto d’ stilet...”» 3 .
Il razionalismo in vari aspetti (cartesianismo, illuminismo, sensi-
smo) è la corrente di gran lunga predominante, non solo nei pensatori,
ma in quelli che li ripetono e li rimasticano. Il metodo sperimentale ha
il sopravvento sugli attardati peripatetici, e la concezione del mondo è
prevalentemente naturalistica e razionalistica.
I miti che dominano il secolo sono quelli della Ragione, della
Natura, del Genere umano. Viene ora elaborata e penetra nel pensiero
e nel parlar quotidiano l’opposizione fra ragione e sentimento.
Alcuni gruppi, fra cui va ricordato specialmente quello del Caffè,
sono all’avanguardia nel promuovere una cultura fondata sulle «cose»
e non sulle «parole», che diffonda i «lumi» e faccia sparire gli abusi e i
pregiudizi. I filantropi intendono il miglioramento sociale soprattutto
come avviamento al benessere materiale.
II cattolicesimo subisce attacchi da varie parti: dai razionalisti, dai
giansenisti, dai giurisdizionalisti-, e un fiero scacco è la soppressione
dell’ordine dei Gesuiti, a cui il papa deve consentire. Penetra in Italia la
massoneria, dapprima con prevalenza di fini umanitari, all’inglese; più
tardi invece con intenti giacobini e attività decisamente filofrancese.
Le riforme richieste dagli illuministi trovano eco in alto, nei prìncipi
riformatori: si aboliscono istituzioni e costumanze ormai sorpassate,
con notevoli progressi nella vita civile, specialmente in Lombardia e in
Toscana. Mentre per lo più i nobili riluttano, e le plebi assistono
passive, la borghesia è in ascesa. C’è un accentuato ritorno alla terra,
con numerose opere di bonifica (Val di Chiana, ecc.) e miglioramenti
nelle colture.
Nella vita culturale le Accademie locali continuano a esercitare una
certa influenza. Ma accanto ad esse è sorta l’Arcadia, che con le sue
«colonie» adempie per prima il compito di accademia nazionale,
propagando nelle varie città il suo insegnamento stilistico e il suo
garbato edonismo. Nella seconda metà del secolo si moltiplicano le
accademie che mirano all’utilità sociale con studi agrari, economici,
civili (ricordiamo almeno i Georgofìli, Firenze 1753, e quell’accademia
di nuovo stile che era la Società dei Pugni, Milano 1761).
La vita sociale si manifesta vivace nelle «conversazioni» tenute nei
salotti della nobiltà e della borghesia. Alla divulgazione della cultura
provvedono numerosi saggi, talvolta in forma di dialogo. E acquista
sempre maggiore importanza l’opera dei giornali e delle gazzette (nasce
a Venezia il primo quotidiano, la Gazzetta di Venezia ).
Con la moda delle raccolte (in occasione di nozze, di monacazioni,
3 Croce, La letteratura ital. del Settecento, cit., p. 129.
452
Storia della lingua italiana
16 a a aSd?«n tenore LlSSnzenaturaU e sperimentali, in atame
con^risultari^mpicn^tGal^n, sabbinomeli-
SS’S'S’S'TSl gli scambi diventano molto
SSSE*=m
bovine^. esper im enti aeronautici destano grande curiosità.
Lkjtt^stranieri 1 viaggiano in Italia, molti Italiam viaggiano e ■ sog-
• Molt \ Q nwpro Alla curiosità per le cose francesi e inglesi (che in
gKf^tTp^ s'aggiunge la curiosità per i
paesi esotici (Cina, ecc.).
4 La lingua parlata
colorita:
Dove la città, la corte, il Inetto in TvjSffie SS3f u£S2
mediocre correttezza, bno, vanet ® . o a paggio di Calabria, v’ha un
terra nostra, dalla Novalesa appiè deUAlp sia ^ an d e , sia piccolo, sia
dialetto particolare, <h cm °g™ ^ P & . costante rnente uso nel suo quotidiano
nobile, sia plebeo, sia dotto, n . quando accade che qualcuno
conversare sì nella propria faimfha che ™ s J e ^Xs’ha egU ricorso? Aimè,
voglia appartarsi dagli altri favellando J1 S P grossa bene! E non s’avendo
ch’egli toscaneggia quel suo dmlettoana^ossaa p: scrittori,
fregata di buonora to™*™*** 1 o^ch! senza prototìpo^na lingua tanto
tapma tmSSTvSL A nelle voi, sì nelle frasi, sì nella pronuncia, che fa
Il Settecento
453
pur d’uopo, sentendola, ciascuno si raccapricci, o abbrividi, o frema, se possiede il
minimo tantino di quella cosa, che già dissi, chiamata “gusto di lingua” 4 .
A Roma, basta sentire la «linguacciaccia» che parlano tra loro gli
Arcadi nel Bosco Parrasio (e poi il discorso devia sulla «lingua oggidì
parlata e scritta in Roma»), Nelle altre grandi città chi vuol «parlare un
po’ meno plebeamente del solito» fa un suo «toscaneggiamento di ca’
del diavolo». In Francia, anche nei «più bassi individui» «il cianciar
familiare va molto di rado senza la sua sufficiente porzione di
proprietà e di eleganza» (p. 335); non così in Italia; dove per di più «chi -
fa sforzo fuor di Firenze di parlar toscano, come ogn’uom dabbene
dovrebbe fare... viene considerato dai più un affettato, un tuttesalle,
uno sputacuiussi» (ivi). In Toscana stessa il popolo, non numeroso e
non «grande», poco dedito alle letture, è decaduto, e con esso la lingua
«in guisa tale che il conversar comune di Firenze mi riesce al dì d’oggi
di ima snervatezza, d’un dolciato, d’un floscio tanto miserabile, da
vergognarsene un popolo d’eunuchi, se ve n’avesse uno» (p. 337). Ma il
giudizio che il Baretti dà di questa «linguerella» (p. 338) è evidentemen-
te ormai un giudizio stilistico-letterario, non linguistico.
Altre testimonianze sull’italiano parlato ci rimangono, purtroppo
meno numerose di quanto vorremmo 5 .
Per la Toscana, il Salvini si lagna della pronunzia bène, tèmpo con
vocale chiusa, di «alcuni affettatuzzi» fiorentini (nota alla Tancia, I, se.
4), deplora che magnare tenda a sostituire mangiare (ivi) 6 e che
fazzoletto, uffiziolo, saccoccia tendano a soppiantare pezzuola, libricci-
no della Madonna, tasca (nota alla Fiera, III, iv, se. 11).
Nel famoso scritto che suscitò tante polemiche, il padre Onofrio
Branda esalta la pronunzia dei Toscani:
nè mi saziava di pascere... l’orecchio di quel parlare, che in bocca ancora de’
famigli degli osti, e de' lettighieri, che ci conducevano, sembravami di tanto
vincere in dolcezza, in leggiadria e in ogni grazia quel linguaggio pedantesco, che
sentiva da noi chiamarsi Toscano, quanto più grato e soave il suono d’armoniosa
cetra, che lo strepito di scordati tamburi 7 .
A Pisa, l’Algarotti coglieva espressioni del toscano parlato che gli
4 Scelta delle Lettere familiari. Parte II, 20, p. 332 Piccioni.
* n Parini, negli «Appunti per il Vespro e per la Notte», nota che ai forestieri
«le milanesi... rispondono con lingua e pronunzia milanese»; mentre il marito
d'una dama «ancor fa sonar la pronunzia de’ monti onde scese» {Poesie , ed.
Bellorini, I, pp. 269, 271).
Una moda franceseggiante di pronunziare la r con l’ugola e la u come ù è
biasimata da Carlo Gozzi (cfr. § 13).
5 II Regali, Dialogo del Fosso di Lucca e del Serchio, Lucca 1710, p. 42, raccosta
magnare all’oscillazione fra giungere e giugnere-, ma la provenienza di magnare è
certamente romanesca.
7 Della lingua toscana. Milano 1759, p. 6.
454
Stona della lingua italiana
sembravano «vive e prette»: cima, (di cavolo), cesto d, insalata, raspìo ,
tramenìo, schioppettìo, ecc. flett. ad A. Nicolim, gennaio 1763) 8 , e
dell’ Alfieri sappiamo quanto ammirasse e si sforzasse di imitare il
fiorentino e il senese parlato®. Ma quasi sempre le lodi o i biasimi al
toscano parlato vanno collegati all’uso che se ne può fare nella lingua
scritta, e a lodi o a biasimi dati al fiorentino trecentesco, al fiorentino di
Crusca 10
Nelle città e nelle campagne del Settentrione e del Mezzogiorno, si
parla di regola in dialetto 11 : e non soltanto i popolani (Balilla - seppure
esistè - gridò in genovese e non in italiano la sua frase di incitamento),
ma anche i borghesi e i nobili: solo eccezionalmente fin presenza, ad
es di forestieri) la lingua della conversazione è l’italiano venato di
dialetto 12 -, nelle occasioni più solenni (orazioni, prediche, arringhe e
simili) predomina l’italiano quale si scriverebbe 13 .
Non man ca tuttavia qualche notevole eccezione: nei tribunali
veristi le arringhe si fanno in Un veneto illustre, intermedio tra la
lingua e il dialetto 14 .
8 In Lettere filologiche, Venezia 1826, pp. 180-182.
9 Si pensi, oltre che al sonetto in cui dichiara che «al vago dir che 1 alma Flora
inonda, - e labro e penna ed anima volgea» (son. «Uom, che barbaro...», II, xxxixJ,
all’altro notissimo, a proposito del verbo ragnare, su madonna Nera («Che chavol
fate voi...», II, liv), oppure aUa testimonianza del suo segretario Francesco lassi:
«Aveva l’ Alfièri ottima pronunzia, parlava fiorentino volentieri... Quando 1 abate
Caluso veniva in Firenze, 1* Alfieri discorreva con lui talvolta in piemontese, ma
più spesso e volentieri in fiorentino, e molto si studiava di parerlo quanto alla
parlata» (G. Barbera, Memorie, p. 87). Il 5 ottobre 1786 egli scriveva all amico
Mario Bianchi per chiedergli segretario, cameriere e servitore senesi, per non
trovarsi attorno «altro che pezzi di vocabolario vivi» (Lettere, ed. 1903, cxxii).
10 Così per es. nel Salvini, passim.
11 E c’è già chi si rende conto del valore intrinseco di quest uso spontaneo: il
Parini in polemica con il p. Branda (Prose, I, p. 55 Bellorini) si lagna che
l’antagonista derida il dialetto (cfr. più oltre, § 9).
12 Cfr. più oltre il cenno sui dialettalismi (§19). _
13 Le prime lezioni universitarie, tenute volontariamente e regolarmente in
italiano, quelle del Genovesi (1764), erano lette (v. § 8 ).
14 L’Avvocato veneziano del Goldoni professa di voler arringare col suo
«veneto stil, secondo la pratica del nostro foro, che vai a dir col nostro nativo
idioma, che equival nella forza dei termini e dell’espressione ai piu colti e ai piu
puliti del mondo». E le Tre azioni criminali a difesa, di M. Barbaro, Venezia 1786,
ci danno una chiara idea di questo «veneto stil»-. « Correo , Compartecipe.
Provocatori ste parole che per parte del Fisco contesta principalmente elponto in
auestion, ste parole che ha formà el soggetto della disputa dellEccell. Sior
Avosador le me permetta, che le analizemo, che cerchemo cossa che le
significa...» (pp. 41-42). Vedi N. Vianello, in Lingua nostra, XVIII, 1957, pp. 68-73. Il
Galiani si lamentava che le condizioni a Napoli fossero diverse, e sperava che
potessero mutare: «Chi sa che un giorno il nostro dialetto non abbia a malzarsi
alla più inaspettata fortuna: difendersi in esso le cause, pronunciarvisi ì decreti,
promulgarvisi le leggi, scriversi gli annali e farsi infine tutto > quello che al
patriotico zelo de’ veneziani sul loro niente più armonioso dialetto è riuscito tu
fare?» (Del dialetto napoletano, p. 7 Nicolini).
Il Settecento
455
E anche i predicatori, se vogliono farsi intendere dai fedeli, debbono
tenersi fra la lingua e il dialetto 15 .
5. Scritti in versi e scritti in prosa
Si mantiene, in pratica e in teoria, una distinzione assai netta fra gli
scritti in versi e gli scritti in prosa, attraverso parecchie peculiarità
grammaticali, lessicali, stilistiche, ammissibili solo nell’ima o nell’altra
categoria: e i trattatisti considerano che questa distinzione sia una
dote cospicua dell’italiano, in confronto col francese che non ne ha
quasi traccia 18 .
I primi decenni sono dominati dall’Arcadia, la quale ha grande
importanza per i principii che essa propugnò: la reazione al secentismo
e quindi all’abuso dei traslati, il ritorno al canone dell’imitazione (dei
classici e del Petrarca), il culto della perizia formale; ma ancora più per
l’aver diffuso questo programma fra i letterati di tutta Italia introdu-
cendo la poesia nel costume sociale. Se non ne nacquero capolavori, ne
nacque un operare ben concertato, che giovò a ridurre le tendenze
particolaristiche.
Fiorisce ora la canzonetta, poesia di ben lieve consistenza, che però
con l’aiuto della musica può giungere fino al popolo. Nobilitata da
poeti di maggior respiro, la canzonetta si muterà in ode (e i versi
sdruccioli favoriranno l’adozione di latinismi).
Dopo il «rimbombo» del Frugoni e dei suoi seguaci, la poesia
diventa sempre più largamente «neoclassica», decorosa e ricca di
allusioni al mondo greco-romano (Savioli, Parini, poi Monti).
La reazione all’Arcadia scredita nel gusto generale alcuni fra i
moduli del suo armamentario poetico: certi luoghi comuni mitologici,
come le caste suore, il biondo Apollo, ecc. 17 , l’abuso di languidi
diminutivi 18 , e in genere tutte le pastorellerie 19 .
15 «Già secondo voi, o Becelli, i predicatori non deono in sì perfetta lingua
italiana favellare per non essere fraintesi dagli uditori...»: così uno degli
interlocutori del 3 a dialogo di G. C. Becelli (Se oggidì scrivendo si debba usare la
lingua Italiana del buon secolo, Verona 1737, p. 58) rinviando al 6 a libro della
Retorica dello stesso Becelli.
18 Valga per tutti il Parini: «ciò che chiamasi linguaggio poetico, per il quale la
lingua italiana si distingue cosi notabilmente dalle lingue moderne, e si aggua-
glia colle antiche greca e latina»: Corso di belle lettere, II, vi (in Prose, I, p. 299
Bellorini).
17 Baretti, Frusta, n. XIII: I, p. 351 Piccioni.
18 «È sciocca e ridicolosa... la presunzione di chi tutto il vezzo di vaga e
graziosa Poesia in altro consister non crede che nel mentovare... l'erbetta e
Yagnelletta, le quadretta e la pastorella» (G. B. Casti, col nome arcadico di Niceste
Abideno, nella prefazione a I tre giulj, Roma 1762, p. xn); «Oltre alle pecorelle che
pascono l’erbe tenerelle, voi venite via con le rugiadose stille, coi teneri agnellini»
ecc. (Baretti, Frusta, n. XXTV: II, p. 227 Piccioni).
19 La parola, com’è noto, è del Baretti di, p. 382 Piccioni).
450
Storia della lingua italiana
I verseggiatori descrittivi e didascalici oscillano fra un certo
realismo e il gusto delle perifrasi. Nella lirica politica qualche tocco
realistico si contempera con travestimenti classici 2 ®. E non di rado vi
appaiono, talora con desinenze italiane, ma per lo più nella forma
originaria, nomi stranieri 21 . . _ .
Le traduzioni in versi hanno un’importante funzione mediatrice-, più
ancora che quelle dalle lingue classiche 22 , quelle dalle lingue straniere.
Il Cesarotti ricorda quali sforzi dovette compiere per tradurre 1 canti di
Ossian:
senza un esempio che mi servisse di scorta, con una lingua feconda sì. ma
isterilita Anlla tirannide grammaticale, dovetti ricorrere ad imo schermo partico-
lare ed inventare scorci ed atteggiamenti di nuova specie 23 .
Il linguaggio teatrale del Maffei IMerope, 1714) presenta un lessico
poetico sostenuto eppur semplice. Questa semplificazione è massima
nei melodrammi del Metastasio: il vocabolario poetico è quello tradi-
zionale ma, allo scopo di riuscire intelligibile a un più vasto pubblico, il
poeta evita i vocaboli rari ed arcaici; le parole ancora hanno la loro
importanza, e non sono ridotte, come più tardi avverrà, a semplice
sostegno per la musica. Non dobbiamo dimenticare 1 immensa fortuna
che i melodrammi metastasiani ebbero per molto tempo-, ancor oggi
alcuni lacerti di strofette metastasiane rimangono nell uso comune .
ao dà del Codano ser f a del golfo di Finlandia) tocco le sponde
di velivoli abeti ecco le ingombra
il non pieghevol Mosco, orror del Trace,
ma, benché stampi il mar di minor ombra
non è lo Sveco di timor capace.
(C. C. Rezzonico, «Musa, le spiagge artoe...»
« «Nella succinta ed elegante stanza oraziana del Fan toni le dissonanze di
nomi francesi e inglesi - specie inglesi - crudamente allegati, stannoadattestare
con evidente civetteria, i diritti imprescindibili della realtà unmediataqualeci
viene da un mondo anticlassico per eccellenza, in seno a una poesia che ha
gravità d’intenti e classica intonazione. Al Fantoni servi la nomenclatura storica,
come ad altri Arcadi, Rezzonico della Torre e compagni, servì la peregrm
nomenclatura scientifica; come ai tanti autori, in quel tempo, di poemi didascali-
ci servì lo stretto tecnicismo di questa o quell arte; come al Panni, preoccupat
d'intenti civili e sociali, ma anche come principalissimo tra essi, della restaurarlo-
M SSSI.ura, serri, tari dogtì affettazione. aue
Carducci stesso ha in parte già documentato»-. De Lollis, Saggi forma poet., pp.
105 a Parecchie ne compiè il Salvini, indulgendo alla coniazione di innumerevoli
Par « E°n “DiSonario di Ossian (Opere, V, tomo IVI raccoglieva alcune lc^uzioni
più difficili, per lo più perifrastiche: le tempeste dell acciaro per «battaglie», le
figlie dell'arco per «cacciatrici» ecc.
« È la fede degli amanti
come l’Araba fenice:
Il Settecento
457
Agli antipodi del linguaggio armonioso e qualche volta vacuo dei
melodrammi del Metastasio è quello delle tragedie dell’Alfieri, denso,
scabro, spiccatamente individuale.
Nella prosa, avvertiamo anzitutto la minore importanza che hanno
in questo secolo le opere che aspirano alla bellezza formale in
confronto con le opere storiche, politiche, economiche, giuridiche,
naturalistiche: quelle insomma che mirano all’utilità sociale 25 : e si badi
che anche gli autori di queste opere si chiamano letterati.
Questa attività si svolge in tutta l’Italia-, ma con particolare
intensità nell’Italia settentrionale e a Napoli.
Il vacuo scintillare della prosa secentesca è abbandonato, ma c’è
chi mira al Trecento (come molti Napoletani, fra cui il Vico), chi al
Cinquecento (come il Muratori). Il Baretti, sempre estroso nella scelta e
nella coniazione delle parole, serba un sentore delle sue giovanili
esercitazioni bernesche.
In tutti si fa sentire, man mano che ci si inoltra nel ' secolo,
l’influenza francese; anche quelli che se ne vorrebbero difendere
riescono magari a evitare i francesismi lessicali, ma accolgono i periodi
brevi e la costruzione diretta.
Sintomatico è il caso dell’Algarotti, sensibilissimo alla spinta delle
mode: attraverso le sue stesse dichiarazioni e attraverso le tre stesure
del Newtonianismo vediamo le varie fasi attraverso cui passò: allievo
dapprima dei cinquecentisti, poi sedotto «dalla disinvoltura oltramon-
tana e dal fantastico degli oltremarini» 26 , più tardi diventato «sollecito
della proprietà» studiando i trecentisti (ivi), ma insomma sempre
fautore del principio che «chi dice... delle cose utili e buone alla civile
società, può fare senza le belle parole» 27 .
Alla fine del secolo predominano ormai i colori preromantici.
La storiografìa va diventando opera di erudizione anziché esercizio
oratorio: basti ricordare il nome del Muratori. E abbondano le opere
antiquarie, e in genere, di erudizione.
La lingua forense è di solito assai barbara, per abbondanza di
dove sia nessun lo sa.
( Demetrio , II, se. 3)
Passò quel tempo, Enea,
che Dido a te pensò.
(Didone abbandonata, II, se. 4)
Se a ciascun l’interno affanno
si leggesse in fronte scritto,
quanti mai che invidia fanno
ci farebbero pietà.
(.Giuseppe riconosciuto, parte I)
25 «Sono oggimai mancati quei pochi che qui facevan professione di seguitar
le Muse... Tutto ci è diventato politica e filosofia»: così una lettera del Parini del
1768 (Prose , II, p. 161 Bellorini). .
26 Lettera a F. M. Zanotti, 10 die. 1752, in Opere, IX, 251 (e in Lettere filol., cit., pp.
116-117).
27 Lettera a Antonio Zanon, in Lettere filol., cit., p. 186.
458
Storia della lingua italiana
latinismi e di termini tecnici e per complicatezza di subordinazione* 8 ;
collegata com’è con le consuetudini e le legislazioni dei singoli stati,
presenta notevoli varietà di termini nei diversi luoghi 2 *.
Un nuovo campo di attività è quello dell’economia; negli scrittori di
questa disciplina è sensibile lo sforzo per superare la lingua tradiziona-
le, con i suoi periodi complessi e il suo lessico generico, mirando a un
linguaggio concreto e preciso, piano e accessibile 30 .
Si scrive largamente di ogni genere di scienza e d’ogni ramo di
tecnica, con concreta aderenza alle mille cose di cui si tratta. I
naturalisti mirano alla semplicità e alla intelligibilità, lasciando da
parte le «pompose descrizioni e le frasi ricercate e turgide» 31 . D’altron-
de, il linguaggio scientifico non ha ancora quella concisione a cui
giungerà più tardi 32 , né è così staccato dal linguaggio letterario da non
permettersi alcune eleganze 33 .
Il Vallisnieri, il Cocchi, lo Spallanzani hanno pagine di prosa
scientifica scritte con gusto d’arte. I tre eleganti dialoghi di F. M.
Zanotti Della forza dei corpi che chiamano viva (Bologna 1752) si
ricollegano alla tradizione dei dialoghi galileiani, mentre il Newtoniani-
smo dell’Algarotti si richiama piuttosto al Fontenelle.
La co mm edia ha scarso vigore: e la causa ne sta soprattutto nella
mancanza di una lingua della conversazione valida per tutta l'Italia
23 Valga come esempio un passo in linguaggio curiale napoletano del 1717:
«fare la causa prò ut de jure con processo e recognitione del carattere di detto
biglietto, usque ad sententiam diffinitivam inclusive, precedenti le trine pubbli-
che citazioni ad comparendum» ( Critica , XXXV, p. 472). Nel Dialogo fra un
Mandarino chinese e un sollecitatore di P. Verri (nel Caffè, tomo II, p. 39), il
Sollecitatore si esprime così: «Questi due punti brocardici sono: il primo per
vedere se il maschio dalla femmina debba essere preferito nel fedecommesso in
concorrenza d’un estraneo; l’altro è per fare la graduazione d’un concorso fra i
chirografari e gl’istromentari, e distinguere la poziorità, e liquidare le doti e i beni
vincolati...»; e il Mandarino non capisce.
29 Mentre, come abbiamo visto, nel fòro veneto le arringhe si tenevano in
veneto illustre, le sentenze sono in italiano, naturalmente con qualche termine
speciale: nelTAwocato veneziano del Goldoni la sentenza è di questo tenore:
«Omissis etc. Consideratis considerandis etc. Decretò e sentenziò, e decretando e
sentenziando tagliò, revocò e dichiarò nulla la donazione fatta dal fu Domino
Anseimo Aretuso a favore di Domina Rosaura Balanzoni...».
30 A. M. Finoli, «Osservazioni sulla lingua degli economisti italiani del
Settecento», in Lingua nostra. Vili, 1947, pp. 108-112.
31 G. Santi, Viaggio per le due provincia senesi, Pisa 1798, pp. 4-5 (cit. da F.
Rodolico, La Toscana descritta dai naturalisti del Settecento, Firenze 1945, p. 11).
22 «In questo mese (agosto 17781 il caldo è stato grandissimo... e nel 18 fu il
maggiore, essendo asceso lo spirito di vino nel termometro di Reaumur a gradi
31 ‘A sopra il segno del gelo»: G. L. Tilli (ap. F. Rodolico, La Toscana, cit., p. 213).
33 «Pare che il confine posto dalla natura alla pietra, sia anche quello
prescritto dall’arte a una piena ed estesa regolare coltivazione. Tutto infatti
verso Trespiano è nel più florido stato di cultura; non vi è angolo di terreno, che a
Cerere, a Bacco, a Pomona non sia consacrato»: V. Chiarugi, «Osservazioni
georgiche», in Atti Acc. Georgofili, V, 1798 (ap. F. Rodolico, La Toscana, cit., p. 129).
Il Settecento
459
tefr. § 4). Le commedie del Fagiuoli, del Gigli, del Nelli hanno il solo
pregio della toscanità; a quelle del Goldoni manca - diversamente che
nelle sue commedie in dialetto - la spontaneità. Nella prefazione alla
prima raccolta delle sue commedie (1750) egli afferma di non essersi
fatto «scrupolo d’usar, molte frasi e voci Lombarde» (= italiane
settentrionali) «ad intelligenza anche della plebe più bassa» delle città
settentrionali in cui si dovevano rappresentare; quanto allo stile ha
cercato che fosse «qual si conviene alla Commedia, vale a dire
semplice, naturale, non accademico ed elevato» a, p. 773 ed. Mondado-
ri). Malgrado 1 affiorare di molti dialettalismi 31 e di forme letterarie rare
e pedantesche 35 , egli riesce a infondere anche nelle commedie il suo
mirabile senso del «parlato» 30 .
Le traduzioni dal francese sono innumerevoli e per quantità supera-
no di gran lunga quelle da qualunque altra lingua. Ve ne sono di ogni
genere, dalla letteratura amena ai testi di scienza, e certo contribuirono
molto a divulgare costrutti e vocaboli di provenienza francese.
6. Discussioni sulla norma linguistica
L’elaborazione di un nuovo gusto linguistico generale è estrema-
mente faticosa, né quegli stessi che disputano intorno alla norma
linguistica si rendono sempre conto dei-carattere ideale di essa norma 37
e dell ampiezza dei mutamenti che si vengono preparando.
Fermiamoci un momento a indicare i punti su cui più si discusse 38 .
La disputa principale è tra i fautori e gli avversari dello «scriver
toscano» (cioè del toscano trecentesco, quale si presentava principal-
mente nel Boccaccio ed era codificato nel Vocabolario della Crusca,
uscito intanto nella sua quarta edizione, 1729-1738).
Malgrado l’azione restauratrice dell’Arcadia in favore del principio
34 P. es.: «a poco a poco si andò smarrindo » flett. 2 maggio 1752), «non posso
vedere; a penar nessuno» Unnam., I, 2); ecc.
* * >er es - *J a dispiacenza che in casa mia originata siasi rinfermità del
vostro cuore» (Un curioso accidente, I, se. 8); «Non mi eccitaste voi a ritornar daUa
zia, dicendomi che colà sarebbesi introdotto il signor tenente?» (ivi IH S c 5>
«Dove mai saranno eglino andati?» (Pamela mar., II, sc. 8); «Vadasi a precipitar
quest indegni» (ivi. III, sc. 6); «Vi tomo a dire che io non amo donna veruna» (Il
bugiardo I, se. 7); «un fazzoletto di seta, che era l’unico mobile che m’era restato»
Ut poeta fanatico, I, sc. 8); ecc.
o ?» ^°^ ena ’ es P er i® nza linguistica di C. Goldoni», in Lettere ital., X, 1958,
PP* 21*54. *
31 Importante, a questo riguardo, un passo del Parini: «da lingua nobile
comune italiana! è deposta... nel complesso delle buone scritture; essa adunque
nella sua essenza, non depende più punto dall’arbitrio del popolo: ella è fìssa, ella
e, per questa parte, della natura di quelle che chiamansi ‘morte’» ( Corso di belle
lettere, parte II, cap. vi).
Si consulterà utilmente la ricca antologia di Discussioni linguistiche del
Settecento curata da M. Puppo, Torino 1957 .
460
Storia della lingua italiana
di imit azi one, molti si domandano perché l’imitazione debba volgersi a
scrittori così remoti e disformi dal gusto dominante fi toscanismo
interessa per due aspetti, quello lessicale (gli arcaismi dei duecentisti e
trecentisti e la possibilità di adoperarli ancora) e quello smtattico
(complessità e lunghezza dei periodi, ordine mverso spesso seguito dai
tfe Altro punto molto controverso è quello dei francesismi. Si parte da
uno stato di fatto, che è la fortissima penetrazione nell uso comune
(parlato e scritto) di forme e costrutti francesi. Contro questo consenso,
assai largo e non ragionato, muovono, alcuni valentuommi: non v è,
invece si può dire, chi prenda esplicitamente posizione in difesa dei
francesismi. Ma i risultati definitivi furono in complesso contrari ai
^'Nell’Italia meridionale, la scuola di Lionardo di Capua, a Napoli,
aveva suscitato un largo movimento filotoscano. In conseguenza di
esso narra il Galiani 39 , «fu risoluto abbracciar con fervore, non già il
comune italiano, ma il pretto stringato idiotismo toscano...; tutti si
dettero a rivoltar vocabolari, grammatiche, regole di ben Parlare
toscano». A questa corrente si devono il trattato di Niccolò Amenta,
Della lingua nobile toscana, Napoli 1724 46 e la ristampa di alcuni autori
trecenteschi e degli Avvertimenti del Salviati (Napoli 1712); ad essa si
deve anche una forte spinta all' atteggiamento che Giambattista Vico
ebbe verso il Trecento 41 . «L’eruditissimo signor Lionardo da Capova
dice il Vico (Autobiografia , p. 21) - avea rimessa la buona faveUa
toscana in prosa, vestita tutta di grazia e di leggiadria...*. Nella
«necessità» che egli sentiva «di farsi una spezie di favellare sua
propria» (Autobiogr ., p. 227) il Vico ricorre studiatamente, oltre che ai
latinismi, alle voci trecentesche quali parole dell età «eroica» della
lingua «Di qui il carattere particolare del purismo vicinano, che non è
soltanto il purismo di L. di Capua e di N. Amenta, ma il purismo di uno
spirito rivolto al passato e desideroso di serbarne nella sua pagina la
voce» 42 . Di qui l’uso di parole arcaiche come appellagione, assemprare ,
avacciare, avolio, calogna, calognare, danaio, negghienza, ecc.; di qui le
correzioni che il Vico fece nella Scienza nuova, prima e che passarono
poi nelle successive: egli muta anatomia in notomia, delicato m
dilicato magistrato in maestrato, proprio in propio ecc. .
Questa studiata ricerca di flosculi trecenteschi non andava a gemo
a un cruscante come A. M. Salvini, il quale si lagna di alcuni
38 Del dialetto napoletano, ed. F. Nicolini, Napoli 1923, pp. 197-198 (si tengano
presenti le ricche note). »...
40 Niccolò alla toscana, si noti, non Nicola.
« Fra i dotti napoletani di quegli anni, si nbeUava mvece alla Cmsca il
Giannone come si ricava da un libretto di Osservazioni Ccfr. Clan, m Bibl. delle
scuole italiane, agosto-sett. 1900).
42 M Fubini, Stile e umanità di Giambattista Vico, Ban 1946, p. 122.
43 Scienza nuova prima, ed. F. Nicolini, pp. 333-334, Fubini, op. at, pp. 122-123.
Il Settecento
461
Napolitani del suo tempo che «vorrebbero la Lingua Toscana, Lingua
morta, per non avere la pena di studiare, se non i Libri d’un solo
secolo», senza considerare che l’affettazione è sempre vizio; e che
«Sallustio fu criticato come affettatore di voci antiche» 44 .
In Toscana stessa i lucchesi D. A Leonardi e M. Regali, nel Dialogo
dell’Amo e del Serchio e nel Dialogo del Fosso di Lucca e del Serchìo,
Lucca 1710, disputavano sull’autorità della Crusca intorno a vari punti
di ortografia (pruova, esercizzi, giugnere, ecc.); e un Senese litigioso e
bizzarro, Girolamo Gigli, moveva in guerra contro la Crusca con il suo
Vocabolario Cateriniano (1717 segg.). Egli accusava l’Accademia, che
aveva accolto tante voci fiorentine antiche, di aver invece trascurato
affatto le opere di S. Caterina da Siena, pure includendola ira gli autori
citati 45 .
Nell’Italia settentrionale, il veronese G. C. Becelli precorre il Cesari
domandandosi in cinque dialoghi Se oggidì scrivendo si debba usare la
lingua italiana del buon secolo (Verona 1737), e conclude che «quasi-
mente tutti al dì d’oggi nelle rime imitano la lingua de’ maggiori nostri;
dunque si dee altresì nelle prose la lingua de’ maggiori nostri imitare».
In quell’anno stesso, un avvocato veneziano, G. A. Querini, ci
testimonia che «il Secolo, com’è delicato nel lusso, così lo è anche nelle
lettere-, vuol Crusca, vuol stile, vuol quel che mal sa di volere» 46 .
Satireggia questa voga la scipitissima tragicommedia attribuita a
B. Marcello, Il Toscanismo e la Crusca (Venezia 1739), la quale mette in
scena Cruscanzio, Seicentuccio, Neutralio e Anticrusco, che rivaleggia-
no per ottenere la mano di Cruschetta figlia di ser Toscanismo: il
simulacro del Boccaccio finisce poi col dar ragione a Neutralio... 47 .
Altri coltivano piuttosto i cinquecentisti: secondo ima lettera dell’ Al-
garotti (15 maggio 1747) «quella divozione che era una volta nelle classi
di filosofia verso Aristotele, pare che sia presentemente passata nelle
classi di grammatica e di rettorica verso il Bembo e quella scuola».
In parecchie lettere ad amici l’ Algarotti si sofferma sulle tendenze a
cui egli medesimo obbedì, e che si rispecchiano nelle tre redazioni del
Newtonianismo (cfr. p. 457). Rispetto alla Crusca, il suo atteggiamento
rimase sempre sostanzialmente ostile, come si può vedere da molte
allusioni delle sue lettere 48 .
44 L. A. Muratori, Della perfetta poesia, Annot. di A. M. Salvini, Venezia 1730,
II, p. 136.
45 Migliorini, in Lingua nostra. II, 1940, pp. 73-80 (rist. in Lingua e cultura, pp.
167-189).
46 G. A. Querini, Il foro all’esame, Venezia 1737, Prefazione.
47 II Goldoni nel Torquato Tasso (1755) mette in scena un Cavalier del Fiocco
cruscante che imperversa con locuzioni fiorentine (far celia, tornare a bomba ) e
con voci arcaiche (per es. utole «utile»); nella prima redazione dell’/mp resario
delle Smime (1760) ima certa Lucrezia affetta espressioni fiorentine che vengono
spiegate (c’è di nuovo celiai.
48 V. specialmente quella a F. M. Zanotti del 2 marzo 1764 (.Opere, X, pp. 203-
220; anche in Lettere filol., pp. 204-217).
462 Storia della lingua italiana
Anche l’oratoria forense e quella ecclesiastica andavano volentieri
a cercar fronzoli nei Toscani del Trecento e del Cinquecento.
Il Baretti fletterà a C. A. Tanzi del 19 aprile 1758) attribuisce il
toscaneggiare di alcuni ecclesiastici alla loro vanità: «Non senti tu que’
loro vocaboli cruscantissixni? quelle loro frasi cinquecentesche? que’
loro bei periodi alla certaldese?». Si senta come satireggia il Bettinelli
tali predicatori:
Altri, la guancia
polita sempre e sempre crespo il crine
leggiadramente in numero comparte
l’intinte in Arno parolette accorte 49 ;
e più severamente il Mascheroni:
Altri ha studiato in un decennio intero
chi ha molta feccia in pure frasi accolta,
di Certaldo e d’Etruria onor primiero;
e fa di fiorentin motti raccolta,
e 1 pan celeste adulterando incrusca
all’orrevol brigata, che l’ascolta.
Ammiro la leggiadra lingua etnisca;
biasimo quel noioso infrascamento
che ogni pensier d’ignote frasi offusca.
Il gran Vocabolario ogni momento
squadernar converria per risapere
del Vangelo che corre il sentimento 30 .
Il milanese p. Onofrio Branda, nel dialogo Della lingua toscana
(Milano 1759), dopo aver lodato l’uso vivo toscano (cfr. la citazione a p.
453), proclama la necessità di evitare gli arcaismi, e sceglie a modello
per la prosa due cinquecentisti assai vicini all’uso vivo: il Casa e il
Caro 51 .
Ma l’opposizione più radicale al culto del Trecento e alla Crusca
proviene dal gruppo illuministico milanese. Alessandro Verri fa nel
Caffè (luglio 1764) la sua «solenne rinunzia alla pretesa purezza della
toscana favella » dichiarando la sua ostilità ai «riboboli noiosissimi»
(tomo I, pp. 30-31F; e altri articoli suoi ed altrui gli fanno eco 53 .
49 Versi sciolti di tre eccellenti autori, Venezia 1758, poemetto IX. Altrove (nelle
Raccolte, c. II, st. 60-61) il Bettinelli se la prende con quelli che danteggiano (v. § 18).
50 Nel sermone Sopra la falsa eloquenza del pulpito, 1779, v. 175 segg.
51 La lunga polemica che il dialogo suscitò (e a cui partecipò, come si sa, il
Parini) fu principalmente dovuta all’ostilità manifestata dal Branda verso i
dialetti, specialmente il milanese. Cfr. G. Salinari, «Una polemica linguistica a
Milano nel sec. XVIII», in Cult, neol., IV-V, 1944-45, pp. 61-92.
52 II titolo dell’articolo è Rinunzia avanti Nodaro degli Autori del presente
Foglio periodico al vocabolario della Crusca (nell’errata corrige del tomo I Nodaro
è corretto in Notaio).
53 Tuttavia in una lettera del 1768 manifestava una certa resipiscenza-, «se il
Il Settecento
463
rill JV I Q tro , fier ° oppositore è Giuseppe Baretti, in vari dei suoi scritti su
quefla che dovrebb’essere la norma della lingua 54 II suo S
• S ^° n ì Sl ^H e a ^T e europee che conosceva, l’influenza dei suoi
non si *
letteraria * H n el°f«?to CÌ ^ ent °i, della essenziale toscanità della lingua
- . r f na ’ •? ., fatto che a Firenze si parli un dialetto più elefante *
sSivono^ì t\r° n v 8U *f e ? sce di biasimare i Hor?ìtiS |Sn d o
’ , e d 1 scagliare alla Crusca frecce non meno acute di omelie
che a piu riprese scaglia all’Arcadia; Secondo il Baretti il Vocabolario
1? io™ ^«stomachevoli vocaboli e modi di dire, parte tratti da mo7S
di Ffren^ffrS 8 n°XVIIh etÌ ’ ® P u rte raCColti ne ’ chiassi e lupanari
; ^ n ’ XVIIIJ ; e sso ha una vacua ricchezza di narrile
o sconcS^ha^troOS^vSaboli 6 ^ 0 V S i ’ ?- troppo specificamente locali,
.. . ’ a troppi vocaboli duphcati o magari triDlicati Crome
Abadessa abadessa, badessa). La Crusca ha il torto di mescili
bocche^aSOlle^nt- 010 ^ paroluzza che es ce attualmente dalle
tenti mo ^ d . ge tl ’ ma smo og m minimo ette trovato in que’ loro
tanti meschinissimi scrittorelli». E l’ammirazione che n™ „ °
va I 0t,e CCa r emÌCÌ hanno Pestata al Boccaccio ha avuto per conseguen-
Sè* S s S, SUa ?° lpa ? erò - è s,ato la rovHTdetaSa
a nana, anzi è stato la cagione prunana che l’Italia non ha ancore uno
togua buona ed universale»: «l’artificiale carat&re SS Sel BocSS
eoe di altri antichi scrittori fa sì «che non v’è stato e non vi sarà modo
n. XXV) leggere uruversalmen te e con piacere al nostro popolo» [Frusta,
R P Baretti motiva in vario modo il fatto da lui tanto rimproverato al
ne’ wfr? 6 ^t^ antichi, di «non seguire l’ordine naturale delle idee
lingua ticanàl 1 Sri )* IV \? ra ne dà la col P a afl’«indole della
ungua toscana» (ivi), ora, piu correttamente, all’influenza latina 56
2 C pe£%Tn?o eÌ C n h e e U n ° n traduce , sse mio la Rinuncia
cattivo tonò, e beerebbe pSgarie ^Produzioni tutte regna un
Ìnq - e sfvSa UCÌtà ' ^ ^ traspare» [Carteggio I n p 2 ^°™ ® da ma CGrta
n. XVIII 57 - 6 B P^Hnnn la If*?? al «Signor Filologo Etrusco» neUa Frusta,
nell’Accademia della Crusca il % elio * ce] ? a Aristarco Scannabue da recitarsi
XXV ai dd jy 30 * 1 adl che sarà ricevuto accademico», nella Frusta n
v ui. pp. 252-262). Cfr. anche, sugli arcaismi, il § 18 ’
comporre opereTMoTtr^^' P^icolare quando si fanno a
della provincia loro tnL Gibbóne SS ln , questo o m queU’altro dialetto
PkSonD. C ° Sa dÌ PÌÙ ° he n0n t0SCan ° ° fìoren ttao» e tfre/^Fonie potm°?L d p S iII
ZSfc'SSZZ'JttSSX
464
Storia della lingua italiana
Il Settecento
465
Al toscano parlato, al «bell’idioma», si era volto l’ Alfieri fin dal 1776
nella sua strenua ricerca tecnica per avvezzarsi «a parlare, udire,
pensare e sognare in toscano» (Vita, IV, 2); e alternò letture di classici e
osservazioni sulla lingua viva 57 .
Quasi tre anni dopo il decreto di Pietro Leopoldo che aboliva
l’Accademia della Crusca (v. § 7), l’ Alfieri componeva a Colmar, il 18
marzo 1786, il noto sonetto:
L’idioma gentil sonante e puro,
per cui d’oro le arene Amo volgea,
orfano or giace, afflitto, e mal sicuro-,
privo di chi il più bel fior ne cogliea.
Boreal scettro, inesorabil, duro,
sua madre spegne; e una madrigna crea
che illegittimo ornai farallo e oscuro,
quanto già ricco l’altra e chiaro il fea.
L’antica madre, è ver, d’inerzia ingombra,
ebbe molti anni l’arti sue neglette:
ma per lei stava del gran nome l’ombra.
Italia, a quai ti mena infami strette
il non esser dai Goti appien disgombra!
Ti son le ignude voci anco interdette!
Non si può dire che il sonetto contenga un’accettazione del punto di
vista dei Cruscanti 58 , bensì un accorato rimpianto per un nobile edificio
vandalicamente demolito.
L’antirigorismo trova il suo più tipico rappresentante in Melchior
Cesarotti. Nel 1785 uscì a Padova un trattatello saldamente concepito
che ebbe larga eco, il Saggio sopra la lingua italiana, ristampato poi
nel 1800 con il nuovo titolo di Saggio sulla filosofia delle lingue e
1’aggiunta di alcune note.
Il trattato, breve e concettoso, mirava soprattutto a rompere certi
vieti pregiudizi e a rendere la lingua «saggiamente libera». Il primo e il
secondo libro costituiscono un trattatello di linguistica generale-, nel
terzo l’autore considera più dawicino le condizioni italiane. «La lingua
scritta - egli dice (III, 3, 4) - dee considerarsi come il dialetto particolare
d’una nazione non ristretta a veruna città, ma diffusa per ogni parte
d’Italia, nazione composta dal fiore degli uomini colti delle diverse
provincie, che si regge a repubblica, che ha per tutto gli stessi principi
regolativi, e la di cui libertà non riconosce altri vincoli che quelli della
ragione». «L’uso fa legge, qualunque siasi, quando sia universale e
comune agli scrittori e al popolo..; Ma se una nazione separata in
diverse provincie, senza ima capitale ch’eserciti veruna giurisdizione
monarchica sopra le altre, avrà un dialetto principale e una lingua
comune, l’uso anche generale del dialetto primario non potrà dirsi
57 V. gli Appunti di lingua pubblicati da C. Jannaco, Torino 1940.
“ E del resto, nella satira «I pedanti», l’Alfieri deride Don Buratto: «Ed io gliel
dico, che il verbo vagire - non è di Crusca...».
autorizzato dal consenso della nazione, e accolto nella lingua comune»
fili, il, 1).
Dimostrato che l’Italia deve «affrancarsi per sempre dalla gabella
delle parole bollate come gl’insurgenti d’America si affrancarono da
quella della carta» (IV, 13), e quindi rifiutare l’ossequio al Vocabolario
della Crusca, finisce col proporre un Consiglio nazionale della lingua,
in cui all’Accademia fiorentina si affianchino dei Consigli provinciali, e
tutti insieme risolvano le questioni attinenti alla lingua, per «depurare
e accrescere l’erario di essa e mantenerla in imo stato di giudiziosa
libertà e di sana e florida vitalità»; Si sarebbe dovuto compilare un
grande vocabolario fondato su nuovi principii. Fra l’altro, ove si fosse
osservata la mancanza di un vocabolo per esprimere un dato concetto,
si sarebbe dovuto scegliere tra i vari termini dialettali «il più chiaro, il
più comune, il meglio dedotto, il più espressivo, il più conveniente».
Fu osservato che così si tornava a un’altra «gabella», se pur più
ragionevole e moderata. Ma è anche vero che fin che non si fosse
formato naturalmente, in tutta l’Italia, un uso linguistico vivo, era bene
cercare di promuoverlo, sia pure per via accademica.
Le maggiori critiche vennero al Cesarotti per il suo atteggiamento
rispetto al francesismo. Benché a più riprese egli si pronunzi contro
l’afflusso di tanti francesismi mutili, benché egli trovi che il seguir
troppo dawicino il gusto francese nella costruzione diretta dei periodi
rende la lingua soverchiamente logica 58 , pure l’illustrazione dei princi-
pii secondo i quali un popolo che riceve da un altro alimenti di pensiero
ne riceve anche parole, sembrò un’approvazione data a ogni licenza 60 .
Contro il Cesarotti è principalmente rivolto il trattato Dell’uso e dei
pregi della lingua italiana (Torino 1791) del conte Gianfrancesco
Galeani Napione, il più noto tra i letterati che partecipavano alle due
Accademie torinesi dette la Sampaolina e la Filopatria 81 . L’opera è
principalmente rivolta a far adoperare Vitaliano in luogo del latino e
del francese per tutti quanti gli usi: ma non vi mancano considerazioni
sia contro il lassismo del Cesarotti, sia contro l’Accademia della
Crusca, che «si pretese di esercitare la più dura tirannide che mai si
fosse».
Altro fiero avversario del lassismo è Carlo Gozzi, il quale aveva
fondato l’Accademia serio faceta dei Grahelleschi per «tener fermo lo
studio in su gli antichi maestri, ferma la semplicità e l’armonia
seduttrice dell’eloquenza sensata, e ferma scrupolosamente la purità
del nostro litterale linguaggio» 62 . Queste sono le idee fondamentali
50 Tuttavia il Cesarotti è anche più severo contro le trasposizioni di tipo
boccaccesco (cfr. Viscardi, art. cit., p. 214).
60 II Saggio va integrato con i Rischiaramenti apologetici e con la lettera al
Napione (Opere, I, pp. 158-197 Ortolani).
61 Sull’attività filologica delle due accademie, v. C. Calcaterra, Il nostro
immininente Risorgimento, Torino 1935, pp. 447-519.
“ Memorie inutili, parte I, c. xxxin.
466 Stona della lingua italiana
della sua Chiacchiera intorno alla lingua litterale italiana e dei
Ragionamenti sopra una causa perduta, che rimasero a suo tempo
inediti 63 .
Sulle polemiche suscitate dall’irruzione dei gallicismi, ci soffermere-
mo più oltre (§ 10). Queste discussioni sulla norma da tenere in fatto di
lingua (toscanismo e antitoscanismo, simpatia o antipatia verso l’arcai-
smo, rigorismo o lassismo nell’accogliere termini nuovi, specialmente
francesi, ecc.) naturalmente non si presentano sole, ma legate a
problemi stilistici (Arcadia e Antiarcadia, frugonianismo o no) e
culturali (espandersi delle scienze e nascita di nuovi termini scientifici);
ma in sos tanz a le dispute ci rivelano quanto profondi erano i dissensi
fra quelli che erano meglio in grado di riflettere sul passato e l’avvenire
della lingua italiana, quanto grave insomma era la crisi di essa.
7. Grammatici e lessicografi
I grammatici e i lessicografi, per lo più legati a concezioni rigida-
mente conservatrici, presentano assai scarse novità.
In mezzo a numerose compilazioni trascurabili notiamo le due
grammatiche di Girolamo Gigli, l’anticruscante: Regole per la toscana
favella, Roma 1721, e Lezioni di lingua toscana, Venezia 1724, la prima
in forma di dialogo, seguita da alcuni esercizi in cui sono corrette le
espressioni errate o discutibili, e da un repertorio ortofonico, la
seconda in forma di trattato, con i medesimi esercizi. I due volumi di N.
Amenta, Della lingua nobile d’Italia, Napoli 1723-24, discutono minuta-
mente problemi grammaticali e lessicali, con principale riguardo al
fiorentino trecentesco. D. M. Manni tratta di molti punti grammaticali
e retorici controversi (con discussioni su passi di scrittori, lezioni di
codici e di edizioni) nelle Lezioni di lingua toscana, Firenze 1737 (3 a ed.
rinnovata, Lucca 1773).
La grammatica descrittiva che ebbe maggior fortuna fu quella del
p. S. Corticelli, Regole ed osservazioni di lingua toscana ridotte a
metodo, Bologna 1745.
Poi, specialmente per influenza di Port-Royal e dei sensisti 64 ,
incomincia la voga delle grammatiche ragionate: ricordiamo quella del
p. F. Soave, Grammatica ragionata della lingua italiana, Parma 1770, e,
con insistenza ancor maggiore sui rapporti fra grammatica e logica,
quella dell’ab. I. Valdastri, Corso teoretico di Logica e Lingua italiana,
Guastalla 1783 M .
“ V. l'ed. di N. Vaccalluzzo, Livorno 1933, e cfr. A. Accame Bobbio, «C. Gozzi e
la polemica su la lingua italiana», in Convivium, 1951, pp. 31-58.
M È l’età in cui l'algebra è considerata modello delle lingue: «nous raisonnons
avec des mots comme nous calculons avec des chiffres, et les langues sont pour
les peuples ce qu’est l’algèbre pour les géomètres» (Condillac, discorso prelimina-
re al Cours d'études ).
65 Per notizie più minute si veda C. Trabalza, Storia gramm., capp. XI-XIV.
Il Settecento 467
Al centro dell’attività lessicografica è tuttora l’Accademia della
Crusca, benché la sua autorità, come s’è visto, sia contestata da molti.
La quarta edizione uscì in Firenze in sei volumi, dal 1729 al 1738: vi
avevano lavorato principalmente A. M. Salvini (che cita assai larga-
mente esempi tratti dalle sue proprie opere), Giuseppe Averani,
Giovanni Bottari, Domenico Maria Manni e molti altri, servendosi
anche di spogli del Redi e del Cionacci. Fu allargata la serie degli
autori citati, divisi in due classi (quelli del buon secolo, e quelli allegati
per aggiunta o per conferma); molte definizioni furono migliorate.
L’uscita della nuova edizione rinfocolò le dispute fra partigiani e
avversari. Fu più volte ristampata (non so se mai recitata, perché mi
pare impossibile che regga sulla scena) la tragicommedia attribuita a
B. Marcello, Il Toscanismo e la Crusca o sia II Cruscante impazzito,
Venezia 1739 (v. p. 461). Il p. G. P. Bergantini iniziò, quasi in gara con
l’Accademia, spogli copiosissimi. Rimase in tronco il suo immenso
repertorio Della volgare elocuzione, essendone uscito solo il primo
volume con le lettere A e B (Venezia 1740). Una certa utilità, benché le
citazioni siano troppo sommarie, hanno anche le altre sue raccolte:
Voci italiane d’autori approvati dalla Crusca nel Vocabolario d’essa non
registrate, con altre molte appartenenti per lo più ad arti e scienze,
Venezia 1745; Voci scoperte e difficoltà incontrate sul Vocabolario
ultimo della Crusca, Venezia 1758; Raccolta di tutte le voci scoperte sul
Vocabolario ultimo della Crusca, Venezia 1760; Scelta d’immagini o
saggio d'imitazione di concetti, Venezia 1762.
La Crusca stessa pensava a una nuova edizione, ma ancora
rimanendo molto attaccata al suo tipo tradizionale-, nel 1741 Rossanto-
nio Martini teneva un Ragionamento... per norma di una nuova
edizione del Vocabolario toscano (stampato più tardi, Firenze 1813). Si
fecero anche ristampe non ufficiali del Vocabolario, con un piccolo
numero di giunte, a Napoli (1746-48) 66 e a Venezia (1763).
Poi le voci dei malcontenti finirono con l’avere il sopravvento, e
Pietro Leopoldo il 7 luglio 1783 soppresse l’autonomia dell’Accademia
della Crusca, fondendola con l’Accademia Fiorentina e con quella degli
Apatisti, sotto l’unico nome di Accademia Fiorentina 87 . L’ab. Giulio
Perini, vicesegretario, nel discorso inaugurale inneggiava alla «nuova
libertà», e neH’anno seguente il :p. Ildefonso Frediani presentava un
Piano... per la nuova compilazione del Vocabolario “, in cui proponeva
di far larga parte alle voci tecniche, mentre dei barbarismi si sarebbe
semplicemente compilata una tavola, indicando le equivalenti «voci
buone». Nel 1786 gli Accademici a ciò deputati scelsero parecchi
66 Cfr. anche la Giunta di vocaboli raccolta dalle opere degli autori approvati
dall’Accademia della Crusca, (Napoli) 1751.
67 Si veda il testo del motuproprio di P. Leopoldo in Atti Acc. Crusca. 1909-10,
pp. 73-75.
“ Anch’esso pubblicato solo più tardi (Firenze 1813).
468
Storia della lingua italiana
scrittori da spogliare per la futura ristampa®. Ma il progetto non ebbe
alcun séguito.
Invece un privato, l’abate nizzardo Francesco D’Alberti di Villanuo-
va, che già aveva tradotto dal francese il Dictionnaire du citoyen di H.
Lacombe de Prezel, Parigi 1761 (Dizionario del cittadino, Nizza 1763,
più volte rist.) 70 e compilato un ampio dizionario francese-italiano e
viceversa (1772, molte volte rist.), riusciva a portare a compimento,
benché non a vedere interamente edito prima della sua morte, un
Dizionario universale critico-enciclopedico (Lucca 1797-1805). Gli spogli
nuovi sono molti, ma le citazioni sono non di rado inesatte e incomple-
te. Sono anche incluse numerose voci dell’uso, senza attestazioni di
scrittori. La maggior novità consiste nella larga inclusione delle voci
scientifiche e di arti e mestieri: il D’Alberti aveva percorso la Toscana
intrattenendosi con artieri e maestranze; e così il suo è il primo grande
vocabolario italiano che rimedii alle lacune della Crusca in questi
campi del lessico.
Molti già si erano lamentati della mancanza di vocabolari speciali 71
e alcuni avevano cercato di provvedervi direttamente, come il Valli-
snieri (del Vocabolario filoso fico-medico da lui iniziato ci resta il Saggio
alfabetico d’istoria medica, e naturale : Opere, III. Venezia 1733, pp. 364-
481) e il Pasta ( Voci, maniere di dire e osservazioni di toscani scrittori ...
che possono servire d’istruzione ai giovani nell’arte del medicare...,
Brescia 1749) 72 ; molti si erano dati a tradurre vocabolari speciali
francesi 73 .
Tenta un diverso ordinamento lessicale G. A. Martignoni nel Nuovo
metodo per la lingua italiana la più scelta, 2 voli., Milano 1743-50, in cui
sono distribuite in paragrafi metodicamente ordinati tutte le voci della
Crusca.
Merita anche ricordare la raccolta di S. Pauli, Modi di dire toscani,
Venezia 1740, e il vocabolario dei sino nimi di C. Rabbi, Sinonimi ed
aggiunti italiani, 2 voli., Venezia 1751.
Fra i dizionari bilingui vanno menzionati almeno quei due che
ebbero numerose ristampe sia nel Settecento sia nel secolo successivo:
quello italiano-inglese e viceversa del Baretti (1760) e quello già citato
di F. D’Alberti, italiano-francese e viceversa (1772).
60 Da varie parti si insisteva per F allargamento del canone, e specialmente
per una più larga inclusione nei futuri lessici di spogli di scrittori non toscani: v.
specialmente Cesarotti, Saggio, IV, xvi, 9.
70 P. Ciureanu, «Il Dictionnaire du citoyen e la sua traduzione italiana», in
Boll. Fac. econ. e comm. Univ. Genova, III, 1954, pp. 69-87.
71 Ne parla ad es. Antonio Vallisnieri iunior nell’edizione degli scritti di suo
padre (Opere, III, p. 3631.
72 II Dizionario delle arti e dei mestieri di G. Griselini, continuato poi dall’ab.
M. Fassadoni, 18 voli., Venezia 1768-1776, è, più che un dizionario, un’enciclopedia
tecnica.
73 C. Battisti, Note bibliografiche alle traduzioni italiane di vocabolari francesi
enciclopedici e tecnici francesi nella seconda metà del Settecento, Firenze 1955.
Il Settecento
469
8. Latino e italiano
L’italiano continua a guadagnar terreno sul latino 74 , ma la lingua
antica ha ancora in molti campi posizioni fortiss im a
Nelle belle lettere, dove l’italiano ormai predomina, si scrive in
Mino persino di argomenti che per la loro attinenza con la vita
quotidiana sembrano richieder piuttosto il volgare: si pensi alle satire
del Cordare (che continuano la tradizione del Sergardi). Quasi solo in
latino sono redatte le iscrizioni; il Gravina scrisse in latino arcaizzante
le leggi dèli Arcadia.
Nelle opere di erudizione storica il latino è largamente adoperato: il
Muratori si serve dell’una e dell’altra lingua (e dopo aver scritto in
latino le Antiquitates Italicae Medii Aevi, Milano 1738-43, le compendia
^“ stesso in italiano nelle Dissertazioni sopra le antichità italiane
pubblicate postume, Milano 1751-55); il Vico scrive dapprima di prefe-
renza m latino e solo tardi passa all’italiano; il Fabroni scrive in latino
biografie di secentisti e settecentisti (Vitae Italorum doctrina excellen-
tium qui saec. XVII et XVIII floruerunt, Pisa 1778 segg.), ecc. Nell’anti-
quaria, A. F- Gori pubblica in latino le sue raccolte, mentre G. Lami
scrive m italiano le sue Lezioni di antichità toscane, Firenze 1766 e L
Lanzi il Saggio di lingua etnisca, Roma 1789.
In molti campi delle scienze, parecchie opere fondamentali sono
ancora scritte in latino. Gli atti dell’Istituto di Bologna sono redatti per
molti anm in quella lingua da F. M. Zanotti (De Bononiensi Scientiarum
et Artium Instituto Commentarli, Bologna 1731-1791); persone note
anche nel campo delle lettere italiane scrivono opere scientifiche in
latmo: E. Manfredi, Ephemerides motuum coelestium, Bologna 1715 -
i^oano Mascheroni, Adnotationes ad calculum integrale Euleri, Pavia
Quasi tutte le trattazioni botaniche sono in latino (P A Micheli
Nova plantarum genera, Firenze 1720, ecc.), pochissime in itaiiano (per
es. 1 istoria delle piante che nascono ne’ lidi intorno a Venezia di G G
Zanmchelh e di suo figlio, Venezia 1735: cfr. pp. 499-500, n. 204).
Qualche opera si presenta con un testo bilingue: così per es. l’/storia
dell incendio del Vesuvio accaduto nel mese di maggio dell’anno 1737
scritta per 1 Accademia delle Scienze, Napoli 1738, è redatta per ordine
d ÌJ-% Carl °, ni ( Y II] * non sol ° 111 volgare, ma in latino ancora... per
soddisfare al gemo de’ Signori Oltramontani».
Nel diritto^ le opere teoriche sono spesso in latino: si ricordi ad es. il
trattato del Gravina, Originum iuris civilis libri tres, Lipsia 1708. La
legislazione dei vari stati è di regola in volgare: ima codificazione
bilingue flàtmo-itahana) si cominciò a elaborare nel regno di Napoli
per ordine del re Carlo III (VII) ad opera di Giuseppe Pasquale Cirillo e
?* ha ““ “ a ®? ior num ®ro di opere scritte in latino al principio che alla
1750, ParigTlflOQ ^p ^ 372 ^^ EsS °* *“ r lévotution intellectuelle de Vltalie de 1657 à
470
Storia della lingua italiana
di altri giureconsulti, ma questo Codice carolino non fu poi mai
promulgato 75 .
Negli Stati Sabaudi, la legislazione è in italiano per i paesi cisalpini.
Si sa che qualche giudice persisteva ancora nel Settecento a scrivere
sentenze in latino 78 .
Nella Chiesa, l’uso del latino è sempre larghissimo; esclusivo nel
campo liturgico, anche se qualche voce si faccia udire per richiedere la
celebrazione della Messa in volgare 77 . La lettura della Bibbia in
versioni approvate è ormai consentita da un decreto di Benedetto XIV
(1757) 78 .
Nell’insegnamento secondario il latino ha una parte grandissima,
sia come materia di studio, sia come lingua strumentale. Molti
vorrebbero far si che l’italiano non gli rimanesse addietro.- il Muratori
lo chiede 7 ®; nel Piemonte il Magistrato della Riforma ordina nel 1729
che nelle scuole fuori dell’Università lo studio della lingua latina
proceda di pari passo con quello dell’italiana 80 ; in Lombardia A. Volta
si lagna (1775) perché lo studio della lingua italiana «non meno a torto
che imperitamente si è trascurato, e si trascura tuttavia dai nostri
Fidenzj, vaghi solo dell’idioma in or e in us» 81 ; a Napoli il p. N. Onorati 82
si lagna che nelle scuole «tutta l’applicazione si circoscriva a’ rudimen-
ti della lingua del Lazio», trascurando lo studio ben più doveroso della
lingua materna.
Chiedono che l’italiano abbia la preminenza sul latino il Carli, il
Gorani, il Filangieri, il Gozzi 83 .
Nelle università l’insegnamento continua a essere impartito di
regola in latino 84 ; e fece molto scalpore a Napoli il fatto che Antonio
75 P. Del Giudice, Storia del diritto italiano. Fonti, II, Milano 1923, pp. 55-57.
76 Galeani-Napione, Dell’uso e dei pregi, I, p. ix.
77 IG. M. Isottal, Della Messa in lingua volgare, Vercelli 1788. I giansenisti
italiani, com’è noto, volevano che i fedeli partecipassero attivamente alle
cerimonie sacre rispóndendo al clero in italiano.
78 E i giansenisti raccomandavano una quotidiana lettura della Sacra
Scrittura in italiano (cfr. C. A. Jemolo, Il Giansenismo in Italia, Bari 1928, p. 253 e
283).
78 «...via maggior profitto si recherebbe al pubblico da chi ha cura in Italia
d’ammaestrar nelle lettere la gioventù, se nell’insegnar la lingua latina si volesse,
o sapesse nel medesimo tempo insegnar l’Italiana»: Muratori, Della perfetta
poesia ital., Modena 1706, p. 106.
80 T. Vallami, Storia delle Università degli studi del Piemonte, III, Torino 1846,
p. 90.
61 Relazione al Firmian, pubbl. da M. Gliozzi, in Rassegna di cultura e vita
scolastica, novembre 1953, p. 10.
82 Nella sua mediocre compilazione Dizionario di voci dubbie italiane, Napoli
1783.
83 G. Calò, Dall’umanesimo alla scuola del lavoro, I, Firenze 1940, p. 221, 225-26,
228, 231, 267.
84 A Torino la persistenza del latino ha una particolare giustificazione:
frequentano l’università sia studenti che provengono dai territori cisalpini dello
stato, di lingua italiana, sia studenti che provengono dai territori transalpini, di
Il Settecento
471
coU^fraSctS^Vro J« end -° dlscutere m matematica e di fisica con un
N?n manca nòliwT pm , a S P° a P° a P arlare latino che francese 88
di 16 dlss ? rtazion i sull’opportunità
filosofia l’erurìivinnc i altra .H n 8' ua , specie in quei campi come la
vXsSri^?lSnt«® Cien f ’ m ^ S ncora la P artita era incerta: il
- l r , r e 1 Algarotti sostengono che si debba preferire l’italiann
ì ,?• Lagomarsini 8 ® difende l’uso del latino 00 . Ma picche queste
P te, per loro natura un po’ declamatorie, è l’uso effettivo che conti
9. Uso scritto dei dialetti
ristretto, a strati P ‘ Ù
lingua francese iCalcateiTa, Il nostro imminente Risorgimento cit. n. 489)
accorto nello incomincfare^la spiee-aztóne d d Uar tt . Italiano ’ finché essendomene
lingua Italiana, e ^cominciare de’ pregi della
87 Brosses, Lettres d’Italie, I, Dijon 1927, p. 87
268. ^ ttera ad A ‘ PegroI °tti, hi Opere fisico-mediche. III, Venezia 1733 , pp. 254 -
88 Opere, IV, Venezia 1794 , pp. 3-28
flessa
472
Storia della lingua italiana
Il carattere spiccatamente letterario di quest’uso scritto risulta
anche dalla influenza della lingua poetica toscana anta» «Y gSS
dialettali quasi tutti arcadici: influenza sensibile nei Veneti (Gntti,
Lamberti), fortissima nel Meli- Abbondano - e anche ciò conferaia, se
ce ne fosse bisogno, il carattere riflesso della letteratura " la
satire (si ricordino i toni piemontesi), i poemi eroicomici, ongmah o
tradotti in dialetto. Intenzioni popolaresche hanno gh almanacchi (G.
Pozzobon di Treviso inizia il suo Schiesón). _
Il teatro mettendo in scena personaggi delle vane classi sociali, si
accosti^ maggiormente al dialetto parlato hi tutte le w jjanete:
specialmente in un osservatore della realtà come il Gc r doa1 ' Qri a
piuttosto artificioso è l’alternarsi sulla scena dipersonaggi ^Parlano
hi dialetto con altri che parlano in lingua (quale si ha nel Goldom nel
Chiari in Carlo Gozzi). Anche nelle commedie toscane troviamo
qualche personaggio con caratteri dialettali accentuati: P er es. il Gigli
nella commedia II manto piu onorato del suo bisogno abbonda m
idiotismi fiorentini e senesi nei personaggi di Ser Lapo notaio e di
Prizia servetta. La figura del contadino Ciapo, che il Fagiuoh introduce
in parecchie sue commedie sottolineandone le caratteristiche rusticah,
oiaceva a Firenze ma non fuori 92 . ,
Quanto alla possibihtà di un uso «seno», «no bile », «ufficiale» del
dialetto scritto, esso è incompatibile con la posmone che l itahano ha
ormai acquistato. Se a Venezia esiste ancora un uso nobile e ufficiale,
esso si ha se o nell’uso forense parlato, ed è antistorico appellarsi al
confronto col «patriotico zelo de’ veneziani» P er . tentar . dl r s °^ ar { ? )e l1 ,
dialetto napoletano a uso analogo, come auspicava d G^iam (Del
dialetto napoletano, rist. Nicolini, p. 7; v. qui addieta-o al § 4XNé p
consistente era stato il proposito dell Accademia dei Pescaton Oretei di
SSml fontoL nel ?745 con lo scopo di «affinar sempre più la
siciliana favella» 93 : basti dire che era prescntto che 1 discorsi si
^ShTvalm-e^eLa funzione dei dialetti, fu discusso specialmente nella
polemica suscitata dal p. Onofrio Branda-, e il Panni giustamente lo
rimproverò d’aver deriso «quel linguaggio, che essendo e il piu
naturale e il più puro e incorrotto della nostra città, è conseguentemen-
tecte riputerei il più bello» (Prose, I, p. 55 Bellorini; y. qui addietro al § 6)
Parecchi dizionari dialettali si pubblicano nella ®f,“ ada “ e ^ d ^J
secolo: il Vocabolario bresciano e toscano attnbinto all abate Gagliardi
»> «n Meli era persona colta e scriveva per persone colte: come la sua togua
poteva non essere colta?»: S. Santangelo. «La lingua <L G. Meli», in Studt su G.
M "Ì ortMe d^agrnnprincip^aVW»»
ci Che essa «viene pregata da due nobili Veneziani del favore di due belle sue
S.S5I. “a™ “SI perù, ohe non vi eia n» » » «*>-»
altro» (M. Benci, Il vero C. B. Fagiuoli, Firenze 1884, p. 159).
83 S. Santangelo, in Studi su G. Meli, cit., p. 102.
Il Settecento
473
(Brescia 1759), l’anonima Raccolta di voci romane e marchiane (Osimo
1768), il Vocabolario veneziano e padovano del Patriarchi (Padova 1775,
2 a ed. 1796), l’ampio Vocabolario etimologico siciliano, italiano e latino
del Pasqualino (Palermo 1785-95), il Vocabolario delle parole del dialetto
napoletano che più si scostano dal dialetto toscano di F. Galiani e F.
Mazzarella Farao (Napoli 1789). Essi obbediscono, oltre che a scopi
pratici, a un interesse almeno embrionalmente scientifico. Né mancano
autori, come il Bettinelli e il Cesarotti, che vedono nella raccolta di voci
dialettali la via per possibili incrementi del lessico nazionale.
10. Rapporti con altre culture e lingue europee
In un secolo cosmopolita è ovvio che la conoscenza di qualche
lingua straniera sia indispensabile alle persone colte. Molti Italiani si
rendono conto che restar fermi non è possibile-, anche senza rinnegare
le tradizioni della nultura rinascimentale che proprio in Italia e
dall’Italia aveva sparso tanta luce, è necessario mettersi al passo con
la cultura europea.
Per far questo, occorreva anzi tutto prender contatto con quella
civiltà e quella lingua che nel Settecento avevano dilagato e tenevano
l’egemonia in Europa, ritenendo d’aver raggiunto addirittura l’« univer-
salità», cioè la civiltà e la lingua francese 94 .
Convergono a creare quest’atmosfera fattori di vario ordine e di
varia importanza. In primo luogo, l’ammirazione per la nuova filosofia
razionalista, prima cartesiana, più tardi sensistica ed enciclopedistica-,
poi, la grande influenza politica, rafforzata da alcuni fatti importantis-
simi: l’installazione della dinastia lorenese a Firenze (1737) e quella di
Filippo di Borbone (marito di Luisa Elisabetta, figlia di Luigi XV) come
duca di Parma (1749). Ancor più forte sarà l’efficacia delle invasioni
degli eserciti della rivoluzione, negli ultimi anni del secolo 95 .
La letteratura francese è in auge: si leggono nel testo originale e si
traducono gli scrittori dell’età di Luigi XIV e i contemporanei (Voltaire,
Rousseau, Diderot e innumerevoli autori minori, di ogni genere, ma
specialmente romanzi e novelle). Nei vari campi delle scienze si
consultano opere francesi, si traducono, si riassumono in periodici
fondati a tale scopo. L’Algarotti, lagnandosi del soverchio «clamore che
levano i libri francesi», afferma che «ad essi si ha ricorso per ogni
materia di studio; essi solo si leggono, ad essi si dà fede» 96 . «Dimandate
94 Ci basti rinviare all’eccellente panorama di H. Bédarida e P. Hazard,
L’influence frangaise en Italie au dix-huitième siècle, Parigi 1934, e, con particolare
riguardo ai problemi linguistici, alle ricche e lucide pagine di A. Schiaffini,
Momenti, pp. 91-132.
95 «La lingua francese, già stata la lingua dei belli spiriti, diventa la lingua dei
patriotti e degli eroi» (Natali, Il Settecento, Milano 1929, p. 343).
96 Lettera del 1752, in Lettere filologiche, cit., p. 115.
47*
Stona della lingua italiana
a un Libraio Opere Italiane - si lamenta Matteo Borsa® 7 -; ei vi chiede
perdono, ma per la difficoltà dello smercio questa classe è affatto
mancante. Proponete una stampa.- se non avrà tutta l’aria di una
traduzione, o di copia perfin nel titolo spirante vezzi francesi, parrà
che chiediate l’elemosina; tanto lo Stampator troverete superbamente
fastidioso. Scorrete finalmente le case; v’incontrerete in libri stranieri
ad ogni angolo, mentre i nostri buoni Italiani dormon coi Greci nelle
pubbliche librerie». E il Cesarotti 98 ; «la lingua franzese è ormài
comunissima a tutta l’Italia: non v’è persona un poco educata a cui non
sia familiare, e pressoché naturale: la biblioteca delle donne e degli
uo mini di mondo non è che francese»®*. Non a torto perciò il Devoto ha
intitolato «il nuovo bilinguismo» il capitolo dedicato al Settecento nel
suo Profilo.
Per avere un’idea della parte considerevole che ebbero nella cultura
italiana le compilazioni lessicografico-enciclopediche francesi, basta
consultare il diligente repertorio che he ha dato il Battisti (cfr. p. 519 n.>.
vi troviamo dizionari (talora pubblicati in più edizioni) di geografia, di
erudizione storica (religiosa e profana), di matematica, di fisica, di
chimica, d’industria, di commercio, d’agricoltura, di marina. E si sa che
l ’ Encyclopédie di D’Alembert e Diderot fu per ben due volte ristampata
in Italia in francese (con postille che miravano a smorzarne la
tendenza anticristiana).
L’influenza francese si estende per tutta l’Italia, ma è particolar-
mente forte in due stati: il Piemonte, per la maggior vicinanza e per la
struttura bilingue degli Stati Sabaudi 100 , e Parma, diventata un centro
d’irradiazione francese sotto Filippo di Borbone e il suo minis tro Du
Tillot.
Un potente tramite per la conoscenza del francese tra gli Italiani è
lo stanziamento di numerosi Francesi nella penisola, specialmente in
alcune città (come Parma) e per certe professioni (come i cuochi, i
parrucchieri, i maestri di ballo, le modiste), la presenza di numerosi
viaggiatori, ecc.
D’altronde molti Italiani viaggiano e si stabiliscono in Francia, o
percorrendo vari paesi d’Europa, si valgono del francese come lingua
internazionale. Fra essi non pochi lasceranno importanti scritti in
francese, come il Galiani, il Goldoni, il Denina, il Lagrange.
87 Del gusto presente in letteratura italiana, Venezia 1784, p. 18.
06 Saggio sulla filosofia delle lingue, IV, xm.
M Cesare Beccaria, facendo al suo traduttore, il francese Morellet, la storia
della propria conversione dal «fanatismo» alla «filosofìa» arriva a dichiarare: «Io
debbo tutto ai libri francesi» Getterà del 1766, citata da Natali, Il Settecento, p. 269).
100 Per ricordar solo un esempio, il savoiardo padre Gerdii, poi cardinale,
passò molti anni della propria vita a Torino, come professore all’Università e
precettore del futuro Carlo Emanuele IV: la maggior parte della sua opera
d’insegnante e di scrittore si svolse in francese. Sappiamo dall’ Alfieri, dal Galeani
Napione, e da tante altre testimonianze che a Torino le classi più. elevate si
servivano quasi soltanto del francese o del dialetto.
Il Settecento
475
Carteggi dell ’ e P°ca spesseggiano le lettere in francese non <?oln
r.;E° persone * •“» «— t - p-£52£E5S
esercitò mSrtf. U S»? I , CÌna -. e < S Ha moda ’ s P«dotaente femminile, si
hwj t o m - , pa per tramite di persone (e di cose) che per mezzo di
Venezia ^serriva^-orine ^ (cbamb ?^ francese»), esposta in Merceria a
enezia serviva come modello indiscusso. E benché tutto
mamfestaziom vadano connesse tra loro, p^, b"n aSer? clS
,S°™ C H n ‘° r Per ' regicldi e 1 massacratori non tolga la curiosità per le
SStfSS"- C ° mC to qUeUe dame “tlregglate mS soSto
Madamm, gh’ala quaj noeva de Lion?
Massacren anch’adess i pret e i fraa
quij soeu birboni de franzes, che han traa
la legg, la fe e tutt coss a monton?
A proposit; che la lassa vedé
quel capell là che g’ha dintoma on velL
eel staa inventa dopo che han mazzaa el re?
tei el pmnm, ch’è rivaa? Oh bell! oh bell'
Oh 1 gran franzes! Besogna dill, non gh’ è
Popol, °be sappia fa i mej coss de quell 109 .
eieJantLP V °^ abolÌ francesi anzitutto i giovani
S£ffT tam 6 cicisbei> : * certi giovanotti leziosi^vverte fi p
Sramon an; mtr ° dotto ? eUa Ungua Italiana t^maS
gnsto,;STto t LS«°de”or a a^ole
segnal| 0 dfun 'belio SSE
qaesto tì P° ci sono presentati nel Raguet 108 di
Scipione Maffei (1747). Ecco come parla Alfonso, nell’atto II sa 3° ;
Ed io mi do l’onore
signor, di rendergli un million di grazie.
e ^vedano, per es„ nel carteggio del Cesarotti, lettere in francese al Taniffì
1752 p 34
toe c n1 L^ff C ’ Della lingua toscana, Torino 1777, dial. VII - P- •
dei «• « “•
1957, pp. 63-68. ael MaMei - v - Cigna, m Lingua nostra, XVIII,
476 Stona della lingua italiana
È una gran proprietà la sua, di fare
agli stranier tanta onestà. Ciò marca
la bontà del suo cuore: io farò in sorte
che nii conosca sempre tutto a lei.
O Ermondo, nell’atto III, se. 2 a :
Non le darò cibi plebei: guazzetti,
manicaretti, intingoli, stufati
Io le darò ragù, farsi, gattò,
cotolette, crocande; e niente cotto,
sarà nello spiedo, ma olio spiedo
nn7i alla brocca. Non farò la mala
creanza mai di far portare in tavola
un cappone, se non in fricandò.
Non mangerà fiitelle, nè prosciutti,
nè vii vivanda d’anitra, ma sempre
canàr, sambòn, bignè...
Un personàggio dell’anonima commedia Lo spirito forte (Venezia
1772) - irreligioso e franceseggiante - lusinga così una ragazza: «Occhi
bleu, capelli biondi, è un prodigio in Italia; il vostro temt così ^^o, ®
vermiglio, sorpassa quello delle Moscovite; la taille non ne ho veduta
lU ^JeUa commedia di G. Gherardo De Rossi Le sorelle rivali , L se. 5
( Commedie II, Bassano 1791) ima contessa si rivolge ad altri due
personaggi: «Luigia voi qui? Voi in rendevù col Marchese? E non vengo
di avervi detto jeri sera ch’egli non è per voi? e tu [a Colombina) che
rollo giocasti fra loro?» ecc. ..
Incesti di questo genere, l’intento satirico porta a esagerare d
numero e la qualità degli esempi (si sarà detto davveroqualchevolta
alla brocca per à la broche ?), ma un idea possiamo farcela ^stesso.
La penetrazione nella lingua quotidiana si valuta bene
testi poco letterari, come i carteggi 108 , gli appunti personali e
Notevole è la presenza di numerosi francesismi nei dialetti , ma
107 È interessante notare che qualche volta 1 P erso f W
___ «mrrira- così sDesso nel Raguet; così in Goldoni (Figlia obbediente, 1, se. loJ.
«Tiò Lumaca averzi quel coftefort. - Che significa questa parola? - Eh poverazzi!
VuaitSlfalia XsTvé gnente. Cofrefort è parola tedesca, vuol dir... Quel coso
Che l^rancesismTpuUidano , ad esempio, nel carteggio dei fratelli VerxLmentre
sono molto rari nelle lettere del ministro B. Tanucci, toscano di nascita e
antifrancese in politica: tuttavia anche lui adopera ad es roana dett. al Galiam
del 1707, II, p. 72 NicolinD e, a proposito dell’Amo, fi verbo debordare detterà al
V Band^o nastro <tenotte o ricamato a caratteri amorosi dalla bella», negli
annunti del Parini per il Vespro e la Notte 0, p. 269 Bellonm).
PP no schiaffini (Momenti, p. U4) ricorda numerosi esempi rmlmiesi, mantova-
ni ve n e ziani Per l’Italia mediana, dà molti francesismi la citata Raccolta di voci
romane e marchiane, Osimo 1708.
Il Settecento
477
anche ai Fiorentini se ne rimproverava l’abuso 111 . L’influenza è così
generale, che non c’è chi vi sfugga. Si potrebbe, sì, fare una lista di
francofili e di francofobi, in politica e in letteratura, ma non sempre le
intenzioni dichiarate collimano con la maggiore o minore accoglienza
fatta ai francesismi L’Algarotti, in ima lettera del 1756 l12 , biasima il
Redi e il Salvini che hanno adoperato fare il diavolo a quattro, mettere
una cosa sul tappeto, rimprovera il Magalotti che avrebbe voluto
accogliere faire les yeux doux, le petit maitre, la prude; si lagna, nel
Discorso sopra la ricchezza della lingua italiana ne’ termini militari,
dell’abbondanza dei francesismi nelle scritture d’argomento militare;
in un’altra lettera del 1763 113 deplora che i Fiorentini usino dettaglio,
regretto, debosciato, ecc. Eppure a sua volta egli scrive capo d’opera,
colpo d’occhio, cochetta, il poema il più galante che ci sia, ecc. Il
Bettinelli, che nel poemetto sulle Raccolte biasima che siano venuti
i franzesismi in abito italiano
tripponi armati di stranier ramaggio
a culbuttare tutto il buon linguaggio 111
e altrove se la prende contro «i Targioni, i Grazzesi... e tali altri nei
quali trovo or parole, or frasi franzesi» lls , ne adopera a sua volta a
decine.
Queste osservazioni non vogliono essere postumi rinfacci personali,
ma solo mostrare quanto permeata di francesismo fosse tutta la
cultura del tempo 118 .
L’influenza inglese, per quanto senza confronto meno ampia di
quella francese, è pure assai considerevole 117 , e dovuta a un’ammirazio-
ne (che in alcuni diventa addirittura una mania) per molti aspetti della
vita inglesi: le istituzioni, la filosofìa (Newton è universalmente animi -
rato, Locke e Hume suscitano contrasti), le scienze, la letteratura,
l’industria. Contribuiscono a diffonder notizie (e quindi vocaboli) i
111 «Uh giardino - quale il Toscano anch’ei Parterre chiama - da poi che l’Arno
è fatto parigino» (T. Valperga di Caluso, Il Masino, Torino 1791, XI, 57).
1,2 Lettere filologiche, cit., pp. 126-129.
113 Lettere filologiche, cit., p. 183.
114 Opere, XVII, p. 48.
115 Opere, I, p. 62.
nfl Altri molti, oltre a quelli che abbiamo avuto occasione di citare, polemizza-
no contro rirruzione dei francesismi: Matteo Borsa, Carlo Gozzi, ecc. Alla fine del
secolo interveniva a sostenere le tesi puristiche anche un critico tedesco, F.
Haupt da cui Lettera sull’infranciosamento della lingua italiana fu ripubblicata
da P. Fanfani, Firenze 1871, e studiata da A. Buck, Zeitschr. rom. Phil., LXIX, 1956,
pp. 123-129).
117 La esaminò con ricca informazione e con acume A. Graf, L’anglomania e
l’influsso inglese in Italia nel sec. XVIII, Torino 1911.
478 Storia della lingua italiana
viaggi degU Inglesi in ItaUa (nel «giro d’Europa», di mod * n ®*
riSS e i viaggi e talvolta lunghi soggiorni di
Tn rrViìitorra. (Cocchi Rolli Angioliiu, Rezzomco, Alfieri e tanti altri>,
l q n fluenza ni acenell'una e neli'altm direzione fti forse quella del
B'aretd'^resce rapidamente in ItaUa il numero di quelli che sanno
1 m s^ traducono Pope Ipiù volte), Addison, Defoe, Rlchardson, Swift,
Sterne Young. Sì comincia (piuttosto tardi) a conoscere e a tradurre
Shakespeare Dilagano le traduzioni di romanzi, per lo più, tuttavia,
fattó seSaconiSre imgto»-. SI div^anole compUarrom enctdo-
nediche Qa Cyclopaedia del Chambers fu tradotta tre volte).
P Soprattutto negU ultimi decenni del secolo i preromantici sono sotto
l'influenza dei "motivi dominanti aUora nella letteratura mglese, la
me S^nò a r'2ie«e“S te i'inglese diventa necessanoal = er-
cianti per l’importanza presa appimto in questo secolo dal _commercK>
dell’Inghilterra nel Mediterraneo. Circolano sm mercati italiani, stoffe,
£SSunto col secolo precedente, e
in regresso* benché gruppi fllospagnoli non manchino. Poca influenza
harnro le die dinastie borboniche trapiantate dafla Spagna, queUa di
Parma è promotrice d’influenze francesi, presso queUa di Napoh lo
spagnolo scompare definitivamente dagU atti della cancelleria dopo
che Ferdinando IV si è emancipato (1767) dalla tutela del -
In Sardegna dopo il passaggio aUa casa di Savoia, lo spagnolo
perde te^en? ma lentissimaSSite: solo nel 1764 l’itaUano diventa
lingua ufficiale nei tribunali le nefl.’lnseg^mento-. Una m
v ditti nre&oni ed altri provvedimenti..., 3 voli., Cagliari 1775, dà tutte le
fermiate neU’ulthno cinquantennio in testo italiano, comprese
auelle che erano state emanate in spagnolo . __ _ ___ir
Ricevettero più che non dessero Qinguistica^nte) ^smUspagoh
stabifitisi in ItaUa dopo la soppressione deUa ComPfg^m di Gesù
La conoscenza del tedesco è molto scarsa, malgrado ^ P®J® nt ®
influenza poUtica esercitata dall’Austria e il conse^ientescambiod^
persone e i viaggi non rari neUe due direzioni. Solo tardi, m età
preromantica, stcomincia ad aver notiziari alcum autori tedeschi e se
ne fanno traduzioni 123 .
“-s ^ ìjissjsss * ***->
mSTp , G«ii»mDei »• ,u -
121 m l Wagner, La lingua sarda, Berna 119511, p. 187-
va p Dpi Giudice Storia del diritto ital. cit.. Fonti, il, p. io-
.23 Ma G. Gozzi traduce la Morte di Adamo di Klopstock da una versione
Il Settecento
479
Quanto alla conoscenza deU’itaUano neUe altre nazioni europee,
essa è tuttora discreta tra le persone colte. In un secolo musicale come
il Settecento, era beUo conoscere la lingua in cui erano scritti i Ubretti
di quasi tutte le opere: «Qui - scrive il Baretti da Londra al can. Agudio
(8 agosto 1754) - la lingua itaUana va ripigUando terreno, mercé
deU’Opera che si è finalmente ristabiUta». E vi era chi imparava
l’itaUano per leggere gU scritti scientifici 124 .
Numerosi avventurieri e alcuni uomini di prim’ordine - un Baretti a
Londra, un Goldoni a Parigi, un Metastasio a Vienna - contribuiscono
a far conoscere la nostra lingua.
Per la Francia, Voltaire giudicava l’inglese e l’italiano «les deux
langues de l’Europe nécessaires à un journaliste» 125 ed egli stesso
(benché il Baretti lo contestasse) conosceva discretamente l’italiano 1 ”.
Il Goldoni, stendendo nel 1783 un manifesto per un Journal de
Correspondance Italienne et Franfoise (che poi non vide la luce)
dichiarava: «Cette Langue est en vogue en France plus que jamais. Le
goùt de la nouvelle musique y a beaucoup contribué; les Bibliothèques
— - à Paris abondent en Livres Italiens, on les Ut, on les goùte, on les
traduit, et les voyages des Frangais sont devenus plus fréquens»
( Mémoires , III, cap. 35) 127 .
Non molto diversamente vanno le cose in Inghilterra 1 ”, in Olan-
da 12 *, in Baviera, in Austria, ecc. 130 . Non si dimentichi che alla corte di
Vienna è viva la tradizione del «poeta cesareo», che deve scrivere
melodrammi in italiano.
francese, e il Monti fletterà a C. Vannetti, luglio 1778: Epistolario, !, pp. 51-52) crede
che sia possibile tradurre Klopstock senza sobbarcarsi a studiare quella «lingua
aquilonare».
m V. la testimonianza del Santi, cit. da F. Rodolico in Lingua nostra, V, 1943,
p. 14.
“ Oeuvres complètes, XXII, p. 201 (cit. da Brunot, Hist. de la langue frangaise,
VI, p. 1224).
u “ E. Bouvy, «Voltaire et la langue italienne», in Voi taire et l'Italie, Parigi 1898.
Di recente sono state scoperte, e pubblicate dal Besterman, delle Lettres d’amour
de Voltaire à sa nièce, Parigi 1957, in un italiano molto scorretto. -
127 E altrove aveva testimoniato: «E1 linguaggio italian, con mio contento -
«uro deventa a la nazion francese, - e tutti i cortigiani e i parigini - cerca maestri
e compra l’Antonini» (La Piccola Venezia, 1765): cfr. Folena, in Lettere ital., X, 1958,
p. 32.
“* V. il capitolo di A. Graf, «Lingua e letteratura italiana in Inghilterra», nel
citato volume su L’anglomania, pp. 80-104.
** Una lettera del banchiere lucchese Ottavio Sardi (1773) avverte che ad
Amsterdam «la toscana favella... è moltissimo onorata e ben voluta, non
essendovi, per così dire, dama o cavaliere di condizione che non ne sappia
qualche cosa, o che non procuri di saperne. Già molte e molti la parlano molto
bene, in particolare que’ cavalieri che han viaggiato in Italia. Il Metastasio è in
gran voga, ed è cognito tanto quanto in Italia...» (Misceli. Lucch. di studi storici.
Lucca 1931, p. 333).
V. le testimonianze raccolte da V. Santoli, in Problemi e orientamenti, IV,
pp. 237-238.
480 Storia della lingua italiana
Nell’Europa danubiana e nel Levante l’italiano ha funzioni di lingua
internazionale: sappiamo per es. che il boiardo romeno Ienàchitzà
Vàcàrescu si servì dell’italiano scrivendo al feld-maresciallo russo
SSScev chXveva fatto prigioniero (1770) e facendo da interprete
ad altri boiardi presso Giuseppe II (1773) 131 .
11. I fatti grammaticali e lessicali
Nel presentare i fatti più salienti della lingua del , Settecento
dobbiamo ancora una volta ripetere che le oscillazioni nell uso sctitto
Ce tanto più a quel che possiamo congetturare, neh uso parlato) erano
moC maggiori di ciò che possa ritenere uno che legga in edizioni
moderne i soliti autori scelti fra i più noti. Un ampia lettura di libn
nelle edizioni originali (e più ancora di manoscritti del tempo) mostra
che le disformità sono ben più notevoli. , , VTtR ,. R _ etten .
Affiorano ancora largamente, nella lingua scritta dell Italia setten
(rionale e di quella meridionale, peculiarità ricalcate sui "spettivi
vernacoli; quanto al canone toscano, esso rimane assai incerto non
tanto per la differenza che gli usi locali presentano, quanto perche le
varianti della lingua scritta registrate dalla Crusca sono numerose e
per lo più senza una netta dichiarazione di preferenza: vediamo per es.
tael primo volume della 4* impressione) acquidotto e aquidoccio;
apostolo e appostolo-, circonstanza e circostanza, circonstanzia e circo-
stanzia, circunstanza, circunstanzia e circostanza. Qualche volta la
preferenza è indicata per mezzo di im ramo: sotto cirimonia, vi è
semplicemente un rimando a cerimonia. ir h si
Citiamo fra gli innumerevoli esempi di oscillazioni nell uso che si
notrebbero elencare, quelli che ci vengono sottomano. Ecco principe -
prencipe-, delicato - dilicato 132 ; miscuglio - miscuglio-, burrasca - borrasca
feer es in P. Chiari); sbocciare - sbucciare (sempre nel senso di
«Sbocciare »• per es. C. Gozzi, G. Meli); unzione - onzione (Valhsmenl,
diritto - dritto (sost.); ecc. Tremuoto prevale di gran lunga su terremoto,
n° per dare alcuni esempi di varianti consonantiche^ abbiamo-, sacro
, sagro bmciare - abbracciare (Vallisnieri) - brugiare (Gigli, Algarotti) -
abbruggiare (Caffè); gianduia - glandola - ghiandola-, pranzo - Prarso
(ner es. Vallisnieri, Lazzarini, Chiari, Algarotti); gengiva - gengia,
chirurgia - cirurgia - cirusia-, congettura - conjettura - conghiettura-,
naralello - parallelo, ecc. La c e la z davanti a vocale anteriore si
scambiano P in numerosissimi vocaboli, specialmente negli scrittori
settentrionali: francese - franzese-, socio - sozw, commercio - commerzio-,
131 R ortiz. Per la storia della cultura ital. in Rumania, Bucarest 1916, pp. 230-
23L V. la discussione in IM. Regali], Dialogo del Fosso di Lucca e del Serchio, cit.
pp. 33-35.
Il Settecento
481
specie - spezie (nel senso di «spezie»); speciale - speziale (in ambedue !
significati); sufficiente - suffiziente (Cesarotti); bilanciare - bilanziare (C.
Gozzi); pernicioso - pemizioso-, Confucio - Confuzio (S. Maffei), ecc.
Nel raddoppiamento consonantico vi era oscillazione specialmente
nelle serie in cui l’uso toscano era diverso da quello latino: accademia -
accademia-, imagine - immagine-, femina - femmina (e viceversa gram-
matica - gramatica, commodo - comodo ); mathematica - matematica-,
opio - oppio-, camelo - cammello-, tolerare - tollerare, ecc. Non era ancora
stata fatta una scelta definitiva tra procurare e proccurare, provedere e
provvedere-, né fra inalzare e innalzare, inoltrare e innoltrare, inondare e
innondare. Accanto a autore, pratico c’è chi scrive auttore, prattico, più
conformi all’etimologia 133 .
Nello scrivere le particelle composte (sì che - sicché, tanto più -
tantopiù ) i Toscani e i Meridionali potevano regolarsi sulla pronunzia
per sapere se raddoppiare o no, mentre i Settentrionali spesso errava-
no. Di solito ormai s’ignora che viepiù non è altro che un via più 13 * e si
scrive vieppiù (Baretti, ecc.).
Ma anche in innumerevoli altre parole, dovè la norma toscana era
stabile e regolarmente registrata dai lessici, gli autori e i tipografi
settentrionali raddoppiano o scempiano con estrema incuria (con
particolare frequenza in posizione protonica e dove si susseguono due
coppie di consonanti, ma anche altrove). Ecco, per es., drapello
(Algarotti), ippocondriaco (Patriarchi), trappellare «trapelare» (C. Goz-
zi), disabbitato (Vallisnieri), beffana, schiffo, soffà, zuffolare (C. Gozzi),
strofinare (A. Verri), Catterina (Caffè), reatino «reattino» (Vallisnieri),
succido (p. Branda), flacidità (Vallisnieri), sfogio (Beccaria), diriggere
(Cesarotti), compaggine (Parini), sceleragine (Parini), valetto (Parini),
barille e regallo (biasimati dal Baretti nel poemetto giocoso La barcac-
cia di Bologna ), guereggiare (Beccaria), ecc. L’abate Chiari nelle sue
commedie scrive plebbe per rimare con vorebbe, vacche con lumacche,
stuffa con baruffa, malvaggio con coraggio, non calle con spalle, e,
sicuro che gli attori veneti conguaglieranno recitando, mette insieme
quattro con teatro, brutto con aiuto, ecc.
Forme facoltative si hanno spesso anche nelle terminazioni: lapide -
lapida, addome - addomine, mestiere - mestiero, pensiere - pensiero,
magistero- magisterio, alveare - alveario, calesse - calesso, cioccolata -
cioccolato - cioccolate - cioccolatte, ecc.
S’intende che tutte queste varianti non sono del tutto indifferenti:
un autore secondo la sua formazione culturale adopererà costante-
mente l’ima piuttosto che l’altra, ovvero sceglierà l’una o l’altra
secondo il proprio gusto o la conformità a. un certo modello, ecc. Così il
133 II Maffei {Rime e Prose, Venezia 1719, Al Lettore) rifiuta esplicitamente
pubblico-, il Denina ( Bibliopea , cit., pp. 107-108 n.) consiglia imaginazione, rinovare,
procurare, academia-, il Gigli (Regole, Prefazione) vuole grammatica e non
gramatica.
131 Ma nel Benvoglienti (Opuscoli diversi, Firenze 1721, p. 56) leggiamo viapiù.
482
Storia della lingua italiana
Vico scrive iconomia piuttosto che economia, forse per amore di
arcaismo- il Baretti adopera lapida perché trovava questa forma nel
Berni e nel Cellini; il Parini preferisce mercatante Perché questa
variante gli sarà sembrata più adatta alla poesia (o forse per un
preciso ricordo dell’Anosto), ecc.
12. Grafia
Dagli ultimi decenni del Seicento si ha ormai una grafia non molto
oscillante essendosi placate le principali controversie.
L’espediente di distinguere le e e le o toniche aperte per mezzo di un
accento circonflesso, proposto da A M. Salvini all’Accademia della
Crusca il 10 febbraio 1723-24 135 e applicato nella sua versione ài
Oppiano (Firenze 1728), non ha carattere generale, ma vuol solo essere
uji espediente didattico per facilitare la pronunzia ai non Toscani.
Si distinguono ormai costantemente la u dalla v 13 ® e quasi sempre
/ dalla i • troviamo j per lo più in parole come iattura, gennaio, coniugale,
quasf sempre nel plurale dei nomi e aggettivi in -io-, propri, municipi,
WZ LaT meramente ortografica qualche volta sovrabbont^ specie m
scrittori settentrionali: cappuccietto (Goldoni), pregievole (Valhsmen),
sciatta ®® c ®^^^ sa> salvo che in qualche raro caso di ““jcato
adattamento in voci greche (per es. C. Caudini Gli elementi dell ' arte
sfygmica, Genova 1769-, G. Arduino, «Saggio fisico-nuneralogico di
Lythogonia (sic) e Orognosia*, in Atti Acc. delle scienze di Siena, ,
177 L’h non si adopera ormai che nelle interiezioni e, per lo più, nehe
quattro voci del verbo avere 13 »; la farsetta del Martelli II P^fflllI,
pubblicata in appendice al Vocabolario catenniano del* Gigh non è che
uno sfogo anticruscante 139 . Solo in ran casi di voci dottissime si ha
i3s Vedi }i «ragionamento» nelle sue Prose toscane, I, Firenze 1725, pp. 189-192.
Strano il metodo di qualche tipografo di scrivere v in
noccivolo, givochi, vovo (ma suoi, uomo): questo è luso seguito nelle Opere -del
Va ^^ n CeiS l o e ra a de 7 l 3 Casotti (Firenze 1734) ha ossequi, ma invece arcolaio,
vi è chi cerca di evitarla in questa seconda funzione-, nel Newtoniani-
smo dell’Algarotti (NapoU 1737) si legge ò, à, Anno-, il p. Ildefonso Fndian^e di
solito scrivi ho, hai, ha. hanno, non osa tuttavia introdurre ^^^cando 1
opere di fra Girolamo da Siena, e preferisce scrivere ò, à, ma di, ànno {Delizie aegn
eruditi toscani, I, Firenze 1770, p. clv).
138 Ma che ha fatto quest’H sì inerme e sì innocente
alle fauci dell’Amo, dov’abita sovente,
che dagli scritti altrui voglion cacciarla in bando,
mentre giammai non sanno scordarsene parlando.
(p. 362, dell’ed. datata da Manilla)
Il Settecento
483
qualche h etimologica, quasi mantenendo nel testo italiano la voce
latina o greco-latina: P. M. Gabrielli scrive un trattato su L’Heliometro,
Siena 1705; in un consulto il Vallisnieri parla di «un’apoplesia parziale,
detta Hemiplexia » ma poco sotto usa «Emiplegia» 140 . Si ha anche
qualche raro caso di mantenimento di h in digrammi greci-, il Salvini
(( Oppiano , p. 5) scrive Parthi, il Vallisnieri (Opere, II, p. 215) Lapathj
(nome di pianta); G. B. Sottovia tratta Della Loica-. l’Ideografia e
l’Alethologia, Mantova 1748; per eufemismo e per evitare l’equivoco
con fallo il Parini scrive «il turpe Phallo » (Mattino, v. 544).
Nessuna traccia si ha più di k se non nel vocabolo ka voliere (come
titolo cavalleresco) a Venezia. La c e la q sono spartite come ancor oggi
facciamo (salvo pochi esempi aberranti: per es. risquotere nella Celidora
del Casotti o nelle Commedie del Fagiuoli).
La grafia con zi ha sostituito interamente quella con ti: orazio-
ne, ecc. Qualche incertezza rimane ancora nell’uso della z doppia, sia
in parole come vizi (vizzi come plurale di vizio è combattuto dal Leo-
nardi) 1 ' 1 , sia nei casi in cui il gruppo latino ti era preceduto da con-
sonante 1 * 2 .
Gli accenti grafici si scrivono, di regola, in forma d’accento grave,
sulle parole tronche; solo in rari casi si ha l’accento nel corpo della
parola (ora in forma d’accento acuto, ora d’accento grave: ironia o
ironìa ); in qualche opera di carattere didattico sono usati con maggiore
abbondanza 143 . Molto oscillante è l’uso sui monosillabi (fu, sà, qui più
spesso sono accentato.
Si comincia a usare in poesia qualche segno (per lo più l’accento
acuto) per indicare la dieresi 144 .
L’uso dell’apostrofo è molto simile a quello odierno; il Corticelli dà
la regola che si deve scrivere un uomo (Regole , 1. Ili, cap. 4), mentre
ancora il Gigli (Lezioni di lingua toscana ( cit.) scrive un’uomo. Le
maiuscole sono adoperate ancora con notevole frequenza. Ecco, per
scegliere a caso qualche esempio, da un Capitolo di G. Gigli (nelle
Lezioni ora citate):
Disse un di lor: Ch’entrare alfin possiate
140 Opere, III, p. 522.
M1 Dialogo dell’Amo e del Serchio, cit., p. 18; lezzi è nella Celidora del Casotti,
Vili, st. 30.
143 Negli scritti del Vallisnieri leggiamo decozione o decozzione; il Rolli ha
traduzzione-, il Baretti, nel primo numero della Frusta, censura il p. Morei che
scrive produzzioni «con due zete alla romana»; l’Amenta, Della lingua nobile, cit.,
I, p. 59, difende le grafìe lezzione, concezzione (da et, pt latini) «contro l'uso degli
stessi Accademici Fiorentini»; il Gigli dice che chi volesse scrivere lezzione,
concezzione «non potrebbe tacciarsi siccome esse derivano dal et e pt, in latino, e
molti Scrittori così han fatto» (Lezioni , cit.).
143 Per es. nella Scelta di lettere familiari, curata dal Baretti (Londra 1779) per
uso delle «damine» inglesi.
144 Camilli, in Lingua nostra, XIX, 1958, pp. 24-26.
484
Storia della lingua italiana
Come all’Inferno i Dottori di Legge.
Allora quelle Bestie spiritate
Entraron nello stabbio a cento, a cento,
Quasi 1 Pastor l’avesse scongiurate.
SSSSTtóttMSsrcaf ss
faceano^ di lontan* prospetto all’elegante Palagio sii di questa genti
C ° Nei* decenni°successìvi trovarne ancora abbondanza di maiuscole^
Der es nell’ Afimurgia. del Targioni Tozzetti, Firenze 1767, I, p. 2
Piante Arboree e Fruticose che stanno sempre vestite di foghe,
rw rfj ,ofn Tìresente in letteratura italiana, Venezia 1784, p. 14 («attesa la
^StSoS Sra poSTca il Neologismo Straniero deVessere d pnmo
Carattere Costitutivo del presente Gusto Italiano in fatto di Lette .
^fnffinsoDra la lingua italiana del Cesarotti, Padova 1785, p 54:
"rèuSmore menoSSabili gU Autori dede Lingue Dotte-, «qualche
SS? ^S^Sista, Mattando le frasi idolatriche dei Romani alla
^S'S^gSSdeto' grata fu proposta dal bergamasco
uJSndo c£cia'« La sua .ortografia filosofica di soli diecinove
SS- Conobbe abolire la /, la v, e la z. Egli manterrebbe ila ih .solo m
h hni ha hanno oh ahi, deh. Scriverebbe otsio, gratsia, petso e anche
"S^rhoXe-«b?.f^«
a—
de? (Scc’ia, da lui stesso applicata senza molta coerenza, non eb
alcun séguito.
13. Suoni
Oualcuno dei grammatici toscani cerca di fornire schiarimenti sulle
miattro lettere di pronunzia ambigua (e, o, s, z ): il Gigli nella «Raccolta
di tutte le voci italiane di buon’uso» (inclusa nella sue Regole per
,« gì veda il volumetto composto di più opuscoli usciti in date diverse e
pomposamente intitolato Opere, Bergamo 1782-66.
Il Settecento
485
toscana favella, Roma 1721) distingue (ma con numerose sviste) le
parole di incerta pronunzia; invece gli altri grammatici non fanno che
accennare al problema: per es. il Corticelli: «E... presso i Toscani ha due
suoni, l’imo più aperto, come in mensa, remo-, l’altro più chiuso, e assai
frequente, come in refe, cena. Cotal suono però appresso i Poeti non fa
noja alla rima. Petrarca, canz. 24: Fa subito sparire ogn' altra stella, Così
pare or men bella. E pure stella ha il suono chiuso e bella aperto» Q. Ili,
cap. i; un analogo paragrafo si ha per la o).
Le congiunzioni e e nè hanno ancora suono aperto, come si vede
dalla trascrizione (è, né) che ne dà il Salvini nella sua versione di
Oppiano.
La moda franceseggiante fa che parecchi accolgano la pronunzia
uvulare della r alla francese, e la testimonianza di Carlo Gozzi ci fa
sapere che qualcuno proferiva alla francese anche la u 148 .
La regola del dittongo mobile è largamente ignorata, anche dai
Toscani (risuonasse, Cocchi; cagnuolina, Minzoni; scuoiare, scuolaretto,
Baretti), benché i grammatici continuino a prescriverla (il Gigli, nei
racconti che corregge per esercizio nelle Lezioni, muta suonando e
muoveva in sonando e moveva ).
La riduzione del dittongo uoao nel toscano parlato, che ancora nei
primi decenni del secolo non è avvertibile (a giudicare dalle battute in
fiorentino di G. Gigli) 147 , si dev’essere divulgata più tardi: il p. Ildefonso
Fridiani documenta «Omo secóndo il tronco pronunziare del volgo
anche presente» 148 .
Non mancano le incertezze di accento: per dame qualche esempio, i
Toscani preferiscono preparo, sepàro, mentre altrove si sentono spesso i
latinismi preparo, sèparo (Rosasco, Della lingua toscana, Torino 1777, II,
p. 463); si oscilla fra dissipa e dissipa, dìsputa e disputa, proibito e
proibito (Salvini, Annot. alla Fiera, V, in, 4); il Chiari (Il Medico viniziano
al Mogol, II, I) accenta ipocòndrio alla latina anziché alla greca. Poiché
la comune scrittura non dà consigli sul modo di accentare le parole,
quelle più rare vengono qualche volta imparate, e quindi ripetute, con
accenti erronei: così il coltrici del Parini 149 o il Megàra del Cerretti
(«Talia») o il Peripàto del Mascheroni («O mio Vigan...»).
Il troncamento della vocale finale assoluta dopo liquida e nasale è
ammesso in poesia («È la colpa e non la pena - che può farmi
impallidir»: Metastasio, Temistocle-, «Muggir di mare e rimbombar di
144 «Bello è sentire la lettera u pronunciata alla bergamasca, che ci faceva
ridere, la lettera r pronunciata nell’ugola, ch’era difetto d’organo viziato, divenuti
grazie e vezzi di pronuncia in Italia» (per influenza francese!: Gozzi, Chiacchiera
intorno alla lingua laterale italiana, p. 65 Vaccalluzzo (cfr. Lingua nostra, XVII,
1956, pp. 80-81).
147 Migliorini Linguale cultura, p. 182 n.
148 Delizie degli eruditi toscani, I, Firenze 1770, p. cx.iv.
149 «Il Sonno - ti sprimacci le morbide coltrici» (Mattino , w. 85-86); più tardi il
Parini si accorse dell’errore, e nelle varianti inserì un coltrici sdrucciolo.
486
Storia della lingua italiana
tuon»; Mazza), ma suona falso dove i versi sono prosaici («Per or non
ttqH/-» o scasso, vado per un affarci Goldoni). / ■ .
Quanto ai troncamenti della vocale finale quando ima paro a si
connette alla seguente (volgar lingua, ragion che sopravvenga ), non
soltanto essi sonofrequentissimi nel verso, ma abbondano in parecchi
OTOsSori del leSSndo Settecento; U Foscolo a più riprese se la prenderà
contro questo «vizio di troncar le parole», che considerava «atticismo
^Quando aUa^paroia troncata si affigge un’enclitica, non si ha
assimilazione, almeno nella scrittura: passiamla (Fagiuoh, Il cavaliere
parigino, II, se. 6).
14. Forme
Le oscillazioni che osserviamo nelle forme grammaticali sono
ancora a un dipresso le medesime che nel Seicento. Davanti alla z
Drevale ancora l’articolo il: ma nei passi del padre Segnen ritoccati dal
n Bandiera, questi corregge ’l zelo in allo zelo. Un po piu rispettata è la
rèttola che prescrive lo, gli davanti a s impura: il Baretti commentando
un sonetto di un poeta frugoniano [Frusta lett., n. X) avverte: «ai scritti
(doveva dire agli scritti)*. Il Cesarotti che nota queste particolarità fra
quelle su cui «i timorati grammatici fanno schiamazzo» faggio ,III,iI
adopera Uberamente ambedue le forme. La forma U per d piurate
dell’articolo sta perdendo terreno, ma è ancora tutt altro che rar ,
sSc^davlnli a consonante: il GigU dice che deUa scel a fra i due
articoU i e li «sarà giudice l’orecchia» {Lezioni, p. 42), mentre il
MirapelU (Delle partì del volgare parlamento Casale 17 2 8 - p : che
li è «più del Poeta che del Prosatore». Solo del v ® rs £ ? l ì l i ° x ^ a Ì^ V o
consonante («i migUori che io ver non sanno»: Gozzi Serm XDD, salvo
che non si tratti deUa preposizione articolata per, ché in questo caso 1
grammatici continuano a prescrivere perdo
larecchi (ma ad es. il Genovesi scrive pel desiderio). Ai, dei, nei sono
SSd Temere sostituiti da a’, de’, ne\ Nei versi c’è chi preferisce
scrìvere staccate le preposizioni articolate quando non siano apostro-
fate p es il Parini scrive (in poesia, non in prosa) ne le Gallie, ma
dellopre. La preposizione fra qualche volta è scritta congiunta («qual-
che rosa traile mie spine», Fagiuoli). ,
Nel plurale dei nomi e aggettivi in -co e -go continuano le
intonachi CTargioni Tozzetti), ittiofaghi ^smotti),
d aralitìchi (FagiuoU), astrologhi (Gozzi), reciprochi (C. Gozzi, castu,
tombrici (Cocchi), bruci CTargioni Tozzetti), catoiogi EanmchelW omo o-
ei (GalianU- il Cesarotti, che nel Saggio aveva scritto teologhi, nella 3
td. corresse in teologi. Anche nei superlativi, abbiamo cattolichissimo
- seconda lezione pavese, in Opere, Ed. naz., VII pp. 93-94-, Discorso storico
sul testo del Decamerone, in Opere, Ed. naz., X, p. 357.
agi
Il Settecento 487
(Manni), filosofichissima dissertazione (Baretti), ascetichissimo e teologi-
chissimo (p. Fridiani), ecc. Qualche plurale in -u è esumato per
arcaismo (le coltella, G. Gozzi, le pugna, C. Gozzi) 151 . Per il plurale dei
nomi in -elio, troviamo non solo capegli, ma anche campanegli (Baretti)-,
in verso anche -ei (augei, Cerretti).
Qualche numerale composto con sei o sette appare ancora in forma
contratta: cinquansei (Saccenti), cinquanzettimo (Cocchi), venzett'anni
(Baretti).
I grammatici continuano a discutere il vecchio argomento, se lui e
lei siano ammissibiU come soggetti; il Bertini ( Giampagolaggine , p. 140
Bacci) e il Salvini in una cicalata 152 U ammettono in parecchi casi, il
GigU (neUa prefazione al Don Pilone) chiede che «si doni ciò aUo stesso
idiotismo plebeo di Toscana, il quale riesce quanto più proprio, tanto
più grazioso».
NeUe forme oggettive atone li e gli, lo e il si adoperano ancora
promiscuamente. Probabilmente per influsso francese, si comincia a
adoperare lo riferito a una frase precedente: «l’Accademico è un
personaggio distinto dal Professore, come lo mostrò egregiamente il
mio valoroso CoUega» (Cesarotti, «Riflessioni sui doveri accademici»,
in Opere scelte, I, p. 330 Ortolani).
Gli atono con significato plurale è adoperato anche da un purista
come C. Gozzi: «né vergogna - gli prende [= agli uomini! a dare il core
aUe più viU» ( Turandoti
II toscano gliene per «gUelo, gUela, ecc.» è adoperato per es. dal
FagiuoU e, per arcaismo, da G. Gozzi («Presemi eUa la mano. Vorrei che
aveste veduto con qual garbo io gliene baciai»: Osservatore veneto,
XXIX).
Accanto alle forme encUtiche normaU mi, ti, si sono ammissibiU nei
versi le forme me, te, se-, anzi il Parini spesso, correggendo il suo poema
già stampato, mutò saettarti in saettarte e simiU.
Al plurale, ne per «ci» è frequentissimo anche in prosa. Qualche
scrittore settentrionale, ricalcando il dialetto, confonde ci con si: «ci
serviamo deUo stile famiUare... per non distaccarsi del verisimile»
(Goldoni, Teatro comico, II, se. 2).
NeUe sequenze di pronomi atoni, ancora persistono, in verso e in
prosa, se gli, se le per «gU si», «le si»: «In questo mentre Gano se gli
getta - ai piedi» (Forteguerri, Ricciardetto, XXIV, st. 69); « se gli facciano
(al fanciullo] tirar due righe di scrittura» (Genovesi, Lez. civ. econ., I, p.
203)-, «gode che se le presenti un’occasione» (Spalletta Saggio sopra la
bellezza, p. 27 Natali), «non si obbedisce al medico e non se gli chiede»
(Goldoni, Finta ammal., II, se. 2 a ).
Ci e vi come avverbi di luogo, che prima significavano «in questo
151 Nei prosaici versi della Notte critica di, se. 10), il p. Chiari accanto a dell’ova
scrive degli ovi e l’ove.
,!B Nella Raccolta di prose fiorentine, Firenze 1741, parte III, n, p. 200.
della lingua italiana
gloria aeu^ «*•©«** *»y**w™
00 uel luogo*, ormai sono venuti a confondersi, come
A e *' q Gigli nel Vocabolario cateriniano, s. v. Particelle -, il p.
i 0, ^comanda vi anche per indicare «in questo luogo»; invece il
la distinzione di significato. .
tfS&i f® imo nel Settecento è il costrutto il di cui libro, la di cui
lusinga, che siate un giorno la di lui sposa»; Goldoni, Le
%0yt e u& , S1 Gb I se. 1 1). Pure frequente è Io che (« S’egli pur ti piacesse,
P eT lC t non osa»; Chiari, La Veneziana in Algeri, V, se. 2).
t 0 Ì a fl Kip er0 ‘ X c k nuò ancora adoperare come un plurale: «un mazzo di
gfdpfi oDerazioni di lingua»; Salvini, Prose toscane, I p. 210);
yt> C Q0{L d’impiego» (Parini, lettera 1769 al conte Firmian),
O lC !% e °Xnmaticature» (Amen, Vita, anno 1783), ecc.
d'iffirtì# possessivo suo è talvolta adoperato con riferimento a un
es il Gigli («tante Eccelse, e robuste Monarchie dalle
così pg djv elt e »f orazione 1714, in Lezioni, p. 161-, il Becelli
né 1’Ariosto] lasciarono di scrivere Toscanamente,
auisa parlassero i terrazzani suoi»-. Se oggidì senven-
Vjb fifi m Goldoni («Le Muse, che non abbandonano i suoi divoti»: /I
74)- . tt sc . 7 ) : all’influenza latina si assomma in questi ultimi
■ó e a dialettale. .
y SP"AP h a ue ^ à anche il rafforzamento con che dei pronomi e avverbi
pO rtv\ nazzi quanti che siete» (Goldoni, I malcontenti , II, se. 8),
0 0 V<i-. che condizione miserabile che mi trovo!» (Goldoni, Le
h 1 ®.’ vili I 7) «come che fanno i cani» (Chiari, Il Tesoro, I, sc.
P er Ift r’è del male» (Chiari, La bella pellegrina. II, sc. 1), ecc.
(tprJe c oinne verbale è grande l’abbondanza delle varianti, tra le
0 eS f°Sci si sforzano di mettere- ordine, fi Gigli, nelle Lezioni
ah cana, accanto alla colonna in cui registra le forme
0 rii *JaO> ' ^ ha altre tre, di cui una è dedicata alle forme «antiche»,
dirlrvlP*’^* poetiche», l’ultima a quelle «corrotte». Senza discutere
* aP * 0 di questa classificazione 154 notiamo l’importanza data
0 Liche; in genere si tratta di forme arcaiche ancora
pà\\’°?fiP e versi Naturalmente il giudizio sull’appartenenza di
^fth^^Vi-una o all’altra categoria è in parte opinabile: per es. il
éKriQ e-d&ZSÌ accanto a vediamo e veggiamo corretti, vedemo come
a? *°se>& s -a Non ci meraviglia di trovare la terminazione in -emo nel
v^t’è noto, arcaizza («il di più che noi godemo sopra gli
^^nuneno di trovarla in poesia («Veder ciò che vedem tu
^rfversi approfittano largamente della libertà di servirsi
a ?\ 0 e.aOirt laiche»- troviam ó la -e nella terza persona del congiuntivo
tO'cPpe ‘P°
d* elle stesse Lezioni, p. 57: «resta talora qualche dubbiezza intorno al
*9 C^’sito* Partizione del Gigli è accolta da G. B. Pistoiesi, Prospetto di Verbi
* a uftdn ^76l- e una divisione simile daranno, nel secolo seguente, il
Compagnoni.
Il Settecento
489
dei verbi in -are, non solo dove il poeta aspira a un tono nobile («E l’amo
ancor che il suo destin l’onnode - con sacro laccio a più felice amante»:
Zappi; «nè perché roco ei siasi, o dolce ei conte»-. Zappi, «Il gondolier...»;
«quanta awien che olezzante aria rinnove »: Varano, Visioni, I; «Una
certa grandezza - splende, che si può dir che nulla manche »: C. Gozzi,
Marfisa bizzarra, VI, st. 85) 155 ma anche in passi di andamento prosaico,
in cui la forma è prescelta soltanto per trovare più facilmente la rima
(«A sé mi chiama il Duca; fa che l’udienza aspette»-. Goldoni, T. Tasso, II,
sc. 1; «Si cangi quanto vuole; ma trovi chi l’ascolfe»; Chiari, Il poeta
comico, III, sc. 2). Se ai versificatori è riconosciuto il diritto di servirsi
delle forme poetiche, perché privarsene? Così il Chiari arriva a
esumare un arcaico sièno per siano, quando gli serve una rima in -eno-,
«Non dico che insoffribili gli uomini tutti sieno» Ul filosofo viniziano, I,
sc. 1).
Tra le varianti generalmente ammissibili ricordiamo le due forme
della prima persona singolare dell’imperfetto. Accanto alle forme era,
amava, vedeva ecc., di gran lunga predominanti, sf hanno le forme ero,
amavo, vedevo, ecc. (usate per es. dal Chiari e da P. Veni). Altra forma
oscillante è la 2 a persona singolare del congiuntivo presente: che tu
abbia o che tu abbi 156
Le forme di terza persona plurale del congiuntivo del tipo vadino,
venghino sono largamente diffuse, ma proscritte dai grammatici 157
Per le seconde persone plurali dell’imperfetto indicativo i Toscani
preferiscono alle pesanti terminazioni regolari (voi andavate, voi
facevate ) le forme più brevi voi andavi, voi facevi, ma, salvo il Fagiuoli,
v’è pochi che osino scriverle 158
Al condizionale, le forme di terza persona in -io sono frequenti nel
verso, ma si hanno anche nella prosa. Quelle di prima persona plurale
in -aressimo, -eressimo, -iressimo appaiono qua e là, ma i grammatici
non le tollerano: correressimo (Vico), vedressimo (C. Gozzi), saressimo
(Cesarotti), potressimo (Alfieri). Alla terza persona plurale le forme in
-ebbono sono ancora ammissibili.
Non termineremmo più, se volessimo elencare la maggiore o minore
osservanza delle forme di verbi meno regolari: notiamo tuttavia che gli
155 II Panni, che nel Mattino aveva scritto «Sì temerario che in suo cuor ti
beffi-» (v. 633), «E chi vuoi ch’osi» (v. 650) ecc., ritoccando il poemetto correggeva ti
beffe, ose, ecc.
158 Il Cesarotti, nell’un caso e nell’altro, si pronunzia almeno teoricamente per
la forma «inserviente alla distinzion delle persone» (Saggio, III, n, 2), cioè per
amavo e abbi. Anche il Rosasco {Rimario, alla terminazione - oschi ) preferisce che
tu conoschi a che tu conosca.
157 II Natali, nel ripubblicare il Saggio sopra la bellezza di G. Spalletti (1765),
avverte (Firenze 1933, p. 82) di aver eliminato forme come convenghino, appari-
schino, rimanghino.
158 In una scena del Cavaliere Parigino del Fagiuoli (II, sc. 17, in Commedie, III,
Firenze 1735, p. U6), un personaggio domanda: «... lo volevate ?» e un altro
risponde: «Eh, io non lo volevavo... questo signore lo volevava».
490
scrittori non toscani hanno una certa tendenza ad applicare i paradi-
gmi regolari-, potiamo (passim), onderà, averà, goderà (Goldoni), s oppo
nera (Chiari), veniremo (C. Gozzi), ecc.
L'ausiliare dei verbi riflessivi impropri è ancora avere-, «si hanno
preso la briga» (Galiani), «se si avesse seguito l'ampio campo» (A. Conti)
«mio fratello se l'ha sposata Qa Bergami» (C Gozzi) «mi Pare che
abbiasi fatto più onore di quel che meritava» (Mazzuchelli), ^ Pe^o
che .. l'acqua vi si abbia scavato il canale piu angusto* (Targiom
Tozzetti), «l’idea che codesti Signori si hanno di me formato* (MelB, eca
Della flessione personale delle forme indefinite, propria un tempo
dei dialetti meridionali e dell’italiano scritto fondato su di essi (esser eno,
essendono) non vi sarebbe più traccia, se il Vico non 1 avesse adoperata
con voluto arcaismo.
15. Costrutti
In questo campo si fa molto sentire l’influenza francese Francese è
il tipo «pollo allo spiedo» (biasimato come tale nel Raguet del Maffei,
III, se. 2; cfr. p. 476) Il di partitivo si estende al di là di quel che era 1 uso
tradizionale: «con più di energia», «il troppo di varietà» (Algarottfl.
Al francese si appoggia la fortuna del superìativo relativo con
l’articolo ripetuto: «le anime le più sonnacchiose» (Genovesi), «il poema
il più galante che ci sia», «le verità le meglio dimostrate» (Algarotti), «la
musica la più eccellente» (Goldoni), «l’uomo il più grave, 1 uomo i piu
XSbeo della terra» (P. Verri), «l’uomo il più sensitivo della terra»
(Pe rini) , «l’arte la più necessaria» (Filangieri), ecc.
Sul francese è modellato il costrutto «E Antonio (o E lui ) che me 1 ha
scritto» con valore enfatico: «È da così lungo tempo eh io non ho nuove
di lui» (Algarotti, Opere, XVII, p. 27), «fors’è per ciò che vengono spesso
a trovarmi» (Bettinelli, Opere, V, p. 89), ecc. 1 .
E anche il costrutto «Non gli ho dato per elemosma che un
quattrino» risente dell’influenza francese 180 . , .
Lo stesso si può dire del tipo per poco che («per poco eh io cambi non
sono più io»: Bettineili, Opere, V, p. 123) e del tipo troppo... per («egh è
troDPO saggio e prudente per approvare»: Fontamni) .
Si divulgano ora (e li biasima il Maffei nel Raguet) ì due costrutti
perifrastici vengo di dire, vado a fare.
IS » Già l’italiano possedeva costrutti come «È Antonio, che è tenuto a
salutarmi» e «È manifesto che ha ragione», sui quah il nuovo tipo ha potuto
facilmmde appgparsio 63; ado pera per altro che, fuor che, più che
alla Franzese» CU costrutto antico era non., se non...- «le gru non hanno se non una
cosciav Bocc. ^■ t ^ I li > 0 1 °Ì 0Strutt0 U biasimo di G. G- Orsi (ConsiMoni
sopra un famoso libello franzese, I. Modena 1735, p. 720) e di G. C. Becelh (Se oggidì
scrivendo..., cit., p. 80).
Il Settecento
491
Il gerundio preposizionale in leggendo (Algarotti, G. P. Zanotti) è
promosso dall’analogo costrutto francese, ma ha esempi antichi negli
scrittori del Trecento (in aspettando : Petrarca) e del Cinquecento, e
perciò è considerato legittimo 162 . Malgrado («malgrado la lontananza»,
Zanotti; «malgrado le gelosie frequenti»; Bettinelli) tende a sostituire,
secondo l’esempio francese, il costrutto tradizionale o malgrado di.
Anche la ripresa col relativo («il dialetto particolare d’un popolo
illustre dell’Italia, il quale dialetto...»: Parini) sembra dovuta all’influen-
za di analoghi costrutti francesi 183 .
Ma, più ancora che nei costrutti nuovi o rinfrescati, l’influenza
francese si sente nella scelta d’un periodare diverso da quello tradizio-
nale. La frase lineare tende a sostituire quella architettonica: molti
preferiscono ai periodi lunghi, ricchi di nessi subordinati («stile periodi-
co»), periodi brevi scarsamente sindetici («stile spezzato» o «interrot-
to»). Inoltre, prima Lordine delle parole era ricco d’inversioni, e
regolato in un ampio giro preferibilmente concluso da un verbo,
secondo i modelli latini e quelli latineggianti del Boccaccio o del Casa;
ora invece molti scrittori preferiscono l’ordine diretto. I due problemi
sono diversi, benché strettamente connessi 184 ; in Francia i grammatici
ne discutono a lungo, sotto l’influenza delle idee di Cartesio e di Port-
Royal, mirando soprattutto a raggiungere la massima chiarezza; in
Italia i novatori come l’Algarotti, i Verri, il Cesarotti, non perdono
occasione di lodare i pregi dello stile spezzato e dell’ordine diretto 18S ; il
Beccaria ironizza sull’«arte sopraffina di stemprare un pensiero, anche
comune, con qualche centinaio di parole, e poi impastarne tutto il
composto in un bel periodone di mole gigantesca, e tutto cascante di
vezzi, e sostenuto da tante minutissime particelle, che fanno poi il
secreto dell’arte» («Lettera sulla lingua», Il Caffè, tomo I, Brescia 1765,
p. 70) 166 . Invece il Galeani Napione difende i periodi che spaziano
162 M. V. Setti, in Lingua nostra, XIV, 1953, p. 12.
163 G. Folena, in Lingua nostra, XVIII, 1957, pp. 22-23.
164 Vedi, specialmente sul secondo argomento, A. Viscardi, «Il problema della
costruzione nelle polemiche linguistiche del Settecento», in Paideia, II, 1947, pp.
193-214; e M. Puppo, «Appunti sul problema della costruzione della frase nel
Settecento», in Boll. Ist. lingue estere Genova, V, 1957, pp. 76-78.
185 Si senta l’Algarotti nella prefazione al Newtonianismo del 1737: «Lo stile
che io ò procurato di seguitare, è quale io ho creduto convenire al Dialogo, netto,
chiaro, preciso, interrotto, e sparso d’immagini e di sali. O’ schivato più che ò
potuto quell’intralciati e lunghi periodi col verbo in fine nemici de’ polmoni e del
buon senso, che sono, assai meno che non si pensa, del genio della nostra Lingua,
e che non devono essere guari del genio di quelli, che vogliono essere intesi. Gli ò
lasciati affatto a coloro, che anno abbandonato il Saggiatore per la Fiammetta... »;
oppure la sua lettera a E. Zanotti da Potsdam, 15 maggio 1747, in cui professa di
schivare «a tutto potere quegli intralciati e lunghi periodi col verbo in fine, nemici
dei polmoni e del buon senso...».
— 188 I grammatici francesi, e specialmente il Condi llac, avevano insistito
sull'inutilità delle particelle subordinanti nelle numerosissime frasi in cui la
dipendenza era già ovvia.
492
Storia della lingua italiana
ampiamente 1 ® 7 , e ritiene un vantaggio dell’italiano quello di ammettere
sia la costruzione diretta che quella inversa; G. Gozzi non può soffrire
lo stile spezzato 168 . Il Baretti più volte insiste sui pregi dell’ordine
diretto 189 , ma non è molto favorevole al periodare spezzato 170 .
Tende sempre più a fissarsi la sequenza moderna per cui l’attributo
con valore limitativo segue il nome a cui si riferisce: in particolare i
participi, gli aggettivi etnici, gli aggettivi indicanti la materia o la
forma o il colore. La regola è lungi dall’avere carattere assoluto: vi si
può contravvenire sia nella lingua poetica, che non rinunzia alla sua
antica libertà, sia anche in prosa per influenza latina. Il Metastasio
ricorda l’araba fenice nella notissima quartina del Demetrio Gl, se. 3); la
Veneta Marina è dell’uso ufficiale della Repubblica Veneta-, il Parini
parla della cimmeria nebbia, dell’itala voci, déìl’italian Goffredo, e così
via; il Baretti parla di «alcune settentrionali isole»; l’Alfieri nella Vita
ricorda un suo periodo «di logorate grammatiche e stancati vocabolari...
e di raccozzati propositi» 17 ' , ecc.
Fra le trasposizioni più o meno ardite, di cui la lingua poetica
conserva il privilegio, ricordiamone una frequente soprattutto nel
Pe rini 172 , l’incastro di un complemento tra l’aggettivo attributivo (o
anche il semplice articolo) e il nome: «e le gravi per molto adipe dame»
(Parini, Notte, v. 268); «le dal sol percosse - del suo fiotto inegual spume
d’argento» (Bettinelli, «All’abate Benaglio»), «Su la d’olivo inghirlanda-
ta prora» (Fantoni, «Sorgi Laware...»), «la rauca di Triton buccina tace»
(Mascheroni, Invito a Lesbia Cidonia, v. 88), ecc.
Le rudi trasposizioni dell’Alfieri colpivano lettori e ascoltatori:
prova ne sia quel verso parodistico che un bello spirito coniò nel teatro
dei Dilettanti a Roma, una sera di scarso concorso: «Oh poca quanto
nel teatro gente!» 173 .
187 Dell’uso e dei pregi della lingua ital., 1 . II, cap. n, § 10.
186 «Oggi è usanza che non si usano più periodi ma singhiozzi; e quello è
periodare meglio gradito, ch'è più spesso rotto... Quando til fanciullo! studia le
novelle scelte del Boccaccio, gli farei notare la purità, la varietà e la proprietà del
suo stile; ma l’armonia di quel periodare non è più intesa dagli orecchi nostri,
divenuti ritrosi pel continuo stile interrotto, smanioso e a singhiozzi, che s’usa
oggidì, per grazia delle traduzioni dal francese e per colpa de’ traduttori» (Scritti
scelti... da N. Tommaseo, Firenze 1849, II, p. 225 e 240).
160 V. i passi della Frusta letteraria Ù5 novembre 1763, 1 aprile 1764, 15 gennaio
1765) e della Scelta delle lettere famil. Qett. XXVI) ricordati da Viscardi, art. cit.
™ o almeno a quello stile molto spezzato che Voltaire adoperava nella
lettera indirizzata al Goldoni «figlio della natura»; «egli non sa finalmente che
noi' non scriviamo a periodetti spezzati, come fa egli in questa sua grama
letteruzza, usando noi di legare i nostri pensieri e i nostri periodi con un poco di
garbo e d’armonia» (Frusta, n. XXII, 15 agosto 1764; I, p. 187 Piccioni).
171 Cfr. le osservazioni di M. Fubini, in Lingua nostra, XV, 1954, p. 109.
172 Ma di cui già si avevano esempi nel Martelli (Carducci, Opere, XVII, pp.
154-155).
173 I. Bernardi - C. Milanesi, Lettere inedite di V. Alfieri, Firenze 1864, p. 74.
Il Settecento
493
16 . Consistenza del lessico
Se guardiamo qual era, al principio del secolo, il lessico che gli
Italiani avevano ricevuto per tradizione, vediamo che nei suoi elementi
essenziali era quello medesimo dei secoli precedenti. Ma alla tendenza
conservatrice si contrappongono forti tendenze novatrici, conformi alla
inclinazione generale del Settecento di ribellarsi alla tradizione ove
non corrisponda alla «natura» e alla «ragione». E poiché antesignana
di questo movimento è la Francia, una larga parte delle innovazioni è
data dai francesismi: sia vocaboli propriamente francesi, sia vocaboli
di formazione greco-latina che muovono dalla Francia per divulgarsi in
tutte le lingue europee.
Diamo una rapida occhiata ad alcune fra le parole che cominciano
ad essere adoperate o che assumono nuovi significati e nuova voga in
questo secolo 174 .
Filosofo e filosofico hanno un significato molto generale, riferendosi
non specificamente alla scienza dei primi principii, ma a ogni attività
che implichi riflessione. Per es. il Targioni Tozzetti avverte: «conside-
rando attentamente con occhio Filosofico questa Pianura orizzontale
di Pisa, si vede che l’Amo negli antichi tempi l’ha dominata in varj
luoghi» (Relazioni d’alcuni viaggi, 2 a ed., Firenze 1768, II, p. 94); P. Verri
parla del «filosofico pellegrinaggio d’America» del La Condamine (Il
Caffè, tomo II, Brescia 1766, p. 273). Molti parlano del filosofismo (e anzi
l’abate Cataneo espone II filosofismo delle belle, Venezia 1753); e si
designano vari rami e varie scuole della filosofia (per es. psicologia;
fatalismo, materialismo, monismo, ecc.).
La persuasione d’essere giunti all’età del trionfo della ragione dà
valore di mito alle espressioni lumi ( secolo dei lumi, filosofia dei lumi),
illuminato, ecc., che appaiono frequentissime, sia nei fautori dello
spirito nuovo, per es. sotto la penna degli scrittori del Caffè 175 , sia,
ironizzate 178 nei lodatori del tempo antico 177 .
Anche letterato ha un senso molto più ampio di quello odierno: non
essendo ancora approfondita la scissione fra le lettere e le scienze.
174 Vanno tenute presenti le osservazioni e le ricche note di A. Schiaffìni, nel
V cap., già cit., dei suoi Momenti.
175 «Più l’uomo è illuminato, e minore è il numero degli avvenimenti che
attribuisce alla fortuna»; Verri, Il Caffè, tomo II, p. 153; «illuminatasi la pubblica
opinione venga stabilito un modo più ragionevole e meno feroce per rintracciare i
delitti»; Id., «Osservazioni sulla tortura», in Opere varie, I, p. 357 Valeri, ecc.
176 «Benedetti i scrittori illuminati!»: C. Gozzi, Marfisa bizzarra, XI, st. 33;
[costumi e caratteril «riformati da’ scrittori pemiziosi e dalla scienza del nostro
secolo detto illuminato»; Id., note alla Marfisa ; «una scienza che anima la
corruttela sotto l’ipocrita veste di illuminatrice»: Id., Chiacchiera p. 78.
177 Su queste espressioni, cfr. P. Hazard, La pensée européenne au XVIII* siede
de Montesquieu à Lessing, III, Parigi 1946, pp. 26-31; Fubini, in Problemi e
orientamenti. III, p. 590; in particolare su illuminismo, A. Natta, in Belfagor, I,
1948, pp. 603-607.
494
Storia della lingua italiana
letterato si riferisce alle une e alle altre, vuol dire msomma « dotto» (il
Giornale dei letterati corrisponde al Journal des Sgavans francese).
Concetto proprio della filosofia del tempo, ma ben noto anche ai
non filosofi è quello del buon gusto : ne discettava, come è noto, il
Muratori (Lamindo Pritanio, Riflessioni sopra il Buon Gusto intorno le
Scienze, e le Arti, Venezia 1708). . . _ , _ , >_
Se la ragione è uno dei miti del secolo, non meno importiate è la
funzione che si attribuisce al sentimento 178 : nasce allora il termine di
sentimentale 179 , mentre sensibile viene a significare «che si commuove
facilmente», «che ha sensi di umanità».
Entra nell’uso emozione, acquista voga sublime. „
La distinzione già esistente fra genio e ingegno viene approfondita
nel 700 e ge/So riene applicato non solo agli spontanei impifisi
dell’animo ma a una forza creatrice eccezionale, e poi anche all uomo
in cui questa forza si manifesta: «Siamo qui (sic)
_ „ ot . rn oì Hire di . sì gran gemo qual fu Dante» (Salvini, Prose
tose III P 2) 180 Altra esigenza settecentesca è quella della tolleranza,
ODDOSta al fanatismo m . Gli increduli estendono l’ambito di pregiudizio
fino° a includerà ogni manifestazione religiosa-, e si protestano
^rejudtcati, spiriti forti, liberi pensatori * Molti si professano filantro-
Pl Persiste^ ancora il vecchio significato di patria e di nazione ritrito
alla città o al piccolo stato a cui uno appartiene; ma sempre piu
frequente è il riferimento all’Italia intera- Patriota, patnotto che nel
Seicento voleva dire «compatriota», ora prende il significato di «aman
pipila rjatria»; seguono patriotitìico e patnotltiismo •
Entrano in circolazione nel Settecento anche democrazia e despoti-
smo. Nella seconda metà del secolo, appare il termine di risorgimento.
». Lerch, in Archivum Roman.. XXII, 1938, pp. 338-349; Fubini, in Problemi e
0rte ^ a ^ t Todotto’ m balia, sembra, nel 1792, con la prima versione del Viaggio
. . » j- Qi-rnp fA L Messeri in Biv. lett. med n. 15-16, 1954, pp. 102103).
sen ™ v n gli echi della reazione puristica in Vìani, Dizionario di
r
noto articolo Della patria degli Italiani di Gian Rinaldo Carli.
185 Schiaffini, Momenti, p. 112.
Il Settecento
495
come espressione della volontà di uscire dallo stato di inferiorità in cui
l’Italia allora si trovava; più che altrove, in Piemonte la parola è
permeata di pensiero politico («il nostro imminente risorgimento»;
conte di San Raffaele, 1769) 188 .
Alle discussioni sulla lingua è legata l’apparizione di linguaio,
parolaio, purista e di neologismo.
Il significato estensivo di abate, riferito in genere a qualsiasi
ecclesiastico (cfr. p. 360), e la divulgazione di cicisbeo sono tipici di
questo secolo. E così pure la moda degli improvvisatori e quella delle
raccolte.
L’introduzione dell’uso del doppio settenario è ricordata traendone
il nome da quello dell’autore: martelliano, da P. I. Martelli. «Il
Settecento distinse la gazzetta dal giornale, e il gazzettante, compilatore
di notizie cittadine e politiche, dal giornalista, compilatore di notizie
letterarie: mestierante il primo, letterato, o savant, dotto di scienze e di
lettere, il secondo» 187 .
Da opere letterarie del Settecento prendono origine alcuni nomi:
vanesio dal nome del protagonista della commedia del Fagiuoli Ciò che
pare non è (1724), ciana dalla protagonista del melodramma di A. Valle
Madama Ciana (1738), lillipuziano dai Viaggi di Gulliver di Swift, e altri
ancora 188 .
Le parole dell’opera in musica sono consegnate a un libretto-, può
darsi che il termine risalga al tardo Seicento, ma comunque non era
ancora ben consolidato al principio del Settecento, perché il Muratori
nel trattato Della perfetta poesia (1706) scrive: «Mancando all’uditore il
libricciuolo (come suol chiamarsi). dell’Opera...».
Numerosi vocaboli nuovi appaiono nel campo delle dottrine stori-
che e critiche: biografo, editore, diploma (insieme con diplomatico e
diplomatica ) ecc.
Secentismo e secentista prendono senso spregiativo nella prima
metà del Settecento 189 . Romanzesco, che al principio del secolo non era
186 Calcaterra, Co nvivium, 1947, pp. 5-32. Cfr. anche: «Amo la mia patria,
compiango i suoi mali, e morirò prima che ne disperi il risorgimento » (P. Verri,
«Pensieri sullo stato politico del Milanese», 1790).
187 G. Natali, Il Settecento , p. 39, cita la definizione dei giornali data dal Maffei
nell’Introduzione al Giornale dei letterati d’Italia: «quell’opere successive, che
regolatamente di tempo in tempo ragguagli danno de’ varii libri, ch'escono di
nuovo in luce, e di ciò che in essi contiensi» (ciò che oggi diremmo «rassegna
bibliografica»).
188 Migliorini, Dal nome proprio, pp. 188-190, dove sono però incluse anche voci
nate nell’Ottocento per riferimento a personaggi settecenteschi: per es. pamela
«cappello di paglia a larga tesa per donna», ecc. Si può aggiungere il nome di
delia, dato dal matematico p. Guido Grandi a una curva, per onorare la contessa
Clelia Borromeo.
189 Cfr. la lettera del Metastasio all’ Algarotti del 1 agosto 1751: «da mezzo
secolo in qua, non v’è barcarolo in Venezia... che non detesti, che non condanni,
che non derida questa peste, che si chiama fra noi secentismo »; o la History of thè
Italian Language del Baretti: «Nor can we give a more opprobrious character to a
496
Stona della lingua italiana
altro che un aggettivo di relazione di romanzo se mai con una
sfumatura spregiativa 180 , verso la fine prende quel significato per cui
noi prevarrà il vocabolo romantico-, «un misto di culto e di selvaggio,
d’ameno e d’orrido, di ridente e sublime forma una scena veramente
mirabile e romanzesca »: così il Pedemonte, nel romanzo Abantte
(1790) 101 . Pure in voga tra i Preromantici sono patetico e pittoresco.
Ebbero fortuna alcune locuzioni con bello-, bell’ingegno 192 , belle arti.
Negli ultimidecenni del secolo si divulga l’aggettivo barocco, riferito
all’architettura e alla scultura secentesca 193 .
Abbondano i nuovi vocaboli riferentisi a nuove mode, per lo piu
provenienti d'oltralpe: andrienne, falpalà, ecc. (ne enumereremo parec-
chi nel § 21). .
Appare qualche nuovo veicolo, come lo svimero.
Numerose invenzioni, italiane e straniere, dannò origlile a oggetti
nuovi, che entrano in circolazione con i nomi rispettivi: ncor^amo il
pianoforte, chiamato dapprima dal suo inventore, il padovano Bartolo-
meo Cristofori, il clavicembalo col piano e forte Oa imtizia della scoperta
fu divulgata da S. Maffei nel Giornale dei letterati d Italia nel 1711) . E
poi il ventilatore, lo scafandro, l’aerostato, ecc. La tendenza alla
praticità si manifesta con l’apparizione dell’aggettivo tascabile che
rSgarotti Getterà del 1 gennaio 1763) dice d’aver appreso dall uso
Par Appaioiuf nuovi giochi (come il faraone)-, si divulga in Italia il gioco
del lotto (da Genova, dove si scommetteva sul seminano, cioè sull estra-
zione a sorte dei nomi dei magistrati maggiori di tra 1 120 già approvati
Nel campo giuridico qualche vocabolo nuovo è dovuto specialmente
ai provvedimenti di carattere giurisdizionalistico; si pensi a monomor-
to Persistono forti differenze di nomenclatura per istituii analoghi,
dovute al mantenersi delle diverse tradizioni nei singoli stati. Ma per
qualche termine che ha significati diversi secondo ì luoghi si ha ogru
tanto qualche intervento normalizzatore: sappiamo per es. che nel 1706
a Roma il Tribunale della Rota, dovendo decidere se majorasco
bad modem scribbler, than by calling him un secentista » (Prefazioni e polemiche,
^ «è più facile, che i giovani a’ cattivi (libri], e a’ Romanzeschi s appiglino,
che a buoni»; Valiisnieri, Opere, III, p. 259
181 Bosco, in Problemi e orientamenti, 111, p. 62L _
182 Su cui cfr. Baretti, Frusta, n. Vili: I, p. 213 Piccioni.
‘«a Esso risale all’agg. frane, baroque (di provenienza portoghese) sovrappo-
stosi al termine barodcìo, già esistente in italiano come vocabolo mnemonico
artificiale per indicare una forma di sillogismo (Getto, Letteratura e critica nel
tempo, Milano 1954, p. 148; Kurz, in Lettere ital., Xf 414^; J^ormi,
[Accademia dei Linceil, Manierismo, Barocco, Rococò, Roma 1962, pp. 39-49).
184 Ma un istrumento «piano e forte lavorato tutto a rabeschi d hebano con
suo organo sotto» era già in un inventario-estense del 1598.
Il Settecento
497
significasse «eredità che tocca al fratello maggiore» come si usava a
Firenze e la Crusca aveva codificato, o invece «primogenito » come si
usava a Siena, si pronunziò per il secondo significato 195 .
Il nuovo fervore da cui sono animati i traffici tra i vari paesi, e
l’interesse che si manifesta per gli studi economici portano a innovazio-
ni notevoli nella terminologia 196 . Ecco termini come economia politica
(con i sinonimi pubblica economia e economia civile ) e il derivato
economista ; monetaggio, materie prime, monopolio, ( libera ) concorren-
za 197 , esportare e importare™; biglione «argento di bassa lega», miliona-
rio™, aggiotatore, cambia-valute, ( lettera ) cambiale, tassabile, capitali-
sta, ecc.
Manifattura e stabilimento passano, secondo l’esempio francese, dal
significato astratto di nomi d’azione a quello concreto.
I nomi delle istituzioni vecchie che spariscono e di quelle nuove che
si istituiscono nel periodo delle riforme andrebbero elencati stato per
stato: a Milano, per esempio, sotto Maria Teresa si effettua il primo
censimento nel 1749, si mette in opera il catasto prediale nel 1760, si
aboliscono le ferme e i fermieri nel 1771; sotto Giuseppe II vengono
create in Lombardia le camere di commercio, ecc. Oltre ai nomi delle
istituzioni pubbliche, vanno ricordati quelli di importanti istituzioni
private: per es. l’asilo d’infanzia istituito a Genova nel 1757 da Lorenzo
Garaventa.
II grande sviluppo delle scienze nel secolo XVIII fa sì che le
terminologie della botanica, della zoologia, della fisica, della chimica
ecc. subiscano modificò fioni grandissime. Appaiono migliaia di voci
nuove, di cui molte arrivano a penetrare nell’uso comune-, parecchi
termini, accanto al significato comune, ne prendono uno tecnico; altri
spariscono dall’uso, e così via. Mentre per alcune scienze siamo
esattamente informati, purtroppo per altre lo siamo molto meno,
perché gli specialisti non sempre hanno curiosità per la storia delle
discipline rispettive.
185 C. Lucchesini, Della illustrazione delle lingue antiche e moderne, 2“ ed.,
Lucca 1826, I, p. 67. Si ricordi anche l’amplissimo Parere intorno al valore dèlia
voce Occorrenza di P. F. Tocci, Firenze, 1707.
106 V. le considerazioni e gli spogli di A. M. Finoli, in Lingua nostra, Vili, 1947,
pp. 108-112, IX, 1948, pp. 67-71.
187 Nel significato di «concorrenza» il Baretti aveva tentato il neologismo
competenza-, «far valere i vini nostrani in competenza, dirò così, con quelli di
Francia» (Frusta , n. VII: I, p. 174 Piccioni).
188 « Esportare ed esportazione sono frequenti, ma accanto a questi gli
economisti usano anche i più generici estrarre, estrazione. Raro è importare, cui si
preferisce immettere, introdurre, intromettere-, ma importazione prevale su immis-
sione, introduzione e il rarissimo intromissione » (Finoli, Lingua nostra, IX, p. 69; in
nota i rinvìi ai singoli autori). Aggiungiamo che il Bettinelli adoperando esporta-
zione {Opere, XXI, p. 211) lo scrive in corsivo.
188 La parola è ancora legata al ricordo deH’inflazione seguita alle operazioni
di Law: «tutti coloro che a tempo del sistema di Parigi furono chiamati milionari »
(Genovesi, Lezioni di economia civile. Parte II, cap. vii, § 14).
498
Storia della lingua italiana
Il progresso scientifico e la conseguente rivoluzione terminologica
ha luogo parallelamente nei vari paesi d’Europa: e se il contributo
dell’Italia è molto notevole in alcuni campi, per es. l’elettrologia, per
altri essa è piuttosto ricettiva che espansiva. La cooperazione di
scienziati di vari paesi alla elaborazione sistematica di concetti e di
nozioni si presenta in modi diversi, le cui tracce si possono vedere nelle
rispettive terminologie. Talvolta il rinnovamento è legato a singole
personalità di travolgente influenza (si pensi a Linneo per la botanica e
la zoologia, o a Guyton de Morveau e Lavoisier per la chimica), talaltra
invece a un lento e paziente lavoro di più scienziati, che vengono
tessendo per più generazioni la trama delle loro discipline.
L’immane vastità di queste terminologie e l’impossibilità di ricorre-
re per molte di esse a lavori preparatorii ci sconsiglia dal dare
un’esemplificazione anche ridottissima dei termini nuovi o mutati di
significato; cercheremo piuttosto, ricorrendo ai campi che sono stati
meglio esplorati 200 , di dare un’idea dei procedimenti principali a cui
assistiamo nella formazione di queste terminologie, e dello sforzo degli
scienziati di giungere a sempre maggior rigore e sistematicità di
nozioni.
L’osservazione della natura porta alla conoscenza di oggetti e di
fenomeni sparsi per tutto il mondo. S’accettano così numerose voci
straniere (come platinai e particolarmente esotiche (come orango o
urango)-, ma soprattutto si attinge a vocaboli dialettali finora limitati a
un uso strettamente locale. Si pensi a termini come lava (Magalotti,
Della Torre) 201 o mofeta. Lo Spallanzani osserva il fenomeno del
calòfaro, nome che a Messina indicava un «incrocio di correnti» presso
Cariddi 202 . A Livorno il Targioni Tozzetti visitando due laboratori in cui
si tagliava il corallo raccoglie dalla voce dei lavoranti quattordici nomi
con cui si designavano altrettante sfumature di rosso-, schiuma di
sangue, fior di sangue, ecc. 203 .
D’altro lato tante scienze si sono servite e tuttora si servono così
largamente del latino per le loro terminologie che è ovvio attingerne
molte voci. Si pensi al lento adeguarsi dei nostri scienziati alla
nomenclatura di Toumefort e poi a quella di Linneo per la botanica 204 , e
200 Cito in prima linea gli ottimi articoli che F. Rodolico ha dedicato in Lingua
nostra a numerosi termini di geografia fìsica, geologia mineralogia, e specialmen-
te gli articoli «Terminologia geomorfologica settecentesca» (Lingua nostra, XVII,
1956, pp. 91-94, 112-U6, XVIII, 1957, 12-14, 52-55). Allo stesso Rodolico dobbiamo la
preziosa antologia La Toscana descritta dai naturalisti del Settecento, Firenze
1945, con un utile glossario.
201 Prati, Voc. etim., s. v. ; Rodolico, art. cit., XVIII, pp. 12-13.
202 Viaggi alle Due Sicilie, ap. Bonora, Letterati, memorialisti e viaggiatori del
Settecento, Milano 1951, p. 957.
203 Lingua nostra, XVI, 1955, p. 28.
204 Nella Istoria delle piante che nascono ne’ lidi intorno a Venezia di Gian
Girolamo Zannichelli e dì suo figlio Gian-Jacopo (Venezia 1735) le piante sono
elencate in ordine alfabetico, con i nomi latini con cui erano state fino allora
ISSI
Il Settecento 499
a quella dello stesso Linneo per la zoologia 206 Gli innumerevoli tarmir,,-
S - jn cui I nomi degù elemen”"^ SS„ B TK
pm con elementi greci o latini, e i composti sono intrecuosamento
SdSfrScSe Z aS’ttahan? SÌ ® “ passano con facfleTdattamen-
c^è iiSmaSonSei ’ *** l0r ° Struttura latina ^ema,
nèlle* SS? hi™ ™ tìamo «aliano spesso trovano esatto riscontro
a ®~.® angue europee occidentali: platina entra dallo spagnolo
. femmH } lle ' nia poco dopo è sostituito di platino maschile
P er analogia con 1 nomi degli altri metalli 207 . ’
Hai N rif 0l ° nei repertori * termini scientifici,' come in quello già citato
SSS s£rf 2 sS
di hSSie storierei d’Italia (o talvolta anche
m ungue stranierei. «Catinella chiamano gli Agricoltori quel ramicello
toent^° P S^f r i . 1 r ne f tare “u sfera -
è lo stesso, che calmella » (Vallisnieri ITT n
totofìK’SSi! H £f°- 1 1-ombara SXSJ S.S.S
chiamo P ' 423 : r- la - loro filetta o bozzolo, che egli [l’autore torinese!
^t C °r ne ^ p - 574); « a fluesti uccelli mi sia lecito di Se fl
(TiSSi TozzPt? S » n f S - Chìa ^ a stìattaion e e dai Romani strillozzo »
Uargiom Tozzetti, Relazioni, V, ap. Rodolico, Lo Toscana, p. 226),
issasi Tssa'aass
m w . z « smH nMmll
° "»>■**> -
n , . . tsncuiologia della vecchia chimica è registrata da p c
SS** ® S ' nel al Montamia?a<S°G^Ì
1909-10, p. 4271 ’ 1798, p 3351 at - ^ Guareschi, Suppl. Enc. Chim.,
207 Rodolico, Lingua nostra, XVI, 1955, pp. U7-U8.
500
Storia della lingua italiana
Il Settecento
501
«un’enorme lavina, o smotta di terreno» Qd., Relazioni, X, ap. Rodolico,
La Toscana, p. 191); « turfa o torba » Od., ibid., p. 209); «tumoletti chiamati
da noi tomboli e dagli oltramontani dune » Qd., p. 173). Al divulgarsi
della patata, alla fine del Settecento, la Società Patria di Genova
pubblica un opuscolo De’ pomi di terra ossia patate, Genova 1793.
Nella citazione di nomi di animali o di piante, le opere destinate a
un pubblico piuttosto ampio citano spesso le forme latine italianizzate
accanto a quelle italiane 208 ; invece le opere più strettamente scientifi-
che, anche se scritte in italiano, si attengono alla terminologia
sistematica latina: gli Zannichelli, nella Istoria delle piante... ne’ lidi
intorno a Venezia, or ora citata, prendono le mosse dai nomi latini,
salvo poi a italianizzarli; B. Bartalini, nel Catalogo delle piante che
nascono spontanee intorno alla città di Siena, Siena 1776, dà gli elenchi
di piante secondo le nomenclature di Toumefort e di Linneo-, L.
Spallanzani cerca sempre di aggiungere il nome scientifico a precisa-
zione del nome volgare: «il lago di Orbitello, feracissimo di grosse
anguille [Muraena anguilla ), la cui pesca si fa in ogni stagione» ( Viaggi
alle Due Sicilie, V, p. 42), ecc.; e lo fa anche un poèta come il
Mascheroni, il quale, dopo i versi «Dal calice succhiato in ceppi stretta
- la mosca in seno al fior trova la tomba» {Invito, w. 491-92), aggiunge in
nota il nome scientifico della pianta, Muscipula Dionea.
Accade non di rado che un naturalista delimiti esattamente, di tra
le varie forme e significati che l’uso popolare presenta 209 , quello che
propone come valevole per l’uso scientifico: per es. lo Spallanzani nel II
e nel III Opuscolo di appendice ai Viaggi alle Due Sicilie, definisce
esattamente il rondicchio e il rondone : rondicchio : «così denominasi in
più luoghi dell’Italia e così chiamerò io la rondine neroazzurrognola
nel dorso e biancheggiante nel ventre, che è l’hirundo urbica di
Linneo»; «Per rondone s’intende in diverse provincie dell’Italia quella
specie di rondine che è più grossa delle due antecedenti (rondine
comune e rondicchio), che foscamente biancheggia sotto la gola, e che
nel rimanente del corpo è nericcia» 210 .
Gli scienziati si sforzano di far corrispondere a una nozione che
viene scientificamente fissata un vocabolo determinato. Può qualche
volta servire un termine del lessico usuale, a cui si attribuisce un
significato delimitato: poniamo saturo «satollo», a cui i chimici danno
ima nuova accezione {saturo è il liquido in cui è sciolto il massimo
possibile d’una data sostanza).
Si prestano bene a esprimere nozioni scientifiche che si vengono
208 Per es. Relazione dell’erba detta da' Botanici Orobanche e volgarmente
Succiamele, Fiamma e Mal d’occhio, Firenze 1723; P. Moscati, Saggio di storia
naturale dell’Alopecuro chiamato in Lombardia Covetta, Milano 1772.
209 Qualche difficoltà nella tecnificazione di termini volgari può venire dalla
semantica: osserva per es. il Ferber che peperino ha significato diverso sul Monte
Andata e presso Roma (Rodolico, Lingua nostra, V, 1943, p. 14).
210 Bonora, Letterati, memorialisti e viaggiatori, cit., p. 960 e 962.
precisando vocaboli latini e greci di significato vicino; si pensi a corolla
o a polline nella loro accezione botanica speciale, diversa da quella
antica.
Nuove concezioni scientifiche portano ad allargare o a restringere
il significato di certe parole: per es. ovaia è esteso dàgli animali ovipari
ai vivipari dai «Moderni Anatomici» (Vallisnieri, Opere, III, p. 429).
In altri casi, serve meglio la coniazione di vocaboli nuovi: dopo che
Giovanni Arduino è giunto alla conclusione che gli strati terrestri
vanno divisi in «quattro ordini generali e successivi», è ovvio che egli
venga a parlare di ordine terziario e di ordine quaternario.
La fissazione o creazione di termini nuovi non sempre ha buon
esito. Può accadere che essi sorgano in funzione di sistemi scientifici
che poi vengono abbandonati (cfr. flogisto, ecc.: p. 515). Può accadere
che, nei tentativi che vari scienziati fanno per chiarire scientificamente
una nozione, si adoperino allo stesso fine più sinonimi, di cui uno solo
finirà col persistere: si pensi alla molteplicità di nomi con cui gli
scienziati settecenteschi designano i vulcani: vulcano, monte vulcano,
volcano, monte ignivomo o anche solo ignivomo, monte fiammifero,
Vesuvio, mongibello 2U . Duna ha vinto tombolo e anche montone e altri
sinonimi regionali 212 ; lava, che ancora nel Targioni Tozzetti ha il
duplice significato di «frana», «lavina» e di «colata vulcanica», resterà
vivo solo in questo secondo significato.
Lo sviluppo delle scienze fisiche e naturali incide fortemente sulla
cultura e sulla vita. Certe applicazioni penetrano subito nella vita
pratica: basti pensare alle scienze mediche con le nuove specializzazio-
ni {oculista, ostetricia ), l’identificazione di nuove malattie {pellagra,
scarlattina ), l’applicazione di nuovi metodi di cura ( innesto , inoculazio-
ne o anche inserzione-, solo più tardi si avrà la vaccina ).
Nei trattati destinati agli specialisti è ovvio che si ammettano
largamente i termini tecnici: tuttavia è molto sentita anche l’esigenza
sociale, che consiglia di evitare i vocaboli speciali quando si vuol
essere intesi largamente: il Baretti {Frusta , n. XI: I, p. 301 Piccioni)
rimprovera a un naturalista modenese, D. Vandelli, di non aver
risparmiato in un suo trattato {Analisi di alcune acque medicinali nel
Modonese, Padova 1760) «certi vocaboli affatto ignoti a novantanove in
cento de’ più eruditi leggitori: come sarebbe a dire glossopetre, patelle,
dentali, spatose... ed altri tali diabolici aggettivacci e sostantivacci da
far impazzare le brigate a indovinarne i significati».
Ancor più delicata è la posizione dei poeti didascalici: ora essi
inseriscono nei versi qualche termine tecnico:
Or gli epicicli de’ pianeti, e il vasto
eccentrico rotar laberinteo
211 Rodolico, in Lingua nostra, XVII, 1956, p. 115, XVIII, 1957, p. 12 e 14.
212 Rodolico, in Lingua nostra XI, 1950, pp. 88-91.
502
Storia della lingua italiana
fremendo osserva... „ . x , , . ...
(Rezzonìco, Il sistema de cieli)
Il nautilo contorto a. l’aure amiche
aprì la vela...
La solcata mammella arma di spme
il barbarico cacto
(Mascheroni, Invito)
ora preferiscono le descrizioni allusive e le studiate perifrasi (cfr. § 17).
I vocaboli scientifici pullulano negli oratori sacri alla moda-.
E mentre d’Eloquenza ambisce il regno,
di Fisica, di Storia e d’ Aritmetica
non senza sforzo il suo discorso è pregno.
L’eterna Grazia alla virtù magnetica
l’odi agguagliare, l’attrazion spiegando,
schernendo la follia peripatetica 213 .
E nella società elegante gentiluomini e dame afrettano di conoscere
le scienze e le rispettive terminologie. Si senta il Panni:
Se alcun di Zoroastro o d’Archimede
discepol sederà teco a la mensa,
a lui ti volgi; seco lui ragiona;
suo linguaggio ne apprendi, e quello poi,
quas’innato a te fosse, alto ripeti
[Mezzogiomo, w. 876-880);
Te con lo sguardo e con Xorecchio beva
la Dama da le tue labbra rapita;
con cenno approvator vezzosa il capo
pieghi sovente-, e il calcolo, la massa,
e l’inversa ragion sonino ancora
su la bocca amorosa. Or più non odia
de le scole il sermone Amor maestro.
(ivi, w. 983-989).
Anche il Cordare deride l’affettazione dei grecismi scientifici in una
satira latina che citiamo nella versione del Carducci (Opere, XVII, pp.
145-146):
...Egregiamente
tu parlerai se ad ogni passo ne le
favole conte un ellenismo piova,
ed una doppia e pur di greca stirpe
vocetta nuova. Né oggimai più tonda
213 Mascheroni, sermone «Sopra la falsa eloquenza del pulpito», vv. U9-124.
Anche l’ Algarotti, il Bettinelli, il Gozzi biasimano questa moda.
Il Settecento 503
ma ciclica per te sia la padella
ed elliptìco l’uovo e microcosmo
l’uomo...
Frequentissimi sono infatti, negli scrittori d'ogni genere, gli usi estensi-
vi o metaforici fondati su nozioni scientifiche: «luna capitalel dove otto
in novecento persone si elettrizzino insieme», scrive per es. l’Algarotti
detterà a Voltaire, 1746); il Baretti dice che i pensieri del p. Buonafede
«non hanno soverchia elasticità »: e non c’è bisogno di dire che
l’immagine al p. Buonafede non piacque [Frusta , n. XXXII: II, p. 384
Piccioni). Brighella, nel Mostro turchino di C. Gozzi (IV, se. 6), parla non
senza ironia dell’« inoculazion del bon senso». In un opuscolo intitolato
Italia (1778) si dice che a Firenze si usava una cicisbeatura matematica
per cui in colloqui galanti si sentivano frasi come queste: in ragion
composta del vostro affetto, in ragione inversa del vostro languore, i
quadrati dei tempi della mia speranza sono come i cubi della distanza
del vostro consenso, ecc. 2M . P. Verri (nelle «Meditazioni sull’economia
politica», § 22) dice che «la Capitale è alle Città quello che esse sono
alla provincia», con ovvio riferimento alle proporzioni matematiche.
Alle pretese degli schizzinosi, i quali in nome della tradizione
biasimavano le metafore scientifiche 215 , il Cesarotti rispondeva: «Se la
lingua soffre l’elettricità nei corpi, dovrà ben permettere che si elettrizzi
lo spirito: se la virtù della calamita ha il nome di magnetismo, come
impedire al cuor d’un amante di sentir la forza magnetica negli occhi
della sua bella?» (Saggio, III, xrv, p. 109 dèll’ed. 1785) 218 .
Può accadere che ancor oggi sopravviva nell’uso qualche termine
scientifico settecentesco, abbandonato invece dagli scienziati: il Valli-
snieri e il Targioni Tozzetti adoperano con preciso valore naturalistico
l’aggettivo antediluviano, mentre oggi antidiluviano non è altro che un
sinonimo iperbolico di «antico».
Altra serie di vocaboli che prendono un posto nel lessico italiano,
sono i vocaboli che si riferiscono a oggetti e costumanze di altri paesi:
vocaboli che in alcuni casi resteranno rari e di carattere solo enciclope-
dico, in altri penetreranno saldamente nella vita e nell’uso linguistico
italiano. Si pensi alle notizie sulla guerra d’indipendenza americana
( insurgenti , ecc.) o sulla rivoluzione francese (notabili , Stati generali,
ecc.), quel che relazioni di viaggi divulgavano sugli altri paesi ( copicco
aM C. Cantù, L’abate Parini, Milano 1854, p. 400.
215 Per es.: «Scorrano infine tutta quant’è la moderna Letteratura, e troveran-
no ad ogni tratto, e a proposito di niente un frastuono di frasi tecniche tolte dalla
Chimica, dalle Matematiche, e dalla Teologia, una frenesia di adoperare parago-
ni scientifici cento volte più oscuri della cosa, che dovrebbero illustrare» (M.
Borsa, Del gusto presente, cit., p. 41).
2le Senza confronto meno numerose sono le metafore tratte da altri campi,
come quando il Cesarotti ricorre a un termine teologico parlando di «timorati
Gramatici, che in cose tanto gelose non ammettono parvità di materia » [Saggio ,
III, I, p. 74).
504
Storia della lingua italiana
cerS^^atamtSefSmato^^PpSocUlwe^M^M
rhp ebbero brande fecondità verbale, n Vico, piu cne nei cumm e
neolo^smi, manife^a P^a Pers^aWà^a scelta * pa ^
fradSom 9 Z ^eTe ’d^tre lingue foggiò innumerevoli parole
"speciale composte-- ma, benché la Crusca ne abbm
accolte parecchie, probabilmente da lui stesso fomite, ben poche ne
S °*PerilIlaretti la coniazione di neologismi momentanei, sp«diataK>bte
rprti suffissi è un vezzo stilistico-, barbitondere, boccascena,
bmnocchiuto, cinquecentesco, creanzato, cruscheria,
Ptruscaio fazzolettata, frugoneria, giovanesco, illustnta, mcatalettarsi,
ìnrovallàrsi insignità magistratesco, malmantilesco, medagliesco, p
te, subarcadico («delle colonie provinciali dell Arcadia»), versiscioltaio
GrtS°cima£ST?^Umi (più volentieri con prefissi) è anche
V Alfieri specialmente in alcuni scritti (nella Vita, anzi piuttosto nella
%-legge, ' italiche sco, madrignale, microscopo, misi ^al^ odw^ sa ™*> :
satirizzare («sbagliare nel metro»), sparruccarsi, spensare, spiacevole^
za, Vpiemontizzarsi, sprotetto, spigionato, ^f^ì^J^A^hè
disnaturato.
cU ne femme, servante ou Fille r fP°“ d p e ™Sa 1818 ™^66- Id., Antipurismo,
220 F. Torti, Il purismo nemico del gusto, Perugia «sia, p. «>o, -
Foligno 1829, p. 170.
Il Settecento
505
Non vi sono novità particolari nella formazione delle parole, se
sappiamo prescindere dall’illusione di trovar strani i molti vocaboli che
non hanno attecchito, mentre un numero certo minore si è stabilmente
installato nell’uso.
Non mancano i sostantivi deverbali ( usurpo «usurpazione», villeg-
gio «villeggiatura»), né i verbi denominali ( dilazionare , parodiare,
stilare ).
Nomi di formazione suffissale si continuano a formare via via per
indicare persone (cambista), cose, astratti (cicisbeismo)-, ora per moventi
obiettivi 221 , ora per moventi affettivi (sonettaio).
Si coniano anche molti aggettivi con i suffissi consueti, -ale (settima-
nale, Casti; il Cesarotti foggia nozionale, che Carlo Gozzi ironizza 222 ),
-ico (centaurico, Targioni Tozzetti-, nordico, Cesarotti), -esco (si ricordino
i numerosi esempi barettiani citati), -abile ed -ibile (capibile, Vallisnieri,
riflessibile. Algarotti), di contro a quelli in -evo le che per lo più sono
tratti da sostantivi e hanno una connotazione arcaizzante o scherzosa,
ecc.
Tra i verbi formati con suffissi abbondano quelli in -eggiare (inneg-
giare, tantaleggiare) e quelli in -izzare, qualche volta di formazione
nostrana (panizzare), ma più spesso modellati su analoghi verbi
francesi.
Si hanno parecchie formazioni prefissali del tipo di antiscorbutico
(Vallisnieri), co-academico (Gozzi), condeputato, incombattibile, innega-
bile, insalvabile (Salvini), protogiomale, sottoscala, vicepiè (nella locu-
zione scherzosa un vicepiè di legno, Gigli).
Abbondano anche i parasintetici: antediluviano, ingesuitato (Mura-
tori), scocollato (Martinelli), ecc.
Fra i composti, ricordiamo anzitutto quelli del solito tipo imperati-
vale: guardaportoni o, scherzosamente, parastrepito (G. B. Vasco). Sulle
lingue classiche sono modellati composti come occhi-pietoso (Fantoni),
occhi-azzurro (Cesarotti) o anche vini dolcepiccanti (Rolli), brunocchiuto
(Baretti), ecc. Continuano le arbitrarie formazioni di tipo ditirambico:
*amorarmicantante filastrocca» (Saccenti), «della fiorbellaccoglitrice
Crusca» (Arisi), ecc.
Alcuni suffìssoidi sono parimenti .adoperati nella lingua poetica e
nelle terminologie scientifiche: cfr. da un lato ondifero (Varano),
racemifero (Lamberti), e lo scherzoso quaglifero (Saccenti), dall’altro
lato bilifero, ecc. (Vallisnieri). Ma ne riparleremo fra poco, accennando
ai latinismi
221 Parlando di coralloide il Vallisnieri spiega come il suffisso venga a
manifestare la frequenza delle forme di transizione nella natura: «Sono anch’es-
se un anello, per così dire, della connessione de’ generi o delle spezie, e di
quell’ ammirabile progressione, e legame che hanno insieme tutte le cose create»
(Opere, III, pp. 395-396). Il Vallisnieri usa la parola come sost. masch. (nel Museo di
fisica di P. Boccone, 1697, la parola era usata come agg i
222 Chiacchiera..., p. 77 Vaccalluzzo.
506
Stona della lingua italiana
17. Il «linguaggio poetico »
Il Settecento ha ereditato dai secoli precedenti, come s’è visto, il
canone che alla poesia convengano certi vocaboli diversi da quelli
della prosa. Alma, augello, etra, frale, guardo, ostro, prence, pria, rai,
suora, sono le parole che vanno adoperate nel verso, a preferenza o
addirittura a esclusione dei loro equivalenti prosastici.
D’altra parte, molti dei vocaboli normali non sarebbero ammissibili
nel verso (o solo in certi «generi» considerati inferiori, come la satira). Il
Maffei biasimava C. M. Maggi di aver adoperato nei suoi versi parole
come appetito, confutare, congratularsi, dimenticarsi, misericordia, ope-
rare, tribolato 223 . E il Metastasio scriveva all’Algarotti: «Voi talvolta
(benché non frequentemente) pur che una parola esprima la vostra
idea, e goda la cittadinanza fiorentina, non avete repugnanza a
valervene, ancorché essa sia straniera a’ poeti. Come imbriacare,
rinculare, banderuola, molla o altre simili, sono parole ottime, e sonore:
ma non impiegate finora affatto, o-pochissimo ne’ lavori poetici, fanno
una tal quale dissonanza dal tenore di tutto il rimanente, e presentano
i pensieri non rivestiti di tutta quella decenza che (come appunto dalle
vesti) dipende in gran parte dal costume» 224 .
Interpretando formalisticamente la norma accade così che, per il
solo fatto di scrivere in versi anziché in prosa, un autore si ritenga
autorizzato a servirsi di parole riservate ai versi. Le commedie in versi
del Chiari e del Goldoni contengono, anche in passi assai pedestri,
esempi come questi:
Non temete violenze; rasserenate i rai
(Chiari, L’innamorato di due, I, se. 4)
Se il suo dinar rimando, egli è perch’io noi merto
(Goldoni, Il filosofo inglese. III, se. 17).
D’altra parte, se non manca qualche tentativo «realistico» di poeti
che non esitano a servirsi di parole prosaiche o addirittura tecniche, è
frequente lo sforzo di sostituirle con perifrasi. Nel sonetto di G. F. Zappi
sul Mosè di Michelangelo («Chi è colui...», nelle Rime, Venezia 1723), la
barba è indicata così:
Quest’è Mosè. Ben mel diceva il folto
o nor del mento, e ’l doppio raggio in fronte;
e la perifrasi rimase poi in circolazione.
Zaccaria Betti nel poemetto II baco da seta nomina così la rugiada:
223 Fubini, Dal Muratori al Baretti, p. 84.
224 NeU’ed. Palese delle Opere dell’Algarotti, XIII, pp. 16-17.
Il Settecento
507
E però quando il Sol dal verde moro
col suo calor tolse de l'Alba il pianto
(c. IV, w. 30-31).
Il Parini definisce il caffè nel Mattino (w. 141-42):
il legume... d’Aleppo
giunto e da Moca 225 .
La «pasta di mandorle » è (ivi, w. 268-271):
il macinato di quell’arbor frutto
che a Ròdope fu già vaga donzella,
e chiama in van sotto mutate spoglie
Demofoonte ancor Demofoonte.
Il Chiari nella commedia II poeta comico (II se 5) chiama, ir»
.sctaopix,, la ferrea canna, e ohi Sa quanti altri ai s aranno SS m
questa perifrasi prima che l’adoperasse il Leopardi
conteTBeSSi? * cioccola,a tazza> è P" 11 F™S°ni (-Sermone la
abil coppier che lieto
d’indiche droghe, e d’odorata spuma
largo conforto mi recava in nappo
di cinese lavoro.
caffè »P° ndÌ neUa Giornata villereccia parla così del «macinino da
altri in ordigno addentellato il trita
e polvere ne trae minuta e molle.
fi Cesarotti, volendo evitare di nominare le «mule», le chiama:
le padreggiane figlie
di bigenere prole.
n Mascheroni, che pur non esita nell’Invito a adoperare termini
gallismo pa^S b0nda " PerifcaSÌ 6 de8cri2i °“ i ^ive; del
con sottil argomento di metalli
le risentite rane interrogando;
fi nome della conchiglia Venus literata è trasposto in questi versi:
Nell’Invito del Mascheroni tornerà «il legume d’Aleppo».
508
Storia della lingua italiana
a quelle
qual Dea del mar d’incognite parole
sparse l’eburneo dorso?
Come si vede da parecchi di questi esempi, l'intenzione di evitare il
vocabolo proprio non è che il punto di partenza per un raffinato gioco
di eleganza.
18. Arcaismi
Se a linguaggio poetico ammette o addirittura richiede un largo
impiego di arcaismi, spariti dalla lingua comune e rimasti a loro modo
vivi soltanto nella tradizione poetica, la prosa spontanea per sufi
natura non li ammette. Ma la prosa ricercata, studiata, leccata ne
abbonda e se pensiamo all’ancor scarsa conoscenza di un lessico — .
cornee e al modo in cui si ver. a apprendendo la lingua Qettura de
Boccaccio consultazione della Crusca) non ci meraviglieremo nel
vedere affiorare qua e là parole trecentesche attinte dai llbri - E ciò con
particolare frequenza in quelle cerehie in cui maggiore era il rispetto
Pei A Firenze ilmfito domestico per gli scrittori di Crusca era temperato
dall’uso nativo; ma a Napoli aveva séguito la scuola capmsta, aa cui
XSpii aderiva Giambattista Vico; nel Veneto troviamo il veronese
Gfiulitf Cesare Becelli e Carlo Gozzi coi suoi Granelleschi. Ma anche
Pietro Verri scrive ( Osservazioni sulla tortura ): «Levò, col passarvi il
ma Avrebbe pocc» 6 significato il mettere insieme un ampio elenco di
arcaismi lessicali staccati dal loro contesto stilistico (e di queg
arcaismi grammaticali che fan loro riscontro-, vosco, mel darete, man-
rhprantì e simili) - basterà a dare un’idea del fenomeno una brevissima
lista esemplificativa-, apparare (C. GozzDavocciarelVicola
Gennaro) calogna (Vico), contmovare (Panni, daddovero (Cesarotti),
danaio (Vico, Gozzi), diffalta (Becelli), durazione (Becelli), entragne
(Vico), erbolaìo (Gozzi), gualoppàre (Gozzi), lunghesso (biasimato >m piu
autori dal Baretti), maestrato (Vicol negghienza (Vico), orrevole (Gozzi),
ricada «molestia; (Gozzi), ecc. Gasparo Gozzi ricordandosi l di ima
novella del Sacchetti (CLIII) in cui si parla di un «uomo grande e grosso
dì «ma nersona e molto giallo, e quasi impolmmato-» (cioè «gialliccio
X? malato di potoonW r» la. parola scendo 1 etimo, .grado
che parea impolmonato » ( Gazzetta Veneta, 29 maggio 1760).
Ma come già abbiamo ricordato (§ 6), agli zelaton della Crusca, del
«buon seSfo? dei fiori di lingua, si oppongono, più numerosi, gli
aweraarif palpale fra tutti r 1 Baretti, che a plt ■
scrittori inclini all’arcaismo (il Genovesi, nel n. II della Frusta, uui
Gennaro, nel n. IV, ecc.). Forse la parola più invisa al Baretti e agh
Il Settecento
509
anticruscanti e conciossiaché, con le sue varianti conciossiacosaché Z28 ,
conciofossecosaché 227 , conciossiamassimamenteché 22 *.
I poetastri che danteggiano urtano il Bettinelli, il quale si lagna (Le
Raccolte, III, st. 41) dei
mille stolti
ch’han repleta di bolge ogni canzone
e vengono esumando
e le berze ed il sene e peggior molti
tai rancidumi.
Poco ricaveremmo, per conoscere gli arcaismi tentati in questo
periodo, dagli scritti dei parodisti: la già ricordata «tragicommedia» Il
Toscanismo e la Crusca, in cui Ser Toscanismo e il Signor Cruscanzio
parlano una lingua caricatamente trecentesca, le battute anticruscanti
di qualche commedia del Goldoni, ecc. 229 ..
Che alcuni degli arcaismi siano in definitiva riusciti a vincere la
loro battaglia (o che i critici non li avessero definiti esattamente come
tali) si vede dal fatto che oggi adoperiamo correntemente parole allora
biasimate: così altezzoso, nonpertanto, smagato, Ferragosto, che il
Baretti (I, p. 93, II, p. 257 Piccioni) trovava intollerabili; o caparbio,
carezzevole, dappoco, tiepido, istigare, tutti e due, tenere in bilico (che
leggiamo in un elenco del Toscanismo, atto I, se. 9) 230 .
II Baretti stesso, tanto avverso agli arcaismi, se ne usa qualcuno lo
fa per scherzo o per ironia: per es. sirocchia («m’accommiatai da quella
228 Leggendo conciossiacosaché all’inizio del Galateo, l’Alfìeri getta il libro
dalla finestra (Vita. ep. IV, c. 1). Errata, e non rara la forma conciossiacosacché :
così scrive il Becelli (Se oggidì..., p. 86), così il Genovesi (sec. Baretti, Frusta, I, p.
40).
227 II Casti, nella Congiura di Catilina, mette la parola in bocca a Cicerone, e
fa che nasca confusione in Senato ogni volta che egli la pronunzia.
228 Nel Toscanismo, cit. (atto I, se. 9), e in una parodia dello stile arcadico del
giovane Galiani (D’Ancona e Bacci, Manuale, IV, p. 403).
228 II p. M. Carmeli in una nota «A’ leggitori» delle sue Storie di vari costumi,
3 a ed., Venezia 1778, scrive parecchi periodi pieni di modi di dire cruschevoli: «Dio
pur guardi da coloro, i quali stanno a pancaccia in oziose dimoranze, s’eglino
muovono parole della tua opera, è cosa da strasecolare, quando se ne tragga un
fil di netto», e poi spiega d’aver avuto giusta cagione di favellare «con questi
modi di lingua, che cercati paiono col fuscellino...».
230 Va avvertito che sia nelle discussioni di critici, sia nella pratica, non è
facile distinguere fra espressioni arcaiche e «fiorentinismi» giacché per «fiorenti-
nismi» non s’intendeva alludere al fiorentino modernamente parlato ma al
fiorentino registrato dalla Crusca. Quando il Goldoni dice Ul teatro comico, iti, se.
3): «Questo giovane ha del brio. Pare un poco girellajo, come dicono i Fiorentini...»
probabilmente non ha sentito lui stesso la parola, ma l’ha letta nel Malmantile ( o
in un vocabolario che la citava dal Malmantile ).
510
Storia della lingua italiana
Il Settecento
511
angiolella e dalla sua formosissima sirocchia Lett. farti., xxxvii),
calonaco (nelle lettere al can. Agudio).
19. Dialettalismi e regionalismi
Si sa bene che la lingua dell’alta lirica è ormai da secoli conguaglia-
ta, e non c’è da aspettarsi di trovarvi alcuna sfumatura di carattere
locale; e lo stesso si può dire per la prosa più elevata ed astratta. Ma
già abbiamo visto parlando della lingua scientifica, e specialmente
delle terminologie naturalistiche, come si comportano gli autori rispet-
to alle voci locali.
Giacché la nomenclatura agricola, poniamo, o quella marinaresca
presentano molti vocaboli diversi da regione a regione o addirittura da
luogo a luogo, gli autori d’un trattato di agricoltura o di un glossario di
marina, i quali si rivolgono anzitutto alle cerehie più prossime a loro, è
ovvio che usino anzitutto i termini della propria regione. Il Baretti, nèl
recensire L’Agricoltura di C. Trinci pistoiese (Frusta , n. 24: II, pp. 239-241
Piccioni), s’accorge che l’editore ha aggiunto all’opera un trattato che
parla di morati, ma senza avvedersi che esso ripeteva quanto era stato
già presentato dal Trinci nel trattato dei gelsi, e inoltre che ha aggiunto
una memoria di Z. Betti intorno la ruca de’ meli. Che cos è questa ruca ?
non è altro che la voce veronese per bruco. Ora, «chi non vuole
scrivendo servirsi della lingua toscana in certi casi, dovrebbe almeno
dirci come si chiami in Toscana quella tal cosa di cui vuole scrivere,
acciocché ricorrendo al vocabolario, possiamo capire quale è la
materia di cui scrive. Come, senza essere veronese, si può egli sapere
che chi scrive delle ruche scrive de’ bruchi?...*? 31 .
Il grande sviluppo della produzione della seta nel Piemonte, con
ima ricca nomenclatura propria, fa che il conte Felice San Martino
asserisca francamente-. «Quando si parla di seta, si possono adottar
senza scrupolo le voci piemontesi» 232 .
Per la marineria, Venezia, Genova, Napoli non sentono ancora il
bisogno di abbandonare i loro vocaboli: per es. nella traduzione del
Dizionario istorico, teorico e pratico di marina del Savérien, pubblicata
a Venezia nel 1769, abbondano i venetismi; l’Algarotti parla
dell’«angustia de’ cantieri dell’arsenale vecchio», ma anche del «fale-
gname di uno scoerro di Amsterdam». Le parti della città, le parti della
casa hanno nomi vari nei vari luoghi, e il Goldoni parla delle calli di
Venezia e del suo mezà.
I vari stati hanno istituti che portano nomi loro propri: per es. quella
magistratura che nel Piemonte e a Nizza va sotto il nome di consolato
231 II Baretti applica anche per proprio conto questa regola quando scrive:
«noi, che avevamo nosco una tacchina, come dicono i Fiorentini, o un gallinaccio,
come diciamo noi» ILett. fam., xxxvi).
232 C. Calcatemi, Il nostro imminente Risorgimento, cit., p. 489
del commercio corrisponde ai cinque savi della mercanzia di Venezia e
al supremo magistrato di commercio di Napoli e di Palermo. E i bandi, le
notificazioni delle autorità adoperano, come è ovvio, i termini dell’uso
locale-, per es. nei Manifesti del Consolato di S. M. R. sovra Cambij,
Negotij et Arti, Torino 1720-27, i «bozzoli» vengono chiamati cocchetti,
certe stoffe di lana vengono chiamate ratine, ecc.; a Ferrara nel 1747 si
pubblica una Tarifa o calmiero perpetuo per il pane che si fabrica dalli
fornati di Ferrara : cioè emerge nell’uso scritto la voce calmiere o
calmiero, finora propria dei dialetti dell’Italia nord-orientale. E come
avrebbero potuto il Goldoni o il Gozzi chiamare i tagliandi rilasciati a
chi giocava al lotto altrimenti che firme del lotto, se quello era il nome
ufficiale e usuale a Venezia? E non doveva sentirsi autorizzato il
Galiani a scrivere (nella Moneta, passim) coniata, impronto, zeccare, se
quelli erano i termini usati ufficialmente nella zecca di Napoli?
Negli scritti del Beccaria i termini economico-amministrativi varia-
no secondo il pubblico a cui egli si rivolge: mentre nelle «consulte», che
hanno un orizzonte solo regionale, egli parla di prestinoti, di sfrosi, di
melgone, in altri scritti, che si rivolgono a un pubblico non soltanto
lombardo, parla di fornai, contrabbandi, grano turco 333 .
Nelle narrazioni di cose familiari, nelle lettere private, negli appunti
personali, affiorano spesso voci regionali o dialettali. Il Cesarotti parla
nelle lettere del suo brolo e dei suoi spàresi ; il Parini negli «Appunti per
il Vespro e per la Notte» registra: « Cavagnola , fichetti, cartelle...» e più
oltre «Dialetto della cavagnola* 23 *, ma il nome dialettale del gioco (una
specie di tombola con cartelle figurate) non comparirà dove il poeta ne
darà la descrizione in versi (Notte, w. 564-681).
Nelle commedie (anche in versi) di scrittori non toscani troviamo
ogni tanto qualche dialettalismo: per es. nel Martelli (Che bei pazztt, II,
se. 1) «e inviarmi al prosciutto, al cacio, ai bigoli*, nel Chiari (Il poeta
comico, II, se. 1) «abbiam nelle finanze - agenti che per scrivere
patiscon le buganze »; neU'Augellin beiverde di C. Gozzi si parla della
spazzacucina («retrocucina») e della scaffa («acquaio») oppure delle
cottole («sottane»), E quando lo stesso Gozzi nelle Memorie inutili scrive
muraio in luogo di muratore non fa che ricalcare con un suffisso
italiano il veneziano murèr.
Da un dialetto settentrionale entra nell’italiano (e nel latino)
scientifico la voce pellagra.
Insomma, i dialetti ancora floridi nelle regioni settentrionali e
meridionali forniscono numerosi vocaboli alla lingua scritta in quanto
non esistano o non siano abbastanza noti vocaboli di lingua: e ciò per
esprimere nozioni piuttosto terra terra, che di rado sono state espresse
nella letteratura (nomi di parti della casa, di utensili domestici, di cibi,
233 Folena, «Lombardismi tecnici nelle Consulte del Beccaria», in Lingua
nostra, XIX, 1958, pp. 41-49.
234 Poesie I, pp. 289, 273 Bellorini. Il nome appare in una grida del 1739, in cui si
elencano dei giochi «pregiudizievoli» (Cantù, L’abate Panni, cit.. p. 129).
512
Storia della lingua italiana
di vesti ecc.). Abbiamo insomma molti affioramenti spontanei di
S ° S ffi a quSo poiqualcuno si renda conto che accanto alla singola voce
dialettale o regionale ne esistono altre sinonime, e qualcuna che ha
maggior diritto d’imporsi nell’uso nazionale, si hanno quelle coppie o
teme che abbiamo già viste, specialmente presso 1 naturalisti.
In qualche caso è l’affettività che dà 1 abbrivo aUa parola dialettale,
così si spiega la fortuna di birichino (originariamente birichino di
BOl SrZin scritti letterari, è visibile l’intenzione di dar risalto aUa
voce dialettale per favorirne l’accoglimento nell uso g en e r ^: si ncorffi
che il Cesarotti (Saggio sulla fil. delle lingue. III, x) contava molto sui
vocaboU dialettali per venire «in supplemento di altn che mancar^ nel
dialetto principale» 236 . Così il Vallisnieri difende la distmzione^lombar-
da» fra crine dell’uomo e crena del cavallo (Opere, III, pp. 396-397).
Forse a un semplice scherzo è dovuto il fatto che Pietro Verri e ì
suoi amici diano il titolo La Borlanda impasticciata (Milano 1751) - cioè
«bazzoffia, broda» - a una loro raccolta satirica in più lingue e
Un uso conscio di voci dialettali si ha anche quando qualche
scrittore si ritiene autorizzato a adoperarle trovandole in autori
antichi Per es. in un suo sermone (il II) Gasparo Gozzi parla di quelli
che non sanno far altro che «le oziose lacche - npiegar sui ^seddi». Le
lacche sono le «gambe», secondo l’uso veneto, che qui trovava appog-
gio in un verso del Burchiello. , nn
E così quando il Gozzi scrive pattina (Gli Osservatori veneti, n. VII) o
quando (in una lettera al Seghe zzi) parla della scuriada, cioè dei colpi
di frusta dati ai cavalli, egli ritiene che l’uso dialettale sia convalidato
da quello arcaico. Non diversamente troviamo nel Genovesi (Lezioni di
econ. civile, I, p. 30 Custodi) pezzire per «chieder 1 elemosina», che è
insieme napoletanismo e arcaismo. .
Lentamente e faticosamente i vocaboli nazionali guadagnano terre-
no su quelli locali: il Muratori, che nell’edizione 1714 del suo trattato
Del governo della peste aveva scritto «le Persiche, o sia ì àrsici» (p. 15 D,
nell’ed. 1722 corregge «le Pesche, o sia le Persiche* (p. 128). Ma ancora
alla fine del secolo si pubblicava un Trattato della Cultura dei Persici e
degli alberi da frutto (Venezia 1792).
Emergono, per lo più, le voci toscane, ma m qualche casosi
espandono anche i vocaboli di altre regioni. Sappiamo dal Salvirn e
dal Regali 230 che il vocabolo romanesco magnare era preferito a firen e
235 Folena, in Lingua nostra, XVII, 1956, p. 66.
236 Analoghe intenzioni manifestava il Bettinelli (.Opere, IX, p. 531
237 II Verri amava scherzare coi dialetti: scrisse ima Cronaca di Cola de li
Piccirilli (1763) parodia del volgare degli antichi cronisti meridionali.
239 Nota alla Tancia, TV, se. i.
239 Dialogo del Fosso di Lucca e del Sercnio, p. 42.
Il Settecento 513
e a Lucca a mangiare, perché sembrava più elegante. Ma, se questo
vezzo scompare, rimasero i romaneschismi cocciuto, pupazzo e il gioco
delle bocce. Dal dialetto napoletano si divulgarono i nomi del malocchio
e della iettatura.
20. Latinismi
In un secolo in cui le correnti antitradizionaliste predominano, non
ci si aspetterebbe che apparissero molti latinismi di nuovo conio. E
invece si può tranquillamente asserire che essi sono in numero non
minore che nei secoli precedenti.
E si ricorre principalmente al latinismo nei due campi in cui più
vibra la vita culturale del secolo: in quello delle scienze e in quello della
poesia neoclassica.
Naturalmente, ogni singolo scrittore ha un suo particolare atteggia-
mento rispetto ai latinismi e ai grecismi. Il Vico, ad esempio, che
vagheggia una prosa maestosa, ricorre ad ogni passo a latinismi:
edurre, perrompere, urente, ecc., infermo nel senso di «debole», ecc. 240 . Il
Salvini, nella sua molteplice opera di traduttore, abbonda di parole
latine (hiattola, inspergere, irsuzia, sagena, ecc.) e molte altre ne conia
su modelli latini e greci. Numerosi latinismi adopera il Parini 241 , per lo
più felicemente: accenso, capripede, cucurbita, lituo, pàtera, pàtulo,
ridolente Qat. redolens ), scutica, solvere, testudo, venenoso, ecc.; talora si
tratta di parole usuali a cui egli ridà significato antico: esaurire
«vuotare suggendo», flagello «frusta», ecc. 242 ; va notato che qualcuno
ha avuto fortuna, e non solo poetica, per es. àlacre.
Qualche latinismo troviamo persino negli scrittori illuministi: per
es. nel Caffè del 1764, P. Verri scrive che sebbene l’uomo «non sia per lo
più sensibile alle attrattive della verità per sé stessa, pure per un
secreto niso la sente» 243 -, e l’anno dopo C. Beccaria nota che «vi è un
maggior niso verso l’uguaglianza che non era per lo passato » 2 “. Ma
esso dev’essere stato suggerito dal nisus degli illuministi francési.
Le discipline antiquarie hanno bisogno di parecchi vocaboli attinti
alle lingue classiche, come latercolo (Gori) o loculo (F. Buonarroti).
Nelle scienze l’affluenza di nuovi latinismi e grecismi e la coniazio-
ne di nuovi vocaboli formati con elementi classici sono dovute alle
sempre crescenti esigenze terminologiche, all’approfondirsi di nuovi
240 V. resemplifìcazione e il commento di M. Fubini, Stile e umanità di G. B.
Vico, cit., pp. 115-120.
241 Con fine gusto ne commenta stilisticamente alcuni il Carducci nel
«Glossario del Giorno» (Opere, XVII, pp. 261-268).
242 In qualche caso il Parini stesso si persuase d’aver latineggiato troppo:
nelle sue correzioni al Mattino si proponeva di eliminare il versar de' libri amati,
sobole, ecc.
243 II Caffè, tomo I, p. 21.
244 II Caffè, tomo II, p. 5.
514
Stona della lingua italiana
rami di singole scienze, al sorgere di nuove discipline specializzate 2 ".
Ne notiamo solo qualcuno come esempio: animalcolo; corolla , gluma,
laciniato, monopetalo, pistillo, polipetalo, rizotomo ; stalagmite-, acidulo
l-p lo), clinico, diagnosi, prognosi, patema, profilattico, rachitide (dal lat.
scient.rachitis), scarlattina (dal lat. scient. scarlatina), specillo, tòrmini;
aberrazione (t. ott.l, centrifugo, centripeto, coesione, eolipila, ondulazio-
ne, oscillare l-atorio, -azione); eliocentrico, geocentrico; catenaria, ellissoi-
dale.
I neologismi formati con elementi latini o greci sono specialmente
frequenti per le nuove invenzioni: aeronautica, aerostato, scafandro,
ventilatore.
Mentre nell’assunzione o nella coniazione di vocaboli scientifici e
tecnici prevalgono, come è ovvio, le spinte di ordine intellettuale, i
latinismi letterari sono spesso dovuti a spinte affettive: quando il Parini
parla nel dialogo Della nobiltà dei familiari «che udivano e vedevano le
vostre sciocchezze taciti e venerabundi», è ovvio che ironeggia-, quando
il Baretti nella Frusta letteraria (n. XII: I, p. 316 Piccioni) dice che «il
Goldoni ha la Stàppota teatrale», mescola scherzo ed eufemismo.
L’uso di qualche frammento di lingua cancelleresca in lettere,
commedie, satire, poemi eroicomici è anch’esso affettivo, giocoso-
ironico: « Quare quell’albergo da masnadieri sia chiamato Venta o
alloggio del Duca...» (Baretti, Leti, famil., 20 sett. 1760); «Il Padre in far
quotidie l’apparecchio - dicea...» (Fagiuoli, Rime); «ma questo in quel
protunc non le fa prò» (Casotti, Celidora, VI, st. 24), ecc. 248 .
I versi sdruccioli, frequenti in certi schemi metrici, inducono a
ricorrere a parole sdrucciole latine: «Ha colmo il sen tomàtile - che
neve par non tocca» (A. Mazza, «Il talamo»), «Laide erudita pòllice - del
bimare Corinto» (Cerretti, «La vendetta»).
Voci classiche già apparse nei secoli precedenti sono ancora nel
limbo dei vocaboli ignoti ai più: miriade, vocabolo già cinquecentesco,
si sta divulgando ora, per testimonianza del Vallisnieri («parola
barbara, che ora da non pochi si mette in uso»-. Opere, III, p. 423). Altre
parole, destinate a larga fortuna, appaiono timidamente con significati
speciali. Il Salvini sente ancora il bisogno di glossare erotico quando
parla dei «libri erotici, ovvero amorosi, de’ Greci» {Discorsi, II, p. 140).
Inaugurare e inaugurazione hanno ancora solo il significato di «elegge-
re solennemente, elezione solenne», mentre nell’Ottocento prenderan-
no significato più ampio 247 . Adepto o adetto significa essenzialmente
«ritrovatore, o cercatore della pietra filosofale» (D’ Alberti, s. v. Adetto),
e comincia appena ad assumere maggior estensione: «li libri stampati!
245 II D’ Alberti, nella prefazione al suo Dizionario universale, appellandosi al
Bellini e al Lami, difende il diritto degli scienziati di coniar nuovi vocaboli, e
quello dei lessicografi di registrarli.
2M Con scherzo ancora più vistoso, la regina Celidora emana un sfrattetur (ivi,
St. 32).
247 Goidanich, in Lingua nostra, IV, 1942, pp. 56-57.
Il Settecento
515
tomo r TT d S U Qw anÌ ^ P ^ Chl ? deptì le cognizioni» (Beccaria, in Caffè:
(«Q’Ilisso/ 3 wS S ° f n' adope F ato con Predilezione dal Rezzonico
rUJmo Sr ba Ò d ® s ? ri . ossequioso il piè»: «Per la coronazione di
* d a ltri Rofì antichissimo drappello»- «Il sistema de’
? «“•*» “Che dal Palmi («I nuovi sofugX òX e
Anrht°- persegue>: . Mezzogiorno, v. 941) non ebbe poi fortuna. P
scientifici non erano tutti destinati a sopravvivere-
flogisto, onttogema, onttologia, per citar solo qualche esempio spari-
ranno nell Ottocento dall’uso scientifico. esempio, span
„„ diversità di significato che talvolta si nota tra la parola antica e
quella italiana è dovuta spesso all’uso che ne era stato fatto nel latino
medievale, o rinascimentale, o anche sei-settecentesco.- così si spiega
fdovfito « significato già visto di adepto, o il significato fisico di etere
ndiS n^r,» T t0n -^ QUell ° chimico (dovuto a Frobenius); così fecola
1 * a f ud ° nca vato da varie piante» («estrarre la fecola o
Targlom Tozz etti) e non, come il vocabolo latino
faecula, il «tartaro» o un «certo decotto medicinale».
Ì.. latuusau . e 1 grecismi, come è risaputo, spesso riproducono non
1 v ° cal fli cla ssici, ma una mutuazione che già un’alfra
lingua moderna ha fatto al latino o al greco.
Immorale potrebbe essere attinto al latino (è documentato l’awer-
de° e li7S?f r H ma U „ SalvM lodando immorale come voce propria
degù Inglesi e «di gran forza» 249 ci attesta che essa non è un latinismo
ma un anglo-latinismo 250 . Il Baretti 251 , parlando dell’aggettivo terraaue o
dX P m S pt 0 à C ri P i U i atÌV ° t h f ringl ® se aveva attinto al lat&o scientifico fin
Seicento* ne difende la legittimità («o fiorentina o non
norentina che quella voce si sia»),
^° rr } marÌO ®!® nco d* latinismi e grecismi giunti per tramite
rfnrnr? '' “ aneddoto > belligerante, biografo, cariato, coalizione-
sotto derìda wn 5 , cosm °f )olita ' deferenza, duttile, egida (fig. :
£ d d ' ] ’ er ?° zlone > epoca, esportare, importante, industria nel
* «operosità» ma in quello di «utilizzazione delle materie
'*/*’ ! na . teria P nma (ìn significato economico), niso (v. p
5131 patnoUtìa (anteriormente la parola esisteva in italiano col signifì-
dPii» «^uP^^Qtta»), progresso (in significato assoluto: «progresso
della civiltà»), refrattario, tecnico, ecc. s
Ed ecco alcuni anglo-latinismi: adepto, colonia (nel senso di «gruppo
250 alla Fiera del Buonarroti (II, v, se. 3) p 428
222 a ? ta , a X f a& , deUe be»ere familiari (ed. Piccioni, p. 431 ).
mmhnwi ì S Che m alcuni casi il francese a sua volta abbia ricevuto il
vocabolo (o la nuova accezione del vocabolo) dall'inglese. ricevuto u
516 Storia della lingua italiana
di stranieri abitanti in una città»: «la colonia inglese che è in Livorno»:
AlgarottD, esibizione * 53 , immorale, imparziale, insignificante **, inocula-
re 2SS , rebus, transazione («memoria scientifica») 258 , ecc. V’è poi la serie
dei vocaboli politici: costituzionale, legislatura, sessione, petizione, ecc.
All'insurrezione americana si deve il nuovo significato di presidente
«capo d’uno stato repubblicano».
Meno frequenti sono i germano-latinismi: ricordo per es. dica-
steriiìo OT , estetica 1 * 8 , etere (nel significato chimico, dovuto a Frobenius),
inaugurale, ecc.
Qualche altro latinismo sarà pervenuto all’italiano per altre vie: per
es. la terminologia botanica e zoologica italiana risente della nuova
sistemazione data a tutta la terminologia botanica latina dallo svedese
Linneo.
Non si possono disgiungere dai latinismi e dai grecismi in senso
stretto gli innumerevoli composti e derivati in cui letterati e scienziati
hanno ricorso a elementi latini e greci per coniare nuove parole. I
vocàboli foggiati per ischerzo \lettericidio, Gigli; nosologia, Baruffaldi;
bibliotafio, Targioni Tozzetti; quaglifero. Saccenti; e sim.) o per momen-
tanea opportunità stilistica (nubiaduna, procellipede, profondigorgo,
ecc.. Salvimi non sono entrati nella tradizione; invece si sono imposti
parecchi termini generali-, anglomania, bibliofilo, bibliomane-, hanno
avuto fortuna aeronauta ed aerostato-, e si sono affermati molti termini
scientifici: bilifero (Vallisn.) e molti altri composti in -/ero; anguilliforme,
proteiforme e molti altri composti in -forme-, xilologia (Algarotti) e altri
nuovi nomi di scienze in -logia 158 , ecc.
Anche più numerosi dei composti sono i derivati formati dai
latinismi con prefissi e suffissi: si moltiplicano più che mai in questa età
le formazioni in -ismo, -ista, -izzare-, talvolta secondo il modello di
563 Non nel senso di «offerta», che è già nel Redi, ma in quello di «esposizio-
ne»: «A Londra, all’esibizione, vidi rappresentata assai bene in un quadro questa
celebre abbazia» (Bezzonico, nel giornale del suo viaggio in Inghilterra, 1787-88,
ap. Bonora, Letterati, ecc., p. 1004).
354 V. il luogo del Salvini or ora citato, e, ivi, p. 439.
255 «li avrebbe fatti, come dicono là (in Inghilterra] inoculare » (Baretti, lettera
del 27 sett. 1760). '
258 Gibelin, Compendio delle Transazioni filosofiche della Soc. Reale di Londra,
Venezia 1793-98.
257 È citato come «voce tedesca» nell’anonimo ParaleUo (sic) della lingua
italiana colla ftanzese, Vercelli 1769, p. 25.
258 Nel significato fissato da A. G. Baumgarten nel titolo del suo trattato
( Aesthetica , 1750).
252 Molti grecismi troviamo nei titoli dei libri: Alimurgia di G. Targioni
Tozzetti-, Bibliopea di G. Denina; Diceosina di A. Genovesi; Gamologia di Di
Cerfool; Gerotricamerone del p. A. Bandiera; Nomotesia di F. M. Pagano (è un
vocabolo che Platone usò nella Repubblica); Oenologia toscana di S. Manetti (già
il Béguillet aveva pubblicato una Oenologie ); Orizonomia di A. Chinaglia;
Omitogonia, ovvero la cova de’ canari del p. Basilio della Concezione, ecc.; si
ricordi anche la Musogonia del Monti (1793).
Il Settecento
517
mamente. V AbWamf ^ e ™°? ee ' Evolta autono-
neologismo, purismo ecc - botan potls P} 0 ' frontismo, moderantismo,
sta, deista , balista, cinquecenti-
divinizzare, elettrizzare legalizzare trànanilì 6CC ' : caratter izzare,
tramite forestiero Zìi! u ’• tranquillizzare, umanizzare, ecc. Il
l’esame critico dei Diù^ntfoh -0 ^ 81 ? uò documentare solo attraverso
-ic- davanti a -isme 261 Anniì-r™™ tendenza francese a sopprimere
(Cocchi) s'afferma embrionale accanto a embrionico
l'aiuto dell'analoga forma francese (?rforMt?« ablIme ? 6 prevalse P cr
co. il Salvini e il Gen™ei “eS “of aVe ™ ad0pera, ° ^gia-
regol^Òme^rseSllDre^dini^ e gr S Cl ?*“ schemi «l fa di
cosi ad £ fl Z C1 ? Che ri « uarda le desinenze:
rarissimo che sfmmtemv» if u? ■ v ' * mì ’ 11 Ode o. È
VaUisnieri iOpere. Ili, p. Jgg chiim^^^'deTgaSri 0 “
sueti: ecStoSfè quache ^ ìfVST se ,T d ° g “ scheml con '
(abbiamo ricordato \oenologia ' del Manef ““ 'i™ " o. ®J? molo fdco
* --StuISe.^^ro
aneddoto. Nel Seicento il ni ade pto o adetto, anecdota o
Baretti, forse secondo il ,f c n ve va smossi-, ora l’Algarotti e il
Crusca, fondandosi su un volgarizzane’ rierln? 00110 La
sia, mentre il Valfisnieri Secentesco, scrive epiles-
il Magalotti avevano adattato ’il lktmn°rnnH epile P sla - Pallavicino e
(coÌTtO ( Q^ando a a‘i a non III r P; 143} SCriVe et °^ 1 ogican3e^aptto S o
ginnasta «acrobata», appare^oZ-mn^G^orasSn- G BD^R^f
Il gimnasta, Venezia 1753. assalti G De Rossi!,
Si può affermare che in complesso, malgrado un certo numero di
& S3S; LXXV ”' >“ «■ PP ««. Mt in
Migliorini, Saggi linguistici, p. 147 .
518 Storia della lingua italiana
s sxisswsasa <**°™ se “ a “ sum -
lazione 262 .
21. Francesismi
Se numerosi francesismi erawpenetratitaittìia^
SKrsstf^-
‘Jg» tS.S' SffSKSS
r=S^^
Terenzio fatta dal Baron u iu*r , , roclò, surtò «soprabi-
»S»S»-T re iocco, buccola: cignone o
in croce a chi si diletta di par ^ r J^?. SC f^ 0 g r unot (su appunti di G. Maugain)
- si confrontino gh elenchi data ^Brunot ^app^ ^ fl
nel l'Histoire de la languefr., Vili, PP- francesi travestite per far ridere: bel
JSETC ruo^S^la^^leS., volare «rubare» e sim.). e gli esempi
dati dallo Schiaffim nel cit. capitolo dm ^ itaBano i e quali ora prendono per
Ìnfl 5 n S}IÌrÌ èaS àa&"?d^AS5SSS fiwwia biasima nel
Raguet, ma l’usa nel suo epistolario. inglesi- «Nè in Italia v'ha miglior
- Il Bettinelli difende la parola tri noi perTsprimere certe
voce di cotteria che s’è tolta .^ancesi, ed caffè o altrove » P (Opere, XII, P- 2211.
compagnie di colte persone umte ms correnti fatta ad una dama che ne fa
£ Così. per es„ nella Mawone a temo* Bologna 1880 .
istanza da un cavaliere per sua ^abbigliata (Lettera 28 aprile 1759. in Opere,
invece il Goldoni parla di una do rt f h «alla corsa non si va se non
SSfafiJS XSt&Z' ÌSSS& 5-. »■ -• « 1
288 Migliorini, Dal nome proprio, p. 188.
Il Settecento
519
«crocchia» 28 ®, frisare, frisatura, frisore, papigliotti, ecc. Ricordiamo
anche il profumo sanspareille, e qualche nome di colore: bleu (o blo, o
blu), lillà, sucì 270 .
Ecco alcuni vocaboli concernenti la casa e il suo arredamento: bidè,
burò «tipo di scrivania», cabarè, etichetta «cartellino», fladcìone, ghiri-
don «tavolino con un piede solo», fr. guéridon -. C. Gozzi, Memorie inutili,
II, xvm), ridò, surtù «trionfo da tavola», tirabussone, trumò, ecc.
Si riferiscono alla mensa: bignè, cotoletta, fricandò, ragù-, dessert-,
framboesia o frambuè, sciampagna, ecc. Ricordiamo anche il tabacco
rapè.
Fra i mezzi di trasporto citiamo cabriolè, cupè, fiàccaro (Martelli),
landò -, malia è la «valigia di posta»; alle strade si riferisce marciapiede.
Concernono la vita militare: baionetta, mitraglia, montura, bloccare,
ingaggiare, picchetto, ranzonare.
Qualche termine di navigazione: manovra, scialuppa, andare alla
deriva.
Per le arti e mestieri e le industrie si ricordino: calotta, cerniera,
ghisa, tombaca o tombacco 271 , zinco.
Per l’economia s’importano parecchi vocaboli 272 :oggiotòggio, aggio-
tatore, beni-fondi, billon, bureau o burò «ufficio», conto corrente, ferma,
fermiere, ecc. Alcuni termini amministrativi appaiono qua e là nei
diversi stati: per es. dipartimento in Piemonte, e in Toscana al tempo
dei Lorenesi, visare per «vistare» in Piemonte. Una fiumana ne verrà
dopo il 1796.
Per le arti va ricordata anzitutto la locuzione stessa di belle arti 273 . È
in voga l’uso delle roccaglie.
Per il teatro, la musica, i balli si ricordi parterre nel senso di
«platea», marionetta-, overtura, rondò-, oboe o oboè; minuetto, rigodone,
ecc.
Nei giochi di carte, come il faraone, s’adoperano le fisce.
Nelle scienze s’importano moltissimi termini dalla Francia, ma sono
quasi sempre latino-francesi o greco-francesi. Degli altri, ricordiamo
:]
i
“ Non solo nel Raguet (V. se. 6: cignoni, ma anche in C. Gozzi (Marfisa
bizzarra. Vili, st. 69: cignone 1 e nel Bettinelli (sotto la forma chignone).
372 Dal frane, souci «calendola»: «la Ruggine... comparisce d’un bel giallo
chiaro, il quale presto diventa ranciato, o suci, come dicesi in oggi, poiché la
moda necessita a barattare i buoni nomi antichi Toscani, nei moderni Franzesi»
(Targioni Tozzetti, Alimurgia, Firenze 1767, I, pp. 289-290).
271 «Oro di dodici carati (detto dagli antichi electrum, e che è forse la nostra
tombacaU-, Galiani, Della moneta, II, vi, p. 140 Nicolini-, diversa definizione in altre
fonti (cfr. DEI, s. v. tombacco).
m A. M. Pinoli, in Lingua nostra, Vili, 1947, pp. 108-112, IX, 1948, pp. 67-71.
273 Già il Vasari aveva parlato di bellissime arti e il Baldinucci di arti belle ove
s’adopra il disegno, ma il nome di beaux arte si cristallizza in Francia alla fine del
Seicento, ed in Italia l’espressione tornò dalla Francia, come si vede dal fatto che
si parla di belle arti e non di arti belle. Cfr. L. Venturi, La Cultura, Vili, 1929, pp.
385-388.
520
Storia della lingua italiana
cretino, cretinismo (da crétin, crétinisme 274 ), marna. Per la tecnica,
citiamo l’uso transitivo del verbo montare (un meccanismo e sìm.).
La profondità della penetrazione è mostrata dall’abbondanza di
termini generali: allarmante, cicana, debordare, invironare 275 , papà
(aiutato nel suo espandersi dal simbolismo fonetico), regrettare, rimarco,
rimpiazzare, risorsa, ecc.
In parecchi casi derivati nuovi vengono ad aggiungersi a francesi-
smi già penetrati nei secoli precedenti; accanto al francesismo antichis-
simo giardino si conia ora giardinaggio-, e così chincaglierie, congedare,
ecc.
Molte alterazioni semantiche per calco in parole che già l’italiano
possedeva, sono meno appariscenti, ma non meno sicuramente dovute
a influenza francese: abile (usato assolutamente, senza complemento),
addrizzare («indirizzare»), adorare (iperbolico, di donna o di cosa),
affascinare (estensivo, per calco di charmer), affiorare (come term. geol.),
alleanza («matrimonio, parentado»), autorizzare (che voleva dire «dare
autorità», e ora prende il significato di «permettere»), caffè (nel senso di
«bottega del caffè»), canna («bastone»), chimera («ideale irraggiungibi-
le»), concorrenza, consolante, deperimento, egida («protezione»), embrio-
ne (fìg), estrazione («origine»), felicitare (è in regresso il vecchio
significato di «render felice», in auge quello nuovo di «congratularsi»),
furiosamente (iperbol.), genio («uomo di alto ingegno»), genti di lettere
(«letterati»), giocare («sonare; recitare»), giurare («bestemmiare»), gros-
sezza («gravidanza»), guadagnare «vincere (al gioco, in guerra)», illumi-
nato («colto, senza preconcetti»), incantare (estensivo, per calco di
charmer), interessante, intraprendente, intrapresa, liquore (che significa-
va prima soltanto «liquido»), lusingarsi (calco di se flutter), manifattura
(che passa dal significato di «fabbricazione a mano» a quello di «luogo
dove si esercita un’industria»), marca (per es. d’amicizia), marcia
«andamento», materia prima (in significato industriale), mescolarsi (di
qualche cosa, fr. se mèler de), misura («provvedimento»; e nella
locuzione u misura che), molla (nel significato figurato di ressort) 2 ™,
mondo («gente»), obbligante, obbligato («riconoscente»), patriotttìa (nel
senso di «amatore della patria»), piano («disegno di un edificio, di
un’opera»), essere portato («avere inclinazione»), pregiudizio («precon-
cetto»), preveniente, prevenzione («preconcetto»), prodotto (sost.), pro-
gresso (usato assol. nel significato di «progresso della civiltà, dell’uma-
nità», nozione tipicamente illuministica) 277 , pubblico (sost., «quelli a cui-
si rivolge un libro o imo spettacolo»), qualità (in espressioni come
personaggio di qualità), rapito («contento»), rapporto («relazione fra
271 Proveniente dai dialetti franco-provenzali: cfr. Migliorini, Dal nome pro-
prio, pp. 326-327.
275 E registrato nell’Ortografia moderna italiana, Venezia 1796, p. 99.
278 Cfr. quel che ne dice il Metastasio in due lettere all’ Algarotti (Algarotti,
Opere, XIII, p. 17 e 22).
277 Cfr., per il francese, Brunot, Histoire de la langue fr., VI, p. 109.
Il Settecento
521
ggl ° ( * ar ti c olo»), scolo (nel senso di «smercio», fr. écou-
Ge ” ov< ; s ^ sensit ì lle (cche si commuove facilmente»), sensibi-
lità, sfumatura (che prende il significato del fr. nuance 276 ), soffrire (assol.:
ho sofferto molto), superficiale (fig.), toccante («commovente») toc-
^ C °^^r\ t0 ^° ° Ugiro [di frase] »> ricalcato su
tour) , trasporto («entusiasmo»), travaglio «lavoro», truppa («compa-
gnia teatrale»), umanità («genere umano»), vignetta, vista («mira
disegno»), ecc. 1
Penetrano ora più o meno profondamente nell’uso anche locuzioni
scalcano con parole italiane le analoghe locuzioni francesi: belle
arti (cfr. p. 519 n.), bel mondo, buon tono, colpo d’occhio, colpo di mano
f£ C ?- dl P arole J }r f s . enza dj spinto, sangue freddo, spirito forte-, avere un
bel dire, dar carta, bianca, far la corte, mostrarsi difficile, essere al fatto di
? ( ì':£ i ? r Ì are l l tetto («restare a letto per malattia»), fare delle onestà
(«tare delle cortesie»), over l’onore, pescar nel torbido, saltare agli occhi-
a misura che, m séguito, a testa a testa, ecc.
^cono Per calco anche parole nuove: approfondire («non si
profondano nelle materie; non approfondiscono, come dicono i France-
si»: Salvrni, nota alla Fiera)-, f aniente Ida fainéant-. Algarotti), impagabile
W^F°m a veramente, direbbe un Franzese, impagabile »: Cesfrotti,
faggio III, xi), passabile («mediocre»), riserbatoio (da réservoir- Algarot-
JhtoSSSJ 1 " 1 ? (da dével °PP ement: Algarotti), ecc,, e già abbiamo
formazioni m -ismo, -ista, -izzare, in cui l’analoga voce
francese è servita di modello.
Negli elenchi che precedono, abbiamo registrato anche francesismi
(^scomparsi; e molti altri avremmo potuto registrarne che non
ebbero che una, vita effìmera: apprentici («apprendisti»: Dizionario del
cittadino), badino (Bettinelli), blé delle Indie (Vallisnieri), degaggiato
Gozz V- fissato (id.), griffa («artiglio»: Bettinelli),
malonesto (P Vem) peaggio CAlgarotti), plagiato (id.), rilieffo (P. Paoli)
tracassena (A. Verri), e infini ti altri. ’
Meriterebbe, accanto alle parole che s’affacciano e tendono a
radice m italiano, registrare le opposizioni che incontrano
presso le persone piu fedeli alla tradizione, il Maffei, il Gozzi, il
Galeani-Napione, ecc. Alcuni mutarono opinione col tempo: abbiamo
insto per es. (p. 457), che l’Algarotti, dapprima noncurante di qualsiasi
remora, divenne poi molto più rigoroso 280 .
Nell’accogliere i francesismi, si poteva procedere in tre modi: o
279 JL. W - Bultrtkin, m Pubi. Mod. Lang. Ass. Am., LXXII, 1957, pp 823-853
amo- H® ra I? 1 Manfredi (8 gennaio 1738) a proposito del Newtoniani-
e nei dt ìnrn ri^r-l 8 ' Vanesse) nei modi di attaccare insieme le cose
e nei dar loro ciò che essi chiamano le tour ».
dorrrm pn tn^Tr,ri lecit u d ado P erare quei francesismi che avessero una
vott^a^rZ^i tlca ’ anche se modernamente disusati: per es. allumare, altra
cfr M V SPtìMn r P guardia - aver ricorso, tutto giorno, ecc.:
cir. m. v. betti, in Lingua nostra , XIV, 1953, pp. 8-13.
522
Storia della lingua italiana
adattarli alla fonologia e alla grafia italiana, o accettarli tali e quali,
con la loro grafia, o, infine, riprodurli con un calco
L’adattamento è, in genere, un segno che la parola è giunta per via
popolare o è penetrata largamente nel popolo; gli altri due modi sono
indizio di provenienza più colta. Già nel Magalotti abbiamo parecchie
parole o locuzioni citate tali e quali-, e molte di più ne troviamo nel
Bettinelli: négligé, petit maitre, badinerie, bon mot, impromptu, joli,
piquant, charmant, ari de plaire, ecc. ; e cosi ancora à notre tour
(Baretti), fare amende honorable (A. Verri), ecc.
Ma per parecchi vocaboli si oscillò, e anzi per qualcuno ancor oggi
si oscilla. Tipico è l’esempio di toilette, che alcuni scrivono alla
francese, altri adattano in tueletta, toeletta, toletta, teletta™ 1 -, qualcuno
infine ricorre alla (falsa) traduzione tavoletta (Panni, C. Gozzi): ancor
oggi la parola si scrive in almeno cinque modi: toilette, toletta, teletta,
toelette, toeletta. Vistose varianti presenta anche dettaglio -. questa è la
forma predominante (Goldoni, Bettinelli, Beccaria, Panni ecc.), ma si
ha anche detaglio (Maffei), o, per evitare il male adattato francesismo,
ritaglio («questa sorte di critica minuta, o critica di ntagfio, come
vogliam chiamare»-. Baretti, Frusta, n. XV. I, p. 397 Picc.) 2 **. E così
troviamo che alternano: bleu / blu e bio(v le 1 testimonianze nel
Vocabolario etimol. del Prati); bureau / burò, burròJRaguet-, Goldoni
Chiarii, chicane / cicana (a Lucca: Bianchini; P. Paoli); débauché /
deboscia (Fagiuoli), debocciato iRaguef)-, fiche / fise la (Algarottd-, fram-
boise / fiambuese (Trinci), framboesia IRaguet), frambuè ecc. (cfr. Prati,
Voc. etim.X pièce / pezza (A. Verri); ragoùt / ragù (G. Gozzi, Algarotti);
sans pareille / sampareglie (Bettinelli); pot poum (potpourry, P. Verri) /
do puri (Sàlvini), ecc. • «
Altre volte prevalgono le forme italianizzate, ma con molte varianti,
per es. amuerro, amoerre, moerro, moerre, muerre (frane, morrei, tupypiè,
topipìè (frane, toupet ). ..
Non va dimenticato che il francese ha servito di tramite, piu o meno
facilmente riconoscibile, per l’introduzione in italiano di molte altre
voci, europee ed esotiche. Il nome dei «massoni» si presenta rare volte
in forma inglese iFrimesson nella ritrattazione del Minerbetti, 1740), piu
spesso in forma francese, adattata o no [franmassone L. Pascoli, «tato
dal Bergantini, 1745), e anche non di rado in forma tradotta (ùberi
muratori-, congregazione... detta dei Muratori, in una lettera del Dioda ì
al Nicolini, 1737, a proposito del processo contro il Crudeli). Cosi il
281 V. le forme nel Voc. etim. di A. Prati, s. v. toelette. Le forme con ua citate dal
Prati Itualette tualetta) sono ottocentesche toi nel Settecento sonava ancora ueì.
282 II D’ Alberti, nel Dizionario universale, giudica Dettaglio «Pretto franzesi-
smo che l’uso sovrano signore della lingua, ha cominciato a stabilire, ed anc
Id introd^e negli scritti di persone colte». Anteriormente, nel dizionari
francese-italiano (cito dall’edizione di Bassano, 1777) lo stesso autore aveva
tradotto détail «a minuto, a ritaglio, particolarmente»; nel dizionario italiano-
francese non registrava dettaglio.
Il Settecento
523
vocabolo inglese riding-coat diventa in francese redingote, donde
l'italiano redengotto, rodengotto-, packet-boat attraverso paquebot si
italianizza in pacchéboto (Algarotti), ecc.; il nome di contraddanza
rispecchia l’adattamento francese contredanse e non la forma originale
country-dance.
Lo spagnolo platina probabilmente è passato attraverso il francese
prima di diventare platina e poi platino™ 3 . Azione, in senso economico,
è registrato dall’Alberti come «francesismo commerciale», ma è, sem-
bra, di origine olandese 284 . Dalle lingue nordiche giunge narvalo, per
tramite di compilazioni naturalistiche francesi 285 , e per la stessa via
giunge steppa che è il russo step' passato attraverso il francese step,
steppe. Le voci indigene americane, che nei secoli precedenti giungeva-
no spesso in forma spagnola, ora si presentano per lo più in adattamen-
to francese: canato (Targioni Tozzetti), piroga. E per lo stesso tramite
giungono altre voci esotiche: kaulin «caolino» è nella traduzione del
Dizionario del cittadino, Nizza 1763, s. v. porcellana. L’Algarotti
adoperò mussoni (dal frane, moussonsì per monsoni, ma la voce
precedentemente usata finì col prevalere.
22. Altri forestierismi
In un capitolo al p. Angelico Martignoni il Passeroni si lamentava
che
oltre ai molti vocaboli francesi
adottando si van di giorno in giorno
voci e frasi di Varj altri paesi 286 .
Il principale contingente viene dall’Inghilterra, anche se la parte
maggiore di essi non è immediatamente riconoscibile, o perché essi
sono anglolatinismi (si veda qui addietro, p. 516) o calchi {biglietto di
banco, insorgere «ribellarsi», libero muratore, libero pensiero, senso
comune, verso bianco, ecc.), o perché sono alterati dalla mediazione
francese.
Tra i vocaboli che si riferiscono alla vita sociale vanno citati
283 Si veda per i primi esempi italiani, F. Rodolico, in Lingua nostra, XV 1, 1955,
pp. 117-U8.
284 E, remotamente, italiana: cfr. azione nel glossario dei Nuovi testi fiorentini
del Castellani.
286 «I Danesi, e gli altri popoli del Nord vanno a caccia d’un grossissimo
pesce, da loro detto Narwal»: LPluche), Spettacolo della Natura, 2 a ed., II, 1745, p.
121. Il Prati, Voc. etim., cita un esempio tratto dal vocabolario siciliano del Del
Bono.
288 Raccolta di poesie satiriche scritte nel sec. XVIII, Milano 1827, p. 251.
524
Storia della lingua italiana
MilonJfo) e Wledi. che si divulgano Jf™"*
Agissi, sia figuratamente per politica-,
^fifsa SuSS,* ^ceneri. Si conoscono i pnmphtets- . ri dà H
" ffirStSJS*?sasiE^ & ^ n
punch 2 * 2 . „ ^ppdntfn fv n 523) e lo schincherche. Una
lega'metaSica SS* SSologhdoVc^ ai chiamb princis-
^ A(S““o ìa letteratura ^«XSutaSSS
gnomi (nomi comatì do F^araratóo M drvidg endono Liilìpultó
SS3UJ SSng'il^di FÙn^nunziato aOa francò passa
“ pJcS ’^Si'S^no ormai dai paesi di
fandango, seguidiglia (zighetUgim, Bare . P ^ que u a degli sumeri
, • no i 9 n 1 S 5 Già il Chiabrera aveva scritto milorte
W» registrato dallo Z«c^. -accoda, p.
317 - Si» con il loro nome inglese (.un hbdcclolo ^1
inglesi chiamano pomphlcts » : Alg^rotti,(^e , ^ 4 • imitazione dello
^ panfletti («innumeraWh panetti e * ™nfleti (che sono «fogli
SSridiSa Snòn pe^on^o a chicchessia,: Bettinelli, Opere, XIV, p.
190). . r ivnmo 1754- Magazzino italiano, Venezia 1767; Mafia&
ai J’JSS^SS^SSSlgS^Sk eie "ami «oh « periodici sono nealean
sullo schema di Spectotor fr °“ e "®{° u re ’ q®^' adattato in pudino o puddingo
a* Ora in forma inglese UJarettu, ora incrocio col frane, boudm.
(Algarotti); più tardi piuttosto budmo o a. Pindemonte, / viaggi.
» «preclaro - Dottor di tosù e thè ^poimbi e nure^ ma anche le
poco dopo il 1790); ^Jr t nZ^Lml!tteTing£Top^re. XII, p. 150).
(Goldoni), pancia (Baretti). ponchio (Pmdemonte). e
altre ancora (cfr. Prati, Voc ’ s®' p^^pogUassimo opere concernenti la
Ne potremmo dare lunghi elenchi PK locale il Baretti nelle
Spagna o l'America spasola: m° 1 ^ “ ^ Curatori (/[ Cristianesimo felice nelle
sue lettere igolvgha, posodera quinto e i n termini concernenti la vita
-capei .sonaglio», porto». mn-
CHe ‘ % -Nfa ‘ a SSf’voto il ted. Kaffeehaus è ricalcato sull'ingl. coffee-house.
Il Settecento
anche alcuni termini mineralogici: cobalto o cobolto, feldspato , nickel o
nìccolo, scorillo o scorto da Schorl 295 spizio «cuspide» da Spitz 2 ™.
Dalle lingue slave viene la notizia e il nome dei vampiri : se
direttamente dal serbocroato o per mediazione tedesca o francese è
difficile dire. I viaggi nei paesi slavi portano alla conoscenza di termini
locali: per es. l’ Algarotti usa czar (femm. czaraì , copicco, ecc.
E così giungono, attraverso relazioni di viaggi ecc., vocaboli
orientali (nabab, Cesarotti, 1792; tattow, nella traduzione dei Viaggi del
Capitano Cook, Napoli-Livomo 1787, IV, p. 222) e vocaboli americani
(maogano, Baretti, Frusta, n. XIV: I, p. 369 Picc.; oppure maogani, Id.,
lett. 10 nov. 1796, in Epist., I, p. 421 Picc.; i sachemi. Algarotti, lettera del
4 luglio 1757).
23. Italianismi in altre lingue
La cultura italiana continua ad essere presente nella cultura
europea: e ciò si vede anche dal discreto numero di italianismi passati
nelle principali altre lingue.
Alcuni si riferiscono alla vita sociale, come cicisbeo (entrato in
spagnolo nel 1717, in francese nel 1765 come sigisbé, poi sigisbée, ted.
1784, ingl. 1718), casino (frane. 1740, ted. 1775, ingl. 1789), villa (frane.
1743, ingl. 1755, ted.) 297 . Si divulga in Europa la locuzione (dolce) far
niente, ora rinfacciata ora invidiata agli Italiani 298 .
Fra i tennini d’arte ricordiamo pittoresco, riferito soprattutto a
paesaggi di natura selvaggia, come ad esempio quelli di Salvator Rosa
(frane, pittoresque 1721, ingl. picturesque 1703, ted. pittoresk 1768).
Per la musica citiamo pianoforte (frane. 1774, e accorciato in piano
1798; ingl. 1767; il ted. oscilla tra Fortepiano 1775 e Pianoforte 1786; lo
svedese, evidentemente attraverso il ted., ha pure fortepiano 1779),
mandolino (frane. 1762, ingl. 1708; il ted. ha Mandoline, 1795, attraverso
il francese), violoncello (frane, violoncello 1709, violoncelli 1743; ingl.
1724; ted. 1739, anche Cello 1784); e poi barcarola (frane. 1798, ingl. 1779),
bravo come acclamazione (frane. 1782, ted. 1774, ingl. 1761).
Dilettante era principalmente, nel Settecento, un «virtuoso» di
musica, e, all’estero, l’appassionato per la musica italiana (frane. 1740,
ted. 1764; ingl. 1733, nel significato più generico di «amatore di belle
arti»).
Cicerone, nel senso di «guida alla visita di oggetti antichi o altre
curiosità», passa in frane. (1773), in ted. (1729), in ingl. (1726).
285 «rene piene di piccoli scortiti»: G. Santi, Viaggio secondo, Pisa 1798, p. 13;
«cristallizzazioni di scorto verdastro»; Bertela, Viaggio sul Reno, p. 249 Baldini
288 Rodolico, in Lingua nostra, VII, p. 65.
297 Entra in francese anche villeggiatura (villégiature, 1761), eco delle «smanie
per la villeggiatura» che imperversavano in Italia.
288 B. Gerola, in Festskrift A. Boèthius, Goteborg 1949, pp. 31-47.
526
Storia della lingua italiana
Protagoniste compare la prima volta in francese nei Mémoires del
^i’improwisatore (e Vimprowisatrice) presentalo un aspetto tipico
della letteratura settecentesca (fr. 1765, ted. 1787, mgl. 1795).
Due epidemie di «grippe» (nel 1743 e nel 1782) diffusero largamente
il nome Zaffano 6 di influenza Ungi. 1743, fr. e ted. 1782, sved. mfluensa
^Abbiamo scelto alcuni esempi tipici, che attraverso le date di prima
atmarizione (con tutto quello che di casuale vi può essere m questo
elemento di prova) ci mostrano la penetrazione all’ingrosso contempo-
ran |?rTeS^lT^^'hZro si potrebbero redigere, elenchi di
vocaboli molto più ampi 300 e solo parzialmente concordanti; molto vane
sono particolarmente le date in cui singoli vragpaton o scrittori
presentano alla loro nazione peculiarità di colore locale .
298 Polena in Lettere ital., X, 1958, p. 48. ioor
3 oo v. per es. per il francese Brunot, Hist. de la langue fran$„ VI, n, pp. 1236
123 »• Per es il maraschino idi cui parla il presidente de Brosses) o i grissini (che
Rousseau nomina nelle Confessions e nell ’Émile sotto la forma di gnssesl
CAPITOLO XI
IL PRIMO OTTOCENTO
Dall’invasione francese
alla proclamazione del Regno d’Italia
( 1796 - 1861 )
1. Limiti
Poco prima dell’inizio del secolo, l’anno 1796 segna, con l’invasione
francese, l’inizio di un nuovo periodo storico. Con l’unione del Setten-
trione al Mezzogiorno, e la proclamazione del regno d’Italia (1861),
l’unità politica è virtualmente compiuta, anche se Venezia e Roma e
Trento e Trieste mancano ancora al concerto delle città politicamente
italiane. Per la sua importanza, la data del 1861 potrà valere come
limite di questa trattazione. Come date intermedie vanno specialmente
sottolineate quella che segna la nuova prevalenza delle forze reaziona-
rie, il 1815, e la grande fiammata del ’48.
2. Eventi politici
Dopo le grandi, improvvise novità portate dall’invasione francese
del 1796, e dopo le lotte e gli alternati passaggi di truppe straniere in
molte parti della penisola, si ha un consolidamento della potenza
francese in tutta l’Italia peninsulare: accanto ai territori soggetti
direttamente alla Francia, che comprendevano il Piemonte, Genova,
Parma, la Toscana, Roma, stavano gli altri due stati vassalli, il Regno
Italico e il regno murattiano di Napoli. Malgrado questa dipendenza, e
il tributo di denaro e di sangue che la dominazione francese costò
all’Italia, gli Italiani incominciano a godere dei benefici dell’uguaglian-
za civile e a ritenere possibile l’avvento di un’Italia libera e indipenden-
te. La caduta di Napoleone porta con sé la soggezione al predominio
austriaco e il ristabilimento di quasi tutti gli antichi staterelli. La
Liguria è annessa al Piemonte, e il Veneto è assoggettato all’Austria.
La Valtellina resta ormai unita alla Lombardia. Il Canton Ticino non è
più vassallo dei cantoni tedeschi d’oltre il San Gottardo, ma è
diventato cantone sovrano nell’àmbito della Confederazione Svizzera.
I moti del ’21 e del ’31 mostrano il progressivo maturarsi dell’idea
nazionale, specialmente attraverso l’opera delle società segrete. Molti
esuli vivono rifugiati in Toscana, dove il governo è più tollerante che
altrove.
Grandi speranze si accendono nel ’48-’49, e per pochi mesi Milano,
Venezia, Firenze, Roma, Palermo vivono in libertà e credono imminen-
528
Stona della lingua italiana
, , Tìalincenesi italiana Funzionano dei parlamenti, si costituiscono
r Aiìltria^nortgfall’vinione fra Piemonte e Lombardia, ben presto seguita
flCotótina ìlbeS2.cha le Marche e TOmbna la n = e y
ss
repubblica, il dominio veneto.
3 Vita sociale e culturale
Italico, e poi 8 , g , 5 c he travolgono come un turbine
fStSr&srs- sa-
relarionffra foro Sìe città P dove vivono, a Firenze, a Torino, a Parigi, a
L ° I Anchef contatti fra classe e classe In senso .verticale. hMino molta
* «i. „ n v»nnrh 4 nnrora il «oopolo» min uto conti assai poco.
Ff%^SìhS5s e ta S a £ande è stancò n^U^iT ^oKabco;
civflf “SS?Sone, la quale ormai nel Regno Italico prende molti
lra N sfSfsT^oducflfcondo il modello francese il
sismnmmetricofil^udteperslsterà (mentre presto sparisce il colenda.
n ° n e codice C dri!e redatto (per ordine di Nag^MO^ ^J£
romanistiche viene promulgato nel Regno d Italia nel 180
1 Leopardi, Zibaldone, 3546-47, 28 sett. 1823.
Il Primo Ottocento
529
bilingue, italiano e francese 2 testi analoghi sono messi in vigoré in tutta
l’Europa soggetta all’egemonia francese. La sua influenza permarrà
anche dopo la caduta del Bonaparte.
Acquista crescente importanza la stampa periodica. L’Austria
protegge la Biblioteca Italiana, e vigila il Conciliatore con ima censura
rigorosa 3 .
Moltissime benemerenze ebbe per la cultura italiana l’AnfoJogia del
Vieusseux. Né minori furono quelle del Politecnico, iniziato dal Catta-
neo nel 1839, e poi del Crepuscolo del Tenca. La stampa quotidiana
esercitò principalmente la sua influenza in regime di libertà nel ’48-’49:
in Toscana i giornaletti «da una crazia», nel divulgare le opinioni
politiche, si attengono a una prosa meno aulica di quella che si usava
nei tempi «codini».
Si hanno i primissimi inizi della pubblicità, riferiti dapprima a
specialità medicinali.
La vita teatrale è assai fervida: e il Rosini assai giustamente nota
come il teatro di prosa potrebb’essere «il primo passo, onde giungere a
render comune sulle labbra delle colte persone d’Italia la lingua» 4 . Ai
melodrammi più divulgati si attingono facilmente nomi e allusioni.
L’insegnamento influisce solo sulle classi più elevate, e giunge
scarsamente e di rado al popolo. L’istruzione elementare è resa
obbligatoria per tutti fino ai 9 anni (ma ancora senza sanzioni) dalla
legge Casati (13 nov. 1859). Nelle scuole medie l’insegnamento dell’ita-
liano è spesso posposto o subordinato a quello del latino, malgrado
l’ammonimento di M. Gioia di «non invertire l’ordine naturale delle
cognizioni, come si fa insegnando il latino prima dell’italiano» 5 . Nelle
università s’insegna ancora prevalentemente in latino: ne riafferma
l’uso per l’università di Roma Leone XII; nelle università dello Stato
Sardo l’uso dell’insegnamento in latino è abolito solo nel 1852.
Poche sono le Accademie veramente attive: ricordiamo l’Accademia
delle Scienze di Torino e l’Istituto Italiano, con sede a Milano sotto il
Regno Italico (più tardi, sotto l’Austria, diviso in Istituto Lombardo e
Istituto Veneto). L’Accademia Fiorentina nel 1808 è ridivisa in tre classi
(del Cimento, della Crusca, del Disegno): riappare così il nome della
Crusca, la cui piena autonomia è ripristinata nel 1811 da Napoleone. Si
2 La traduzione italiana fu fatta a Milano; quando poi i giuristi del regno di
Napoli furono consultati per proporre le modificazioni necessarie prima d’appli-
carla nei territori napoletani, la giudicarono «barbara, né sempre fedele» (N.
Rodolico, Storia degli Italiani, Firenze 1954, p. 592).
Poiché il lessico giuridico italiano subì fortemente la sua influenza, meritereb-
be studiarla dawicino.
3 Si arrivò persino ad impedire la pubblicazione di queste parole del Pellico:
«il nobile bisogno della pubblica stima e l’appoggio dell’opinione pubblica».
4 Rosini, Risposta ad una lettera del cav. V. Monti sulla lingua italiana, Pisa
1818, pp. 81-82.
5 Anche per il pregiudizio che non sia necessario «d’imparà l’itajjano a un
itajjano» (Belli, son. «La lezione del padroncino», 8 aprile 1834).
530
Storia della lingua italiana
fa molta attenzione ai premi letterari che essa distribuisce, mentre la
sua attività lessicografica è piuttosto fiacca (v. § 9). r1
Notevoli progressi fanno le scienze, pure e applicate. E 1 Congressi
degli scienziati (a cominciare da quello di Pisa, 1839) hanno importanza
per i contatti che suscitano e il lievito imitano che li pervade.
P Nuove invenzioni vengono a incidere sulla vita civile. Le applicazio-
ni del vapore danno origine, soprattutto nell’Italia settentnonale, a
nuove industrie, e modificano profondamente il traffico terrestre (prime
strade ferrate, 1839) e quello marittimo (battelli a vapore). Al telegrafo
ottico tien dietro il telegrafo elettrico. Le città vengono illuminate a gas
(Milano, 1845). Appaiono i fiammiferi fosforati (1832), e s introduce la
fabbricatone dm s^iga^ ^ stenografia-, si esperimenta il cembalo
scrivano (a Ravizza, 1855), che precorre la macchina da scnvere. Ha
molto successo la litografia; appare la fotografia. , =
Nelle belle arti, il gusto neoclassico predomina neh età na Poleomca
e seguiterà assai a lungo, accanto a manifestazioni romantiche fan
architettura, per es., il neogotico). nn - idea del
È ovvio che cenni così sommari non possono dare i im idea a . il
nroeresso delle idee e delle cose nella loro complessità: abbiamo citato
alSSi ls empi solo per ricordare che dovrà riferirsi a premesse di
questo genere chi voglia studiare l’apparizione di nuovi vocaboli e di
nuovi significati durante questa età (cfr. § 16 segg.J-
4. Principali tendenze nel mutamento linguistico
Illuminismo e francesismo avevano fortemente inciso sulla lingua
nuotidiana che alla fine del Settecento era quanto mai andante e
franceseggiante. L’invasione francese porta nuovi francesismi, neologi-
ojnì amministrativi - e un’ondata di retorica.
Ma come ben presto nella politica la soggezione fa nascere un
nuovo spirito d’indipendenza, così la generate incuria stihstica e
dilagare delle voci francesi e delle voci burocratiche porta ì letterati a
Sa reazione Protesta il Botta, all’Accademia di Torino, con un sonetto
di stampo alfìeriano (1803); protesta iLMonti, nella Prolusione agli s u /
dell’Università di Pavia per l’anno 1804:
Qpntirpì tentato di inveire alcun poco contro il barbaro dialetto misera-
Lfllunoue ti sia che intendi a procacciarti impiego pohtico, se hai cara la voce
qualunque ti sia cne une f studio del i> e i oq uenza; bada
“heSShopp^ Ideare’ “ "rSorzi Infelice abitudine dello scrivere e
parlare viziosamente....
Di contro alle esigenze meramente pratiche i letterati raffermano,
secondo la tradizione italiana che dà tanta importanza al culto della
Il Primo Ottocento
531
forma, l’importanza del bello scrivere 8 . Si tende a rimettere in vigore il
principio d’imitazione, richiamandosi alle glorie del passato: i classici-
sti si attengono principalmente al Trecento e al Cinquecento, mentre
quella più rigorosa loro schiera che fu chiamata dei puristi insiste
soprattutto sul Trecento.
Nel 1816 ha inizio la polemica sul romanticismo: i romantici
rinnegano il principio d’imitazione, proclamano morta la vecchia
mitologia e vorrebbero ima letteratura e una lingua che esprimessero
le idee di un’Italia giovane e fresca, all’unisono col resto d’Europa. Di
qui la necessità di stretti contatti fra là lingua scritta e la lingua
parlata, per meglio aderire alla realtà delle cose.
Un problema che si fa sentire in questo periodo (specialmente per
opera dei romanticD è quello dell’unità della lingua come strumento
sociale d’ima nazione spiritualmente unita.
Manzoni vagheggia un’Italia
una d’arme, di lingua, d’altare,
di memorie, di sangue e di cor,
il Poerio la auspica
fiorente - possente
d’un solo linguaggio.
Ma le vie per accostarsi a questo ideale sono ancora più difficili per
i romantici che per i classicisti e i puristi. Per questi, che rivolgevano gli
occhi al passato, si trattava di scegliere fra vari modelli più o meno
illustri; ma i romantici, che miravano alla lingua parlata, a che modello
dovevano attenersi?
Alcune delle esigenze espressive potevano essere ben soddisfatte
per mezzo dei singoli dialetti (e infatti il Porta ne dava luminoso
esempio, e difendeva la legittimità del dialetto contro il Giordani); ma
altra via si doveva evidentemente tenere per ima letteratura e una
lingua nazionale. Ricorrere al toscano parlato? Fu la ria per cui
s’incamminò sempre più risolutamente il Manzoni, trovando si parec-
chi seguaci, ma anche obiezioni e riluttanze 7 .
8 E ne ottengono qualche riconoscimento ufficiale: il decreto napoleonico del
1809 «per la conservazione della lingua» (vedine il testo negli Atti dell'Acc. della
Crusca, 1909-10, pp. 97-98), le raccomandazioni del Vaccari, ministro dell’interno
del Regno Italico, contro l’uso dei barbarismi burocratici (G. Bemardoni, Elenco
di alcune parole..., Milano 1812, p. ni), e cosi via.
7 Possiamo, schematizzando, parlare di istanze classicistiche e di istanze
romantiche, mentre ci guardiamo bene dal dividere i classicisti e i romantici in
due schiere: è ormai trita osservazione che il Monti e il Leopardi classicisti sono
intrisi di romanticismo, e di classicismo il Manzoni capo della scuola romantica.
Così pure è ozioso discutere se vi sia o no parallelismo fra tendenze letterario 1
linguistiche e tendenze politiche, e chiederci se aveva ragione il Pellico quando
asseriva che a Torino «per dire un liberale si dice romantico» (lettera 18 agosto
532
Storia della lingua italiana
Mentre il numero di quelli che miravano all’unità territoriale (fra le
• * • /j’Tfniioì vìAiip crescendo rapidsmente fino a farsi vaiali-
Affisi
scienziati, barbari nel ìessic > *1 , , „y. p snesso sproporzio-
incuranti di stile 9 : rimproveri assai fondati, anche se spess p
,81®. o se aveva ragione 11 Boto OKffl ne^cltom 1 romuUd^grideto
patria» (gli faceva eco ancora nel 1853, m una ^"^bonico» o «patriotta»-. la
?iov m et né è meno p„ ( °XS,sclenza civile, ed e
sua scuola molto aUa form _ tutta ^ rivoluzione ignorata e
S at C tori C e°^ TgU^pettatorfe daUe ^Ittoe. È rivoluzioni siffatte sono le meno
reprimibili e le più efficaci» («L’ultimo dei «letteratura
“Bosco, in Probi, e orumtam^, I** ^ J^pa^dossalmente egU
popolare» toma piu ^olte nelte ^riconosciuta aulicità della letteratura e il
addirittura pensava Sa cSe ! ™ e °e due poesie e letterature, l’una per gli
??nH«ntfTatoa pel popola Così quelli non perderebbero, mentre questo
ricupererebbe», ecc. .^aWoiw 4^8, 21 per «popolare»
riguardo^Ua re^ri^e'dàUa^CnSca:
sta fatta interrogando la gPP^Cf^ffgx^eUo che f letterati dicono
tr^m^io^h^so^scelsr un^donna per^apere^uso^ippunto di quel popolo ch’é tra il
Chmndo^^ongM^i^^naSda^^^^dùé Ja ^gf^v^e» S ffi «un°ben
> a mZ ™n camp^variati. Il Foscolo satireggia (1813) il «giornalista» che
un pasticcio latino-italo-greco
rivomita indigesto dàlia gola ,
(capitolo a L. Cicognara).
S1 W’SKST.Stfi
SS. *4” ”SSe ft v=ig^^o1f t«d, d !i
Cesarotti».... «Nelle scuole ^Uano scuretto, ma
latino passava di moda-, si scrivev a i^ cos stess i anni si riferiva l’ Amari
chiaro e facile» (La Giovinezza, p. 15, 29 Ritósol Agust^si ^
scrivendo nel 1886 della Propria f 1 avan o a reagire, tra tante altre cose,
penisola, le si scriveva comunemente: povero, basso e pur
contro quel certo italiano, c s ^nve^ ^ N Rodolico, Dalla vita e dalla,
tsssi £
£££££ Ienzt n null“di Speciale, di vivo, che proprio uno non se ne sa dar
Il Primo Ottocento
533
nati, perché da un giornalista odaun segretario non si può pretendere
che scriva come uno scrittore d’arte.
Eppure non rimasero senza effetto sulla prosa quotidiana né
l’insegnamento dei classicisti e puristi, né quello del Manzoni. Valsero i
puristi soprattutto come antidoto contro la sciatteria e il francesismo,
mentre l’esempio manzoniano molto giovò «a estirpar dalle lettere
italiane, o dal cervello dell’Italia, l’antichissimo cancro della retorica»
CAscoli, Arch. glottol. ital., I, p. xxvm).
Ma ancora verso il ’0O è possibile distinguere non solo negli scrittori
che sanno tener la penna in mano, ma anche nella prosa usuale, un
filone piuttosto classicheggiante e un filone piuttosto semplice e
spedito 10 . Sarà compito dei decenni successivi, soprattutto per i più fitti
scambi dovuti all’unità nazionale, il ridurre, nella prosa corrente, la
differenza fra questi due filoni.
Molti scienziati non rimasero indifferenti a questi problemi; ma più
li preoccupava il tumultuoso moltiplicarsi delle terminologie scientifi-
che, che, secondo il Breislak minacciava «una confusione grande nelle
idee di una scienza la quale non potrà progredire giammai con
sicurezza e rapidità, fino a tanto che non se ne stabilisca il linguag-
gio» 11 .
5. La lingua parlata
Benché gli scambi fra regione e regione siano parecchio più intensi
che nei secoli precedenti, l’italiano è ancora essenzialmente lingua
scritta, e, fuori dell’Italia centrale, pochissimo parlata. Sentiamo il
Foscolo: «Le persone educate negli altri paesi d’Europa si giovano della
lingua nazionale, e lasciano i dialetti alla plebe. Or questo in Italia è
privilegio solo di chi, viaggiando nelle provincie circonvicine, si giova
pace, e non dico se il Manzoni ci s’arrabbia» (D’Azeglio, lettera 8 ottobre 1844 al
Giusti, in Epistolario del Giusti, Firenze 1859, p. 449).
Non parliamo poi delle lamentele da cui prendono le mosse gli elenchi e i
repertori di modi errati. Prendiamone uno qualsiasi: «a fame ricolta Idi voci e
modi barbari] non vi vuol certo erculea fatica, imperciocché basta solo entrare
fra le nostre più alte brigate (e più alte sono esse, di maggiore dovizia ne
forniranno), basta por piede nelle opere che vengono oggidì a stampa, e ben
poche vorrei eccettuarne, e basta infine prendere in mano i nostri grandi fogli
periodici e in questi soli, che in ogni altra lingua scrivono che italiana, troverem
tanto da comporre un’altra biblioteca alessandrina» (G. Valeriani, Vocabolario di
voci e frasi erronee, Torino 1854, p. 14).
10 Talvolta le due maniere convivono nello stesso autore e magari nella stessa
pagina: lo nota il De Sanctis nei Saggi critici, a proposito delle Memorie (1853) del
Montanelli, che pure egli ascrive a «quella scuola che dietro le peste del Manzoni
ha gittate via dalla prosa italiana tutta quella vacua sonorità, tutti quei
riempimenti e giri e perifrasi e leziosaggini, che chiamano eleganza, e le ha dato
un fare franco e spedito».
11 Mem.'dell'Ist. del Regno Lombardo Veneto, III, 1824, p. 39 (cit. in Lingua
nostra, XVII. p. 92).
534
Stona della lingua italiana
d’un linguaggio comune ‘a^ed^tiiS^o^eSfòhto^Sinoran-
^r.WS^rA per affettazione d,
letteratura» 12 . . mloll _ rhe nei primi decenni del secolo si
Il Manzoni ci descrive Q^eUo c ene adoprar tutti i vocaboli
chiamava a Milano porla Jì - clie s i credevano italiani, e al resto
italiani che si sapevano, o quett chi con TOCttb oli milanesi
supplire che Mche ai milanesi sarebbero parsi
S^tCsf e S “Sro fatti ridere; e da» al tutto insieme le
SSetiofeToi^eva spiso neUa predicazione e neffinsegnamento
catechistico 14 - necessità di por rimedio a questo stato di
Pochissimo sentita era la necess uà p . rlari de n e campagne
cose. Qualcuno bensì ammir Foscolo dice, parlando di sé
contigue e cercava di confonnann l tomò & stare a dimora nel
sotto la figura di Didimo "Sn arare migUore idioma di quello che
contado tra FireMeePistoiaa^^ c ™f e Carlo Vidua piemontese
si insegna nella citta e nelle scuol^ ^ andare al MerC ato Vecchio ad
consigliava a un amico, ne , alcune famiglie piemontesi
ascoltarvi pizzicagnoli , e conte; tau^Em g.^ nel collegk,
era tradizione di ? Giordani del 30 aprile 1817, il Leopardi,
Tolomei". Nella sua lette» al Giorfam del 30 ap^ fche
oltre agli esercizi e alle letture^ p^, ta taogo doT e si parh la
Ca h"Scbe anno di ££ SSSSS
ss,?* zszsz scalasse - « -
iv, Dmw u>tter IV. Firenze 1851, p. 187
Sieri» sm isSio 1 “•
,ta * , “ , ° De “° v OP< ” ‘“ < “ K
0 "Tn V d&a S N «.U..e, scrivendo
oratore che predicando a Tonno in P d’insegnamento del catechi
dfpam/ìio a Polifllo, Firenze 1821, PP- 8 *!; „ , naz y p. 176). In una lettera
del 1813 leggiamo * aiut^a ad imparare la pronunzia
toscana» (EpistoL, Ed. naz IV,
16 Mazzoni, Ottocento , 2 P\
.7 Rodolico, Stona degli Italiani, cit.. P- 679.
/i Primo Ottocento
535
Firenze; perché non ci è paese dove meno si studi la lingua, e si studino
i maestri scrittori di essa (senza di che in nessuno si potrà mai scriver
bene): ed oltre a ciò non è paese che parli meno italiano di Firenze.
Non hanno di buona favella niente fuorché l’accento 18 : i vocaboli, le
frasi vi sono molto più barbare che altrove». E il Leopardi acquietan-
dosi «alla sua sentenza» lodava la pronunzia di Recanati detterà 30
maggio 1817).
Non c’è bisogno d’insistere sull’importanza che Firenze ebbe nella
concezione del Manzoni, e sul valore di mito che egli contribuì a darle.
Il suo ideale è la lingua parlata dai Fiorentini colti; altri insistono
piuttosto sulla schiettezza del parlare popolano e campagnolo. Ma
c’era molto e molto da fare perché, in ima forma o nell’altra, l’italiano
diventasse veramente una lingua parlata 19 . Quando nel Parlamento di
Torino i deputati si sforzavano di parlare in italiano, parlavano una
lingua morta, nella quale non avevano l’abitudine di conversare 20 .
E più volte l’aneddotica ci serba notizie di frasi dialettali di uomini
illustri: del Prina, che consigliato di nascondersi nei tumulti milanesi
del 20 aprile 1814 rispondeva: I saria neri piemonteis ; di Cavour che in
un momento d’ira, alla vigilia dell’elezione di Rattazzi a presidente
della Camera, esclamava A l'è na ciula, a l’è na ciulaì ; di Vittorio
Emanuele II, di Leopoldo II, di Ferdinando II.
18 L’«accento» che 8 Giordani lodava, irritava invece lo Stendhal: «Je vote au
théàtre du Hhohhomero, c’est ainsi qu’on prononce le mot cocomero. Je suis
furieusement choqué de cette langue fiorentine, si vantée. Au premier moment,
j’ai era entendre de l'arabe»... «la prononciation arabe du florentin vous dessèche
le coeur»; Stendhal, Rome, Naples et Florence, 2 a redaz., rist. Calmann-Lóvy, p. 211
e 229.
18 Abbiamo parecchie testimonianze su singoli individui. Di Carlo Alberto,
per es., sappiamo che parlava bene, per le sue lunghe residenze in Toscana.
Pasquale Galluppi impartiva le sue lezioni «con l’accento tagliente del suo
dialetto» (Settembrini, Ricordanze della mia vita, I, p. 53 Laterza).
Il Manzoni si meravigliava che il Giordani «ritenesse la gallica sua pronunzia
piacentina» (Tommaseo, Colloquii, p. 107), mentre per conto proprio s’era sforzato
di proferire fiorentinamente, e quando il Salvagnoli lodò la suar pronunzia
migliorata, se ne compiacque Avi).
Il Tommaseo aveva imparato benissimo 'la pronunzia di Firenze: ci dice
Ariodante Le Brun, che fu suo segretario: «lo, fiorentino, in tanti anni trovai che
due sole parole non pronunziava come qui si suole-, bosco e apposta con o stretto»
(Di N. Tommaseo, Torino 1875, p. 12).
Un napoletano scolaro del De Sanctis, Nicola Marselli, ci dice che 8 maestro
pronunziava la s di chiosa «in modo veramente barbaro» (cit. da Russo, nel suo
commento a La Giovinezza, p. 125): vuol dire che la pronunziava sonora, mentre 8
Marselli e i suoi compagni ignoravano che questa era la pronunzia toscanamente
corretta.
20 L’osservazione è deHa marchesa Arconati, in un suo colloquio con uno
studioso inglese CN. W. Senior, L’Italia dopo il 1848: colloqui ecc., ed. A. Omodeo,
Bari 1937, p. 34).
530
Storia della lingua italiana
6. Il linguaggio della prosa
Sulla prosa quotidiana andante, quale può essere quella dun
giornale, d’una relazione amministrativa, d’una lettera confidenziale
si solleva la prosa con intenzioni d’arte. Tra la prosa di un «attuano di
tribunale e quella di un Giordani passano infinite gradazioni, dipen-
deX oltre^e dafia capacità dei singoli, dal maggiore o mmor
d6S fi clSsSiS^ttocmSIsco^mira a una lingua aitamente decorosa^
che si scosti dalle «bassezze del moderno idioma» (Giordani!, di
«quell’italiano servile e maccaronico che i più fra gli odierni italiam
parlano o scrivono ognidì» (Botta), per ricollegarsi invece alla hngya
dei più nobili autori del ’300 e del ’500 ; fra i più insigni i modelli è
annoverato Daniefio Bartoli, mentre il Settecento è considerato ima
vergogna. Per il lessico i classicisti si attengono, per quanto P°ssonc> e
saimo a parole appartenenti alla tradizione nobile: non dunque
forestierismi degli ultimisecoli, non neologismi, ove non siano strettis-
stoamentrnecessari. n Leopardi insiste sul fascino delle parole
«vaghe» (mentre sono da evitare i «termini» scientifici e tec^ci, troppo
precisi) È lecito attingere moderatamente anche al lessico poetico.
Uno studio particolare è rivolto all’arte del periodo, J fingeva
costruito con membri di misurata ampiezza, accuratamente connessi
in modo da ottenere ima gradevole armonia.
Queste aspirazioni generali naturalmente si atteggiano nei mo
più vari nei Cingoli scrittori. Il Botta, nell’attingere non solo agli
scrittori di tono pfù alto (specie al Guicciardini) ma anche al Damati
popolareggiante, ai novellieri, ai comici, non di rado usa un lessico
sforzato e composito 22 ; e lo sforzo si sente anche nelle numerose
ÌnV Anche il Leopardi attinge talvolta al lessico familiare e dialettale,
ma iTgeneri»1n cifi fa?e sue maggiori prove la prosa classicteticasono
la storia le orazioni, le dissertazioni di carattere generale. Un campo
nuovo è quello dell’epigrafia 23 , in cui bene si cimentarono il Giordam e
U *Ancor più «libreschi» e ligi al principio d’imitazione che i classicisti
sono i puristi, i quali se per certo rispetto possono essere considerati
21 Vedi i buoni saggi di G. G. Ferrerò, Prosa illustre dell'Ottocento, Torino 1939-
41 (2 a ed. col titolo Prosa clàssica dell' Ottocento, Tonno 1945). . ...
“ Le edizioni del 1819 e del 1820 della Stona della guerra d tndipendenzadegli
Stati Unìti Nerica sono accompagnate da un «Indice alfabetico di alcune
Par °^ 6 ^
to btP llSt* M. può anche darsi che egli non avesse voglia <h scrivere le
iscrizioni richiestegli.
Il Primo Ottocento
537
come una varietà più severa dei classicisti, quasi la loro «estrema
destra» 24 , per altro rispetto ne divergono, in quanto apprezzano l’aurea
semplicità del Trecento molto più che la rotondità del Cinquecento 25 . 1
due principali rappresentanti del purismo, il p. Antonio Cesari, verone-
se (1760- 1828), e il marchese Basilio Puoti, napoletano (1782-1847),
raccolsero intorno a sé parecchi seguaci. Più che per la loro opera di
scrittori, povera e arida (si pensi specialmente a quelle Novelle in cui il
p. Cesari si provò a trattare di cose moderne in stile trecentesco), va
ricordata la loro attività di lessicografi, di grammatici, di maestri, su
cui avremo occasione di tornare più oltre.
Come esempio dell’imitazione dei vezzi trecenteschi da parte del
Cesari ecco un passo d’una lettera al Pederzani del 1813: «Veramente
essi ne dicono Idi questo dialogo] tanto di bene, che non pure superò a
pezza l’espettazion mia, ma quello eziandio, che il mio amor proprio
avrebbe potuto desiderare» 28 . Nella lettera del 1827 in cui rompeva le
relazioni col suo infedele discepolo Villardi, egli incominciava: « Fratei-
mo carissimo» e concludeva: «A Dio, Sozio» 27 .
Certo, spetta ai puristi il merito di aver rimesso in onore lo studio
attento e diretto dei testi (e di averne pubblicati parecchi), sia pure
limitatamente al loro canone trecentesco (alcuni cinquecentisti e
Daniello Bartoli erano apprezzati in quanto alla loro volta erano
ammiratori del Trecento).
Le loro invocazioni per un radicale mutamento della lingua suscita-
vano meraviglia, e talora quasi scandalo: si ricordi il dialogo fra il
giovanissimo De Sanctis e il Costabile, già allievo del Puoti, che
l’invitava a frequentare lo «studio» del marchese: «E credi tu ch’io
debba ancora imparare l’italiano?» - «Sicuro, quell’italiano lì è un’altra
cosa» (La Giovinezza, p. 57 Russo). E molti rifiutavano il giogo che i
puristi pretendevano imporre: già nel 1816 il Berchet li considerava «un
esercito di scrutina-parole, infinito, inevitabile, sempre all’erta, e
prodigo sempre di anatemi» 28 ; e ancora nel 1854 il Mamiani osservava:
«A leggere per es. il Puoti sono tante le voci barbare usate al di d’oggi,
che in verità io non saprei come fare ad aprir la bocca senza sputare
un farfallone, e il povero scrittore italiano è da colui menato alla
condizione di chi balla sulle uova» 29 .
Le pretese di alcuni puristi andavano talvolta al di là delle loro
24 Molto essi polemizzarono fra loro: specialmente il Cesari ed il Monti. G.
Marchetti nel sonetto II Monti e il Cesari, immaginando che i due s’incontrino
«oltra quel varco che al ritorno è chiuso» fa che essi dicano riconciliandosi: «Solo
è bello (dicean) quel varco che l’antica - età consente e la moderna intende».
25 Tanto che il Cardarelli (La Ronda, III, p. 130) ha potuto confrontarli con i
preraffaelliti.
28 G. Guidetti, La questione linguistica e l’amicizia del p. A. Cesari ecc., Reggio
Emilia, 1901, p. 21.
27 Guidetti, cit., pp. 141-142.
23 Lettera semiseria, in Opere, II, p. U Bellorini.
29 Lettera a P. Fanfani, nella Bibliobiografia di questo, p. 50.
538
Storia della lingua italiana
premesse, già di ver sé ^^^Se^ett^S dove^ronSSe due
3gSaf°.SSSWS ^'SSffde, puristi ha a^to
?o°r?°ócuzioni ignQte o ma^ riote Bisogna esserenaturali,
spo ^"^^
cando come scrivevano gli cioè un periodico che non
no le loro prime battaglie nel nersegue apertamente firn
wof essere Reamente leUerano^ ma t P^2^ ne ^ t «tratti ma
sociali. Bisogna esprimersi MP™ loro carat teristiche concrete, e
realisticamente, cogliendo nomi gli animali, le piante, le
chiamando senza scmpolocon f rasegg iato e convenzionale, che
cose 31 Bisogna evitare «quello stde treggia g . è stabl nto
ora mai s’introduce n f^ e °^eoperaa uno Studio, deporre il Panate
nella poesia»-, mente ^^A^^Jerché tanti ricordi classici, tanta
di Melpomene, scalzare ileo irLnanz i tutto bisogna servire alle
"^fsoSta .S ™ i SS SS
ilSoS ie a>*e — ^ *
letterature europee. meglio si manifesta il romanticismo è fi
roins^^storico^'suggerito^ daU’h3empio ledere un
STa'S^o STu— tr-zo heiia lontananza he, tempr
e dei luoghi. moTin _ hp aue lli della poesia si rinnovano
I temi della prosa non meno che quem ^ Medioevo , trovatori e
largamente: vengono di m°da. streghe, geni, folletti, silfi, spettri,
SSS- ^rte nuoie, o nuove atoano per la
sa I discorsi furono tenute neU’ Accademia di Lucca (1B35 6 1830) e xist. in Alcuni
l'estensione del diritto pQsco tiani, Faenza 1958, p- SU.
nel JtìS “l CoSK « « 1818 0. p. 531 Branca!.
a Primo Ottocento
539
vocaboli nuovi: è messa in questione tutta la lingua letteraria tradizio-
nale, troppo esclusivamente libresca e troppo poco popolare.
Naturalmente, le cose non cambiano da un anno all’altro: troviamo
ancora parole come pria nel Conciliatore, aere in una lettera del Pellico,
appo Lei in una lettera del Manzoni: ma l’esigenza è ormai posta, e
presto o tardi i pria, gli aere, gli appo dovranno sparire dalla prosa (e
poi anche dai versi).
La tendenza generale dei romantici è quella di ravvivare la lingua
scritta raccostandola alla lingua parloata 33 . Ma poiché una lingua
parlata generalmente diffusa non c’era, ciò volle dire per i Toscani
attingere al loro parlato (con vocaboli e costrutti toscani comuni, o
fiorentini, o lucchesi, o livornesi, o d’altra città che fossero); e vi fu chi
ne usò e chi ne abusò: il Giusti, per esempio, che ai manzoniani piacque
tanto, fu rimproverato d’aver abusato dei modi toscani, dando inizio a
una «retorica in maniche di camicia». Invece per i non Toscani si
aprivano due vie: o ricorrere all’italiano regionale (si pensi, per citar
solo un esempio, al Nievo) o rifarsi anch’essi al toscano.
Mentre i più procedevano a tentoni e volta per volta si attenevano
con maggiore o minor coerenza all’ima o all’altra soluzione, il Manzoni
con crescente chiarezza in sede teorica e con sempre maggior risolu-
tezza in sede pratica si decise per il fiorentino, puntando su di esso con
i ragionamenti e con l’esempio. Quella norma, cioè quel gusto collettivo
che il Manzoni voleva si instaurasse, ancora non esisteva, e la scelta
era ancora rimessa al gusto dei singoli. Sorse così in molti non Toscani
la moda di attingere al toscano parlato; talvolta con esagerazioni e con
errori. Il Cattaneo, in un articolo del Politecnico *, se la prendeva con
chi «va ramingo per Toscana a far abbaiare i cani delle cascine, per
raggranellare atomi novelli per far lingua», e biasimava il Tommaseo
per essersi servito in Fede e Bellezza di parole come daddoli, damo,
coso, sgargiante, giucco, tarpano.
Anche i Fiorentini furono in genere piuttosto scettici di fronte a
questi sforzi: nel 1835 il Capponi così si esprimeva, nella sua lezione
alla Crusca sulla Storta della lingua italiana: «dove prima rispondeva il
ghigno lombardo all’ eleganze di Mercatovecchio, oggi è così grande
l’amore di quelle eleganze medesime, che veggendole o male scelte o
male adoperate, siamo costretti a menomare lo zelo che riconduce a
noi i non toscani...» 35 . E in più forme si parafrasava il noto detto di
Teofrasto:
33 «Senza il canone della favella parlata il linguaggio illustre degli scrittori
non è più lingua viva... Gravità, gravità, ecco l’unico, l’insopportabile pregio di
tutti gli scritti» (Tommaseo, «Nuova proposta di correzioni e di giunte al
Dizionario italiano», in Nuovi scritti, IV, Venezia 1841, p. 108).
34 Rist. in Scritti letterari, I, pp. U4-126.
33 Vedi l’estratto contenuto nel Diario del Guasti (C. Guasti, Opere, III, pp. 217-
218).
540 Storia della lingua italiana
lo stile
troppo toscan lui non Toscano accusa 38 ;
dal troppo
toscaneggiar vegg’io che non sei Tosco 37 .
La lotta fra istanze classicistiche e puristiche e istanze romantiche
si protrasse a lungo, e tutta quanta la prosa, anche la piu umile e pnva
di pretese letterarie, finì col risentire gli effetti dell una o dell altra di
queste correnti.
7 . Il linguaggio della poesia
Una tradizione di quasi cinque secoli dava al linguaggio della lirica
e dell’epopea una solidità eccezionale; e 1 classicisti continuano a
servirsene talora con altissima maestria, conservandone le caratteri
stiche essenziali. La grammatica mantiene alcune forme tradiTionali
(nui sana, forai ; il lessico è ricco di vocaboli arcaici o latineggianti
(alma, desidero, fiata, ostello-, calle, delubro, ulto «vendicato»; luna
«mese» sole «anno», polo «cielo», ecc.l, e i poeti rivendicano il diritto di
attingere Uberamente al latino (cfr. § 191. Al l nomi geografici moderni,
troppo realistici, si sostituiscono quelli antichi: cosi per es. «Vidi il
tartaro ferro e l’alemanno - strugger la speme dell ausonie spiche»
^AdiirSscSo analogo, quello di evitare le parole troppo realistiche,
precise, moderne, serve la perifrasi: le rane sono «le rauche di stagno
abitatrici» (Monti, Mascher., IV); i colpi dei cannoni e dei fucili sono « il
tuon de’ cavi - fulminanti metalli» (Monti, Bardo della Selva Nera, IV ,
«ìTmuggif degl’ignivomi tormenti» (G. C. Ceroni, La presa di Tarraga
na), «un tonar di ferree canne» (Leopardi, Il passero solitario), la
mitraglia è il «folgorato - intorno a te col tuono - nembo di ferro» (G.
Scalvhii La plebe); il chiostro è per il Mamiaru «femineo cenobio»
«penitente gineceo», «romito albergo», «devoto ostello», ecc. Spesso
presenti sono le favole mitologiche (anziché «morire», scendere all Ère-
bo irrompere nel Tartaro). Abbondano alcuni costrutti ignoti alla lincia
comune (per es. l’accusativo alla greca); 1 ordine delle parole è assai
llbe Molto rara invece è l’accettazione di termini speciali, se non in
«generi» considerati meno nobili (per es. quando 1 Arici nell Origine
delle fonti, IV, parla di «pecci atri» o di « baccare solinga») . Escluse
37 Giorgi’ prefazione ai Novo Vocabolario della lingua italiana, P- iv»-
58 Tuttavia le parole che hanno un aspetto classico possono ® sse ^®^ t Ì;
' -Xwttà- avverte il Mamiani (Pref. alle Poesie, p. lvh) che fibrilla «fu
Staffa Staa scientifico, poi sotto la penna del Monti divenne granoso e
poetico».
Il Primo Ottocento
541
sono anche, di regola, le parole troppo famiUari: il Leopardi si giustifica
in una «annotazione filologica» per aver adoperato evviva, evviva nella
canzone All’Italia-, e fu certo ardito, agfi occhi dei classicisti contempo-
ranei, quando descrisse Aspasia che scoccava baci nelle curve labbra
dei suoi bambini (altrove, nella canzone All'Italia, aveva adoperato
parvoli ) 3e .
Le scuole instillavano ai giovanetti i principii classicistici: si senta
come il Cantù descrive gU insegnamenti del suo maestro di retorica:
Poesia, mi diceva esso, è favella degli iddìi, e tanto miglior è, quanto più dai
parlari del profano vulgo si sprolunga. E prima quanto alle parole, tu non dirai
abbrucia, affligge, cava, innalza, è lecito, spada, patria, la morte, la poesia-, ma
adugge, auge, elice, estolle, lice, brando, terra natia, fato, musa-, e così merto,
chieggio, oceàno, imago, virtude, andaro, destriero. Dalle idee basse, che rammen-
tano cose troppo a noi vicine abborri, fìgliuol mio. Ai nomi propr] sostituisci una
bella circonlocuzione; non dirai amore ma il bendato arderò-, non il vino ma liquor
di Bacco-, non il leone, l’aquila, ma la regina de’ volanti, il biondo imperator della
foresta, e così i regni buj, 0 tempo edace, la stagione de’ fiori, il liquido cristallo,
l'astro d'argento, la cruda parca. Vedi il Monti? non disse il gallo, ma il crìstato
fratei di Meleagro... 40 .
La forza della tradizione è così irresistibile, che quando i romantici
si provano a far valere anche in poesia i loro principii fondamentali si
trovano imbarazzati; e quando vogliono esprimere cose che si riferisco-
no alla vita moderna, specie nei suoi aspetti più umili, urtano contro
difficoltà gravissime: «la poesia epico-lirica - avvertiva il Berchet nella
sua prefazione alle Fantasie - è una sciagurata che non vuole piegarsi
a usare stile da gazzetta» 41 .
È quasi impossibile raggiungere un impasto soddisfacente tra le
parole di antica tradizione poetica e quelle moderne, realistiche.
Ancora troviamo più o meno abbondanti nei poeti romantici gli
arcaismi e i latinismi: leggiamo nel Berchet: «ei preferse i tetri abeti»,
«dal fratello ricevi un’offa,», «dalle membra è svanito un algore », «e co’
baci una lagrima elice»; o nel Carrer: «l’ermo ostello », «i fulminei
cocchi », le « armille preziose»; nella novella in versi Pia de’ Tolomei di B.
Sestini (1822) si legge che
39 II Manzoni ha pargoli e bamboli; il Borghi bamboli; ecc. In prosa, il
Giordani raccomanda a Caterina Franceschi Ferrucci: «Non abbia la smania di
fare del suo bamboccio un Salomonctao prematuro» Qett. 16 gennaio 1832). Il
Manzoni, che nella prima edizione dei Promessi Sposi (cap. XXXV) aveva scritto
«balie con bamboli al petto», nella seconda corresse in bambini.
40 Nel Ricoglitore italiano e straniero. III, i, p. 309 (rist. in Alessandro Manzoni,
Milano 1882, I, p. 230).
41 Sempre vive e luminose le pagine dedicate da Cesare de Lollis ai «conati
realistici» dei poeti dell’Ottocento C Saggi forma poetica ); spunti felici in D. Pe trini.
Dal barocco al decadentismo, Firenze 1957, passim, e in W. Th. Elwert, «La crisi
nel linguaggio poetico italiano nell'Ottocento», in Anales dei Instituto de Linguisti-
ca, TV, 1950, pp. 36-81.
542
Storia della lingua italiana
sull’ingiusta lance
fanno alle cose prevaler le ciance,
e il p aiuolo diventa un «sospeso lebete»-, in quelli che si intitolano Canti
per il popolo del Prati troviamo-.
Ma chi l’ha morta? - Uno stranier soldato
che il verginal suo velo
tentò rapirle...
Où leene La Fuggitiva del Grossi nella stesura originale milanese
«esimei sw££, ss
la strofa 29 in milanese-.
I lacrim, el tremór, l’abbattiment
m’ han strozzaa lì i paroll dent in la gora,
_ tant che in quell att ho poduu di ment,
e gh’hoo avuu temp intant de pensagh sora
al sproposit che fava in quel moment:
hoo veduu tutt el precipizi: allora
m’è cascaa i man, sont dada mdree trn pass,
e son restada lì come de sass
e in italiano:
I gemiti, le lagrime, il tremore
si fer sui labbri alle parole inciampo,
che respinte piombavanmi sul core:
balenò intanto di ragione un lampo
a rischiararmi il tenebroso errore
del precipizio e m’additar lo scampo.
Atterrite allor caddermi le braccia
e la vergogna mi velò la faccia.
dSSÈSSStSSiSsàsS
ts «sax «sSsssrss
- Si .«j la Ltter. 1« c»Hl
SSSSE ir di. poco dal discorso comune di ossidi- Celierà
8 gennaio 1820, in Carteggio di A. Manzoni, I, p. 457
Il Primo Ottocento
543
lancia di guerra», «una selva di lance si scorse» (Rossetti), «dell’elmo di
Scipio s’è cinta la testa» (Mameli), «dove il cimier del barbaro -
sinistramente appar» (Prati); i «cannoni» sono, anche per il Prati, cavi
bronzi («Noi e gli stranieri», 1846); i proiettili sparati dagli Austriaci su
Venezia sono per il Fusinato («Addio a Venezia»), «le ignivome - palle
roventi» (in cui ignivome è, a dir poco, improprio). E così ima carrozza a
cavalli è per il Prati (Edmenegarda ) un «agii cocchio tratto da palafre-
ni», la «ferrovia» è, per un poeta d’occasione del 1856, un ferreo calle, il
«treno» è nell’inno del Mercantini un carro di fuoco, per il Nievo un
fiammante mostro, ecc. 43 ; i fili telegrafici sono per il Regaldi (1856) ferrei
stami, docili stami, fune elettrica.
Ma quando, osservava il De Lollis, le cose moderne appaiono
chiamate con i loro nomi (come quando il Prati nella lirica «Dopo la
battaglia di Goito» parla di moschetti, di mitraglia, di barricate ), la
giustapposizione di voci tradizionali e voci moderne urta per la sua
discordanza. Lo stridente contrasto tra la solennità del primo verso e
l’andante familiarità dell’ultimo nella quartina del Canto d’Igea del
Prati
Né men chi si periglia
coi flutti e le tempeste
del nostro fior si veste
se il mar non se lo piglia
non è difetto stilistico d’un singolo passo o d’un singolo poeta, ma
sintomo caratteristico della crisi del linguaggio poetico in questa età.
Fa capolino anche qualche voce burocratica latineggiante («Sei
delatore»: Prati, «Il-delatore») e, anche più infelicemente, qualche voce
dell’italiano regionale: il Prati nel 1855 in «Satana e le Grazie»
scriveva:
E gli occhi allo sferlato arco d’argento
paralitica e scempia era Latona 44 .
Tuttavia, nel volgere dei decenni la poesia di tono alto tende sempre
più a lasciar cadere i vocaboli arcaizzanti (tipo aita) e, un po’ meno,
quelli latineggiantl Dipende, certo, in primo luogo dall’individualità
del poeta, ma anche un poco dal volger dei tempi se il Tommaseo ne ha
in minor numero e meno spiccati che il Berchet o il Carrer.
Nella poesia di tono minore, per es. quella satirica e giocosa, il
43 Messeri, in Lingua nostra, XVI, 1955, p. 74.
44 II Cherubini, Vocabolario Milanese-ital., s. v., spiega il mil. sferlà come
«squarciare, sdruscire (sic), stracciare, strappare, sbrandellare». E il raccolto nei
Saggi critici, Napoli 1874, p. 104, annotava: «Non ved’egli che questi due versi
cozzano fra loro, e che l’imo è comico, l’altro dell’alta poesia? E se di suono è
posta a’ servigi d’un arco d’argento sferlato, che sarà, quando mi parlerà d’un
divino arco d’argento?»
544
Storia della lingua italiana
contrasto è molto mano "g%&2?£2g£‘i ^2““
ammettere gU arcaismi e pm mclrni ad accettare pre ferisce
che in questo «genere» a il Pananti o il
scrivere in dialetto, temono il , ca ”*2 LlTSenS nel loro versi
^XdehU pXo'Sno, anzi talvolta specificamente deUe
loro città (v. § 17).
8. Discussioni sulla lingua
realizzare SsSH
SS 1 »:— Cesari, la polemica monUa-
na, la teori ?;J? anzo ^”. a4 J'. ant esienano della scuola dei puristi 48 fu
Come abbiamo visto, 1 antesignano Con le gue edizi oni di
Antonio C , esa ^’ t V T°e c e e S nto Pr cL hLuzioni dal latino, con operette
testi ascetici del Trecento, c ° , riedizione della Crusca
religiose e letterarie, ma ^Wtoco^n^nedizion^ ^ ^
(1806-1809) e con Le GnauMmi varsi solo tornando alla lingua
generale inquinamento era possimi secolo d’oro: «tutti in
dei trecentisti. L’italiano ha avuto^ah^ ^ scrivevano bene j ubri de ne
candore, una
^£ia di schiette mardere » , es i del salviatl,
maMn^s^oTSsi di dame alcuna
nella flnennesta beUezza non toma ad
^‘ r lnc5e wTo^^Ma^^inv^si <M£ggP»
«e elocuzioni, pensando forse che ci6 basti a
scandahzzare i lettori di buon gusto .
« Fra le trattazioni generali sulla questione della lingua, la più importante
Per «' Zces^, in Ledere ital, II, 1950,
PP ' ^Dissertazione sopra lo stato presente dUfa i lingua Ualiana, 1808, rist. in
PP- 587-588.
Il Primo Ottocento
545
Il Cesari era convinto che chi avesse studiato a fondo la lingua del
buon secolo aveva modo di dire tutto ciò che volesse: «S’è durato gran
tempo a vituperar questa lingua del ’300... Ora, lodato Dio, s’è alla fine
toccato con mano la cosa essere tutto altrimenti... Ogni cosa potersi
dire che uom voglia, e per avventura meglio» 49 .
Egli rinunziava per amore d’ingenuità e di freschezza a quattro
secoli di vita italiana, e biasimava il proprio tempo come un «secoletto
miterino» (cioè degno di portare in capo per punizione la «mìtera»,
come quelli che erano condannati alla berlina).
Non strettamente limitata al Trecento, ma pur ferma nel proposito
di «córre il più bel fiore dalle opere degli antichi» è la dottrina del
marchese Basilio Puoti 50 . Si sa che la sua opera di maestro fu molto più
importante degli scritti; fra questi, più che le sue edizioni di testi, in cui
dà prova di ben debole filologia 51 , interessano i suoi scritti di avviamen-
to all’arte dello scrivere, le sue Regole elementari della lingua italiana
(Napoli 1833, più volte rist.), il suo Vocabolario domestico napoleta-
no-toscano (Napoli 1841, 2 a ed. 1852), scritto non per documentare le
forme dialettali napoletane, ma per far conoscere ai suoi concittadini le
voci del toscano letterario, il Vocabolario de’ francesismi e di modi
nuovi e guasti ecc. (Napoli 1845, lettere A-E) 52 . Se nelle letture con i suoi
scolari, egli giungeva fino aH’Alfieri e al Monti, più severo avrebbe
voluto fosse il canone della Crusca: nella sua lettera a L. Ciampolini
(1844) egli riteneva non si dovesse andare più oltre del sec. XVII,
considerando che il Magalotti «è da allogare tra’ primi corruttori della
lingua». Se mai dovessero essere inclusi dei moderni, bisognerebbe
pensare al Leopardi 53 .
Piuttosto numerosi furono i seguaci e gli amici del Cesari e del Puoti
nelle varie regioni d’Italia: ricordiamo, fra quelli che più si occuparono
di studi sulla lingua, M. Parenti, L. Fomaciari, G. Manuzzi, mons. T.
Azzocchi, variamente operosi.
Rispetto alla lingua, fu certo un bene l’aver rinvigorita l’opposizione
all’ingresso illimitato di ogni barbarismo; non fu un bene l’aver rimesso
il giudizio all’esclusivo beneplacito di un gusto letterario arcaizzante.
Più vasto respiro porta, nella questione, Vincenzo Monti. Il suo vivo
interesse per i problemi di lingua lo spinse a prender posizione contro
49 Ragionamento sulla vita di Gesù Cristo, Milano 1841, p. xiii.
60 Sul Puoti restano sempre fondamentali le testimonianze del De Sanctis
(nella Giovinezza e nel saggio cit. su «L’ultimo dei puristi»). Vedi N. Caraffa, B.
Puoti e la sua scuola, Girgenti 1906.
51 11 Puoti non aveva scrupolo di sostituire ima parola con un’altra, di che lo
rimproverava il Fomaciari; e il Bonghi ricordava come, per decidere se in un
periodo del Serdonati si dovesse stampare potrebbono o potrebbero, leggeva più e
più volte il periodo «procurando che l’orecchio gli deliberasse, se l’una o l’altra
terminazione tornasse più sonora» (Prefazione a Perché la letteratura italiana non
sia popolare in Italia, p. xv).
52 L. Rosiello, in Lingua nostra, XIX, 1958, pp. 110-118.
53 Epistolario, ed. Guidetti, pp. 254-264.
546
Storia della lingua italiana
gli sforzi fatti dal Cesari per ridar vigore al culto più rigoroso del
Trecento e della Crusca. Nel Poligrafo del 1813 egli cominciò a
pubblicare anonimamente qualche articolo satirico: per esempio nel
dialogo «Il Capro, il Frullone della Crusca e Giambattista Gelli», il
capro viene a lagnarsi di essere stato escluso dal Vocabolario, mentre il
suo nome era stato adoperato dall’Ariosto, dal Guarini, dal Menzini, da
altri ancora: la Crusca ha incluso invece la meno nobile voce di becco ;
nel dialogo «Il 31, il 36 e il 46» attacca la Crusca del Cesari per i
vecchiumi che ha raccolti Iquaranzei e simili) e l’incompletezza delle
esemplificazioni.
Con più salda lena il Monti si mise all’opera lessicografica quando
l’Istituto Lombardo, negli ultimi tempi del regime napoleonico e nei
primi di quello austriaco, prese l’iniziativa perché si compilasse, a
opera di dotti di tutta l’Italia, un nuovo grande Vocabolario. Il Monti,
che preparò una elaborata relazione e la presentò all’Istituto nel 1816,
vide che era vano sperare un accordo con la Crusca,- ciò nonostante il
Governo volle che la proposta fosse fatta (chi si occupava della
faccenda negli uffici milanesi era Giuseppe Bemardoni, con l’approva-
zione del governatóre Saurau), e i direttori delle due classi dell’Istituto
la fecero, il 6 luglio 1816.
La Crusca rispose il 10 settembre di aver già cominciato per proprio
conto il lavoro, e di non essere perciò «più, il tempo di convenire col R.
Istituto e assegnare concordemente le massime preliminari, le norme e
il metodo da tenersi» 54 .
Non questo episodio, che può essere tutt’al più, una causa occasio-
nale, ma tutto l’atteggiamento del Monti in questi anni spiega il tono
dell’opera che egli verme pubblicando dal 1817 al 1824, la Proposta di
alcune aggiunte e correzioni al Vocabolario della Crusca.
Sono quattro volumi divisi in ben sette tomi, che comprendono,
oltre alla parte maggiore che è del Monti, e consiste in una serie di
postille critiche alla Crusca secondo l’ordine alfabetico delle voci, due
trattati di Giulio Perticati (il genero del Monti), Degli scrittori del
Trecento e de’ loro imitatori e Dell’ amor patrio di Dante 55 , e dissertazioni
e comunicazioni di vari eruditi (G. Grassi, G. Gherardini, ecc.).
Nelle prefazioni ai diversi volumi il Monti vien precisando il suo
atteggiamento in favore dell’italiano illustre, e insistendo sull’hnpor-
tanza di un «vocabolario ordinato co’ metodi della filosofia, purgato
d’ogni lordura, suggellato dall’universale consenso della nazione» QI a
parte: dedica a Barnaba Oriani). Del rifiuto della Crusca
64 Cfr. N. Zingarelli, «V. Monti, l’Istituto Lombardo e la lingua italiana», in
Rend. Ist. Lomb., LXI, 1928, pp. 591-619 (rist. anche in Scritti di varia letteratura,
Milano 1935, pp. 496-522).
55 L’idea comune fra il Monti e il Perticali era quella della lingua illustre : ma
mentre il Monti difende lo scrivere colto contro lo scrivere incolto, il nobile, il
gentile, 1’elegante contro il municipale, il plebeo, il casalingo, il Perticari sofìstica
sui testi danteschi, risuscitando le teorie trissiniane.
Il Primo Ottocento
547
“m ss d ?“ a vecch “‘ °> >iMone
camaldolese, né potersi nemettere P ren .d er legge dall'africo dialetto
rivi che a &d altri
Al Monti pare di avere sufficientemente dimostrato
nessuno gl’intende (III, u, pp . X . XI ) nacc l ue ro non hanno alcun valore P erché
r^l Cr i tÌChe contro la Crusca (e contro fi Cesari, che rifacendo la
^m%cA CODfìSUran ° Ìn Un ’ analisi e severa
r A 1 ^ 1 ° nai » e s . pogli ^ autori a torto trascurati Q’Ariosto fi Rucellai
Imr, S& SS, e „ C , 1,a2 ‘ 0nÌ ? r™ ^nsidemtZ°e'Me R aS
zioni ^p a r| a ^ 1U r ! prese msiste perché vengano eliminate le «deprava-
S™r H? !S^T“,V non aol ° vanno tol “ dal vocabolario “e deve
(.reuma. I ritmntvfm na ? lon ? fistiare, flebotomia, paralelto, rema
'* o e ™ a ) ' ntropico («idropico»), sanatore («senatore») ma eeli nreferi
Sto d Sn e arenare a rm ° e arrmare “■ “• PP- amasse a
; 1 a&^±^e°r^uS n S a S
tutto SerT^r P aTa^e,”a e ‘mSànr tlen ^ 6 «*
tro^co^Tts; ssfs&s ssx
%2SEZ£ìZ?£i£Z? dCUa ProPOSto ' Che dà lullta ° «*•
pu£P^
Fummo nemico del gusto. Perugia 1818 ) salutava con entutfasmo U
548
Stona della lingua italiana
Crusca e in genere al fiorenti^mo. U ^ togcanismo e
Va D'importanza capitale nell'annosa questione della lingua fu l'inter-
’J:
” £ A ""»“ «
di cui menzioneremo solo 1 prmapali. S P de j proemio ascolia-
Correzioni, e le pagine da, ^P^emesse un * Momigliano (in A. Manzoni,
no. Città di Castello, LaP^-l 014 ^t. m °P er ®’^^ tte „„ ia “ tUmamente la filosofia
ristampa della ed., Messina 1945, pp. 105435 ) tratteggia oinm £ Gabbuti
manzoniana della lingua, quale ns ® 6) B Croce saggia il pensiero e
Il Manzoni e gli ideologi francesi A e la questione
l’opera manzoniana aUa lardella propria mpsMia^ ^ Manzonl: saggi e
della togua*,m toaTop eg-sS A. Schiaffici esamina «Le origini dell’italiano
discussioni, Ban 1930, pp. . j | rjrnVilpraa della lingua dopo G. I. Ascoli»,
letterario e la soluzione manzoniana ^P^XfmentoS^ idee manzoniane e
in Italia dialettale V, 1929, pp. 129 7 . ^ un’edizione nazionale delle
la cronologia degli scritti v. M. Barbi «Piano per un Reynolds, The
Opere di A. Manzoni* m F Forti «L^ emo lavoro e la
Linguistic Writingsof A M„ Cambridge 1950^ K , 954 pp . 352 . 385; C.
conversione linguistica & A M^>, storia del pensiero e della cultura del
Baglietto, «Il problema, della pi 2 « s . XXIV, 1955, pp. 1-49, 182-236-, G.
NenS, S «^onVers 6 ioiiì n derP. Sposi*, in Rassegna lett. it, LX, 1956, pp. 53 68.
Il Primo Ottocento
549
dell’Adelchi, e l’anno d’inizio del romanzo) il Manzoni manifesta la sua
idea in versi in cui canta l’Italia
una d’arme, di lingua, d’altare,
di memorie, di sangue e di cor.
e in una lettera al Fauriel (3 novembre 1821) pone l’intero problema.
Mentre uno scrittore francese usando una certa espressione sa già
quale effetto produrrà sul suo pubblico, perché ha «un sentiment
presque sur de la conformità de son style à l’esprit général de sa
langue», il fatto che in Italia non si tratti verbalmente in lingua
nazionale di grandi questioni, e che le opere concernenti le scienze
morali siano così poche fa sì che, se non è toscano, «il manque
complètement à ce pauvre écrivain ce sentiment, pour ainsi dire, de
communion avec son lecteur, cette certitude de manier un istrument
également connu de tous les deux>. Come si fa a giudicare se scrive in
«italiano», se questo termine è definito in modi tanto diversi? Eppure
«dans la rigueur farouche et pédantesque de nos puristes iTy a, à mon
avis, un sentiment général fort raisonnable; c’est le besoin d’une
certame fixité». Se questi sono i pensieri e i sentimenti che il Manzoni
ebbe sempre, e che egli viene rimuginando in occasione della stesura di
Fermo e Lucia, i modi in cui egli si propone di ovviare alle difficoltà
sono ancora molto eclettici:
il faut penser beaucoup à ce qu’on va dire; avoir beaucoup lu les italiens dits
classiques, et les écrivains des autres langues, les frangais surtout; avoir parlé de
matières importantes avec ses concitoyens...; avec cela on peut acquérir une
certame promptitude à trouver dans la langue, qu’on appelle bonne, ce qu’elle
peut foumir à nos besoins actuels, une certame aptitude à l’étendre par
l’analogie, et un certain tact pour tirer de la langue frangaise ce qui peut ètre
mèlé dans la nòtre, sans choquer par ime forte dissonance...
Ma nel lavorare al primo testo edito del romanzo (quello che
leggiamo nell’edizione 1825-27) egli viene lentamente abbandonando
questo criterio di mettere insieme una lingua composita e si volge
all’uso vivo toscano, come i libri glielo possono insegnare. Nelle sue
ricerche, egli s’accorge con lieta sorpresa che v’è una concordanza
molto maggiore tra i modi fiorentini e quelli dei vari dialetti italiani e in
particolare quello che a lui più importa, il milanese. La «lingua
toscano-milanese» che egli dice di vagheggiare, in una lettera al
Ftossari del 1825 58 , è quella che si manifesta in tali concordanze: il
Manzoni scopre con gioia che impiparsi dell'Olanda è modo lombardo-
toscano; se si ha in milanese matt de ligà e in toscano matto da legare,
così bisogna dire, anche se il Cherubini traduce pazzo da catena* 0 .
58 Carteggio, II, p. 192.
60 II De Robertis ha mostrato (Primi studi manzoniani, Firenze 1949, pp. 84-98)
quale importanza abbia avuto lo studio del Vocabolario milanese del Cherubini
per le varie stesure del romanzo.
550
Storia della lingua italiana
dal canonico Giuseppe Borghi-, ; do p >o averi ivoratom v del
^ s ^iSHS"X , Sis
rifleSS1? tn dSa SSrola o?di «dove l’Uso si fa intendere, il Vocabolario
proposito della parola orna, «uuve i febbraio 1829) e a proposito
SSSgSMZZSZ». “ ak e tl?a F S?7 n aTrfe S“' n °”
mi paiono da opporsi m nessun n riflessioni si consolida nella sua idea
tSaSsa-ssa
egli non arriverà mai a completare-, ce ne rimangono nume u
6 TaStóndflSbfto dopo il suo secondo matrimonio, 1837) a riscrivere
deU La d reviSo“ 6 d™ C p^lÌ S i Sposi, su cui non possiamo qui^ut»;
menfe Armarci, ™„di cm pwe aodbiamoda^enno^^ta
SS 0 MaSSm” accett'ato’d’alla tradizione letteraria senza che
Obiezioni su onesto peni. ■£>“
lui nel 1855: .-Ma s. Quella de’ parlanti meglio'. E
riSSoS^SS;^' marche.!,’ 8iciùr,Qe.t.raaGinoCappom,
15 genn. 1858; cfr. anehe Colloquu coi Martam p^ 95? cinque fasi, con
- Il Barbi distingueCAnnaii Manzoniani,!, ^ manoscritto già
cui si va da un capitolo mtrodu i „ ^él 1831-34), e attraverso il Sentir
posseduto dal Giorgim te k e dal Bonghi n l
messa (che sarebbe la fase del 1835-36) aueuue si h corrispondono allo stato
volume IV e nel V delle Open ’.inedi te a - m parte diverse
dell opera negli anni 1848 © se eK-, © n f a M cit e F. Forti, art. cit.
giungono B. Reynolds, The ll ' 1 ^' l f dal 1825 . 2 7 e quella del 1840 si può fare con
«H riscontro fra la redazione del 1825 27 equeua^^ ^ ristampa ,
“3 T?rKsf^pa So-^dmian. delle tre redazioni <F<™ e Lucia.
1825-27; 1840).
Il Primo Ottocento
551
avessero riscontro nell’uso parlato fiorentino: parole e modi arcaici (o
almeno stantii) o dialettali
In numerosissimi altri casi il Manzoni sostituì parole e locuzioni che
potremmo dire di tono letterario con altre di tono familiare: accidioso -
uggioso ; adesso - ora-, ambedue, ambo, entrambi - tutt’e due-, confabulare,
chiacchierare-, ecc.
Molte volte si tratta delle varianti fonetiche fiorentine sostituite a
varianti letterarie: dimandare - domandare-, imagine - immagine-, lione -
leone-, obbedire - ubbidire-, publico - pubblico-, sofferire - soffrire -, ecc. (ma
egli sostituisce, anche, si osservi, angiolo con angelo, limosina con
elemosina ).
Il Manzoni accetta inoltre la pronunzia toscana o per gran parte dei
vocaboli con uo; sostituisce gli imperfetti di prima persona in -a con gli
imperfetti in -o. Il pronome egli è spesso abolito o sostituito con lui:
tuttavia in tutto il romanzo egli è ancora adoperato 61 volte (in 18 delle
quali si riferisce a Dio).
Il mutamento non è solo di stile, ma vuol essere anche di lingua: non
soltanto cioè il Manzoni sceglie, tra due varianti ugualmente possibili e
di tono diverso, quelle più conformi al toscano familiare, ma si propone
anche un fine paradigmatico, e cioè vorrebbe che le forme più stantie
venissero colpite d’ostracismo. Insomma egli non si contenta di
rimanere nell’àmbito della lingua quale essa è, ma vorrebbe mutarla o
almeno contribuire a mutarla nel suo sistema, riformarla quale
istituzione sociale.
Fortunatamente le esigenze artistiche hanno quasi sempre il so-
pravvento sulle esigenze dottrinarie. Per esempio il Manzoni trova un
po’ letterario natio, e alcune volte lo sostituisce con nativo-, ma nel
famoso passo: «Addio, casa natia, dove, sedendo, con un pensiero
occulto, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi cornimi il rumore
d’un passo aspettato...» (cap. Vili), introdusse addirittura natio, mentre
nella prima stesura aveva scritto natale.
Le intenzioni che egli si proponeva nella revisione (anche se
involontariamente un po’ travisate per il maturarsi delle concezioni
manzoniane attraverso i decenni) e l’accoglienza fatta al testo riveduto
(in particolare l’aneddoto della lettura comparativa di un passo nelle
due edizioni, fatta dal Giusto furono narrati con grande brio dal
Manzoni al marchese Casanova nella lettera del 30 marzo 1871.
Non sempre il Manzoni riuscì a adeguarsi all’uso fiorentino del 1830-
40 in modo perfetto o con sufficiente approssimazione: dubbi furono
elevati già allora, e altri più severi sono stati presentati più tardi 84 . Né
sempre questa adeguazione fu artisticamente felice (cfr. pp. 583-584). Ma
il romanzo raggiunse ugualmente lo scopo che il Manzoni si proponeva:
di raccostare lo scritto al parlato, di dare un colpo mortale ai fronzoli
retorici che per secoli avevano aduggiato la letteratura italiana.
E. Bianchi, In Annali manzon.. Ili, 1942, pp. 281-312.
552
Storia della lingua italiana
Il trattato sulla lingua a cui il Manzoni lavorò per tanto tempo
senza giungere a compierlo, per un certo gusto nel soffermarsi sui
sempre nuovi dubbi che la meditazione gli presentava, doveva consta-
re anzitutto di un primo libro, di carattere filosofico, sulla natura delle
lingue. Un secondo libro doveva esaminare le varie soluzioni proposte
per la questione della lingua (ci rimane il frammento in cui il Manzoni
esamina «D sistema del padre Cesari», oltre alla precisa formulazione
pubblica del proprio sistema, di cui ora diremo). Infine il terzo libro
doveva trattare del modo di diffondere quella forma di lingua che egli
riconosceva come veramente tale (e anche di questa parte ci rendiamo
conto abbastanza bene attraverso alcuni scritti pubblicati).
Nella parte filosofica, fondata sulla lettura e sulla meditazione di
grammatici e pensatori dei più vari indirizzi, ma specialmente dei
sensisti e degli ideologi francesi, il Manzoni toma spesso su alcune idee
fondamentali: bisogna studiare che cos’è la lingua in generale, e non
esclusivamente la bella lingua; ciascuna lingua costituisce un tutto;
l’Uso è signore delle lingue, e unico signore, ché qualsiasi altro criterio
(analogia, ecc.) deve cedere di fronte a esso.
Mentre il Manzoni andava saggiando con minuzia e circospezione i
principii generali di filosofia della lingua, precisava sempre meglio le
proprie idee sulla lingua italiana. Dopo varie occasioni di esporre il suo
sistema, occasioni che gli si presentarono un momento e che per la sua
incontentabilità lasciò cadere, si decise nel 1846 (mentre durava la
stampa delle Opere varie cominciata nel 1845) a esporre compendiosa-
mente il suo parere sulla questione della lingua, a proposito della
pubblicazione della prima parte del Prontuario... per saggio di un
Vocabolario metodico della lingua italiana di Giacinto Carena 85 . Qui
per la prima volta il Manzoni afferma in pubblico di professare «quella
scomunicata, derisa, compatita opinione, che la lingua italiana è in
Firenze, come la lingua latina era in Roma, come la francese è in
Parigi», e perciò ritiene che il beneficio che il Carena ha fatto agli
studiosi col suo Prontuario sarebbe stato ancora maggiore se egli
avesse lasciato da parte quelle locuzioni «che non sono dell’uso vivente
di Firenze». «Ciò che costituisce ima lingua, non è l’appartenere a
un’estensione maggiore o minore di paese, ma l’essere una quantità di
vocaboli adeguata agli usi di ima società effettivamente vera». L’errore
in cui comunemente si cade è quello di «associare al nome di lingua
non l’idea universale e perpetua d’un istrumento sociale, ma un
concetto indeterminato e confuso d’un non so che letterario». D’altron-
de, il fatto stesso che si disputi da tanto tempo sulla lingua è una prova
«che gritaliani non possedano in effetto una lingua comune». Per
arrivarci, c’è chi consiglia di ricorrere anzitutto al «dialetto» di Firenze,
e poi a quelli delle altre città. Ma «quando si tratta di sostituire l’unità
alla molteplicità, se uno dice: questo sia il primo, la logica aggiunge: e
95 n testo fu spedito dal Manzoni al Carena il 20 febbraio 1847.
Il Primo Ottocento
553
differenti
che il comensodiventi possess^effe^Hw^f 1161 ^ f ? r ? larsl - E bisognerà
-l’Italia; e non solo nella 6 com .P leto m tutta quanta
lingua scritta non è che un vero abuso dfn^iì Cri b ta ’ ° hé * la form °la
^cie°tà C effeifiva n Tco^Sua ?a c^t’ ’ • liuwpSSTtaS
è cheX«?o a rtÌrrv r a e ri o
quanSo iS ^ n ° n è ricchezza - ma miseria:
zioni, «cosa ci giova d’S^wS^w® P °T° quattro altre denomina-
crocicchio, e cf Slce pZ d ™e per " d “
a dare all’Italia ^un* voc abolario^deU* si ^ sserouna buona volta decisi
usata, simile a quello delTAerademin r bngua da loro effettivamente
nosce che le condizioni dell’Italia nrm f J ancese! Certo, il Manzoni rico-
non è detto che SiSa- ’ “S,? 116 d S la *““*>• 6 che
quello che la Francia ha consSSto P cÓnT»ao^i 4 !l d ' a ‘““ artifiziall.
Il solo mezzo d'accosta™ nio^l • 1 u *° deUe circostanze. «Ma è
“TC* de ‘ so,c -.diese d Franiti,! ac^eS’er fd !!aì£etel reSUl * a,0 ' In
meditatì?tì ffloiSh^e l^iJS 41921 H n n de , flnitÌTa delIa sua ,eorIa! ,e
cono non a mm deiWzÌne?2 S "? teoria Pienti lo condu-
politico-civile: egli mir a a consetmi^ ni r sto ì? ca ’ a un programma
* fflEE per la via ohc eU s Snbra la Sù tosta? “Valida, e cerca
n °" 4U “ -ovimento che-
maggiore o minore hnpegno E a lavorare" ridiSendn conllnuò °° n
obiezioni che gh si Dresentn niifi’ discutendo le sempre nuove
(«la mia opera eterna intendi hen’o a s ^? sura del suo libro sulla lingua
del io dicembre 1856). Nel 1855 di ante*-, lettera a G. B. Giorgini
col Tommaseo il quale ce ne Se a ^n®. 0 di problemi linguistici
Manzoni, ed. T. Lodi Firenze lsag^NH^ ^imoriiaxiza, (Colloquii col
incontri con V ’anficcT Gh£ CannoS lì®? appr ? fittò di due brevi
voci di saggio di quel vocabolario deiVne ste / lder ®. co1 suo aiuto alcune
di vocabolario italiano secondo l’uso rii F? r Che X^®beggiava ( Saggio
1957). Ma solo negli anni deeicbH “f f 1 Firenze > ed - G. Macchia, Firenze
il Manzoni scese in lizza ner difendpro C ° mP wK?- nt ° dell’unità nazionale
XII, § 8). Moltissimi altri m pubbhco la sua teoria (v. cap.
queste dispute sulla norma linguislica^m^ 1 ^! S à’ parteci P aron o a
principali correnti di ide™ gmStlCa; ma basterà aver indicato le
9. Grammatici e lessicografi
della grammatìca^lo^ca^ràgionafri 11 eh 6 rif 1 la dlsputa tra 1 fautori
logica e postiderebbe^ahnemftecnicamente^ta prioriti?deUa^ragiane
554
Storia della lingua italiana
sull’uso, e quelli che invece la oppugnano, principale fra tutti il De
Sanctis 68 . minimum s’intitola «filosofica» o
.raS?nita“JS?’sTri&nmogtt o SrtdSto
secondariamente sull uso. S am b e rti ripubblicava con aggiunte
Rio ’ pure 00,1
aggiunte, la grammatica del^CorticeUi dl u '®““ secoU e tutt altro che
«SbS£ Se pSS
''^SThS «S^SaUohé che deliberatamente peneino a
^ eS parecchi TajScl rSnMUono a n d ^^ r ° u ^f p Trlctà
st. "“d s ^rs, c cXut;rfui
premesse mologiche si fonda de j nomi della lingua italiana,
Mpnsietto generale di ludi i verbi anomali e
di/ 1 ? tt V ‘h>SSa Z |eSlvl.à dei ga— ci é^Ua
Cesari nel ^“"'JiSic'a'veroriese .) inserendo nella 4- edizione
chS.'ao.WO giunte, sue e di 8 “4TOa ? S^è,^Stiira
me BStabm?a?itórad^madeUaCruscat»n^OTa^autonomia^nenmi,
essa nconunciò nel 1813 1 ^ vo ^P vinrpnzo Monti la cui Proposta si
«Snt e “ 0 Vopma dell'Accademia e quella del suo
e u 3 .
di Padova (o «della Minerva», a cur u U ^ Napo ii ( Vocabolario
1827-30), e più importante di tutti, queuo cu iNapu
« V. i capitoli XV e XVI della «^fppdfl^ “ ^
Sanctis grammatico, v. Sgroi, J^teUte ente come L. Fomaciari, può portare la
» «soverchio rigore de,
grammatici» nel condannare cosa interrogativo.
Il Primo Ottocento
555
universale italiano, a cura della Società tipografica Tramater e C.,
Napoli 1829-40), successivamente ripubblicato con parecchie giunte a
Mantova, 1845-56. Pur facendo conoscere immediatamente ai consulta-
tori quali sono le voci di Crusca e quali no, il Tramater accoglie
moltissime voci nuove: parecchie provenienti da spogli di carattere
letterario, molte altre da repertori scientifici e tecnici.
Come un rifacimento della Crusca, migliorato nei particolari ma
essenzialmente ligio ai canoni tradizionali, si presenta il Vocabolario
della lingua italiana di G. Manuzzì, cui il Leopardi fornì un certo
numero di schede (l a ed., Firenze 1833-42; notevolmente migliorata è la
2 a edizione, 1859-67).
La quinta edizione ufficiale della Crusca cominciò a uscire nel 1843 e
fino al 1852 ne uscirono sette fascicoli, suscitando critiche severe 98 . Il
Puoti biasimava l’eccessiva larghezza del canone (v. p. 545), il Gherardi-
ni si lagnava che fossero state plagiate le sue Voci e maniere di dire,
ecc. L’Accademia infine decise di sospendere la pubblicazione dell’ope-
ra per ricominciarla dopo un’ulteriore preparazione.
L’attivissimo Gherardini, che abbiamo ricordato più su come gram-
matico, aveva cominciato la sua opera di lessicografo già nel 1812,
pubblicando anonima a Milano ima raccolta di Voci italiane ammissi-
bili benché proscritte dall’Elenco del sig. Bemardoni; a lui si devono
vasti e buoni spogli di scrittori, i cui risultati sono consegnati a due
raccolte: Voci e maniere di dire additate ai futuri vocabolaristi, Milano
1838-40 e Supplimento ai vocabolari italiani, Milano 1852-57. La Lessigra-
fia italiana (Milano 1843; 2 a ed. Milano 1849) è rivolta invece a
propugnare le sue teorie ortografiche.
Un genere di repertori lessicografici che fiorisce particolarmente in
questo periodo è quello degli elenchi di barbarismi. Già l’Alberti aveva
promesso, ma poi non compiè, un elenco di «modi antiquati e abusivi».
G. Bemardoni raccolse, per incitamento del Vaccari, ministro dell’In-
terno del Regno Italico, un Elenco di alcune parole oggidì frequentemen-
te in uso, Milano 1812. Si tratta specialmente di voci amministrative e
legali di conio più o meno barbaro: per alcune poche il Bemardoni
proponeva una sanatoria, per molte altre suggeriva altre voci in
sostituzione. Egli si rendeva conto (e molto più insistè sull’argomento il
Gherardini, nel volumetto del 1812 ora citato) che per quanto uno voglia
essere purista, non può proscrivere una parola adoperata in una legge
o in un codice.
Altri repertori di questo genere, più o meno severi, più o meno
assennati, sono i seguenti: A. Lissoni, Ajuto allo scrivere purgato,
Milano 183 1 89 ; L. Molossi, Nuovo elenco di voci e maniere di dire
08 G. Volpi, «Il primo tentativo della quinta edizione della Crusca», in
Rassegna nazionale, 2 a s., XL, 1923, pp. 242-250.
99 Con uno strascico di polemiche: [Anonimo, prob. G. Gherardini], Aiuto
contro l'aiuto del signor Lissoni, Como 1831; Risposta al libercolo « Aiuto contro
556
Stona della lingua italiana
biasimate. Panna 1839-41; M-
K SS
S-— "«SI di pretesi ftancesHm, Firenze
1858 Alcuni repertori mirano » a jSVSSffn
Frasologia, del Ijssom, che ebbe NaDole t a ni (NapoU 1841) e quello
Vocabolario domestico del .P^°^P e 2 ? ed Roma 1846), le Bellezze di
deff Azzecchi per ! Romani ^ 0 ^ 1858).
modi comici e familiari di o. G- g . -Rarhaelia Venezia
Si hanno anche “^ o °£ a l8 50 F. Zanotto, Venezia 1852-
1845, incompleto; G. Ramoeui, c carena ( Vocabolario
55) ma specialmente ^^\l^^rS Zodico d’arti e
domestico, Tonno 1846, 2 rt ’_ fu pubblicata postuma, Tonno
SST--S SSMS^ Sffih. d/Manzoni ,v. pp.
552-553). t vn ifo « Firenze nel 1830-32 il suo
“foTrl°sut e aSTanch'è
poi fu più volte ritoccato dall autore. ^ tradotti dal francese
Si hanno ancora parecchi voca ,? compilati da ItaUani,
e qualcuno dall .inglese; Xeno alciL? dei più importanti: G. B. Ca-
fra cui vanno ncordati almeno alcuni uei y ^ 1822 . s . strafico,
gioni Tozzetti, Dizionario botanico italiano, Firenze iwn, a
renze 1825. . rRrmnvilla Milano 1819-21-, Marchi,
Anche 1 vocabolari di gr^Km (Bona^a Muan scientiflcl .
Milano 1828-40 «SS rimangono fra 1
I numerosi vocabolari dwtottaù. lira wi^ic fl Milano
migliori che tuttora abbiamo, co . vpnez s ano Venezia 1829, 2 a ed.
1814, 2 a ed. Milano 1839-56, ù Boeno pe ^ parano al duplice
Icopo S doCTimentare le voci SS et fornire le voci corrisponden-
ti italiane a chi non le abbia presenti.
Potuta.. Milano 1831; Orioni intorno od un liba indWo.o -Aiuto aito
scrìvere purgato », Milano 1832.
tl Primo Ottocento
557
10. Rapporti con altre lingue
L’influenza del francese sull’italiano, potentissima nel Settecento,
diventa strabocchevole durante l’età napoleonica, perché all’influenza
culturale s’aggiungono gli effetti dell’occupazione militare, dell’annes-
sione alla Francia di un buon terzo d’Italia, diviso in dipartimenti; e
della supremazia esercitata dalla Francia nel Regno Italico e nel
Regno di Napoli. Così, ad esempio, l’atto di nascita di Verdi è rogato in
francese nel 1813 a «Busseto, département du Taro». Con decreti del
1809 in Toscana e a Roma l’uso dell’italiano era espressamente
equiparato a quello del francese. Il territorio in cui il francese si
adoperava più largamente era il Piemonte 70 : non solo sotto l’occupazio-
ne francese, quando il Denina addirittura proponeva di adoperare il
francese come lingua culturale generale 71 , ma anche poi, quando la
Restaurazione ristabilì lo stato bilingue a cavaliere delle Alpi, la
Savoia fece di nuovo sentire tutto il suo peso, fino al 1860. Si senta
come trovava le cose a Torino nel 1831 il De Laugier:
Sulla porta d’ingresso in Torino, e nella via che le succede, attonito leggo:
Porta d’Italia! Via per l’Italia!! Appena sceso nella locanda, chiedo spiegazione
del rebus. Mi viene risposto: Est-ce que vous ignorez, ètre en Piémont, et non plus en
Italie!! Nei caffè, passeggiando per la città, non odo che parlar francese, o il
vernacolo del paese! Aveva dei conti da regolare col libraio Pomba, per varie
copie inviategli dei Fasti e vicende degli Italiani. Ei me li mostra tali e quali,
suggerendomi riprenderle, impossibile esitare: ‘Qui, egli dice, non si legge né si
scrive che in francese, cominciando dal re e dai ministri. Anche la truppa è
comandata in francese’... 72 .
Vicende che portano a vivere più o meno a lungo in Francia,
desiderio d’una più vasta circolazione internazionale inducono alcuni
dotti italiani a scrivere qualche opera in francese piuttosto che in
italiano: specialmente scritti di scienza, ma anche opere storiche,
antiquarie ecc. 73 .
Di parecchi scrittori fu detto che sapevano meglio il francese che
70 Si ricordi il fatto che ci racconta -C. Lucchesini {Della illustrazione delle
lingue antiche e moderne, 2* ed., cit., II, p. 252): «Tornando di Francia nel mese di
maggio del 1799 visitai il vecchio signor marchese di Barai in Torino. Parlando a
un italiano credei dovergli parlare italiano, ma egli, dopo poche parole reciproca-
mente dette mi pregò di usare il francese, dicendo, che poca pratica aveva della
lingua italiana».
71 C. Denina, Dell'uso della lingua francese.- discorso informa di lettera diretto
ad un letterato piemontese, Berlino 1803; e di nuovo in una lettera indirizzata nel
1809 «au citoyen préfet du département du Po».
77 Concisi ricordi di un soldato napoleonico, rist. Ciampini, Torino 1942, p. 113.
73 II Leopardi in una lettera dell’8 agosto 1817, biasimava E. Q. Visconti
d’ essersi «scordato dell’Italia... avendone abbandonato non solo la terra ma la
lingua», e diceva che se mai «queste cose che hanno a essere Europee» vanno
scritte in latino. Similmente si lamentava nel 1829 il Guerrazzi di Guglielmo Libri.
558
Storia della lingua italiana
l’italiano 74 -, e il «saper meglio» qualche volta può voler dire semplice-
mente sapersi servire del francese con quella sicurezza che è facile
conseguire data la sua stabilità, e invece esitare di fronte alle molte
incertezze dell’uso italiano 75 .
La conoscenza del francese che avevano tutti gli Italiani colti spie-
ga l’abbondanza dei francesismi (v. § 20): numerosi nelle traduzioni,
repressi per motivi puristici nella letteratura più sostenuta e control-
lata, abbondanti negli scritti confidenziali (appunti personali, lettere).
Abbiamo già accennato alle conseguenze linguistiche dell’annessio-
ne di Nizza alla Francia (1860); dal 1860 diminuisce anche quel po’
d’influenza italiana che Torino capitale esercitava sulla Savoia. Quan-
to alla Corsica, le funzioni dell’italiano come lingua culturale regredi-
scono di generazione in generazione: ma ancora in questo periodo i
libri stampati in Corsica in italiano sono in lieve maggioranza 7 *, e la
predicazione si fa ancora per lo più in italiano.
Senza confronto più scarsa che la conoscenza del francese è quella
del tedesco, malgrado la presenza in Italia del dominio austriaco. Non
mancano tuttavia le traduzioni, letterarie e non letterarie, dal tedesco,
come pure quelle dall’inglese. Un filone di anglofilia (e una qualche
conoscenza dell’inglese) è dovuto all’ammirazione per le istituzioni
britanniche.
La conoscenza del latino continua ad essere larghissima fra le
persone colte; minore, ma pur notevole, quella del greco. E si hanno in
questo periodo numerose e importanti traduzioni, naturalmente ad
opera di classicisti 77 .
Quanto alla conoscenza che fuori d’Italia si ebbe della lingua e
della cultura italiana, essa non è vasta.- ai più non importa addentrarsi
nella letteratura e nella vita italiana, ma parecchi vogliono conoscere
quel tanto d’italiano che serve per il canto. Eppure non mancarono i
contatti attraverso i molti viaggiatori venuti in Italia da vari paesi
d’Europa, e attraverso l’opera dei nostri esuli in Svizzera, in Francia,
nel Belgio, in Inghilterra.
Sulle coste orientali dell’Adriatico la posizione dell’italiano è ancora
discreta: la Dalmazia dà alla cultura italiana uomini come il Tomma-
seo e il Paravia, le isole Ionie come il Foscolo e il Mustoxidi. Ma
raffermarsi della lingua e della cultura «illirica», cioè serbo-croata, e il
risorgimento della Grecia sminuiscono la funzione dell’italiano come
lingua culturale 78 .
74 Per es. del Pellico (Ravelli, Giom. star. lett. ital., CXV, 1940, p. 45).
75 È un punto su cui il Manzoni ha molto insistito: basti ricordare la lettera al
Fauriel del 1821 (cit. a pp. 609-610).
70 V. l’elenco di scrittori corsi del sec. XIX dato da P. Arrighi nel volume
Visages de la Corse, Parigi 1951, pp. 130-132. Sulla tomba di Salvatore Viale, il poeta
della Dionomachia, sono inscritte le parole: La Corsica al suo poeta.
77 Mazzoni, L'Ottocento, 2* ed., pp. 402-420.
78 Sulla progressiva decadenza dell’italiano nelle Isole Ionie sotto l’ammini-
II Primo Ottocento
559
H 0 ,-^o lta i’ OCCUpata dagIi In « lesi n el 1800 e non più restituita all’ordine
dei Cavalieri, mantiene l’uso culturale dell'italiano 6
6 co ® te dal Mediterraneo, specialmente orientale l’italiano è
XS2. “«-> la forma sempSfcS a
' • ne f, u ¥> scritto come lingua diplomatica”.
, f^ooctu Romeni, nella fase di crescenza e di occidentalizzazione in
S*" trovava, si volgono alMtaliano per trameTSS
ima ì pat Maior, scrittore della scuola transilvana conduce
una sua traduzione da Fénelon Untimplàrile lui Telemah Buda 1818)
sul testo francese, su una versione italiana che ghoS
dei vocaboli piu facilmente assimilabili {faretra, isola incuda «inmrH
de^lfr’ Str> ì purtà ’ ecc)8 ’ Ion Heliade RMule^mjtózi^la corrente
fusero SSl'r5? a *, da " a Premessa che Italia^ era“en!
S-atteri HrS Sf deUa medesima lingua; propose di abbandonare i
ShnndA una grafia molto aderente all’italiano e
Sm ^ £c^ a “ snu ne ‘ SUOi SCrttti contagia, 'tn
li. Oscillazioni nell’uso
Sa c ^ e ' quando è P iù vivo e intenso il ricambio linguistico sì
effettua uno spontaneo processo di selezione che porta all’eliminazióne
ridu2 ?°?? tra più ferme o vocaboli equivale™
Nell età di cui ci stiamo occupando questo processo agisce assai
HifìVzrz* dl qaaato ci si potrebbe aspettare. Anzitutto, la sempre forte
differenza tra. la lingua della prosa e quella della poesia e il desiderio di
molti poeti e di qualche prosatore di valersi di varianti più o meno
a mante ner vivi numerosiTppSS
Poi da un lato ì fautori dell’italiano antico ravvivano forme e
2 che altrimenti sarebbero scomparsi; ài STX i Sori
uso vivo tendono a mettere in circolazione voci e forme regionali.
?T rpiù *?Po . l’annessione alla Grecia, v. M.
Vili, 1947, pp. 44 - 50 . ” Che della lingua italiana a Corfù», in Lingua nostra,
nuov ? star buono, non cercare me né buono né male ingoili.
U 1835) ' a Pr ° POSlto deUe me “orie dell’inglese A. W. Kinglake, che viaggiò verso
co Gi?7toSnf^ a S de ^ U’itahano in Egitto nel primo Ottocento, v. A. Sammar-
hi fAusttìa’e ff ifS 4£T2?MSSS S.'S’SlJ
P- p. nomine. Contribuiti la istoria hmbn rom., Bucarest 1956 , pp. se 60 .
500
Stona della lingua italiana
Inoltre, come sempre, i neologismi e i forestierismi di recente accatto
appaiono spesso in forme divergenti; e occorre tempo perché una
tn °In\uttì i paragrafi seguenti - sia trattando dei fenomeni ^ammatr-
cali, sia di quelli lessicali - avremo agio di renderci conto di questa
scarsa compattezza dell’uso.
12. Grafia
Nell’alfabeto tradizionale è incerto l’uso di j, sia, aJTiniziale e ali in-
terno della parola per esprimere l’i semiconsonantico , sia alla finale,
come compendio di iù forse quelli che 1 adoperano specialmente alla
finale, predominano di poco sugli altri. Il Leopardi, che negli scritti
giovanili adoperava /, più tardi l’abbandona risolutamente (nelle ìstru-
fioni al Brighenti, lett. 5 die. 1823, per la stampa delle canzoni Prescrive:
«Non si usino / lunghi né minuscoli né maiuscoli, in nessim luogo né
dell’italiano né de’ passi latini»!, tuttavia quando 1 editore Stella gli
domanda un articolo «per bandire... dalle buone scritture quel barbaro
/», risponde che egli condanna «quella lettera come inutile, che
veramente non le manca l’autorità e 1 antichità» Qett. 9 febbr. 1827).
Il Manzoni oscillò molto nell’uso dell’/: nelle stampe giovanili
troviamo il segno, mentre in quelle più tarde esso non appare piu; ma
nei manoscritti autografi esso persiste anche m anni assai tardi .
Avversi alla j si dichiarano il Puoti, il Gioberti, il Carena, favorevoli
Peyron e il Lambruschini. „
Nell’uso delle doppie vediamo assai forti oscillazioni: e non solo
auelle dovute a ossequio puristico per la Crusca ( appostolo , pannello,
Droccurare ecc.) o quelle dovute a raccostamenti all’ètimo, per principa-
le impulso’del Gherardini 1 Academia , catolico, publico, ecc., e viceversa
commune, millione, ecc.): molti settentrionah a cui la pronunzia natia
non permette di distinguer bene le scempie dalle doppie, specialmente
negli scritti confidenziali si lasciano andare a frequenti scambi: nelle
lettere del Foscolo troviamo cattano, creppare, dmggere Placcato,
tacciato e un soqquadro corretto in soquadro, nel
schiffoso piacciuto, griggi, nel Prati tranguggiare e fantasticagini, nel
Rajberti 'zuf folate, ecc. Ma il Leopardi, che scrive carciofo avrà anche
pronunziato così-, e certo con -gg- pronunziava il Puoti che scrive, nelle
^CdaKnóhe i&^fiSppiamanti di scrittori settennali
nelle parole composte: anzicché, sempreppiù ( Conciliatore ), dippiu
(Bor sieri); anche al Foscolo e al Manzoni capita di scrivere stassera.
* Eccezionale è l’uso di ij all’interno di parola per evitare due i consecutivi:
d oesiina (Pananti, Il Poeta di teatro , III, st. 6 dell ed. 1824).
J f. Ghisalberti, in Annali manz., IV, 1943, p. 215-, A Manzoni, Poesie nfiutate,
ed. Sanesi, pp. l-u.
Il Primo Ottocento
501
Invece il Gherardini e i gherardiniani scrivono adirittura, dacapo, ecc.
Il Muzzi, nelle sue iscrizioni, adopera aqqua, naqqui.
Altra fonte d’oscillazione è la grafia delle palatali: spregievole
(Borsieri), scìegliete (Rosmini), camice (plur. di camiciài (Cantò), villag-
gietto CNievo), ecc. Il Foscolo scrive, in una lettera, oglio per olio.
Nelle parole straniere non adattate si applica come si può la
pronunzia delle rispettive lingue. E quando si scriveva guigliottina e
daguerrotipo è da presumere che si leggesse (come più tardi si scrisse)
ghigliottina e daghenotipo.
Non v’è regola certa per l’assimilazione delle enclitiche dopo le
forme verbali troncate: il Monti e il Leopardi scrivono sovvienimi, il
Guerrazzi gittarommi, mentre altri preferiscono tienmi, ecc.
Palco scenico si scrive ancora in due parole (Pellico, Condì., 25 luglio
1819), e così Terrò Santa o Terra-Santa (Grossi); il Guadagnoli e il Giusti
scrivono pian-forte-, nello stesso passo della traduzione della Geografìa
universale di Malte-Brun (1815) si parla di alti piani e di altipiani- nel
1851 il Regno di Sardegna emette il primo franco bollo, mentre la
Toscana emette un francobollo. Il trattino nelle parole composte del
tipo italo-greco e simili acquista voga secondo l’esempio francese 85 .
Permane la tradizionale scarsità di accenti tonici. Una nuova
funzione è attribuita al circonflesso, quella di indicare le contrazioni
(tórre) o le credute contrazioni ( andar per andarono), con lo scopo, per
lo più, di evitare possibili omonimie 86 .
Nei testi poetici si indica sempre più spesso la dieresi vocalica:
alcuni si servono, come in francese, dei due punti, mentre altri
preferiscono un accento (di solito acuto): «La cascata parer di Niagara»
(Pananti, Il poeta di teatro, XXXIX, st. 27 nell’ed. 1824) 87 .
Nell’uso delle maiuscole, danno luogo a oscillazioni particolarmen-
te quelle a scopo onorario: il Manzoni giovane scriveva re, imperatore e
papa con la minuscola, facendo indispettire il p. Soave 88 , mentre il
Cesari sosteneva: «io fo sempre Re, e non re-, e credo meglio fatto»
Getterà 15 febbraio 1815).
85 Ma è combattuto dal Gioberti {Pensieri e giudizi a cura di" F. Ugolini,
Firenze 1859, p. 175).
89 «Esempj pel nuovo segno circonflesso o doppio acuto aggiunto moderna-
mente nella poesia italiana: Fuggir l’oro e i palagi ogni misura» (G. Donini,
Sillabario italiano teorico-pratico, Perugia 1831, p. 236).
87 «a stuolo a stuolo balzano fuori con petulanza apostrofi, accenti e dieresi o
treme, come odo alcuni appellarle... Non in ima maniera oggi si avvisa il Lettore
che due vocali unite non vanno pronunziate in un fiato: chi usa la Dieresi, cioè
due punti in capo alla prima vocale, chi l’accento...» G. Casarotti, Sopra la natura
e l’uso dei dittongi italiani, Padova 1813, p. 123, che ritiene inutile l’espediente,
fidando sull’intelligenza dei lettori). Vedi Ca mini , in Lingua nostra, XIX, 1958, pp.
24-26.
88 Cantù, A. Manzoni, cit., I, p. 19. Sull’uso delle maiuscole nelle poesie
giovanili, v. Ghisalberti, Annali manz., IV, 1943, pp. 203-206; nei Promessi Sposi, v
Barbi, La nuova filologia, pp. 222-223.
562 Storia della lingua italiana
Quanto all’interpunzione vi sono alcuni che vi badano assai poco,
mentre altri vi stanno molto attenti: il Leopardi, conscio «che spesse
volte una sola virgola ben messa dà luce a tutto il periodo > Getterà al
Giordani 12 maggio 1820), era «sofistichissimo» al riguardo Qettera a P.
Brighenti, 5 dicembre 1823), e anzi si proponeva di scrivere un
Trattatello della punteggiatura *». Spesso, nei testi quali li leggiamo
l’interpunzione è stata regolarizzata dagli editori 90 .
Nessuna eco ebbero le proposte di riforma del sistema ortografico,
come quella di un N. N., Proposta per la rettificazione dell'alfabeto ad
uso della lingua italiana, Milano 1830, che voleva introdurre k e y,
segnare con un uncino sottoposto la i e la u semivocale o semiconso-
nante, distinguere la z forte con un accento grave, indicare la se
palatale con ima lineetta sopra la c, la gl palatale con due punti sopra
la g, la gn con un punto sopra 1 la g. Il Lambruschim avrebbe visto
volentieri l’introduzione del fe nell’alfabeto. , .
Senza proporsi di riformare il sistema ortografico, il Gherardiiu,
come abbiamo visto, si propose invece di ritoccare la scrizione di
n um erosissime parole singole, ricorrendo all’etimologia e all’analogia.
Egli sviluppava, anzi portava sino alle estreme conseguenze, una
tendenza che si può notare attraverso tutti i secoli { anatomia che
prevale su notomia. Africa su Affrica, ecc.): voleva perciò che si
scrivesse non solo academia, alunne, amazone, bubone, catolico, ecc.-, e
abbate, commodo, sabbato (con le scempie e le doppie secondo l’uso
latino), ma anche adomine (per addome), asente (per assente ), altretale,
ecc. Qualche seguace non gli mancò: ricordiamo specialmente il
Cattaneo, che applicò e propugnò una riforma molto vicina a quella del
Gherardini 01 ; e applicazioni del metodo gherardiniano vediamo in
scrittori più o meno importanti (Giuseppe Ferrari, il Rajberti, il Dossi, e
persino, in alcune peculiarità, l’Ascoli); ma in complesso, esso non
riuscì a imporsi.
13. Suoni
Settentrionali e Meridionali cominciano a rendersi conto di alcune
peculiarità della pronunzia toscana mal rappresentate dall’alfabeto
(cfr. p. 535). . . ,
Agli ultimi decenni del Settecento (cfr. p. 485) e ai primi dell Ottocen-
to risale la riduzione di uo a o nella parlata fiorentina (borio, novo.
69 SuU’mterpunzione leopardiana, specialmente nelle Operette morali, v. F.
Colagrosso, Le dottane stilistiche del Leopardi, Firenze 1911, pp. 200-230.
00 In una lettera al Le Monnier (3 agosto 1846), il Giusti si lagna dei segni di
punteggiatura troppo abbondantemente aggiunti al suo saggio sul Parine
91 V l’articolo «Della riforma dell’ortografia», in Scrìtti letterari , I, pp. 257-272.
Il Cattaneo proponeva anche, molto opportunamente, d'accentare le parole
sdrucciole e più che sdrucciole, e applicò tale sistema nelle sue Notizie naturali e
civili su la Lombardia.
Il Primo Ottocento 563
ecc.) 92 . Nell’uso letterario uo permane stabile, malgrado la presa di
posizione del Manzoni 93 : le oscillazioni che si hanno in alcune coppie
risalgono alla tradizione e non a questa novità del toscano: così per es.
il Leopardi usa cuopre e scuopre in prosa, scopre nel verso. Quanto al
dittongo mobile, la regola è considerata da qualcuno come una pretesa
ingiustificata dei puristi 94 ed è largamente ignorata, anche da scrittori
toscani (scuoiare nel Giusti, Lettere, passim; tuonare, suonata nelle
Memorie del Montanelli).
La regola che le parole con s impura debbono essere precedute da i
quando siano precedute da consonante comincia a venir meno: il
Guadagnoli scrive non inviluppi, per isgravio, ma anche in scuola, e due
grammatici di opinioni così diverse come il Fornaciai! (Alcuni discorsi,
pp. 109-118) e il Gherardini (Appendice alle grammatiche, p. 556) si
trovano d’accordo nell’attenuare il rigore della regola.
L’assimilazione della r dell’infinito alla l del pronome enclitico si ha
ormai solo nell’uso toscano plebeo: per lo più gli esempi che ne
troviamo nei versi non sono che un ricordo letterario: pagalli in rima
con cavalli nel Poeta di Teatro del Pananti (c. L, st. 4), e, peggio, vedelli
in rima con chiovelli, in una versione di una romanza spagnola del
Berchet Q, p. 261 Bellorini). Invece al toscano plebeo allude il Giusti nel
«Delenda Carthago», v. 56: «E non vogliam Tedeschi: arrivedello».
In forte regresso è il troncamento sintattico. Leggendo nell’Ugoni
una version di quest’opera il Foscolo vorrebbe correggere in versione
( Epist ., IV, p. 45), considerando quest’uso un vezzo dei Gesuiti del
Settecento, e «un prettissimo barbarismo» (2 a lezione pavese). Anche il
Tommaseo (Memorie poetiche, p. 18 Salvadori) dice che questo «mal
vezzo di troncare le parole» lo perseguitò fino ai venticinque anni 95 . Il
Manzoni cercò di attenersi anche in questo all’uso fiorentino, ma vi
riuscì solo fino a un certo punto 99 .
14. Forme
Nel plurale dei sostantivi, le principali oscillazioni sono quelle dei
nomi in -co e -go (traffichi, che è preferito dal Gioberti e dal Manzoni;
92 Goidanich, Atti Acc. d’Italia, s. 7*, II, pp. 167-218.
92 Sul modo tenuto dal Manzoni nel conservare o togliere il dittongo, v.
D’Ovidio, Correzioni, 4* ed., pp. 57-61. In una lettera del 13 aprile 1856 leggiamo
«dammi bone notizie», ma «Il Signore è buono anche quando colpisce»: oscillazio-
ne dovuta alla diversità di tono.
94 «Manfredini scrive da Vienna esser buonissima, o bonissima come voglio-
no i puristi, la salute» Qett. I. Pindemonte, 15 gennaio 1803). Il Tommaseo stesso è
piuttosto scettico sulla norma, e accetta non solo buonissimo ma anche suonare,
tuonare («Nuova proposta* in Nuovi scritti, IV, p. 65).
96 Ma invece, altrove, si attenne ad alcune elisioni popolari toscane-, du’ altri,
i’ ho dato.
99 Bianchi, in Annali manzoniani. III, 1942, pp. 288-291
504 Storia della lingua italiana
narrochi asparaghiF. Per i nomi in -o si noti i camerata (Foscolo). Nei
nomi in -elio si ha il plurale capegli non solo in poesia ma anche in
prosa OD’ Azeglio): su questo modello, il Torelli scrive zampigli come
plurate ^ . composti notiamo sordi-muti, che prevale nei primi
dei?ecok> Conciliatore . passim), mentre più tardi si passa a sordomuti
(P ' Pe^gli^agg^Uivi, la principale oscillazione al plurale (e al superlati-
vo) è pure quella delle voci in -co e -go: aprici (Clasio), reciprochi
(Foscolo), pratichi (Puoti, Tommaseo), poetichissimo, sofistichissimo
(Leopardi), laconichissimo (Manzoni). .... trn
Per formare l’elativo, i puristi hanno esumato il presso tra-
{trasuperbo, Cesari, tragrande, Gioberti, Giordani, Mamiam, Farmi) e
ancora gli Amici Pedanti lo difendono 08 . ,
Il superlativo relativo con l’articolo ripetuto è tutt altro che raro: «lo
stato il più rozzo dell’uomo» (Pecchio); «l’uomo il più certo della malizia
degli uomini» (Leopardi, Zibaldone ), «l’uomo il più disperato » (Giusti),
«SatìsTSil contegno il più pudico » (Guadagnoli), ecc. Di acerrimo
alci^ S hanno perduto la nozione che è un superlativo: «più acerrimo
che (Giusti, Crow. fatti Toscana., p. 110). _
I numerali accorciati del tipo venzei, quaranzette non sono del tatto
scomparsi almeno in Toscana («Son ventisette lire; ma per lei - Si ha
da fare all’agevole, venzei»; Pananti, Il poeta di teatro, c. L 71; «P 1U
vensette anni fa»; Tommaseo, Colloquii col Manzoni, p. 31 Lodi), benché
l Minti Standone esempi nella Crusca del Cesari, se ne prendesse
gÌ °Passando ai pronomi, vediamo frequentemente adoperato egli
accanto a ei (anche in prosa): il Manzoni, trovandolo troppo solenne,
nella revisione dei Promessi Sposi per lo più lo sostituì con lui (cfr-p.
612) Eglino, elle, elleno si adoperano talvolta ancora («O che novità
sono elleno queste?»: Guerrazzi, Il buco nel muro).
Piuttosto largo, anche in scrittori non toscam, è 1 uso di gli, la, le
come soggetti («Un re che gli era, fin dalla balia - pazzopelgioco
dell’altalena*: Carbone, Re Tentenna-, «gii è un castello di carta»:
Farmi- «la è carriera di delitto e di sangue»: Mazzuu; «vaga e quasi
mistica forinola come le son tutte quelle del Mazzini»; Fanm) e di e
come soggetto impersonale («e' v’è»; Mazzini; «queste ferocie non sono
credibili ma é sono avvenute tali e quali»: Giusta.
Li e' gli come particene oggettive di terza persona plurale si
scambiano molto frequentemente: alcuni scrittori le adoperano m
modo TomScuo rimettendosi «al giudizio dell’orecchio» (Parenti,
Esercitazioni filologiche, n. 2), altri invece (Gioberti, Manzoni) adopera-
« Un trattato del Casarotti nell’ed. di Padova 1813 porta nel titolo dittongi, in
quella di Milano 1834 dittonghi.
w Qiunta alla derrata, p. 120 della nst. Pellegrini.
Il Primo Ottocento
565
no gli davanti a vocale, li davanti a consonante («laddove l’ingegno li
trae fuori, li fonde, li cola, li purga, gli opera, gli aggiusta»-. Gioberti,
Rinnovamento ).
Gli per le (dativo singol.) non è raro (si ha anche nel Leopardi),
mentre le per gli è un dialettalismo (per es. nelle lettere di Quirina
Mocenni). Gli per loro (dativo plurale) si legge nel Leopardi, nel
Tommaseo, nel Manzoni.
In scrittori veneti, si ha qualche volta confusione tra ci e si: «io e la
Pisana facevamo gazzarra, contenti e beati di vedersi dimenticati»
(Nievo, Confessioni). Ne è ancora piuttosto frequente per ci («noi, a
noi»).
In posizione enclitica, la lingua poetica può avere, oltre a mi, ti, si, ci
anche me, te, ecc.-. libertà di cui approfittano non solo i classicisti
{deporse. Monti) ma anche i romantici («Del monte ove Gesù tras figuras-
se*: Grossi, I Lombardi).
Le coppie di particelle il cui secondo elemento è lo o ne sono spesso
contratte anche in prosa: mel, tei, cel, vel (e così anche noi). Conforme
all’uso toscano, antico e moderno, qualche volta gliene vale anche per
glielo, ecc. {rimandargliene per «rimandarglielo», in una lettera del
Leopardi, 5 marzo 1836).
Assai numerosi sono ancora i casi di coppie di particelle in cui il
dativo segue al complemento oggetto: e non solo in poesia («io si
raccolse all’odoroso seno»: Monti); abbiamo per es. «che se gli possa
fare una camicia»: Leopardi, Annot. canz. Ili; «facendosegii il freddo
sentir sempre più»: Manzoni, Prom. Sp., XVII; «il cuore se gli serrava»:
Canta, Margh. Posteria; «alle domande che se le facevano»: Carrer,
Racconti; «chi io si mise pazientemente in tasca fu lo Sgricciolo»:
Nievo, Il Varmo; ècc.
Alcuni plurali come qualche professori (Berchet), qualche decine
(Tommaseo), qualche speranze (Canta), qualche anni (Carrer) stanno
cadendo dall’uso: il Manzoni, che nell’ed. del ’27 ne aveva pochi esempi,
li abolì nella revisione. Cfr. anche nessune trattative (Nievo).
Notiamo qualche scambio nell’uso di che e cui («la nube di
maledizioni, di che lo aggravano i secoli»: Mazzini), di che e chi («la
Francia, a chi si attribuisce...»: Amari), qualche esempio di chi plurale
(«chi proseguettero i ladri» (= quelli che persèguironol: Giusti).
Cosa? nel senso di «che cosa?» trova dei difensori (L. Fomaciari,
Gherardini).
Riguardo all’articolo determinativo, si possono osservare anzitutto
queste due peculiarità: sussiste ancora, benché in forte regresso, il
plurale Ji 99 ; davanti a s impura e z si adoperano quasi liberamente
ambedue le forme. Li persiste specialmente nella lingua degli uffici, ma
09 Non più, invece, il singolare lo davanti a consonante: lo troviamo, forse
come allusione all’uso meridionale (dato il riferimento al re di Napoli) piuttosto
che come arcaismo, in uno stornello politico di Dall’Ongaro: «Quando la gente
non avea farina - Lo re diceva: Mangiate pollame».
566
Storia della lingua italiana
se ne servono ancora talvolta, in prosa ed in verso, scrittori classicisti e
anche romantici Mi suoi pseudo-liberali»; Breme, 1818 ^ «se a forza di
sproni li fianchi t’ho aperti»; Prati). Il Gherarduu e il Cattaneo usano
pressoché regolarmente li davanti a vocale e s impura (li articola li
uomini, eco .). Specialmente li persiste davanti a s impura (li strilli.
Bresciani; Atti spettri del 4 settembre 1847, Giusti; su li stinchi. Carducci)
e dopo per (v. qui sotto). Davanti a s impura si ha grande oscillazione
sia in prosa che in poesia, sia nei Toscani che nei non Toscani: tutt al
più si può osservare che nei settentrionali abbondano gli esempi del
tipo con ii «ha sepoltura - già vivo, e i stemmi unica laude» (Foscolo); !
stenti (Berchet); i stupendi marmi (Carrer); un po meno frequente è il
singolare: «piu azzurro il scintillante Eupili ondeggia» (Foscolo), un
spergiuro (Berchet). Anche più libera è l’alternanza fra d tipo il zio, i zu
e lo zio gli zii loa : per citar solo un esempio fra mille, nella stessa pagina
il Rosini scrive un zelante e degli zelanti {Risposta al cav. Monti, p. 33).
Anche nell’uso delle forme intere o apostrofate la libertà e assai
grande, non solo nei versi ma anche in prosa: leggiamo uno anello
(Leopardi), della istoria (Colletta), lo idea, tutta la /lolla (Guerrazzi) , e
viceversa l’o micizie (Foscolo), le lettere e l arti (Mazzini), l ore (Maz ,
ne * Quanto^ Sle preposizioni articolate, notiamo anzitutto la frequenza
delle forme a’, de’, ne’, co’: la scelta tra forme intere e apostrofate è
spesso governata da ragioni di eufonia (per es. il Mazzini scrive de
bisogni e dei desideri, per non ripetere due volte la ste! > s a
Nell’uso dei poeti, si oscilla fra le preposizioni articolate mute (dello,
allo) e quelle separate (da lo, a lo): per es. il Leopardi passa, dalla
Batracomiomachia del 1815 a quella del 1821, dal primo metodo al
SeC Dopo per (e anche dopo il raro ver «verso») molti usano lo, li,
conforme aUa regola dei grammatici antichi-, il Leopardi osserva
costantemente la regola in prosa e in verso e considera
lineua» per il suo reo delitto (recensione giovanile al Salteno versificato
dal Gazola, in Scrìtti letter., II, p. 168), 102 e così scrivono spesso non solo
il Cesari il Monti, il Perticali, il Gioberti, ma anche 1 Aman (per Io
,00 n pedemonte, in una lettera al Bettinelli (23 novembre 1799) scrive «a zio
(perché io non dirò mai lo zio ) scrive le memorie del nipote», e in una lettera al
Pieri (in maKKio 1810) «Io poi dico il zelo e non lo zelo, e prego lei a guardarsi
anch’ena da Xttazione». Anche il Cesari Qettera ad A. Chersa, 25 aprile
1828) se la prende con «certi schifiltosi» che vogliono dire allo Zoilo, lo zucchero,
in zolfo mentre il Boccaccio ha il Zima e simili.
101 li giornaletto fiorentino La Zanzara del 15 maggio 1849 ^rimproverava _«d
gran melante Francesco Domenico» di scrivere la Europa piuttost *> > che l E £°PCL
ediceva che per questo il Giusti l’aveva proposto come Accademico della Crusca
(Giusti EpistoL IV a tiii Mi^LAir/tolia), «per lo Ubero ciel fan mille giri», «per li
campi esulta» Ul passero solitario) non hanno per lui alcuna connotazione
stilistica, ma sono ima sempUce appUcazione della regola.
Il Primo Ottocento
567
momento, in ima lettera del 1849) e il Prati (per lo deserto, per lo
mondo) 103 . Il Carducci del tempo degli «Amici Pedanti» scrive in una
lettera al Chiarini (1857) «rispondimi per lo procaccia»; ma nella lirica
in morte del fratello, che è del medesimo anno, ha ambedue le forme:
per li verdi oliveti e per i lieti cpmpi. I meno rispettosi di queste
prescrizioni sono i Toscani (pel cheto camposanto, Guerrazzi; per il suo
valore intrìnseco, per il malgarbo. Giusti); e il Fomaciari ( Alcuni discorsi,
pp. 103-104), appellandosi al Bartoli, dichiara che la regola non è
assoluta. Il Manzoni che aveva adoperato pel (e pello, secondo la
posizione) nei Promessi Sposi del ’25-’27, passa a per il (per lo) nell’edizio-
ne del ’40.
Per i verbi abbiamo una gamma di varianti assai ampia 104 . Anzitut-
to, nella lingua poetica, rimangono adoperabili terminazioni e forma-
zioni cadute dall’uso: avemo (Manzoni, «Nome di Maria»), avièno
(Monti, Mascher., III), ghirlandomo (Monti, Mascheri, III), ecc. Ma anche
nella prosa troviamo frequentemente varianti che i grammatici catalo-
gano come antiche o poetiche: dee o debbe-, dicea, parea-, fia («quando
ella fia giocondata dai figli», ancora in una lettera del Guerrazzi del
1865); sarta, ecc.; corre, sciorre, torre per cogliere, sciogliere, togliere.
Né raro è l’affiorare di forme peculiari nei Toscani: «quando me ne
parlavi », 2 a pers. plurale: Fanny Targioni Tozzetti, lettera 1838; «Voi eri
amico e compatriotta dell’eroico Giovannetti»: De Laugier, Concisi
ricordi, p. 200; «in velluto e scarponi com’eramo»-. Giusti, lettera 1841 a
P. Thouar, in Epistol., I, p. 388 Martini; curiose le forme di passato
remoto e di condizionale di cui si serve l’elbano generale De Laugier,
pochissimo letterato: raccolsamo, sparsemo, avrebbemo, traverserebbe-
mo l0S ; più fortunato degli altri, anche se non immune da critiche, il
costrutto noi si va: «Si par di carne, e siamo - costole e stinchi ritti»
(Giusti, «La terra dei morti»); «tutti si può mancare» (Manzoni, Prom.
Sposi, cap. XIX), ecc.
Fra i non Toscani appaiono qua e là forme regionali, come il solito
-assimo, -essimo, -issimo, terminazione settentrionale e romanesca per
la prima pers. del condizionale («vedressimo tanto volentieri»: Giulia
Manzoni Beccaria, lettera 1826; «quello che noi vorressimo»: Costanza
Arconati, lettera 1832) 106 .
103 Al Codice di Napoleone il Grande pel Regno d’Italia (Milano 1806) fa
riscontro il borbonico Codice per lo Regno delle Due Sicilie (Napoli 1819).
104 Moltissime se ne possono rilevare dal repertorio del Mastrofini ( Teoria e
prospetto, cit.), il quale, benché fondato su attestazioni classiche, tuttavia spesso
documenta l’uso contemporaneo: per es. al verbo cuocere fa vedere che cuocio sta
sostituendo cuoca («l’uso par che voglia inserire un i»), tra valga e vaglia dichiara
più comune vaglia nella locuzione e vaglia il vero, ecc.
105 Gli Italiani in Russia, Italia 1826-27, passim, cit. da R. Ciampini, nella
prefazione alla sua ed. dei Concisi ricordi di un soldato napoleonico, Torino 1942,
p. 14.
106 Nèlla 2“ edizione dell'Imitazione di Cristo da lui tradotta, il Cesari sostituì
un vorresimo a un vorremmo, ma lo fece per evitare una ripetizione.
568
Stona della lingua italiana
Il Primo Ottocento
569
Nel presente indicativo, alla prima persona plurale, è frequente
davanti alla desinenza un indurimento del tema: tenghiamo, ponghia-
mo, distrugghiamo e anche conoschiamo. Le stesse forme si hanno
anche per il congiuntivo, che inoltre presenta forme analoghe per la 2 a
persona: accolghiate, dirighiate.
All’imperfetto la prima persona in -a è ancora vivissima, ma
accanto ad essa è altrettanto frequente la forma in -o (che «si vede al
presente scorrere in belle scritture»: così il Mastrofmi, parlando del
paradigma di temere). Anche scrittori toscani di tono familiare usano le
forme in -a (era, aspettava, sapeva-. Giusti), talora alternandole, a poche
pagine o a poche righe di distanza, con le forme in -o ( conchiudeva ,
doveva, ma amavo nell 'Apologia del Guerrazzi), n Manzoni nei Promes-
si Sposi del 1825-27, e nelle lettere anteriori e di qualche anno
posteriori, adopera quasi sempre la forma in -a (ho segnato solo un
bramavo del 1829, di contro a moltissime forme in -a); nell’edizione del
1840 egli corregge faceva, non pensava in facevo, non pensavo, e a
questa forma si attiene nelle lettere più tarde ( sapevo , 1850).
Nel passato remoto appaiono non di rado, alla 1* persona plurale,
forme del tipo ebbimo, in Toscani (abbiamo ricordato il De Laugier) e
non Toscani (vidimo: Gargallo; ebbimo-. Rajberti-, seppimo-. Nievo).
Al congiuntivo è ancora frequente la terminazione -i per la seconda
persona-, abbi, facci, vadi, vo gli.
Al condizionale le forme in -ia appaiono ancora qua e là anche in
prosa, e l’uso va esaminato autore per autore: ad es. il Leopardi nelle
Operette morali preferisce il tipo saria, dovria davanti a consonante, ma
sarebbe, dovrebbe davanti a vocale 1 ”.
Frequentissimo è ancora l’uso di avere come ausiliare di verbi
costruiti di solito con quel verbo, anche quando siano usati come
riflessivi: «quand’anche non si avesse conseguita l’indipendenza, si
avrebbe giovato all’onore italiano»: Foscolo, lettera 1815; «pare che il
poeta si abbia proposto »: Leopardi, in Nuovo Ricogl., 1825-, «un frate si
avea tolto il carico di farmi venire i vostri volumetti»: Puoti, lettera
1845; «tutto il vino che si hanno bevuto*-. Guerrazzi, Apologia-, «quel
giorno avrebbesi dovuto installare solennemente la Signoria nuova».-
Capponi, Storia Repubbl. di Fir., II, p. 439.
Qualche osservazione sulle parole invariabili. Si adoperano talvolta
anche in prosa avverbi, congiunzioni, preposizioni che poi cadranno
interamente in disuso: eziandio (Gioberti, ecc.), mo (Manzoni, Prom.
Sposi 1827), oggimai (Mazzini), awegnadio (Guerrazzi), appo (Manzoni,
lett. 1826-, tenere appo Renzo dei Promessi Sposi del 1827 è sostituito da
tenere presso di Renzo), contra (Breme), fuora (Manzoni, lett.-, un paio di
volte nei Promessi Sposi del 1827; in verso, nell’inno di Garibaldi del
Mercantini «Va’ fuora d’Italia...»).
107 E. Bigi, Dal Petrarca al Leopardi, Milano-Napoli 1954, p. 134.
15. Costrutti
Nei costrutti più che altrove si rispecchiano le tendenze contrastan-
ti. I classicisti abbondano di costrutti modellati sul latino e il greco e
sugli scrittori classici italiani: accusativi con l’infinito (estremamente
copiosi, per es. nel Gioberti), accusativi alla greca, ablativi assoluti,
infiniti storici, ecc.; i puristi, oltre che servirsene anch’essi, ravvivano
costrutti arcaici: per es. il Puoti adopera volentieri l’ellissi del che
(«tutto quello fate per me»: lettera a L. Fomaciari, 1846; «quello mi
avete detto»: lettera a S. Betti, 1846). D’altro canto si nota ima forte
influenza francese; e toscanismi e dialettalismi affiorano in varia
misura. .
L’articolo con i cognomi spesso si tralascia, specialmente con quelli
più illustri (e anche con quelli di stranieri): si veda la discussione del
1817 fra il Leopardi e il Giordani CEpistol., I, pp. 99 e 106) e le fini note
del D’Ovidio sull’uso manzoniano 108 .
Non è raro il partitivo dopo avverbi di quantità-, più di fedeltà-.
Leopardi, 1816; con più di precisione : Berchet; assai di regolarità :
Torelli, Ettore Santo, p. 310; cfr. anche un dieci di volumi: Giusti, lett. 22
die. 1846.
Il participio presente con pieno valore verbale è assai raro, e suona
letterario («a me giovane annunziante che il Rosmini verrebbe...»:
Tommaseo, Colloquii col Manzoni, p. 181) ovvero burocratico («i
Rappresentanti il Municipio»: in un manifesto, Cesena 1828; «Firmato
in calce dell’originale: - Minosse presidente il Tribunale»: Guadagnoli,
Poesie, p. 521 De Rubertis).
Raro e meramente letterario è anche il costrutto del gerundio con
in-, «ma il cor mi rode acerba - doglia in pensando...*: Monti, Iliade,
XVI; «O sopiti in aspettando»-. Manzoni, Resurrezione-, anche in prosa-,
«in leggendo quel tenero vostro Sonetto»: Monti, a Rosini 1818.
Anche più raro l’infinito con in-, «molto mi dolse in leggere che
eravate...»-. Puoti, lettera 1844.
Molto ci sarebbe da annotare sulle reggenze dei verbi, talora
influenzate dall’uso dialettale («lo intesi a russare»: Torelli; «pensate...
che turbamento mi produsse il sentire il Manzoni a proporre...»:
Bonghi), e sull’uso dei tempi e dei modi (per esprimere un futuro
dipendente da un passato è frequente il condizionale semplice: «mi
pareva che quell’architettura, trasportata sotto il sole d’Oriente e tra le
nebbie britanniche, armonizzerebbe del pari»: Tommaseo, «I monumen-
ti di Pisa», in Bellezza e civiltà, 1832) 109 .
Nell’ordine delle parole, i classicisti mettono ancora talvolta il
108 Correzioni, pp. 79-80.
108 Lo stesso Tommaseo mescola il condizionale passato con quello presente:
«non prevedevo che, esule volontario, io avrei di là a quindici anni inviato in
Italia un libro sulle miserie e le speranze della nazione e... lo intitolerei...» (Rivista
contempor., XXXVIII, 1864, pp. 125-126).
570 Storia della lingua italiana
verbo in fine per alzare il tono dei loro scritti («la vita mia che ormai
verso l’occaso inchinai Botta, lettera 20 die. 1831). Con il medesimo
scopo, nei gruppi di sostantivo e aggettivo, gli aggettivi con valore
limitativo e gli aggettivi etnici talvolta precedono anziché seguire il
sostantivo («in questa occidentale Europa»: Farini, Lo Stato Romano, I;
«le tracce delle napoleoniche fortune»: ivi; «nel vedersi molto appiana-
ta la via nel parlamentare arringo»; Cavour, discorso 5 febbraio 1852).
Nei versi si mantiene un’amplissima facoltà di trasposizioni, anche
dai romantici («Ma il periglio d’Ulrico ogni malnata - mitigando pur
venne ira scortese»: Grossi, Ulrico e Lida, I; «Sento un soave di patir
desio»; Tommaseo) 110 .
Abbondantissima, anche nella prosa più andante, è l’enclisi prono-
minale: possiamo pensare a un’intenzione un po’ arcaizzante leggendo
in una lettera del Botta (20 die. 1831): « Tienmi Parigi e ancora
terrammi », ma non vi è certo alcuna intenzione simile quando il
Borsieri scrive (Condì., n. 70): «Il padre avevaio destinato allo stato
ecclesiastico; però recossi a Gottinga», o quando il Rosmini scrive al
Tommaseo (22 sett. 1831): «il Manzoni scrissemi una bella lettera», o nei
numerosissimi puossi, diessi, trasportassi, lasciommi, delle Mie Prigioni
del Pellico, o quando il De Laugier scrive: «coloro fra i nostri
concittadini i quali nieganvi questa giustizia» (La milizia toscana, p.
38). L’abbondanza di enclitiche nelle lettere del Carducci al Chiarini,
negli anni degli «Amici pedanti» («Mandati subito il sonetto», 1856;
«Sceglierai questi, metteraili da parte», 1857), forse non è senza
intenzione.
Quanto alla struttura del periodo, malgrado lo sforzo dedicato dai
classicisti a restaurare l’arte degli ampi periodi armoniosamente
bilanciati, nell’uso comune resta prevalente l’andamento a periodi
brevi impostosi nel Settecento. Tant’è vero che in qualche ristampa di
classici gli editori si arbitrano di introdurre delle pause: il Moreni nella
prefazione ai Ricordi del cinquecentista Domenico Meliini (Firenze
1820, p. 17) lamenta che nella ristampa pisana del Guicciardini «con
ardimentoso impegno si mozzano i periodi con pause per facilitarne la
lettura, e per non istancare colla loro pretesa soverchia lunghezza i
polmoni dei lettori». Il Gioberti difendeva il diritto degli scrittori di
svolgere molte idee «con un solo circuito architettato con senno»,
anziché «con dieci periodetti strangolati, come usano ai nostri gior-
ni» 111 . E il Mamiani osservava 112 che mentre «nel cinquecento i maestri
dell’arte adattavano ai varj stili varia foggia di periodo..., oggi d’ogni
110 Al Betti, che in nome della tradizione classica italiana aveva censurato per
le troppe inversioni il volgarizzamento di Pindaro del Lucchesini, il Fomaciari
rispose allegando numerosissimi esempi di poeti e anche di prosatori trecente-
schi con forti trasposizioni (Alcuni discorsi, cit., pp. 3-37).
111 Cit. da Mazzoni, Ottocento, 2* ed., p. 604.
112 Della italianità e dell'eleganza, 2“ lettera (Parigi 1842), in Prose letterarie,
Firenze 1867, pp. 251-252.
Il Primo Ottocento 571
ampiezza di periodo siamo schivi e intolleranti, e vogliamo rotte non
che slegate tutte le membra del discorso...». «Potrei citarvi - egli
aggiunge - un autore de’ nostri che sveglia meritamente gran fama di
sé per sapienza e facondia rarissima, il quale non esce in eterno dal
suo costrutto regolare del nominativo, verbo e accusativo». Giudizi
sommari, certo; ma ho l’impressione che chi allargasse opportunamen-
te la ricerca vedrebbe corroborate le osservazioni del Mamiani.
16 . Consistenza del lessico
Non ci lusinghiamo di poter dare altro che una pallida idea del
lessico del primo Ottocento e delle sue innovazioni rispetto al lessico
dei secoli precedenti.
Anzitutto ricordiamo le ripercussioni della potentissima scossa
data alla vita italiana dall’invasione francese e da tutto quello che
segui fino al 1814. Dapprima si erano solo conosciuti gli avvenimenti di
Francia e i vocaboli relativi; ora molti di questi vocaboli si applicano
alle nuove vicende italiane.
Il modenese Bartolomeo Benincasa, nel Monitore Cisalpino del
maggio 1798 113 , dava un elenco di vocaboli «nuovamente arrivati in
Italia, o di nuova significazione, o d’un’ antica, ma cambiata e travisa-
ta»: aggiornare, allarmista, aristocrazia, arrestare, attivare, awocazione,
cittadino, civismo, clisciano, corporazione, correzionale, correzione, co-
stituente, costituito, democrazia, eguaglianza, emigrato, emigrazione, ex
(particola preposta), federalismo, federalista, federativo, federazione,
filantropia, libertà, liberticida, massa, menzione onorevole, moderanti-
sta, monarchia, mozione, nazione, oligarchia, organizzare, patriota,
patriotismo, popolo, provvisorio, rapportare, risolvere, rivoluzionare,
rivoluzionario, sanculotto, scioano, teocrazia, teofilantropia, tirannia,
vendeista.
Più tendenzioso l’anonimo che pubblicava a Venezia nel 1799 un
Nuovo Vocabolario filosofico-democratico indispensabile per ognuno
che brama intendere la nuova lingua rivoluzionaria.
Se avessimo una completa rassegna dei neologismi sorti fino al 1814
in séguito alla nuova organizzazione dei dipartimenti annessi alla
Francia e dei nuovi stati satelliti, troveremmo innovazioni im portanti
Ce ne dà un’idea il citato Elenco di alcune parole oggidì frequentemente
in uso, le quali non sono ne' vocabolari italiani, di G. Bemardoni
(Milano 1812).
Alcune voci entrarono brevemente nell’uso e poi sparirono (come i
nomi dei mesi del calendario repubblicano), altre si radicarono forte-
mente (come i nomi delle misure: grammo, metro, ecc.). Numerosi
vocaboli furono introdotti nell’uso dal Codice Napoleone (per es.
113 V. Lingua nostra, II, 1940, p. 58.
572
Storia della lingua italiana
immobiliare licitazione, regime della comunione dei beni, ecc.), e molti
di essi persistettero anche oltre. Lo stesso si può dire per parecchie
istituzioni giudiziarie, amministrative, militari (Corte di Cassazione,
tnzSnTrio^regìa, sotto-ufficiale, ecc.>, e in genere per im ^an numero
X voci burocratiche ( caseggiato , controllo, processo verbale suiu con
valore collettivo; mensile in luogo di mensuale, doganale, postale,
retroattivo ; centralizzare , monopolizzare , eccJL 4
Il nome di tricolore, che alTapparire dei Francesi ^^a ancora
soltanto il tricolore francese (azzurro-bianco-rosso) designò ben presto
il nuovo vessillo italiano (verde-bianco-rosso), bandiera deU ®
na e poi della Cisalpina: dopo varie vicende, nel 1848 esso fu da tutti
riconosciuto come simbolo dell’Italia costituzionale.
La Restaurazione ristabilì in parte le antiche terminologie. Poi,
molti nuovi mutamenti si ebbero nella terminologia ufficiale dei vari
Sali dmaSe i moti del ’48 e poi nel ’59 e nel ’60. L. C. Farmi diceva nel
’59- «Ad anno nuovo da Piacenza a Cattolica tutte le leggi, 1 regolamen-
ti i mmd^d anche gli spropositi saranno piemontesi». Ma di questo
Par Lericende 1 talvolta turbinose a cui andò soggetta ia vita politica in
questi decenni spiegano il moltiplicarsi di vocaboli nfenti aUa vita
politica. Il nome di Risorgimento, che aveva designato già nel 700 in
Piemonte e in Lombardia una più o meno vaga aspirazione a un
miglioramento delle sorti d’Italia, prende un senso decisamente politi-
co ne j ’47-’48 (si ricordi II Risorgimento fondato da Cesare Balbo il 15
< ^ C Le sètte portano nomi svariati: sia quello di Carbonari (con i termini
comiessi di borami, vendita), sia quello antitetico di Calderan seguono
k^schema semantico di (Liberi) Muratori-, altn sono coniazioni dotte:
Ad Se di partiti veri e propri, nel senso moderno, si può parlare solo a
cominciare dal ’48, nomi di tendenze e raggruppamenti appaiono ben
prima Se q ual cuno di questi nomi è esclusivamente italiano (come
sanfedista, olonista, albertista, muralista), i più si riconegano a mm
analoghi francesi oppure inglesi: destra e sinistra, liberale, assolute a,
legittimista, conservatore, moderato, radicale, costituzionale, progressi-
sta, oscurantista, comunista, socialista e così via. - - fi t
Liberale, per es„ ha una lunga incubazione, che dal significato
latino di «generoso, di animo aperto» porta la parola a un significato
politico Già il Baretti in una lettera del 1766 parla degli Italiani rumiti
«sotto ii medesimo governo non importa se liberale o dispotico». Due
U* Ma il Ferrari adoperava risorgimento alludendo alla ripresa della civiltà
italiana dall’oriinne dei Comuni al trionfo delle Signorie, mentre lo Spaventa e il
Fiorentino se ne^jervivano nel senso in cui oggi diciamo Rinascimento CSestan, m
O^T^CR^m^gnosi, C. Cattaneo, G. Ferrari, Milano 1957 p. 1057). ^Gioberti
innovamento civile d'Italia) avrebbe voluto distinguere fra Risorgimento (fino al
’49) e Rinnovamento (dopo il ’49).
Il Primo Ottocento
573
episodi accentuano il significato politico della parola: M. m6 de Staél che
nel 1790 dichiara «je défends les idées libérales», Napoleone, il quale
nel proclama del 19 brumaio 1799, il giorno dopo il colpo di stato,
proclama che «les idées conservatrices, tutélaires, libérales sont
rentrées dans leurs droits». E, infine, nelle Cortes di Cadice, discuten-
dosi di finanza, il gruppo liberal, che, dopo aver rinunziato ai propri
emolumenti, difendeva le pubbliche libertà, si separò dal gruppo servii,
fautore degli antichi abusi economici e delle opinioni retrive: con
quest’ultimo passo la parola diventò nome di partito.
Fusionista entra in circolazione nel ’48, quando si discute se la
Lombardia e gli altri che hanno ricuperato la libertà debbono «fonder-
si» col Piemonte o no; separatista nasce a Nizza nel 1859, quando alcuni
ormai progettano di «separarsi» dal Piemonte per unirsi con la
Francia.
Pullulano i nomi politici affettivi: sia riferiti spregiativamente agli
stranieri (gli Austriaci sono chiamati caiserlicchi, mangiasego o segoni,
patatucchi, plùfferi, tognini-, dottamente anche turchi), sia a varie
tendenze o partiti: codini e parrucconi (nomi nati nel 1799, dalla
parrucca che i conservatori ancora usavano, mentre i rivoluzionari
l’avevano smessa), funari (soprannome dato a Lucca nel 1848 ai
retrogradi), malva, malvini (moderati), cupolini (a Firenze «campanili-
sti»), arruffapopoli (voce coniata dal Giusti, largamente fortunata).
Troviamo spesso anche soprannomi scherzoso-spregiativi dati a varie
milizie ( lucemini «carabinieri», polpini «soldati croati» nel 1848, ecc.).
Anche le fedine implicano un sottinteso politico: sono le «basette»
come le portava Francesco Giuseppe, e perciò implicano una «fede», un
«certificato politico» di buon suddito austriaco. Gli eroi della sesta
, giornata alludono alle Cinque Giornate di Milano. Quarantottata
«fiammata politica senza conseguenze durevoli» esprime le delusioni
seguite alle speranze del Quarantotto. Il nome di barabba emerse nella
rivolta milanese del 6 febbraio 1853. Numerosi poi i motti storici
divulgatisi in questa età: la carne da cannone (attribuito a Napoleone),
il concerto europeo (accordo di Chaumont, 1814), i fatti compiuti (O.
Barrot, 1831), l’espressione geografica («l’Italia è un’espressione geogra-
fica»-. Mettemich, 1847), la lotta di classe (Marx, 1848), l’Italia farà da sé
(motto della società segreta dei Raggi, fatto proprio da Carlo Alberto
nel 1848), il governo negazione di Dio (divulgato da Gladstone, 1851), il
grido di dolore (nel discorso di Vittorio Emanuele II del 10 gennaio
1859), ecc. 115 . Prima la mistica giacobina, poi quella mazziniana,
trasferiscono spesso vocaboli di origine religiosa al campo patriottico ( i
martiri della libertà; «i morti della nostra Religione nazionale »: Mazzi-
ni, lett. 29 agosto 1855; ecc.).
115 Invece la frase di Pio IX che aveva chiamato barbacani della Santa Sede i
volontari (Genova di Revel, Umbria e Aspromonte, Milano 1894, p. 50) fu volta a
dileggio, per l’ignoranza del significato proprio del termine, e la somiglianza con
barba e cane.
574
Storia della lingua italiana
i
Ebbero grande influenza anche nella lingua quotidiana le vicende
letterarie: la restaurazione neoclassica, il purismo, l’avvento del ro-
manticismo. n Monti adopera neU' Iliade il latinismo reduce (e il
Manzoni in un senso un po’ diverso nel coro di Ermengardak poi nel
1848 a Roma si organizza un battaglione di reduci.
Per designare nuove invenzioni, si ricorse spesso a moduli ciassi-
cheggianti: così il velocifero, il celerifero, il fiammifero.
Appare anche in Italia il movimento romantico-, il termine dopo una
lunga incubazione anglo-francese (ss. XVII-XVIII), acquista valore
nettamente letterario nella cerchia di M. me de Staél, m cui si fissa
l’opposizione tra romantico e classico-, e si sa quale importanza abbiano
assunto in Italia la nozione e la parola 118 . Il romanticismo sommuove
largamente il vocabolario, con l’importanza data a tutto ciò che e
sentimentale ( idee color di rosa), con il realismo che spinge a descrivere
cose su cui prima si sarebbe sorvolato (ambienti popolari, rustici, ecc.),
con l’amore per il fantastico, l’esotico, il medievale (cfr. p. 5381. La
polemica dei romantici contro la mitologia rende un po ridicole
perifrasi come il santuario di Temi, il regno di Nettuno, tanto care ai
classicisti. Nasce con il romanticismo l’aggettivo primaverile (dappruna
in concorrenza con primaveresco ), si diffonde autunnale, prima rarissi-
mo. Si conia medievale (accanto a medievitico, poi scomparso!, Entra
neli’uso pomeriggio. Nuove forme poetiche sono la ballata (diversa da
quella che così si chiamava nel Medioevo) e la romanza. Eufemismo
romantico è il nome di mal sottile. . . . , .
Fra gli scrittori v’è chi è più incline a comare neologismi, chi invece
li evita. Il Giusti per es. scrive arfasatteria, arlecchineggiare, arruffa,po-
po u articolato (v. p. 578), birrocratico, castrapensieri, grinzume, innaiolo,
insùgherire, meritometro, nipotame, puerpere, scalessare, sonniloquio,
vanume, eco.-, il Gioberti, oltre a rinnovare numerose parole greco-latine
e italiane dei primi secoli, conia contrascossa, cronotopo, fogliettista,
scattedrare, scriviarticoli, torcilegge, ecc.; il Mamiani conia bronzeo (che
attecchì) e quercioso (che non attecchì). . . .. ,
E numerose parole e locuzioni di singoli scrittori si divulgano con
valore allusivo e poi talvolta generico: l’ombra dei cipressi e il lombardo
Sardanapalo del Foscolo, il procombere e le sudate carte del Leopardi, il
disonor del Golgota e i pareri di Perpetua del Manzom (e anche Perpetua
- cfr. p. 580). . .
Il melodramma agisce in vario modo sulla lingua: con reminiscenze
»» ri mimo esempio fin qui additato è in una nota del n. 3 dello Spettatore
Italiano 0814); nel n. 11 12 della stessa rivista si precisa: «questo moderno gustoche
M me de Staél e i tedeschi chiaman romantico» Per la stona deUa parola in
italiano, si veda C. Apollonio, Romantico-, stona e fortuna di uno paroto, Fmenze
1958 e l’«Antologia di testimonianze sul romanticismo» raccolte da E. Mazzali in
ap 5 pèndiceaUa sua ristampa del Discorso di un italiano intorno aiiapoesm
romantica di G. Leopardi, Bologna 1957-, per le altre lingue europee^.
F. Baldensperger, in Harvard Studies and Notes Phil. Liter., XIV, 1937, pp. 13 105, fi.
Wellek, in Compar. Literature, I, 1949, pp. 1-23.
Il Primo Ottocento
575
divulgatissime di locuzioni, come il suon dell’ arpe angeliche (dal Poliuto
di Donizetti, libretto di Cammarano), una furtiva lacrima ( dall’Elisir
d’amore di Donizetti, libretto di Romani), ultimo avanzo -- d’una stirpe
infelice (dalla Lucia di Lammermoor di Donizetti, libretto di Cammara-
no), invenzione prelibata (dal Barbiere di Siviglia di Rossini), disperato è
l'amor mio (dalla Francesca da Rimini di Pellico), di quella pira
l’orrendo fuoco (dal Trovatore di Verdi, libretto di Cammarano), ecc., e
inoltre con la voga che ne ricevettero alcuni vocaboli. Le lettere di
Byron alla contessa Guiccioli, scritte in un italiano piuttosto approssi-
mativo, sono piene di parole, di movenze, di troncamenti che rivelano
come fonte il linguaggio del melodramma: «con quei soavi palpiti»,
«tutto dipende da te, la mia vita, il mio amor, il mio onor» 117 . Palpito,
benché esistesse fin dal Quattrocento almeno, e l’avessero adoperato
alcuni scrittori del primo Ottocento (Leopardi, Guadagnoli, Rosini) non
era registrato dai vocabolari: ma «la famosa cavatina Di tanti palpiti -
di tante pene 1 ' 6 ha introdotto in tutti gli orecchi, e impresso in tutti i
cuori italiani il suo suono e il suo significato» 119 ; traviata ha preso
valore estensivo per la voga dell’opera di Verdi; e alla conoscenza di
personaggi di melodramma si devono antonomasie come Dulcamara
«farmacista ciarlatano» (dall’Elisir d’ Amore di Donizetti, 1832) e Figaro
(che risale al Beaumarchais, ma deve la fortuna italiana a Rossini).
Nascono ora le maschere di Stenterello (1798) e di Gianduia (1808). Da
un certo Luigi Anzampamber si trasse, e perdurò a lungo nel linguag-
gio teatrale dell’Ottocento, il nome di Anzampamber per «guitto» (Enc.
Ital., s. v.).
Qualche espressione sorge nel linguaggio dei teatranti e si diffonde
più o meno anche fuori: far fanatismo, far un furore, essere un pezzo da
sessanta 120 .
Il giornalismo politico e d’informazione rispecchia, per lo più senza
originalità e invece con enfasi a freddo, le tendenze letterarie del
tempo, oscillando fra classicismo e romanticismo. Di un artista scom-
parso si dice che «lascia vedovo un posto nell’arte», di un uomo politico
che «riscuote le più frenetiche dimostrazioni»; le questioni sono
«palpitanti di attualità».
Nei giornali, e negli scritti dei letterati da strapazzo, si abusa degli
astratti. Si lamenta il Tommaseo: «d’un uomo famoso parlando in
Francia dicono (e certi Italiani fangosi ripetono) una sommità, un’illu-
strazione, una celebrità: e queste son le figure di noi italiani. Di qui a
poco, per dire Ariosto diremo ariostizzazione e per Petrarca petrarchi-
tà» al -, e il Giusti, nella satira «Gli umanitari», crede che
117 M. Praz, Cronache letterarie anglosassoni, I, Roma 1950, pp. 68-72.
118 Dal Tancredi di Rossini, libretto di G. Rossi.
118 L. Molossi, Nuovo elenco di voci e maniere di dire, Parma 1839-41, s. v.; cfr.
Viani, Dizionario di pretesi francesismi, s. v. —
128 Pananti II poeta di teatro, c. VI.
121 «Nuova proposta», cit., p. 19.
576
Storia della lingua italiana
...sarà parlata
una lingua mescidata
tutta frasi aeree;
e già già da certi tali
nei poemi e nei giornali
si co min cia a scrivere.
Larghissimo è l’uso di vocaboli burocratici e di forestierismi. La
reazione co^o questi vocaboli, particolarmente tenuta viva dai
puristi fa nascere molti scrupoli. I vari autori di quella tendj^asono
or più òr meno severi, e non di rado si trovano in contrattone fra
loro 122 - ma in complesso la loro opera non fu senza effetto. Se non
riuscirono a far sparire la maggior parte dei vocaboli contro cui
battagliarono ( controllo , deperire, distintivo, funzionare, ispettore, licita-
SKSS atiia, proclama. Profilare ^ono^rt^
trn cifrare e mille altre parole vennero accolte da tutti), altre caaaero m
SSoSrman” merla, tirabussòn. ecc.; degrado, estremare, rea*.*
tSf renZenU speranza re, eco.* altre ancora rimasero m una spera <h
Tfn^Vt’ò accolte dai dìù ma da altri considerate come illegittime o
carminate all’uso degli 'uffici {bigiotterìa, dettaglio, rimarco ; miglioria,
dÌZ Co°nSiòori C remore di carattere puristico affluiscono *vece nel
lessico i^ocaboli riferiti a oggetti nuovi della vita pratica Abbiamo
così nomi riferiti all’abbigliamento maschile (civile e militare) e a quello
femminile- i pantaloni' 23 , la cravatta, il paltò, il ragion il (cappello al
Stiv o (cappello a) staio, la tuba, il gibus, il corsè, il figaro, la
crinolina, la pellegrina, il boa, ecc. Ricordiamo il percalle e ùpiawi, e 1
nomi di colori magenta e solferino, coniati m occasione delle d
battaglie. Citiamo anche alcuni nomi di danze venute di moda m questi
anni; la mazurka, la polka, il “walzer delle
Si diffonde l’uso dei sigari (e, dopo la guerra di Crimea, delie
sigarette ); nel 1832 appaiono i fiammiferi fosforati, che sostituiscono g
antichi e poco pratici solfanelli 124 .
ia n Bemardoni (Elenco, s. v.l avrebbe voluto per es che si evitasse deportare;
r-herardini (Voci italiane ammissibili) fa notare che «1 u§are m sua
m
accette Particolarmente severo è l’Azzocchi, che combatte per es. deputato. Il
n £ n ZTfr^nctSTome C è r noS nZ a4eva CO fratto' origine dalla .maschera
VCTl tSTn om e neoclassico di fiammiferi prevalse presto sugli altri che allora
Il Primo Ottocento
577
Nel campo del traffico ricordiamo i celerìferì e gli omnibus ; i
velociferi, le draisiennes, i bicicli; e una ricca nomenclatura di tipi di
carrozze a cavalli-, tilbury, padovanelli, ecc. Con l’introduzione delle
strade ferrate in Italia (1839) prende inizio tutta una nuova terminolo-
gia 123 : locomotiva, vaporiera™, vagone, tender, ratte (poi sostituito da
rotaia ), tunnel, viadotto, ecc. Ferrovia appare un po’ più tardi, nel
1852 127 . Un progetto di tramway («ossia strada ferrata a cavalli») si ha
nel 1856 128 .
Il grande progresso delle scienze porta a un forte ampliamento
terminologico pressappoco parallelo in tutte le lingue occidentali
d’Europa; le applicazioni delle scienze nella vita pratica e la conoscen-
za che il pubblico ne acquista fanno sì che molti di questi termini si
divulghino largamente.
Così vediamo sorgere in questi decenni innumerevoli termini nuovi
di chimica, come per es. boro, cloro, alluminio, calcio, iodio, sodio,
destrina, glicerina, paraffina, stearina, morfina, acido fenico, clorofor-
mio, ecc.
La medicina identifica la difterite, l’encefalite, la flebite-, studia il tifo,
la cirrosi, i vibrioni, i batteri, ecc. S’adopera V auscultazione-, si sviluppa
l’igiene-, sorgono l’omeopatia e frenologia, acquistando molti seguaci
(dalla frenologia dipende la locuzione avere il bernoccolo per «avere
una spiccata capacità»).
Molti nuovi vocaboli sono foggiati dagli zoologi (per es. plantigradol
e dai botanici; alcuni che eran solo adoperati nei trattati scientifici,
penetrano nell’usp comune. Per es. libellula entra ora dal latino in
italiano 129 ; e così medusa-, il termine linneano di crittogame, che era noto
solo agli specialisti, si divulga verso la metà del secolo, con la
diffusione dell’oidio della vite, chiamato usualmente la crittogama.
Similmente il gas, da termine di fisica qual era, diventa vocabolo
usuale quando si propaga l’uso del gas illuminante (ne) secondo
decennio del secolo).
La geografia fisica comincia a parlare di alti piani o altipiani; i
mineralogi coniano vocaboli come dolomite, i geologi studiano la
stratigrafia delle rocce, coniando numerosi termini nuovi ( alluvionale ,
trias, lias, eocene, pliocene, devoniano, permiano, ecc.); nasce la paleon-
tologia.
E nascono numerose altre scienze o rami di scienze; per es. la
125 Veramente già prima si era avuta la traduzione del trattato francese del
Biot, L'architetto delle strade ferrate, Milano 1837.
126 Vaporiera fu anche adoperato per «battello a vapore» («su le vaporiere del
Po e dell’Adriatico, sino al porto di Fiume»: indirizzo di C. Cattaneo «Ai prodi
Ungari», 5 aprile 1848).
127 Messeri, in Lingua nostra, XVI, 1955, pp. 73-74.
128 Bollettino delle str. ferrate, 12 marzo 1856 (cit. da Messeri, Lingua nostra,
XVI, 1955, p. 9).
129 Carena, Osservazioni intorno ai vocabolari della lingua italiana, Torino
1831, p. 76.
578* Storia della lingua italiana
linguistica o glottologia, V antropometrìa; nascono tecniche nuove come
la litografìa la fotografìa (dapprima daguerrottpia o dagherrottpwl
SOr Ba?tino 3 Questi pochi cenni a dare una minima idea di ciò che ampie
indagini metodiche, condotte per vari filoni potrebbero farci conoscere
SUl I^rStaenlfderivaUvTsono quelli consueti,
Sgi^TaK
modello latino o moderno-, più spesso si tratta di formazioni ^dirette.
Ecco per es. illacrimato (Foscolo), illodato (Perticari), impoetico O^opar-
™ Gioberti ecc ) iìTipremiCLto ( Conciliatore ), inoffettuto
SiSdi!: Sotto (Foscolo, eco ), infilo**™
(PeSii) inobbedito (Foscolo), inoffensivo (Pananti), trwa lutare ( oUett a)
ecc ‘« Tra i prefissi elativi, abbiamo visto che 1 pur^ti hanno cercato di
rimettere in vigore tra-, ma rimane prevalente stra- (gh Sirauttra, Giusti,
irari p non mancano i supra- (supra-romantico, E. Visconti).
Tra i suffissi notiamo la fortuna di -aio per formare voci scherzose:
«vo’ siete - minestraio, lessaio, fritturaio, - pasticciaio amistaio poipet-
taio» (Pananti, Poeta di teatro, c. 37), catalogato (Di Breme), arcolaio
(GiustD 132 gesùitaio (Cattaneo), libertaio (Gargam), ecc. Il suffisso ^is
S molta fortuna nel linguaggio politico (cfr. p. 572); ma è pertanto
nmH i itti vo come nome di professione: appare ora per es. pianista.
P Meriterebbe anche studiare la fortuna intemazionale di alcimi
suffissi nella lingua scientifica: per es. -oide m asteroide, metalloide,
ant n >P uffisso tC -iz°are è molto in voga, secondo il modello francese,
specialmente nel linguaggio burocratico
SSSl Sire e universalizzazione )“. I puristi- Festeggiarono forte-
parola è latina. Mi prendo la libertà di feria itabans, perché fatalmente s «tende,
iacch?»l VSrè di to rto «1 yie n fetfe « .lurtdare^
? StSSS u , a
d ’ invece por evitare i corrispondenti verbi m -izzare, usa
° r8a ™E Miche^^pialche^CTiùor^pir^osto^ 0 *^®^® 1 ^^®^^ 1 ^
sssfit ri sssjrrt ss» *fir M
/I Primo Ottocento
579
mente, e ciò spiega come molti verbi in -izzare, in voga in questo
periodo, siano poi spariti (per es. mobilizzare è stato sostituito da
mobilitare ).
La derivazione immediata dà origine a numerosi deverbali nel
linguaggio burocratico: accompagno, allargo, ammanco, sodisfo, spreco-,
compensa, consegna, ecc. Avviene ora il passaggio da agricola sost. ad
agricolo agg. 13S , sotto l’influenza dell’analogo regnicolo 138 e del fr.
agricole agg.
Frequenti sono le sostantivazioni di aggettivi, sia nel linguaggio
scientifico (il calorico, Yelettricoì, sia in quello burocratico (il consuntivo,
il preventivo ).
Tra i composti, è sempre in auge il tipo imperativale per indicare
persone, come arruffapopoli (Giusti), sciupateste (id.), vendilettere (Fosco-
lo), oppure cose, come paracadute, paragrandine, paralume™, tornacon-
to, ecc.
1 composti con elementi greci e latini abbondano specialmente nel
linguaggio scientifico (v. più oltre, § 19); e fra essi non mancano gli
ibridi (per es. neonato ). Molto rari sono invece i composti di altri tipi,
quali cormentale (Maroncelli), codafestante (Nievo). Si ha perfino qual-
che formazione per mezzo di sigle-, il Lampredi per satireggiare la sigla
U.F. (Ugo Foscolo) ne aveva tratto un verbo ufeggiare 138 .
Avvengono anche numerosi mutamenti semantici, in conseguenza
di mutamenti di cose o di concetti, avvenuti in Italia o fuori: per citar
solo qualche esempio, ecco il nuovo significato politico attribuito a
rosso o a destra e sinistra ; la predicazione mazziniana trasporta
numerosi vocaboli dalla sfera religiosa a quella patriottica ila nostra
Religione nazionale, ecc.). Ecco esposizione che prende valore concreto.
Panificio, che nel ’700 significava «panificazione», prende il significato
di «forno» (con qualche pretesa). Carrozza, che si riferiva solo al veicolo
a cavalli, si applica anche ai carrozzoni ferroviari, e così pure treno
passa dal significato di «equipaggio signorile o militare» a quello di
«complesso di carrozze o carri ferroviari». Vettura passa dal significato
astratto di «trasporto» a quello di «carrozza».
Anche nella terminologia scientifica abbiamo mutamenti dovuti
all’inquadramento in nuovi sistemi concettuali: fossile, che prima
indicava qualunque corpo facente parte della crosta terrestre, è
operaie» (Scritti letter., I, p. 117 Bertani); il D’Azeglio, parla di «quel sistema che nel
dizionario vandalo-burocratico porta il nome di centralizzazione».
135 Attraverso la fase di agricola aggettivato invariabile (cfr. carta moschicida)
che si ha ancora nel Romagnosi: «un nocciolo agricola e industriale» (Dell'indole e
dei fattori dell’incivilimento, p. 238 Sestan).
■” Migliorini, Saggi Novecento, pp. 147-149.
lsr 11 Leopardi, nelle Operette morali («Proposta di premi fatta dall’Accademia
dei Sillografi») immagina che «di mano in mano si abbiano a ritrovare, per modo
di esempio (e facciasi grazia della novità dei nomi) qualche parainvidia, qualche
paracalunnie o paraperfidia o parafrodi...».
1M Tommaseo, Dizionario estetico, 4“ rist., Firenze 1867, col. 380.
580
Storia della lingua italiana
Il Primo Ottocento
581
limitato al principio dell’Ottocento 138 ai resti di antichi organismi.
Parecchi nomi di personaggi noti assumono valore metafonco, come
un Figaro , un Dulcamara, un Mefistofele, un Azzeccagarbugli, una
Perpetua 1 * 0 , un Cameade (ignoto a don Abbondio, perciò «persona
ignota»), un Girella, ecc., ovvero metonimico - come un napoleone d oro
_ i41 ; e non meno numerosi sono i vocaboli provenienti da nomi di luogo
(un marengo). . „ n
Le parole, come è ovvio, vanno esanimate non una per una, ma nel
loro campo semantico: così vediamo che il deterioramento e la
progrediente sparizione di servo e servitore vanno considerati insieme
con l’uso più esteso di domestico. E proprio questo esempio ci mostra
come non si debba mai dimenticare la forte influenza esercitata sulla
semantica italiana dal modello di altre lingue, e specialmente dal
francese
All’apparizione di un nuovo oggetto, talvolta il nome tarda a
fissarsi: quando anziché piegare i fogli delle lettere si cominciano a
usare le buste, per un pezzo il nome oscilla: si ha il francese enyeloppe,
o l’adattamento inviluppo, o sopraccarta, o sopraccoperta, finché busta
prevale. E così si hanno, accanto a indirizzo, i termini soprascritta,
soprascritto, direzione o anche talvolta mansione, missione.
La possibilità d’adoperare due o più parole per esprimere 1 identica
nozione è, come si sa, cosa frequente in italiano: non c è differenza
concettuale fra Costituzione e Statuto (nel senso in cui la parola tu
adoperata da Carlo Alberto nel 1848); si esita a lungo fra patata e pomo
di terra ■ fra grappolo, pigna e ciocca-, fra crestaia e modista-, fra balocco
e giocattolo-, fra pedignone, gelone e buganza-, tra fazzoletto, pezzuola e
moccichino 1 * 2 , ecc.: l’uso pratico è oscillante, e i lessicografi consigliano
l’una o l’altra forma secondo la loro provenienza e le loro teorie.
Sia queste varianti lessicali, sia le minori varianti formali di un
vocabolo medesimo sono assai numerose. „
La Crusca, come è noto, registrava, nella sua 4 a edizione e nel
rifacimento del Cesari, molte varianti arcaiche; e abbiamo detto come
il Monti (seguito dal Gherardini e dal Cattaneo) insistesse perché
fossero tolte di mezzo le «depravazioni degli ignoranti »-.paralello,
sanatore, ecc. Il Leopardi, annotando una sua canzone (IX, v. 43),
avverte per giustificarsi d’aver usato fratricida- «Il Vocabolario dice
solamente fraticida e fraticidio. Ma io, non trovando che Abele si
facesse mai frate, chiamo Caino fratricida e non fraticida ».
Ma scrittori più ligi all’autorità della Crusca si attenevano alle
forme in essa registrate: per citarne solo uno, il Manno, nel suo trattato
■39 probabilmente per influenza francese-, cfr. gli esempi cit. da F. Rodolico,
Ll ^SS^er^Giudici al Manzoni, prob. del 1830, si parla della
«disinvolta Perpetua» di un vecchio parroco (Manzoni, Carteggio, II, p. 639).
141 Migliorini, Dal nome proprio, pp. 197-198 e passim.
uà Ne i Conciliatore (29 ott. 1818) il Di Breme scrive pannolmo di tasca.
Della fortuna delle parole (Torino 1831, più volte rist.), scriveva cucuzzo-
lo, sustanza, fenestrella, nimico, nissuno, nudrimento, instruzione, sagro,
ecc. Viceversa il Manzoni preferiva, specialmente nella redazione del
1840, le varianti del fiorentino parlato: lazzeretto, maraviglia, suggezio-
ne, ecc. Un valente antitoscano, il Gherardini, cercava di accreditare
con i suoi scritti grammaticali e lessicografici numerose varianti
rimodellate sul latino: vulgo, dubio, febre, atimo, catolico, legitimo,
academia, scelerato, contraporre ; esaggerare, commune-, secreto-, ecc.; si
proponeva di generalizzare la distinzione fra in- negativo e inn-
«immissivo» tinnalveare, ecc.), ecc.
Se avessimo larghi spogli delle singole parole che presentavano
varianti, troveremmo insomma una serie di coppie o di teme notevol-
mente più ampia di quella odierna-, e guardando le forme più usate
troveremmo ogni tanto che sono diverse dalle nostre. Così fisonomia
prevale di gran lunga su fisionomia, tremuoto è ancora frequente di
contro a terremoto, tuono s’adopera spesso anche col significato di
«tono» 143 , nodrire (usato per es. da Pindemonte, Borsieri, Pellico,
Perticali, G. Torti, Guadagnoli) e nudrire (che troviamo in Guerrazzi,
Farini, A. Maffei e persino nei Promessi Sposi, cap. IX) prevalgono su
nutrire.
In alcune voci notiamo la lotta tra -er- fiorentino e -or- del resto
d’Italia: lazzeretto (registrato dalla quarta Crusca con un esempio del
Malmantile e uno di Galileo) alterna con lazzaretto, che poi prevarrà;
nel medesimo articolo del Pecchio, nel Conciliatore del 30 sett. 1819,
leggiamo Ungheria, ma ungarese-, Giovanni Torti nello stesso poemetto
(«Scetticismo e religione») scrive a pochi versi di distanza vecchierella e
vaccherella, na «chiesa villareccia »; nel «Cadetto militare» del Guada-
gnoli il v. 18 suona aretinamente Scioccarello! Vanarello!; il Giusti
adopera con quasi altrettanta frequenza -eretto e -aretto. Il Manzoni
sostituì il santarella del ’27 con santerella.
Tra le innumerevoli varietà a cui dà luogo l’adattamento dei
latinismi, ricordiamo l’oscillazione tra i suffissi atoni -olo e -ulo, che è
anche più forte di oggi: accanto a cumulo si ha cumolo, immaculato
accanto a immacolato, formolo è più comune di formula-, ecc.
Anche l’adattamento dei gruppi consonantici dà luogo a forti
oscillazioni: sia che avvenga anche dove poi prevalse la forma non
assimilata (il Leopardi scrive Calisso per Calipso, il Manzoni annegazio-
ne per abnegazione, il Mussafia, 1857, preferisce circollocuzione), sia nel
caso contrario (il Rosini, 1808, scrive scepticismo).
Lo scambio fra -iere e -iero è larghissimamente ammesso, non solo in
poesia Icavaliero, Foscolo; mestiero, Pananti; pensiere, forestiere, Guada-
gnoli), ma anche in prosa: il Leopardi scrive passeggere, il Borsieri
bicchiero, il Carrer battelliero.
14S II Grassi, Saggio intorno ai sinonimi, s. v. tuono, propose di distinguere fra
tuono («rumore della folgore», «fragore») e tono (di voce, ecc.) ma solo nel nostro
secolo la distinzione arrivò a imporsi.
582
Storia della lingua italiana
Il Primo Ottocento
583
Pulmonia e polmonèa si trovano accanto a pneumonia e pneumoni-
te. Ossigene e idrogene cedono lentamente a ossigeno e idrogeno.
Talvolta il mantenimento dell’una o dell’altra forma è legato alle
consuetudini ufficiali (amministrative, giudiziarie) dei singoli stati: così
oscillano officio, ufficio e uffizio- officiale e ufficiale-, procedura e
processura ; fidecommisso , fideicommisso e fedecommesso; garantia ,
guarendo è guarentigia (mentre garanzia appare molto tardi: nel 1865
secondo il DEI). .
A molte varietà dà luogo, come già abbiamo accennato, 1 accettazio-
ne delle parole forestiere. Una fonte di divergenze è intanto il
mantenere o no la grafia originale: burò o bureau-, valz, valtz, walser ,
walzer. I nomi del calendario repubblicano francese sono variamente
adattati: fiorile e floreale-, nelle sue lettere il Foscolo scrive vendemmiese
nell’anno Vili (1799) e vendemmiatore l’anno successivo {Epistolario, I,
p. 73 e p. 87). Nell’accettare il sistema metrico decimale si oscilla fra
gromma e grammo, ara e aro. Gendarme sta accanto a giandarme (così
scrive, per es., il D’Azeglio). Accanto a trovatore, forma già adoperata,
da secoli, c’è chi preferisce trobadore (Romagnosi). Scoppiano le grandi
epidemie di cholera morbus (dal 1832 in poi), e il nome colera, che prima
nel linguag gio dei medici era sdrucciolo e significava «colica biliosa»,
ora è pronunziato còlerà ora colèra, ora è maschile ora femminile 144 .
Vengono introdotti i sigari e c’è chi dice sigaro, chi cìgaro, chi zìgaro, né
manca chi preferisce sigarro. Accanto a giaguaro si ha giagaro
(Tramater) e sciaguaro (Leopardi). Chi scrive fetìccio, chi fetisce, mentre
il Gioberti preferisce fetisso. E si potrebbe continuare senza difficoltà
l’elenco.
17. Voci popolari moderne
Più che nei secoli passati la lingua letteraria (fatta eccezione per
quella poetica nei «generi» più illustri) è incline, specialmente dopo la
diffusione delle idee romantiche, ad accogliere voci di conio popolare,
attinte alla lingua parlata.
Per i Toscani la cosa avviene in modo spontaneo, spesso senza che
se ne rendano conto: ce ne accorgiamo specialmente quando ricorrono
a vocaboli di area un po’ ristretta. Il mugellano Pananti scrive non solo
scagnozzo, ma mascagnotta «ragazza furbacchiona», far la stummia
«darsi importanza», ecc.
Il Giusti, che aveva attento l’orecchio alla parlata popolare e
godeva di incastonarne parole e modi di dire nei suoi scritti in prosa e
in poesia, adopera, per es., altogatto «pioppo», balenare nel senso di
i4« Migliorini, Saggi linguistici, p. 79. Cfr. anche in un sonetto del Belli (4
agosto 1835): «Bbasta, o sse chiami còllera o eco libra...», e la discussione nella
Strenna per il 1885 del Vefatti, s. v. cholera.
«vacillare», chiòvina «fogna», gorga (femmina gorga «astuta»), meggio-
na «donna grassa», rave «dirupo», scianto «spasso», storgere («torcere il
muso»), trullaggine «scioccaggine», ecc., e locuzioni come trovarsi di
balla («d’accordo»), montare i fùteri («la collera»), aver più debiti della
lepre, ecc. 145 , qualche volta affettatamente accumulandole: «scegliere
una città così piccola ILuccal per una adunanza tanto solenne (il
congresso dei dottil è un voler mettere l'asino a cavallo-, pure quei
Lucchesi si arrabattarono tanto da levarne le gambe meglio che non si
sarebbe immaginato». Il duca «se la batté a Dresda... perché bollendogli
a mala pena la pentola per sé e per i suoi sentiva di non poterne uscire
con onore» Getterà 12 ottobre 1843, I, p. 535 Martini); «da un’ora
all’altra potevano accaparrarsi altri e fare la barba di stoppa a
Francesco Domenico, il quale era sull'undici once o di doventar
dittatore o di tornare al pane di ghianda » ( Cronaca dei fatti di Tose., p.
187 Pancrazi) 146 .
Il Guadagnoli, aretino, adopera fitta nel senso di «gran quantità » 147
gazzerare per «ingannare», ecc.
Il Guerrazzi usa alcune voci e locuzioni livornesi: brameggio «esca»,
caso morto e caso vivo «disgrazia grave, disgràzia lieve», diligine
«smilzo», mattarullo «scimunito», novitoso, sbrizzarsi «sparpagliarsi»,
mettere a picca «incitare», a vanvara, ecc. 148 .
Mentre i Toscani non fanno che attingere al loro idioma spontaneo,
molti non Toscani cercano d’informarsi come possono-, e accade non di
rado che ricorrendo ai vocabolari s’illudono di adoprare vocaboli della
lingua parlata, mentre si tratta di voci ormai cadute fuor d’uso.
Nella sua ragionata adozione del fiorentino colto come norma
dell’italiano scritto, il Manzoni si valse metodicamente, per correggere
il testo del 1825-27, dei suggerimenti del Cioni, del Niccolini, del Borghi
e poi dell’Emilia Luti: è così che sostituisce chicche a dolci, filastrocca a
lunga enumerazione, impiparsene a ridersene, pezzo d’asino a matto
minchione, pigionale a inquilino, ecc. Non sempre, come si sa, egli
seppe evitare le esagerazioni 149 e i malintesi, come l’improprio tafferia
145 Qualche volta il Giusti ha degli scrupoli: dopo aver adoperato nel
Gingillino «oggi s’insacca - la carne a macca » chiese al Francioni, accademico
della Crusca, se la locuzione fosse documentata-, si difese (Epist., II, p. 484 Martini)
per aver adoperato le espressioni sfilinguellare e giubba sversata-, ecc.
148 II glossario con la «Spiegazione di alcune voci e locuzioni tratte dalla
lingua parlata» che accompagna l’ed. Le Monnier (1852) dei Versi editi e inediti e
l’analogo glossarietto unito ai Consigli, giudizi, massime, pensieri tratti dalle opere
di G. Giusti contengono molte centinaia di vocaboli tratti dai versi e dalle prose di
lui: ma la grande maggioranza di essi erano già stati adoperati da scrittori.
147 La parola è usata anche dal Giusti, e registrata (senza esempi) dal
Manuzzi.
148 Beccarli, in Lingua nostra, IV, 1942, pp. 58-60.
149 Come quando l’oste della Luna Piena riferendosi a Renzo lo chiama quel
bel cecino. Sulle sue orme il Grossi (Marco Visconti, c. XXV) mise in bócca al
Tremacoldo queste parole: «tu hai un cavallo più grosso, cecino mio bello e
galante».
584 Storia della lingua italiana
nel cap. VI 150 o accozzare il pentolino in luogo di accozzare i pentolini
«mettere i cibi in comune» nel cap. XXIX 151 . Egli continuò poi sempre a
cogliere ogni occasione per imparare espressioni di lingua viva e
comunicarle agli amici della sua cerchia 152 .
Vediamo così che, in parte nella scia del Manzoni, scrittori non
toscani, il Grossi, il Cantò, il Tommaseo 153 , il D’ Azeglio e tanti altri
attingono (in vario modo e misura e con risultati diversi) parole e
locuzioni dal toscano parlato.
Accade, in definitiva, che parecchi vocaboli prima ignoti o rarissimi,
penetrino nell’uso comune: tanto per citare qualche esempio, bécero,
canèa, figuro 15 *, sbraitare 135 ; il Gelmetti 155 attribuisce al Giusti la divulga-
zione di birba, musoneria, vattelappesca, ciurlare nel manico, grattarsi
la pera, sbarcare il lunario, ecc.-, il Nieri 157 gli attribuisce la fortuna di
spadroneggiare.
Ma anche voci dei dialetti o delle lingue regionali emergono
largamente in questo periodo. Anzitutto nell’uso pratico. Affiorano, per
esempio, nell’uso amminis trativo del Regno Italico, numerose voci
lombarde che i repertori del Bemardoni e del Gherardini ci fanno
conoscere: e non sono soltanto termini d’ufficio, come finca «incolonna-
tura in carta per conti d’ufficio» 153 , o ragionateria accanto a ragioneria,
ma voci riferite a quelle infinite cose di cui l’amministrazione si occupa:
accaparrare 153 , anta, caseggiato, locale (sostitutivo), prestinaio, roccolo,
tavolo, ecc.
Qualche altro di questi idiotismi è registrato alcuni anni più tardi
(1831) dal Lissoni, per es. mantino, mentre per l’Emilia possiamo
130 Barbi, Annali manzoniani, 1, 1939, pp.. 178-180, Bianchi, ivi. III, 1942, p. 70L
151 II Barbi, La nuova filologia, p. 222, tentò di difendere l’espressione
manzoniana; ma cfr. Bianchi, Ann. manz.. Ili, p. 312. Il Giusti, nella Cronaca dei
fatti di Toscana, p. 71, ha riunire i pentoli.
152 II 27 settembre 1852 scrive «dia moglie: «ho attaccata al muro (così ho
saputo che si dice ora, e Stefano lil figliastro] lo può scrivere a Rossari) anche la
voglia di Pistoia e di Volterra» [Manzoni intimo. III, p. 28).
153 II Cattaneo protestava contro le parole che il Tommaseo avrebbe «con
tanto studio razzolate lungo i pagliai di Val d’Elsa o dentro gli ossarii della
Crusca» per inserirle in Fede e bellezza l Scritti letter., I, pp. 114-126); il Bajberti non
gli sapeva perdonare d’aver adoperato polendo nell’elogio del Rosmini, Il Viaggio
di un ignorante, Milano 1857, p. 152).
1M L’adopera il Giusti, e il Tommaseo in una lettera del 1834 al Vieusseux ne
avverte ancora il carattere regionale: «quel che in Toscana si dice figuri ».
155 Se ne ha qualche raro esempio toscano dal '500 in poi; l’Alberti lo
registrava come «voce bassa».
158 La lingua parlata di Firenze e la lingua letteraria d’Italia , II, 1864, pp. 308-
309.
ls7 Pref. al Vocabolario lucchese, § 55.
153 Dev’essere voce penetrata al tempo della dominazione spagnola, e che
solo ora emerge. Similmente affiora (dai dialetti meridionali) l’antico ispanismo
disguido (cfir. Lingua nostra, IX, p. 73).
130 I vocabolari registravano solo le forme toscane caparrare o incaparrare:
cfr. il Bemardoni, e il Gherardini che lo contraddice.
Il Primo Ottocento 585
conoscerli dal Molossi, per Roma dall’Azzocchi (che biasima, per es.,
biocca, dindaroloì, per Napoli dal Ruoti.
Se si diffondono gli oggetti, naturalmente si divulgano anche i loro
nomi, come è il caso dei grissini piemontesi, dello stracchino lombardo,
dei cotichini ( cotechini , coteghini ) emiliani. Il vocabolo lombardo di
brusone, nome di una malattia del riso, è ammesso anche dagli scrittori
toscani quando parlano di risaie 160 . In alcuni rari casi abbiamo notizie
sicure su passaggi da città a città o da regione a regione: per es. il
Moroni (nel Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, s. v. «Universi-
tà») ci attesta che a Roma «dal 1860 si sono introdotti legni a un
cavallo, volgarmente detti botte, ad imitazione di Napoli, dove la corte
si era ritirata sul declinar del 1848».
Dialettalismi affiorano anche nella lingua letteraria in misura
diversissima secondo gli autori, secondo il «genere» e il tono, più o
meno confidenziale, secondo gli argomenti. Essi abbondano special-
mente nei carteggi di quelli che si servivano del dialetto con i familiari
e gli amici. Il Foscolo, nelle lettere ai familiari, non si fa scrupolo di
scrivere venetamente «temo bensì che la vera (= «l’anello matrimonia-
le») non sia troppo stretta per la mamma» Qettera 26 sett. 1814). Il
Manzoni nelle lettere confidenziali adopera spesso voci dialettali
italianizzate: «mi vien voglia di giavanare » («perder tempo in scioc-
chezze»), lettera del 1822, « pivelli rispettosi, ma feroci», lettera 9 marzo
1822, «vite uccellino» («vite selvatica»), lettera 9 nov. 1830, «appena
sarà arrivata un’altra gubbia » («attacco di tre cavalli o muli»), lettera
14 sett. 1852; talvolta, specialmente con l’amico Grossi, ricorre a
espressioni dialettali: «tu ci hai brusàa el pajon », lettera del 1825. O, per
citar solo un altro esempio, leggiamo nel carteggio di Michele Amari:
«certe volte sferru a scrivere e non la finisco più» Qettera 29 nov. 1848).
Nelle opere letterarie d’impegno bisogna distinguere fra i dialettali-
smi sfuggiti agli autori in quanto non si rendevano conto che erano tali,
e viceversa le voci consciamente adoperate per raggiungere scopi
documentari (il color locale o il colore storico di narrazioni ambientate
in certi luoghi e certi tempi) o fini stilistici. Valgano alcuni casi fra i
molti che si potrebbero citare.
Il Leopardi, che aveva scritto pesciarello nella prima edizione del
Dialogo della moda, nell’edizione del ’35 preferì pesciolino.
I Promessi Sposi del ’25-’27 sono pieni di lombardismi, in buona parte
involontari 161 , e malgrado la rigorosa intenzione dell’autore di eliminar-
li del tutto, alcuni ne rimasero nell’edizione del ’40 162 .
II Romagnosi dice che «la violenta sovversione eseguita da Siila,
lungi dal dover affrettare la caduta della repubblica ne avrebbe anzi
rinvigorite le suste » (cioè «le molle, i meccanismi») {Dell’indole e dei
fattori dell’incivilimento, 1829, p. 149 Sestan).
100 Canevazzi e Marconi, Vocabolario di agricoltura, s. v.
131 Molto se ne è scritto: basti vedere D’Ovidio, Correzioni, pp. 34-46
1(0 Bianchi, Annali manz., III, p. 299.
580
Storia della lingua italiana
Nelle Confessioni di un Italiano del Nievo i venetismi (involontari e
volontari) pullulano: bagiggi «arachidi», coppa «nuca», guantiera «vas-
soio» resta «lisca», secchiaio «acquaio», sfregolare «stropicciare», ecc.
Gli stessi o altri venetismi troviamo anche nelle opere minori Ul Vanno ,
ecc ) ^
Numerosi dialettalismi appaiono poi, con valore tecnico, in opere
documentarie, come descrizioni geografìco-etnografiche e simili: il
Cattaneo, nelle Notizie naturali e civili su la, Lombardia, 1844, parla
dell’uso di coltivare «a ronchi le pendici dei monti», il p. Bresciani,
trattando Dei Costumi dell’isola di Sardegna, 1850, descrive per es.
«una lor danza a suono della lionedda », ecc.
Rarissimi sono invece i dialettalismi nella lingua poetica; qualcuno,
se mai ne appare in poesie di tono familiare. Il Monti, nella traduzione
di Persio parla della «raschiatura - del rigustato salaria » servendosi di
una voce ferrarese (e veneta). E il Pananti in un componimento di tono
andante come il Poeta di teatro, parla «De’ buoni maccheroni col
sughillo » (c. XXXVII), termine di color locale (pseudonapoletano), il
Mamiani adopera roccolo «specie di paretaio» nell’idillio Rispetti dun
Trasteverino, e lo difende nella prefazione come voce delle Marche e del
Lazio (era anche, come s’è visto a p. 584, settentrionale).
Abbiamo detto già (p. 543) quanto spiacesse ai critici lo sferlato del
Prati.
18 . Voci letterarie ed, arcaiche
Nella lingua poetica regna sempre il lessico tradizionale, in cui
sussistono moltissime voci ormai morte nella lingua parlata e nella
prosa corrente, e si continua a ricorrere ai latinismi (dei quali
discorreremo fra poco). Come esempio di versi studiatamente ncchi di
arcaismi trecenteschi può valere l’Appressamento della morte del
Leopardi tatare «aiutare», roggio «rosso», ecc ). .
Abbiamo già accennato (§ 7) come la tradizione sia cosi forte da
imporsi non solo ai classicisti, ma anche ai romantici, malgrado ì loro
sforzi per un rinnovamento in senso realistico.
Ma an che nella prosa abbiamo potenti filoni di conservazione e, in
alcuni scrittori, di arcaismo. Anzitutto sussistono centinaia di vocaboli
tradizionali che poi spariranno, adoperati non solo dagli scrittori
classicisti ma anche non di rado da quelli romantici: per es. esumazio-
ne, eziandio, guiderdone, laudare, nomare, otb)blivione, permissione, e
Il ritorno dei classicisti e dei puristi agli scrittori antichi fa sì che in
essi troviamo anche molti altri termini volutamente esumati: leggiamo
nel Cesari auspizio, capitanio, carminare «esaminare rigorosamente»,
orrevole, poffare, sempremai, soprano e sottano 163 , sozio, tornagusto,
In una versione dal latino, il Cesari aveva scritto «tutte le genti alpigiane,
163
Il Primo Ottocento
587
ecc.oltre a numerose frasi come andare in cappa, ecc.; eppure il Cesari
professò di voler evitare arcaismi come diffalta, dottanza, ecc., e alle
ripetute accuse d’aver scritto carogna per «corpo morto» 164 , sfidò gli
avversari a citare il luogo.
Il Botta scriveva convento «adunanza», girandola «raggiro», mae-
strato «magistrato», masserizia «risparmio», rivilicare «frugare», sospi-
ntone «sospetto», ecc.
Particolarmente notevole è l’uso che fa delle parole antiche il
Leopardi: egli ne usa largamente nella sua prosa 165 , ma cerca di
distinguere le parole ancor rawivabili dai veri arcaismi:
Odio gli arcaismi, e quelle parole, ancorché chiarissime, ancorché espressivis-
sime, bellissime, utilissime, riescono sempre affettate, ricercate, stentate, massi-
me nella prosa. Ma i nostri scrittori antichi, ed antichissimi, abbondano di parole
e modi oggi disusati, che oltre all’essere di significato apertissimo a chicchessia,
cadono così naturalmente, mollemente, facilmente nel discorso, sono cosi lontani
da ogni senso di affettazione o di studio ad usarli, ed insomma così freschi (e al
tempo stesso bellissimi ec.) che il lettore il quale non sa da che parte vengano,
non si può accorgere che sieno antichi, ma deve stimarli modernissimi e di zecca;
parole e modi dove l’antichità si può conoscere, ma per nessun conto sentire... E
sebbene dimessi, e ciò da lunghissimo, o nello scrivere, o nel parlare, o in
ambedue, non paiono dimenticati, ma come riposti in disparte, e custoditi, per poi
ripigliarli 186 .
Il Gioberti arcaizza ecletticamente: animastico, bugiare, celabro,
chieresia, miluogo, norie, saporetto «leccornia», soprano, sozzopra, tribo,
ecc.; spesso adopera in barbagrazia «verbigrazia, per esempio» (attinto
ai poeti burleschi).
— Un genere in cui gli arcaismi abbondano è l’epigrafia: «Qui dorme -
Nunziata di Luigi Fossati - Fancellina soavissima e dolcissima» (Gior-
dani).
Abbiamo visto come anche negli scrittori romantici si trovino
numerosi vocaboli rari, disusati, arcaici (fra i quali non sono tuttavia
da includere i vocaboli storici, riferiti a istituzioni e costumanze dei
secoli trascorsi). La presenza di tante di queste parole non dipende da
intenzioni arcaicheggianti, ma dal modo libresco di apprendere la
lingua. Così troviamo cocchio, compungimento, doppiere, forese, garzon-
cello, rangolo, sanie nei Promessi Sposi del ’25-’27; aere, egro, esponimen-
to, garrire, martirare, nomare, trabocchello nelle Mie Prigioni del Pellico;
che dal soprano mare al sottano tenevano», e se ne lodava così col Manuzzi
Getterà del 12 marzo 1828 ): «Torcerassi per avventura il naso da alcuno al sottano
e soprano-, ma noi muterei, se sperassi di piacere a Semiramide stessa».
164 «Al Cristo morto potè dir carogna », secondo l’accusa del Villardi ( Varie
operette, Padova 1832).
165 V., per le Operette morali, F. Colagrosso, Le dottrine stilistiche del Leopardi
e la sua prosa, cit., pp. 100-114, F. Moroncini, Discorso proemiale all’edizione delle
Operette, pp. xux-l; E. Bigi, Dal Petrarca al Leopardi, cit., pp. 118-121.
166 Zibaldone, 28 maggio 1821, 1098, I, p. 738 Flora.
588
Storia della lingua italiana
satollo forbottare, gavazza, lampaneggio «veglia all aperto», tomiello
«torneò» nella Margherita Posteria del Cantù; farsi trinanti nell Aman,
eCC Il Capponi, accortosi d’essersi lasciato sfuggire un testé, lo conside-
ra «come un vaso etrusco nel fondo d’un ipogeo »‘f. . ,.
Anche nel linguaggio di solito andante di memorialisti e di giornali
sti appaiono non di rado forme molto letterarie o arcaiche: per es.
nell’opera del Farini Lo stato romano dall’anno 1814 ai nostri giorni,
Torino 1850-53, leggiamo chieresia, le peccata, satellizio, scelleranza
sitire ecc • il De Laugier, che di solito usa una lingua scorrevole e
spesso sciatta, scrive a notte avanzata riedo in mia casa, pria di
rispondere il Prence comanda e simili. .
P Tutt’altra cosa è l’uso scherzoso o ironico di arcaismii come
1 ’unquanco deUa conclusione della Lettera semisena di Grusostomo: E
tu, allorché uscirai di collegio, preparati a dichiararti nemico do gru
novità, o il mio viso non lo vedrai sereno unquanco. Unquoneo. dico e
questo solo avverbio ti faccia fede che il Vocabolario della Crusca io lo
rispetto...»- o come in ima lettera del Manzoni al Grossi del 1822: «il
cocchio e l’auriga sono ai tuoi comandi» ( Carteggio , II, P- 42). Una_satira
degh arcatemi^ scrive J. Landoni sotto il nome di Maestro Ircone,
fingendosi purista:
non v’ha uno membro della nostra Setta, che non conosca la difficultate smnma
dello avere allo impronto comente uno arzenà di vocaboli li pm straiu ed ignoti di
frasi ed Sitìfrarile più viete ed obsolete, di bellissimi modi li più abstrusi e
mutati delli quali novissimi e leggiadrissimi abbellimenti nnfarciata e repleta la
orazione d’inespUcabile dolzore tutto lo leggente monda .
Più tardi la «diceria» di G. T. Gargani Di Braccio Bracci e degli altri
noeti nostri odiernissimi, la Giunta alla derrata degli «Amici Pedanti» e
la Risposta ai giornalisti fiorentini del Gargai (Firenze 1856) ostenta-
no frequenti arcaismi, conforme alla professione di «pedanti» fatta
dag È assaTdifficile dire quante e quali voci siano stat<^esta^atenel
nrimo Ottocento- possiamo averne in qualche modo un idea nel vedere
che n nen^lenco°d?\mcaboli e locuzioni che il Borsieri- biasima nel
Botta come inutilmente esumati (mai sì, mai no, all alenante «a.
proporzione», popoleschi, dar la spogliazza «predare» confortarsi .cogli
abietti «con baie», ecc.) ve n’è anche alcuni che oggi adoperiamo senza
scrupolo come aver alle costole e rinfocolare.
E il De Sanctis, nell’articolo su «L’ultimo dei puristi» (nst. nei Sagg
Z g" SstroT^r°B2^o n D^£pufrm ^rejo,uio ^na prisca
ito p Borsieri. Avventure letterarie di un giorno, Milano 1816, p. 42.
Il Primo Ottocento
589
critici), elenca tra i modi cari ài marchese Puoti anche andar per la
maggiore e tener per fermo, che oggi non ci stupirebbero.
19. Latinismi
È ovvio che si debbano comprendere sotto il nome di latinismi non
soltanto i vocaboli attinti per la prima volta al latino durante questo
periodo, ma anche quelli che erano tuttora sentiti come appartenenti
piuttosto al lessico latino che all’italiano, benché fossero stati qualche
volta adoperati nei secoli passati (per certo rispetto, possiamo dunque
considerarli come vocaboli di uso letterario raro, come quelli che
abbiamo esaminati nel paragrafo precedente). Così clade e procombere,
adoperati dal Leopardi, già si leggevano nell’ Ariosto e nel Baretti;
munuscolo e trutina sono nel Monti, ma già prima Lorenzo de’ Medici
aveva usato munuscolo, è Biringuccio e Galileo trutina-, precingere del
Foscolo era già nel Cavalca, e così via. Chiedersi se gli autori
ottocentisti abbiano attinto agli autori latini o agli italiani antichi può
avere un interesse stilistico per i passi singoli; ma quel che più importa
è che il lessico latino è considerato come complementare a quello
italiano. A proposito delTmcom.be della prima stanza della canzone Ad
Angelo Mai, il Leopardi osservava {Annotazioni filai., canzone III):
Queste ed altre molte parole, e molte significazioni di parole, e molte forme di
favellare adoperate in queste Canzoni, furono tratte non dal Vocabolario della
Crusca, ma da quell’altro Vocabolario dal quale tutti gli scrittori classici italiani,
prosatori o poeti (per non uscir dell’autorità), dal padre Dante fino agli stessi
compilatori del Vocabolario della Crusca, incessantemente e liberamente deriva-
rono tutto quello che parve loro convenevole, e che fece ai loro bisogni o comodi;
non curandosi che quanto essi pigliavano prudentemente dal latino fosse o non
fosse stato usato da’ più vecchi di loro 171 .
Abbonda di latinismi la poesia dei classicisti. Eccone qualcuno fra i
moltissimi che si leggono- nel Monti: acervato, annuire, cassitèro «sta-
gno», cicada, cipèro «pianta del papiro», comburere, crine, èpate «fega-
to», larario 172 ,- nitente, oberato, transire 173 , versuto, ecc.
171 E, per citare un solo altro esempio, si ricordi quel che il p. Mauro Ricci
opponeva a chi biasimava annuire -. «Dicono che l’ha usato il Monti nell ’ Iliade.
Altro che il Monti! l’hanno usato tutti i nostri padri latini; e secondo il mio misero
giudizio, la fonte latina è buona fonte» {L’allegra filologia di Frate Possidonio da
Peretola, Firenze 1861, p. 303).
172 È evidente che il Monti avrà attinto questa parola non direttamente a
Lampridio, ma agli archeologi del proprio tempo.
173 Veramente, la forma transe che il Monti adopera nella Mascheroniana di,
v. 163), «Pietà gridammo, ma pietà non transe - al cor de’ cinque», è un
adattamento diretto, eccezionale, del perfetto latino transiit, a cui la somiglianza
d’altri perfetti forti da parola è in rima con franse, pianse) mantiene il valore di
perfetto.
590
591
Storia della lingua italiana
Ma anche nei poeti romantici i latinismi non mancano: callido
(Poerio), cincinno (Cantù), lebete (il sospeso lebete non è altro che un
«paiolo» nella novella romantica del Sestini Pia de’ Tolomei), pregnante
(«una pregnante annosa», Manzoni), rabula (Pananti, Giusto, sonito
(ManzonO, uliginoso (Grossi, Prati) e innumerevoli altri, in contesti
stilisticamente ora felici ora no.
Tra i prosatori, i latinismi nuovi e men nuovi sono più frequenti
nelle opere degli scrittori che mirano a ima prosa illustre: per es. nel
Foscolo delle lezioni pavesi, nel Botta (che ha per es. eruscatore,
impellersi ). Il Leopardi ne ha non solo nelle opere più lavorate, nelle
quali abbonda specialmente il latinismo semantico ( ferocia «superbia»,
imbecillità «debolezza», sentenza «opinione», ecc.), ma anche non di
rado nello Zibaldone (illecebre, obruto, oppidano, tentarne ). Nello stile
epigrafico essi spesseggiano: innubo, sospite, vivituro-, il Muzzi usò
persino i comparativi celebriore e salubriore. -
Nel Gioberti i latinismi e i grecismi addirittura pullulano: circumi-
nessione, perennare, pistrino, satellizio, succedituro, ecc.; acroamatico,
antagonia, cosmopolitia, steresi, zoolatrico, ecc.
Spinte logiche e spinte affettive inducono singoli autori ad accoglie-
re singoli latinismi o grecismi. Quando il Maroncelli nelle Addizioni
alle Mie prigioni parla del «conte Bolza ed assedi suoi», vuol esprimere
un ironico disprezzo. Quando il Leopardi scrive nello Zibaldone «io
amo la |i.ovo9ay(a » (7 aprile 1827) per dire «mi piace di mangiar solo»,
gode nel richiamare eruditamente alla propria memoria Giuseppe
Flavio che ha adoperato la parola in questo senso - o i lessici che lo
citano.
Eaun accumularsi e intrecciarsi di tali spinte si dovrà rassestarsi
nel lessico generale di latinismi di significato generale, come blaterare
o commerciale o monumentale o silenzioso (ma questi tre ultimi
potrebbero anche essere gallolatinismi, giacché appaiono in francese
prima che in italiano).
Una vera inondazione di latinismi si ha nel campo della vita
pubblica: nel diritto, nella politica, nell’amministrazione. Si pensi ad
esempio a cassazione, collaudare, coscritto, deportare, dilapidare, eccepi-
re, effrazione, evadere, lasso (di tempo), plebiscito, redigere, refurtiva,
ripristinare, sowentore,tramite, utente, velite, vigile (sost.), ecc. 174 : anche
qui si tratta in piccola parte di vocaboli attinti direttamente al lessico
latino, nella maggior parte di franco-latinismi o di anglo-latinismi. I
prefetti furono istituiti nel 1802, riprendendo il nome antico col nuovo
significato francese; la cassazione è un istituto napoleonico; i veliti sono
battaglioni aggiunti da Napoleone alla fanteria della sua guardia (e
veliti troviamo in Piemonte anche dopo la Restaurazione). Il nome di
,7 « Non pochi tuttavia sono comparsi e poi sono morti: egreferenza, enisso
C enixus ), innutto Unnuptus ), ecc. Così non attecchì Ves torre (da extorris «esule dalla
propria terra») esumato dal Cattaneo («ima delle tribù eslegi ed estorri sembra
quella dei Zingari»: «Dell’India antica e moderna»).
% S II Primo Ottocento
centurioni fu dato a una milizia volontaria pontificia, istituita dal card.
Bemetti; vigili furono chiamati a Roma i «pompieri» nel 1847; un
battaglione dei reduci fu istituito a Roma nel 1848 sotto Pio IX, mentre
poi la Repubblica FLomana rinnovò il nome di triumviri.
La terminologia politica e parlamentare (.iniziativa, preventivo,
consuntivo, commissione, mozione, ecc., conservatore, liberale, radicale,
ecc.) consta quasi tutta di vocaboli latini (o di derivati-, costituzionale,
assolutismo, comuniSmo, socialismo, cesarismo, ecc.) a cui sono stati
dati i significati moderni in Inghilterra o in Francia.
Il modo più frequente di designare un’invenzione, un’istituzione
nuova o rinnovata è quella di darle un nome latino o greco, attinto
all’antichità o coniato nuovamente: abbiamo già ricordato i fiammife-
ri 175 , e altri vocaboli classicheggianti. Le ambulanze (nel senso di
«ospedale ambulante») erano apparse al séguito degli eserciti napoleo-
nici; si fondarono brefotrofi, orfanotrofi, manicomi (quello di Aversa si
chiamò per un certo tempo morotrofioì, ecc.; per il gioco del pallone si
eressero degli sferisteri.
Abbiamo accennato (p. 577) al notevole ampliamento del lessico di
varie scienze, parecchie delle quali stanno assumendo proprio in questi
decenni la fisionomia che poi serberanno. In alcune di esse (per es. le
scienze mediche) la maggior parte dei termini sono attinti al latino o al
greco 176 o foggiati secondo quei modelli, e valgono con piccole variazio-
ni ortografiche per tutte le lingue. Si tratta di migliaia di vocaboli, molti
dei quali sono arrivati a penetrare non solo nella media cultura, ma
addirittura nell’uso quotidiano. Per es. morfologia è stato coniato da
Goethe (nel senso di «scienza di tutte le forme organiche») e man mano
si è divulgato in tutte le lingue occidentali, con varie specificazioni di
significato.
Naturalmente quello che più conta è il nuovo concetto che si vuol
esprimere: quindi non di rado il significato che si dà alla parola greca o
latina non è uguale a quello originario. Il tifo descritto dai clinici
ottocenteschi è ben diverso dal rGtpo? di Ippocrate. Gli scienziati che per
primi parlarono di animali e vegetali parassiti tecnificarono un signifi-
cato nuovo, assai diverso da quello antico. Auscultare prende un
significato speciale in quanto esumato dai medici con valore tecnico, di
contro al comune ascoltare. Il p. Barsanti, facendo brevettare (1854) il
motore a scoppio, dà alla parola un significato specifico.
Talvolta i termini antichi sono adoperati con disinvolto arbitrio:
173 II termine appare come sostantivo, nel nuovo significato, nel 1832-, come
aggettivo l’aveva già attinto al latino il Boccaccio, e più recentemente se n'era
servito il Di Breme, che nel Conciliatore (I, p. 186 Branca) aveva parlato del «san-
benito non fiammifero».
176 II Cattaneo (nell’articolo «Di nuove voci greche», ristampato in Scritti
letterari, I, pp. 250-257) protestava contro l’abuso del greco, gli stiracchiamenti di
significato in confronto con le voci antiche, le difficoltà dell’adattamento fonetico
all’italiano.
592
Storia della lingua italiana
Cav Lussac (1812) trae dal greco tóSrj? «di color violetto» il francese
Sg nerlTcolor violetto dei suoi vapori; e i chimici italiam accettano
lodo o iodio. Né fa meraviglia di vedere talvolta manomesse lentia
in paraffina è molto arbitrario il modo di composizione di
affinis • hi miocene l’unione di (xetwv «mrnore» e xaivó? «nuovo» è quanto
SdfiSIS! Telegramma, se fosse fatto secondo le buone regole,
^Mentre Y&dozione o la formazione secondo schemi greci o latmi di
nuovi termini a opera di un letterato per lo piu rimane limitata al suo
uso individuale, l’accettazione nel linguaggio
o nella terminologia di una scienza o nella vita pratica 8“ assicura
facilmente un uso stabile. Moschicida era stato invano tentato nel 600
dal LaM • h5£e?e Attecchisce col divulgarsi della carta moschicida.
Quando il Gioberti tentò l’uso di tellurico («1 infermità tellurica l- dei
terrestri degli uomini! non è incurabile»: Primato, Brusselle 1843, II, p.
8) non trovò echi, mentre il significato scientifico della parola («che
concerne la terra e più precisamente i fenomeni che avvengono nel
interno»- movimenti tellurici, eco.) attecchì stabilmente.
Accanto a queste adozioni di latinismi e grecismi nel lessico,
bisogna tener conto dell’influenza formale esercitata su certe parole
dal modello latino: quell’adeguamento che in alcuni autori è un infhmn-
za sporadica (per es. il Monti scrive destruttore o nepote secondo il
modello latino) diventa un programma nel Gherardim, che vorrebbe
cancellare quanto più è possibile dollX^ 0 *^ 0 * daUa lmgU ’
raccostandola all’ortografia latina (cfr. p. 562 e 581).
20. Francesismi
Come si è detto, la potentissima influenza politica e culturale del
francese sull’italiano ha ancora aumentato la schiera dei francesismi,
g£ cosf nAmArosi nel Settecento. Se, nella lingua letteraria Piu eleva f
nlmni francesismi recedettero in seguito alla reazione puristica, nella
lingua più andante, parlata e scritta, essi abbondano. Cosi ad es. m uno
scritto Sfatto per proprio uso come lo Zibaldone del Leopardi ne
•77 t -adattamento in italiano di questa terminologia intemazionale non
mmmwmrn
nel 1817, scriveva memorandi).
Il Primo Ottocento
593
troviamo spesso 178 : «il piacere che noi proviamo... della raillerie » (27
luglio 1822); «il suo difetto è di piegare alla roideur » (30 giugno 1823);
«immaginazione continuamente fresca ed operante si richiede a poter
saisir i rapporti...» (17 ottobre 1823); «sarebbero bien fachés di trovarsi
soli» (6 luglio 1826); «una donna di venti, venticinque o trenta anni ha
forse più d’attraits, più d’illecebre» (30 giugno 1828); «per dare unità,
insieme, liaison scambievole...»- (30 agosto 1828) ecc. l7B .
Nei carteggi poi, ne troviamo a bizzeffe.- non solo, per es., nelle
lettere di Giulia Manzoni Beccaria, ma anche nel Berchet («or che gli
amori della patria mi hanno désenchanté così infamemente», lettera 3
agosto 1848), nel Manzoni stesso: «facendo une balte a Cassolo» Getterà
9 ottobre 1855) 180 , «mia moglie esce da una grippe» Getterà 11 gennaio
1858), nel De Sanctis: «sa di dover morire, glielo leggo in quegli occhi
égarés » Getterà 10 giugno 1858), ecc.
Un campo in cui i francesismi abbondano è quello delle cose
militari: affusto, ambulanza, appello, avamposto, buffetteria, casermag-
gio, marmitta (estesosi poi anche al di fuori dell’uso militare), pioniere
«soldato del genio zappatori», ecc.
Molti francesismi politici penetrano dapprima con riferimento alle
cose di Francia (club, comitato, giacobino, assegnato, ecc.), poi si
applicano, in numero sempre crescente, alla vita politica nostrana
( budget , consuntivo, preventivo, nomi di partito, ecc.).
Per la vita amministrativa, la penetrazione è fortissima: bureau o
burò (in Piemonte si accettò anche il derivato buralistà), borderò,
controllare ( controllo , controllore ), maire (e meria «mairie»), par afflare,
regia, timbro («bollo»), ecc. Oltre all’amministrazione della giustizia
( cassazione , giudice di pace, giurì, ecc.) bisogna tener conto nel periodo
napoleonico dell’influenza esercitata dai modelli francesi sui codici e
sulla legislazione ( vagabondaggio , ecc.).
Non va dimenticata la diffusione del nuovo sistema metrico: metro,
litro, grammo, ecc.; l’abbreviazione chilo suona talvolta chilo (ancor
oggi si pronunzia così a Livorno e a Siena), e per parecchio tempo potè
essere adoperata come invariabile.
Qualche termine entra nel lessico marinaresco: pompa (da cui poi
pompiere ) è documentato anzitutto come termine di marina; rullìo, ecc.
Nella terminologia della casa, troviamo voci indicanti stanze
( boudoir ) e mobili (cislonga, comò, psyché 1M , secrétaire, ecc.), termini di
178 Già negli appunti e ricordi del 1819: «Mie reverie sopra una giovine di
piccola condizione...» iscritti vari inediti, p. 277).
178 Così anche in una lettera dell’8 ottobre 1832: «sono proprio ahimè di
debolezza», ecc.
Indirizzata a Madame Thérèse Manzoni née Borri, Lesa (Lago Maggiore).
181 «Datosi un’ultima occhiata nella psychè lin nota: «Allo specchio impema
to»J e irrorato il pannolino di tasca con mille goccie di millefleurs o di mousseline,
Alfonsino...» (Di Breme, Condì., 29 ottobre 1818: I, p. 275 Branca). Più tardi si dirà
psiche.
594
Storia della lingua italiana
Il Primo Ottocento
595
cucina ( griglia , casseruola, ecc.; entremets, tartina, ecc.; cfr. anche
trattore, trattoria \, di giardinaggio (pepiniera, serra, ecc.).
Molti vocaboli concernono l’abbigliamento (bretelle, calosce, corsè,
paltò, percalle, ecc.); qualcuno, riferito dapprima alle vesti militari
(pom pon), passò poi all’uso comune. Anche i colori seguono la via della
moda (bistro, ecc.) 182 .
Tra i veicoli ricordiamo il faeton, il fiacre, il furgone.
Dalla vita teatrale abbiamo per es. debutto e messa in scena.
Per le belle arti, ricordiamo rococò e la conoscenza delle danze
macabre 193 . Quanto ai giochi, citiamo la moda delle sciarade.
Nella terminologia delle varie scienze, oltre agli innumerevoli
latinismi e grecismi suggeriti dalle analoghe voci francesi, si accettano
anche molti vocaboli francesi di tipo più o meno popolare: per es. in
medicina crampo, grippe, ecc., in zoologia cormorano, pinguino, ecc., in
etnologia meticcio (mentre nei secoli precedenti si preferiva mestizzo
secondo l’esempio spagnolo), ecc., in geologia morena, picco, ecc.
L’àmbito in cui meglio si misura la forte penetrazione dei francesi-
smi è quello astratto: si ricordino gli esempi citati all’inizio di questo
paragrafo da scritture confidenziali, quasi tutti riferiti a concetti
astratti; e si pensi alle non rare lagnanze di scrittori di non poter
rendere bene in italiano sfumature possedute dal francese 184 .
Mancando i vocaboli che esprimano la nozione generica (agricola,
mineraria, industriale) di exploiter, exploitation, si adoperano le parole
francesi in forma originale oppure adattata ( esploatare ), finché non si
estende sfruttare a coprire tutto l’àmbito semantico di exploiter.
In presenza di un verbo come entrevoir, che non aveva un preciso
riscontro in un vocabolo unico, ma per cui bisognava ricorrere a
perifrasi («vedere un poco, cominciare a vedere»), sorge il desiderio di
ricalcarlo. C’è chi tenta un travedere (biasimato dal Cesari, Disseti., cap.
XI) 185 , ma poi prevale intravedere (Gioberti, Capponi, Mazzini). Fin dal
Cinquecento si usava saputa : ora per tradurre à l’insu si foggia
all’insaputa. E similmente nascono e finiscono con l’imporsi, malgrado
le proteste dei puristi, vocaboli come sedicente, controsenso, frattempo.
182 Cfr. rouge «rossetto», già nella versione foscoliana del Viaggio sentimenta-
le di Sterne (cap. X).
183 Di qui l’agg. macabro che però prenderà solo più tardi, con le ultime
propaggini del romanticismo, significato generale.
184 A definire il concetto di suffisant «gli italiani mancano forse di vocabolo
adattato»: D’ Azeglio, Ettore Fieramosca, cap. XII; «Neppur essa Qa reazione! è
stata capace di farmi mai rimpiangere (benedetto regretter che non ha equivalen-
te esatto fra noi) Napoleone ed il dominio francese...»: D’Azeglio, I miei ricordi,
cap. Vili a, p. 166)-, «uno spettacolo féerique: parola che non si può adequatamele
tradurre, perché fu inventata dai Parigini per la sola Parigi»: Rajberti, Il viaggio
di un ignorante, Milano 1857, p. 80.
185 Ma l’adoperarono anche il Leopardi Qett. al Giordani, 30 aprile 18171- e
Manzoni (Prom . Sposi, princ. del cap. Ili): «Tutt’e due [Renzo e Agnesel si volsero...
lasciando travedere ...un cruccio pur diverso» (ed. 1825-1827 e ed. 1840).
i
malinteso, rendiconto, sorvegliare, ecc., e locuzioni come essere al
corrente, ecc. Molto più rari sono gli astratti in cui la parola francese è
adattata anziché ricalcata: scamotaggio, trantran e s imili
Non sì contano i vocaboli che ora si foggiano secondo il diretto
modello francese, ricollegandoli ad altri vocaboli italiani o latini
preesistenti: bonomia, contabile, floreale, responsabile, mentalità, spes-
sore, tasso (t. econ.), versante, vetrina, basare, rivoluzionare, ecc. L’esi-
stenza di un prefisso italiano de- tratto dal latino de- fa sì che trovino
più agevole strada vocaboli come debordare, in cui il prefisso francese
ha altra origine (déborder da dis). Si moltiplicano le parole in -aggio
(cordaggio, drenaggio, lavaggio, vagabondaggio, ecc.). Non solo si
accettano facilmente alcuni vocaboli che contengono il suffisso -ista
(per es. modista ); ma poiché in francese il suffisso aveva anche preso,
specialmente nel linguaggio politico, il valore di un aggettivo d’ineren-
za, un uso analogo si diffonde anche in italiano: per es. la chiesa
Sansimonista (Romagnosi, 1832), l’analisi materialista (Mazzini, 1850),
la scuola socialista (Minghetti, 1858), accanto a gli ordini comunistici
(Giusti, 1849) ecc.
In parecchi casi è dovuto all’esempio francese il passaggio ad altra
categoria grammaticale: l’uso di commerciante, industriale, domestico
come sostantivi di persona, di uniforme come sostantivo di cosa.
E frequente è il mutamento di significato conforme al modello
francese: domestico, appunto, prende il significato di «servitore»,
bruma di «nebbia»; giurato, che aveva avuto vari significati ammini-
strativi e legali, prende il significato di «membro d’un giurì»; direzione
oltre al significato di «atto, effetto del dirigere» prende quello di
«persone che dirigono»; farmacia, che voleva dire solo l’«arte di
comporre i farmaci», passa a indicare la «bottega dello speziale»; fase
passa dal significato astronomico a quello generale; tara oltre che
«peso da dedurre» viene a significare «grave difetto»; attualità prende
il significato di «cosa modernissima»; di scuole secondarie si comincia a
parlare secondo il modello francese, ecc.
Nell’esemplificazione che abbiamo data fin qui abbiamo quasi
sempre escluso quei francesismi che non hanno attecchito nell’uso: ma
chi estenda la ricerca anche a quelli che hanno fatto apparizioni
isolate od effimere ne troverà centinaia e centinaia-, per es. abbutire,
appuntamenti nel senso di «stipendio», attaccato («addetto»: attaccato
al burò. Monti, 1798), in sul campo («sur le champ, subito»), cifrone
(«Chevron»), flambò, limiere («segugio»), mortissa (« mortaise , incastro»),
revancia, rìnvegno (« revient »: prezzo di rinvegno: Cavour, 1836), sabre la-
scia, sarrò, vammastro Uvaguemestre, quartiermastro») ecc . 186
Non meno numerosi sono i francesismi che sono stati accolti,
188 Abbondano specialmente i termini militari: basta sfogliare il repertorio del
D’Ayala, Dizionario delle voci guaste o nuove e più, de' francesismi introdotti nelle
lingue militari d’Italia, Torino 1853, per trovarne a decine.
596
Storia della lingua italiana
Il Primo Ottocento
597
effimeramente o saldamente, in aree limitate: barège a Lucca e altrove,
boetta boatta, buatta, buatta (da botte) in varie zone, preposeo (da
préposéì a Lucca (anche prepose a Piacenza); retrè («gabinetto» da
retrctitì in vari© regioni, scictrabbà (da chcir-à-bcincs ) nei dialetti menalo-
nali (anche sciabarà a Pisa) ecc. 187 . , .
Nel modo di adattamento si seguono le solite due vie: nelle parole
più colte si mantiene la grafia francese, mentre dove la parola è
penetrata nell'uso popolare si tende piuttosto ad adattarla nella
scrittura. È questo il più forte motivo di oscillazione nella grafia dei
francesismi: brochure o brossura, bureau o burò, début o debutto, fiacre
o fiacchere, percale o percalle, rendez-vous o randevù (Guadagnoli), ecc.
Molti scrivono bleu, mentre altri adoperano ancora blo; i più ormai blu.
Accanto a débauché e a deboscia si ha l’adattamento popolare
fiorentino bisboccia.
Qualche volta si oscilla fra 1* adattamento e il calco: quando entra
porte-monnaie alcuni lo scrivono alla francese (Fusinato, 1847), poi
qualche dialetto l’adatta (milan. pormonè), mentre la lingua scritta lo
ricalca in portamonete; coupon viene adattato in cupone o copone,
ovvero tradotto con tagliando o cedola.
Non va dim enticato che il francese, oltre ad aver trasmesso
all’italiano in questo periodo numerosi vocaboli propri e numerosi
latinismi da esso adattati o foggiati, gli ha anche trasmesso parecchi
vocaboli d’altre lingue. Abbiamo anzitutto anglicismi (frac, rosbif,
macadam, tender ); qualche volta alterati nella forma o nel significato
dal loro passaggio attraverso il francese (Tingi, waggon «carro coper-
to» prende in Francia l’ortografia wagon e il significato ferroviario;
review viene calcato in Francia con revue, e in italiano se ne trae rivista;
honeymoon si traduce con lune de miei e poi con luna di miele, ecc.).
Per il tedesco citiamo Thalweg, termine geografico accolto dalla
diplomazia, che troviamo dapprima in un decreto di Napoleone del
1811. Colza è una parola fiamminga (kolzaad) accettata in francese. Il
nome del copricapo degli usseri (scioccò) è ungherese ( csakó ), ma ci
giunge per tramite napoleonico. E gran parte delle parole orientali
penetrate in questo periodo nel nostro lessico sono arrivale passando
attraverso viaggiatori, geografi, compilatori francesi: gli scrittori di
cose orientali, dal Quattrocento al Seicento, conoscevano il bazarro o
bazzarro per indicare «mercato» (Persia, India): nel secondo decennio
dell’Ottocento rientra in Italia bazar con l’ortografia francese e nel
senso moderno europeo di «emporio» (E. Visconti, Conciliatore, 1819).
Di massaggio (anzi, dapprima, massagio) si parla le prime volte con
riferimento a usi orientali e già col suffisso francese.
21. Altri forestierismi
Meno numerosi dei francesismi, eppure piuttosto copiosi, sono gli
anglicismi: qualche volta diretti, più spesso, come s’è visto, passati
attraverso il francese. Mentre quelli di aspetto anglico Fintano ad
acclimatarsi, l’accettazione è molto più facile per gli ang. latinismi.
I più abbondanti sono quelli politici. Già un certo numero si era
imparato a conoscerne nel Settecentp, con riferimento alla vita inglese
( costituzione , comitato, commissione, maggioranza, opposizione, petizio-
ne ); ora essi e molti altri penetrano anche in Italia a varie riprese
(spesso, come s’è detto, dopo essere penetrati nel lessico politico di
Francia).
Nella costituzione siciliana del 1812, concessa sotto le pressioni
inglesi e redatta su modelli inglesi, si parla di bill. Abbiamo poi budget,
leader, meeting, self govemment, speech, conservatore, radicale, assentei-
smo, ecc. Anche premio (d’assicurazione) è modellato sull’inglese
premium.
Cavalli, carrozze, corse ippiche si modellano sul gusto inglese:
abbiamo poney (con grafia francese, in luogo di pony), brougham,
tilbury, steeple chase, jockey, turf, ecc. Così anche bulldog, ecc.
In gran parte dall’Inghilterra ci giunge la terminologia ferroviaria:
rail im , vagone (cfr. p. 596), tender, tunnel, locomotiva, viadotto; railway o
railroad fu sùbito sostituito da strada ferrata, via ferrata, più tardi da
ferrovia; tramway durò a lungo.
Osteriggio «riparo a vetri» è un adattamento marinaresco di
steerage.
Parecchi ter min i si riferiscono all’abbigliamento: lo scialle o sciatto
(«Ma cosa è quello shall che gira e vola?»: Pananti, Poeta di teatro, c.
99), lo spencer, il raglan (diffusosi con la guerra di Crimea), ecc.
Attenzione e per lo più ammirazione per le cose di moda sono palesate
dall’accoglimento di dandy e lion, fashion e fashionable, high life.
Comfort (o anche alla francese confort o italianizzato conforto ) si
riferisce agli agi e alle comodità della vita («quella comodità che
gl’inglesi con sì bel vocabolo dicono comforts, e dond’è venuto che essi
chiamano confortevole tutto ciò che nelle suppellettili vi ha di compito
per l’uso e di gradevole nello stesso tempo per l’occhio»: Pellico,
Conciliatore, 2 maggio 1819: II, p. 532 Branca).
Per cibi e bevande, ricordiamo roastbeef (rosbif, rosbiffe ) e punch
(ponce).
Passa anche in Italia, dopo che in Francia, la pratica del drenaggio.
Humour e spleen sono riconosciute come qualità caratteristiche
degli Inglesi. E numerosi sono i termini che appaiono in Italia riferiti
ai «Anche adesso - attesta il Cantù, Sull’origine della lingua italiana. Napoli
1865 p 182 — ma più pochi anni fa, i Piemontesi mescolavano moltissime parole
prettamente francesi al loro dialetto; e diceano cependant. jamais, ce maUn,
désormais, en attendant, vite, c’est-à-dire. à mon tour, au pus alter, voilà, cest (a,
ecc. L’aristocrazia non avrebbe mai detto altrimenti».
188 La parola durò a lungo, sia nella pratica (adattata in raile, plur. ratti), sia
nella legislazione (è per es. nel Codice penale sardo del 1859): fu sostituita poi da
guida, verga, rotaia, finché quest’ultima prevalse.
598
Storia della lingua italiana
dapprima a cose inglesi; e alcuni fra essi più tardi si divulgheranno (per
es. plaid, che appare dapprima in traduzioni da W. Scott; docfe, ecc.) 188 .
Meno numerosi sono i germaniSmi, malgrado la forte influenza
politica austriaca: qualche termine militare (feld-maresciallo ), qualche
nome di moneta isvànzica) lM qualche voce di moda ( walzer , variamente
storpiato: v. p. 582).
La tensione contro gli Austriaci occupanti fece nascere alcune voci
di scherno: caiserlicchi «Austriaci*, radeschi «pedata» (ima volta il
maresciallo Radetzky aveva dato un calcio al figlio, il quale aveva
insultato un prete milanese) 181 .
Non mancano le voci di stampo greco o latino foggiate nei paesi
tedeschi: per es. morfologia (v. p. 591), stilistica™.
Nella lingua astratta si hanno alcuni calchi: il divenire, il non-essere,
il non-io-, il meismo del Rosmini ricalca Ichheit™.
Qualche volta, il tedesco è servito di tramite per voci di altre lingue
dell’Europa orientale: per es. tose, pechèsce, peghèsce «soprabito con
lunghe falde», dal ted. Pekesche (dal polacco bekiesza «mantello di
pelliccia»).
Anche dalle lingue scandinave giunge, per lo più indirettamente,
qualche vocabolo: scaldo, Valhalla, geyser.
Dallo spagnolo ricordiamo qualche voce concernente la politica
(< camarilla -, si ricordi anche liberale, p. 572-573) e la tauromachia
( corrida , torero, matador ).
22. Italianismi in altre lingue
L’influenza italiana in questo periodo è relativamente scarsa Un
gruppo notevole di italianismi si ha in Francia in un campo, quello
della musica operistica, in cui la genialità italiana si manifesta
specialmente con Rossini. Abbiamo così una serie di termini, per
parecchi dei quali il mediatore fu Stendhal: maestro (Stendhal 1824; in
inglese già nel 1797), libretto (frane. 1827; ingl. già 1742; ted. 1837),
impresario (Stendhal 1824; ted. già 1771); diva (Gautier 1832; ted. 1867;
sved. 1850); brio (Stendhal 1824; ingl. 1855); fioriture (Stendhal 1824);
V. le serie di anglicismi ottocenteschi accuratamente raccolte da A. L.
Messeri, Lingua nostra, XV, 1954, pp. 47-50; XVI, 1955, pp. 5-10 e 73-74; XVIII, 1957,
pp. 100-108.
180 Si ricordi anche il veneto schei, dal nome schei demanze che si leggeva
sulle monete.
1,1 Parecchi austriacismi del dialetto milanese (non tutti ottocenteschi e non
tutti sicuri) sono citati dal Cherubini nel Supplimento del suo Vocabolario
milanese-italiano, 2“ ed., V, pp. 257-258.
«I tedeschi, per i primi a coltivarla, la chiamano stilistica » (Bonghi, Perché
la letteratura italiana non sia popolare, 1855, lett. XIV).
103 Non attecchì slancio come calco di Entwurf nel senso di «abbozzo»: G
Gautieri, Slancio sulla genealogia della terra, Jena 1805.
li Primo Ottocento
599
1841 +’ te<t * 837) 6 81411 ancora. Dilettante, che era già stato
sporadicamente usato nel Settecento, attecchisce ora saldamente in
Franma col significato di «appassionato della musica italiana» e se ne
ipim d f nvat .° diteffantisme 184 . Cfr. anche piccolo «flauto piccolo» (ted
1801 circa, ingl. 1856, fr. 1828). Qualche parola entra in Francia ner
contatto orale: flemme (1821), forse frisquet (1827), ecc. P
diffida la conosc f. nza che i viaggiatori ebbero dell’Italia si
diffonde la conoscenza di peculiarità geografiche etniche ecc • fata
morgana appare in ted. nel 1796, in ùigl nel l818 (proprio memre
LìoV fif^ V ; eCe a ? cett . a co , me termine scientifico il francesismo ™irag-
gto\ fumarola vulcanica ùngi, fumarole 1811, frane, fumerolle 1829 )
Deliaca r* 1 i la St . end hal in ima lettera da Trieste del 1830; ingl 1864)’
fescb? l 'f e l lagra 1811 ’.? anc - Pellagre 1834), ecc. I confetti clÀlva-
(S)ethe i 789 fr^f S fr mtÌ i C ° me , Una caratteristica di Roma
1 ’ “• 185 ?; ir ^ frane, la parola entrerà più tardi nell’uso
dfllin V rvf ° 11 C8 J nevale hi Nizza, 1873). La parola vendetta si diffonde
t^r^ 0 ', 1803 ’ ina* 1861). Fantasia, nel senso ditdlnZ
sfrenata di indigeni» (ingl. J831, frane. 1842), è probabilmente una voce
italiana passata attraverso la «lingua franca».
franc m i800 Z1 wi d ?8nn lt f + dÌ J Ulga Y arie a nome di P«a (pile,
11 Adesco preferisce invece il calco Sàulel
Qualche voce italiana già precedentemente penetrata nelle grandi
hit™ ora nelle lingue perfferiche Spesso ì
amite del tedesco): per es. in svedese entra soprano (sotto la forma
(XrT°feSinTTSL Ì ra Ung ? ereSe ? Pem ' Casin °’ Cupola ’ influenza, ecc.
kasz ino, kupola, influenza ), ecc. In romeno, molti italianismi
dSbero fortuna 00 ™ S1 è accennato ’ da Ion HeUade Ràdulescu, ma non
offerti à M n c^fù.? Ì nJ tante D i}fnannsme, in Mélanges de linguistique ffancaise
CAPITOLO XII
MEZZO SECOLO DI UNITÀ NAZIONALE
( 1861 - 1915 )
1. Limiti
In quest’ultimo capitolo della nostra trattazione esamineremo le
principali vicende della lingua, cominciando dalla proclamazione del
regno d’Italia (1861) e giungendo fino all’entrata dell’Italia nella prima
Guerra mondiale (1915). È ovvio che avremmo anche-potuto cominciare
dal 1870, cioè da quando l’unità nazionale fu quasi interamente
raggiunta, e Roma divenne effettiva capitale del regno.
2. Eventi politici
Il primo decennio del regno è caratterizzato da una fremente
aspirazione a ricongiungere al nuovo stato Venezia e Roma-, mète
raggiunte attraverso le note vicende nel 1866 e nel 1870. Gli anni di
Firenze capitale (1865-1870) sono una breve, ma importante tappa. Una
svolta decisiva è il trasporto della capitale a Roma, col quale si chiude
il più che millenario ciclo del potere temporale dei papi (dando luogo a
conflitti di coscienza e a scissure politiche). La creazione di strutture
civili e militari uniformi per tutto il regno, che già era Cominciata nel
1859 e più fortemente dopo il 1861, continua con sempre maggiore
intensità. L’inquadramento amministrativo, iniziato dalla onesta, an-
che se talvolta gretta burocrazia piemontese, parte ormai da Roma.
Il governo del paese è tenuto per pochi anni (fino al 1876) dalla
Destra-, poi esso passa alla Sinistra: ma talora si tratta più di un
cambiamento“di uomini che di programmi, specialmente da quando il
Depretis inaugura quella politica che fu detta del trasformismo.
Successivi allargamenti del suffragio, specialmente quelli promossi dal
Giolitti, portano a una partecipazione sempre più ampia delle classi
non abbienti alla cosa pubblica.
Continua vivissima, come nel resto di Europa, la tendenza a far
coincidere le nazionalità con gli stati: nasce così l’irredentismo. Più
tardi nascerà, con scopi espansivi, il nazionalismo.
Anche la tendenza alle imprese coloniali, che domina in Europa, e
in Italia si afferma non senza contrasti, porta alle spedizioni in
Abissinia e poi in Libia.
L’emigrazione, specialmente numerosa negli anni di maggiori diffi-
602
colta economiche, è talvolta temporanea (partecipazione al traforo del
S Gottardo, ecc.), talvolta stabile (e porta alla formazione di «piccole
Italie» specialmente negli Stati Uniti, in Argentina, in Brasde).
In peculiari condizioni politiche si trova 1 italiano nel Canton Ticino
e nelle valli italiane dei Grigioni. Forti spinte alla snazionalizzazione si
svolgono nei territori italiani soggetti all’Austria (Trentino, Trieste,
centri italiani dell'Istria e deUa Dalmazia). Nella Corsica, i dialetti
subiscono sempre più l’influenza francese, e la lingua italiana cólta e
nota ormai a pochi A Malta, essa mantiene faticosamente la posizione
di parità con l’inglese come lingua culturale.
3. Vita sociale e culturale
L’unità politica porta con sé una più intensa circolazione didee, di
cose di parole. Dal 1870 Roma (che passa dai 220 mila abitanti elei 1871
ai 542 mila del 1911) assume un’importanza sempre maggiore nella vita
nazionale-ma le altre grandi città, in particolare Milano da «capitale
morale»), Torino, Bologna, Firenze, Napoli Palermo, continuano a
influire non soltanto sulle regioni tradizionalmente ad esse legate, ma
su più ampio raggio. Le ferrovie si moltiplicano; e cosi pure le strade.
Le industrie settentrionali assumono un sempre maggior sviluppo,
mentre quelle meridionali languiscono. Entrano m vigore per tutto il
regno leggi uniformi: vengono promulgati il Codice civile nel 1 865, il
Codice penale nel 1889, e man mano tutta la legislazione elaborata dal
parlamento. L’apparato amministrativo estende la sua influenza sulla
vita quotidiana; e benché si parli molto di decentramento, va sempre
crescendo l’accentramento degli uffici nella capitale. Specialmente nei
primi tempi dell’unità, è molto forte l’influenza piemontese-, piu tardi
invece si fa sentire la predominanza numerica degli impiegati di
origine meridionale. , . ,
Anche nell’organizzazione militare, la predominanza piemontese,
fortissima agli inizi, presto si attenua; e giova a un sia pur lento
conguaglio di idee e di linguaggio il reclutamento su base nazionale.
La distanza fra le classi sociali, che era fortissima, forte rimane-,
solo lentissimamente, e attraverso conflitti non sempre bevi «
contadine e operaie cominciano a diventar conscie della loro apparte-
nenza alla compagine sociale, guidate nelle loro rivendicazioni mate-
riali e morali da un socialismo inizialmente romantico e umanitario.
Per ciò che concerne la lingua, le classi inferiori nella vita quotidiana si
servono dei dialetti, e sono ancora scarsamente pratiche della lingua
nazionale 1 .
. La separazione delle classi è talvolta anche caratterizzata da nomignoli
tratti deUa diversità del vestire o da altre peculiarità: si pensi ad es. aUa divisione
tra cannelli e berretti in Sicilia, soprannomi dati rispettivamente ai cittadini delle
cltssfpTù alte e ai popolani (M. Rosi. L’Italia odierna. I. Torino 1918, p. 429).
Mezzo secolo di unità nazionale
603
Fortissime rimangono anche le differenze sociali e culturali fra il
Settentrione e il Mezzogiorno: quelli che discutono della «questione
meridionale» si rendono conto che solo un’azione a lunghissima
scadenza varrà a rendere meno gravi queste differenze.
Notevoli, ma non ancora sufficienti, sono i progressi dell’istruzione
elementare: l’obbligo dell’istruzione di tutti i fanciulli di oltre 6 anni è
sancito dalla legge Coppino nel 1877 e affidato ai comuni; così gli
analfabeti, che nel 1861 erano il 78%, sono ridotti a meno del 50% nel
1910 2 .
L’insegnamento medio (statale e privato) è il principale agente di
trasmissione della cultura scientifica e letteraria, mentre nelle Univer-
sità e intorno ad esse si svolge gran parte della più alta attività
scientifica, filosofica, filologica. Occupa una posizione preminente tra
le accademie quella dei Lincei, nuovamente fondata nel 1875 da
Quintino Sella.
La cultura tradizionale, verso il Settanta, è tutta sconvolta: «oggi
tutto è rinnovato - esclama il De Sanctis nel 1869 -, da tutto sboccia un
nuovo mondo: filosofia, critica, arte, storia, filologia». Si affaccia
prepotente il positivismo; le scienze fìsiche e naturali reclamano e
acquistano un posto sempre maggiore nella cultura e nella vita; ne
risentono fortemente e variamente l’influenza anche le scienze morali 3 .
Le generazioni del primo Novecento reagiranno a questa tendenza con
una nuova ondata di spiritualismo e di idealismo.
La stampa quotidiana e periodica assume un’importanza sempre
maggiore. Nei quotidiani, accanto alle informazioni politiche nazionali
ed estere, trovano posto notizie varie; spesso un’appendice a piè di
pagina contiene la puntata di un romanzo; nel 1901 nasce la «terza
pagina», riservata alla letteratura e alla cultura (v. p. 641). Intermedi
tra i quotidiani e le riviste di più ampia mole (come la Nuova Antologia,
dal 1866) vengono a collocarsi i settimanali letterari.
L’amore per il teatro è sempre vivace (e gli attori che, dal 1881 in
poi, escono dalla scuola di Luigi Rasi portano per l’Italia, oltre che una
dizione espressiva, la pronunzia fiorentina colta).
Anche più larghi consensi di popolo ha l’opera lirica, specialmente
quella di Giuseppe Verdi: ed echi dei testi dei libretti continuano a
passare nel linguaggio comune.
Penetrano in Italia parecchi sport: alcuni destinati a diventare
popolarissimi, come il ciclismo (chiamato da principio velocipedismo ) o
il calcio (dapprima col nome inglese di football)-, altri limitati a cerehie
più ristrette, come l’alpinismo o V automobilismo. Il turismo, dapprima
limitato a ricchi stranieri, entra man mano anche nelle abitudini degli
Italiani.
2 R. Benini, Demografia, p. 40 (in Cinquantanni di storia italiana per cura
della R. Accademia dei Lincei, I, Milano 1911).
3 Per citar solo un esempio tipico di questa tendenza, il De Sanctis nel 1883
tiene a Roma una conferenza sul «Darwinismo neU’arte».
604
Storia della lingua italiana
Mezzo secolo di unità nazionale
605
4. Principali tendenze nel mutamento linguistico
Il conseguimento dell’unità nazionale, con l’influenza esercitata
dalla nuova capitale (per brevi anni Firenze, poi definitivamente
Roma), porta a conguagli linguistici attivi. E la nuova partecipazione
alla vita civile di ceti sempre più ampi fa si che l’uso della lingua scritta
e parlata estenda man mano il suo àmbito.
Già nel 1860-70 il purismo ha perduto ogni forza di persuasione 4 : si
pensi ai molti scrittori che dopo aver fatto il loro tirocinio alla sua
Scuola escono dalle strettoie: il De Sanctis 5 , il Carducci®, il D’Ancona,
Adolfo Bartoli, e tanti altri. Nelle sue Memorie, Gaspero Barbèra,
trattando del mercato librario nel 1863, avvertiva, a proposito dell’edi-
zione dei Marmi del Doni, che «incominciava a venir meno l’amore per
quei libri il cui pregio principale fosse la lingua» 7 . E, osservando questo
mutamento, lo storico cattolico P. Balan esortava a tenerne conto: «È
passato il tempo delle vuote ed eleganti parole non ordinate a forti
ragioni: più che i fiori di lingua abbisognano il vigore dell’argomenta-
zione e l’abbondanza delle prove» 8
I letterati, alla ricerca di ima forma bella, espressiva, la perseguono
secondo varie tendenze, ma ormai non v’è più alcuno che accetti come
modello da imitare pedissequamente gli scrittori del passato (Trecenti-
sti, Cinquecentisti). Presso i non letterati, poi, si fa largo più o meno
consapevolmente l’idea che la lingua è una norma sociale, e che si può
scrivere correttamente anche senza bisogno di ricorrere a modelli
letterari più o meno precisamente prefìssati. Praticamente, cioè, essi
non obbediscono più all’esempio dei classici tradizionali, ma conforma-
no la loro lingua ai giornali, ai manuali, alle disposizioni di legge, e
tutt’al più ai romanzi, magari tradotti.
II Tabarrini, in un discorso del 1869“, prospetta l’ampiezza degli
effetti che la nuova vita della nazione sta producendo sulla lingua 10 , e
* V., sulle polemiche contro il purismo e contro il lassismo, il § 8.
5 «Del purismo rimase una confusa ricordanza, come di tempi lontani, e
nessuno ne parlò più; nessuno spese il tempo per combattere un morto»; così il De
Sanctis neLtrentunesimo dei Saggi critici, a proposito delle Lezioni di storia del
Ranalli, «1’ultimo dei puristi», uscite nel 1869.
® Si ricordino, ad es., le sue parole contro i «nepotuncoli di Zucchero
Benci venni» che «seguitano a dibattere in così bel modo quelle loro questioni di
lingua che non finiscono mai mai mai» (1870): Opere, XXVII, p. 52.
7 Memorie di un editore, rist. Firenze 1930, p. 200.
8 P. Balan, I precursori del razionalismo moderno fino a Lutero, Parma 1868-69.
• Relazioni sui lavori della R. Acc. della Crusca (1869-70), Firenze 1870, pp. 28-29.
10 «Le mutate sorti d’Italia gioveranno senza fallo ad estendere l’uso della
lingua comune; e questo rimescolarsi d’italiani dalle Alpi all'Etna, che si
guardano in viso per la prima volta, e si stringono la mano col sentimento
d’appartenenza a una sola nazione, condurrà necessariamente a rendere sempre
più ristretto l’uso dei dialetti, che sono marche di separazione, fatte più profonde
dai secolari isolamenti. Ma da questo gran fatto, si voglia o non si voglia, la
lingua uscirà notabilmente modificata...» (p. 28).
pur rendendosi conto dei pericoli che portano con sé la «barbarie
irruente» e l’indiscriminata imitazione della lingua burocratica, ha
fiducia che
quando la nazione riprenda la sua via, sicura di sé, operante più che ciarliera,
ritroverà i suoi nobili istinti; e la sua lingua si allargherà senza corrompersi;
perché la vita d’un popolo libero, quando si svolge per virtù proprie, trova sempre
per esplicarsi nella parola forme non repugnanti al suo genio ed alle sue
tradizioni (p. 29).
Tutto permeato di fiducia nell’efficacia che Inattività operosa»
avrebbe esercitato sulla lingua è il famoso Proemio scritto dall’ Ascoli
nel 1872 per il primo volume deH’Arc/xivio glottologico italiano (1873) (v.
oltre § 8).
Nelle università cessa l’insegnamento dell’« eloquenza», sostituito
dallo studio critico della letteratura. Quanto aU’insegnamento medio,
perdurano a lungo i canoni classicheggianti; ma v’è chi invece si
attiene alle teorie manzoniane; e man mano si fanno strada letture
aderenti alla lingua viva (si pensi alle antologie del Martini e del
Pascoli) 11 ed esercitazioni più moderne.
Certo, non poteva bastare solo mezzo secolo di vita imitarla a
unificare la lingua scritta e tanto meno la lingua parlata. Ma nelle
varie regioni del Nord e del Sud, e specialmente nelle città, gruppi
sempre più vasti, accanto al loro dialetto sono ormai in grado di
adoperare, scrivendo e parlando, la lingua nazionale 12 : non proprio in
forme identiche, ma mantenendo ancora qualche peculiarità locale o
regionale nell’uso scritto e più ancora nell’uso parlato 13 .
I dialetti alla loro volta, specialmente quelli urbani, subiscono una
italianizzazione assai forte, non solo per ciò che concerne il lessico, ma
anche nella fonetica e nella morfologia.
5. La lingua parlata
Come il solito, bisogna distinguere tra la Toscana e zone contermi-
ni, dove le differenze tra la lingua spontaneamente parlata e la lingua
11 Le Prose italiane moderne del Martini (Firenze 1894) erano composte in gran
parte da pagine di moderni, in modo che i ragazzi imparassero a scrivere «con
disinvoltura paesana» fletterà di F. Martini a R. Fucini del 14 marzo 1894); larga
parte ai moderni italiani e stranieri, fa il Pascoli in Fior da fiore e in Sul limitare.
12 Anzi un certo numero di famiglie rifiutano l’uso del dialetto e allevano i
figli a parlare solo italiano: e ciò sia per la loro costituzione (matrimoni
interregionali), sia per le loro vicende (trasferimento da una regione all’altra), sia
per contrarietà verso il dialetto. Acerrimo nemico dei dialetti, considerati come
insidiatori dell’unità nazionale, fu P. Mastri, nello scritto «La malerba dialettale»,
in Su per l’erta, Bologna 1903, pp. 303-326.
13 Mancano ricerche obiettive su queste varietà regionali dell’italiano: posso-
no dame un’idea alcuni capitoli satirici dell’Idioma gentile del De Amicis, o i
repertori composti con lo scopo di correggere i dialettalismi (cfr. p. 607).
600 Storia della lingua italiana
scritta sono molto piccole, e le regioni del Nord e del Sud, dove i dialetti
sono tuttora ben vivi: è in questi territori che un numero sempre
crescente di persone si allena all’italiano parlato, specialmente gli
impiegati dello stato, spesso trasferiti da luogo a luogo, i militari M , i
commercianti, ecc.
Questo estendersi dell’uso parlato della lingua nazionale è mag-
giore nelle grandi città, e specialmente ampio a Roma, dove con-
vengono da tutte le regioni d’Italia impiegati, uomini politici, uomini
d’affari, che debbono di necessità parlare fra loro italiano; se hanno
portato con sé le rispettive famiglie, continuano magari a parlare
dialetto in casa: ma le giovani generazioni crescono assorbendo dal-
l’ambiente un italiano di colorito romanesco, e lo portano nelle loro
famiglie.
Tuttavia i passi compiuti sono in genere assai lenti: fuorché m
Toscana e a Roma, la situazione è pressappoco quella descritta dal
Finamore per l’Abruzzo nel 1880:
La nostra lingua è educata a pronunziare in un certo modo, e non arriverebbe
mai con una ginnastica differente a pronunziare perfettamente secondo un
ordine diverso di mov im enti. Onde avviene che, anche pe’ più colti, parlare a mo’
del dialetto è come adoperare la mano destra-, parlare secondo le norme del
buono italiano, è come adoperare la sinistra, per quanto si voglia educata.
Talché, in tutto l’Abruzzo, - non dico anche da un Sindaco, da un Avvocato o da
un Deputato; ma, anche da un Professore di Lettere italiane e latine, quando non
sta sull’avviso - senti: Aldo (= alto), Calge (= calce), Pensiero...' 5 .
Stilla pronunzia di qualche personaggio abbiamo precise testimo-
nianze: si leggano le~ descrizioni che il D’Ovidio ci dà della pronunzia
del De Sanctis e del Bonghi, che possono servire a illustrare due casi
opposti: quello più frequente della pronunzia semidialettale, e quello
delle confusióni che nascevano in chi voleva adeguarsi alla norma
toscana senza troppo faticarvi 18 .
14 II Fanfani narrava nel 1862 non so bene se un aneddoto o un apologo: che in
un crocchio di ufficiali toscani e piemontesi questi ultimi parlavano in dialetto, e
furono redarguiti da un capitano degli zuavi, che concludeva: «in Francia chi non
sa il francese non è ufficiale» (articolo ristampato in Lingua e nazione, Milano
1872, pp. 48-49).
15 Vocabolario dell’uso abruzzese, l a ed.. Lanciano 1880, pp. iv-v.
18 Sul De Sanctis: «Anche la sua pronunzia non era gran fatto felice. Ben poco
s’era liberato dei -vezzi fonetici meridionali; e forse per paura di questi sdrucciola-
va, com’altri della sua regione, nel proferire poi, mettiamo, incegno per ingegno, o
tempo per lembo. Inoltre, caso pur frequente nella sua regione, pronunziava il d o
il t suppergiù come farebbe un inglese, più simili a linguali che a dentali. Tendeva
a pronunziare le parole come ciò e giusto quasi come chiù e ghiusto » (F. D Ovidio,
Rimpianti, Palermo 1903, p. 110); sul Bonghi: «La pronunzia avrebbe voluto che
riuscisse toscana, e in gran parte toscaneggiava difatto, ma dava sistematica-
mente in certi vezzi che egli s’era imposti perché sedotto da analogie fallaci.
Pronunziava, poniamo, forte o corpo, negletto o petto, con la vocale chiusa, perché
Mezzo secolo di unità nazionale 607
Quanto al lessico, mentre per i campi più elevati, i dibattiti di idee,
L’attività politica, ecc., non vi sono discrepanze notevoli, per ciò che
concerne le cose legate alla famiglia, alla casa, alla terra vi sono
fortissime differenze tra una regione e l’altra e talvolta fra un luogo e
l’altro. I più non se ne preoccupano; ma parecchi ritengono che l’unico
modo di uscire da questa situazione sia il divulgare la conoscenza
della nomenclatura familiare toscana: si pensi ai dialoghi di E. L.
Franceschi e di P. Petrocchi 17 e ai capitoli sulla «lingua che non si sa» e
sulla necessità dello studio del vocabolario nell’/dioma gentile del De
Amicis.
Si moltiplicano in questi anni i vocabolari dialettali, che si propon-
gono, accanto allo scopo documentario, quello di fornire le corrispon-
denti voci italiane per quelli che le ignorassero 18 ; e le raccolte di voci di
italiano regionale considerate erronee: piemontesismi, venetismi,
abruzzesismi, sardismi ecc. 19 .
In complesso l’italiano parlato in questo mezzo secolo si è esteso
notevolmente nell’uso a spese dei dialetti, anche se è difficile precisare
in modo obiettivo la misura di questa estensione.
6. Il linguaggio della prosa
Chi consideri panoramicamente la prosa quale si scriveva corrente-
mente prima dell’unità nazionale e dopo il primo cinquantennio di vita
comune, noterà certo un considerevole progresso sia per quello che
concerne l’unità (cioè l’esprimere le stesse idee con le stesse parole) sia
per quel che concerne la vicinanza con la lingua parlata. Valga un
esempio. Nel 1877 usciva l’Assommoir di Émile Zola, e poco dopo i
traduttori italiani si mettevano all’opera per far conoscere quel tipico
prodotto della scuola naturalistica francese. Ecco una mezza paginet-
ta, quale la tradussero il napoletano Emmanuele Rocco, di tendenza
tradizionalistica (1879), e il pistoiese Policarpo Petrocchi, di tendenza
manzoniana (1880) 20 :
credeva che anche in simili voci fra il toscano e il napoletano vi sia quella
differenza che è in posto o fioretto-, e diceva viaggio come un toscano direbbe
Biagio. Se profferiva soggetto, cadeva in -tutti e due codesti falsi toscanismi.
Spesso metteva l’esse dolce fuor di proposito...» (F. D’Ovidio, Rimpianti, cit., p. 24).
17 E. L. Franceschi, In città e in campagna: dialoghi di lingua parlata, Torino
1868 e succ. edizioni-, P. Petrocchi, In casa e fuori: racconto dialogico illustrato,
Milano 1893.
18 Scarsi risultati ebbe un concorso ministeriale bandito nel 1890 per ima serie
di vocabolari dialettali.
19 Vedine un ampio elenco in E. Monaci, Pe’ nostri Manualetti, Roma 1918, pp.
43-50.
20 II Petrocchi dice nella prefazione d’aver tradotto il romanzo per dimostrare
fallace l’asserzione che in Italia non si sarebbe potuto tradurre il romanzo
zoliano per colpa della lingua; e dice d’averlo tradotto «senz’un vocabolo
letterario, sei 'una parola che non sia popolare in Toscana: e anche senza
nessuna perifrasi».
608
Storia della lingua italiana
Mezzo secolo di unità nazionale
609
Gervasia, sempre rispondendo con
compiacenza, guardava attraverso i
vetri, fra i boccali di frutte in acquavi-
te, il movimento ch’era nella strada,
ove l’ora della colazione radunava una
calca straordinaria. Sui due marcia-
piedi, nel breve spazio che le case
chiudevano in mezzo, vedevansi passi
frettolosi, braccia ballonzolanti, un
continuo urtar di gomiti. Quelli ch’era-
no in ritardo, operai trattenuti dal
lavoro, col viso stravolto dalla fame,
attraversavano la via a gran passi,
entravano di rimpetto da un panattie-
re; e quando riapparivano, con ima
libbra di pane sotto l’ascella, andava-
no tre porte più su, al Vitello a due
teste, a mangiare un pasto di sei soldi
V’era pure, accanto al panattiere, una
trecca che véndeva patate fritte e telli-
ne al prezzemolo; una fila continua di
operaie, in lunghi grembiali portava
via dei cartocci di patate e delle telline
nelle tazze; altre fanciulle graziose in
capelli, d’un aria delicata, comprava-
no mazzi di ravanelli.
Quando Gervasia s’inchinava da
un lato, scorgeva altresì una bottega di
pizzicagnolo, piena di gente, d'onde
uscivano fanciulli che tenevano in ma-
no, involta in carta ingrassata, una co-
stoletta crostata, un rocchio di salsiccia
o un pezzo di sanguinaccio caldo caldo.
Intanto, lungo la strada impegolata di
una melma nera, anche quand’era bel
tempo, in mezzo allo scalpiccio della fol-
la che camminava, alcuni operai ab-
bandonavate già le taverne, scendeva-
no a frotte, andando a zonzo, battendo-
si le cosce con le mani aperte, rimpin-
zati di cibo, tranquilli e lenti in mezzo
agli spintoni della tumultuosa calca.
Si era formato un gruppo di n a n z i
alla porta dello Scannatoio.
- Di’ su, Bibi la Grillade, domandò
una voce rauca, ci paghi una bevuta in
giro di vitriolo? *
E. Zola, L’Assommoir (Lo Scanna-
tojoì. Trad. di Emm. Rocco, Milano
1879, p. 40 segg.
‘Spirito di vino.
La Gervasa nel tempo che rispon-
deva con compiacenza, guardava at-
traverso i vetri, tra i vasi di frutte in
guazzo, il movimento della strada,
dove l’ora della colazione tirava una
gran calca di gente. Sopra i due mar-
ciapiedi, nella stretta gola delle case,
c’era un affrettar di passi, un dondolar
di braccia, un darsi delle gomitate
senza fine. Gli operai tardivi, stati
trattenuti al lavoro, colla céra annoia-
ta per la fame, attraversavano il lastri-
cato a lanci, entravano di rimpetto da
un fornaio, e quando riapparivano,
con ima libbra di pane sotto il braccio,
andavano tre usci più avanti, al Vitello
dalle due teste, a mangiare una solita
da trenta centesimi. C’era anche, ac-
canto al fornaio, una fruttaiola che
vendeva delle patate fritte e delle telli-
ne col prezzemolo; una sfilata conti-
nua d’operaie con grembialoni, porta-
van ina dei cartocci di patate e telline
nelle tazze; dell’altre, graziose ragazze
in capelli, con aria delicata, comprava-
no dei mazzi di radici
Quando la Gervasa si chinava, ve-
deva pure una bottega di norcino pie-
na di gente, di dov’uscivan dei ragazzi
con una braciola panata in mano, av-
volta in una carta unta, una salsiccia o
un biroldo caldo fumante. Intanto, lun-
go la strada impeciata d’un fango
nero, anche col bel tempo, per lo scal-
piccio della folla in movimento, alcuni
operai lasciavan di già le bettole, scen-
devano in crocchi bighellonando colle
mani aperte e ciondoloni che gli batte-
vano nelle cosce, inghebbiati di mangi-
me, tranquilli e lenti in mezz’agli into-
ni della folla.
Un crocchio s’era formato all’uscio
dell’Assommuàr.
- Dimmi dunque, Bibì-braciola, do-
mandò una voce fioca, lo paghi te un
giro di zozza?
E. Zola, L’Assommuàr. Trad. in lin-
gua italiana parlata dei prof. Petrocchi
e Standaert, Milano 1880, p. 34 segg.
Prescindiamo per un momento dalla personalità dei due traduttori,
e consideriamoli come i rappresentanti di due tendenze che, con
innumerevoli sfumature tennero il campo ancora per alcuni decenni
dopo l’unità. Nel 1910, due traduzioni così profondamente diverse
sarebbero impensabili.
La mediazione era stata preparata da quella che il Carducci
chiamava con dispregio la «prosa borghese» (De Amicis, ecc.) 21 , di cui
invece il Pancrazi riconosce i meriti: «la prosa borghese che in quegli
anni si venne formando sulla tradizione manzoniana e sugli stampi
regionali e sull’esempio del naturalismo francese, rispondeva a un
bisogno... vitale: era la prosa della nostra vita media, sarebbe stata la
prosa del romanzo e della novella italiana» 22 . Tra i critici, naturalmen-
te, v’è chi tende piuttosto a sottolineare questo progressivo raccosta-
mento, chi a lamentarsi che una sufficiente conformità non sia ancora
raggiunta 23 .
A operare questo conguagliamento nella lingua scritta quotidiana
media valse in primo luogo, come abbiamo accennato, la palestra della
Anta.
Notevole efficacia mediatrice ebbero le riviste letterarie (va ricorda-
to come primo e più notevole esempio il Fanfulla della Domenica,
fondato da F. Martini nel 1879; intorno al 1910 conterà soprattutto La
Voce) e i giornali meglio scritti.
Ma ben s’intende che anche sulla lingua scritta quotidiana forte-
mente agisce l’esempio degli scrittori d’arte. Delle maggiori correnti
basterà qui dare un brevissimo cenno.
Mentre il filone tradizionalistico si viene estenuando in alcuni
attardati (come gli scrittori della «scuola romana»), il Carducci crea un
nuovo esempio di prosa alta, temprata nella consuetudine con i classici
latini e italiani, ma con felici spunti di toscanità nativa. E a lui più o
meno fanno capo tutti quelli che propugnano la dignità della lingua
letteraria illustre: «una lingua letteraria dotta e aristocratica - dice E.
Scarfoglio nella nuova prefazione (1911) al suo Libro di Don Chisciotte -
non può alimentarsi ai cento torrentelli impetuosi della lingua parlata,
21 Si ricordi come definiva questa prosa borghese la Serao: «Guardate qui a
Napoli: abbiamo tre lingue; una letteraria, aulica, sognata non reale; una
dialettale, viva, chiara, pittorica, sgrammaticata, asintattica; una media che dirò
borghese, che è scritta dai giornali che ripulisce il dialetto sperdendone la vivacità
e tenta imitare la lingua aulica senza ottenerne la limpidezza» (in Ojetti, Alla
scoperta dei letterati, p. 275 della rist. Pancrazi).
22 II Ponte, I, 1945, p. 44.
23 Nelle interviste ojettiane raccolte nel citato volumetto Alla scoperta dei
letterati, il Bonghi si lagnava: «oggi, nel fatto, la lingua italiana non esiste nelle
opere stampate. Tra la prosa sciatta e frettolosa di certi giornalisti e la prosa
preziosa e affettata di Gabriele D’Annunzio, non si sa trovare il giusto mezzo.
Uno Io avrebbe trovato, Ferdinando Martini, ma non ha vigore e novità» (p. 250);
cfr. analoghe doglianze del De Roberto) («Ci vorranno anni e anni perché
quest’istromento sia limato e solido», p. 135).
610
Storia della lingua italiana
ma bensì al nobile serbatoio della lingua scritta, la lingua degli oratori,
degli storici e dei poeti latini» 24 .
Quanto all’influenza manzoniana, bisogna distinguere: mentre ge-
neralmente si riconosce l’efficacia dell’esempio dato dai Promessi Sposi
per insegnare a «scrivere con naturalezza» 25 , molte sono le contestazio-
ni sulla sua teoria (cfr. § 8) e gli attacchi contro quelli che 1 applicano:
parecchi se la prendono con il noto esperimento del Broglio, la vira ai
Federico il Grande, in cui tanto spesso parole forme, frasi familiari
toscane sonavano false, perché troppo popolari in relazione con
1 argomento^ era la na ti va toscanità che risonava nel Collodi o
in Yorick, nel Martini o nel Fucini, e più tardi nel Papirn o nel
Palazzeschi.
Dopo la breve stagione degli Scapigliati, antiretorici, che cantano
Torrido il macabro, il diabolico, domina per qualche decennio nelle
forme più varie, la tendenza veristica: gli autori si propongono di iar
rivivere nei loro romanzi gli ambienti popolari, delle città e delle
campagne; e ciò ha importanza anche per la storia della lingua, perché
se i più si limitano a adoperare, per ottenere il color locale, qualche
espressione in dialetto, il Verga riesce nei migliori deisuoiromanzia
riassorbire i costrutti dialettali nel tessuto narrativo. Vero è che il suo
stile parve al tempo suo troppo ardito ed ebbe scarsa influenza. Nè
influenza si può dire che avessero gli impasti assai originali di un
Dossi 27 , di un Faldella, oppure di un Imbriani.
Sulla generale piattezza della prosa si leva come «voce d altura»
quella di Gabriele d’ Annunzio, che fu soprattutto «artefice della
parola» 28 . Per esprimere le più varie sensazioni, umane, superumane.
« Commemorando il Carducci appena scomparso, lo stesso Scarfoglio dice-
va- «Ci insegnò che la lingua deU’arte italiana non è nata pei trivi dialettali come
pretendevano i corvi e le cornacchie appollaiate sugli ormai nudi alberi del
romanticismo, ma è stata foggiata sull’incudine della trad^ione latma da una
oligarchia di letterati nutriti di midollo plastico» (Le piu belle pagine, Milano 1932.
^ 2 ls y oltre alla prefazione del Giorgini al Novo vocabolario di Giorgim e
Broglio p Lira, le parole dell’ Ascoli (cit. a p. 618), e quel che diceva il D Ancona ne
suo Manuale della letter. italiana: «quello... che ha la prosa moderna eh
precisione di naturalezza, di popolarità, di densità di pensieri, m confronto della
prosa Accademica e compassata, già troppo in onore, si deve per grandissima
part ® 648- '649. Sul dilagare del fiorentinismo d’accatto, vedi anche F.
Martini- «inondò le scuole una colluvie di storie, ove i personaggi di Sallustio e di
Livio parlano come i contadini del pian di Lecore o i fruttaioli di via dell Anento;
né si giurò più che per il Giusti e sul Giusti, lui solo inimitabile, lui maestro unico
di ogni eleganza» («Giuseppe Giusti», m Pagine raccolte Firenze 1912, p. 36).
27 D igeila. La lingua e lo stile di C. Dossi, Milano-Napoh 1958.
22 Nell’ampia bibliografia, mi limito a rimandare a M. Praz, «D Annunzio e
l’amor sensuale della parola», nel suo volume La carne, la morte e il diavolo nella
letteratura romantica, Milano Roma 1930, 2» ed. Firenze 1948 e a R Mighonm, «G
d’ Annunzio e la lingua italiana», in Saggi Novecento, pp. 222-250.
Mezzo secolo di unità nazionale
611
ferine, egli allarga il vocabolario ben oltre i limiti consueti, ricorrendo a
voci arcaiche, dialettali, tecniche (tratte, per esempio, dalla Storia
naturale del Pokorny o dal Vocabolario marino e militare del Gugliel-
motti), attingendo al latino o al greco (direttamente o magari attraver-
so i simbolisti francesi). «La vita - dice il Bellonci 29 - dalle lettere degli
amanti ai proclami della politica, prese le forme dannunziane; e le
donne diventarono le elette dove gli uomini erano i despoti ». Questa
influenza si fece sentire specialmente nel giornalismo, nel quale si
divulgarono numerosi vocaboli e giunture dannunziane: teoria nel
senso di «processione, fila», velivolo, irreale, malioso, aromale, liliale 30 ,
sinfonia di odori, la declinazione del giorno, una fascinazione di
continenti sconosciuti, i dolori di nostra gente, quel volto di giovane
iddio, temeva non forse egli avesse, ecc.
Grande rumore levò il movimento futurista, propugnando innova-
zioni radicali: «l’irruenza del vapore-emozione farà saltare il tubo del
periodo, le valvole della punteggiatura e i bulloni dell’aggettivazione»
(Marinetti, Zang tumb tumb, Milano 1914, p. 10). Ma l’influenza sulla
lingua comune fu insignificante.
Ancor più che i narratori, stentano a trovare un tono garbato e
naturale gli autori teatrali, soprattutto perché l’uso parlato è poco
sciolto e poco uniforme. Giova fino a un certo punto alla scioltezza, ma
non certo alla purezza della lingua, il fatto che la maggioranz'a dei
drammi che si recitano in Italia sono cattivi raffazzonamenti di
drammi francesi.
Naturalmente, chi voglia tener conto del linguaggio della prosa nel
suo complesso, non solo non potrà trascurare gli scrittori di scienze
morali (gli storici, i filosofi, ecc.), ma dovrà anche tener conto degli
«scrittori utili ma non artisti» (come li chiamava l’Ascoli): per citar solo
un esempio, la terminologia di C. Lombroso e della sua scuola interessa
di per sé, e interessa in quanto qualche termine ne filtra nel lessico
usuale (per es. mattoide ).
Hanno molta importanza anche le terminologie scientifiche e
tecniche: numerosissimi vocaboli (di medicina, ad es., o di elettricità,
per lo più di conio intemazionale) arrivano a penetrare nell’uso
quotidiano. Importa molto la terminologia giuridica, soprattutto per le
precise delimitazioni concettuali che essa pone.
L'influenza del linguaggio amministrativo è più che mai forte, e più
che mai osteggiata dai puristi 31 : oltre alle coniazioni di vocaboli singoli
29 Annali dell’lstr. media, X, p. 240.
30 «Di aggettivi exo manti e gabrielici farete uso moderato: sacrificatene uno
ogni tanto per propiziarvi la dea dell’eleganza e della snellezza e della
naturalezza»: così il Pascoli in una lettera a A. De Witt del 1896 (T. Rosina, Saggi
dannunziani, Genova 1952, p. 129).
31 Si veda, per citare un esempio, il commento del Cerquetti a ima relazione
della Commissione d’inchiesta sulla scuola secondaria (nel periodico L’Unità
della lingua, 1 maggio 1873, pp. 129-135): egli biasima presiedere la Commissione
612
Storia della lingua italiana
come realizzo, periziare e simili (v. p. 643), oltre a nuove locuzioru
[donna attendente a casa), è caratteristico della lingua amministrativa
l’abuso di formule fisse: prelodato può andar bene se si riferisce a^un
personaggio autorevole, ma può accadere che un burocrate scriva m
una relazione «i prelodati lupi»; e cosi si spiega bene «un libello a base
di calunnie», ma non altrettanto «una rissa o base di zoccolate».
Non meno forte è l’azione esercitata sulla lingua comune scritta dal
giornalismo, che anch’esso cdntribuisce a propagare luogln comum e
formule fisse (il fior fiore dei cittadini, sotto l egida del sindaco, i lieti
C ° n Chi^olge l’occhio all’arte dello scrivere ammirerà il classico e pur
vivace Carducci, il lussureggiante D’Annunzio, il meditato e composto
Croce: ma bisogna (purtroppo) riconoscere che sulla prosa scritta
quotidiana (nelle lettere, poniamo, di un tizio qualsiasi) 1 azione
esercitata dal linguaggio burocratico e da quello giornalistico è piu
forte che quella di un Carducci, di un D’Annunzio, di un Croce.
7 . Il linguaggio della poesia
I decenni che chiudono il secolo XIX conducono ancor più innanzi
duella progressiva ridùzione della lingua aulica tradizionale che il
romanticismo aveva iniziata. Il realismo tende a introdurre nei versi
argomenti quotidiani, domestici, borghesi, e quindi a servirsi di voci
dell’uso- «Suoni l’ode alla calce e al rettifilo» (Boito, Case nuove, 1866),
«Si stava assai benino - un tempo a la Regina: - buona cu cma - ottimo
vino» (V Betteioni, «Per una crestaia»)-, «E davanti a un gelato di
crema alla vainiglia» (De Amicis, «Fra cugini»); «al fuoco la salsiccia
odora e il vino splende» (S. Ferrari, «Nostalgia»), ecc.
Ma nascono irreparabili dissonanze sofistiche
andante e il molto che ancora persiste del lessico aulico 32 : «col falerno ;
diamo la baia al verno» (Prati, «Iside»)-, «gli umidi campi redolenti - di
nepitella» (Rapisardi, «Ottobre»), «le iperboree sizze» (Rapisardi, Giob-
La consuetudine al lessico aulico è tuttavia ancora tale che anche ì
poeti che vorrebbero esser letti dal popolo scrivono m m °d° che gli
sarebbe certo inintelligibile. In una linea di Eliodoro Lombarch
«Scienza e lavoro», parlano gli operai del braccio: «Ci escluser dal
santo comune retaggio - ci han colmi e pasciuti di fiele e di oltraggio...».
(vorrebbe presedere alla Commissione), distinto, verbale come sost., attribuzione.
Dobbiamo citare di nuovo i suggestivi articoli di C. De Lollis, rist. nei Saggi
forma poetica, e il buon saggio di W. Th. Elwert, «La crisi del ^«uaggio poetico
ital. nell'Ottocento », in Anales del Instituto de Linguistica (Mendoza), I , , PP-
36 ' 8 £ Severino Ferrari, nel Mago (c. Vili) derideva le strofe del Rapisardi
«gemmate di lingua aulica e tracina».
Mezzo secolo di unità nazionale
613
In una lirica di Giovanni Raffaelli sugli «Ospizi marini» (1868) il poeta
esorta: «Ed or la salma frale - d’inopia e di fatica, - perché, scarno
mortale - non credi all’onda amica?». Vittorio Betteloni, da alcuni
rimproverato, da altri lodato per aver scritto i suoi versi in lingua
parlata, usa funesti augelli; spirto; omero mio; la Morte dice alla
Fanciulla di esser la suprema aita, e così via. Felice Cavallotti, quegli
che fu chiamato il «bardo della democrazia», abbonda di espressioni
auliche: «E l’oste egizia fu* («Marcia di Leonida»); « prischi evi*, «il caro
fral* («Lucerna di Parini»).
Le perifrasi care alla tradizione aulica si fanno più rare: ma lo
Zanella per parlare del treno nomina «sulle compresse ali del foco - i
trasvolanti carri» («Alla Madonna di Monte Berico»); nella stessa lirica
il telegrafo è «l’accento - come guizzo di folgore trasmesso»; per la
Bonacci Brunamonti i cannocchiali sono «concavi tubi»; «Molti segreti
ai concavi - tubi assente l’aerea lontanza» («Stelle nere», II, in Nuovi
canti).
Molto lessico poetico tradizionale è ancora nel Carducci giovane;
ma nella sua miglior stagione egli rinnova il suo lessico specialmente
con l’arricchirlo di latinismi, se non nuovi, non consunti dall’uso
poetico dei secoli precedenti: adamante, buccina, cortice, delubro, ilice,
vulture-, cerulo, flavo, fumido, occiduo, virente, ecc.-. si noterà che
abbondano tra questi latinismi le parole sdrucciole, particolarmente
adatte ai nuovi metri inaugurati dal poeta. Qualche altra voce egli
attinge volentieri ai poeti italiani antichi, senza che sia passata per il
tramite della tradizione: aulente, piovomo, ecc.
Mosse da lui anche Gabriele d’ Annunzio, prima di prendere un suo
proprio cammino-. Il suo alessandrinismo lo spinge alla ricerca di
parole belle e rare, il suo decadentismo fa che egli gusti la parola come
una musica o come un sapore. Egli attinge a larga mano latinismi e
grecismi, dialettalismi e tecnicismi: allarga insomma quanto forse non
era mai stato fatto il lessico poetico. Ma le parole della tradizione
aulica sono ormai ridotte a pochissime 34 .
Per il Pascoli la tradizione aulica è ormai completamente finita: egli
evita non solo vocaboli alieni dall’uso popolare ma anche quelli troppo
generici, cari per lunga consuetudine ai poeti dal Petrarca in poi 33 ; ama
invece la concretezza dei vocaboli rustici, romagnoli o lucchesi, fino a
riuscire talvolta inintelligibile:
31 Già mi sono permesso di rinviare al mio articolo su «D'Annunzio e la lingua
italiana». Un bel glossario dei vocaboli della poesia del secondo Ottocento, quali
sono adoperati dai postcarducciani e dal D’Annunzio, è nel volume cit. del
Garzia, Il vocabolario dannunziano, pp. 110 - 182 .
35 II Pascoli lamentava che per i poeti italiani «tutti gli alberi si riducono a
faggi, tutti i fiori a rose e a viole (anzi rose e viole, unite più spesso nella dolcezza
del loro suono che nella soavità del loro profumo) e tutti gli uccelli a usignuoli»:
Pascoli, «Il Sabato», in Miei pensieri di varia umanità, Messina 1903, p. 70 (= Prose,
I, Milano 1946, p. 59).
614
Storia della lingua italiana
Vogliono dire ch’han la tiglia soda
più che nimo altri che di mattinata
porti in monte il cavestro o la bardella
(«Il ciocco», I, in Canti di Castelvecchioì 3B .
Questa tendenza pascoliana è, in sostanza, un modo di preziosismo;
come si vede altrove dalla frequenza di vocaboli tecnici (meteci,
mirmilloni , mistofori , pezeteri , pulte , teda , ecc. nei Poemi conviviali).
D’altro canto il Pascoli spesso preferisce decadentisticamente parole
vaghe, indeterminate, che con la loro musicalità possono suggerire al
lettore una apertura verso mondi ignoti. . .
Anche per i crepuscolari, anticarducciani e antidannunziam, il
lessico poetico tradizionale è ormai morto: se mai, il Gozzano qualche
volta se ne vale per evocare il suo vecchio piccolo mondo (si ricordi, nel
«Viale delle Statue», l’ava che pellegrinava «lungh’essi - i bussi e i
° ^Nei futuristi lo sforzo di liberarsi da ogni vecchia consuetudine (v. p.
680) si combina con un esasperato metaforismo che fa pensare a,i
secentisti («O vento crocifisso dai chiodi delle Stelle!»: Marinetti,
Distruzione, 1911). . ...
Vediamo, insomma, che il verso e la prosa si sono raccostati
moltissimo: il verso sta diventando simile alla prosa e la prosa al verso.
Abolito, salvo qualche sporadico resto, il lessico poetico tradizionale, i
soli espedienti linguistici di cui i poeti dispongono quando voglio-
no valersi dei versi consueti (e molti inclinano invece al verso libero)
sono una certa libertà nei troncamenti e nelle dieresi, e una maggior
libertà nell’ordine delle parole («E ancor ne odora la campestre via»:
Bertacchi).
Anche il linguaggio del teatro in versi (Cossa, Giacosa, Cavallotti!
non si scosta di molto dalla prosa. Invece il melodramma conserva di
solito « quell’ambiguo gusto linguistico, tra romantico e classico, in
nome del quale Francesco Maria Piave, con abuso retorico, avrebbe
fatto ascendere Alfredo Germont alle egre soglie di Violetta, e dichiara-
va alla medesima di avere di lacrime d’uopo, volendo significare che
aveva voglia di piangere» 37 .
36 II Mantovani {Letteratura contemporanea, Roma 1903), a proposito di versi
come questi, parlava di «passi in turco»; più mitemente il Baldini: «le parole piu
umili più villerecce, spesso da intendersele solo due biroccini di Barga fra di
loro»’ (Fine Ottocento, Firenze 1947, p. 229). Il Contini (nel voi. miscellaneo Studi
pascoliani. Faenza 1958, p. 47) ha giustamente osservato che ì dialettantismi
pascoliani sembrano molto determinati: «pure in effetti la precisione è sfuggente,
in realtà assistiamo a una forma di evasione impressionistica».
37 Baldacci, I poeti minori dell’Ottocento, I, Milano-Napoli 1958, p. xn.
Mezzo secolo di unità nazionale
615
8. Discussioni sulla lingua
I primi decenni di vita del nuovo regno sono pieni delle dispute
ravvivate con giovanile fervore dal Manzoni 38 .
Veramente, negli anni in cui si sentiva come imminente il compiersi
dell’unità politica con Roma capitale, qualche dubbio era sorto nel
Manzoni stesso intorno alla sua tesi che l’italiano dovesse prendere a
modello Firenze 39 .
Ma la principale manifestazione della tesi fiorentina del Manzoni si
ebbe nel breve periodo in cui Firenze fu capitale. Nominato ministro
della pubblica istruzione (il 27 ottobre 1867) il milanese Emilio Broglio,
grande ammiratore del Manzoni e seguace delle sue idee, pensò bene
di romper gli indugi, e di dare la spinta al vagheggiato vocabolario, di
cui il Manzoni «doveva essere il maestro di cappella» (Prefaz. al Novo
Vocabolario, voi. Ili, p. xiv). Il 14 gennaio 1868 fu nominata una
commissione con il compito «di ricercare e proporre tutti i provvedi-
menti e i modi, coi quali si possa aiutare e rendere più universale in
tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona
pronunzia»: la commissione era suddivisa in due sezioni, una milanese
e una fiorentina; presidente generale era il Manzoni, vicepresidente il
Lambruschini. Benché quasi ottantenne, il Manzoni si accinse a
stendere la relazione «con un’alacrità, quasi direi una furia, davvero
prodigiosa in quell’età» (Broglio, 1. c.). Già il 19 febbraio egli mandava il
testo autografo al Broglio, accompagnandolo con una lettera in cui si
diceva grato d’aver ricevuto «un incarico che m’onora, e che è tanto
conforme a una mia vecchia passione».
Nella relazione (intitolata Dell’Unità della lingua e dei mezzi di
diffonderla ) il Manzoni mostra la necessità d’una lingua comune per
tutta la nazione, e sostiene «che l’accettazione e l’acquisto dell’idioma
fiorentino sia il mezzo che possa dare di fatto all’Italia una lingua
comune». Lingua «non è, se non è un tutto; e a volerla prendere un po’
di qua e un po’ di là, è il modo d’immaginarsi perpetuamente di farla,
senza averla fatta mai». Egli risponde, una per una, alle principali
38 Sorvoleremo in questo paragrafo su tanti autori minori; ma non vogliamo
lasciare senza menzione l’articolo di P. Valussi, «La lingua nel rinnovamento
nazionale italiano», in Rivista contempor., gennaio 1863, pp. 17-33, ricco di
osservazioni e di assennate proposte.
38 Si veda il poscritto confidenziale a una lettera a G. B. Giorgini, del 5 ottobre
1862 (in Manzoni intimo, a cura di M. Scherillo, II, Milano 1923, p. 197): «Mi sono
anche ben guardato d’addurre un motivo che mi leverebbe una gran parte di
coraggio, ... la gran probabilità che la capitale sia per essere altrove che a
Firenze. Prima d’ora, se questa non era riconosciuta unanimemente e costante-
mente per la sede della lingua, non c’era però alcuna altra città che, in questo, le
potesse contendere il dominio; e chi avesse riconosciuto che la lingua s’ha da
prendere da una città, era costretto a nominar Firenze. Ma una capitale ha, per
la natura delle cose, una grande influenza sulla lingua della nazione. Sarebbe
credo, un caso unica che il capo della nazione fosse in un luogo e la sua lingua in
un altro».
616
Stona della lingua italiana
obiezioni che immagina possano essergli fatte intorno alla scelta di
Firenze e intorno all’utilità di un vocabolario dell uso vivo fiorentino .
La relazione conclude col tributar lode al ministro dell’aver «avviata
per la vera strada ima questione di tanta importanza; giacché dopo
l’unità di governo, d’armi e di leggi, l’unità della lingua è quella che
serve il più a rendere stretta, sensibile e profittevole 1 unità d una
nazione».
Mentre la lettera al Carena, pubblicata nel volume delle Opere vane
aveva avuto un’eco limitata (pp. 652-653), la Relazione, subito pubblica-
ta nella Nuova Antologia di Firenze e nella. Perseveranza di Milano,
ebbe grandissima risonanza. Erano passati più di vent anru e 1 itaiiasi
trovava nel periodo decisivo della sua unificazione politica. Inoltre
l’iniziativa non si presentava più come ima critica privata di un insigne
scrittore a un vocabolario troppo composito; ma come una precisa
proposta, fatta per incarico ufficiale, la quale in certo modo invitava a
uri pubblico dibattito.
Molti sorsero a plaudire e ad echeggiare, molti a contraddire con
libri opuscoli, articoli. Luigi Settembrini scrisse al Broglio, il 22 marzo
1868- «Che mi avete fatto, onorevole Signor Ministro! Confregisti opus
auinquaginta annorum\ mi avete guastato l’antica e bella statua di
Alessandro Manzoni, che voi Lombardo dovevate piu degli altri
conoscere, rispettare, e non farlo parlare. Perché sforzare il vecchio e
venerando Priamo a riprendere le armi e scagliare telum sme ictu......
L’animoso vegliardo, ormai in mezzo alla mischia, si batteva con
ardore. Eccolo sostenere con una lettera «intorno al libro De vulgan
eloquio» {Perseveranza , 21 marzo 1868) che nel trattato dantesco «non si
tratta d una lingua, né italiana, né altra qualunque». Eccolo rispondere
al Tigri pistoiese (il quale aveva scritto: «Non dubito punto che quando
il Manzoni diceva che l’idioma nazionale dovesse essere ti fiorentino,
non volesse intendere il buon toscano»), che, date le varietà che si
hanno anche in Toscana, intendeva proprio dire fiorentino, e che «il
concetto di questa unità che è la vita delle lingue* è «anche la
condizione per poterle diffondere; giacché per camminare bisogna
0SS6T6 »
Infine, riprendeva la penna, tra la fine del’68 e il principio del 69, per
rispondere all’altra relazione presentata al ministro dal Lambruschim
(a nome della sottocommissione fiorentina), piena di riguardi per il
Manzoni, ma sostanzialmente negativa 41 . Il volumetto di risposta
s’intitolò Appendice alla Relazione intorno all'unità della lingua e ai
mezzi per diffonderla (Milano 1869). , ,
L’Appendice è meno organica della Relazione e salta un po «di palo
in frasca», perché il Manzoni vuol chiarire il suo pensiero sui punti in
« Accanto a questo principale provvedimento, altri la Commissione ne
proponeva al ministro (preferenze da accordarsi agli insegnanti toscani, eccJ.
*' Vedila nella Nuova Antologia del maggio 1868 .
Mezzo secolo di unità nazionale
617
cui gli sembra che sia stato frainteso. Nega cosi che esista una serie di
vocaboli «riservata a uso particolare delle persone di Lettere»; conte-
sta che la compilazione del dizionario dell’Uso possa esser fatta con un
processo di eliminazione. Confrontando alcuni articoli del dizionario
dell’Accademia francese con quelli corrispondenti del Vocabolario
della Crusca, lamenta che non si sia riconosciuta in Italia l’autorità
dell’Uso come si è fatto in Francia, ma nota che ciò è in parte dovuto
alle diverse condizioni dei due popoli. Coglie l’occasione per conferma-
re in breve alcune «leggi generali del linguaggio» applicate «alle
circostanze particolari dell’Italia», e conferma così la sua definizione
del «vero e intero Uso delle lingue; cioè una totalità di segni prodotta
da una totalità di relazioni, quale esiste, per effetto naturale, in una
popolazione riunita e convivente». Accoglie dalla relazione fiorentina il
suggerimento di un prontuario di gallicismi, in quanto siano superflui,
purché accanto ad essi vi siano nell’uso fiorentino voci corrispondenti.
Nega che la sua proposta conduca «a uno sconvolgimento, a una
rivoluzione generale in fatto di lingua».
La trattazione è vivace, ricca di richiami, di citazioni, d’aneddoti,
forse un po’ chiacchierina; e si chiude con un’esortazione appoggiata a
un ricordo patriottico: «Ventun anno fa, tra vari pareri (non erano
allora, né potevano esser altro) intorno all’assetto politico che conve-
nisse meglio all’Italia, ce n’era uno che chiamavano utopia, e qualche
volta, per condescendenza, una bella utopia. Sia lecito sperare che
l’unità della lingua in Italia possa essere un’utopia come è stata quella
dell’unità d’Italia».
Il 24 ottobre 1868 il Broglio aveva intanto istituito per decreto «una
Giunta incaricata di compilare il Dizionario della lingua dell’uso
fiorentino», con quattro membri ordinari e alcuni straordinari; egli
aveva nominato anzi sé stesso presidente, per evitare che i lavori si
fermassero quando egli non fosse stato più ministro.
Quando si cominciò a pubblicare l’opera, col titolo di Novo Vocabo-
lario della lingua italiana secondo l’usó di Firenze, Graziadio Ascoli
colse l’occasione per pronunziarsi intorno alla teoria manzoniana,
proemiando alla sua nuova- poderosa rivista, l’Archivio glottologico
italiano Qa prefazione, datata 10 settembre 1872, uscì al principio del
1873). Riconoscendo come vero «il male, cioè la mancanza dell’unità di
lingua fra gli Italiani», riconoscendo come opera molto meritoria
«quella che valga a minorare questo male o a sanarlo», si ferma ad
analizzare le differenze tra le condizioni storiche dell’Italia e quelle
della Francia e quelle della Germania, e a mostrare quello che sarebbe
potuto avvenire se condizioni simili a quelle francesi oppure a quelle
tedesche si fossero avute fra noi. Quando un’attività operosa si
diffonde per tutta una nazione, il «provvido rimedio» della selezione
naturale vien presto a eliminare il «lusso di voci o locuzioni equivalen-
ti» (p. xviii). Ora «si viene a dire agli operai dell’intelligenza che
sospendano, tanto o quanto, la propria industria, e non già per rifornire
il loro apparecchio mentale col rituffarlo in una nuova serie di libri che
618 Storia della lingua italiana
ancora alimentino il loro pensiero e Moro studi (che sarebbe cosa
tollerabile), ma per farsi a imitare (essi dicono scimieggiare) una
conversazione municipale, qual sarà loro offerta da un vocabolario, da
una balia, oppur dal maestro elementare che si manderà (da una terra
così fertile di analfabeti) a incivilir la loro provincia» (p. xxv).
Purtroppo il motivo per cui l’Italia non ha ancora una lingua «ferma
è sicura» sta «nella scarsità del moto complessivo delle menti, che è a
un tempo effetto e causa del sapere concentrato nei pochi, e nelle
esigenze schifiltose del delicato e instabile e irrequieto sentimento
della forma» (p. xxvn). E i rimedi che ora si suggeriscono, nel
«nobilissimo intento di rimediare al doloroso effetto», finirebbero col
«ribadirne le cause» (ivi). «Le squisite brame di quel Grande, che è
riuscito, con 1’infinita potenza di una mano che non pare aver nervi, a
estirpar dalle lettere italiane, o dal cervello dell’Italia, l’antichissimo
cancro della retorica» (p. xxvm) hanno provocato lo «zelo illusorio o
nocivo» (p. xxix) dei suoi seguaci. Se l’ideale del classicismo non si
attagliava alla vera unità nazionale, le ripugnava ben di più «il nuovo
ideale del popolanesimo» fiorentineggiante (p. xxxi).
Insomma, lo scopo a cui si deve mirare è «rinnovare o allargare
l’attività mentale della nazione», non procurare, dopo quella antica,
una nuova «preoccupazione della forma»' 12 .
Quando al Manzoni, ormai vicino a spegnersi, giunse notizia del
proemio dell’Ascoli, dicono esclamasse celiando: «se l’Ascoli non vuole
il fiorentino, pigliamo magari il bergamasco, purché ci teniamo a un
linguaggio vivo e intero», e soggiungesse: «l’Àscoli ci può insegnare a
tutti come le lingue si formano, ma vorrei che egli considerasse che
cosa è una lingua!». Così Francesco D'Ovidio 43 , il quale fin dall’anno
della pubblicazione del Proemio 44 e poi in parecchi altri scritti, con
molta informazione e sagacia cercò di gettare un ponte fra le due
opposte dottrine.
Il purismo metteva alla disperazione il pensatore e lo scrittore che si volgesse
a idee e cose nuove, o avesse da richiamar alla svelta le già note; mentre il
Manzoni voleva la parola o la frase fiorentina dove questa ci fosse, ma dove
mancasse lasciava libero il passo ad ogni novità, ad ogni espediente, sia di
ricorrere a voci d’altri dialetti o lingue, sia di cimentarsi a nuove formazioni. In
secondo luogo, non strozzava gli studi sui dialetti, anzi li favoriva e promoveva. E
finalmente e soprattutto, se il Manzoni deduceva la sua dottrina pratica troppo
esclusivamente dal fatto dei primi tre secoli, in cui la Toscana e Firenze ebbero
ima specie di dittatura linguistica, l’Ascoli guardava con troppa predilezione ai
tre secoli successivi, in cui l’attività letteraria e linguistica è stata, bene o male, di
42 Più pacatam Jnte, l’Ascoli tornò sull’argomento nel 1880, per il noto articolo
deU’Encyclopaedia Britannica (pubblicato in italiano dall’Arch. glott. it.. Vili: v. le
pp. 125-127).
43 Correzioni, pp. 119-120.
44 Nell’articolo «Lingua e dialetto» nella Rivista di filoL classica (1873), poi
ristampato nei Saggi critici e nelle Opere.
Mezzo secolo di unità nazionale 619
tutta 1 Italia. Ma la nostra gloriosa e dolorosa storia abbraccia tutti e sei quei
secoli, e la nostra condotta presente e futura deve di necessità discendere da essi
tutt J; s ® negU ultimi tre secoli le condizioni d’Italia sono state rassomiglianti a
quelle della Germania, nei primi tre, tanto ancora vivi nella nostra coscienza
rassomigliarono a quelle della Francia. Né si possono saltare dunque a piè pari i
tre ultimi secoli, rendendo a Firenze una dittatura già deposta, né d’altro lato
dimenticare neppur oggi quella che fu la nostra Parigi, o almeno la nostra Atene.
Se in Germania nessuno ‘discerne la culla della lingua’ né ricerca il ‘precisò
angolo della patria tedesca’ da cui scaturì la prima fonte della lingua di Lutero di
Klopstock e di Kant, in Italia invece tutti sappiamo che la culla o la fonte della
lingua nostra fu la patria di Dante e di Machiavelli.
Or come dunque questa differenza così grande non avrebbe a determinarne
una altrettanto grande nel modo di provvedere alle sorti della nostra lingua? Il
fiorentino odierno si dovrà perciò tener sempre come un vivo specchio d'italianità
sincera e fresca, e solo non prenderlo a norma quante volte diverga dall'uso
letterario, ove questo è saldamente stabilito; e prenderlo come un consiglierò
spesso prezioso, non come un’autorità assoluta, dovunque l’uso letterario
ondeggi o manchi del tutto 45 .
Se oggi possiamo trovarci consenzienti in questa formula di
conciliazione, dobbiamo tuttavia renderci conto dell’atteggiajnento
radicalmente diverso dei due maestri. Il Manzoni, che pure era così
alieno da ogni specie di attività politica, si era accinto all’impresa con
un preciso fine di politica culturale. Era giunto a porsi il problema sotto
la spmta delle proprie necessità artistiche, per crearsi un ling uaggio
che permettesse im «andamento naturale e scorrevole» fletterà al
Casanova); ma poi l’artista s’era fatto da parte, cedendo il posto al
cittadino, preoccupato di rimediare a un inconveniente di carattere
sociale. Già Dante, già il Varchi, già il Salvini avevano riconosciuto il
carattere sociale della lingua; ora il Manzoni addirittura propugna una
riforma di essa per giungere a un fine sociale e politico. Egli vuole che
gli Italiani «di tutte le classi» giungano in un avvenire non lontano a
possedere una lingua veramente comune; e pur di giungere a questo
altissimo bene civile non si preoccupa che non rientrino nel program-
ma le sue opere di poesia, come le tragedie e gli inni sacri 45 .
Prefazione alla ristampa di G. I. Ascoli, Il Proemio all'Archivio Glottologico
Città di Castello 1914, pp. 12 - 13 . ~
45 Nei colloqui col Tommaseo U857), il Manzoni aveva ben detto che voleva
che «la lingua della prosa fosse tutta del comune uso vivente», e «concedeva poi
alla poesia un linguaggio differente» ( Colloquii col Manzoni, cit., p. 52 ). E il
Criorgmi, nella Prefazione al primo volume del Novo Vocabolario (p. lvii), al Prati
il quale gli aveva dedicato il suo Armando scusandosi che
Il libro non è scritto in fiorentino
ché per ridomandar, nato in Italia,
la lingua a un’altra balia,
poco mi giova rivagir bambino,
rispondeva così: « La poesia è fuor_di questione. Per la poesia (meno i generi che
unitan la prosa) è un vantaggio avere una lingua in parte diversa da quella che
serve al commercio ordinario degli uomini».
620
Storia della lingua italiana
Se l’avere impostato la questione non più come problema letterario
ma come problema civile è altissimo merito del Manzoni, non si può
Ssconoscere che il rimedio da lui proposto era piuttosto artificioso.
Inoltre esso misconosceva l’importanza di quell’unificazione che (sia
urne in certi casi incompletamente o malamente) già si era venuta
facendo attraverso la lingua scritta. E non teneva conto di Quei casi
(sia pur non molti) nei quali tutta o quasi tutta 1 Italia era concorde
talvolta proprio per aver accolto una forma o un vocabolo fiorentino, e
soltantoSirenze era discorde perche, in età relativamente prossima
aveva innovato (è il caso di anello per ditale e, vanatis variandis, di
borio novo, per buono, nuovo).
D’altra parte la coscienza deh’ Ascoli era così rigorosamente stonca
che mal tollerava qualsiasi intervento normativo, «glottotecmco», che
in aualche modo mirasse ad accelerare la «selezione naturale».
Nel fermare l’attenzione sui due maggiori protagonisti della disputa
e sul più acuto dei mediatori, non abbiamo inteso negare I mportanza
delle discussioni condotte da numerosi altri studiosi, dal 1868 m poi .
Intervennero a favore del Manzoni, con vana competenza e vana
energia, oltre al Giorgini e al Broglio, il Buscaino Campo, il Morandi, il
Petrocchi, il De Amicis e alcuni altri; contro il Manzoni, o contro gli
abusi delia teoria manzoniana, il Fanfani, il Gelmetti, il Settembrini
rimbriani, lo Scarabelli, il Caix, lo Scarfoglio, il Dossi e, piu autorevole
deS Col secolo nuovo, le dispute sono ormai in gran parte placate. Nel
fatto, le differenze sono già molto minori; e ci si accorge che continuare
a discutere in astratto giova assai poco. . ,
Ma c’è un’altra questione che sempre si rinnova. Abbiamo già visto
(8 4 ) come il purismo del Cesari e del Puoti non avesse ormai piu
séguito nella nuova Italia unita. Tuttavia il turbinoso pullulare dei
francesismi e delle voci burocratiche la trascuratag^
stilistica che domina negli scritti pratici, e non solo m quelli, suscita
V1V pietto e Fmifani, parlando di Firenze capitale dice che essa “dopo il
trasporto è, per la più parte della gente nuova, poco di meglio che una
tana da fiere...: è degna di riso la lingua che vi si parla, o non certo
« Vedi l’elenco dato da G. Sforza, nell’Epistolario del Manzoni, II, pp. 350-353,
e i riassunti del Vivaldi, Le controversie intorno alla nostra lingua, 1 ed., II ,
paS « 'oltre al notissimo verso contro il «manzonismo degli stenterelli» («Davanti
San Guido» nelle Rime nuove: il Mazzoni e il Picciola giustamente ^terpretan
«lo stenterellismo dei manzoniani»), si ricordi specialmente la de le
MnsrhP cocchiere in cui immagina il «sognacelo d incubo» del ministro broglio,
fhe tveva ^tisto «nosUa madie Italia puntargli le ginocchia sullo stomaco
impugnava con 1W =*£0 ^ta quirito e
XXIV, PP. 161-162; Lettere, XIII. p. 125; e
v. § 17.
Mezzo secolo di unità nazionale
621
degna di scambiarsi co’ dialetti dell 'altre parti d’Italia» 49 . Brunone
Bianchi denuncia «il leppo ostrogotico tra cui siamo avvolti» (lettera al
Fanfani, 1867) 50 . Il Mamiani si lamenta: «...il quesito non versa sopra il
conoscere se v’abbia una lingua italiana, ma sopra il modo di salvarla,
tanto si va ogni dì sciupando ed infranciosando!» Qettera al Fanfani, 18
ottobre 1868) 5 '.
Il Tommaseo traccia sconsolatamente un quadro della lingua
contemporanea: «abbiamo un gergo composto di vocaboli e maniere
esotiche stranamente figurate, ricercate nella ineleganza, ridevoli a
chi ne conosce l’origine e gli sformamenti patiti passando a noi... Non
solamente negli uffizi pubblici e nelle scuole, nelle botteghe e nelle
officine, ne’ giornali e nelle assemblee, il contagio di questo gergo si va
diffondendo, ma penetra negli scritti più accuratamente studiati, nel
consorzio della vita domestica...» 52 .
E potremmo continuare a lungo citando lamenti di questo genere,
anche nei decenni successivi, e non solo da parte degli epigoni del
purismo (Arila, R. Fomaciari), ma anche da parte di scrittori di
formazione assai diversa (De Amicis, Martini, D’Annunzio, Fanzini...):
segno, da un lato, della gravità della crisi di crescenza che l’italiano
subì con l’allargarsi del suo uso a tante nuove cerehie; segno, d’altro
lato, del sempre rinascente culto per l’eleganza della parola e dello
stile, di contro all’affermarsi delle convenienze pratiche.
Com’è ovvio, le dispute della lingua spesso sono indissolubilmente
consertate con censure alla lingua individuale di singoli scrittori.
Quando i Promessi Sposi furono inclusi nel 1883 dalla Crusca fra i testi
da citare nel Vocabolario, il Tribolati trovò da ridire. Contro il De
Sanctis e i suoi «mondi» (il mondo intellettuale, il mondo morale e
simili) sono numerosi quelli che protestano (Fomaciari ed altri).
Avversano la lingua del Verga il Petrocchi, lo Scarfoglio, ecc. E tutti
ricordano le numerose critiche e parodie alla lingua e allo stile del
D’Annunzio, e la ribellione fra i letterati e il pubblico suscitata dai
futuristi.
9. Grammatici e lessicografi
Anche fra i grammatici, si sentono le risonanze della disputa
manzoniana: mentre il più ricco fra i manuali (quello di R. Fomaciari,
Grammatica italiana dell'uso moderno e Sintassi italiana dell’uso
moderno, Firenze 1881) si appella per lo più ad esempi di scrittori
classici, e qualche volta ad esempi più recenti (Manzoni, Giusti,
Tommaseo), le grammatiche dei manzoniani (Petrocchi, 1887; Morandi-
49 II Borghini, III, 1865, p. 764.
60 Cit. da P. Fanfani, Bibliobio grafia, p. 111.
51 Ivi, p. 118.
52 Aiuto all'unità della lingua. Saggio di modi..., Firenze 1874, p. i.
622 Storia della lingua italiana
Tramater a cura Bellini, pubbUcato a Tonno dalla casa
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r Rìcnitìni (fieura nel titolo anche il nome di P. Fanfani, cne p
di G. nigunni uiguia nei 1QQ o „n ncriva una nuova
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Mezzo secolo di unità nazionale
623
corrotta italianità di P. Fanfani e C. Arlia, Milano 1877 (poi intitolato
Lessico dell’infima e corrotta italianità nelle successive edizioni e
ristampe, ivi 1881, 1890, 1897, 1907) e I neologismi buoni e cattivi di G.
Rigutini, Roma 1886. Il Dizionario moderno di A. Panzini raccoglieva
fin dalla prima edizione (Milano 1905), insieme con molte voci abusive
condannate, numerose altre voci dialettali, tecniche, gergali non
registrate dai vocabolari; nelle successive edizioni (già cominciando
dalla seconda, Milano 1908) la severità del censore di lingua un poco
s’attenua, mentre vien prevalendo l’osservatore attento ed ironico del
costume.
Vanno ricordati i migliori tra i numerosi vocabolari speciali pubbli-
cati in questo periodo: quello di Canevazzi e Marconi ( Vocabolario di
agricoltura (Rocca S. Casciano 1871-1892) 53 , quello del Rezasco [Diziona-
rio del linguaggio italiano storico ed amministrativo, Firenze 1881),
quello del p. Guglielmotti ( Vocabolario marino e militare, Roma 1889),
tutti e tre impostati più o meno storicamente; si ebbero anche discrete
raccolte di termini di arti e mestieri (Gargiolli, Arila, Fanfani).
10. Rapporti con altre lingue
Benché la posizione del francese come lingua culturale intemazio-
nale sia in questo periodo un po’ diminuita per motivi politici e
commerciali e quella dell’inglese sia molto cresciuta, la cultura italiana
per la vicinanza, per gli stretti rapporti d’ogni genere, per la lunga
tradizione, per la maggiore affinità linguistica, è tuttora principalmen-
te rivolta verso la Francia: il francese è la prima lingua straniera che
obbligatoriamente s’impara nelle scuole, i giornali e le riviste attingono
largamente a quelli transalpini; i maggiori scrittori francesi circolano
nella lingua originale, mentre i romanzi più popolari si traducono,
magari parecchie volte; così anche si traducono manuali scientifici e
tecnici in abbondanza 54 .
Le liste non solo dei pranzi di gala, ma anche dei ristoranti di
qualche pretesa, sono spesso in francese 55 . E si potrebbero moltiplicare
gli esempi che dimostrerebbero come linguisticamente l’apertura verso
l’estero è limitata. per lo più, alla conoscenza del francese.
53 Esso è 1’unico risultato di ima Commissione istituita nel 1870 presso il
Ministero di agricoltura, industria e commercio per compilare un «Dizionario
italiano della lingua tecnica».
“ Non di rado le traduzioni erano fatte ad orecchio. Cito un solo esempio fra i
tanti: nella traduzione italiana del Dizionario veterinario di P. Cagny e H. S.
Gobert (I, Torino 1907) figura il lemma arnesi; e leggendolo si capisce che il
traduttore ha reso così (anziché con finimento il francese hamois.
55 Nel Demetrio Pianelli del De Marchi (1890), a un pranzo d’impiegati per
festeggiare un superiore, imo di essi «cercava di nascondere la faccia col
cartellino del menu, che egli leggeva per la quarta volta senza capir nulla di quel
francese stampato in oro...» (p. 321 dell’ed. Firenze 1910).
624
Storia della lingua italiana
Mezzo secolo di unità nazionale
625
Molto più ristretta è dunque, in confronto, la conoscenza dell’ingle-
se e del tedesco. Sanno l’inglese gli ufficiali di marina e cosi pure
l’aristocrazia che frequenta la numerosa colonia inglese di Firenze. I
professori di filosofia, di filologia, di storia, di economia, di medicina
ecc. si tengono al corrente delle pubblicazioni tedesche-, gli operai che
vanno in Svizzera o in Austria a lavorare alla costruzione di nuove
ferrovie imparano a masticare un po’ di tedesco; il turismo austriaco e
tedesco ha nell’Italia settentrionale alcune manifestazioni così vistose
da far sorgere lamentele sulla violata «italianità del Gardasee» (1909).
Delle altre lingue, come le slave o le scandinave, si contano, si può dire,
sulle dita i cultori.
Il moltiplicarsi delle relazioni tra nazione e nazione in numerosi cam-
pi della vita pratica e delle scienze applicate (poste, dogane, informazio-
ni meteorologiche, ecc.) porta a conguagli linguistici sempre maggiori,
talora addirittura con l’identità di qualche serie di termini (si pensi ai
nomi delle unità pratiche di elettricità, ampere, coulomb, farad, ohm,
volt, fissati definitivamente dai congressi intemazionali di elettrotecni-
ca di Parigi, 1881, e di Chicago, 1893), talora con precisi parallelismi.
Le condizioni della lingua nelle terre abitate da popolazioni italiane
fuori dei confini del Regno meriterebbero non un cenno ma un lungo
discorso. Malgrado l’alleanza politica tra l’Italia ufficiale e l’Austria-
Ungheria, la posizione della lingua italiana è insidiata dal tedesco nel
Trentino, dal tedesco e dallo slavo a Trieste e presso i nuclei italiani
dellTstria e della Dalmazia. L’aspirazione ad avere un’università
italiana a Trieste non arrivò mai a realizzarsi. Il linguaggio giudiziario
e burocratico (detto per irrisione dai Triestini austriacàn) è pieno di
voci 58 e costrutti arcaici e barbari 57 , e più ancora il linguaggio
pubblicitario 58 .
Meno sfavorevole è la situazione nel Canton Ticino, benché anche
là la pressione del tedesco si faccia sentire in alcuni campi 58 .
Nei paesi stranieri la conoscenza che si ha dell’italiano è in fase
decrescente; meglio che nell’Europa continentale, esso mantiene una
parte del suo antico prestigio nel Levante mediterraneo. Scuole
italiane si hanno in Tunisia, in Egitto, in Turchia. Può dare un tenue
indizio della vitalità dell’italiano il fatto che i francobolli austriaci per
gli uffici del Levante portano leggende in italiano nelle emissioni dal
1867 al 1886; in italiano è anche il testo dei francobolli egiziani del 1872-
58 P. es nostrificare, stabale («dello Stato maggiore»), urbano.
57 Ecco qualche frase di un editto di tribunale: «Si notifica che nel giorno...
avrà luogo il secondo esperimento d'incanto delle realità riportate nella part. tav.
... Si diffidano soltanto tutti i creditori ipotecari di insinuare le loro pretese fino
alla vendita di detta realità» (cit. da G. Caprin, «Lingua di confine», nella Lettura,
agosto 1909, p. 648). — -
58 Caprin, ivi.
58 V. le lettere di G. Martignoni e C. Salvioni nel Corriere della Sera, 1 e 3
febbraio 1909
75 (mentre più tardi esso sarà in francese, e poi in inglese). A Malta si
ebbero, specialmente fra il 1880 e il 1902, disposizioni contro l’uso
dell’italiano. Gli stanziamenti coloniali in Eritrea e poi in Somalia e in
Libia fanno si che presso gli indigeni maggiormente a contatto con i
nostri stanziamenti si formi un «italiano coloniale» 60 , mentre gli Italiani
imparano qualche vocabolo riferito alle cose e alle usanze dei luoghi.
La massiccia emigrazione italiana negli Stati Uniti porta alla
formazione di parlate ibride. Non sono parlate uniformi secondo i
luoghi, ma piuttosto secondo gruppi, perché, data la scarsa cultura
degli emigrati, essi sono giunti nella nuova terra conoscendo solo (o
quasi solo) i loro dialetti: e su questa base s’innestano numerosi
vocaboli inglesi (statunitensi), alterati secondo le abitudini fonetiche
dialettali. Dalla mancanza d’una comune base italiana nasce la
difficoltà di capirsi fra immigrati nello stesso luogo, cosicché essi
finiscono col preferire l’inglese per intendersi fra loro 61 .
In condizioni analoghe si sono trovati gli emigranti italiani negli
stati del Piata, nel Brasile ed altrove 62 .
Qualche aiuto alla difesa della lingua italiana fuori dei confini del
regno fu portato dall’attività della «Dante Alighieri» (fondata nel 1889).
11. Oscillazioni nell’uso
La scarsa compattezza dell’italiano, su cui ci siamo tante volte
intrattenuti, si manifesta ancora in moltissime forme. Ma qui non
vogliamo occuparci delle varianti lessicali del tipo scopa / granata,
80 Per es. in Eritrea (1892): Ma tu berché non dato a me bacscisc? Io venuto
senza tu chiamato; in Libia (1911-12): Arkù, comprare gallina ? («amico vuoi
comprare una gallina?»); Ma- fish! («no»), lu ma- flsh poder dormire molte bulci
(«pulci»). Io ghiamato te! (comun. di A. Menarmi).
Non come esempio di «italiano coloniale», ma come esempio di stile di
«proclama orale» citiamo il saluto indirizzato da F. Martini il 25 marzo 1907 alle
popolazioni eritree prima di lasciare la colonia: «Genti tutte di qua del Mareb e
fino al mare, udite: S. M. il Re d’Italia volle che fossi tra voi a governarvi in suo
nome, e per dieci anni ho ascoltato le vostre voci e nel nome del_Re ho giudicato,
ho premiato ed ho punito; e per dieci anni ho visitato i paesi del cristiano e del
mussulmano, al piano ed al monte; e nel nome del Re ho detto ai mercanti:
commerciate; ho detto agli agricoltori: coltivate, e la pace sia sempre con voi. E le
strade furono libere ai commerci e le messi furono sicure nei campi. Genti tutte
udite: S. M. il Re d’Italia sa che così la sua volontà fu fatta interamente, per la
grazia di Dio, e ha permesso che io ritorni e rimanga nella mia Patria. Do il saluto
dell’ addio al grande ed al piccolo, al ricco ed al povero. Che Dio aumenti i vostri
traffici e mantenga feconde le vostre terre; che Dio vi serbi in pace».
61 Meglio che in altri precedenti studi, si troverà illustrato il fenomeno in tutta
la sua complessità da A. Menarmi, Ai margini della lingua, Firenze 1947, pp. 144-
201 .
82 Ma sul loro linguaggio siamo meno precisamente informati, specie per le
fasi meno recenti (cfr. Menarmi, ivi, pp. 201-207, e per l’italo-rioplatense la serie di
articoli di G. Meo Zilio, in Lingua nostra, XVI-XVII, 1955-56).
626
Storia della lingua italiana
lesina / subbia, attaccapanni / cappellinaio: ci limiteremo ad accenna-
re ad alcuni doppioni in cui la differenza consisteva in piccole varietà
grafiche o morfologiche: doppioni che presentemente si adoperano
molto meno o hanno ceduto addirittura il campo a una forma unica.
Si hanno alternanze fra scempie e doppie in parole in cui la forma
latina lotta contro quella toscana: cammino «camino» (Collodi), catedra
(Ascoli), febrìle (D’Annunzio), obedire (Dossi), femina (Carducci, Praga,
Martini, D’Annunzio), publico, republicano (Panzini), ecc. Molto si
discute sulle forme Africa / Affrica-. Bianco Bianchi si proponeva di
scrivere un lavoro intitolato Africa per Affrica, ossia le più recenti
deturpazioni della lingua italiana 63 ; il Martini, fautore di Affrica, ne
scriveva al Carducci il 30 settembre 1891, e il Carducci rispondeva:
« Affrica , sempre, almeno in prosa. Altrimenti, francesismo » M . Invece a
difendere la grafia latineggiante esaggerare rimase solo Vittorio Im-
briani.
Si appoggiano al latino anche altre varianti: decembre (Carducci,
Martini), infirmità (Carducci), e la serie conscienza, conspetto, inspira-
zione, instituzione (Carducci, D'Annùnzio, Scarfoglio); palimpsesto al-
terna col più comune palinsesto e con palinsesto (Panzini); Minghetti
preferiva ozione e o tiare a opzione, optare, che poi prevalsero; eucalitto
è vinto da eucalipto-, ì’ Ascoli scriveva ossoleto-, il Carducci preferiva
Apocalipsi a Apocalissi-, su dactilografia (così ancora il Panzini nella l a
ed.) prevalse dattilografia.
Accanto al più comune sdrucire, si ha anche sdruscire. I Toscani
preferiscono polenda, bodola, arrenare, zittella a polenta, botola, arena-
re, zitella. Il Martini a una signora toscana che adoperava ospedale
invece ài spedale, domanda: «a proposito, perché scrive ospedale ?» (lett.
27 genn. 1899). L’analogico duecento guadagna terreno sul toscano
dugento. Colezione è usato qua e là accanto a colazione; sbucciare in
luogo di sbocciare-, zuccaro accanto a zucchero. Qualcuno scrive
viglietto per biglietto. Guarantire (Bonghi) e guarentire (Carducci)
prevalgono ancora su garantire. Il Petrocchi registra senza scegliere
binoccolo, binocolo, binoculo. Parecchi (Carducci, Martini, Fomaciari,
Fogazzaro, Panzini) adoperano ancora tuono nel senso in cui oggi
useremmo solo tono («un tuono quasi di tristezza»). Coltura e cultura si
adoperano indifferentemente 65 . Ufficio e ufficiale, auspice la burocra-
zia, vincono la battaglia sulle altre varianti ( officio , uffizio, ufizio-,
officiale, uffiziale, ufiziale). Invece è dovuta agli scienziati la prevalen-
In esso egli attribuiva l’introduzione della forma Africa a un giornalista, e
la datava al 1870 circa. Cfr. F. Sarri, «Carteggio inedito Ascoli- Bianchi», in Mem.
Acc. Lincei, s. 6 a , Vili, 1939, p. 173.
84 Sarà da dire piuttosto «latinismo comune alle lingue colte d Europa».
85 Ma il Fanfani (Muovo vocabolario de' sinonimi, Milano 1879 n. 415),
proponeva di limitare coltura «a quella de’ campi, de’ fiori» e cultura a «quella
metafisica dell’ingegno»; e più tardi la distinzione prevalse.
Mezzo secolo di unità nazional-
627
za di ghiacciaio su ghiacciaia come termine naturalistico dopo una
lunga esitazione tra le due forme.
Si oscilla molto anche in alcune voci di recente introduzione:
decentramento, dicentramento, discentramento; aeroplano stenta ad
attecchire di contro alla forma plebea areoplaho. Lo stesso accade non
di rado nell’adattamento dei forestierismi: si è incerti tra le forme
esotiche tourist (angl.) e touriste (frane.) e gli adattamenti turista e
torista ; per tramway si esita se accettare o no l’adattamento toscano
tranvai si oscilla tra vermut e vèrmut, vermùtte e vèrmutte.
Esitazioni si hanno anche nella scrittura di voci giustapposte: il
Carducci preferisce da vero, né meno, più tosto a davvero, nemmeno,
piuttosto, il Martini considera chissà uno «sproposito» Getterà a C.
Pigorini Beri, 27 giugno 1889).
12. Grafia
Nel paragrafo precedente abbiamo visto come si oscillasse nello
scrivere (e pronunziare) vocaboli singoli. Qualche cenno va dato anche
intorno ad alcuni criteri di applicazione dell’alfabeto e dei segni
ortografici.
La / è in forte regresso. La Crusca, che l’ha abolita sia all’iniziale
che all’interno di parola ( iattura , gennaio ), l’adopera invece nei plurali
dei nomi in -io [studi ), e un certo numero di studiosi (D’Ancona, Monaci)
la seguono. Altri invece si attengono a criteri diversi: G Mestica, per es.,
scrive gennajo, ma studii. Gli avversari della j non mancano di
attaccarla, anche con colpi mancini 67 ; qualcuno tuttavia la difende, non
senza buoni argomenti 68 ; ma in complesso anche quelli che ritengono
non ragionevole questa eliminazione accettano l’opinione dei più (così
appunto si esprime la Grammatica italiana di Morandi e Cappuccini) 69 .
Assai incerto è anche l’uso della i nei nessi ce - eie, ge -gie-, frequenti
sono i plurali come angoscie, roccie, scarpaccie e i derivati come
braccietto, passeggierò-, viceversa non è raro trovare effige, superfi.ee, e
plurali come camice. Non è ferma neanche la regola se la i vada
assorbita o no in forme verbali come consegniamo, sogniiìamo.
68 II Martini ottenne che la Camera dei deputati in una disposizione di legge
preferisse tranvai (febbr. 1892); ma il D’Ovidio (in un articolo del Giornale d’Italia
del 15 ottobre 1902, rist. in Opere, X, pp. 275-281) fece valere parecchi buoni
argomenti contro questa lettura indotta di ima voce straniera.
67 «L’uso dell’/' cominciò tanto o quanto colla venuta degli stranieri in Italia;
coll’ùscita degli stranieri pare che vada cessando» [Petrocchi, Dizion., s. v.).
68 V. per es. L. Gelmetti, Un ostracismo ingiusto nell’alfabeto italiano, Milano
1884.
69 II Malagoli, nell’eccellente volumetto sull’Ortoepia e ortografia italiana
moderna, 2“ ed., Milano 1912, pp. 26-27, è incline all’i, e solo si lagna della scarsa
coerenza di molti.
628
Stona della lingua italiana
Non valse a scuotere l’abitudine a favore déil’h in ho, hai, hanno
l’ennesimo tentativo fatto dal Petrocchi per abolirla.
Né viceversa, ebbe fortuna il tentativo pascoliano di ripristinare le
scrizióni etimologiche hchphthyae oe nei nomi propri greci e latini: le
Chariti, Phalaride, Myrmidoni, Xantho, Naevio, ecc. .
L’uso delle maiuscole e delle minuscole rimane oscillante in pochi
casi (i Torinesi o i torinesi ; il Reo il re-, quasi tutti ormai scrivono invece
febbraio ecc., primavera, ecc.). Ma nell’uso letterario assistiamo a due
ondate opposte: quella che porta ad abbondare nelle maiuscole, specie
con gli astratti, allo scopo di personificazione e di magnificazione
retorica: e qui il corifeo è D’Annunzio: la lenta ascensione del Giorno
(nel Piacere)-, l'apparizione della Bellezza consolatrice invocata dalla
Preghiera unanime (nel Fuoco); l’altra, antiretorica, che riduce a
minuscole persino i nomi propri (Guido Gozzano che vede sé stesso
come «quella cosa vivente - detta guidogozzano»).
Per gli accenti, malgrado le frequenti invocazioni ad accentare le
sdrucciole, tutte quante o almeno quelle dubbie 71 , e i tentativi in questo
senso che alcuni fecero (per es. il Dossi, che si appellava al Cattaneo)
non si giunse ad alcun risultato pratico. Accanto all’uso di gran lunga
più comune, che è quello di servirsi solo dell’accento grave nelle parole
tronche e in un certo numero di monosillabi, a scopo distintivo,
comincia a diffondersi l’uso di segnare la diversa pronunzia di e e o per
mezzo dell’accento acuto e di quello grave-, alcuni estendono 1 acuto
anche airi e all’u ( fini , virtù) 72 . ,,
L’uso dell’apostrofo presenta qualche incertezza non solo perché
talvolta con gli articoli si fa l’elisione, talvolta no (come vedremo piu
sotto), ma perché in alcuni casi vi è incertezza se si abbia troncamento
o elisione: alludo specialmente a tal è, qual era, 13 .
Per la divisione in sillabe, qualche grammatico e qualche pedagogi-
sta sostennero la tesi che le doppie consonanti dovessero essere
considerate ambedue come appartenenti alla seconda sillaba (a-tto-reì,
ma, giustamente, non trovarono seguaci.
Progetti teorici, più o meno accuratamente studiati, per riformare 1
punti più discutibili della grafia italiana, non mancarono mai. Un certo
G. B. nell’opuscolo Di alcune riforme dell'ortografia italiana, Milano
70 Anche il Carducci ha qualcuna di queste forme (Cycno Hermete, ecc.), molte
ne ha il D'Annunzio. L’esempio veniva, come ho accennato (Lingua contemp., pp.
141 - 142 ) i dai parnassiani francesi e dagli archeologi (cfr. p. 659). Anche più rare
sono le applicazioni di questo criterio all infuori dei nomi propn: per es. R.
Gaetani d'Aragona, Saggio di filosofia scientìfica (Pandynamismo), Tonno 1906.
71 V. per es. la voce «Accento» nel Dizionario moderno del Fanzini.
72 pj. a i più autorevoli, ricordiamo il Carducci e il Croce, il cui esempio ni
seguito da parecchi. Così il Malagoli nel citato volumetto Ortoepia e ortografia
italiana moderna (ma non più nel suo trattatello su L accentazione italiana
Firenze 1946, dov’è invece propugnata una regola assai pratica per 1 accentazione
generale delle sdrucciole).
73 Malagoli, op. cit., p. 164
Mezzo secolo di unità nazionale
629
1878, proponeva di adottare due e, due o, un segno speciale per se, ecc.
L. Gelmetti invece propugnava una Riforma ortografica con tre nuòvi
segni alfabètici per la buona pronunzia italiana, Milano 1886: i segni
sarebbero una; con la coda a destra per i plurali dei nomi in -io, una s e
una z tagliate per lesez sonore; egli vorrebbe inoltre che si segnassero
con l’accento grave le e e le o aperte; l’acuto si scriverebbe solo sulle
sdrucciole di dubbia pronunzia [émbrice). Maggiore interesse destarono
le riforme proposte da vari studiosi nel 1909 e negli anni successivi, che
condussero a fondare una «Società ortografica italiana» ed ebbero
larga eco nelle riviste: ma i due principali sistemi allora proposti,
quello del Goidanich e quello del Luciani 74 , che prevedevano parecchi
nuovi caratteri da aggiungere all’alfabeto, erano troppo macchinosi e
troppo poco europei per avere fortuna.
Per ciò che concerne l’interpunzione, va ricordato un vezzo carduc-
ciano che ebbe assai largo seguito: quello di sopprimere la virgola nelle
serie enumerative: «lil Leopardi! abituato a contemplare un esempio di
arte lucido eguale sereno», «Dante il Cavalcanti il cronista Giachetto
Malespini il padre del Petrarca e la maggior parte degli scrittori e
giureconsulti toscani d’allora» [Rime di Cino da Pistoia, Firenze 1862, p.
iv e x) 75 . L’impiego di una coppia di punti e virgole in luogo d’una
coppia di parentesi o di linee è raro, ma non isolato. L’adopera qualche
volta il Pascoli, l’adopera il Novati: «a Dante... pervenne un giorno;
correvano gli anni estremi della sua vita; un poetico carme» [Freschi e
minii del Dugento, Milano 1908, p. 3).
Qualcuno, trovando scarse le risorse dell’interpunzione tradiziona-
le, vorrebbe rimediarvi.
Per evitare la confusione tra i punti di sospensione voluti dall’auto-
re e i punti che indicano nelle citazioni le parole omesse, il Guasti si
serviva in questo secondo caso d’una serie di virgole.
Il Dossi si lagna che manchi un segno che indichi «un distacco tra
l’una e l’altra proposizione, minore di quello della vìrgola accoppiata al
punto, maggiore della sémplice vìrgola»; per es. nel passo «fra quelli
onesti legislatori, i quali, sostituita alla privata vendetta la pubblica;
non più potendo sfogar nei delitti la loro ferocia, cercavano legittimarla
nelle pene» adopera la dóppia virgola 79 .
Ma nessuna di queste proposte arrivò a modificare l’uso generale 77 .
74 P. G. Goidanich, Sul perfezionamento dell'ortografia nazionale, Modena
1910; L. Luciani, «Per la riforma ortografica», in Atti della Soc. Ital. per il progresso
delle Scienze, IV riunione, Napoli 1910; id., in Rivista pedagogica, 1910, pp. 893-942.
75 C’è chi ne ha fatto, nella propria scrittura individuale, una regola; chi
invece alterna le serie virgolate con quelle senza virgole: «Egli avrebbe voluto
che quel leggero verde... avesse gittato rami, foglie, virgulti, spine, viticci e fiori
fiori fiori rossi azzurri bianchi gialli, giocondi nuovi fiammeggianti innumerevoli»
(Ojetti, Il gioco dell’amore, 8“ ed., Milano 1910, p. 94).
79 L’esempio e la giustificazione che il Dossi ne dà provengono dalla «Nota
grammaticale» in appendice a La colonia felice (p. 176 della 4 a ed., Roma 1883).
77 II Bertoldi, lamentandosi (nella sua edizione delle Poesie liriche di A.
630
Storia della lingua italiana
13 Suoni
Il tentativo dei manzoniani di abolire il dittongo uo sostituendolo
dappertutto col monottongo (non nuovo ma novo) 78 incontra fortissime
resistènze, fra cui principale, come si è accennato, quella dell’ Ascoli, e
finisce con Tesser respinto nell’uso scritto generale, inclusi anche i
Fiorentini. Soltanto dopo palatale le forme con monottongo ( orciolo ,
fagiolo, figliolo, spagnolo, ecc.) guadagnano terreno, senza tuttavia
arrivare a soppiantare del tutto quelle con dittongo.
Quanto al dittongo mobile, le inosservanze sono numerosissime
( ruotare , infuocato, Carducci; rinnuoverebbe, Tabarrini; ruotolarsi, Dos-
si- giuocherei, cuoprivano. Martini; ricuoprirti, D Annunzio; c uopriva,
Nobili; scuoprite, Palazzeschi, ecc.) 79 . Se per l’alternanza fra o e uo il
rispetto è scarso, per e - ie il cedimento è ancora più grave-, anziché
presedere, con forme come presedeva (Imbriani), presedette (D’Ovidio),
ormai si ha un infinito presiedere con forme come presiedeva (Carducci,
in una recensione del 1869: Opere, XXVII, p. 161).
La regola dell’i prostetica davanti a s impura si fa meno rigorosa: il
Martini scrive per istrozzarlo, non Spregevole, ma nel Carducci si legge
in specie.
Il troncamento e l’elisione sono soggetti in piccola parte a regole
fisse, mentre molti casi sono facoltativi. I. manzoniani tentano, ma con
scarsi effetti, d’introdurre nell’uso scritto alcuni vezzi del parlato:
du'anni 80 essere nel su’ elemento, lo ’ngrassava. Gli articoli lo e la
davanti a vocale quasi sempre si apostrofano, ma in qualche caso si
hanno le forme intere, quasi per indicare una pronunzia lenta e
scandita: lo antropofago, lo Allagherio (Imbriani), «il Poliziano alle
storie de’ due Testamenti e alle leggende ha sostituito la -egloga»
(Carducci, Opere, XII, p. 226); «consentirvi con la immaginazione»,
«lucevano sulla umida gradinata della villa» (Fogazzaro, Piccolo
mondo moderno, cap. II). Davanti a i si apostrofa spesso gli [gl ingegni ),
e davanti a e è frequente l’elisione di le (I ’erbeì.
II troncamenti in sequenza sintattica sono un po’ in declino nella
Manzoni, p. 160) che manchi una pausa minore della virgola, pur si decide a
scrivere con la virgola il verso manzoniano: «Tal della mesta, immobile...».
78 II Broglio per es., fa che Federico Guglielmo parli di un omo per bene nella
sua Vita di Federico il Grande; il Giorgini-Broglio e il Petrocchi danno l’assoluta
prevalenza alle forme con o. Si ricordi l’apprezzamento di Marina sul racconto
Un sogno di Corrado Siila (Fogazzaro, Malombra, I, cap. v): «che vi si dicesse
borio e bona invece di quel buono e buona che bastano a rivelare un povero
ingegno, un uomo vergognosamente sfornito di dottrina filologica e di gusto»: si
sente che il Fogazzaro ironeggia.
™ Rimproverato da G. Mazzoni, il Martini gli rispondeva (lettera 1 maggio
1895): «Il cuoprivano era uno sproposito ch’io ricommetterò domani, perché in
questa faccenda dell’accento io non sono mai (inorridisca) arrivato a capir nulla»
( Lettere , p. 299). , , , _
80 Du’ anni anche in traduzioni di tono popolaresco nel Fior da fiore
pascoliano, pp. 63 e 86.
Mezzo secolo di unità nazionale
631
lìngua comune, ma vivissimi ancora nella prosa sostenuta Ua tradizion
familiare, quella istintiva esaltazion sessuale, l’azion dell’acido : D’An-
nunzio, Il Piacere ) e in poesia.
L’accento 81 è molto importante, anche socialmente, tanto che lo
sbagliare gli accenti è considerato un segno di poca cultura 82 . Ma in
molte parole rare sono ammesse due diverse accentazioni: acònito
(D’Annunzio) e aconito (Carducci), adamantino (D’Annunzio) e ada-
màntino (Carducci), crisòlito e crisolito (D’Annunzio), diritto e dìruto
(CarduccD, esile (Corradino) ed èsile (passim), ecc. Chèrubo (Boito, 1863-,
Dante aveva usato Cherùbiì è dovuto al contraccento di Cherubino.
Arbitrario è incubi (Praga) e così pure Leonida, che era il modo di
pronunziare di Garibaldi 83 . Macabro, che il Malagoli registra come
prevalentemente piano 84 , tende a ritrarre l’accento secondo l’esempio
di càlabro, cèlebre, fùnebre, lùgubre M . Il plurale microbi, che si sarebbe
dovuto leggere micròbici J 86 , fu spesso letto mìcrobi, e se ne cavò un
singolare mìcrobo 87 . I repertori (Fanfani, Petrocchi, Malagoli) registra-
no come prevalente la pronunzia scòrbùto, benché essa non abbia
alcuna giustificazione. Cinema entra dal francese e per alcuni anni
Taccento oscilla fra cinema, cinèma e cinemà (poi finirà col trionfare
cinema ).
14. Forme
Cominciamo con qualche noterella per quel che concerne il sostan-
tivo e l’aggettivo.
Per i plurali, abbiamo già accennato alle oscillazioni grafiche dei
nomi in -eia, -già. Qualche spostamento si ha nei plurali dei nomi in -co
e -go, e per lo più a vantaggio delle forme in palatale nei nomi
sdruccioli: appare traffici accanto al tradizionale traffichi, parroci
guadagna terreno, e così pure stomaci; qualcuno scrive stroscici
(Rajna). Notiamo anche, in parole piane: lombrici (Rapisardi), aprici,
pudici (Carducci, in verso). Continua ad apparire, come plurale di
capello, la forma capegli, sia nella lingua popolare (Petrocchi) che in
81 V. specialmente G. Malagoli, Teorica e pratica dell'accento tonico nelle
parole italiane, Firenze 1899.
82 Di un personaggio di Leila, Massimo, il Fogazzaro dice che «una volta gli
era bastato, per guarire dell’amore di ima signorina, che ella dicesse polline in
luogo di pòlline».
63 Lo sappiamo da A. G. Barrili, Elogio funebre di Garibaldi, Genova 1882.
84 «Urlo il canto anatomico e macabro»: Boito, «A Giovanni Camerana» (1865).
86 Accanto a delubro (Zanella, Carducci, Panzacchi, D’Annunzio) qualcuno ha
dèlubro (D’Annunzio nel Primo vere ; Cavallotto. C’è chi adopera l’erroneo sàlubre
(per es. C. Nigra).
88 «Porta in giro ciascuno dei globi - ... le glorie de’ suoi microbi» (Orsini, Fra
Terra ed astri, 1903).
87 D’Ovidio, in Fanfulla della domenica, 8 gennaio 1888 (rist. in Opere, X, pp.
259-260).
632
Storia della lingua italiana
quella letteraria (Barrili). Tra i plurali dei maschili in -a, si estende,
malgrado le proteste dei grammàtici, l’uso di considerarli invariabili: 1
Belga, i comma, ecc. 88 . . , „
Le forme del plurale di bello e quello seguono ormai le forme
corrispondenti dell’articolo: solo persistono con una certa abbondanza
le forme belli, quelli anche davanti a vocale, s impura ozli belli ocelli
parlanti: Fogazzaro, Picc. mondo mod., c. VI; quelli uomini che sanno
un po’ di tutto-. Martini, La Marchesa ).
Quanto all’articolo, il e lo (e così un e uno) hanno ormai ima
distribuzione fissa, salvo qualche lieve oscillazione: lo davanti a
consonante suona meridionale o arcaico («il fato - che lo tuo re Si^°
segna in terra e in mare» dice una fata nella «Ninna nanna di Carlo »
delle Rime Nuove)™; non è raro l’impiego di il davanti a z ( unzmzmil
Zanella, il Zanardelli, Carducci; dal Zambrini, Carducci, Op., XII , p. 42,
ma lo Zambrini, ivi, p. 54; il zenith ma lo zibaldone, Balossardi-, il zulu,
D’Ovidio; un zuccherino, Fogazzaro; dal zeffiretto, Corradino; i zefin,
“Capuana* ecc.) 90 ; davanti a ps si usa ancora spesso il, un (il psicologi-
smo-. Carducci, Op., XII, p. 138), benché lo, uno leggermente prevalgano,
e i pochi grammatici che ne parlano consiglino lo, uno-, si oscilla, come
del resto ancor oggi, davanti a j (£ semivocale) e davanti ai nomi
stranieri con h. .
Qualche esitazione maggiore presenta il plurale, perche non e
ancora scomparsa, quantunque sia diventata ormai rara, la forma il.
Qualcuno l'adopera davanti a vocale (li ordini, li occhi : Martini, La
marchesa; li oc chiacci: Verga; li emuli, li alti fieni: D Annunzio; li
umani, de li umili: De Bosis-, li organi: S. Corazzimi, davanti a s impura
Hi spagnoli, li spiriti, li scritti: Carducci; detti scrittori, dalli spogli degli
scrittori: Tabarrini; delli sciami: De Bosis; «la procellaria - eh ama li
scogli »: Pascoli). Quasi nessuna grammatica ne parla: solo Morandi e
Cappuccini giudicano che li «è oramai, nella prosa, una spiacevole
affettazione». Per la spartizione di i e gli abbiamo come per il e lo
qualche esempio aberrante (dai sguardi: Cossa; a zefin: Rapisardr, i
zamponi, coi zoccoli-. Panzini; i gnocchi-. Panzini).
Riguardo alle preposizioni articolate, notiamo anzitutto qualche
sporadica persistenza di per lo in prosa («mi si aggirava la lezione per
lo capo »: De Sanctis, Giovinezza, c. XVI; per lo passato-. Martini; per lo
contrario) e in versi («Per lo nitido ciel l’ardua montagna»; Rapisardi,
Ottobre).
88 Migliorini, Saggi linguistici, pp. 105-106.
89 Nell’italiano dell’Emilia si ha qualche volta io suocero (dovuto alla pronun-
zia quasi consonantica della u). . , _. , * ,-i
90 Strano uno sigaro, che si legge nella Partita a scacchi del Giacosa («E
fumo di uno sigaro, è un’ombra, è tutto, è nulla»; già nella stampa ongmale della
NUova Antologia, marzo 1872, p. 614) e nella Disfatta dell Gnarn («Il giovane dei
macellaio gli chiese uno sigaro», in Pancrazi, Racconti e novelle dell Ottocento, p.
742): si deve trattare di un resto della pronunzia uno zigaro.
Mezzo secolo di unità nazionale
633
Nella lunga lotta tra le forme unite e quelle staccate (dello - de lo,
alla - a la, ecc.) quelle unite in complesso prevalgono, benché il
Carducci e il D’Annunzio propendano (specie in poesia) per le forme
staccate, e non manchino di seguaci. Fortuna un po’ maggiore
incontrano le forme staccate di su (su la), e cominciano a esser sentite
come arcaiche petto, pella, collo, cotta. Rarissime le forme unite di tra
(trai: Martini; tra’l: Pratesi).
Le forme a’ co’ de’ pe’ su’ sono raccomandate specialmente davanti
a parole con altri gruppi con i (de’ miei, co’ suoi), ma v’è chi ci sente un
«certo artificio d’imitazione toscana» (Panzini, Diz. mod., s. v. qui, qua).
Quanto ai pronomi, notiamo anzitutto che ei, eglino, elleno si sono
fatti molto rari; ma ei è caro al Verga: «E£ non ci pativa» (Jeli); «ei si
pigliava le busse senza protestare» (Rosso Malpelo); e quando il
Martini scrive (Di palo in frasca) « ci è noto il nome dei vostri maggiori
parlamentari, ci son note le opinioni ch’eglino professano» o « elleno
tutte pigliavano sul serio i romanzi di Paolo Perret o di Ettore Malot»,
la solennità confina con l’ironia. Ella e Lei alternano come pronomi
allocutivi con largo margine di scelta: una volta il Carducci si adira
contro chi gli scrive «manzonianamente, Lei» (Opere, XXIV, p. 394),
un’altra volta il Martini scrivendo al Fanfani aggiunge tra parentesi a
un Lei allocutivo: «(dovrei dire Ella ? non mi ci va)» (Lettere, p. 49) 01 .
I pronomi soggetti pleonastici, personali o impersonali, frequenti
nell’uso toscano, sono accolti volentieri dai toscaneggianti (oltre al più
comune «gii è quel che avviene»: Betteioni, si ha anche: «e’ fu in piazza
di S. Caterina»: Betteioni; «la verità... la può esser crudele ad udirsi»;
Martini; «le si vedevano spesso»; Martini; «ie son baie»; Carducci); ma
anche un manzoniano come il Morandi ritiene che solo «qualche rara
volta possono accogliersi e usarsi lodevolmente» (Morandi-Cappuccini,
Gramm. it., § 374). Un po’ più letterario è egli come soggetto pleonasti-
co: «Egli è dunque inutile fare indagini» (Martini), «Egli è come se
qualche cosa di superiore spirasse un alito di pace» (Gabelli); «Egli fu
un istante che io avrei voluto risparmiarlo» (Barrili), ecc.
«Gli per le è comune nell’uso toscano e nell’italiano di molte regioni
(«oso pregare la signora Sansoni a fare ciò che gli sia meglio possibile.
Io le scriverò quando vegga che sia il caso...»: Carducci, Lett., XIX, p.
133; «come una gatta che gli si vogliano rubare i figliuoli»; Verga,
Mastro don Gesualdo, p. 378); ma per lo più i grammatici non ne
vogliono sapere: per es. il Fanfani (La Unità della lingua, I, 1869, p. 13),
pur riconoscendo che l’uso ammette gli e li, non vuol accettare questa
«sgrammaticatura»; invece il Carducci, in ima lettera al Tribolati del
1871, difende apertamente gli (Op., XVII pp 53-54)“.
91 Si ricordino le esitazioni di Scrupolino nell’Idioma gentile del De Amicis, p.
209 .
“ Il pronome congiunto gliene vale di solito sia per il maschile sia per il
femminile: ma c’è chi per il fe mminil e preferisce le ne U E s’ella vuol permettermi
di dartene ima prova»: Martini, Chi sa il gioco non l’insegni, se. 13, «Le ne disse il
634 Storia della lingua italiana
Anch’esso corrente in toscano, e respinto, seppur meno acremente,
dai grammatici, è gli per «loro».
Diffusissimo nell’italiano di varie regioni, ma rigorosamente pro-
scritto dai grammatici, è il tipo io ci dico per «gli dico» o «le dico» o
«dico loro» 93 .
È ormai piuttosto raro ne nel senso di «ci»: sia in poesia («Eccoti il
re, Signore, - che ne disperse, il re che ne percosse»: Carducci,
«Piemonte»; «Ma perché mai ne piacque - vivere di desio?»: G. A.
Costanzo, «Il canto e l’addio»; «pensate all’ombra del destino ignoto -
che ne circonda»: Pascoli, «I due fanciulli»); sia in prosa (V. Imbriani,
nel titolo del romanzo Dio ne scampi dagli Orsenigo-, «Siamo grati
all’Inghilterra di ciò ch’ella ne diede»: Graf, Anglomania, p. 427).
Venendo a esaminare qualche forma verbale, vediamo anzitutto la
voga data dai manzoniani 94 al tipo noi si dice per noi diciamo. Tali
forme, adoperate in qualche libro a tutto spiano, spiacquero ai non
Toscani (si ricordino le severe parole dell’Ascoli nel Proemio dell’Archi-
vio glottol.) ed ai Toscani stessi («il si fece, il si disse... posto per regola
costante, equivalgono all’andar fuori in maniche di camicia, e senza
lavarsi il viso»: Fanfani, Bibliobiogr., p. 213 n.). Anche in séguito quel
costrutto si adoperò qualche volta per esprimere un tono familiare
(«Anche a quei tempi noi s’avea paura»: Pascoli, «I due orfani»).
Alla prima persona dell’imperfetto, la forma in -o vien guadagnando
terreno, ma non tanto che quella in -a cada del tutto in disuso.
Troviamo molti che adoperano le due forme indifferentemente, cioè
senza alcuna differenza stilistica, a poche pagine di distanza o
addirittura nello stesso periodo: «Ebbi una volta un pendolo a cucù... - e
lo tenevo in camera... Io, ripigliato sonno, ancora voi, - miei colli
rivedeva » (Carducci, «Intermezzo», 3); «Io gustava l’arcana, indefinita, -
voluttà della vita», «Ed io t'amavo ed io ti son caduto - pregando
innanzi» (Stecchetti, Postuma, XV, lx); «tormentato dal desiderio di
dirle che le voleva bene...», «Pensavo se dovevo farti una domanda»
(Martini, Lo Marchesa ); «io, io era il tuo naturai marito», «Prima ero in
educandato» CP. Ferrari, Cause ed effetti, I, se. 6); «nelle ore del riposo
mangiava quel po’ di pane in bottega e disegnavo alcuno dei gessi»
(Dupré, Ricordi autobiografici, p. 14); «Ed intanto io pensava, e... E quel
vasto campo che un istante prima mi parlava di morte, lo vedevo ora
popolato...» (Fucini, Veglie di Neri, p. 5); «Perché ero malata,... avevo una
malattia al cuore... e non potevo servire» (Serao, Suor Giovanna della
Croce, p. 351); «solo solo come era...», «io non avevo ancora bevuto...»,
«io capitavo a Superga» (Panzini, La lanterna di Diogene, p. 17, 18, 19).
perché»: Fogazzaro, Daniele Cortis, p. 364).
93 V. lo scambio di versi scherzosi fra il p. Mauro Ricci e il Fanfani nella
Bibliobiogr., pp. 263-265.
94 Al di là di quel che aveva fatto il Manzoni nella revisione dei Promessi
Sposi, che «del costrutto toscano noi si fa per noi facciamo e sim., così scusso
scusso, non fece mai uso» (D’Ovidio, Correzioni, p. 85).
Mezzo secolo di unità nazionale 635
Forme come èramo alla l a persona plurale, eri alla 2 a pers. plur. sono
adoperate solo da qualche scrittore che ostenta il toscano f amili are
(per es. il Gradi, nella traduzione delle commedie di Terenzio) 95 .
Per il passato remoto, forme forti come conobbimo, rimasimo,
suonano come dialettali e pochissimi le adoperano (per es. Verga, La
peccatrice ). Le forme in -etti, -ette della 2 a e 3 a coniugazione sono meno
cornimi di quelle in -et -é. II Carducci adopera anche, in prosa e in
poesia, stiè per stette.
Al congiuntivo, le seconde persone che tu sii, che tu abbi, che tufacei
al presente, che voi fossi all’imperfetto sono solo del toscano familiare,
e di qualche toscaneggiante.
Al condizionale, le forme in -io diventano rare ormai anche nel
verso, eccezionali in prosa («le chiese stupende ove saria dolce
credendo, pregare»: Carducci, 1888, in Op., XXV, p. 300). Le forme di l a
plur. in -assimo, -essimo, -issimo sono considerate scorrette, ma ancora
sopravvivono nel linguaggio semicolto dellTtalia settentrionale («Sen
za di questo, chi sa cosa saressimo noi!... cosa avressimo ora 9 »- Verdi
lettera 12 febbraio 1878).
All’imperativo, le forme fa, va, da, sta tendono ad essere sostituite, e
non solo in toscano, da quelle (originariamente indicative) fai, vai, dai
stai e dalle corrispondenti apocopate fa’, va’, ecc.
Nell’uso degli ausiliari con i verbi modali, il costrutto ho potuto
andare sta acquistando terreno rispetto a quello tradizionale sono
potuto andare Q’adopera non di rado il D’Annunzio).
Con i verbi riflessivi propri od impropri troviamo ancora non di
rado avere-, «la sola meraviglia fu che non s’avesse mangiato Salandra»
(Verdinois, Profili ); «come non ci avessimo mai conosciuto» (Pirandello,
Il fu Mattia Pascal, c. XVIII); «non ricordava d’aversi mai tagliato le
unghie» (Deledda, Colombi e sparvieri, p. 159).
Nella lingua poetica, la tradizione mantiene ancora, in numero
sempre più ristretto, alcune delle forme verbali della poesia tradiziona-
le: dee, ponno, vedea, fìnia, vanio «svanì», avria, ecc.
Quanto alle parole invariabili, mentre le varianti eufoniche ad, ed,
od sussistono 99 , ned è rarissimo («ned è necessario»; Ascoli, Arch. glott.
it., I, P- xvi).
95 O nel verso, come «licenza poetica»; «In un avel calati eram per gioco»
(Tarchetti, «Sognai...»); «Di là del bugigattolo d’ingresso - perfettamente vuoti,
eram passati» (Riccardi di Lantosca).
06 Ma il Broglio osserva al Rìgutini che «il popolo toscano, propriamente, non
direbbe od invecchiare » (Pref. al III voi. del Giorgini-Broglio, p. xxxvii).
636
Stona della lingua italiana
15. Costrutti
Anche nella sintassi non è difficile notare, accanto allo sparire o al
rarefarsi di certi usi tradizionali, qualche influenza dialettale, la
presenza del francese, la spinta del linguaggio burocratico.
Tra i vari tipi di sostantivi uniti senza preposizioni, si moltiplicano
le sequenze ellittiche del tipo cassa pensioni, dazio consumo, tassa
bestiame, banco lotto, scalo merci, massa rancio, nate in campo
amministrativo e invano combattute dai puristi. Meno aliene dalla
tradizione sono le coppie il cui secondo elemento è un nome proprio
( piazza San Marco), a cui si ricollegano costrutti come il ministero
Giolitti, e anche gli scandali Dessalle, le finanze Salvador, il mondo
Scremin (Fogazzaro); non attecchì invece il tipo il monumento Cavour
(Dupré, Ricordi autobiografici, passim), che ebbe fortuna in Francia. Le
coppie appositive tradizionali (il Conte duca, la serva padrona), ebbero
anch’esse notevole incremento (coperchio-sedile-. Dossi, ecc.) 97 .
Sembra dovuto a influenza francese (benché non ne manchino
esempi negli scrittori cinquecenteschi) il partitivo espresso con di
davanti ad aggettivo seguito da sostantivo: «vendeva di piccole
focacce che non potevano uccidere ima donna» (Scarfoglio, Il processo
di Frine), «gli procuravano anche di solenni scapaccioni» (De Roberto, I
Viceré), «Papà tuo passa di ben tristi giornate» (Martini, lett. 28 luglio
1914). * „ J .
Tra le molte osservazioni che si potrebbero fare sull uso dei tempi,
citiamo solo un tipico esempio di passato remoto esemplato sul
siciliano: «Mastro Cola cadde gridando: - Mamma mia! va' ammazzaro-
no-» (Verga, ^Novelle rusticane).
Nella sintassi del periodo, notiamo certi casi in cui si ha l’indicativo
in luogo del congiuntivo, per influenza dialettale: «Il popolo credeva
che il suo gran nemico era il Governo» (Settembrini, Ricordanze, I, p.
113), «Aspettano che suonate mezzogiorno» (Verga, Mastro don Gesual-
do, p. 144). Invece l’Ascoli adoperava spesso il congiuntivo in proposi-
zioni dipendenti di affermazione limitata, in cui comunemente si
sarebbe adoperato piuttosto l’indicativo presente o futuro: «Quanto poi
sia conseguito per questa seconda via, se da un lato riconferma^ la
normalità... della continuazione fonetica, è chiaro che stremi dall’al-
tro... il campo...» (Arch. glott. it., X, p. 83), «lo Scaramuzza... tocca di certi
rioni della sua Grado in cui perduri abbastanza nitida la vecchia
parlata» (ivi, XIV, p. 335); «l’impressione che su voi produca questa mia
cosa» Getterà a Bianco Bianchi, 29 nov. 1886) 98 .
97 Migliorini, Saggi Novecento, p. 127 (e bibl. ivi citata).
08 È interessante notare come i glottologi dell’ultimo Ottocento talora seguo-
no il vezzo del Maestro: «È il solo caso in tutta la declinazione, in cui paja
d’avvertire un influsso dell’-i» (Pieri, Arch. glott. it., XIII, p. 323); «v è il filtro del
gusto e del criterio nazionale attraverso di cui la vena fiorentina si purifichi »
CD’Ovidio, Correzioni, pp. 175-176).
Mezzo secolo di unità nazionale
637
Nelle reggenze degli infiniti dipendenti si hanno alcune oscillazioni,
dovute spesso a influenze dialettali: «mi piaceva a vederlo sorridere»
(Neera, Anima sola), «ho visto il barone a confabulare» (Verga, Mastro
don Gesualdo, p. 87), «De Zerbi, del quale aveva inteso tanto a parlare»
(Verdinois, Profili, p. 211 Le Monnier), «A Modena un tabaccaio si
offerse ad incollarmi egli stesso i bolli» (Panzini, La lanterna di
Diogene, p. 30).
Qualche rara volta si ha ancora rinfinito accompagnato da con
senza articolo;, «gli altri tre finirono con parlar di lei» (Fogazzaro,
Piccolo mondo ant.), «chiuse gli arruffati ragionamenti con pregare il
genero» (Fogazzaro, Piccolo mondo mod.), «mi aiutino essi con sugge
ritmi...» (Pascoli, nota alla 2 a ed. di Fior da fiore).
Il gerundio è non di rado riferito ad altri membri della proposizione
che non al soggetto: «Al far del giorno io avevo davanti a me, in
ginocchio, un soldato nemico di cavalleria, chiedendo mi la vita»
(Garibaldi, Memorie, p. 281), «Rosaria... vide la padrona in uno stato
spaventevole, frugando nei cassetti e negli armadi» (Verga, Mastro don
Gesualdo, p. 292); «Lodovico scorse Giovanni e Maria in piedi ciarlando
affabilmente» (Ojetti, Il gioco dell’amore, p. 185).
Per ciò che concerne l’ordine delle parole, è da notare il regresso
dell’enclisi. Sentiamo quel che dice il Pascoli annotando un brano di
Filippo Pananti:
Una delle particolarità, e forse più spiccata, per cui lo scrivere accademico,
pretensioso, affettato si distingue dal nativo e svelto e moderno (diciamo
Manzoniano) è l’appiccare le enclitiche alle forme di verbo le quali non le
comportano. Le forme di verbo che prendono dopo sé tali pronomi e particelle
atone sono l’imperativo (seconda persona), il gerundio, il participio e l’infinito:
ditegli, dicendomi, dicentemi e dettogli, dirti. Le altre no: le hanno avanti: gli dico,
gli dica, gli direi ".
Ciò non vuol dire che non si abbiano ancora numerosi casi di
enclisi, e non solo in formule fisse (Appigionasi; come volevasi dimostra-
re). Parecchi ne ha il Dossi: «tutti si rimbarcarono e distaccaronsi dalla
riva» (Colonia felice, p. 36), « rincamminossi per le orme segnate il dì
prima» (ivi, 78 e passim); parecchi il Verga: «il grosso pilastro rosso,
sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco» (Rosso
Malpelo), «Stava zitto, non lagnavasi perché non era un minchione»
(Mastro don Ges., p. 321). Ma che si tratti di un costrutto che tende a
diventar stantio, si vede dall’uso stilistico che ne fa il Faldella, in una
sua umoristica descrizione d’una seduta in Arcadia: «Si approssimò
qualche poco al mio concetto di Arcadia un vecchietto lindo e ben
imbottito d’eleganza, o meglio approssimossi la sua tosse» («In Arca-
dia», nel voi. Roma borghese, Roma 1882).
Qualche traccia d’una tendenza a mettere il soggetto all’inizio della
Pascoli Fior da fiore, p. 134 n.
638
Storia della lingua italiana
frase anche dove non s’aspetterebbe («Una dolcezza ci allacciava che
non èra di questo mondo»: Neera, Anima sola, p. 138), sara dovuta
all’esempio francese. , _ . ,
In deciso regresso sono i periodi con il verbo m fine: «viene quel
giorno in cui (quei volumi! permettono ad imo di fare una indagine che
altrimenti far non potrebbe» (Q. Sella, discorso alla Camera, marzo
1881)
Le scelte fra periodi lunghi e periodi brevi (si pensi per citare un
solo esempio, alle serie di proposizioni brevissime cosi frequenti nella
Storia della letteratura italiana del De Sanctis), fra periodi piuttosto
paratattici o piuttosto ipotattici, le novità nella tecnica del dialogo ,
ecc. vanno naturalmente studiate in relazione con ì singoli autori.
16. Consistenza del lessico
Cominciamo col dare qualche esempio dei vocaboli che entrano in
questo periodo nei vari campi del lessico. Alla concezione positivistica
ed evoluzionistica predominante negli ultimi decenni dell Ottocento si
ricollegano i molti derivati di evoluzione allora coniati: oltre a evoluzio-
nista e evoluzionistico, si hanno evoluzionario, evolubilita ecc. una non
ancora evolversi). Si oscilla fra selezione naturale ed elezione-, il
Tommaseo biasimava selezione 101 ; G. Canestrini, traduttore di Darwin,
non osava sanzionare il neologismo e preferiva tradurre Sulla origine
delle specie per elezione naturale, Torino 1875; non ne aveva paura
invece l’ Ascoli, che parlava della selezione naturale nelle lingue (Arch.
glott. it., I, p. xviii). Moltissimi parlano anche metaforicamente di
darwinismo (o darvinismo ) e di lotta per la v ita.
Ambiente, che prima era solo termine fisico e biologico, per
influenza delle concezioni del Taine, viene a significare anche le
circostanze sociali (come il francese milieu) 102 . Anche trasformismo fu in
origine un ter min e evoluzionistico (coniato dall’antropologo francese
Broca nel 1867 riferendosi alle teorie di Lamarck): dopo il discorso di
Depretis dell’8 ottobre 1882 (il quale parlava di trasformazione), passò a
indicare quell’abolizione di nette frontiere tra i partiti che caratterizzò
.00 È stato specialmente studiato il «dialogo interiore » o «stile indiretto
libero» del Verga (con riferimento al noto libro di M. Lips, Le style mdirect libre,
Pariizi 1926- ma già lo Scarfoglio, nel Libro di Don Chisciotte, Roma 1885 , aveva
notato '«k^'strano abuso del dialogo indiretto,! ctr. V. Lugli, .Lo otite tadirat.o
libero in Flaubert e Verga», in Mem. Acc. Ist. Bologna, Cl. se. mor., s. 4 voi. V, 1942
SfcSt in Dante e Balzai Napoli 1952 pp 221-239), G
in due capitoli dei Malavoglia», m Boll. Centro St. fil. Img. Sic., Il, I9j>4 pp
I Frangeà, «Su un aspetto dello stile di G. Verga», m Studia Rom. Zagr., I, 2, 1956,
PP ' ioi 4 jsjel suo opuscolo L’uomo e la scimmia, Milano 1869, p. 31, e più acremente
nel Dizionario, come «voce con cui gli scienziati della bestialità e del pantano, per
negare la libertà umana, la affermano consentendola a tutte le cose».
102 Migliorini, Saggi linguistici, pp. 242-261.
Mezzo secolo di unità nazionale
639
la politica di quegli anni: « Trasformismo , brutta parola a cosa più
brutta», lo giudicava il Carducci 103 .
Innumerevoli altre ve i nascono dalla politica nei vari suoi aspetti. I
primi anni dell’unità fanno sorgere proteste contro i piemontisti o
piemontesisti, e quelli che vogliono Um)piemontizzare l’Italia. Chi è
autoritario, intransigente, forcaiolo, chi libertario. Vi sono triplicisti e
antitriplicisti, per lo più a cagione dell’irredentismo. Si parla dei
comunardi e poi dei dreyfusisti o dreyfusardi, riferendosi alle condizioni
francesi; invece blocco (col derivato bloccardo) viene presto anche
riferito, oltre che alla politica francese, a quella italiana. Lo stesso si
può dire di boicottare (anzi dapprincipio, boycottare), che è considerato
alla sua apparizione come neologismo inglese 104 , ma è poi subito
accolto anche in italiano. Si crea il nuovo titolo di sottosegretario (di
Stato).
Frequentissime sono pure le locuzioni politiche: la questione meri-
dionale, la capitale morale (cioè Milano: espressione attribuita a R.
Bonghi), il momento psicologico (dovuto a Bismarck), le zone grigie (con
cui Crispi indicò i paesi di confine di nazionalità mista), e via via fino al
sacro egoismo (da un discorso di A. Salandra).
Le guerre africane portano alla conoscenza di persone, cose, usanze
di quei luoghi: negus, ras, ascari, ecc.; nascono allora anche guerrafon-
daio e retrovie. Con la guerra di Libia si diffonde la parola araba ghirba
(«otre», e figuratar mte «pancia»).
Le lotte sociali fanno nascere molte nuove espressioni o danno
significato nuovo a parole antiche-, lega operaia, Camera del lavoro,
sciopero, serrata (dapprima, all’inglese, lock o ut, 1875), sabotare, ecc.
Abbondano le parole affettive, di attaccamento ( compagno come titolo)
o di spregio: succhioni, crumiri (operai o contadini che continuano a
lavorare mentre gli altri scioperano; dal nome di una piccola tribù di
Tunisini alla frontiera con l’Algeria, che con il loro atteggiamento di
contrabbandieri diedero occasione alla spedizione francese del 1881) e
non mancano i motti (il Sole dell’avvenire, dapprima adoperato, sem-
bra, da Mercantini e da Garibaldi, poi divulgato dal Canto dei
lavoratori di F. Turati, 1886). Ricordiamo anche lor signori, epiteto
spregiativo dato alle classi dominanti dagli oratori e dai giornali di
sinistra 105 .
Si formano molti nuovi sostantivi femminili, ora che le donne sì
dedicano più frequentemente di prima agli studi e a professioni prima
riserbate agli uomini. «La terminazione essa è preferita a tutte le altre
103 Don Chisciotte, 3 genn. 1883. Molte altre citazioni di quegli anni v. ap. De
Mattei, Lingua nostra. II, 1950, pp. 124-126.
104 Illustrazione ital:, 2 genn. 1881 (cit. da Messeri, in Lingua nostra, XVIII, pp.
102-103).
105 Nel «Canto dei mietitori» del Rapisardi (nella raccolta Giustizia, 1888) il
ritornello «e falciamo le messi a lor signori» si cambia nella chiusa in «Poi
falcerem le teste a lor signori».
640
Storia, della lingua italiana
-SriSrSSSSf |
SSSo
studenti™ la donna avvocato, ecc. Dei nomi in -tore, solo dottoressa
ESCSSS?: e SSS&Zvtfo la
Sala SS favole al nomi in -torà, è considerato annesso
C ° m NeKto ernia il rinnovamento edilizio porta agi,
e ai rettifili. Milano costruisce il suo famedio. E già si par
Urb r?Sdi innovazioni si hanno nelle comunicazioni: compare ancora
mifllrhe tino di carrozza a cavalli (victoria); ma poi entrano in uso
qualche tipo scarrozza »■ (col troliey e cc.), il velocipede, la bicicletta
EllSsaSBSsf^ , fia&“
11 S ST Z?da‘ h JSdSJT&SSte importa od escogita, come di
rnn<;iipto decine e decine di nomi nuovi: il tight, lo smoking, 1 imper-
meabile, la lobbia, il pijama (pigiama); il sellino (frane, toumure \ il
bOÌ Neìle lìggiT’neUa pratica degli uffici si coniano o si fissano
ìsss,
daU F™ P SeT“a rt c a o"SS£ne di vocaboli generici come attendente a
cosa mdSmsntS e naturalmente le designazioni d'impieglu tenenza),
d ‘ NSeSnS t StlaS appaiono vocaboli come Corning
perula™ bancabile, contabilizzare e innumerevoli altri; a cbccb
» Cosi il Carducci, a proposito di . » ' »“»«»«"£ SHXSS
107 C. Arila, Passatempi /Uoto^ci, Milano J902,^?p. 25 31. Appoggi favorevoli ai
SSK a^he v^T^rano^azioni dialetti per es. -quella
pittora lì», spreg. (Fogazzaro, Damele Cortis, cap.
Mezzo secolo di unità nazionale
641
( chèque ) si comincia a sostituire assegno. La statistica parla di natalità,
di nuzialità, ecc.
Nel campo della letteratura, molti fra i termini che indicano nuove
tendenze vengono dalla Francia: parnassiani, realisti, veristi, simbolisti.
Ma il nome di scapigliatura traduce con originalità il francese bohè-
me 108 ; quello di crepuscolare, pur non mancando di precedenti francesi e
italiani 108 , fu applicato a un determinato gruppo di scrittori dopo un-
articolo del Borgese. Bozzetto come termine letterario è metafora
attinta alla scultura e alla pittima.
Anche nel campo delle arti figurative troviamo numerosi nomi
europei ( impressionisti , divisionisti, ecc.) e qualcuno di conio italiano
( macchiatoli ). Per la musica ricordiamo il termine wagneriano di
Leitmotiv, la modesta ocarina inventata a Budrio nel 1867, la pianola di
origine inglese.
Nell’ambito del giornalismo quotidiano e letterario nascono l’elzevi-
ro, il trafiletto, la terza pagina 110 , l’intervista, e anche il verbo cestinare.
Nel 1896, il Carducci domandava a G. Biagi (Leti., XIX, p. 236): « Editoria
è vocabolo suo o nuovo uso fiorentino?».
Nel campo delle scienze morali, la filosofia risente nella terminolo-
gia dell’ondata positivistica, e poi della ripresa della scolastica e della
riscossa idealistica: e ciò non solo nei molti nuovi termini ( abulia ,
afasia, agnostico, autocoscienza, introspezione, neoscolastica, pragmati-
smo, pseudoconcetto, psicanalisi, psicometria, ecc.) ma anche nel muta-
mento di certi usi (i positivisti non vogliono che si parli di anima, ma di
psiche ). Si moltiplicano le manifestazioni di telepatia. Per la teologia
basti ricordare il termine di modernismo m .
Nel campo del diritto penale, -appare la nuova criminologia. Un
nuovo campo di ricerche è quello della preistoria e della paletnologia : si
scoprono le terramare e le palafitte e si foggia una nuova terminologia
( villanoviano , ecc.).
108 Nella sua prima apparizione, tuttavia do scritto di C. Arrighi La scapiglia-
tura e ile febbraio, Milano 1861, già preannunziato alcuni anni prima dal Pungolo)
scapigliatura non si riferiva alla nota scuola letteraria milanese, ma a 'quei
cospiratori patriotti che avevano preparato i moti del 6 febbraio 1853.
109 F. Coppée, in un articolo del Journal, 15 marzo 1894, chiamava Samain «un
poète d’automne et de crépuscule», F. Gaeta nel Libro della giovinezza (1895)
invocava: «Ma a me crepuscolare l’anima resti», G. Camerana in una lettera al
Boito (1901) diceva che certe proprie strofe mandavano una «loro luce un po’
mortuaria, un po’ spettrale, un po’ crepuscolare».
110 Iniziata dal Giornale d’Italia nel 1901, in occasione della prima rappresen-
tazione della Francesca da Rimini del D’Annunzio (v. A. Bergamini, Nuova Antol.,
XC, 1955, pp. 347-362).
111 Apparso già, con significato politico generico, nella Civiltà cattolica del
1883, e da altri adoperato con valore anche più -vago («l’esagerazione di
modernità, o modernismo che dir si voglia»; Mazzoni, Poeti giovani, 1888), il
vocabolo viène poi usato, con preciso riferimento alle nuove concezioni eterodos-
se, dalla Civiltà cattolica nel 1904, ed è infine teologicamente definito dall’encicli-
ca Pascendi (1907).
642
Storia della lingua italiana
Le scienze biologiche vantano numerose scoperte nel regno dei
bacilli e dei microbili ). La medicina adotta l’antisepsi e l’anestesia,
perfeziona la parassitologia, identifica la difterite e la tubercolosi; nasce
(per le ricerche sulla malaria) l’aggettivo malarico ; e citiamo fra mille e
mille. I chimici coniano voci come cocaina o ptomaina ; e l’industria
produce celluloide e dinamite.
Tra le scienze applicate hanno un enorme sviluppo tutte quelle che
si riferiscono all’elettricità: accumulatore, trasformatore, dinamo, volt,
ecc.
Nel campo dei motori ricordiamo voci come macchinario, montag-
gio, turbina.
Lo sviluppo del commercio dà origine alla merceologia (o merciolo-
gia). Si perfeziona l’arte fotografica: istantanea, viraggio.
Entrano in uso il fonografo e il cinematografo teine , cinema ), con una
ricca terminologia.
Si sviluppano grandemente gli sport (sport ippici, tennis, ciclismo,
alpinismo, sci, ecc.) con una affluenza preponderante di voci francesi e
inglesi, ma anche con qualche voce di formazione greco-latina o
italiana ( alpinismo , stella alpina, ecc.; il vocabolo maratona adoperato
come nome di corsa in occasione del rinnovamento dei giochi olimpici
del 1896; l’antico allenare esumato, ecc.).
Fra le innumerevoli cose nuove di questa età che portano alla
coniazione di parole nuove ricordiamo la grafologia e la filatelia.
Ma, come è ovvio, non abbiamo fatto che piluccare: sarebbero
invece desiderabili ampi elenchi per ì singoli campi, con precise
datazioni. Né basterebbe, naturalmente, considerare le parole di uso
generale: bisognerebbe approfondire la storia del lessico di ciascun
campo speciale (il lessico della filosofia, poniamo, o quello della fisica, o
quello della marina), e poi vedere quali di queste parole si sono diffuse
nel pubblico e quando.
Le nuove voci che appaiono nel lessico italiano sono dovute, come
di consueto, a nuove coniazioni, a mutamenti di significato, a voci di
origine regionale, all’esumazione di voci arcaiche, alla penetrazione di
latinismi e grecismi o di voci forestiere.
Le nuove coniazioni sono in minima parte di origine onomatopeica:
vi è particolarmente incline il Pascoli, che non solo riprende nomi e
verbi raramente usati dagli scrittori [bombire , chioccolare, zirlare ), ma
attinge all’uso popolare o conia voci nuove, grammaticalizzate Igracila-
re delle galline, sciusciuliare del mare) oppure no Itin fin dei pettirossi,
uuid uid dell’allodola, ecc.). Pirandello presenta un suo personaggio
che rifà il verso al canarino, che «forse coglieva in quel... pispissì o care
notizie di nidi, di foglie, di libertà» HI fu Mattia Pascal, cap. IX). I
futuristi puntano piuttosto sulle onomatopee tratte dai rumori. Ma in
complesso poche voci onomatopeiche entrano nell’uso stabile: ricordia-
mo ticchettio (Picciola, Versi-, D’Annunzio, Innocente, Trionfo della
morte).
È in auge la semplice sostantivazione riferita a persona (un
Mezzo secolo di unità nazionale
643
mo«af un intellettuale, o a cosa (un di risibile, un'Istantanea, un'auto-
abbondanza ’nel^linguag^fo* degli' uffici) 6 <e °° n partIcolare
da monti in ? ne, coXZf:Z~^°^ * TCrb ‘ dari ™‘‘
ziano Trionfo d’eS^ZZ
illimitata^^o^S^nSovi^o ChÌ p j 5f fìsso Ì di - con la possibilità quasi
(Carducci, 1882 ) autocosripnJn^^ 08 t aer °f ere tr° (1903), autocommento
troargentatura ’elettroDunturn. , f ^ utogovemo (1890), automobile, elet-
plastica, ecc eLettropuntura - fotoincisione, fotoscultura -, galvano-
dottrine, movimenti, teXzeSHS, gl™?™ nZ’Esmn tadlCan0
2» sassssK s.ror era
c’est troo simnlp Pilo ^ ^ professore: «Discorso di filosofìa. Oibò!
sonante e schiacciante- una'diwi^ 6 !!' 6 ^ Un ^J 010 più sfolgorante e
dedicava un “ttoTc/ S tT * P6r 10 meno ’- E U Capuana
tratta per lo più di voci int^mL^ conten }b° ran ei (Catania 1898). Si
Italia. Ma ca P n'è Z^StT^ 0 ^H 0 n ? a a e to altrl paesl -
quello che indica un cXtesso di nt ®. denvazi <>ne francese:
ciclismo), automobilismo Anrhn i attmta sportive: velocipedismo (poi
significati lelSSTubm^L sfSaZ^ S ‘ mol «P lfc “° vari
pre piacciono (il Veratti nel 1880 biasimi^’ avvenmsta ’ occ.) né sem-
Lollis nel 1907 trovava medS? u f7 & ’ per es ’ con Sressista; il De
La serie già arfil^de^fnt 1 ^^? • * br ^^ a ’ ma necessaria parola»),
riceve molti nuovi incrementi- banchettisi™ 0 {an } lcissim ° : Villani, ecc.)
simo (Nieri) pupissima ^ n Siomalissimo, palazzis-
^glionissZZcTr^^MZZ,fn ma
fiorentino il primo nonEnln a l ° ? ' are/to (ori gfoariamente
secondo) si scambiano ormai spnT-n sp ® cial .P le P te caro ai Romani il
regionale- il Dunré scriva fatto n & c ? e piu S1 sen ta la sfumatura
attarello, fattarello, bruttarono, a mzdT’s'AreUo^f' adopera
(«fui adSa£fa% a ia 0 Re3^aT: a ^°‘ XIX ' Una V ra del 1895 al Bia &i
con tono scherzoso) in una lettera' del l’ftfls ( se n z a sottolinearlo, ma sempre
èt. V,van0 * Domani par, “‘ 1
ih Saggi Novecento , p. 67
vosa. coma* %T " »
^"5°^ s^uS dooo r os, ° bo “ a * “
Nel Irnsuaggm parlamentar, entri nel dicembre 1905 (Introdottavi dal
644
Storia della lingua italiana
Le formazioni scientifiche abbondano (psicosi, tubercolosi, ecc.ì, e
tendono a sconfinare anche nell’uso corrente: sull’esempio ài mattoide,
coniato dal Lombroso e subito diffusosi, si ha anarcoide
-ite, -itide si fa spaghite «paura», bnachitide UboUendogli la bnochihde
su due bone materasse»: Petrocchi, versione di Zola, LAssommoir, p.
128)
Le scienze, la burocrazia, il giornalismo, la poesia, spingono a
coniare nuovi aggettivi: malarico (da malaria ), maidico (da mais),
luetico (da lue), medianico (da medium), velico (da veto); risorgimentale,
decoramentale (Carducci), sensazionale-, aromale, liliale, smfomale
(D’Annunzio), furiale (Boito), gloriale (Camerana), ecc.
Fra il 1900 e il 1910 gli aggettivi in -esco riferiti ai secoli [trecentesco ,
ecc ) pr ima rarissimi, sostituiscono quelli in -istico (o in -ista appositivo:
eleganza cinquecentistica, lirica cinquecentista ), fino allora usuali.
Anche con i suffissoidi si coniano molte parole nuove: accanto ai
vecchi vocaboli di lanificio, setificio, panificio, che dal significato
astratto di «arte di lavorare la lana, la seta, di fabbricare il pane»
erano passati a quello concreto di «luogo dove si lavora la lana, la seta,
si fabbrica il pane», si foggiano numerosi altri nomi, specialmente m
Lombardia: calzaturifìcio («goffa e sesquipedale parola creata a Mila-
no 1902»- Panzini), canapificio, caseificio, cotonificio, ecc. I cannoni
grandinifughi destano verso il 1900 grandi speranze; si creano labora-
tori vaccinogeni, ecc.
Accanto ai composti dei tipi usuali che anchessi si accrescono
(accalappiacani, pesalettere, schiaccianoci, ecc X se ne hanno molti altri
di vari tipi, specialmente nelle scienze (parolibero, Mannetti; avifauna,
eCC 01tre alle molte voci nuove che sono arrivate più o meno facilmente,
più o meno ampiamente a entrare nell’uso, se ne potrebbero citare
mig liaia di altre che hanno avuto una vita momentanea o piu o meno
breve: scimmietà, scimmiologo (Tommaseo), monumentare manzonici-
dio (Carducci), empicomici «pittore», spulciacodici «erudito» (Dossi),
nientarchia (Gandolin), massiccità (Fogazzaro), capolavorare, capolavo-
razione (D’Annunzio), prosatolo (D. Mantovani), studianaio (studio +
granaio-, cosi chiamava il Fucini il suo studio), ecc.
Di parecchie parole si conosce l’autore, sia di quelle scientifiche e
tecniche che di quelle letterarie o politiche: sappiamo per es. che
ptomaina è stato coniato da F. Selmi, che bimetallismo e dovuto a E.
Cemuschi, che paesanità è stato foggiato da Carducci^ guerrafondaie » è
dovuto a L. A. Vassallo (Gandolin) e forcaiolo a L. Bertelli (Vamba). Di
altre si conosce chi le ha introdotte: velivolo nel senso di «aeroplano»
da D’Annunzio, congeniale da Croce, ecc.
Inn ovazioni imp ortanti si hanno anche nella semantica: parole già
presidente del consiglio Fortis) l’espressione uno puntarella di Destra; il Martini
scrive punterella Qett. 6 nov. 1909).
Mezzo secolo di unità nazionale
645
esistenti prendono nuova voga o nuovo significato, sia in relazione con
le correnti dell’età (filosofiche, scientifiche, politiche, economiche, ecc.),
sia per la spinta di qualche accadimento singolo.
Si pensi, ad esempio, all’uso sempre crescente di termini scientifici e
tecnici, sia in senso proprio 116 , sia in senso figurato.
In tutti i secoli si sono coniate espressioni figurate, ed è diffìcile
credere che in questa età se ne siano foggiate più che in altre: se i
puristi se ne lagnano più che mai, ciò dipende probabilmente dalla
maggior diffusione del giornalismo, che non va tanto per il sottile nel
coniare metafore e ancor più spesso nel divulgare metafore già coniate
in Francia. Il Fomaciari nel 1888 lamentava con amare parole l’incon-
trollata divulgazione delle «metafore di moda» 117 ; ma il Torraca ebbe
buon gioco nel dimostrare, con una larga documentazione, che le
metafore biasimate dal Fomaciari non erano adoperate soltanto da
giornalisti da strapazzo, ma che molte di esse erano entrate nel lessico
degli scrittori e dei critici più autorevoli 118 .
Né si può dire che successivamente quella tendenza sia regredita:
tutt’altro.
Si attingeva specialmente - e non fa meraviglia in un’età dominata
dallo scientismo positivistico 119 - alle scienze della natura: di qui l’uso
larghissimo di evoluzione, evoluto, svilupparsi-, il nuovo significato di
ambiente e voci affini (v. p. 638); l’uso estensivo o figurato di alluvione,
permeare 120 ; condensare, cristallizzare-, espansione-, convergenza, diver-
genza-, diagramma («il diagramma delle tese fimi»: Graf, Medusa, 1880),
apogeo, eclissi, orbita-, embrione, germe, microbili ), parassita 121 -, patolo-
gia, diagnosi, sintomo, nostalgia 122 ; gestazione, superfetazione-, atrofia,
ipertrofia, collasso, pletora, microcefalo, ecc.
116 Anche i poeti, di solito alieni, nei secoli precedenti, dall'usare termini
scientifici» li adoperano con larghezza: lo Zanella parla di nautili e di murici, di
mastodonti e di uranghi-, il Rapisardi di quarzo e felspato, o dell’* insonne zoofitico
gregge»; le attinie, le astree le madrèpore fioriscono nel Canto novo dannunziano,
Gozzano compiange le «disperate cetonie capovolte» e ostenta i nomi di
innumerevoli farfalle in un suo poemetto incompiuto dedicato ad esse; ecc.
117 In un articolo della Nuova Antol., 16 ottobre 1888 , rist. nel volume Fra il
nuovo e l’antico, Milano 1909, pp. 323-357.
118 Rivista critica della lett. ital., V, 1888, rist. nel voi. Nuove rassegne, Livorno
1894, pp. 53-88.
1,8 Un esempio solo, fra i tanti, del modo di esprimersi non di uno scienziato,
ma di un letterato positivista: egli non parla di opere d’arte, ma di «produzioni
artistiche del cervello umano» IGiom. star. lett. it., XLII, 1903, p. 160).
120 Al Panzini l’uso estensivo della parola non piaceva: egli notava CDiz. mod.
7 a ed., s. v.): «usato dal Carducci in nobile prosa, poi dai moderni, stona come ima
pezza di raso in un abito da strapazzo».
121 Non solo «Parassiti del linguaggio» e «Microbi del discorso», titolo di due
capitoli di P. Lioy, Piccolo mondo ignoto, Firenze 1900, ma parassita e parassitico
riferito a suoni nei Corsi di glottologia dell’ Ascoli, Milano 1870, passim.
122 Solo negli ultimi decenni dell’Ottocento il termine di nostalgia comincia ad
uscire dai trattati di medicina e ad entrare nell’uso comune.
646
Storia della lingua italiana
Pure largo è l’uso figurato di nomi di procedimenti e strumenti:
termometro, sismografo («La seduta di ieri fu burrascosa: ma il sismo-
grafo politico fin dalla mattina prometteva di più»: Collodi, Note gaie,
1876), fotografia, fonografia (G. Cepparelli intitola - per consiglio di O.
Baccì - Fonografie valdelsane, Firenze 1896, una raccolta di scenette
trascritte dal vero), cinematografo ( Che cinematografo ! «Che scena
movimentata!»). A Giulio Orsini sembra d’avere «di Rontgen i raggi -
nell’occhio di scienza malato». , _ ..
Chi voglia troverà negli elenchi del Fomaciari e del Torraca molte
di queste «metafore di moda» tratte da vari campi concettuali (ma
resterà spesso con l’incertezza se siano nate in questa età o non siano
già anteriori, perché i lessici, solléciti a notare i significati propri delle
parole, trascurano invece non di rado quelli estensivi e figurati).
Accade anche talvolta che una scienza assuma come termine
tecnico un vocabolo che già aveva preso in un’altra scienza un
significato determinato: così il Canello (Arch. glott. ita*.. Ili, 1879)
chiamò allotropi le parole che si presentano in forma diversa pur
avendo la stessa etimologia, attingendo il termine alla chimica e alla
Mutamenti di significato di varie specie si consolidano nel lessico.
Il nome siluro, che prima si riferiva a un genere di pesci teleostei, e
trasferito anche (per irradiazione sinonimica di torpedine ) a una mina
acquatica semovente (1866).
Fascio già poco dopo il ’70 a Bologna serve come nome di un
raggruppamento operaio; e nel 1893 in Sicilia nascono i Fasci dei
lavoratori. , .. _
Di sventramenti edilizi si cominciò a parlare dopo che il Depretis
ebbe affermato nel 1884: «Bisogna sventrare Napoli».
L’epiteto di bizantino applicato alla vita politica e sociale della
Roma umbertina e al gusto letterario e artistico predominante nella
Cronaca bizantina del Sommaruga (1881-85), ancora rimane a caraffe-
rizzar© qu©gli anni (G. Squarciapino, Rottici bizantina , Torino 1950).
Il monocolo degli eleganti viene battezzato ironicamente pasticca
(Fanfani-Arlia, 1881), poi anche caramella (Fanfani-Arlia, 1890); e questa
seconda parola rimane nell’uso.
Coriandoli si chiamavano i confettini con un seme di coriandolo e
poi in genere i confetti carnevaleschi di gesso, ma poi (verso il 1883, a
Milano) si misero in commercio allo stesso scopo i minuscoli dischi di
carta che avanzavano nel preparare i fogli forati per i bachi da seta, e
il nome passò ad essi.
Mosconi «note di cronaca mondana», ha origine dalla rubrica «Api,
mosconi e vespe» istituita da Matilde Serao (dapprima nel Comere di
ROTT ^scecane è registrato a cominciare dalla 2 a ed. del Panzini (1908) Per
indicare i «grandi, astuti, insaziabili divoratori del lavoro e del danaro
altrui»; contribuì a dar voga alla parola la commedia di Dario
Niccodemi 1 pescicani (1913).
Mezzo secolo di unità nazionale
647
Numerose sono le antonomasie, dotte e popolari, riferite a nomi
propri di persone reali o fittizie. Abbiamo nomi metaforici, come un
Fregoli (fregolismo ); un travet (dalla commedia piemontese di V. Berse-
zio, Le miserie d’monsù Travet, 1862), un gigione «cantante, attore da
strapazzo» (da una commedia di E. Ferravilla) ecc., e nomi metonimici
come lobbia (cappello alla Lobbia), cavurrino, sigaro Sella ecc. 123 . Molti
di questi vocaboli sono rimasti legati alla notorietà dei rispettivi
personaggi, cosicché qualcuno, notissimo a suo tempo, cadde poi
dall’uso o rimase confinato in un ambiente speciale 124 .
Qualche volta non c’è stato vero e proprio cambiamento di significa-
to, ma di connotazione affettiva. Santo è stato largamente adoperato in
senso laico ,25 . Retorica ha preso per molti un valore spregiativo 126 ; e così
filosofo e filosofia 121 . Nella polemica dei decadenti contro il sentire
«borghese», i poveri droghieri (come i loro confratelli francesi, gli
épiciers ) diventano il simbolo dell’incapacità d’intendere l’arte: «i
piccoli giardini contigui alle villette dei droghieri » (D'Annunzio, Vergini
delle rocce p. 10 1) 128 ; «frase volgare e dro ghiera» (Martini, Prefazione a
Di palo in frasca ).
Parecchi vocaboli riferiti alle cose e agli uomini di chiesa prendono,
in un’età dominata da spiriti antiecclesiastici, una connotazione
spregiativa: per es. paolotto, nome popolare dei membri di due or-
dini religiosi, viene a significare «clericale» 129 . La troppa diffusione
delle oleografie ne rende spregiativo il nome (e l’aggettivo derivato oleo-
grafico).
Ma accanto alle creazioni di voci nuove e ai mutamenti di
123 Migliorini, Dal nome proprio, passim.
121 In Liguria - attestava G. Baffico nella Nuova Ant. (1 ottobre 1908, p. 460) - si
chiama Capitan Dodero (da un romanzo di A. G. Barrili) un capitano «fatto grigio
dal tempo, cotto dal sole, piena l’anima di ricordi marinari». Dimenticato il
giornalista Luigi Coppola, collaboratore del Fanfulla e il suo pseudonimo di
Pompiere, si scordarono anche le pompierate «giochi di parole» (cfr. Martini,
lettera del 20 luglio 1903: Lettere, p. 389). Né si adopera più livragare «sopprimere
in silenzio», tratto dai nome del ten. Livraghi in séguito a un clamoroso episodio
di politica coloniale.
123 Si vedano le briose pagine di A. Baldini, Fine Ottocento, Firenze 1947, pp. 25-
27 («santa canaglia» in un'ode carducciana del ’08; «La carne è santa» nella
Chimera dannunziana, ecc.).
128 «oggi certa gente chiama retorica tutto quello che ha il torto di parlare al
cuore e alla mente un po’ più presto e un po’ più efficacemente che non le loro
cifre e i resoconti...»: Carducci, G. Mameli, 1872 (Op., XVIII, p. 398).
127 «Il nome di filosofo, la parola filosofia, secolarmente riveriti anche per il
concetto che vi si univa di serenità e superiorità morale, divennero nome e parola
di scredito, ora deprecati come segno d’insipidi motti e di lazzi triviali»: Croce,
Storia d'Italia dal 1871 al 1915, 4 a ed., Bari 1929, p. 137.
128 Cfr. Passerini, Il Voc. dannunziano, s. v. e Garzia, Il Vocabolario dannun-
ziano, pp. 184-185.
120 La Luna è confrontata dal Carducci con ima faccia di suora, «celeste
paolotta» (Rime nuove, LXIX); e gli fa eco R. Zena («alla luna paolotta»:
Intempestive ).
648 Storia della lingua italiana
significato, dobbiamo ora considerare, per avere un’idea complessiva
degli incrementi del lessico, raccoglimento di voci dal toscano parlato
e dai dialetti, il ravvivamento di voci letterarie e arcaiche, la penetra-
zione di latinismi e grecismi e di parole forestiere moderne.
17 . Voci popolari moderne
La penetrazione nella lingua scritta e parlata usuale di voci toscane
e di voci regionali o dialettali è ancora più forte che nelle età,
precedenti, grazie all’influenza deU’unificazione politica. Negli anni di
Firenze capitale, la vampata manzoniana diede un certo incremento
all’espansione fiorentina, ma non senza suscitare molte reazioni. Dopo
il 1870 l’accentrarsi della vita politica, mondana, culturale, giornalisti-
ca neila nuova capitale, fece sì che molte voci dell’uso romano,
specialmente borghese, si diffondessero neU’uso generale. Quanto alle
altre regioni, la miglior conoscenza che si ha della vita di esse grazie
alla moltiplicazione degli scàmbi e alla divulgazione della letteratura
veristica ambientata regionalmente, fa sì che molte parole dialettali o
regionali penetrino più o meno largamente nell’uso.
Agli scrittori toscani di vena spontanea (come il Fucini, il Collodi, il
Martini) vien fatto ogni tanto di adoperare qualche parola o espressio-
ne del toscano parlato, anche se non accolta nell’uso scritto: leggiamo,
per citare solo qualche esempio, nei Ricordi autobiografici del Dupre (p.
412): «quella stupenda musica, che ricordandola mi ha fatto andar su
pei peri», o, in un dialogo di Augusto Conti (in D Ancona e Bacci, Man.
della lett. ital., VI, p. 40): «Bisogna imparare, non più guardarsi alla
spera». Il Carducci in una lettera del 21 agosto 1898 ad Annie Vivanti
ILett XX p. 161) scrive «la paura t’ha diminuita, direi striminzita»; poi
per paura che la parola riesca ignota ad Annie, perché rara neU’uso
scritto, aggiunge tra parentesi: «(vocabolo toscano)». Il Nobili (Memorie
lontane p. 139 Pancrazi) scrive: « Stolzai come se fossi stato toccato da
un bottone di fuoco...»: ed è voce non fiorentina, ma del toscano
meridionale. , . ,.
Ai non Toscani che voghono toscaneggiare accade mvece spesso di
esagerare, specialmente adoperando vocaboh e locuzioni popolaresche
anche dove U tono non lo consentirebbe. Si legge, neUa Storia di
Federico il Grande di Emilio Broglio (Milano 1874-76): «La Prussia ci
guadagnò un tanto, e fece un baratto co’ fiocchi » (I, p. 105); «t era
doventata una strega» (II, p. 131); Federico Guglielmo dice al principe
Federico: «ho procurato di far di voi un omo per bene» (II, p. 217);
Federico Gughelmo «moriva dunque... tra il tocco e le due a poco meno
di cinquantadu'anni » (II, p. 372) 130 . Questo toscaneggiare oltre quel
130 II Martini, Confessioni e ricordi, Milano 1928, racconta come gli anuci
convinsero il Broglio a togliere, e tolse a malincuore, la frase: «Federico arrivò a
buco a riafferrare la vittoria».
Mezzo secolo di unità nazionale 649
limite che valeva per i Toscani stessi irritava U Carducci 131 e tanti
altri 132 .
SingoU toscanismi appaiono inoltre sia negli scrittori non toscani
che aspirano a un lessico largamente eclettico (un Dossi, un FaldeUa),
sia in quelli che cercando i vocaboli di cui sentono il bisogno, trovano
di che soddisfarlo in qualche voce toscana non ancora accolta o non
più accolta nell’uso scritto: così quando il Padula scrive beruzzo nel
senso di «colazione nei campi», o il Verdinois adopera tornare nel senso
di «andare ad abitare in un’altra casa», o il Verga scrive sito per
«puzzo». Voci e frasi dialettali o regionali abbondano d’altra parte, ora
riprese tali e quali, ora più o meno adattate, obbedendo a esigenze
artistiche e magari a intenzioni teoriche varie, in opere letterarie
regionalmente ambientate. Il Faldella, il De Marchi, il Fogazzaro, il
D’Annunzio, la Serao, il Verga, la Deledda, il Panzini e moltissimi altri
se ne valgono in vario modo e misura: ora si tratterà solo di qualche
vocabolo di color locale, ora di una prospettiva di frasi e di vocaboli più
o meno dialettali distribuita secondo le classi sociali che gli autori
vogliono raffigurare, ora di ima trasposizione in lingua (più o meno
ampia, più o meno riuscita) della maniera dialettale di pensare e di
parlare.
Mentre per parecchi autori (in prosa e anche in versi) conosciamo
bene la consistenza (e l’utilizzazione artistica) degli elementi dialettali,
ben poche ricerche sono state fatte per altri campi: per es. la cronaca
locale dei giornali, oppure la diffusione di oggetti di produzione locale
(citavamo qui addietro l’ocarina, diffusasi da Budrio), ecc.
Malgrado queste lacune, proviamoci a delineare un bilancio provvi-
sorio della penetrazione degli apporti dialettali nella lingua usuale,
parlata e scritta.
Ma anzitutto è necessario notare che le diversità fra il toscano
parlato e l’italiano usuale si sono venute attenuando. Da un lato voci
toscane prima ignote si sono divulgate. Scriveva il Mamiani al Fanfani,
a proposito della Paolina «novella scritta in lingua fiorentina italiana»:
«dirò che la S. V. è stata scrupolosa all’eccesso perché alcune delle
frasi, da Lei notate come proprie alla sola Toscana, sono invece nel
131 Oltre ai passi più propriamente antimanzoniani, già citati (p. 620), si
ricordino le parole contro l’imitazione del Giusti minore, che aveva dato
occasione a una «alluvione di cianciatorelli fiorentineschi» (Op., XVIII, p. 345);
altrove, quasi a contrapposto, il Carducci citava l’urbanità del marchese Capponi
che «non passeggia in maniche di camicia, non affetta lo scimunito, la donnacco-
la, il bamberottolo e il ciano» (£a ira, in Op., XXTV, p. 398).
132 P. es. Matteo Ricci: «non vedemmo, parecchi anni fa, comparire una certa
Storia romana, dove Cesare e Pompeo parlavano la lingua di Stenterello? E non
abbiamo ora alle mani una certa Storia di Federigo II, ottima per la sostanza, ma
di quando in quando ridicola per la forma, in causa appunto dei fiorentinismi
messi a sproposito?» (Rassegna nazionale, LUI, 1890, p. 36). Appropriatissimi,
invece, possono riuscire i fiorentinismi (avverte lo stesso Rieri) nel tono familiare,
nella poesia satirica, ecc.
650
Storia della lingua italiana
Mezzo secolo di unità nazionale
651
parlare usuale delle persone civili di tutta 1 Italia, siccome questa per
via d’esempio: non te la posso menar buona-, e l’altra: tante moine-, e
questa pure: io sono di casa ...» Qett. 18 ottobre 1868) 133 . Anche più
pertinente è la testimonianza del De Amicis sulla diffusione di parole e
locuzioni familiari in conseguenza dell’unificazione nazionale: «Sono
usati ora anche fra noi lin Piemontel, parlando italiano, sono anzi
diventati comunissimi una quantità di vocaboli e di locuzioni che
quand’ero ragazzo erano affatto sconosciuti. Quarant anni fa non le
sarebbe mai occorso di sentir dire da un piemontese schiacciare un
sonno appisolarsi, fare uno spuntino, fare ammodo, uomo di garbo,
gente per bene, mi frulla per il capo, andare in visibilio, prendere in
tasca, faticare parecchio, e via discorrendo» 134 .
Viceversa in altri casi certe forme toscane hanno ceduto (o hanno
cominciato a cedere, a sembrar vernacole anche a molti Toscani di
fronte a vocaboli preferiti dal resto d’Italia: bòdola, limosina, oriolo,
polendo, spedale, di contro a botola, elemosina, orologio, polenta,
ospedale. A Firenze stessa cassetta (di un mobile) comincia a cedere a
cassetto; tavolo, rifiutato pertinacemente dai puristi toscani, arriva a
farsi strada; crestaia è vinto da modista. _ . .
Si è già accennato come tra le varianti officio, ufficio, uffizio, ufizio
(e rispettivi derivati) prevalga, dapprima non senza qualche esitazione,
la variante non fiorentina ufficio-, il Manzoùi, leggendo questa forma m
un avviso dell’«Ufficio» centrale dei telegrafi, se ne scandalizzava
come di un’offesa all’unità quale egli la desiderava-. «Oh se i signonm
di costì sua bona norintì » Qett. 16 novembre 1865) 135 . L’ammazzatoio
fiorentino (registrato dal Fanfani e dal Petrocchi) cede a mattatoio (che
è la forma di Siena, di Ancona, di Roma) 136 . Le voci fiorentine mezzaiolo
e mezzeria lottano contro le voci settentrionali mezzadro e mezzadria e
hanno la peggio. Il Codice civile del 1865, all’articolo 1647, diceva,
elencando compendiosamente le varie forme regionali: «Colui che
coltiva un fondo col patto di dividere i frutti col locatore, si chiama
mezzaiuolo, mezzadro, massaro o colono...*: da allora mezzadro e
mezzadria 137 guadagnano man mano terreno 133 . Il tóse, albero nel senso
di «pioppo» si evita perché può dare origine ad equivoci 139 .
133 Bibliobiogr., p. 117.
L’Idioma gentile, pp. 72-73 Ciò non toglie che l’altro interlocutore di questo
dialogo trovi che le voci stintignare, striminzire, baluginare sonerebbero strane e
affettate. E il Russo trova fuori posto nel Verga il «toscanissimo» ruzzare.
135 Manzoni intimo, II, p. 209. „ . , .
1M Invece abbattitoio (Annuario scient. e industriale, II, 1865, p. 165) non òche
un calco, forse momentaneo, del fr. abattoir. Macello rimane la voce piu diffusa
nei piccoli centri. . . . . ,
137 II Petrocchi cita mezzadro come voce lucchese: ma il Nien (s. v. Mezzanini
avverte che mezzadria è parola di recente importazione.
isa n verga (Mastro don Gesualdo, p. 376) parla di mezzadria, mentre per lui
mezzeria significa «senseria» («La mia mezzeria ci sarà sempre?»: ivi, p. 207).
138 II Tommaseo, nel discorso del 1868 «Intorno all’unità della lingua italiana»
Si divulgano in questo periodo molte voci dialettali provenienti
dalle regioni che più attivamente partecipano alla vita nazionale. Ecco
alcune parole di provenienza piemontese, per lo più trasmesse dalla
vita militare: arrangiarsi, cicchetto, grana (nella locuzione piantare una
grana), pelandrone, ramazza. È piemontese bocciare'* 0 ; e anche gian-
duia, gianduiotto.
Dalla Lombardia provengono soprattutto termini gastronomici:
risotto, erborinato, robiola, panettone-, di lì viene anche il nome di
grappa «acquavite». S’imparano a conoscere le brughiere lombarde, e il
nome delle marcite si divulga, superando quello toscano di marcitoia (v.
Canevazzi-Marconi, Voc. di agricoltura, s. v.). Milanese è guardina 1 * 1 .
Non si può dire invece che siano riuscite a imporsi due voci lombarde,
preconizzate come utili perché atte a soddisfare una carenza dell’ita-
liano: ab(b)iatico e gibigianna. Abiatico nel senso di «nipote di nonno»
avrebbe servito a rimediare agli inconvenienti del doppio significato di
«nipote» 142 . Per gibigianna non esiste nell’uso toscano un equivalen-
te 143 , e si può dire che la parola appare soltanto in scrittori lombardi:
l’ab. Stopparli, C. Bertolazzi (che intitolò una sua commedia La
gibigianna, 1898), C. Rebora («In gibigianna di diavolerie»; La Voce, 6
nov. 1913). Fare un bacio è stato a più riprese adoperato, ma sempre
respinto come lombardismo.
Dal Veneto vengono il nome di vestaglia e il saluto ciao-, qualche
nome di barca come il bragozzo e la fisolera (termine che, trasmutato in
fusoliera, fu poi accolto come vocabolo aviatorio); il felze, nome
veneziano della cabina della gondola, fu fatto largamente conoscere
dal Fuoco dannunziano. Dalle Alpi venete vengono i nomi della baita,
della malga, della cengia. Gli scienziati ricorsero al friul. foibe (sotto la
forma italianizzata foiba), nel senso di «cavità carsica» 144 ; mentre lo
(Adun. solenne della R. Acc. della Crusca, Firenze 1868, p. 83), ricorda che ne
nacque anche mi processo.
140 In Toscana la parola si assesta nell'uso come intransitiva (Il Gorini
quest’anno bocciai; altrove come transitiva (Il professore l’ha bocciato ).
141 Sono nate a Milano, non tra il popolo, ma negli uffici, famedio, enopolio,
tecnomasio e tante voci del tipo calzaturificio-, cfr. p. 644.
142 Ne prese le difese il Broglio (V’ita di Fed. il Grande, II, p. 101); l’adoperò
qualche scrittore lombardo (Cantoni, Opere, p. 672 Bacchelli; anche il Fogazzaro,
nel Piccolo mondo antico, parlando dei lombardi Maironi).
143 II Manzoni s’interessò spesso del problemino (cfr. la lettera di G. B.
Giorgini a F. Lampertico, 14 febbr. 1891, in Manzoni intimo, II, p. 268), e la
tradizione orale ci conservò questa sua quartina: «Del sole il puro raggio - brilla
sull’onda impura, - sulle vetuste mura - gibigianando va» (Petrocchi, Dizion., sotto
il rigo). Il Rovani aveva tentato di tradurre con guizzasole (Rovani, Cento anni, 1.
X, n), l’Arlia preconizzò abbagliocchi (Passatempi filologici, cit., pp. 100-102), altri
luminello o illuminello.
144 P. es. Omboni, Geologia dell'Italia, Milano 1869, p. 191. Nella terminologia
scientifica finì poi col prevalere, per influenza della terminologia intemazionale
(e anche per maggiore facilità strutturale) lo slavo dolina (cfr. Rodolico, in Lingua
nostra, IV, 1942, p. 38, VII, 1946, p. 91).
652
Storia della lingua italiana
Stopparli tentò invano di mettere in uso trovante nel senso di «masso
erratico ^
Dal romagnolo proviene, come abbiamo detto, lo carina e poco
r» 1 140
Ma la serie più numerosa di dialettalismi è quella proveniente da
Roma. Si divulga il nome di burino o barrino «campagnolo zotico» tv.
Prati Voc etim., s. v.l. Romano solo per la semantica è il termine di
buzzurro, che a Firenze si dava agli Svizzeri che d’inverno vendevano
castagne arrostite e polenta di castagne, ma poi, quando la capitale
passò Roma, fu dato spregiativamente ai piemontesi e m genere ai
Settentrionali venuti a stabilirsi a Roma. L adoperarono il Faldella in
un bozzetto intitolato Colonie buzzurre, il Carducci m una nota all ode
barbara Dinanzi alle Terme di Caracolla («Fu chi intese che questi versi
augurassero la malaria ai buzzurri»), il D’Annunzio in alcune note
mondane e nel Trionfo della Morte. E accolto come sinonimo scherzoso
di «guardia municipale», pizzardone, che fu applicato alle guardie
quando portavano un cappello a feluca che ricordava il becco della
nizzarda iScolopax malori Romanesco è il termine di imbonitore-, nelle
feste natalizie scendono dalla montagna 1 pifferarti da Fresinone e
dintorni vengono i ciociari. Forse da Roma proviene anche pignolo nel
senso di «minuzioso, pedantesco». Abbondano 1 nomi delle specialità
gastronomiche ( abbacchio , saltimbocca) e delle allegre mangiate imac-
caronata, spaghettata) e gite campestri ( ottobrata ) . C è chi sa intrufo-
larsi e godere di uno sbafo. Le corse nella Campania Romana fanno
conoscere le staccionate'**. Il giornalismo presenta 1 fattacci (di cronaca
nera) e i pupazzetti di Gandolin. Inoltre, s’imparano a conoscere alcune
costumanze specificamente romane, come il cottìo («mercato del pesce,
l’antivigilia di Natale»).
.« Nel Bel Paese, serata XXXIV, e anche come titolo di una sua raccolta
d ar M6 C ^j^n^ebbero ’r^oiSiz^S^poche voci romagnole che il Carducci Severino
Ferrari il Pascoli in qualche occasione adoperarono Piene di voci romagnole
qnno i e Quartine del Carducci «All’autore del Mago» Mime nuove, LXXTV1 egli
ricorda ?pS£herfni e le arzàgole (tose, alzavo^ e il canto delle romanelle. Al
Pascoli sarebbe piaciuto che entrasse nell’uso boschereccia.-. «Quando 1 uccello
canta tra sé e sé pianta pianino, il toscano dice che studia, il romagnolo (non so
se anche altri) dice che fa la boschereccia. E a me pare che il romagnola che paria
cosi male dica per questo rispetto meglio del toscano, che parla cosi tene» (nota
in Fior da fiore p 85) Altrove egli difende schiampa, stiampa «che un buon
romagnolo 2 triterebbe di usare, scrivendo o dicendo per il pubbhco» (nota alla
2 a ed dei Canti di Castelvecchio ). Sui dialettalismi pascoham, cfìr. pp. 613 61 .
.« DAnnunzta! neh Piacere, ricorda «i gridi fiochi delli acquavitai (mentre il
Belli nel sonetto italiano «A Barbaruccia», parlava dei «rauchi acquavitai»).
148 La parola era registrata come dialettale e spiegata da Mons. Azzoccta (2
ed 1846? come «steccata stecconato»; il Barrili l’adopera descrivendo la spezio,
ne garibaldina («Per intanto rompevamo le staccionate dei prati»; Con Ganbald
alle porte di Roma, Milano 1895) e Giulio Orsini raccoglie anche m poesia («Una
fila d’uccelli paurosa - dalla staccionata spicca il volo»; Fra terra e astri).
Mezzo secolo di unità nazionale
653
Da Napoli si diffondono i nomi di largo «piazzetta di forma
irregolare» 14 *, e di rettifilo, mentre il basso si conosce come caratteristi-
ca locale. Una forte connotazione locale mantengono i nomi di
paglietta, cafone, guaglione, scugnizzo e quelli di camorra e omertà.
Pastetta si divulga riferendosi ai brogli elettorali di tutta Italia.
Parecchie sono anche qui le parole che si imparano a conoscere con il
diffondersi delle specialità gastronomiche napoletane, come la mozza-
rella e le vongole. Numerose sono le voci generali accolte per la loro
espressività: mannaggia (che vince il tose, malannaggia ), scocciare,
fesso.
Della Sicilia s’imparano a conoscere la zàgara, i picciotti, i carusi, e
ohimè, la mafia e i mafiosi' 50 .
E della Sardegna, le tanche e i nuraghi, e i panni di orbace.
18 . Voci letterarie arcaiche
Nell’accennare per sommi capi alle grandi correnti che si possono
scorgere nel linguaggio della prosa e in quello della poesia, abbiamo
visto come le correnti manzoniane e quelle realistiche portino a lasciar
cadere, nella prosa e anche nel verso, quei vocaboli di tradizione
letteraria che non erano più vivi nella lingua parlata.
Se nel 1863 la Rivista contemporanea descrivendo una «macchina
per votare» poteva intitolare la notizia «Di un ordigno per gli squitti-
nii* -, o nel 1865, Vittorio Emanuele II poteva dire (sia pure in un
discorso solenne) «le mie parole furono mai sempre d’incitamento», o in
una lettera del 1868 il Mamiani poteva scrivere « Laonde per me il
quesito non versa sopra il conoscere...» (Fanfani, Bibliobiogr., p. 118):
questi e tanti altri vocaboli alle nuove generazioni sonarono intollera-
bili, e furono abbandonati. Matteo Ricci racconta 151 che Massimo
d’ Azeglio avendo ima volta ricevuta una lettera con un inizio pedante-
sco, la buttò nel cestino dicendo: «Un uomo che incomincia una lettera
È buona pezza che io desiderava scriverle non può essere che un
imbecille».
Una d elle serie che cadono definitivamente in discredito 152 è quella
degli imperocché, imperciocché e s imili . Se ancora il Minghetti comin-
ciava le sue memorie con un solenne avvegnaché' 53 , qualche decennio
dopo nessuno avrebbe più scritto così: àuspici non solo i manzoniani,
ma anche un antimanzoniano come il Settembrini, di cui uno scolaro
149 Si vedano le tappe della diffusione documentate da P. P. Trompeo, Lingua
nostra, I, 1939, pp. 131-144.
150 O, alla siciliana, mafiusi.
131 Ross, nazionale, LUI, 1890, p. 234.
152 Una «dinastia decaduta» la chiamò il D’Ovidio, Correzioni, p. 83.
163 Anzi, con errato raddoppiamento: « Awegnacché al mio tempo siano
avvenuti in Italia molti e grandissimi cambiamenti...» IMiei ricordi, I, p. 1).
654
Storia della lingua italiana
Mezzo secolo di unità nazionale
655
diceva che avrebbe meritato questo epitaffio: «Qui giace il nemico dei
Borboni, dei Gesuiti e degli imperciocché
Se mai qualcuno adopera ancora una di queste congiunzioni, è con
ironia: « conciossiaché secondo il marchese Puoti oblio sia parola da
usare solo in poesia, e di rado e con molto riserbo in prosa» (De Sanctis,
«L’ultimo de’ puristi», nei Saggi critici ); «Levatemivi d’innanzi, figliuoli
del padre De Colonia; o vi butto in faccia un conciossiacosaché»
(Carducci, 1882: Opere, XXV, p. 213).
Molto maggiore è la resistenza del lessico poetico antico, legato a
nobili secolari tradizioni Naturalmente la storia dei vari vocaboli
andrebbe fatta caso per caso, e non sarebbe cosa facile: si sa che è
molto più difficile mettere insieme ima tabella di assenze che una
tabella di presenze. Ma si può ricordare qualche esempio sintomatico:
calle per «cammino» è non solo nello Zanella e nel Graf, ma nel
Cavallotti («Sorella, non senti pel calle - che lungo di frondi stormir?»:
«Su in alto!»); ricorre ai rai anche Stecchetti («delle tremule stelle ai
bianchi rai»-. Postuma, uv>, i vanni compaiono (nel senso tradizionale di
«ali») non solo nell’ Aleardi e nello Zanella, nel Carducci e nel Panzac-
chi, ma anche nel D’Annunzio del Primo vere (e, in prosa, nel Fuoco).
Usano fiedere 166 lo Zanella («le membra - al gran Titano fiedere co’
nembi»: «Milton e Galileo»), il Carducci («di torbid’ire fiedere l’aere»:
«Figurine vecchie», in Odi barbare ), il D’Annunzio («Onde si goda fleder
Primavera»: Frane, da Rim., Ili, se. 4) 15 ®.
È ben difficile distinguere, come occorrerebbe fare, tra persistenza
di voci della tradizione poetica e ravvivamento di voci ormai sentite
come arcaiche: e la distinzione spesso dipende dalla inteipretazione
stilistica che si dà a singoli passi 167 .
Vanno catalogati fra gli arcaismi, piuttosto che tra le voci tradizio-
nali i non rari ravvivamenti di voci dantesche: come piovomo, che il
Carducci «rinnovò» in «Miramar» 168 , e dopo di lui ebbe un certo uso
,M Martini, Prose ital. moderne, p. 548.
165 Si sa che fiedere è un infinito ricostruito abusivamente dai moderni sulle
forme rizotoniche (fiede ecc.), mentre l’infinito antico era fedire.
166 Naturalmente la Francesca abbonda di arcaismi che mirano a dare il
colore del tempo lastronomaco, camaglio, sorcotto, zetani, ecc.); e similmente le
Canzoni di re Enzio pascoliane, ecc.
167 In un passo d’ima lirica del Panzacchi, «Visita in villa»: «ch’io dubitai
d'averlo unqua baciato - quel suo bel volto gentilmente obeso», il Baldacci (Z Poeti
minori dell’Ottocento, cit., I, p. 1053) sente in quell’unqua ima «stonatura
‘classicistica’ in una poesia di gusto precrepuscolare» mentre io ci vedo piuttosto
un leggero arcaismo intenzionale, che respinge l’atto del bacio in una lontananza
remota.
168 «Mi tengo d’aver rinnovato un bell’aggettivo dal v. 91 del 25 del Purgatorio-,
se non che io invece di piamo vorrei poter leggere e senza esitazione scrivo
piovomo che è la forma integra, come leggono il codice Poggiali e uno
dell'Archiginnasio di Bologna, e come parmi d’aver sentito dire alcuna volta in
contado non so più se di Toscana o di Romagna» (nota a «Miramar», 1878, in Op.,
IV, pp. 180-161). Il Giuliani, Sul vivente linguaggio della Toscana, 3* ed., Firenze
(Pascoli, ecc.) 159 o roggio, anch’esso ravvivato nel lessico letterario
(Carducci, Pascoli, S. Ferrari, Gnoli, D’Annunzio, ecc.). Non supera
l’àmbito dell’allusione dantesca l’uso di non mi tange-, «Amore non mi
tanse e non mi tange» (Gozzano, «Convito», nei Colloqui ).
Qualche arcaismo fu attinto anche agli stilnovisti e ad altri
duecentisti (.alena, pascore, ecc.: D’Ann.), ma solo aulire e aulente
ebbero larga fortuna nella lingua poetica.
Qualche voce che il Carducci si compiacque di attingere a scrittori
del Trecento o del Cinquecento (miluogo, misprendere, popolazzo,
rinomo, ecc.) non ebbe fortuna; rinascita, che egli trovò nel Varchi e nel
Vasari, fu da lui rimesso in voga. Al gruppo fiorentino che fondò nel
1877 1 nuovi goliardi (G. Marradi, S. Ferrari, L. Gentile, A. Straccali, G.
Biagi) si deve la nuova fortuna del vocabolo nel senso prima di
«studioso scapigliato» («il più goliardo della compagnia»; Carducci, Le
risorse di San Miniato ), poi di «studente universitario».
Il verbo guatare, che era quasi scomparso dall’uso letterario («voce
oggidì rimasa in contado», secondo il Tramater, 1834), riacquista voga,
sia in verso («Dal ciel guata la luna»: Graf, «Superstite», in Medusa ) sia
in prosa («Oggi il palazzo reale guatava il viale»: Abba, Noterelle di uno
dei Mille, 9 novembre).
Abbiamo anche parecchi esempi di voci cadute in disuso che sono
state ravvivate nell’uso pratico-, così il magistrato delle acque, istituito
con una legge del 1907, rinnova il nome di ima istituzione veneta 190 , e
serrata, antico termine storico (Serrata del Maggior Consiglio, Venezia
1296), fu esumato nel nuovo significato di «chiusura di uno stabilimento
come mezzo di lotta padronale» (ingl. lock o ut).
Allenare, vocabolo letterario ormai raro (il Petrocchi lo registrava
sotto il rigo), venne assunto nel linguaggio sportivo col preciso valore
del fr. entrainer o dell’ingL to train-, per sostituire bookmaker Isidoro Del
Lungo propose, con discreta fortuna, l’antico allibratore.
19. Latinismi e grecismi
I latinismi abbondano nei versi, specialmente nel Carducci e nella
sua scuola e nel D’Annunzio. Nella prosa non aspetteremo certo di
trovarne nel romanzo naturalistico-, tutt’al più nella prosa classicheg-
giante. Abbondanti sono nelle terminologie delle scienze, sia delle
scienze naturali che di quelle morali: ma per lo più, come è ben noto, si
tratta piuttosto di latinismi indiretti, non coniati cioè in Italia, ma in
altri paesi. Di solito, studiando nei capitoli precedenti i latinismi,
1865, p. 177. diceva d’aver sentito piovomo in Val di Nievole, e il Boito aveva
adoperato piomo nella lirica Ad una mummia, scritta nel 1862.
158 II D’Annunzio (Forse che si, p. 355) preferì piomo.
180 Si noti che magistrato riprende in questa locuzione il significato (ormai
arcaico) astratto-collettivo, mentre comunemente la parola si riferisce a persone
singole.
656
Storici della lingua italiana
abbiamo incluso nella trattazione anche i grecismi fa^mo lo stesso
nnrhp nuesta volta ma non senza avvertire che alcune voci cne u
fatino non aveva accolte sono attinte direttamente al greco 1 (per lo più
IS^TaSnfzzandole o latinizzandole parzialmente): in primo luogo nella
torminnlniria storico-archeologica (una lekythos, la tholos, un anghelos,
TSSS e g S tue£a sdeSS Ikinesiterapia ), ma anche negli sen ti
s!éph<m£ zoani, Pascoli mute *E tu dà retta alla dice 1- giustiziai e
dlm Ne{ iC lto^a , Sio traSoìJe S poesia e della prosa elevata 1
letirvismiStìtSvano un elemento essenziale del lessico: e avremmo
notuto cariare dei latinismi insieme con le voci letterarie i tradizionali
se avessimo solo che fare con i latinismi già consueti-, «d edaci malori
traspaion^’impronte » (Zanella), «posan gh àtavi re dentro gli avelli.
SuccD ^quel prezioso e palerò - rifiuto del sepulcro «(Boito),
«Pallide larve 1 dalla vita evulse » (Panzacchi), «Ed all enorme clipeo fiero
s’appoggia e sta» (Cavallotti), ecc. Ma v’è sempre la possibilità di
attingere altri latinismi o non adoperati mai, o cosi raramente da non
oypr nr6so radice nella tradizione letteraria. ^ ,
TI Carducci apre la via a parecchi latinismi nuovi o rari, che sono
molto spesso sdruccioli in conformità con le sue innovazioni metriche;
fi D’IiSSSo Smette sulla sua strada- e poi adopererà, m versi ; e ita
prosa molti più latinismi di lui; anche fi Pascoli partecipa di questa
tendenza con vocaboli comuni agli altri e con vocaboli sum; quanto ai
minori è facile rilevare l’influenza esercitata dai maggiori . Un elenco
ner ciascuno degli scrittori maggiori richiederebbe più pagine: bastino
SocM esempi pe? dar” un’idea <fi questa serie di latinismi e del nuovo
timbro che essi hanno in confronto con i latinismi tradizionali, algido,
alivolo , auletrìde, avio, cecubo, cenilo™, cincinno co abo crota o,
efebico erbido estuare, fìmbria, ilice, irremeabile, longicollo, lituo, luco
medus’eo multivolo. E andrebbero anche registrate le parole prese nel
loro significato etimologico, diverso da quello usuale: erroneo <^vaga-
testimonianza delle intenzioni
- Cosi nella stampa originale (La Messa d’oro Bolo ^fJ 9 ° 5 é 19> ’ ma
troviamo m Scarfoglio esso non viene dal latino o da Dante-, Viene dal Carducci e
dal '«' NeU^uso°lett e rario si aveva più comunemente ceruleo.
■ss Migliorini, Saggi Novec., pp. 230-23L
Mezzo secolo di unità nazionale
657
degli autori* così per fi subsannare della Chiesa di Polenta fi Carducci
stesso annota: «... osai fare italiano fi verbo latino subsannare, che
s’intende benissimo nella vulgata versione della Bibbia: “Sprevit te et
subsannavit te virgo Sion”. Altri scrittori ecclesiastici l’usarono», ecc.
In alcuni casi fi suggerimento ad attingere al latino viene dal francese
o da altra lingua straniera: così captivare (D’Annunzio) è si fi latino
captivare, ma probabilmente secondo l’esempio del francese captiver
(come si vede dal confronto con l’uso precedente, che prescriveva
cattivare ). Anzi un più preciso ricordo dei simbolisti francesi è probabi-
le per alcuni latinismi dannunziani: flavescente, lattescente, iemale,
ialino 16fl .
La fortuna di questi vocaboli di rado arrivò a oltrepassare l’ambito
letterario. Si diffuse, per motivi eufemistici, etèra™-, fi Nencioni, adope-
rando la parola, aggiunge riferendosi ai vecchi tempi: «una etèra (a
quei giorni credo che sapesse cosa vuol dire etera solamente fi
Bumouf)» 168 .
Ricordiamo la storia di velivolo-, fi D’Annunzio aveva adoperato la
parola nell’ode «Ai bagni» (1879) del Primo vere: «Con tenue murmure
l’ Adria velivolo », attingendola agli scrittori latini (Ennio, Lucrezio,
Virgilio, Ovidio) e italiani (Algarotti, Monti) nel suo significàto origina-
rio (riferito alle navi che quasi volando corrono sul mare con le loro
vele, e poi al mare stesso coperto di vele); poi, anticipando nel Corriere
della sera del 28 novembre 1909 due brani del Forse che sì, lo scrittore
giustificava l’uso che aveva fatto della parola nel romanzo, con fi
nuovo significato di «aeroplano», e concludeva: «La parola è leggera,
fluida, rapida; non imbroglia la lingua e non allega i denti; di facile
pronunzia, avendo una certa somiglianza fonica col comune veicolo,
può essere adottata dai colti e dagli incolti. Pur essendo classica,
esprime con mirabile proprietà l’essenza e fi movimento del congegno
novissimo». La parola ebbe qualche eco sia nella lingua letteraria (in
cui fu adoperata come sinonimo nobile di «aeroplano») sia nella lingua
tecnica (in cui fu usata per indicare insieme aeroplani, idrovolanti e
anfìbi) 160 .
Come si può vedere anche da questo esempio, alcuni vocaboli
possono avere una duplice storia: nell’àmbito della lingua letteraria e
in quello della lingua scientifica.
Così algido, nivale, siderale, che ebbero una loro fortuna nella
lingua poetica del secondo Ottocento, sono anche noti agli scienziati,
198 Praz, La carne, la morte e il diavolo, cit., p. 489.
197 II Carducci, il D’Annunzio e qualche altro (per es. Torraca, Nuove rassegne,
p. 452) preferirono etaira.
188 «Resurrezioni fiorentine» (1884), in Impressioni e rimembranze, Firenze 1923,
p. 120.
169 Migliorini, Saggi Novecento, p. 248, Giacomelli, in Lingua nostra, XIII, 1952,
p. 10.
658
Storia della lingua italiana
rispettivamente ai medici (febbre algida ), ai botanici {piante nivali), agli
aSt Ma 0 SiilTa n di > passarla dar cenno dei latinismi nella terminologia
scientific^dobbiamo ricordare che mentre nella prosa d’arte ne
troviamo un certo numero solo negli scrittori ansiosi di allargare il loro
lessioatominoso, Imbriani; lascivire, Faldella, ecc.), nella prosa dottrina-
le non sono rari lef finger e, Ardigò; o rrepire, surrepire, Giunati-, mservire,
Fla Nella ternhnologia 0 scientifica e tecnica i latinismi e i grecismi, e piu
ancora le parole tratte per derivazione e composizione da vocaboli
latini e greci si moltiplicano a dismisura, e penetrano assai facilmente
neii’ncr» Quotidiano col divulgarsi delle nozioni e degli oggetti a cui si
riferiscono Ecco termini come tubercolosi, bacillo, spinilo, anestetico,
anofele elio rubidio, ptomaina, fonografo, grammofono aviazione,
cinematografo , ascensore, ecc. Si tratta-per lo più di vocaboli internazio-
nali, di cui solo qualcuno coniato in Italia e Passato hngUe
puronee i più foggiati in altre nazioni e accettati m Italia.
Siche nel Sto, nell’amministrazione, ecc. i latinismi e i grecismi
abbondano: si istituiscono i probiviri, qualcuno ncorre alla cremazione,
si distinguono gli alfabeti dagli analfabeti, si divulga teste m luogo di
testimone* Qualche volta si hanno mutamenti semantici piu 0
arbitrari: gestire, per es., che secondo l’esempio classico voleva solodire
«far gesti gesticolare», in presenza di gestore e gestione prende un
significato nuovo (e biasimato dai puristi), quello di «amministrare».
g Nella vita pratica alcune voci già esistenti prendono significati
nuovi-, edicola, per es., anziché il raro signifìcatodi prende
auello di «chiosco per i giornali»; agape oltre al significato di antico
convito cristiano »-assume quello di «banchetto massonico», ecc.
C CiSnSa terminologia sportiva, in mezzo agli >?™nerev°h
francesismi e anglicismi si hanno alcune voci pseudoclassiche, del
resto anch’esse venute di fuori: podismo, ciclismo, criterium, epe-
n gìmtSsmo “nia vocaboli e contribuisce a divulgar*
le sostantivato prende valore spregiativo a cominciare dal processo
DretfùfStari Statari si diffuse al tempo (19051 del processo Murn
faiapoi contribuì a diffondere la locuzione l’«Elogio degh amori
ancillari» di Gozzano, nei Colloqui, 1911). , _
Nel campo delle scienze molto più che in quefio delle lettere 1
latinismi e i grecismi, come ormai abbiamo visto tante volte, circolano
largamente fra paese e paese: qualche volta sono addirittura foggiati
pStomenteto più lingue, come fece Enrico Cernieri. . datano
naturalizzatosi francese, che in vari suoi opuscoli in piu lingue (1875 76)
preconizzò le sue idee sul bimetallismo-. La monnaie bimetallique,
BÌ,? Ecco Ì ^cuifi f fra i moltissimi franco-latinismi: acrobazia, ascensore
(macchina) automobile, aviazione (La Landelle e ponton d Amecourt,
infili documentario draconiano, filatelia, liliale, linfatismo, lirismo.
Si i SSr pacifista, pedicure, questionario, redazione («stesti-
Mezzo secolo di unità nazionale
659
ra di uno scritto») 170 semantica, societario, teoria (nel senso di «fila») 171 ,
torrenziale, ecc. Inoltre, come si è accennato, molti tra gli usi estensivi e
metaforici, per lo più tratti da voci scientifiche e diffusisi principalmen-
te in questo periodo, malgrado le resistenze dei puristi (per es. creare,
deleterio, fenomeno, formula, superfetazione, traiettoria ecc.: cfr. p. 645),
sono ricalcati sugli analoghi usi francesi.
Anche gli anglo-latinismi sono numerosi: acquario tìngi, aquarium
1854, ted. 1857, fr. 1863: l’acquario di Napoli risale al 1873), criterium
(sport.), idrante, inflazione (nel significato economico, sorto in America
durante la guerra di secessione), metropolitana (ferrovia: significato
nato a Londra), selezione, simbiosi, ecc.
Ecco alcuni germano-latinismi: agrario (sost., «proprietario terrie-
ro»), antisemita, banausico (Croce), caratteristica (caratterizzazione») 177 ,
determinismo, epos, gipsoteca (o ghipsoteca ), kinesiterapia, obiettivo 173 ,
psicanalisi, recensione 17 *, tassametro, ecc.
Qualche latinismo sporadico è stato suggerito da altre lingue:
intransigente, sorto in Ispagna nel 1873 per indicare i repubblicani
federalisti, si diffuse subitomene altre lingue europee.
Ci limiteremo a un paio d’osservazioni sulla fonetica e la morfologia
dei latinismi (e grecismi). Già s’è accennato (p. 628) a qualche tentativo
di restaurare le grafie con eh, ph, th, y, e alla preferenza che alcuni
scrittori danno alle forme latineggianti iimagine, conscienza, ecc.) 17S .
Quando troviamo forme latine o greche con terminazioni non
assimilate, si tratta quasi sempre di voci penetrate per via indiretta:
aquarium, criterium, sanatorium, junior, senior, ecc. provengono, come
è noto, all’italiano da altre lingue europee.
Gli schemi consueti di adattamento sono qualche volta turbati da
azioni analogiche ( autodidatta , poliglotta, archiatra, per autodidatto,
poliglotto, archiatro; sillogismo per sillogismo, ecc.), qualche volta da
influenze straniere ( autocrate , ecc.) 170 .
170 «questa redazione (ci si perdoni questo mezzo francesismo, divenuto
ormai d’uso generale, e spesso, come qui, richiesto dalla brevità e dalla
chiarezza)»: D'Ovidio, Correzioni, p. 16.
171 In questo significato la parola greca fu adoperata in francese già da
Chateaubriand: in italiano la divulgò soprattutto il D’Annunzio, ma già era stata
usata prima di lui dal Guerrini («Sale una bianca teoria di vergini»; «Vita», in
Polemica, 1878).
172 «compiere la caratteristica (per parlare di un Tedesco in modo tedesco) del
volume di cui diamo conto» (D'Ovidio, 1875, in Opere, X, p. 19).
173 L’epopea è, per usare un vocabolo dell’estetica tedesca troppo abusato ma
pur proprio, è altamente, esclusivamente obiettiva» (Carducci, Opere, XI, p. 94).
174 «Il Goethe fece quel che i tedeschi chiamano una recensione del Carmagno-
la e dell’ Adelchi* (Carducci, 1873: Opere, XX, p. 360).
175 Qualche volta la scelta è dovuta al contesto: nel discorso «Per l’inaugura-
zione di un monumento a Virgilio» il Carducci adopera sempre Campidoglio-, solo
in un punto scrive, per evitare la ripetizione di due sillabe, «dai campi al
Capitolio » (Op., VII, p. 172).
176 Migliorini, Saggi ling., pp. 58-62.
660 Storia della lingua italiana
20. Francesismi
Abbiamo già visto (§ 10) come l’influenza francese sia di gran lunga
più forte che quella di tutte le altre. Si séguita, così, non solo a
mantenere moltissimi di quei vocaboli francesi che erano stati accolti
nel Settecento e nel primo Ottocento, ma ad adottarne altri. Se essi
abbondano oltre ogni credere nella letteratura di second’ordine, nei
giornali (specialmente in quelli dedicati alle mode), nei carteggi, anche
scrittori che sanno tenere la penna in mano ne adoperano in abbon-
danza. Ecco alcuni esempi di francesismi non adattati, scelti unpo a
caso: «quel francesismo barocco e langoureux del regno di Luigi XVI»
(Carducci Op XV, p. 223); « Questa volta vi risparmio il piagmsteo su la
perversità del tempo, il morceau di colorito sulla città grigia» (D’Annun-
zio, cronaca nella Tribuna del 28 die. 1884); «le vibraziom delle
pierrerìes, le luminosità dei tessuti pailletés » (Id., ibid., 16 genn. 1885); «le
osservazioni... potrebbero blesser il suo amor proprio» dett. di G. Verdi
a G Ricordi, novembre 1886); «Sono ancora ébloui della casa di Sarah»
dett. F, Martini da Parigi, 17 ottobre 1900); «tutto va ò la dérive nel
nostro paese» dett. F. Martini, 11 marzo 1908), ecc. Persino nei versi i
francesismi non mancano: nella parodia del Giobbe rapisardiano il
Guerrini e d Ricci satireggiavano Francesco Fontana, d quale «di
prolisse - francescherie lardella d verso strano»:
Voilato di nebbie
Parigi ho apperguto
e la siloetta
che il domo del Pantheon
nel cielo progetta.
Promenasi il popolo
francese la notte;
nel fango pietinano
gommosi e cocotte,
guardati dai mille
col sabre nel fodero
sergenti di ville...
La reazione dei puristi ottiene risultati assai scarsi. Nell’Appendice
alla relazione intorno all’unità della lingua (Mdano 1869) d Manzoni
cosi prospetta la lotta:
Regnano in Italia, o piuttosto pugnano tra di loro, due opinioni intorno alle
locuzioni venute di Francia, da un secolo circa, e che continuano a venire: una
che dice a tutte: Passi; un’altra che dice a tutte: Via. E qui, come in ogni questione
relativa a lingua, la soluzione logica e utile non si può trovar che nell Uso Vi.
Ma proprio per parole e locuzioni che «continuano a venire», non
esiste un atteggiamento unanime, un uso compatto, nemmeno nell’àm-
bito di una sola città.
Vediamo rapidamente alcuni tra i francesismi entrati m questo
Mezzo secolo di unità nazionale 601
periodo. Qualcuno si riferisce ada politica e aH’amministrazione:
comunardo, petroliere, sciovinismo, blocco (in sign. politico), bloccardo.
Dossier per «incartamento» si è divulgato in Italia al tempo del
processo Dreyfus. Estradare è un adattamento di extrader (che a sua
volta è un adattamento del lat. extradereì. Si organizzano istituti
analoghi alla Morgue parigina, e si chiamano morgue 177 . Nuovi vocaboli
si riferiscono ai conflitti del lavoro: sabotare, sabotaggio.
A certi aspetti deteriori deda vita mondana dobbiamo garsonnière,
cocotte, Alphonse.
Ada casa e ai suoi adornamenti si riferiscono pied-à-terre, rideau
Iridò), capitonné, ecc.
La lingua deda moda è particolarmente ricca di francesismi:
décolleté, plastron, ecc.; e così pure la cosmetica e l’igiene: brillantina,
pedicure, ecc. Ricordiamo qui anche d color marron (subito adattato in
marrone ), e l’uso di seni al plurale, nel senso di «mammede» (in luogo
del tradizionale seno «petto») 178 .
Per quel che concerne i cibi e l’arte culinaria e dolciaria citiamo
restaurant {ristorante ), menu, couvert {coperto), glassare, {mela) renetta,
marron glacé, bomboniera, ecc.
Penetrano in itadano altri vocaboli concernenti le ferrovie ( cantonie-
re , scartamento dede rotaie) e i nuovi mezzi di comunicazione {bicicletta,
ecc.; automobile, garage, chauffeur, débrayage, ecc.; hangar, decollare,
ecc.). Per i termini marittimi, citiamo oblò, passerella, salvataggio.
Molti dei ter mini indicanti scuole e tendenze letterarie ed artistiche
( parnassiani , simbolisti, impressionisti, ecc.) vengono, come si è già
accennato (p. 641), dada Francia. Ebbero fortuna bohème e bohémien-,
vernissage, ecc.
Nel linguaggio giornalistico si ha per es. d calco trafiletto (da
entrefilet); ada pubbdeità fatta nei giomad si riferisce originariamente
d termine réclame.
Hanno origine dada vita teatrale matinée, soirée, fumoir, foyer,
claque, pochade, caffè concerto, divetta, chanteuse ( sciantosa ), soubrette,
cancan. GU sport sono pieni di vocaboli francesi: pista (dal fr. piste, che
a sua volta era di origine itadana cinquecentesca), incollatura, biciclet-
ta, velodromo, routier, pistard-, boxe, masseur-, pattinare-, defaillance,
guigne ; ecc. Nelle varie scienze, oltre ai molti franco-latinismi, abbiamo
termini come liana-, falaise-, banchisa-, ecc.
Anche più numerosi sono i francesismi nei vari rami deda tecnica:
béton (betoniera ); alesare, biella, bullone, lingotto, putrella, trancia,
cliché, ascensore, turbina, volante-, ecc.
E così pure i termini generali: élite, débàcle (non nel senso letterale
177 Né servi allora che il periodico L’Unità della Lingua, 1, 1869-70, pp. 371-372,
invitasse a proporre un nome italiano. Obitorio attecchì molto più tardi.
178 Non si tratta solo di un abuso del linguaggio mondano, ma troviamo anche
nel Carducci: «Or forte madre palleggia il pargolo - forte; da i nudi seni già sazio -
palleggialo alto» («La madre», in Odi barbare, 1. II).
662 Storia della lingua italiana
di «disgelo» ma in quello figurato di «sfacelo»), surmenage, pioniere (già
adoperato precedentemente nel senso proprio di «soldato zappatore».;
ora, per spinta francese e anglo-americana, in quello fìg. di «antesigna-
no di progresso»); banale, mirabolante, macabro (ormai in senso gene-
rale, non più solo nella locuzione danza macabra ); rèver, rèveur, rèverie
(voci che troviamo frequentemente sia nel Carducci che nel De Sanc-
tis), turlupinare ; vis-à-vis (come locuz. prepositiva e come sost.); ecc.
Non meno abbondanti sono le locuzioni: tour de force, état d'àme (e
stato d’animo); battere in breccia, battere in visiera (usato anche dal
Carducci), dare la dimissione o le dimissioni, incrociare le braccia,
mettere i punti sugli i, passarsene («dispensarsi dal fare qc.»), volerne (a
qualcuno), e ancora non essere male (in luogo dell’aggettivo «brutto» o
sim.: «Dicono che non è male la vista qui»: Fogazzaro, Malombra, p. 34);
ecc.
A questa sommaria esemplificazione vanno poi aggiunte l-„ altre
parole non meno numerose che già abbiamo indicate tra i franco-
latinismi, e quelle che non abbiamo osato chiamare con questo nome
perché ibride ( cablogramma , ecc.).
La moda dei francesismi è così forte che specialmente nei campi
dov’essi più abbondano (moda, gastronomia, ecc.) si sono persino
coniati degli pseudofrancesismi ( porte-enfant , zuppa santé e sim.).
I modi di accettazione sono quelli consueti: l’adozione della parola
tal quale {élite, réclame, coup de tète, escamoter, ecc.) o l’adattamento
( pattinare , salvataggio, sciantosa, ecc.) o il calco {focolare che assume il
senso di «centro onde trae alimento» per es. un’idea, posare che prende
il significato di «darsi importanza», ecc.). È difficile in molti casi dire
perché si è ricorsi piuttosto all’adozione della parola intatta che
all’adattamento; ma spesso sono ben riconoscibili i fattori sociali e i
fattori strutturali: chic è una forma che può essere adoperata da un
elegante o da uno che affetta eleganza, mentre scicche ha un aspetto
plebeo 170 -, e analoghe considerazioni si possono fare per chanteuse
rispetto a sciantosa, per réclame rispetto a reclàm. Invece ascensore ha
potuto benissimo inquadrarsi nella serie in -sore, ed è parso trascurabi-
le il carattere più «distinto» che dapprincipio aveva a scenseur. Si nota
tuttavia un lento progresso delle forme assimilate o ricalcate in
confronto con quelle intatte, dovuto in parte a una tendenza spontanea
della lingua, in parte all’azione volonterosa, anche se non sempre
oculata e non sempre fortunata, dei puristi.
Infatti parecchi vocaboli che per un certo tempo furono in uso,
scomparvero poi: comptoir 180 , blaga' 81 , gigotto m , timbro nel senso di
170 V. il capitolo «Purismo e neopurismo» nella mia Lingua contemporanea.
180 «l’orologio a pendolo del comptoir » (Bracco, Smorfie tristi, p. 175).
181 «senza blaga (è un francesismo brutto anche in Francia, ma oggigiorno
non se ne può fare a meno)»-. Carducci, «Mosche cocchiere» (1897), Op., XXV, p.
365.
188 «Voce francese quanto si vuole ma comune da parecchio... E siccome noi
Mezzo secolo di unità nazionale 663
«campanello» 183 , ecc.; vediamo che a coup de tète si sostituisce colpo di
testa, a restaurant, per lo più, ristorante 18 *, ecc. 185 .
Altri continuarono a vivere nell’uso corrente ( debuttare , dettaglio
rimarcare, ecc.), evitati o almeno considerati da evitarsi dagli scrittori
piu accurati 186 .
Non va dimenticato che anche in questo periodo molti tra i
forestierismi venuti dalle lingue più disparate ci sono giunti per tramite
francese: qualche volta lo ricaviamo dalla documentazione, qualche
volta dalle tracce che la parola stessa ne porta. Così prima che
prevalessero turismo e turista le due parole si vedono più spesso in
torma francese ( tourisme e touriste) che nella forma originale inglese-
boxe mostra con la sua -e finale di essere un adattamento francese; ecc!
21. Albi forestierismi
D ?P° \ francesismi, il contingente più numeroso di forestierismi
penetrati in italiano in questo periodo è quello degli anglicismi. Sono
ternum di politica (meeting), di economia (trust, stock, check), di moda
(tight, smoking ); sono voci riferite alla città (sky-scraper, tradotto in
grattacielo) ai mezzi di comunicazione (ferry-boat, tramway, trolley
brougham), alla casa ( water-closet ), a usanze sociali (five o’ clock tea) a
cibi e bevande (gin); sono termini di marina (yacht, destroyer, dreadnòu-
ghty, ce qualche termine di gioco (bridge, poker), ma forse i più
numerosi sono i termini di sport (raid , performance, record, criterium;
derby, sulky, turf; football, goal; skating; sprinter-, ecc.). È l’età in cui si
sviluppa u turismo (e nasce con un nome semiinglese il Touring Club
Italiano), in cui parecchie famiglie agiate fanno educare i figli da una
nurse (e il titolo di miss prende il valore di «governante»). Delle non
poche parole tecniche la più fortunata fu film (accolta dapprima come
emm., per influenza dì pellicola). Da notare l’accettazione di alcuni
ermini generali come flirt, bluff, snob. Qualche voce si riferisce a cose
o usanze del mondo anglosassone (pitchpine , bow-window, pickpocket,
ecc.). h abbiamo lasciato da parte, avendone già parlalo più su ì
numerosi anglolatinismi.
La diversa struttura delle due lingue, e la prevalenza dell’uso scritto
su quello parlato, fa si che gli adattamenti siano pochi e poco fortunati,
^Hi l o I ^°i t ^ 1UttOSt0 ghiottì ’ co f l <l ues t° caso non la guardiamo tanto per il
sottile e lasciamo correre...»: Fanfani-Arlia, Lessico, s. v. 1
effetti senz altro ’ suona un timbro»: didascalia in P. Ferrari, Cause ed
181 I puristi preferivano ristoratore.
. , i!L ,Y 1 S eVerSa - d ° P ,° tent ativo di adattare in baluardi o baloardi il nome dei
aoulevards parigini, la forma francese prevalse.
i IT h Carducci aveva degli scrupoli nell’adoperare tappa-, «quella grande arte
lombarda che in tre tappe (perdonatemi il barbaro termine) rinnovò la coscienza
letteraria e civile di nostra gente»
664
Storia della lingua italiana
k
anche per moventi snobistici-, un po’ più facili sono se appoggiati a
suffissi, come turista e turismo, brumista accanto al milan. bruni a
brougham-, ma mitingaio (da meeting ), che ebbe qualche fortuna
nell’Ottanta, più tardi spari. Verdi scrive spice P®r ( «Ave o
preparato il mio spice che pareva un capo d opera»: lett 8 febbr 1865),
ma è un caso isolato. Nella lingua tecnica fu accolto 1 ubndo selfindu-
zione (poi, meglio, autoinduzione). Meramente grafico è 1 adattamento
^ invece non fanno nascere obiezioni i calchi nati immediatamente al
momento della penetrazione della parola in italiano-, per es. schiave
bianche. E vi è una certa tendenza a sostituire voci di aspetto
anglosassone con calchi o altrimenti: su intervie™ presto prevalseli
calco intervista, meeting fu sostituito con comizio, lock out con serrato,
check con assegno, destroyer con cacciatorpediniere, ecc. h Pitré cerco m
sostituire folklore con demopsicologia, ma il termine non trovò generale
Spesso "l’inglese è servito come tramite di parola di altre lingue
( iceberg , ecc.)-. specialmente di lingue esotiche (giungla, ecc.).
Una fisionomia speciale hanno le adozioni di parole inglesi accolte
nelle loro parlate dagli Italiani degli Stati Uniti: ncevutesottolaspmta
della necessità e attraverso contatti orali, sono quasi tutte adattamenti
(e non calchi), con forti alterazioni fonetiche e morfologiche, talvolta
dovute ad incroci: giobba da job, ghella da girl, sciabola da shovel .Un
certo numero di tali anglicismi sono stati riportati m patria dagli
emigranti, penetrando per questa via nei dialetti, specialmente m
quelli meridionali, ma anche, per es., nel lucchese. ...
Un certo numero di germaniSmi giungono attraverso contatti
culturali e contatti pratici con la Germania, la Svizzera, 1 Austria.
Citiamo alcuni vocaboli concernenti la filosofia: Weltanschauung,
Kulturgeschichte o stona della cultura, Aufklàrung,Mehrwert o plusva-
lore ecc. e calchi come autocoscienza, eticità l8S . Ebbe grande eco il
krach della Borsa di Vienna nel maggio 1873, e la parola onomatopeica
da allora entrò nel linguaggio finanziano e m quello generale italia-
no 188 Le lotte del lavoro riecheggiano in qualche calco ( datore di lavoro)
e nel titolo di giornale Avanti! (1896), che traduce 1 analo f 0 ,^?^
Per ciò che concerne cibi e bevande, ncordiamo il diffondersi
dell’uso di birrerie alla tedesca, servite da cameriere (chellenne, da
Abbiamo già rinviato alla miglior trattazione che abbiamo sull’argomento,
mifìlla di A Menarmi nel volumetto Ai margini della lingua. Uno fra 1 primi ad
attirare^ l’atterudone'su questo linguaggio fu il Pascoli, nel poemetto. «Italy» (sì
vAria Qnrhp la «nota» relativa, nei Primi poemetti). .
™ Dopo il ’BO, in Calabria gli studenti di filosofia furono ironicament
chiamati begriffi eco del frequente uso di Begriff che faceva hegelianamente
Bertmndo Spaventa dalla sua cattedra di Napoli (F. Nicolim, m Lingua nostra, II,
1948, p. 51).
ise Errerà, Nuova Antol., XXV, 1874, p. 410.
Mezzo secolo di unità nazionale 665
Kellnerin) 190 , e l’importazione o imitazione di specialità gastronomiche
(.Wurstel, ecc.).
L’alpinismo e poi il turismo danno occasione a nuovi germaniSmi
( edelweiss , alpenstock; Kursaal, e persino nomi come Portofino Kulm e
simili).
Dall’uso delle governanti tedesche (specialmente svizzere) viene il
significato di «governante» attribuito a Fràulein (come s’è visto ora ora
per miss).
Per le belle lettere, ricordiamo la voce franco-tedesca belletterista
(«frati e preti belletteristi», scriveva il Carducci nel 1895, nella prefazio-
ne alle Letture del Risorgimento italiano : Opere, XVIII, p. 13) e minnesin-
ghero (altra voce carducciana) ecc.; la musica wagneriana porta con sé
Leitmotiv, poi largamente usato anche fuori dell’uso proprio.
I progressi di parecchie scienze conseguiti in Germania trovano eco
in Italia anche nella terminologia: per citar solo un esempio, in
linguistica si adotta largamente Ablaut, Umlaut (anche umlautizzare-.
De Lollis, in Misceli. Ascoti, Torino 1901, p. 283), e si ricalcano altri
termini (neogrammatico , ecc.).
Sui germano-latinismi possiamo sorvolare, avendone già indicati
parecchi (p. 659).
Altri germaniSmi si riferiscono solo alle condizioni dei paesi rispetti-
vi ( Reichstag , Kulturkampf; Burschenschaft, Backfisch, ecc.).
Come s’è visto dagli esempi citati fin qui, si hanno quasi soltanto
adozioni attraverso la lingua scritta ovvero calchi. Le relazioni orali
dirette dovute agli emigranti lasciarono sì qualche traccia, ma solo nei
dialetti: quelli che parteciparono alle grandi costruzioni ferroviarie (S.
Gottardo ecc.) riportarono per es. nei dialetti dell’alto Veneto isenpón
(«ferrovia», da Eisenbahn), sina («rotaia», da Schiene), ecc.
Senza confronto minore è l’influenza di altre lingue. Qualche parola
viene dai paesi Iberici ( intransigente , v. p. 659; tango dall’Argentina,
1910; fazenda dal Brasile). Qualcuna giunse dai paesi scandinavi (saga ;
ski, poi sci, diffusisi anche in Italia nell’uso sportivo). Dalle lingue slave
giunge qualche termine riferito a cose locali (konak ; duma; termini
come mugih, isbà, troika, ecc. si divulgano attraverso le traduzioni dei
romanzi russi; dolina piuttosto che direttamente dallo sloveno o dal
croato ci giunge come termine scientifico intemazionale: v. p. 651 n.).
Un certo numero di voci africane riferite a cose locali si divulgano
nell’uso in séguito alle guerre e agli stanziamenti coloniali: ascari, ras,
negus, amba, tucul, futa, ghirba, ecc. Qualche parola acquista anche
usi figurati: «i ras della magna letteratura contemporanea» (Rivista, 10
genn. 1897, contro Carducci); «i basci buzuk del tecnicismo» (Carducci,
1897: Opere, VII, p. 462). Il nome della tribù dei crumiri, venuto alla
ribalta della stampa per i fatti di Tunisia del 1881, fu poi applicato ai
non scioperanti (v. p. 639).
,w Nel dialetto bolognese, si adattò in snit il ted. Schnitt «mezzo bicchiere».
1
666
Storia della lingua italiana
Giungono anche dall’Asia e dall’Oceania voci esotiche talvolta
fatte conoscere da relazioni di viaggi, italiane o straniere, talvolta per
altre vie. Abbiamo così giungla, veranda, nirvana Qa cuiconoscenza è
dovuta, più che agli specialisti di filosofia indiana, alla divulgazione di
Schopenhauer); pigiama (voce persianà, giunta attraverso il diffondersi
del nuovo indumento), voci giapponesi come mikado, geisha, musmè,
kimono, harakiri (mal trasformato in karakiri, già nel Piacere di
D’Annunzio), giunte attraverso opere di divulgazione, relazioni di
giornalisti durante la guerra russo-giapponese, e magari operette come
La Geisha (1906) 191 , ecc.
22. Voci italiane in lingue straniere
Gli italianismi passati in questo periodo ad altre lingue non sono
numerosi e si presentano in certo modo isolati, come effetto di singoli
eV€ Eco della gesta garibaldina è in Bulgaria il nome garibaldejka d&to
a una specie di blusa. Irredentismo si estende dalle condizioni politiche
italiane e quelle di altri paesi tff. irrédentisme, mgl. irredentismi Si
imparano a conoscere i malanni materiali tmalana, fr. 1867; ma mg .
già dal 1740) e quelli morali d’Italia Imaffia, fr. 1875). Tra le specialità
gastronomiche, ha fortuna il risotto tìngi. 1884; fr. (1 g 67)
palafitte scoperte dai paletnologi danno origine al fr. palafitte ! 11867J,
mentre il mattoide del Lombroso è ripetuto in francese {mattoide) e m
inglese {mattoidi Interessante è la storia di ferroviario, che, cornato in
Italia, passa dapprima, sotto la forma ferroviaire, nella Svizzera
francese, poi in Francia 182 . . ..
Naturalmente, si potrebbe mettere insieme un elenco molto più
ricco e variopinto se tenessimo conto di singoli scrittori o giornalisti
stranieri che parlano di cose italiane: per es. nel romanzo di Anatole
France Le lys rouge (1894) troviamo numerosissimi italianismi che
servono per il color locale {briscola, libeccio, loggia, palazzo, ecc.J.
191 A questa operetta è anche dovuta la divulgazione della formula cinese di
brindisi cin-cin-. v. Menarmi, Lingua nostra, XII, 1951, pp. 97-99.
ire Migliorini, Saggi Novecento, p. 144.
EPILOGO
Il periodo che si apre con la guerra del 1915-18, sia per lo
sconvolgimento politico e sociale prodotto dalla guerra stessa e dalle
successive vicende (fascismo, seconda guerra mondiale), sia per l’im-
portanza che i nuovi mezzi di comunicazione (e specialmente la radio,
il cinema, la televisione) hanno assunto sull’evoluzione della lingua,
richiederebbe altro discorso.
Poiché tuttavia già ho avuto occasione a più riprese di discuterne 1
mi faccio lecito di chiudere qui la mia trattazione.
Abbiamo visto, dopo secoli d’incubazione, apparire nel 960 la prima
testimonianza di un nuovo volgare, contrapposto a quella che fino
allora era stata la lingua scritta per eccellenza del mondo occidentale;
poi per due secoli e mezzo abbiamo trovato documenti relativamente
scarsi e sporadici. Ma quando nel Duecento la nuova lingua si
comincia a adoperare quasi a gara con le due lingue letterarie di
Francia, e l’esempio dato dai Siciliani e dai Bolognesi viene accolto a
Firenze, essa si manifesta già alta e matura, con quelle che saranno
per sempre le sue caratteristiche essenziali: e Dante ne proclamerà in
teoria e ne dimostrerà poetando l’attitudine a diventare la lingua di
tutta l’Italia.
Altre grandi lingue europee (il francese, lo spagnolo, l’inglese)
hanno avuto già anteriormente all’italiano ima loro prima fioritura: ma
poi quando si spanderà l’ondata dell’umanesimo ne saranno sconvolte
e dovranno riassestarsi su altre basi per attingere ima nuova classici-
tà. Invece l’italiano già in questa sua fase preumanistica si stabilizza
nei suoi caratteri essenziali: sia per la struttura grammaticale sia per il
lessico delle nozioni fondamentali, che riceverà nei secoli molti incre-
menti ma relativamente pochi cambiamenti. Si manifesta in mille modi
quel culto della forma che è l’atteggiamento secolare anzi, possiamo
dire, perenne degli Italiani rispetto alla loro lingua: e ima delle
manifestazioni più tipiche è il desiderio di adeguarsi a quei tre grandi
trecentisti che avevano fornito così alti modelli letterari.
Dopo un breve periodo in cui pare che il latino arrivi a sommergere
il volgare, questo riprende l’aìre, e in ima forma che avrebbe potuto
aprire nuove strade, per quella circolazione fra strati superiori e
inferiori della società che nella lingua letteraria della cerchia di
Lorenzo il Magnifico è così ben mantenuta.
668
Storia della lingua italiana
Ma le cose vanno altrimenti: l’invenzione della stampa spinge a una
relativa unificazione della lingua scritta, e il toscano deve pagare un
forte prezzo per essere accolto come lingua letteraria di tutta la
penisola La codificazione avviene principalmente sotto gli auspici
della grammatica bembesca, e quindi per via retorica e arcaizzante,
così che gli scambi con la lingua parlata sono scarsi, e luso della
lingua letteraria è esteso sì a tutta l’Italia geografica, ma resta limitato
alle classi colte.
Le cose non mutano, a questo riguardo, nei secoli seguenti.
Anche la formazione del lessico delle vane scienze, che si viene
sviluppando di secolo in secolo, si compie su fondamenti greco-latini,
che mantengono bene i contatti fra le varie lingue europee, ma sempre
su un livello assai alto e non popolare.
Mentre nel Cinquecento la lingua italiana, usufruendo dell alto
prestigio della cultura del Rinascimento, era largamente nota nell Eu-
ropa civile, nel tardo Seicento e nel Settecento la corrente s inverte, e
l’italiano è fortemente influenzato, specialmente dal francese.
All’invasione dei forestierismi cercano di reagire, sempre sul piano
letterario, i puristi. Ma il più insigne fra i Romantici, il Manzoni, si
rende conto che la lingua non è soltanto strumento letterario, ma è uno
strumento sociale nel più ampio senso della parola: mentre come
scrittore dà un colpo mortale alla retorica, come linguista vorrebbe che
all’unità politica, ardentemente desiderata e infine conseguita, corri-
spondesse un’unità linguistica. . ' , ,. ,
Infatti dal ’61 e più ancora dal ’70 in poi, sia pure in modo diverso da
quello che il Manzoni preconizzava, i progressi nell unificazione
linguistica in senso orizzontale sono stati assai notevoli, anche se
avvenuti in parte non più sotto il controllo del buon gusto dei letterati,
ma ad opera della vita pratica nei suoi aspetti più vari (amministrazio-
ne, giornalismo, sport, ecc.). In progresso assai lento è invece tuttora la
circolazione in senso verticale, per l’ancora scarsa cultura di larghissi-
mi strati della popolazione. Ma una crescente unificazione è probabile:
come la divulgazione della stampa in tre o quattro generazioni ha reso
sensibilihente uniforme la lingua scritta, così i nuovi mezzi di divulga-
zione della parola (radio e televisione) stanno dando una maggiore
uniformità alla pronunzia. .
Quale sia per essere la lingua di domani, non e possibile vaticinare,
se non ripetendo quelle parole con cui Gino Capponi concludeva il suo
noto saggio della Nuova Antologia (1869): «la lingua italiana sarà ciò
che sapranno essere gli Italiani».
AGGIUNTE E CORREZIONI
alla quinta edizione postuma
Era abitudine di Migliorini ritornare pazientemente, con scrupolosa
diligenza, sopra i suoi lavori, apportando modifiche e aggiunte, dovute
a sviluppi di nuove ricerche o a suggerimenti di recensori e lettori, che
poi introduceva nelle edizioni successive.
Alla Storia della lingua italiana aveva dedicato particolari attenzio-
ni delle quali si può trovar traccia sia nelle edizioni «maggiori», sia
nelle varie edizioni economiche.
Qui sono raccolte le aggiunte e le correzioni che Migliorini aveva
preparato in vista di una nuova edizione completa e che sono annotate
in un suo esemplare della Storia della lingua italiana che porta la
dicitura «Copia della quarta edizione per la tipografia (5 a ed.)». Si tratta
in genere di correzioni formali, di eliminazioni di sviste e refusi; le
aggiunte sono limitate a pochi casi e a cenni indispensabili, in modo da
non richiedere rielaborazioni sostanziali e di conseguenza sconvolgi-
menti nelfimpaginazione: sono qui riprodotte tali e quali, nella forma
stabilita da Migliorini.
Si è tenuto conto anche di un certo numero di schede, parte unite al
volume, parte conservate insieme ad altri materiali che riguardano la
Storia della lingua italiana fra le carte di Migliorini all’Accademia
della Crusca, contenenti diverse annotazioni sommarie, che eventual-
mente avrebbero dovuto essere introdotte. Queste schede tuttavia sono
state utilizzate in misura limitata, dato che molte appaiono ancora
evidentemente bisognose di una elaborazione da parte dell’autore. Qui
di seguito sono indicate con un asterisco; su di esse si è talora
proceduto a integrazioni, che però riguardano soltanto il completamen-
to delle indicazioni bibliografiche.
In genere si tenga presente che l’aggiornamento riguarda materiali
bibliografici anteriori al giugno del 1975 (data della morte dell’autore) e
che, per una nuova edizione, Migliorini avrebbe sicuramente perfezio-
nato e completato il suo lavoro di revisione.
Desideriamo manifestare la nostra gratitudine al professor Ghino
Ghinassi che ha rivisto queste aggiunte: alla sua cortesia e alla sua
competenza siamo debitori di non poche osservazioni e di consigli
preziosi.
Massimo Luca Fanfani
670
Storia della lingua italiana
BIBLIOGRAFIA
p. 7: tra le voci Castellani e Crescini si aggiunga Contini, P. Duec. G.
Contini, Poeti del Duecento, Milano-Napoli, 1960.
p. 8, r. 25 dal basso: B. Migliorini, Lingua contemporanea, 3 a ed.,
Firenze, 1943. si legga B. Migliorini, Lingua contemporanea, 4 a ed.,
Firenze, 1963.
ibid., r. 19 dal basso: B. Migliorini, Saggi sulla lingua del Novecento , 2 a
ed., Firenze, 1942. si legga B. Migliorini, Saggi sulla lingua del
Novecento, 3 a ed., Firenze, 1963.
CAPITOLO i
* p. 28, rr. 30-31: fra hastula e illinc si aggiunga haurire: chiogg., friul.,
logudor. orìre (REW 4082);
CAPITOLO il
* p. 55, r. Il: dopo meridionali si aggiunga la nota
a» per l’influenza del lessico longobardo nell’Italia meridionale, special-
mente neuL toponomastica, vedi F. Sabatini, Riflessi IMMri AH. dona-
zione longobarda nell'Italia mediana e meridionale, Firenze, 1963.
* p. 63, r. 5: dopo volgare parlato si aggiunga la nota
»» Sui registri intermedi tra il latino classico e quello P ar l at o- D’arco S.
Avalle, Latino * circa romangum* e « rustica, romana lingua», Padova 19^,
G B Picchi «La vita ritmica di San Zeno», m Mem. dellAcc. delle Se. delljstit.
dì Bologna Bologna, I960; D. S. Avalle, «Alcune particolarità... della Vita
ritmica^di San Zeno”», in Linguistica e filologia. Omaggio a Benvenuto
Terracini, Milano, 1968, pp. 9-38-, F. Sabatini* Dalla senpta noma™ rustica
alle ‘scriptae’ romanze», m Studi medievali, s. 5 , IX, 1968, pp.
* ibid t. 10: dopo autonomo, si legga Parole volgari affiorano in qualche
breve iscrizione, come in quella della prima metà del sec. IX,
graffita nella catacomba di Commodilla dove un religioso richiama,
in volgare, un confratello a recitare le secata a bassa voce .
* R Sabatini, in Studi ling. it, VI, 1966, pp. 49-80. Vedi anche Fiscnzione
che si legge su un portale (oggi smurato) della cattedrale di Civita Castellana.
Eneas, gative, aiutarne,
Non possum, quia crepo.
(G. Contini, «Un’antica iscrizione laziale semivolgare?», in Lingua nostra,
XXVII, 1966, p. 14).
Aggiunte e correzioni
671
* p. 63, r. 12: dopo volgare si aggiunga la nota
“ È fra la fine del sec. IX e l’inizio del X il glossario di Monza con 63
lemmi, non più in latino come in altri glossari, ma in italiano padano tradotti
in greco.- B. Bischoff - H.-G. Beck, «Das italienisch-griechische Glossar der
Handschr. e 14 (127) der Biblioteca Capitolare in Monza», in Medium Aevum
Romanicum, 1963, pp. 49-62-, cfr. F. Sabatini, «Il glossario di Monza», in Atti
Accad. Torino, XCVIII, 1963-64, pp. 51-84 e O. Parlangeli, «Il glossario
monzese», in Atti Accad. Pontaniana, n.s., XV, 1966, pp. 241-269.
* p. 65, n. 46: in fondo si aggiunga Vedi anche F. Panino, «Se pareba boves», in
Annuario 1966-67 del Liceo scient. «G. Galilei » di Macerata, pp. 1-41.
p. 66, n. 48: in fondo si aggiunga Cfr. anche la recensione di Monteverdi a questo
paragrafo in Cult, neolat., XXII, 1962, pp. 219-221.
* p. 68, n. 51: si aggiunga (Cfr. ora Id., in Studi ling. it., II, 1961, p. 40, dove si
stabilisce che nel testo appare bona e non buona).
* p. 74, n. 76: in fondo si aggiunga Una buona sintesi in G. Bonfante, Latini e
Germani in Italia, 3 a ed., Brescia, 1965.
p. 79, r. l: nastro, si legga nastro (?),
* ibid., r. 9 dal basso: si tolga trogolo che compare già negli esempi della
pagina precedente
CAPITOLO III
* p. 97, r. 8: invece di esige l’enclitica si legga proibisce la proclitica
* p. 98, n. 39 (segue p. 99): in fondo, invece di moscia «massa» si legga moscia
«podere».
p. 99, n. 40: i primi cinque righi sono cancellati;
rigo 6: invece di Anche i si legga I
dopo il rigo 12, a capo, si legga
Quanto ai brani in volgare calabrese di ima carta di Rossano edita
dall’Ughelli, essi sono un’aggiunta di età incerta (forse ancora del sec. XII)
alla traduzione di ima carta greca del 1114: si veda il testo critico di A.
Colonna, in Rend. Ist. Lomb., Lettere, LXXXIX, 1956, pp. 9-26; Id., in Studi di
filol. it., XXIII, 1965, pp. 5-17.
p. 101, r. 10: invece di Antonio si legga Giovanni
* p. 103, n. 55: in fondo si aggiunga; V. ora dello stesso, «Storia deu iscrizione
ferrarese del 1135», in Atti dell Accad. dei Lincei, Cl. se. morali storiche e filol.,
S. 8 a , XI, 1963, pp. 101-140.
672
Storia della lingua italiana
Aggiunte e correzioni
673
* p. 104, r. 9: dopo ultimi anni del sec. XII o del principio del XIII. si
aggiunga la nota
580 La data viene ora fissata fra il 1151 e il 1157 dal Contini, P. Duec., pp.
xvii e 4-5.
CAPITOLO IV
p 126, rr. 6-7: invece di (con quattro piccole e probabilissime correzioni
dei Debenedetti): si legga (con cinque piccole e probabilissime
correzioni):
ibid., r. 8 dal basso: allegrali si legga alligrari
* p. 126, n. 30: in fondo si aggiunga V. ora O. Parlangeli, «La canzone siciliana di
Stefano Protonotaro», in Studi linguistici salentini , II, 1969, pp. 55-70.
p. 127, r. 18: ima chiacenza si legga il chiacenza
* p. 129, n. 41: in fondo, a capo, si aggiunga
Per la mediazione dalla Sicilia alla Toscana: I. Baldelli, «Rime siculo-
umbre del Duecento», in Studi di filol. it, XXIV, 1966, pp. 5-38, ora in Medioevo
volgare da Montecassino all'Umbria, Bari, 1971, pp. 255-293.
* p. 135, n. 58: in fondo si aggiunga Cir. ora Contini, P. Duec., I, pp. 29-34
p. 139, r. 22 grand(e) si legga grande
* p. 162, n. 139: si aggiunga in fondo
V. ora G. B. Pellegrini, Gli arabismi nelle lingue neolatine con speciale
riguardo all’Italia, Brescia, 1972.
CAPITOLO V
* p. 170, r. 14: dopo avessimo si aggiunga la nota
u sul volgare curiale: G. Devoto, Linguaggio d Italia , Sfilano, 1974, p. 249,
e la voce «Curiale» di P. V. Mengaldo in Enciclopedia dantesca, II, Roma, 1970,
p. 288.
* p. 179, r. 13: dopo Apocalisse si aggiunga la nota
iea Conservo si trova anche nel Vangelo di Matteo.
* p. 180, r. 1: si tolga come canta (Purg. , XXXI, v. 4) (che già era (sotto la
forma cunctaì in Uguccione e Giovarmi da Genova).
CAPITOLO vi
* p. 199, n. 56: in fondo si aggiunga V. ora Maestro Antonio da Ferrara (Antonio
BeccarO, Rime, ed. crit. a cura di L. Beliucci, Bologna, 1967 (e 1972) e la
recensione di A. Balduino iLett. it., XX, 1968, pp. 526-542).
* p. 201, n. 62: si aggiunga in fondo Per i tre sonetti in veneziano, padovano e
trevisano, finora attribuiti a Nicolò de’ Rossi: M. Corti, «Una tenzone poetica
del sec. XIV in veneziano, padovano e trevisano», in Dante e la cultura veneta,
Firenze, 1966, pp. 129-142.
* p. 204, n. 73: si aggiunga Ma cfr. Contini, P. Duec., I, pp. 883-884 e 890-891.
p. 208, r. io dal basso: invece di seguito si legga accompagnato
p. 210, r. 6 dal basso: invece di valentissimi si legga finissimi
CAPITOLO VII
p. 224, r. 12 dal basso: invece di Firenze si legga Livorno
p. 231, r. 22: invece di aggiungeva si legga diceva
p. 238, n. 54: in fondo si aggiunga (nuova ed., 1964).
p. 240, n. 66, r. 2: Teogenio si legga Theogenius.
ibid,, n. 66, ultimo rigo: invece di ( Opere volgari. III, p. 160). si legga (dedica a Lionello
d’Este, Opere volgari, a cura di C. Grayson, II, Bari, 1966, p. 55).
p. 241, r. 11 dal basso: invece di Cicco si legga Giovanni
* ibid., n. 70: in fondo si aggiunga ; R. Cardini «Cristoforo Landino e l’umanesimo
volgare». I, in «La Rassegna della lett. it., LXXII, 1968, pp. 267-296, con ima
nuova edizione della prolusione landiniana al Petrarca che forse è del 1467 (o
68, o 691, cfr. ora, dello stesso, La critica del Landino, Firenze, 1973, pp. 1 13-232.
p. 245, rr. 2-3 dal basso: da l’identificazione ad Alberti, si legga ma l’identifica-
zione dell’autore con Leon Battista Alberti è ormai sicura.
ibid., n. 80: invece di V. il testo in appendice a Trabalza, Storia gramm. si legga V.
l’edizione di C. Grayson, La prima grammatica della lingua volgare. La
grammatichetta vaticana, cod. Vat. Reg. Lat. 1370, Bologna, 1964 e in Opere
volgari, III, Bari, 1973, pp. 175-193.
ibid., n. 81: si tolga specialmente e in fondo si aggiunga ; C. Colombo, «Leon Battista
Alberti e la prima grammatica italiana», Studi ling. it., III, 1962, pp. 176-187; e
l’introduzione all’edizione Grayson, pp. v-xlviii.
p. 251, r. 22: invece di (o Pietro Edo) si legga (o Cavretto, o Edo)
* p. 252, r. 19: dopo cultura si aggiunga la nota
V. ora P. V. Mengaldo, La lingua del Boiardo lirico, Firenze, 1963.
* p. 255, n. 134 in fondo si aggiunga-, Cfr. ora S. Gentile, Postille ad una recente
edizione di testi narrativi napoletani del ’400, Napoli, 1961, pp. 18-28.
* p. 259, n. 157, ultimo rigo: dopo cyfris. si legga L’attribuzione è ormai sicura (v. C.
Colombo, Studi ling. it.. Ili, 1962).
* p. 265, r. 2: dopo fussi si aggiunga la. nota
674
Storia della lingua italiana
175 “ Sull'uso del congiuntivo imperfetto in L. B. Alberti: v. la recensione di
Gh. Ghinassi a M. Dardano, «Sintassi e stile nei “Libri della famiglia” di L. B.
Alberti» (Cult, neolatina, XXIII, 1963) in Lingua nostra, XXV, 1964, pp. 59-61, a
P- 59.
CAPITOLO Vili
* p. 312, n. 86: in fondo si aggiunga V. ora P. V. Mengaldo, «Appunti su V. Calmeta e
la teoria cortigiana», in Ross. lett. it., LXIV, 1960, pp. 446-469.
p. 314, r. 9 dal basso-, invece di premessa all’edizione del 1527 si legga
scritta nel 1527 e premessa all’edizione del ’28,
* p. 320, n. 95: in fondo si aggiunga V. ora H. Baron, «Machiavelli on thè Ève of thè
“Discourses": thè Date and Place of his “Dialogo intorno alla nostra lingua”»,
in Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance, XXIII, 1961 pp. 449-475. Dubbi
sull’attribuzione al Machiavelli di questo Dialogo ha posto C. Grayson,
«Machiavelli e Dante. Sulla data e l’attribuzione del “Dialogo intorno alla
nostra lingua”», in Studi e problemi di critica testuale, II, 1971, pp. 5-28;
l’articolo del Grayson ha suscitato un ampio dibattito, non ancora concluso.
* p. 324, n. 100: in fondo, a capo, si aggiunga Sul Gelli si veda ora A. De Gaetano, «G.
B. Gelli and thè Questione della lingua», in Italica, XLIV, 1967, pp. 263-281; Id.,
«G. B. Gelli and thè Rebellion against Latin», in Studies in thè Renaissance,
X2V, 1967, pp. 131-158.
p. 328, r. 12 dal basso: invece di di origine dalmata, vissuto a lungo a
Pordenone) si legga pordenonese, che aveva avuto alti uffici a
Trieste)
p. 331, r. 2 dal basso: 1601 si legga 1602
p. 340, r. 12 dal basso: invece di dal Cian con si legga dal Cian e poi dal
Ghinassi con
ibid., r. 9 dal basso: invece di e del Bembo) si legga e del bembiano
Giovanni Francesco Valerio)
ibid., n. 145-. in fondo si aggiunga ; Gh. Ghinassi, «Postille all’elaborazione del
“Cortegiano”», in Studi e problemi di critica testuale. III, 1971, pp. 171-178.
* p. 344, r. 13: dopo consiglio si aggiunga ; Michelangelo sottopose alcune
sue poesie alla revisione del Giannotti e del Riccio.
* p. 356, n. 205: in fondo, a capo, si aggiunga Per le norme stabilite dal Trissino v. M.
Vitale, «Di alcune forme verbali nella prima codificazione grammaticale
cinquecentesca», in Acme, X, 1957, pp. 235-275.
p. 365, rr. 1-2 dal basso: cateto, lemma, ecc. si legga per esempio lemma.
p. 366, r. 6 dal basso: si cancelli omologare,
* p. 372, n. 259: in fondo si aggiunga Per cerasa v. ora G. Rohlfs, in Medium Aevum
Romanicum, Monaco, 1963, p. 291.
[L’edizione economica elimina varola.]
p. 380, rr. 12-13: da importato a «borsa, guaina», si legga di questa età
(come busta «involucro», entrato a Venezia dal Levante,
Aggiunte e correzioni
675
* p. 381, r. 15.- si cancelli zaino
CAPITOLO IX
P ' T 10 Tf?’ ■ ln f ond f°\ a “PO' s£ aggiunga Su queste innovazioni v ora M Vitale
T del . Viario della Crusca”. Tradizione e iLovazSone
nelia cultura linguistica fiorentina secentesca», in Acme, XVIII 1963, pp. 89 -
* P ’ 75: si a ? g Ì“ rlga Sfondo ■. V. ora M. Vitale, «Leonardo di Capua e il
capuismo napoletano. Un capitolo della preistoria del purismo ling uistico
italiano, *in Acme, XVIII, 1903, pp. 89-159 purismo linguistico
P ' datata 5 1 601 ) baSS ° : fVenezia 1601) si ^ga Venezia 1602; prefazione
pp. 438, r. 4: G. Paganino, si legga P. Gaudenzio,
P- 447, r. 13: agrimani (Lippi) si legga agrimani,
capitolo x
p. 461, r. 13 dal basso: attribuita a B. Marcello, si legga del p. F. A. Arizzi,
p. 467 r. 5-6: da (che a opere) si legga (dopo la sua morte furono citati
molti esempi tratti dalle sue opere)
ibid., rr. 12-13.- invece di attribuita a B. Marcello si legga del p. F. A. Arizzi,
p. 474, r. 9 dal basso-, si cancelli tra gli It alian i
ibid., r. 6 dal basso: prima di i maestri di ballo si legga i sarti,
* p. 479, n. 126: in fondo si aggiunga Sull’uso dell’italiano in Voltaire, v. ora G
Polena, «Divagazioni sull’italiano di Voltaire», in Studi in onore di V. Lugli e
D. Valeri, Venezia, 1981, pp. 391-424.
* Ì54: invece di quadripartizione del Gigli si legga quadripartizione
suggerita al Gigli da F. O. Tondelli
p. 504, r. il: si cancelli probabilmente da lui stesso fomite,
ibid., r. 21: si cancelli (più volentieri con prefìssi)
ibid., r. 23: dopo berlinale, si legga cardinalume.
capitolo xi
p. 545, r. 19 dal basso.- dà Vocabolario a modi si legga Dizionario de’
francesismi e degli altri vocaboli e modi
676
Storia della lingua italiana
p. 554, rr. 17-18: da oltre a di M. si legga la raccolta di M.
ibid., r. 20-. spogli. Su si legga spogli, fu compendiata e riveduta dal
Compagnoni. Su
ibid., r. 26: invece di nel 1806 si legga tra il 1806 e il 1811
ibid., r. 28: tratte da si legga tratte in gran parte da
CAPITOLO XII
p. 605, n. 11: in fondo si aggiunga Cfr. M. Raicìch, «Questione della lingua e scuola
(1860-1900)», in Bel/agor, XXI, 1966, pp. 245-268 e 369-408.
p. 615, r. 19: invece di quasi si legga più che
p. 623, r. 13: (Rocca S. Casciano 1871-1892) si legga, (Rocca San Casciano
1892)
p. 629, r. 5: invece di tagliate si legga con un taglio
* p. 638, n. 100-. infondo si aggiunga ; ora G. Herczeg, Lo stile indiretto libero, Firenze,
1963.
* p. 641, n. 109: si aggiunga infondo : Già nel 1835 V. Hugo aveva pubblicato gli
Chants du crépuscule, nei quali intendeva esprimere «cet étrange état
crépusculaire de l’àme et de la société dans le siècle où nous vivons». Alcuni
precedenti italiani e francesi della parola sono indicati in Lingua nostra,
XXIII, 1962, p. 113, e XXVIII, 1967, p. 23.
p. 662, r. 12: invece di dell’aggettivo «brutto» si legga di «non esser brutto»
p. 666, r. IO-, invece di operette come La Geisha (1906) si legga opere e
operette (Butterfly, 1904; La Geisha, 1906)
INDICE ALFABETICO
Sono inclusi nello spoglio tutti i vocaboli di cui si tratta nel volume
mentre dei nomi propri e dei fenomeni linguistici si citano solo i più
notevoli.
a con il compì, agente, 211
a con il compì, oggetto, 213
a: il tipo pollo allo spiedo, 476, 490
a-, 152
■a plurale, 69, 208, 487, 564, 632
abadessa, abbadessa, 463
ab antico, 178
abate, abbate, 360, 423, 434, 495, 562
abbacchio, 652
abbadessa, abbate : v. abadessa, aba-
te
abbagliocchi, 651
abbagliare, 412
abbandonare, 81
abbassagione, 412
abbattitoio, 650
abbazia, 82
abbiatico, 651
abbordo, -are, 518
abbonita ( all ’) 79
abbruciare, 480
abbrugiare, 419, 480
abbutire, 595
abento, 128
aberrazione, 514
abiatico, 651
abile, 520
-abile, 505
abimé, 593
abitaggio, 412
abitanza, 375
abituro, 412
«ablativo assoluto», 569
ablato, 218
Ablaut. 665
abolire, 369
aborrendo, 277
Abruzzi, 207, 253
absorto, 155
abulia, 641
academia, 480, 481, 562, 581
Acarisio, A., 331
acaro, 433
Accademia, 4, 269, 362, 480
Accademia del Cimento, 393
Accademia della Crusca, 326-327,
333-334, 407-410, 449, 464, 466-468,
529, 546-548, 554-555, 622
Accademia Fiorentina, 333, 467
Accademia Senese, 333
accademici, nomi, 405
Accademie, 284, 286-287, 332-334 391
529
accalappiacani, 644
accalappiare, 412
accanto, 412
accaparrare, 584
accattare, 414
accensibile, 576
accenso, 513
accento e sua posizione nelle parole
23-24, 157, 262, 424, 484
accento grafico, 260, 349, 422 483
561, 628
-acchio, 152
accia, 374
acciale, 372
accidente, 155
accidioso, 55 1
accipitrare, 437
678 Storia della lingua italiana
acciuga, 34, 165, 268
accollare «abbracciare», 219
accompagno, 579
accordo con l' indefinito di quantità,
211
accozzare i pentolini, 584
accudire, 381
accumulatore, 642
«accusativo alla greca», 191, 569
«accusativo con l’infinito», 71, 212,
427, 569
acervato, 589
acetito, 499
Achille, 403
Achillino, G. F„ 331
acidulo, -olo, 514
aconito, 631
acqua, 27
acquario, 659
acquavitaro, -aio, 652
acquavite (aqua vitae) 155
acquerella, 213
acquidotto, 480
acroamatico, 590
acrobazia, 658
acrostico, 442
adagiare, 376
adagio, 448
adamante, 613
adamantino, 631
adastare, 134
addiettivo, 216
addobbare, 159
addome, addomine, 481
addrizzare, 520
Adelfi, 572
adepto, adetto, 515, 516, 517
adesso, 129
adesso, 129, 317, 344, 551
adificare, 155
adimare, 180
adiviniri sic. ant., 128
adomine, 562
adonco, 367
Adone, 403
adorare, 390, 520
adomezze sing., 148
adugge, 541
adulterio, 408
adunche, 268
adunco, 218, 367
ae dittongo lat., 347, 628
aere, 539, 587
aeroferetro, 643
aerolito, 592
aeronauta, 516
aeronautica, 514
aeroplano, 627, 640
aerostato, 496, 514, 516
afasia, 641
aferesi, 423
affascinare, 520
affettare, 369
affiorare, 520
afflao, 105
affusto, 593
Africa, Affrica, 276, 443, 626
àgape, 658
Agelli, Agello, 28
agenzare, 134, 161, 219, 375
agevole, 156
aggettivo, 216
aggettivo attributivo e sua colloca
zione, 218, 492
aggetto, 277
agghiacciamento, 432
agghiadare, 412
aggio «età», 219
-aggio, 132, 134, 152, 161, 595
aggiornare, 571
aggiotaggio, 519
aggiotatore, 497, 519
aggiugninfìne, 364
aggiugninmezzo, 330, 364
aggiugninnanzi, 330, 364
aggressione, 442
agio, 448
agire, 446
agnazione, 442
Agnesi, G., 471
agnizia, 217
■agno, 152
agnostico, 641
àgora, 656
agostaro, 154
Agostino, sant’, 23
agrario, 659
agresto, 28
agricola, -colo, 179, 579
agrimani, 447
agro, 42
agugliere, 121
aguglino, 154
aia, 370
Aielli, Aiello, 28
aigua. 129
Indice alfabetico
679
aio, 380
•aio, 69, 98, 153, 208, 261, 578
aita, 375, 541, 613
aitare-, pres. io aiuto, 209
aiutare (adiutore), 36, 38
ala, 383
alabarda, 382
alabastro, 400
àlacre, 513
alalà, 656
alambicco, 164
alare, 435
alazano, 381
alba, 44
albergata, 137
albergo, 67, 78
albemuccio, 279
albero, 27
albero «pioppo», 650
Alberti, L. B„ 240-242, 273
Alberti, F.: v. D’Alberti, F.
albertista, 572
albicocca, 176
albo, 65
album, 592
alcali, 164
alcaloide, 578
Alcamo, Cielo d’, 122, 124
alce (alces), 77
alchimia, 164
alciri sic. ant., 129
alcohol, 383
Aldebaran, 163
Alderotti, T., 144
aldrimani, 279
■ale, 152, 273, 505
alea, 447
alena, 655
àlere, 277
alesare, 661
Alessandri, G. M., 345
alessandrinismo, 192
Alessio, sant’: v. Sant'Alessio
alfabeta, 658
alfiere, al fino, 164
Alfieri, V., 457, 464, 504
algalia, 279
Algarotti, F„ 457, 477
algebra, 163
algebraico, 437
algido, 656, 657
algore, 541
algoritmo, 163
alienigena, 277
aligero, 370
Alighieri, Dante.- v. Dante
alimenti «elementi», 156
alimonia, 277
Alimurgia, 516
aliquoto, 369
■aliter, 367
alivolo, 656
alla «misura», 160
allargo, 579
allarmante, 520
allarmista, 571
alleanza, 520
allegranza, 436
«Alleluia», 115
alleluiare, 180
allenare, 642, 655
allianza, 447
allibrare, 152
allibratore, 655
allicere, 370
allidere, 442
• allo : plur. -ai, -agli, 207
allocuzione, 425
allodola, 31
allotropo, 646
allotta, 316
allumare, 521
alluminio, 577
alluvionale, 577
alluvione, 645
alma, 129, 317, 375, 506, 540
almirante, 381
almogàvero, 220
almuada, 382
alopecuro, 500
alpenstock, 665
Alphonse, 661
alpinismo, 603, 642
alpostutUìo, 376
altalena, 373
altare, 47
altezze sing., 148
altezzoso, 509
altimetria, 217
alti piani, altipiani, 561, 577
altissimevolmente, 440
alto, 27
altogatto, 582
altramenti, 214
altra volta, 521
altresì, 376
680
Storia della lingua italiana
altretale, 562
altrimenti, 214
alume, 562
Alunno, F., 331
divano, 273
alveare, -ario, 481
alzarsi, 434
amaca, 384
amanticida, 440
amanza, 129
amaranto, -antho, 276, 277, 412, 430
amariglio, 445
amar meglio, 376, 521
Amaseo, R., 398
amatorio, 277
amazone, 216, 562
amba, 665
ambedue, 551
ambiente, 5, 638, 645
ambizioso, 403
ambo, 551
ambracane, 381
ambrosia, 218
ambulanza, 591, 593
amburo, 132
àmeda, 374
amende honorable, 522
ameno, 277
Amenta, N., 466
americanismi, 384
ametisteggiare, 438
amiatina, postilla, 93
amistanza, 129
amistate, 129
amitto, 277
ammalato, 434
ammanco, 579
ammazzasette, 433
ammazzatoio, 650
amminicolo, 277
amministrazione, 287, 529, 530
ammiraglio, 152, 162
ammiraglio «specchio», 436
ammiritatu sic. ant., 128
ammissura, 277
ammosfera, 518
ammucciarsi, 445
ammuchuni, 273
ammuinare, 445
amoerre, 522
amoranza, 137
amorarmicantante, 506
amorca, 370
amore, 148, 541
amòri e amuri sic. ant., 127
amorose vespe, 192
amorosi vermi, 192
ampere, 624
ampolla, 33
amuerro, 522
amurca, 370
ana, 158
anacoluto, 369
anafonesi, 10 1, 147
anagogia, 431
analfabeta, -o, 442, 658
analisi, 514
analizzare, 517
analogia, 330
ananas, 384
ananke, 656
anarcoide, 644
anatomia, 408, 443, 562
anca, 79
ancella, 367
anche, 268
anchiovi, 268
anelila, 367
ancillare, 658
anciscocolo, 373
anco, 377
ancona, 82
àncora, 431
andanico, 158
andare-, la forma vanno, 177
andare perifrastico, 490
andar per la maggiore, 589
Andrea da Grosseto, 144
andrienne, 496, 518
androne, 82
-ane, 70
aneddoto, anecdoto, 516, 518
anelante, 277
anello,- 36
anello «ditale», 620
anemone, 412
anestesia, 642
anestetico, 658
anfibologia, 399
anfora, 33
anfratto, 442
angaria, angheria, 73
ange, 541
angela, 134
angelicato, 134
angelico, 134
Indice alfabetico
681
angelo, 35, 214, 551
anghelos, 656
Angioini, 114
angioletto, 134
angiolo, 551
anglicismi, 279, 382, 524-525, 597, 663-
664
anglo-latinismi, 516, 590, 659
anglomania, 516
angonia, 372
angosciare, 23
a nguilliforme, 516
anguria, 82
angustiare, 137
angusto, angosto, 367
a dice, 33
anile, 442
animalcolo, 514
animante, 277
ahimastico, 587
annegazione, 581
annevato, 438
annichilare, 155
annuire, 589
annulo, 270
-ano, 152
anofele, 658
Anonimo Genovese, 140
ansia ( anxia), 29
anta, 131, 372, 584
antagonia, 590
antediluviano, 503, 505
Antelami, 54
antenna, 442
a nti-, 438
anticheggiare, 438
Anticrusca, 438
antictoni, 442
Anticupido, 438
antidiluviano, 503
antisatira, 364
antiscorbutico, 505
antisemita, 659
antisepsi, 642
antitriplicista, 639
antropofago, 218, 630
antropoide, 578
antropometria, 578
-anza, 132, 134, 161, 191
Anzampàmber, 575
apatista, 441
apetalo, 499
Apocalipsi, -issi, 626
apocope, 364
apocope, 109, 202, 423
Apofasimeni, 572
apogeo, 442, 645
Apollo, 276
apostolo, appostolo, 155, 480
apostrofo, 349, 483, 628
appannaggio, 379
apparare, 508
apparire: pass. rem. appo.ri.nno, 177
appartamento, 381
appello, 593
«Appendi* Probi», 15
appetire, 137
appetito, 506
appio, 374
applaudire, 277
appo, 539
apposizione con di, 210, 266
apprendere, 44
approntici, 521
approcciare, 436
approfondire, 521
appulcrare, 180
appuntamenti, 595
■aprico, 217, 564
apro, 370
aquarium, 659
aquidoccio, 480
aquilino, 154
-ar- ed -er-, 101, 147, 323, 351, 422, 426,
581, 643
ara, -o, 582
araba, influenza, 85
arabismi, 162-164, 220, 279, 383-384
arabo-persiana, influenza, 162
Aragonesi, 114
arancia, -o, 164, 373
Araolla, G., 307
arboreo, 277
arbuscolo, 277
arbusto, 277
Arcadia, 449, 451-452, 455
arcaismi, 193, 375-376, 508-510, 586-
589, 635-655
arcasino, 438
archiatra, -o, 659
Archiloco, 424
architettura e sua terminologia, 270,
293
arci-, 438
arcifanfano, 274
arcifreddissimo, 438
682
Storia della lingua italiana
Indice alfabetico
683
arcilunghissimo, 438
arcimusa, 438
arcinasarca, 438
arcoltu, 99
ardire, 81
■ardo, 72, 161, 274
area, 370
aree laterali, 39
■arello, 643
arena, -are, 547, 626
arenga, 78
areoplano, 627
Aretino, P., 344
arfasatteria, 574
argano, 82
Argentina, 625
argento, 367
argento «denaro», 378
Argo, 403
orgoglio, 129
arguzia, 369
aria, 33, 213
oriento, 367
aringa, 272
Ariostista, 437
Ariosto, L., 304, 321, 340-342, 372
arismetì.r)ica, 156
aristocrazia, 571
aristotelismo, 115
arlecchineggiare, 574
Arlecchino, 361, 386
Arila, C„ 623
armellino, 372
armigero, 277
armilla, 541
armo, 277
Amauld, A., 418
Arnaut de Marueilh, 188
arnese, 159
arnesi «finimenti», 623
aromale, 611, 644
arpa, 77
Arpia, 272, 369
arpice, 372
arpone, 381
arraffare, 80
arrancare, 78
arrangiarsi, 651
arredare, 78
arrenare, 547, 626
arrendamento, 382
arresta, 121
arrestare, 571
arroge, 437
arrostalo. 578
arrubinare, 318
arruffapopoli, 573, 574, 579
«ars dictandi», 114, 142
«ars notariae», 114
arsenale, 152, 162, 165
art de plaire, 522
arte, 34
arte della stampa, 270, 284, 339
o rticiocco, 387
articolalo, 574, 578
articolo: forme, 26, 148, 208, 258, 263,
265, 341-342, 354, 424, 486, 565, 632
articolo: usi, 210, 266, 357-358, 569
artiglio, 160
artista, 155
arto, 371
Arturo, 403
arvale, 277
arzàgola, 652
arzanù, 162
astergo «usbergo», 159
Asburgo, Leopoldo d’, 418
ascari, 639, 665
ascendere, 614
ascensore, 658, 661, 662
ascio, 129
ascitizio, 442
Ascoli, G. I., 605, 617-619
asello, 36
asente, 562
asilo d'infanzia, 497
asindeto, 192
asineggiare, 438
asinibbio, 438
asino, 27, 36
asino-, mettere l’a. a cavallo, 583
asolare, 433
aspe, 216, 367
aspicere, 277
aspo, 78
assaiato, 137
Assassino, 164
asse ( axis ), 432, 547
assecla, 590
assegnato, 593
assegno, 641, 664
assempro, 216, 375
assentatore, 277
assentazione, 277
assenteismo, 597
assessore, 155
assiduo avv., 276
assillo, 272
assimilazione, 207, 261, 353, 563
assioma, 379
assise, 159
assolutismo, 591
assolutista, 572
assonante, 443
assurdità, 442
asteroide, 578
astiare, 79
asticciuola, 414
astivo, 219
astia bologn., 28
astore, 160
astragalo, 270
astrea, 645
astrico, 273
astronomaco, 654
astuccio, 381
atanto, 375, 376
atare, 376, 586
àtavo, 277, 371, 656
ateismo, 362
Ateneo, M. A., 329
atimo, 581
atomo, 395, 442
atrio, 31
atro, 179
atroce, 218
atrofia, 645
attaccapanni, 626
attaccare al muro, 584
attaccato, 595
attarello, 643
attendente a casa, 612, 640
atterello, 134
attinente, 369
attinia, 645
attitudine, 5, 277, 447
attivare, 571
atto, 348
at topato, 214
attoscaneggiare, 364
attraits, 593
attrattivo, 395
attrazione, 502
attribuzione, 612
attrufu lucano, 32
attuale iactualis), 155
attualità, 595
au nei Siculo-tose., 131, 147
au sost. con al o con a, 261, 352
aucidere, 131
Aufklàrung, 664
auge, 163
augella, 437
augelleggiare, 438
augello, 129, 131, 191, 506, 613
augumento, 367
Augusto, 11
aulente, 613, 655
auletride, 656
aulico, 170
aulire, 131, 655
«Auliver», 199
aunore, 131
aure, 278
auscultare, 591
auscultazione, 577
auspizio, 586
austero, 218
«austriacàn», 624
austriacismi, 77, 624
autem, 276, 367
autentico, 218
autocommento, 643
autocoscienza, 641, 643, 66-i
autodidatta, -o, 659
autogoverno, 643
autoinduzione, 664
automobile, 640, 643, 658, 661
automobilismo, 603, 643
autor della Giunta, 390
autore, 481
autorevole, 375, 376
autorista, 214
autorità, 269
autoritario, 639
autorizzare, 520
auttore, 481
autunnale, 574
avacciare, 508
avaccio, 375
avale, 274, 375
avamposto, 593
avanti, 37
Avantil, 664
avenente, 129
avere, 27
avere-, le forme abbo, abo, aggio, c.
131, 210
avere come ausiliare, 26
490, 568, 635
aver ricorso, 521
aviazione, 658
684 Stona della lingua italiana
avifauna, 644
avio, 656
avire, 102
avolo, 72
avolterio, 408
avorio, 400
avvantaggio, 521
avvegnaché, 653
awenante tali'), 588
avvenirista, 643
avventura, 160
avverbio, 364
avverbi in mente a coppia, 151, 356-
357, 425
avviamento, 640
avviso, 361, 392
avvocatessa, 640
aw ocazione, 571
azienda, 381
azione, 523
azzardare, 412
azzardo, 446
Azzeccagarbugli, 580
azzurro, 163
b e v alternanti, 105, 107
babbo (babbus), 37, 174
babordo, 381
baccalà, 444
boccale, 273
bàccare, 278, 599
baccelliere, 159
bacchettone, 429
baciamano, 380
baciapile, 429
bacillo, 642, 658
bacio (fare unì, 651
Backfisch, 665
baco, 373
baco da seta, 373
bacoca, 412
bàcolo, bàculo, 278
badessa, 463
badinerie, 521
, badino, 521
baggiana, 36
bagiggi, 586
bagno, 33
baia, 381
baionetta, 519
baita, 651
baiulo, 179
baiaselo 163
balaustro 365
balco, 79
balcone, 386
balena, 33
balenare, 582
balestra, 33
balia, 363
balice, 372
balio, 219
balla, 76
balla ( trovarsi di), 583
ballata, 574
ballìa, 129
balma, 31
baloardo, 663
balocco, 580
balsamo, 137
balsic o. 373
baltèo, 216
baluardo, 663
baluginare, 30
bambagia, 82
bambino, 541
bambocciata, .430
bamboccio, 541
bambola (di specchio ), 372
bambolo, 541
banale, 662
banana, 385
banausico, 659
banca, 76, 79
bancabile, 640
bancario, 364
bancarotta, 386
banchettissimo, 643
banchieresco, 504
banchisa, 661
banco, 386
bancone, 137
banda, 78
banderuola, 506
bandiera, 76, 159
bando, 78
bandò, 476
bandoliera, 446
bara, 76, 79
barabba, 573
baratta, 80, 375
barba di stoppa, 583
barbacani della S. Sede, 573
barbagrazia (in), 587
barbandrocco, 364
barbano, 273
Barberino, F. da, 197
Barbieri, G. M., 125
barbitondere, 504
barcarola, 525
bardella, 614
barège, 596
Baretti, G„ 462-463, 468, 504
barga, 31
Bargagli, S., 412
bargagnare, 81
bargello, 373
barnagio, 132
barocco, 391
barocco, gusto, 394-397
baroccolo, 153
barometro, 432
barone, 81
barricata, 543
barriera, 446
Barsegapè, Pietro da, 139
Bartoli, C., 323-324, 338
Bartoli, D„ 397-398, 413-415, 418, 536,
537
Bartoli, G., 339
Bartoli, M., 39
Bartolo da Sassoferrato, 183, 185
baruffare, 80
basare, 595
basci buzuk, 665 _
base (a), 612
Basile, G., 406
basilica, 34
basilico, 82
basso, 653
bastare, 178
bastione, 386
Batastero, 405
batata, 384
battelliere, 581
battere in breccia, 662
battere in visiera, 662
batteria, 379
batterio, 577
battersela, 583
battesimo, 34
battezzare, 34
battifredo, 80, 159
baule, 444
bazar, 596
bazarro, bazzarro, 596
beatificare, 47
beato, 390
Indice alfabetico 685
beccaio, 434
Beccari, Antonio, 199-201
becco «rostro», 31
becco «capro», 546
Becelli, G. C., 461
bécero, 584
befana, 34
bega, 75, 78
begriffi 664
Belcalzer, V., 202
bel dire (avere un), 521
belgiui, 279
belle arti, 496, 519, 521
belletterista, 665
bellezze sing., 148
bellezze eterne, 362
bellicone, 445
belligerante, 515
bell'ingegno, 496
Bellini, B., 622
Bellini, L., 393
bello, 40
bello-, formazione del plur., 191, 632 .
bellore, 436
bellunese, ritmo storico, 106
Belluzzi, G. B., 372
bel mondo, 496, 521
bel paese, 194
beltate, 134
bemberia, 364
Bembo, P., 304-306, 310-311, 328-329,
348, 372
benché, 358
bene, 27, 453
Bene da Firenze, 142
Beni, P., 411
beni-fondi, 519
beninanza, 436
benna, 31
bennere «vendere», 20 . —
Benvenuto da Imola, 198
Berchet, G., 537
bere (bibere), 27, 41
berengena, 301
Bergamo, 309, 330
Bergantini, G. P., 467
bèrgolo, 193
berlinale, 504
Bernardino da Siena, san, 273
Bernardoni, G., 555, 571
Berni, F., 344
bernoccolo (avere il), 577
bernuccio, 279
686
Storia della lingua italiana
berroviere, 159
berze, 509
bestemmiare , 34
bestiari, 142
Béthune, Eberardo di, 157
Betina ven., 28
béton, 661
betoniera, 661
Bettinelli, S., 477
betulla, 31
bezzo, 382
biacca, 79
Bianchi, B., 621, 622
bianco, 78, 79
bianco mangiare, 381
biavo, 78
Bibbia, 23, 145, 283, 287
bibliofilo, 516
bibliomane, 516
Bibliopea, 516
bibliopola, 371
bibliotafio, 516
biblioteca, 441
biblioteche, 392
bibo, 218
bica, 75, 79
bicchiero, 581
bicicletta, 640, 661
biciclo, 577
bidè, 519
bie o Bie, 656
biella, 661
bifolco, 32
bigatto, 373
biglietto di banco, 523
bigiotteria, 576
biglione, 497
bignè, 476, 519
bigoli ven., 511
bigoncio, 29
bigonzoni, 372
bigordo, 160
bilancetta, 431, 432
bilancia, 386
bilanciare, 481
bilancio, 214, 386
bilanziare, 481
bilifero, 506, 516
bilingui, sonetti, 198
bill, 597
billon, 519
biltà, 193
bimetallismo, 644, 658
binocolo, -occolo, -oculo, 626
biocca, 372, 585
biografo, 495, 515
biondo, 78
biondo Apollo, 455
birba, 534
birichino, 512
birra, 380
birrocratico, 574
bisaccia, 38
bisboccia, 596
bisciaccole, 373
bismuto, bisemuto, 382
bisogna, 375
bisogno, 381
bisonte, 277
bistento (a), 508
bisticcio, 402-403
bistro, 594
biturro, 419
bivacco, 446
Bizantini in Italia, 50-51, 54, 57-58
bizantinismi, 81
bizantino, 646
bizocone, 137
bizzeffe, 271
blaga, 662
blasmari sic. ant., 129
blaterare, 590
blé delle Indie, 522
bleu, 519, 522, 596
blo, 519, 522, 596
bloccardo, 639, 661
bloccare, 519
blocco militare, 446
blocco politico, 639, 661
bioio, 159
blu, 519, 522, 596
bluff, 663
boa, 576
boatta, 596
bobe «a voi», 92
bobolce, 273
bocca Ibucca), 41, 42
boccacceria, 504
boccaccevole, 364
Boccaccio, G.192-194, 214, 243, 305,
463
bocce, 513
bocciare, 651
bodino, 524
bòdola, 626, 650
Boerio, G. 556
Indice alfabetico
687
boetta, 596
bohème, 641, 661
bohémien, 661
Boiardo, M. M., 247-248, 252, 257
boicottare, 639
boldoni, 258
bolero, 640
bolgia, 160, 180, 273, 509
Bologna, 114, 125, 471
bolontade «volontà», 124
bolta, 124
Bolzani, G. P., 317-318
bombarda, 220
bombice, 373
bombire, 642
bombista, 437
bomboniera, 661
bompresso, 445
«Bona qilosia», 140
Bonagiunta da Lucca, 170
Boncompagno da Signa, 142
bonè, 518
Bonghi, R., 606, 609
bongiuì, 279
bonificazione, 277
bonìgolo, 436
bon mot, 522
bonomia, 595
Bonvicino (Bonvesin) della Riva, 139
bonzo, 385
bora, 599
borace, 164
borderò, 593
Borghesi, D., 327, 331
Borghi, G., 550
Borgini, V., 330
borgo, 78
borgognotta, 444
borgomastro, 382
borlanda, 512
boro, 577
borrasca, 480
borsa, 33
Borsa, 379
borsale, 452
boschereccia, 652
Boschini, M„ 407
bosco, 80
bosso, 33
bossolo, 33
botanista, 517
botola, 626, 650
Botta. C.. 536
botte, 585
bottega, 33
bottiga, 81
bottoniera, 519
boudoir, 593
Bouhours, P„ 417
boulevard, 663
bow-window, 663
boxe, 661, 663
boycottare, 639
bozzetto, 641
bozzolo, 499
braca, 31
braca «baco da seta», 373
braccio, 33, 195
braco, brago, 31
braghessa, 372
bragia, 77
bragozzo, 651
braida, 75
brameggio, 583
bramose canne, 180
Branda, O., 462, 472
brando, 541
brandone, 273
Brasile, 625
bravare, 360
bravata, 360
braviere, 500
bravlo, 217
bravo, 360
bravura, 360
brefotrofio ( brephotrophium ), 47, 591
brelocco, 519
brena, 272
brend moden., 28
brenti, 31
brera, 75
bretelle, 594
breviter, 276
briachitide, 644
Briareo, 403
briccola, 79
bridge, 663
brillante, 428
brillantina, 661
brindisi, brindes, brindis, 382
brinzi, 382
brio, 444, 598
brisa, 380
briscola, 666 —
brocardo, 217
brochure. 596
68b
Storia della lingua italiana
Broglio, E-, 610, 615, 617, 622, 648
Broletto, 153
brollo, 375
brolo, 511
bronfìare, 364
bronzeo, 574
bronzo, 163
brossura, 596
brougham, 597, 663
broCvlar it. sett., 75
bruciare, 480
bruco, 510
brughiera, 651
brugiare, 480
brùgula, 273
brulotto, 446
brum milan., 664
bruma, 595
brumista, 664
Brunetto Latini, 122, 144
bruno, 78
Bruno, G., 372
brunocchiuto, 504, 505
brusàa el pajon milan., 585
brusone, 585
bruttarello, 643
buatta, 596
bubbone, bubone, 442, 562
buccellato, 28
bucchero, 430, 444
buccina, 613
buccola, 519
bucolero, 272
budget, 593, 597
budino, 524
bue, 27
buetta, 596
buffetteria, 593
buffetto, 446
buganza, 511, 580
bugiale, 274
bugiare, 587
buglione, 160
bugno, 372
buio, 377
bulbo, 442
Bulgari presso Iserma, 52
bulldog, 597
bullone, 661
buio, 360
buna, 383
Buonanni, V„ 338 QR „ Q7
Buonarroti, Mich. il gi°v„ 396 39
buon gusto, 362, 494
Buonmattei, B., 409, 414
buono, 27, 620
buon tono, 521
Buraffa, 365
buralista, 593
burbanza, 376
burchiellesco, 274
bure. 371
Ìurìai 46 . 519, 522, 582, 593, 596
burino, 652
Burlafave n. P-, 172
burlare, 178
barò, 519, 522, 582, 593 596
burocratico, stile, 363, 399
burrasca, 480
barrino, 652
burro, 33, 374, 376, 434
burro, 522
bursa pastoris, 499
Burschenschaft, 665
bus e bas, 297
buscare, 381
busta, 380, 580
butirro^butiro, buttero, 33, 258, 374,
376, 419, 434
c palatale: pronunzia, 208
c velare alternante nella grafia con
c cori valore di z o alternante con z,
259, 341, 343, 480-481
ca «che», 151 „
-co-, formazione del plurale, 353
cablogramma, 662
cabriolè, 519
cacao, 384
cacchio, 28, 44
cacchione, 44
Caccia, F., 484
cacciaffanni, 439
cacciatorpediniere, 664
cacciò,, 447
cachinnare, 278
cacio, 373
cacofonico, 369
cacto, 502, 517
cadetto, 379
cado, 576
cadrega «sedia», 34
caduno, 34
Indice alfabetico
689
cafaggio, 79, 80
caffè, 383, 430
caffeàus, 524
caffè concerto, 661
caffeista, 437
cafise, 101
cafone, 653
cagliare, 382
cagnazzo, 273
caimano, 384
caina, 273
caiserlicchi, 573, 598
cala, 381
calamita, 386
calamitico, 437
calamo, 278
calangiare, 219
calappio, 480 —
calare, 33
calato, 371
calce, 33
calcedro, 273
calcio, 577, 603
calco, 47
calcolo, calculo, 278, 503
calde alesse, 372
calde arroste, 372
Calderari, 572
caldo, 27
caleffare, 272, 375
-cale gara, 28
caleghèr venez., 152
caleidoscopio, 578, 592
calesse, -o, 430, 446, 481
calla, 375
calle «cammino», 540, 543, 654
calle ven., 481, 511
■ califfo, 164
Calisso, Calipso, 581
Calliope, 179
calmella, 499
Calmeta, V., 312
calmiere, -o, 511
calmo «innesto», 372
calòfaro, 498
calogna, 508
calorico, 579
calòro, 220
calosce, 594
calotta. 519
calumare, 82
calura, 153
calzabraca. 270
calzaturificio, 644, 651
camaglio, 159, 654
camarilla, 598
camarlingo, 159
cambiale, 497
cambiare, 31
cambia-valute, 497
cambio, 153
cambio secco, 153
cambista, 505, 517
camelo, 481
camera, 33
Camera «erario», 153
Camera del lavoro, 639
Camera di commercio, 497
camiciluìola, 434
cammello, 481
cammino, 31, 626
camomilla, 498
camorra, 653
camoscio, 31
camperello, 434
Campidoglio, 367, 659
campione, 35
campitello, 434
campo Un sull, 595
camporeccio, 434
Canal, P., 346
Canale, Martino da, 120
canapè, 446
canapificio, 644
canàr, 476
cancan, 66 1
cancrena, 33
candiero, 445
candore, 431
cane, 27
canèa, 584
canestro, 33
Canevazzi, E., 623
cannibale, 384
cannone, 432
cannutiglia, 381
cano, 218
canoa, 384
canonista, 155
canoro, 369
canoto, -otto, 523
causare, 28
cantambanchi, 228
cantare, 36, 38
càntaro, 33
cantaro, 163
690
Storia della lingua italiana
Indice alfabetico
691
cantiere, 45
c antipiangere, 439
Cantori Ticino, 602, 624
cantoniere 661
canzirru it. mer., 81
canzonieri antichi, 124-129
caparbio, 509
caparrare, 584
capezzale, 434
capibile, 505
capigliara, 272
capitalista, 497, 517
capitanio, 586
Capitano, 361
capitello, 213
Capitolio, 319, 367, 659
capitolo, 155
capitonné, 661
capo, 38
capòc, 447
capo d'opera, 477
capolavorare, 644
capolavorazione, 644
càpolo, 278
caporale, 386
Caporali, C. 372
capote, 640
cappa, 372, 587
cappella, 72, 74
cappellinaio, 626
cappello a cilindro, a staio,
Capponi, G., 553
Cappuccini, G., 622
cappuccino, 362, 386
cappuccio, 385
caprifoglio, 373
caprimulgo, 235
capripede, 513
capro, 546
capsola, 518
captioso, capzioso, cazioso,
captivare, 657
Capucottu soprann., 94
car, 279
carabina, 372
Caracalla, 18
carace, 137
caracollare, 444
caracollo, 444
Carafulla, 331
caragolo, 444
càrama sic. ant., 124
caramella, 646
caramessa, 383
carato. 163
caratteristica, 659
caratterizzare, 517
caravaggia, 272
Carbonari, 572
carbonico (acido), 499
carciofo, 163, 164, 270
Cardano, G., 290, 385
cardinale, 170
Carducci, G„ 604, 609, 612, 613, 620,
648, 655
carena, 165, 367
Carena, G. 552, 556
carezzevole, 509
cariato, 515
caribo, 160
caricare, 36
caricatura, 430
carina, 367
cadiìolio ) it. sett., 30
carità, 72
Carlino, M. A. A., 329
Carlo Alberto, 535
Carlo Emanuele I, 407
Carlomagno, 62
carminare, 586
carnaggio, 279
Cameade, 580
carne da cannone, 573
576 Caro, A., 301, 306, 372
carogna, 36, 587
carolingia, epopea, 115
carosello, 375
carota, 408
carotaio, 408
carraia, 36
carriera, 445
carro (carrus), 31
carroccio, 153
517 carro di fuoco, 543
carrozza, 448, 579
carta, 33
carta bianca (dar), 521
cartellevole, 364
cartiglio, 381
cartone, 386
caruncula, 442
caruso, 653
casa, 43
casamatta, 386
cascabel, 524
cascare, 30
casco, 381
caseggiato, 572, 584
caseificio, 644
casellario giudiziale, 640
caserma, 445, 448
casermaggio, 593
casino, 525, 599
casista, 437
caso morto, 583
caso vivo, 583
cassazione, 590, 593
cassero, 163
casseruola, 594
cassetta, -o, 650
càsside, 278
cassinese, cultura, 84, 90-93
cassinese, ritmo, 104-106
cassinesi, placiti, 90-93
cassitèro, 589
casso, 375
casta, 385
castaido, 80
castelli in aria, 272
Castelvetro, L., 330
caste suore, 455
castigare, 377
Castiglione, B., 304, 314-315, 340, 372
Castore , 216
Castra, 134
castrameinltato, 278
castrapensieri, 574
castrica, 499
cata-, 273
catacogliere, 273
catalano, 188
catalogato, 578
catapano, 82
cataratta, 277
catasto, catastico, 152, 158, 268
catasto prediale, 497
catastrofe, 361
catedra, 626
catena, 31
catenaria, 514
catenone, 137
cateto, 365
catoio, 273
catolico, 562, 581
catello, 372, 588
Cattaneo, C., 548
cattivo, 46
catuno, 34
Caucaso, 403
caudatario, 386
caunoscere, 131
causa, 155
causativo (causativus), 155
cavagnola, 511
Cavalcanti, Giov., 274
cavalcioni, 318
cavaliere, -iero, 159, 366, 373, 581
cavalleria, 366
cavalleria, 84, 158-159
cavallo (caballus), 39
cave, 383
cavestro, 614
cavezza, 221
cavezzo, 165
caviale, 270
Cavour, C., 535
cavurrino, 647
cazza, 372
CE, ci lat., 25, 55, 68
ce, ci pron., 207
Ceccoribus, 297
cécènè it. mer., 45
cécero, 218„ 408
ceciliano, 116
cecino, 583
cecubo, 656
cedola, 596
cefalo, 33
Cefalogia, 405
celabro, 367, 587
celare, 219
celebriore, 590
celebrità, 575
celerifero, 574, 577
celestìo, 137
Celispicio, 432
cella, 72
cellula, 442
celluloide, 641
celone, Ì60
celtico, 17
cembalo scrivano, 578
cengia, 651
cennamella, 160
cenno, 30
ceno «fango», 218
cenquaranzeesimo, 433
censimento, 497
censire, 442
censo, 218
censura, 529
centaurico, 505
692
Storia della lingua italiana
Indice alfabetico
693
Centoia, 29
centraco, cintraco genov., 82
centralizzare, 572, 578
centralizzazione, 578
centrica, 270
centrico, 278
centrifugo, 514
centripeto, 514
centurione, 591
ceraldo, 279
cerasa, 372
cerbiesco, 274
cerebro, 367, 377
cerimonia, 420
cerimoniale, 429
cerniera, 519
cerqua, 273, 372
cerretano, 268
certame,271
Certame coronario, 223, 240-241
certano, 219
certare, 278
certificato, 612
Certosa, Certrosa, 160
ceruleo, 656
cenilo, 277, 613, 656
cerume (cerumen), 155
cerusico, 33, 367, 377, 443
cervela, 258
cervellata, 385
cervelliera, 159
cervello, 45
cervo, 27
cervogia, 32, 160
césano, 435
Cesari, A., 537, 544, 554
cesarismo, 591
Cesarotti, M., 464, 465
cespugliare, 437
cestinare, 641, 643
cesto d’insalata, 453
cestone, 137
cetera, 174
cetonia, 645
cetra, 33, 174, 542
c etto, 106, 137
eh grafia con valore palatale,
146, 207, 259
eh nei latinismi e grecismi. 259,
348, 420, 628, 659
chanteuse, 661
charmant, 522
chauffeur, 640, 661
che, 27, 70, 93, 488, 565
che (nel tipo «che bello!»), 428
che sottinteso, 267, 358, 569
check, 641, 664
chelae, 517
chelleana, 664
chente, 313, 375, 437
chèque, 641
chermisi, 220
Cherubini, F., 556
Cherubo, 631
chi, 565
chia (cià « tè»), 385
chiacchierare, 551
chiana, 31
chiaro scuro, 270
Chiaruzzi, G., 343
chiasso, 73
chiassuolo, 73
chiavaro, 434
chiazzare, 75
chic, 662
chicane, 522
chicca, 583
chicchera, 384
chieresia, 587, 588
chierico 34
chiesa, 34
chietino, 363
chifel, 524
chignone, 519
chilo, chilo, 593
Chimenti, 367
chinachina, 445
chincaglie, 446
chincaglieria, 520
chiocciola, 33
chioccolare, 642
chiòchena, 372
chionzo, 75
chiosco, 382
chiòvina, 582
chirieleisonne, 276
chirurgia, 377, 480
chirurgo, 367, 377, 443
chissà, 627
127,
chiuso, 40
cholera, 582
347-
ghu, chu, 110
ci + voc., grafia alternante con ti +
voc., 259
ci aw. di luogo, 487
ci pron., 102
- eia formazione del plur., 631
cià «tè», 430
ciaccona, 444
ciamberga, 430, 444
ciamberiera, 219
ciambra, 159, 220
ciana, 495
ciancellare, 121
ciancioso, 194
ciao, 651
Ciarlon imperiere, 188
ciausire, 129, 131
cibo, 156
cicada, 341, 367
cicala, 272, 276, 367
cicana, 520, 522
ciccherà, 384
cicchetto, 651
ciccia, 504
cicerbita, 489
cicerone, 431, 525
ciceronianismo, 225, 285
Cicilia, 218, 276
ciciliano, 218, 276
cicisbeatura, 503
cicisbeismo, 505
cicisbeo, 437, 495, 525
Ciclismo, 603, 643, 658
cicloide, 437
cicorea, 498
■cida, 440
cielo, 27
Cielo d’ Alcamo, 124
ciera, 129
ciferà, 408
cifra, 163
cifre arabiche, 163
cifrane, 595
clga.ro, 582
cigno, 408, 435
cignone, 519
cilecca, 313
ciliegia. 376
ciliegio, 33
cilindro, 576
cima, 33, 453
cimbalicrotalitimpanizzando, 439
cimiero, 543
Cimminelli, Serafino, 253
cincinno, 590, 656
cine, 642
cinema, 631, 642
cinematografo, 642, 646, 656
cinguettare, 318
ciniglia, 519
cinquansei, -zei, 264, 487
cinquanzettimo, 487
cinquecentesco, 504
cinquecentista, 517, 644
Cintoia, 29
ciocca, 580
cioccolata, -lato, -late, -latte, 430, 444
481
ciottolo, 434
cipero, 589
ciperoide, 498
circolazione linguistica, 21
circollocuzione, 581
circonferenza, 218, 270
circonflesso, 369
circospezione, 369, 412
circostanza, circonstanza, circonstan-
zia, ecc., 480, 576
circuminessione, 590
ciregia, ciriegia, 376
ciriffo, 271, 279
cirimonia 480
cirro, 179
cirrosi, 577
cirugia, 377
cirugico, 443
cirurgia, 480
cirusia, 480
cislonga, 593
cistula, 278
Citolini, A., 331, 338
citta, 412
Cittadini, C., 322, 327
cittadino, 571
cittimari sicil., 34
ciurma, 378
civanza, 153, 160, 220, 318
civetta, 272
civiera, 372
civilizzazione , 578
civire, 220
civismo, 571
ciucca «zucca», 341
ciuffo, 79
Ciullo d’Alcamo: v. Cielo
ciurlare nel manico. 584
clade, 278, 371, 589
claque, 661
claretto, 380
Claricio, G., 342
classicisti, 536-540
694
Storia della lingua italiana
classico, 574
claudicare, 218
Claudio, Claudione. 416
clava, 277
delia, 495
Clemente, 367
Cleopatra, -tràs, 216
cliché, 661
clima, 156
clinica, 369
clinico, 514
clipeo, 656
clisciano, 571
clistere, 443
clivoso, 371
cloro, 577
cloroformio, 577
club, 593
-co: formazione del plurale, 208, 263,
354, 424, 486, 563, 564, 631
CO, eco, 93
co-academico, 505
coalire, 371
coalizione, 515
cobalto, 525
cobolto, 525
cocaina, 642
coccarda, 446
cocchetta, 518
cocchetto «bozzolo», 511
cocchio, 383, 541, 543, 587
coccia, 38
cocciniglia, 384
cocciuto, 513
cocco, 385
coccone, 499
cochetta, 477, 518
cochetteria, 518
cochetto, 220
cocotte, 661
coda, 24
codafestante, 579
Codice Napoleone, 528-529
codicillo, 155
codino, 573
coerente, 442
coesione, 514
cofano, 33
coffaro Icoffarum), 164
cofrefort, 476
cognitore, 278
cogno, 28
coinè veneto-lombarda o padana, 140
colazione, 626
colera, 582
colezione, 626
colla, 33
collabo, 656
collacrimare, 278
collasso, 645
collaudare, 366
Collenuccio, P., 343
colleppolarsi, 372
colletta, 36
Collodi. C., 648
collotorto, 363
collustrare, 278
colmo, 613
Colocci, A., 313
colombeggiare, 438
colonia, 516
colonnello, 269, 386
colono, 650
color di rosa, 574
colpo, 33
colpo di mano, 521
colpo di testa, 663
colpo d'occhio, 477, 521
coltello, 36
coltrice, 485
cóltro, 36
coltura, 367, 626
colubro, 179
colza, 596
coma, 364
comacino, 54
comburere, 589
comere, 219
comfort, 597
cominciare, 37, 161
comincio, 152
cominzare, 129
comitato, 593, 597
— còmito, 68
comizio, 664
comma, 364
commedie con personaggi dialettali,
308-309
commensurare, 179
commerciale, 590
commerciante, 595
commercio, 452
commercio, commerzio, 480
comminazione, 442
commissione, 591, 597
commodo, 481, 562
Indice alfabetico
695
commorare, 278
commune, 581
comò, 593
comodo, 481
compagno, 35, 639
comparabile, 369
comparativo con complemento pos-
sessivo, 150
comparativo rinforzato, 357
comparativo sintetico, 26, 148, 263,
590
comparsa, 448
compatriota, 218
còmpedi, 371
compensa, 579
competente, 431
compilare, 368
compitare, 154
complemento di materia, 211, 266
complettere, 219
complimentare, 364
complimento, 380
complire, 380
componitura, 270
«Compositiones Lucenses», 60
compositore, 270
composizione, 36, 37, 72, 152, 215, 364,
438-440, 505, 579, 643-644
composti: formazione del plurale,
563-564
comptoir, 662
compungimelo, 587
comunardo, 639, 661
comune, 117, 145, 218
Comuni, 84, 113, 153
comunicare, 46
comunione dei beni, 572
comuniSmo, 591
comunista, 572
cona, 82
conale, 273
concento, 612
concertare, -atore, -azione, 278
concerto, 364
concerto europeo, 573
concettare, 428
concettino, 428
«concetti predicabili», 397
concettismo, 399-406
concettizzare , 428, 438
concetto, 428
concettuzzo, 428
conchiudere, 367
conciare, 30
«Concilio della lingua», 332
concinnità, 277
conciossiaché, 509, 654
conciossiacosaché, 509, 654
conciossiafossecosaché, 509
conciossiamassimamenteché, 509
concludere, 367
concorrenza, 497, 515, 520
concubina, 217
concubinesco, 364
condaghe, 82
condegno, 217
condensare, 442, 645
condeputato, 506
condizionale ( conditionalis ), 155, 364
condizionale: forme, 70, 105, 109, 128,
131, 136, 141, 149, 177, 191, 200, 265’
356, 426, 489, 568
condizionale semplice e condizionale
composto: uso, 569
condominio, 442
condor, 384
condurre ( conducere ), 38
condutto, 191
conestabile, 159
confabulare, 218, 551
confetti, 599
Confienza, 29
confort, 597
confortare 47
confortarsi cogli aglietti, 588
conforto, 597
Confraternite, 115
confrustagno , 382
confutare, 506
Confuzio, 481
congedare, 520
congelazione, 271
congeniale, 644
congenito, 369
congerie, 369
congettura, 480
co nghiettura, 480
congiuntiva Iconiunctiva), 155, 215
congiuntivo: usi, 266-267, 636
congiunzione, 364
congratularsi, 506
congregazione, 363, 522
congressista, 643
coniata, 511 __
conjet'ura, 480
conlineario, 278
696
‘Stona della lingua italiana
Indice alfabetico
697
connubio, 277
conoide, 442
conoscere Icognoscere), 37, 38
conquibus, 367
conscendere, 278
conscienza, 626, 659
consecrare, 191
consegna, 579
conservatore, 572, 591, 597
conservo, 179
consiglio, 363
consimile, 218
consolante, 520
consolato del commercio, 511
consolazione, 156
console, 111, 155
consonante, 364
consonanti intervocaliche sorde di-
ventate sonore, 68, 262
consonanti scempie e doppie, 26, 206,
260, 352, 423, 560, 562
conspetto, 626
consulente, 442
consuntivo, 579, 591, 593
contabile, 595
contabilizzare, 640
contadino, 153, 360
contado, 153
conte, 45, 68
contemplo, -tempio, 367
contennendo, 371
contento, 219
contessa, 36
contezza, 375
Conti, A., 648
continente, 369
contingente, 515
continovare, 508
continuo aw., 367
continuo sost., 381
conto corrente, 519
contrabbando, 511
contraccolpo, 446
contraddanza, 523
contradio, 412
contraporre, 581
contrappasso, 180
contrascossa, 574
contrassegno, 434
contrattempo, 365
contrea, 279
controllare, 593
controllo, 572, 576, 593
controllore, 593
controsenso, 594
convellere, 442
convento, 587
convergenza, 645
convergere, 432
conviziatore, 219
convizio, 219
convolo, -oglio, 379, 446
coobare Icohobare), 155
copello, 160
coperto, 661
copicco, 504, 525
copone, 596
coppa, 586
copparosa ( cupri rosa), 155, 382
coppo, 372
coprifuoco, 219
coraggio, 129, 317, 481
corale, 129
coralleggiare, 438
coralloide, 505
coramvobis, 367
corazza, 221
corazzone, 445
corda, 33
cordaggio, 595
cordigliere, 160
cordoglio, 34
core, 133, 434
coriandolo, 646
coricare, 42
coricida, 440
corifeo, 369
corimbifero, 499
, corina, 129
cormentale, 579
cormorano, 594
cornice «cornacchia», 219, 367
cornucopia, 404
corolla, 501, 514
corpo, 174, 318
corporale, 155
corporazione, 571
corredare, 78
corredo, 77
correligionario, 438
corrente ( essere al), 595
correntista, 640
correre, 27
correttori tipografi, 342-344
corret torio, 278
correzionale, 571
correzione, 348, 571
corrida, 598
corridore, 375, 387
corrispondenza, 288, 392
corse, 576, 594
corsetto, 159
Corsica, 450, 558, 602
corsiero, 437
corsiere, 159
corte ( fare la), 521
Corte di Cassazione, 572
corteare, 161
cortice, 278, 613
Corticelli, S., 466, 554
cortigiana, 359, 385
cortigiana, lingua, 306-307, 312-319
cortigiano, 385
cortina, 34
cortonese, 405
cosa interrog., 565 .
coscienza, 155
coscritto, 590
cosimesco, 274
Cosimo I, 333
cosmologia, 440
cosmopolita, 496, 516
cosmopolitia, 590
cosmopolitismo, 450
coso, 539
cospicuo, 442
cospissarsi, 371
costì, 316
costinci, 316, 376
costituente, 571
costituito, 571
costituzionale, 516, 572, 591
costituzione, 580, 597
costole lavere alle), 588
costuma, 220
costume, 447
cotechino, 585
cotesto, 316, 355, 425
cótica, 436
cotichino, 585
cotoletta, 476, 519
cotone, 163
cotonificio, 644
cotorera, 445
cotozare , 137
cotta, 81
cotteria, 518
cottìo, 652
cotto, 365
cottola, 221, 511
coturno agg., 278
coulomb, 624
coup de tète, 662, 663
coupon, 596
couvert, 661
covare, 44
covercefo, 159
covetta, 500
covricelo, -cefo, 121, 159
crai, 272
craice, 382
crampo, 594
cravatta, 576
crazia, 382
creanza, 380
creanzuto, 504
creare, 380, 659
creato, 380
crebro, 341
credenza «armadio», 6
credenza «fede», 23
credenziale, 269
credere: la forma creo, 131; significa-
to, 191, 613
cremazione, 658
crena, 512
crepare, 43
crepuscolare, 641
crepuscolari, 614
cresima ( chrisma ), 34
crestaia, 580, 650
cretino, -ismo, 520
cria, 317
criminologia, 641
crine, 512, 589
crinolina, 576
crisalide, 369
crisolito, 631
Crisolora, E., 188
cristalleggiare, 438
cristallizzare, 438, 645
cristallo, 400
cristeo, 443
cristero, 443
cristianesimo, 67
cristianesimo, 17-19, 47
cristiano, 47
Cristo, 35, 155
criterium, 658, 659, 663
crittogama, 577
crocaddobbato, 439
crocande, 476
698 Stona della lingua italiana
crocciuolo, 419
croce, 24
Croce, B., 612
crogiuolo, 419
croio, 375
cromatica, 442
cronache, 142
Cronoprostasi, 405
cronotopo, 574
crostaceo, 442
crotalo, 278, 656
cruciolo, 419
crumiro, 639, 665
Crusca, 334
Crusca, Accademia della: v. Accade-
mia della Crusca
cruscata, 334
cruscheria, 505
cr lat. e suoi esiti, 25
ct lat. diventato g palatale, 141
cubarsi, 179
cubebe, 220
cucchiaio, -aro, 434
cuccioleggiare, 438
cucina, 475
cucire (consuere), 38
cuculio, 373
cucurbita, 513
cucuzzolo, 581
cui: di cui, 488
culbuttare, 477
culla, 28
cultro, 371
cultura, 367, 626
cumulo, -olo, 412, 581
cuna, 217
cunta, 180
cuora, 435
cuore, 434
cupè, 519
Cupido, 276
cupio, 231
cupola, 447, 599
cupolino, 573
cupone, 596
curatela, 155
curattaggio, 161
curattiere, 161
curiale, 170
«cursus», 117, 144
«curtis» e sua economia, 54
curto, 191
cuscino. 159, 434
indice alfabetico 698
cute, 441
cuticola, 442
cz grafia, 207, 259
czar, 525
da, 71
dactilografia, 626
daddoli, 539
daddovero, 508
dagherrotipia, 578
dagherrotipo, 578
daguerrotipia, 561
daguerrotipo, 561
data, 373
D’Alberti, F„ 468
Dalmazia, 558, 602, 624
dama, 159
damaggio, dammaggio, 161, 220
damigello, -a, 159, 161
damo, 539
danaio, 508
dandy, 597
D’Annunzio, G., 610, 612, 613, 655-656
Dante, 167-180, 243, 273, 315-317
dantista, 214
dappoco, 509
dardo, 80
dare-, forme: dato, 92; diede e dette,
377
dare opera, 538
D’Arezzo, M., 307
darsena, 152, 162
darvinismo, darwinismo, 638
Dati, C., 409, 416
datore di lavoro, 664
dattero, 33
dattilografia, 626
dattilògrafo, 578
davantaggio, 121
davanti, 37
Davanzati, B., 327
davvero, 412
de «ne», 99
dea, 390
De Amicis, E., 607
débàcle, 661
débauché, 522, 596
debocciato, 522
debordare, 476, 520, 595
deboscia, 522, 596
debosciato, 477
débrayage, 661
début, 596
debuttare, 663
debutto, 594, 596
decampare, 446
decembre, 626
decentramento, 627
decetto, 137
declinazione, 156
declinazione del giorno, 611
decollare, 661
décolleté, 661
decoramentale, 644
decore, 369
decoro . 369, 412
decretalista, 214
decretista, 155
dedens, 219
défaillance, 661
deferente, 156, 442
deferenza, 515
defonto, defunto, 216, 419
degaggiato, 521
degezione, 216
degnità, 504
degno, 368
degrado, 576
deO -ùiscere, 278
De Iennaro, P. I, 254
deiezione, 216
deista, 517
deità, 390
De Laugier, C., 557
deleterio; 659
deletto, 366
delfino, 33
deliberanza, 375
delicato, 480
delitto, 412
Della Valle, P., 413
Della Vigna, Pietro, 115
delubro, 179, 540, 613, 631
De Luca, G. B., 393, 411
demaines, 379
demanio, 159, 379
démarrage, 640
democrazia, 359, 494, 571
demolcere, 371
demopsicologia, 664
Demostenes, 276
demulcere, 371
demum, 276
denaio, 208
Denina, C., 557
dertsiore, 263
dentale, 501
deperimento, 520
deperire, 576
de plano, 217
deponente, 26
deportare, 576, 590
deputatessa, 640
deputato, 576
derby, 663
derenzione, 137
deriva, 519
derivazione, 35-37, 71-72, 152-153, 179,
213-214, 273-274, 364, 437-440, 504-
505, 578, 643
dérive, 660
dentiera, 219
De Roberto, F., 609
deroga, 437
denata, 160
De Sanctis, F., 535, 604, 606
desbauciarsi, 380
desco, 42, 216
describo, 218
désenchanté, 593
desianza, 274
desiderio, 156
desidia, 278
desinare, 160
desinèa, 160
despitto, 191, 317, 412
despota, 611
despot ismo, 494
dessert, 519
destinare, 390
destino, 362, 390
destra, 572, 579
destriere, -iero, 59, 540, 541
destrina, 577
destroyer, 663
destruttore, 592
determinismo, 659
detestando, 278
detta, 160
dettaglio, detaglio, 446, 477, 522, 576,
633
detto, 368
devere, 191
devoniano, 577
dh grafia, 146
di lat. e suoi esiti, 25
di- per ghi-, 261, 352, 424
di. forma, 68
di appositivo, 210, 266
700
Storia aeila lingua italiana
di partitivo, 210, 490, 569, 636
diacattolicone, 433
diacciare, 424
diaccio, 424
diacere, 424
diafinicone, 433
diagnosi, 514, 645
diagramma, 645
dialettalismi, 164, 197, 272, 371-377,
510-513, 582-586, 648-653
dialetti satireggiati, 134, 246
dialetti: uso scritto, 201, 308-309, 406-
407, 471-473
dialetto, 369
diametro, 270
diana, 42
diavolo, 155
diavolo : fare il diavolo a quattro, 446,
477
diarrea (.Stappo toc), 514
diatriontonpipereone, 433
dibatto, 279
dibonaiiìre, 161
Di Capua, L., 414, 460
dicare, 341
dicasterdh, 516
dicco, 220, 383
dice, Dike, 656
dicentramento, 627
Diceosina, 516
dicere, 319
diceria, 218
Dicomano, 29
diecimo, 218
dieresi, 483, 561
Di Falco, B., 332
difendevole, 364
difensione, 341
difesa, 36
diffalta, 436, 508, 586
difficile ( mostrarsi ), 521
difficillimo, 263
diffignere, 278
dificio, 156, 218
difterite, 577, 642
digiuno, 47
digno, 368
digressione, 442
digrossare, 157
Dike, 656
dilapidare, 590
dilazionare, 505, 576
dilettante, 525, 599
dilicato, 480
diligine, 583
dilivrare, diliverare, 191
diluculo, 217
dimandare, 551
dimenticare, 40, 506
diminutivi, 274, 437, 455
dimissione, 662
dimostrativo, 329, 366
dinamica, 432
dinamite, 642
dinamo, 642
dindarolo, 585
Dio, 150, 362
Diocleziano, 18
dipardio, 219
dipartimento, 519
dipégnare, 412
dipintore, 218
diploma, 495
diplomatico, -a, 495
dipoi, 37
diportevole, 364
di quella pira..., 575
dire, 27
direptione, 348, 371
direzione, 348, 580, 595
dirigibile, 643
dinmere, 442
diritto, 480
dirozzare, 157
diruto, 631
dis-, 152, 273, 438
disabbigliato, 518
disabigliè, 518
disacerbare, 191, 273
disamabile, 438
disanellare, 438
disappassionarsi, -ato, 438, 504
disartifizio, 438
disascio, 129
discender per li rami, 180
discentramento, 627
discifrare, 438
disco, 441
discolo, 218
discorrere, 219
discrime, 371
discussioni sulla norma linguistica,
309-328, 410-414, 459-466, 544-545,
615-621
disdoro, 380
disebriare, 504
Indice alfabetico
701
disferocire, 504
Dodero (Capitan), 647
disgruzzolare, 273
doga, 33
disguido, 584
dogana, 163
disiato riso, 180
doganale, 572
disimpegno, 380
doge , 73, 221
disinventore, 504
dogio, 221
disinvoltura, 380
dolato, 341
disio, 134
dolce far niente, 525
disiro, 134, 214
dolcepiccante, 505
dislodare, 273
dolcipungente, 439
dismalare, 180
dolenti note, 195
disonor del Golgota, 574
dolimano, 383
dispacciare, 381
dolina, 651, 665
dispaccio, 381
dolomite, 577
disperato è l'amor mio, 575
dolzore, 153, 191, 317
displicenza, 371
domacavalli, 504
dispaia, 592
domani, 261
dispotismo, 517
domenica, 23, 36, 37
disputa o disputa, 485
Domenichi, L., 344
dissaco, 498
domestico, 580, 595
dissenteria, 424
dominò, 518
dissipa o dissipa, 485
don, 380
distaccamento, 446
donare «dare», 193
distemere, 504
donde, 37
distillarsi il cervello, 428
Doni, A. F., 324
distintivo, 576
Doni, G. B., 415-416
distinto, 612
donna avvocato, 640
distrarre, 442
donnadragone, 439
disvassallarsi, 504
donnaio, 504
disviscerare, 438
donne che studiano, 187
ditirambici, composti, 439-440
donne della torma, 195
ditirambo, 397
donneare, 161
dito, 27
dono di tempo, 153
ditto, 368
dónora, 375
dittongamento di e ed o, 68-69, 127,
donzello, -a, 159, 161
130-132, 133, 141, 147, 202, 260
dopo, 37, 419
dittongo mobile, 351, 423, 485, 563,
dopò, 419
630
doppia virgola, 629
diva, 598
doppiere, 159, 587
divano, 383
doppo, 343, 377, 419
divenire, 598
dorè, 220, 446
divergenza, 645
Doria, Percivalle, 121
diversorio, 219
dormire, 27
divetta, 661
Dortelata, N., 338
divimare, 180
dorura, 380
divinitade, 155
Dossi, C., 610, 629, 649
divinizzare, 517
dossier, 661
divino, 272, 362, 390
dottanza, 129, 587
divisione in sillabe, 628
dottare, 129
divisionista, 641
dottora, 640
doario, 379
dottore ( doctor ), 155
dock, 598
dottoressa, 640
documentario, 658
dottor Graziano, 361
702
Storia della lingua italiana
dottrice , 640
dottrina, 155
dove, 37
dovere modale, 212
D'Ovidio, F., 618
dozzina, 160
draconiano, 658
dragata, 274
dragomanno, 163
draisienne. Sii
dramma musicale, 391
dreadnought, 663
drenaggio, 595, 597
dreto, 341
dreyfusardo, - ista , 639
dritto, 480
driturier, 219
droga, 383
droghiere, 647
dromo ven., 158
drudo, 129
dubio, 581
duca, 73, 82, 221
ducato «moneta», 113, 154
due e varianti, 208-209, 264, 354-355,
424
duecento, 626
duello 217
duenna, 382
Duez, N., 417
dugento, 626
dugie, dugio, 221
Dulcamara, 575, 580
dulzuri sic. ant., 129
duma, 665
duna, 383, 500, 501
duodeno, 215
duolo, 36
duomo, 43
Dupré, G., 648
dura, 152
durazione, 508
duttile, 515
-e finale per -i, 253
-e terminazione del plur. femm., 69
-e terminazione del plur. di nomi in
-e, 208, 263
è ... che, 489
ebeno, 443
Eberardo di Béthune, 157
ébloui, 660
ebraici, caratteri, 106
èbulo, 278
eccentricità, 370
eccentrico, 156, 370, 502
eccepire, 590
■ecchio, 274
ecciso, 278
echino, 270
eclissi, 645
economia, 482
economia civile, 497
economia politica, 497
economista, 497, 517
economizzare, 578
e converso, 216
edace, 656
edelweiss, 665
edereggiare, 438
edicola «tempietto», 277
edicola «chiosco», 658
edificare, 155
editore, 495
editoria, 641
editoria: v. arte della stampa
edizioni espurgate, 283
edo, 278
educare, 370
edurre, 514
efebico, 656
efficere, 371
ef fìngere, 658
e f flagrare, 371
effrazione, 390
égaré, 593
Egeo, 403
-eggiare, 36, 274, 152, 438, 505
egida, 515, 520, 612
Egitto, 624
egli, 551, 564
eglino, 149, 375, 564, 633
eglogaio, 504
egreferenza, 590
egre soglie, 614
egro, 587
eguaglianza, 571
ei «egli», 564, 633
eiaculazione, 442
elaborare, 442
elasticità, 503
elastico, 432
ciato, 278
elee, 32
elcina, 273
elegante, 370
Indice alfabetico
703
èlego, 371
elemosina, 72, 551, 650
eletta, 611
elettricista, 643
elettrico, 432, 579
elettrizzare, 503, 517
elettroargentatura, 643
elettropuntura, 643
elezione, 638
elicere, 541
elimare, 278
elio, 658
eliocentrico, 514
elisione, 563, 566, 630-631
élite, 661
Ella allocutivo, 263, 355, 633
elle, 564
elleno, 149, 564, 633
ellissoide A
■elio: plur. -ei, - egli , 208, 263, 424, 487,
564
elmo, 78, 543
Elmo, 81
elocuzione, 370
elogio, 442
elongarsi, 278
elzeviro, 641
emanazione, 442
Emanuele Filiberto, 302, 332
embrionale, 517
embrione, 517, 645
embrionico, 517
emigrato, 571
emigrazione, 571
Eminenza, 429
emolumento, 277
emorroidi, 443
emozione, 494, 515
empiastro, 33
empicomici, 644
encamato, 137
encefalite, 577
enclisi, 66, 97, 151, 212, 260, 267, 353,
357, 570, 637
endecasillabo, 103
éndice, 44
energetico, 517
energiaco, 517
energico, 517
energumeno, 218
enervato, 278
-engo, 71
enguana, 221
enisso, 590
enologia, 516
enopolio, 651
entennenza, 137
entòma, 367
entomata, 179
entragne, 508
entrambi, 551
entrasatto, 137
entrave, 640
entremets, 594
entusiasmo, 370, 442
enveloppe, 580
■enza, 132, 134, 161
Enzo, re, 126
eocene, 577
eolipila, 514
epa, 376
èpate, 589
epiciclo, 156, 395, 502
epidemia, 277
epidimia, 277
epigrafia, 536
epilessia, 517
epistilio, 270
epitesi, 97, 100, 101
epoca, 515
epos, 659
equare, 278
equestre, 366, 412
Equicola, M„ 312-313, 371
equilibrio, 366
equipaggio, 380, 446
equità, 369
equite, 366
equivocare ( aequivocare ), 155
equivoco, 155
èquore, 278
-er- da - ar vedi -ar- ed -er-
erbido, 656
erbolaio, 508
erborinato, 651
Ercules, 276
Èrebo, 540
eredità, 155
■erello, 643, 581
eremita, 34
eremo, 34
eretico, 156
eretto, 219
-erta, 437
Eritrea, 625
ermo, 34
704
Storia della lingua italiana
■ero, 200
eroe, 408, 504
eroe della sesta giornata, 573
erogare, 366
eroicomica, poesia, 396
eroismo, 437
erotico, 514
errante, 370
erubescenza, 217
erugine, 371
eruscatore, 590
es- ed ess-, 419-421
esagerare, esaggerare, 370, 423, 429,
581, 626
esalato, 217
esaltazione , 215
esangue, 277
esardere, 442
esattore, 218
esaurire, 513
escamoter, 662
escandescenza, 442
-esco, 71, 152, 214, 274, 505, 644
esempio, 216
esercito, 156, 218
esibizione, 516
esilarare, 277
esistenza, 218
esizio, 278
esofago, 398
esoleto, 442
esonerare, 277
esorare, 278
esordire, 156
espansione, 645
espettazione, 537
espilare, 658
espiscare, -442
esploatare, 594
esponimento, 587
esportare, 497, 515
esportazione, 497
esposizione, 579
espressione geografica, 573
espurgare, 369
■essa, 36, 71, 639
Sr»»ò 6 24, forme antiche,
esserle) - di casa, 650
esso fatto, 276
est, 381
estasiare, 517
esterno, 348
estetica, 516
estifero, 278
estimazione, 586
estimo, 152
estollere, 541
estone, 590
estradare, 661
estrarre, 497
estrazione, 497, 520
estremare, 576 x
estremità (extremitas), 155
estrudere, 442
estruso, 278
estuante, 278
estuare, 656
esuvie, 278
et (60, 422
etaira, 656, 657
état d'àme, 662
etcetera, 367
etèra, 657
etere, 515, 516
eternale, 155
eterno, 155
eteroclito, 370
etiam, 276
etichetta, 429, 444
eticità, 664 ...
etimologica, figura 17
etimologiche, grafie H7 347 349
etimologiche, ricerche, 330, 416
Etiopia, 191
E topedia, 440
etra, 506
etruscaio, 504
etruschi, vocaboli, 31
etrusco, 16
ettemo, 218
-etto, 35
eucalipto, 626
eunuco, 218
euritmia, 366
eutanasia, 369
eutrapelia, 217
evadere, 590
evaginare, 278
evaporare, 218
evenire, 278
eversione, 343, 368
evo, 613
-evale, 214, 364, 505
evoluzione e der., 638, 645
evulso, 656
Indice alfabetico
705
evviva, 541
ex, 571
exaltatione, 156
exorare, 41
exploiter, 594
exprobrare, 278, 343
ex tempore, 276
«exultet», 105
eziandio, 537, 586
tabellare, 41
Fabriano, carta di, 99
facchino, 269, 385
facciata, 386
face «faccia», 148
facere, 319
facezia, 211
fàché, 593
facibene, 439
facidanno, 439
facile, 156
facimale, 439
facoltà ifacultas), 155
fadiga, 419
faeton, 594
fagiano, 33
fagiolo, 33
faglia «fallo», 1?1
faglia «covone», 372
fagungio, 273
faida, 77
fàlago, 279
falaise, 661
falbalà, 518
falbo, 78
falda, 271
Faldella, G., 610, 649
faldiglia, 381
faldistoro, 161
faldone, 435
falegname, fallegname, 373, 376, 434
falerno, 612
falò, 82
falpalà, 496, 518
falquiero, 279
famedio, 640, 651
fameglia, 221
famigliarizzarsi, 438
fanaticismo, 494, 517
fanatico, 277
fanatismo, 494, 517
fancellina, 587
fandango, 524
Fanfani, P., 620, 622, 649
fanfarone, 380
faniente, 521
Fanny, 524
fantasia,- 599
fantasima, 67
Fantino da San Friano, 144
fara, 51
farad, 624
faraone, 496, 519
fardello, 163
fare, 27
fare : la forma fenno, 177
faretra, 218
far fanatismo, 575
far furore, 575
farmacia, 595
farmacopea, 292
far niente, 448, 525
farsa, 279
farse, 254
farsi, 476
far tremar le vene e i polsi, 180
fasce, 442
fascinazione, 611
fascio, 646
fase, 595
fashion, 597
fashionable, 597
fasse «fasce», 195
fassone, 279
fastidio, 156
fatale, 390
fatalismo, 493
fata morgana, 599
fatica, -iga, 376
fato, 362, 390, 541
fattaccio, 652
fatterello, -arello, 643
fattibello, 152
fatti compiuti, 573
fattista, 437
fatto ( esser ali, 521
fattura, 448
fatturo, 179
fauta, 378
Fava, Guido, 122, 142
favata, 334
favellare, 41
favola, 24, 67
fazenda, 665
fazone, 129
fazzolettata. 504
706
Storia della lingua italiana
fazzoletto, 412, 434, 433
Fagiuoli, G. B., 472
febre, 319, 581
febrile, 626
fecola, 442, 515
fede, 24, 362
fedecommesso , 582
federa. 75
federalismo, 571
federalista, 571
federativo, 571
federazione, 571 „
Federico II di Svevia, 113-114, 123
fedine, 573
fedire, 218, 654
féerique, 594
fégato, 33, 45
feld-maresciallo, 598
feldspato, 525
«Fé lial», 140
Feliciano, F., 251
Felicita, 216
felicitare, 520
felspato, 645
femmina, femina, 174, 481, 583, 626
femmine da conio, 180
fenerare, 278
fenestra, 191
fenestrella, 581
fenice, 192
Fenice, G. A., 346
fenico ( acido ). 577
fenomeno, 659
feo, 220 .
Ferdinando III d Austria, 418
ferire, 45
ferita, 72
ferletta, 273
ferma, 497, 519
fermaglio, 159
fermiere, 497, 519
-fero, 516
ferocia, 590
Ferragosto, 509
Ferrara, 227, 252 .
Ferrara, Antonio da-, v. Beccan, An-
tonio
Ferrara, iscrizione di, 102
ferraro, 435
ferrea canna, 507, 540
ferrovia, 577, 597
ferroviario, 666
ferrugine, 442
ferry-boat, 663
feruta, 375, 377, 436
fesso, 653
feticcio, -isce, -isso, 582
feudalesimo, 57, 158
feudo, 81
fiaba, 24, 68
fiàccaro, 519
fiàcchere, 596
fiacre, 594, 596
fiamma, 192, 400
fiammifero, 574, 576, 591
fiasca, fiasco, 76, 78
fiasco (teatri). 599
Fiastra. scritta di, 99
fiata, 540
fibrilla, 540
fiche, 522
fichetto, 512
-fido, 5, 644
ficuna, 28
fidecommisso, fidei- 582
fidenziana, poesia, 295-297, 397
federe, 654
fiera, 23
fiero pasto, 180
Figaro, 575, 576, 580
figlie dell'arco, 456
figura Etimologica, 117, 144, 403
figuro, 584
filantropia, 571
filantropo, 494
filare, 41
Filarmonici, 365
filastrocca, 583
filatelia, 642, 658
film, 663
filografia, 365
Filolauro, 365
Filomati , 365
filosofia, 492, 647
filosofia trattata in italiano, 290
filosofie o, 493
filosofismo, 493
filosofo, 493, 647
filugello, 221, 373
fimbria, 656
finaita, 75
finare, 375, 376
finca, 584
finente, 137
Indice alfabetico
707
Fiobbio, 29
/toppa, 436
fiorbellaccoglitri.ee, 506
fior di sangue, 498
fiore, 148, 151
«Fiore», 120 •
«Fiore e vita di filosofi», 144
«fiorentino», 196-198, 244, 320-328.
550-553, 615-620
Fioretti, B., 414
fior fiore, 612
fioricida, 440
fiorile, 582
fiorino, 113, 154
fioritura, 598
Firenze, 181-182, 323-328, 604, 615 e
passim
Firenze: libro di conti del 1211, 101
Firenzuola, A., 335
firma idei lotto), 511
firmare, 366
Firpo, 81
fiscella, 217
fìscia, 519, 522
fiscina, 43
fisciù, 518
fisco, 43
fiscolo, -a, 43
fisetere, 277
Fisi, 656
fisionomia, 581 —
Asolerà, 651
fisonomia, 581
fissò, 518
fistiare, 547
fitoiatria, 440
fitta, 583.
fìtto, 219
Attore, 278
Fiuggi, 29
fiume (flumen), 41, 318
five o' clock tea, 663
flaclcìone, 519
Flagellanti, 115
flagello, 513
flailli, 179
flambò, 595
flambuese, 522
flanella, 519
fiavescente, 657
flavo, 613
flebite, 577
flemma, 33, 599
fleto, 261
flirt, 663
flogisto, 501, 515
Flora, 404
floreale (mese), 582
floreale agg., 595
Fiorio, G., 346, 374, 418
Fiorio, M., 346
floscio, 444
flotta, 381
flottiglia, 524
fluvio, 278
foco, 192
focolare, 662
fodra, 372
foga, 43
foggia, 161
Foglietta, U., 299
fogliettista, 574
foia, 43
foiba, foibe, 651
Foixà, Jofre de, 126
fola, 24
folclore, 664
folia, 317
folklore, 664
folla, 434
fondaco, 163
Fondi, elenco di redditi, 101
fonografia, 646
fonografo, 642, 658
fontana, 36
fontanella, 155
football, 603, 663
foraggio, 159
forbottare, 588
forcaiolo, 639, 644
forcipe, 370
forese, 587
foresetta, 134
foresta, 74, 80
forestiere, 58 ì
foriere, -ero, 159, 379, 428
formaggio, 373
formale, 155
formazione di parole: v. derivazione
-forme, 516
formula, -ola, 581, 659
Fornaciari, L., 538, 554
Fornaciari, R., 621, 645
fornaio, 511
fornire «finire», 358
f or riere, 278
V
708
Storia della lingua italiana
fortepiano, 525
fortuna, 362, 390
Fortunio, G. F., 328
forra, 79
forzore, 149
Foscolo, U., 533-534,
536
fossile, 579
fotografia, 578, 646
fotoincisione, 643
fotoscultura, 643
foyer, 661
frac, 596
Fracassa, 361
frale, 191, 506, 613
framboesia, 519, 522
framboise, 522
frambuò, 519, 522
frammèa, 424
Franceschi, E. L., 607
Francesco, san, 135
francese, 4 ciltura= sua conoscenza e
influenza, 89, 119-121, 172, 1 >
301, 473-478, 623-624
francesSS. 128-129, 158-161 193,
219-220, 278-279, 378-380, 445-447,
460. 530, 592-596, 620, 660-663
Franchi in Italia, 53, 56-57
franchi, vocaboli, 80-81
franciscata, 56
franco, 152, 448
franco arciere, 278
franco bollo, francobollo, 561
franco combattente, 279
francoitaliana, letteratura 199
franco-latinismi, 446, 515-516 590,
franco-provenzali, colonie, lu
frangipana ( concia 1, 437
franmassone, 522
franzese, 480
frappe, 270
fraseggiare, 438
frate, 154
fratello, 36, 72, 154
frateimo, 537
fraternizzare, 438
fratile, 364
fratismo, 517
fraticida, - cidio , 580
fratricida, -cidio, 580
frattempo, 594
fraude, 377
Fràulein, 665
flebotomia, 547
freccia, 376
freddo, 27
freddura, 428
fregata, 388
Fregoli, 647
fregolismo, 647
frenesì o, 137
frenologia, 577
freschetto, 599
fresco agg., 78
fresco Un, a), 213, 488
f rezza, 376
frezzoloso, 372
fricandò, 476, 519
Frimesson, 522
frignone, 477
frisare, 519
frisatura, 519
frisetto, 372
frisore, 519
fritturaio, 572
friulanismi, 651
Friuli, 251
frivolo, 370
frode, 377
frodo, 152
frontispizio, 277
frontone, 448
frottola, 189, 197
frugale, 218
frugare, 36
frugoneria, 504
frullar per il capo, 650
fuciliere, 430, 437
Fucini, E-, 648
fuga, 386
fulgetro, 278
fulminante, 576
fumarola, 599
fumido, 613
fumoir, 661
funaro, 573
funere, 231
funzionare, 576
funzionario, 572
fuoco [focus 1, 41
furbesco, 247
furgone, 594
furi «fuori», 131
furiale, 644
furibondare, 273
Indice alfabetico
709
furiere, 379
furiosamente, 520
furtiva lacrima, 575
fusetta, 447
fusionista, 573
fusoliera, 640, 651
futa, 665
fùteri (montare i ), 583
futurismo, 611, 614, 643
futuro indicativo: forme, 26, 70, 109,
132, 149, 190, 200-201, 209, 264, 426,
436
g e gg, 352
■ga: formazione del plur., 353
gabbare, 134
gabella, gabbella, 163, 434
gabinetto, 379, 444, 446
gafio, 75
gaggio, 79, 80, 160, 179
galante, 360
galanteismo, 504
galantuomo, 360
galappio, 408
galea, 82
Galeani Napione, G., 465-466
galenista, 437
galigaio, 28, 152
Galilei, G., 392, 398
galileista, 437
galleria, 378-379
Galleria, 404
galletta, 499
galletto, 434
gallicheria, 504
gallici, vocaboli, 31
galliamo, 278
gallicismi: v. francesismi
gallicume, 504
gallo {stare ai, 412
gallone «fianco», 272
gallone «ornamento», 446
gallume, 504
Galluppi, P., 535
galoppare, 80
galozza, 372
galuppo, 269
galvanoplastica, 643
gamba, 33, 45
gambero, 33
gambrossene, 373
Gamologia, 516
ganascia, 82
Ganimede, 403
garage, 661
garantia, 582
garantire, 81, 626
garbo, 372
garbo Idi), 650
garsonnière, 666
garga, 583
Gargani, G. T., 588
gargiolaro, 435
garofano, 33
garretto, 31
garrire, 588
Gartiera, 383
garzoncello, 587
gas, 577
gastigare, 377
gattaconiglio, 214
gatto, 476
gàttolo, 372
gaudio, 156
gaugio, 129
gavazza, 588
gazzerare, 583
gazzetta, 361, 495
gazzettante, 495
gazzettario, 504
gazzette: v. giornalismo, 451
ge, gì lat., 25, 68
gecchire, 134 _
geisha, 666
Gelli, G. B„ 323
Gello, 28
gelone, 580
gelosia, 271
geloso, 34
gendarme, 378, 448, 582
genealogia, 395
genere, 155, 364
genere del maschio, 364
gengiva, -la, 480
genialoide, 644
genio, 494, 520
genitivi latini e loro tracce, 91-92, 148,
150
genovese di Rambaldo di Vaqueiras,
109
Genovesi, A., 471
gente agg., 129
gentedarme, 279
genti di lettere, 520
gentilezza, 134
genzore, 129, 149
710
Storia della lingua italiana
geocentrico, 514
geografico , 437
geologia, 440
Georgio, 368
gergo, 408 279 382-383,
germaniSmi, 74-80, 22u,
447, 524, 598, 6(55 659
germano-latinismi,
g erme, 645
Gerotricamerone, 516
gerrettiero 383 2QQ 2U 266
f^SS- Tm- «>• 568 - 637
gesso, 33
gestazione, 645
gestire, 658
gesuita, 362
SSttS* 3». 36
gettone, 446
geyser, 598
gh- e -gl; 352
ghelèr, 279
ghetta italo-amer 664
Gherardini, G., 555, 56
ghette, 518
ghetto, 362
g bezzo, 28
ghiacciaio,-^,, ati
ghiandaia, 313, 373
ghiandola, 480
ghiara ricongelata 271
Ghibellini, 113, 164
ghigliottina, 561
ghiora, 128
ghiottone, 272
ghiozzo, ghiozzo, 374
ghipsoteca, 659
ghirba, 639, 665
ghiribizzare, 364
ghiridone, 519
ghirlanda, 270
^iSazion, de. piar., 63.
mi giacchio, 28
| ISSSoZ Verona. HO
HÉ giaguaro, -garo, 582
fj'j Giamboni, Bon°. ll 4 ’ ^ 5
HI Giambullan, P.. 323,
1 | gianda, 341
M | giandarme, 582
Gianduia, 575
gianduia, -otto, 65 1
giannetta, 279
giannetto, 279
giansenismo, 469-470
giardinaggio, 520
giardino, 160, 520
Giardino, 404
Giarrettiera, 383
giavanare, 585
gibigianare, 651
gibigianna, 651
SSoTa Sommacampagna, .68
gigaro, 31
gigione, 647
gi gotto, 380, 662
Gigli, G., 461, 466
Gilio, G. A-, 338
gimnasta, 517
g iranico, 370
gin, 663
gina, 375, 376
ginestra, 31
Ginipedia, 440
ginnasio, 366
ginnastica, 517
ginnastico, 517
ginnoto, 499
ginocchio, 36
ginseng, 447
gioa, 366
giobba italo-amer., 664
Gioberti, V., 590
giobia, 373
giocare «sonare; recitare-, 520
giocattolo, 580
gioco di parole, 520
giocolare, 378
giocosa, poesia, 396
giogante, 218
gioia, gioì, S 10 - 129
gioiello, 159
Giordani, P-. S34J35
Giorgini, G. d-, 6z<i
Giorgio, 368
giornale, 495 532 6Q3
giornalismo, 451,
giornalissimo, 643
giornalista, 495
giornea. 270
giorno, 36
Indice alfabetico
71i
giostra, 160
giotto, 341
giovanella, 134
giovanesco, 504
giovanetta, 134
Giovanni da Viterbo, 143
giove «giovedì», 373
giovesco, 504
Giovio, P., 318, 372
giovola, 366
gipsoteca, 659
girandola «fuoco artificiale», 448
girandola «raggiro», 587
Girella, 580
girellalo, 510
~ Girolamo, 368
Girolamo, san, 23
girovago, 217, 218
, giubba, 434
giucco, 539
giudeo-italiana, elegia, 100
giudice di. pace, 593
giudici, 183
- giuggiolena, 162
M giuggiolo, 33
giulebbo, 270, 279
- giulivo, 193
giullare, 160
, giullari, 89, 103, 114, 119, 183
I giungla, 664, 666
-giunta , 363
giuntura, 364
' : :igiurare, 520
■T}.! -giurato, 595
giuri, 593
giuridici, termini, 431, 496
'giustacuore, 434, 446
. Giusti, G., 539, 575-576, 579, 582, 610,
649
' Giustinian, L., 249
H^^itìstiniane, 249
!l§| gfe grafia, 98, 207
:.^0iglaio, HO
f|gg§n<fola, -ula, 480
‘ sare, 661
a la lei», 355, 565, 633
«a loro», 355, 425, 565, 633
Brina, 577
fa, gliofa tarant., 32
le, gliene, 211, 355, 425, 487
mmero, 254
salo, 521
ha, 390
gloriale, 644
gloriato, 137
glorificare, 23, 47
glossopetra, 501
glottologia, 578
gluma, 514
gn lat. diventato nn, 136
gn alternante con ng, 352
gnaffe, 318
gnaresta, 28
gnene, 355, 425
gnomo, 524
-go: formazione del plur., 263, 424,
486, 563, 564, 631
goal, 663
gobbo, 33
goccia, -o, 374
gocciola, 374
godazzo, 75
goden dacché, 279
golare, 180
Goldoni, G., 459
goliardo, 655
goliglia, 524
golfo, 249
gomena, 163
gondola, 82
gondoleggiare, 438
gonfalone, 81, 159
gonfaloniere, 640
gonfia, 437
gonfio, 376
Gorgia, 424
gorna, 372
gota, 45
Goti in Italia, 49-50
goticismi, 75, 79
gotico, 361
governare, 33
governo negazione di Dio, 573
gozzo, 374
Gozzi, C., 465
gracilare, 642
grada, 121
gradino, 42
gradizza, 272
grado, 42, 271
graffiare, 80
grafìa, 146-147, 206-207, 259-260, 347-
350, 419-422, 482-484, 560-562, 627-
629
grafologia, 642
grafometro, 365
712
Storia della lingua italiana
gramatica, 481
gramma , -o, 571, 582, 593
grammatica, 118, 154, 155, 481
grammaticali, termini, 364
grammatiche con esercìzi in volgare,
119
gramo, 75, 80
gramuffa, 271
grana, 651
granaio, 40
granata «bomba», 448
granata «scopa», 626
granatiere, 430
grancévola, 436
grande , 43
grande di Spagna, 381
grandinifugo, 644
grandioso, 381
Granelleschi, 465
grangia, 160
grano turco, 511
gran pensante, 494
granturco , 384
grappa, 651
grappolo, 580
grassatore, 442
grattacacia, 434
grattacielo, 663
grattare, 81
grattarsi la pera, 584
grattugia, 434
grava. 31
grave, 448
gravenza, 193, 375
grazìanesca, lingua, 297
Graziano, 361
Grazzini, A. F., 344
gré (a), 417
grecismi: vedi latinismi .
grecismi in latino, 32-35
grecità in Calabria e in Puglia, 17
greco, 17, 57, 188, 192
greggia, 174
Gregorio Magno, 58
grello, 121
grembiule, 434
greppia, 79
greto, 79
gridelino, 446
grido di dolore, 573 -
grifagno, 180
griffa, 521
grigio. 78
Grigioni, 602
griglia, 594
grinfia, 79
grinta, 79
grinza, 79
grinzume, 574
grippe, 593, 594
grissini, 585
Gròber, G., 19
grograno, 380
grongo, 33
grossecchio, 274
grossezza, 520
grotta, 33
gruccia, 75, 79
grumereccio, 79
gu grafia per g velare, 100
guada, 79
guadagnare, 81, 520
guado, 79
guaglione, 653
guagnelo, 218
guaita, 81
guadìtare, 81
gualcare, 79
gualcire, 80
gualdo, 79
gualoppare, 508
gualuppo, 269
guancia, 19
guanciale, 434
guantaio, -aro, 434
guantiera, 586
guanto, 81
guarantire, 626
guardacuore, 159
guardaportoni, 505
guardare, 81
Guardati, Masuccio, 255-256, 258
guardia, 78
guardiano, 78
guardina, 651
guardinfante, 444
guardo, 506
guarentia, 582
guarentigia, 582
guarentire, 81, 626
guarento, 81
guari, 376, 412
Guarini, B., 344
guarire, 81
guarnire, 81
guastada. 159
Indice alfabetico
713
guata, 316
guatare, 81, 655
guattero, 79
gubbia, 585
guchiarollo, 372
Guelfi (e Ghibellini), 84, 113, 164
guercio, 78, 414
guerco Iguercus), 164
guemire, 80
guerra, 78
guerrafondaio, 639, 644
guerriglia, 381
Guglielmo Figueira, 114
Guglielmotti, A., 623
Guicciardini, F., 304, 344
guida, 597
guidalesco, 79
guidardone, 317
guiderdone, 81, 586
Guido Fava, 122, 142
Guidotto, 143
guidrigildo, 77
guigliottina, 561
guigne, 661
Guinizzelli, Guido, 115, 130, 132-134,
170, 171
guistrico, 373
Guittone d’Arezzo, 122, 143-144, 170
guizzasole, 651
gusto, 362
Guyton de Morveau, L.B., 498
h lat., 25
h grafia etimologica, 147, 206, 335,
347-348, 419-420, 482-483
Ihìalare «respirare», 218
balte, 593
hangar, 640, 661
harakiri, 666
(hìebere «venir meno»,— 218
Heliade Ràdulescu, I., 559
Helioscopia, 432
Herrico, Se., 410
< hìiattola , 513
IHÌieronimo, 368
hiètamu calabr., 34
high life, 597
( hìipotrachelio , 270
ihìolometro, 365
ihìomicavallico, 439
Ihìonorevole, 319
honorificabilitudinitate, 178
(hìorrevole. 319
Ihìortulano, 368
humus, 592
i atona finale, 128
■i terminazione del plur. masch., 69
-i terminazione del plur. di femm. in
-a, 208, 263
i e / distinti nella grafia, 335-336, 349,
421, 482, 560, 627
i grafica dopo palatale, 560, 627
-i- vocale copulativa nei composti
441
-i- per -e- protonica, 261
-i- per -ie-, 147
-ia, 82, 152
Iacopone da Todi, 136-138
iàculo, 179
ialino, 657
lancofiore, 193 “
iberismi, 219-220, 279, 380-381 443-
446, 598, 665
-ibile, 505
ibis, 235
ibridismo italo-francese, 119-120
iceberg, 664
-ico, 505
iconomia, 482
idolo, 390
idrante, 659
idrogene, -o, 582
idrostammo, 432
ieiuno, 215
ie ed e, 191, 207, 262, 341, 351
-ie- per -ia-, 147
iemale, 657
iera, 433
■iere, -iero. 111, 152, 161, 200, 581
iettatura, 513
igiene, 577
ignavia, 218
ignicolo, 442
ignivomo, 501, 543
iguana, 384
ih grafia per c palatale, 207
ilare, 277
ilatro, 31
-ile, 274
ilice, 613, 656
■iliter, 367
illacrimato, 578
illecebre, 590
illiberale, 370
illodato, 578
714
Storia della lingua italiana
illuminato, 493, 520
illuminello, 651
illuminismo, 493
illustrazione, 575
illustre, 170
illustrità, 504
imaginazione, 481
imagine, 481, 551, 659
imago, 541
imbarcazione, 576
imbastire, 80
imbecillità, 590
imbenarsi, 274
imbonitore, 652
imbriacare, 506
Imbriani, V., 620
imbracciare, 188
immacolato, -maculato, 581
immaginare, 423, 481
immedesimare, 438
immediate, 276
immettere, 497
immiare, 180
immilanarsi, 504
immillarsi, 180
immissione, 497
immitare, 423
immitazione, 423
immo, 276
immobiliare, 572
immorale, 516
impagabile, 521
imparadisare, 180
imparare, 44
imparnasare, 364
imparziale, 516
impassibile, 438
impegno, 380
impellersi, 590
imperativi in coppia asindetica, 212
imperativo, 149, 209, 635
imperativo sostantivato, 137
imperciocché, 653, 654
imperfetto congiuntivo: forme, 70,
209, 264-265
imperfetto congiuntivo per condizio-
nale, 267
imperfetto indicativo: forme, 128, 131,
149, 209, 264, 265, 341-342, 426, 489,
567-568, 634
impermeabile, 640
imperocché, 653
impiemontizzare, 639
impio, 191
impiparsene, 583
impiparsi dell'Olanda, 549
impoetico, 578
impolare, 180
impolminato, impolmonato, 508
imponderabile, 578
imporporare, 438
importante, 515
importare, 497
impratarsi, 438
impremiato, 578
impresario, 598
impressionista, 641, 661
imprimere, 164, 270
impromptu, 522
impronta, 219
improntare, 160
impronto, 511
improviso, 276
improvvisare, 361
improvvisatore, 495, 526
in, 27
in-, 152, 438, 578
inaffettato, 578
inalbare, 191
inalzare, 481
inarenare, 438
Inarìme, 424
inartigliare, 438
inaugurale, 516
inaugurare, -azione, 514
incalescere, 442
incalessato, 504
incantare, 520
incaparrare, 584
incappellarsi, 273
incapperucciare, 372
incarnazione Uncamatio), 23
incartamento, 640
incatalettarsi, 504
Scavallarsi, 504
inchiostro, 33
inciamberlato, 121
incignare, 34
incile, 277
incinquarsi, 180
incollatura, 661
incolore, 218
incombattibile, 505
incombere, 589
incompetente, 431
incongruenza, 442
indice alfabetico
715
incongruo, 442
inconspicuo, 438
incontro C incontra ), 37
incorruttibile tincorruptibilisì, 37
incrociare le braccia, 662
incrocio, 643
Scrunare, 274
incubo, 631
incutere, 442
indagare, 442
indagine, 442
indelibato, 578
indenaiato, 152
India, 384
indiano, 384
indicativo in luogo del congiuntivo,
636
indifeso, 364
indigente, 218
indirizzo, 580
indispensabile, 438
indivia, 81, 82
individualizzare, 578
indovarsi, 180
indovinello veronese, 63-66
indracare, 180
induare, 274
induchessato, 504
industre, 370
industria, 515
industriale, 595
industrio, 370
industrioso, 218
inesatto, 578
infermo, 513
infemifocare, 439
inferno, 36
inficiare, 438
infilosofico, 578
infinito con suffissi flessivi, 210, 266,
356, 490 -
infinito: usi, 137, 267, 427, 569, 637
infirmità, 626
inflazione, 659
influenza, 526, 599
informare, 270
infrangibile, 438
infrangi-legge, 504
infula, 215
in futurum, 276
ingaggiare, 519
ingarzoriire, 438
ingegnere, 43, 160
ingegno, 43, 494
ingenioso, 368
ingesuitato, 505
ingigliare, 180
inglese in Italia, 477-478, 623-624
inglesismi: v. anglicismi
Ùngo, 71, 157
ingombro, 31
ingratitudo, 276
ingualivo, 272
ingurgitare, 218
inibita, 442
iniezione, 442
iniziativa, 591
inleiarsi, 180
inlotare, 274
inluiarsi, 180
inn-, 581
innaffiare, 30
innaiolo, 574
innalzare, 423, 431
innanti, 588
innaverare, 161
innegabile, 505
inneggiare, 505, 550
innesto, 499, 501
innoltrare, 481
innondare, 481
innubo, 590
innutto, 590
inobbedito, 578
inoculare, 516
inoculazione, 501, 503
inoffensivo, 578
inoltrare, 481
inondare, 481
inopia, 191, 613
inreticellato, 504
insalarsi, 313
insalutare, 578
insalvabile, 505
insaputa talli, 594
insegnamento, 183, 187-188, 285-286,
529, 603
insegnare, 44
inselvatichirsi del latino, 19, 66
insemprarsi, 180
inservire, 658
inserzione, 501
insetto, 271, 277
insignificante, 516
insignita, 504
insorgere, 523
716 Stona della lingua italiana
inspergere, 513
inspirazione, 626
installare, 446
instellare, 438
instituzione, 626
instrutto, 343
instruzione, 581
insugherire, 574
insurgente, 504
insusarsi, 180
{iìntamato, 129
intando, 128
intellettuale, 643, 658
* Intelligenza», 120-121
intendanza, 129
intendente, 447
intendere t 161
interessante, 520
interesso, 153
interinare, 366
internarsi, 180
intero, 419
interpellare, 370
interpunzione, 206, 260, 349-350, 562,
629
interribilire, 438
interview, 664
intervista, 641, 664
intiero, 419
intimare, 47
intransigente, 639, 659, 665
intransitivo, 441
intraprendente, 520
intrapresa, 520
intrare, 216
Uìntrasatto, 128
intravedere, 594
intrearsi, 180
introcque, 176
introduzione, 497
intromettere, 497
introspezione, 641
intrufolarsi, 652
intuare, 180
inurbarsi, 180
inventari, 290
inventario Unventarium), 47
inventrare, 180
invenzione prelibata, 575
invernale, 364
inverno, 36
inviluppo, 580
invironare, 520
Indice alfabetico in
invito, 219
invitto, 218
{invoglia, 128
Iocondo, 341
iodo, iodio, 577, 592
ionadattica, lingua, 405
Ionie, Isole, 558
iopparello, 273
love, 216
iperbole, 395, 442
iperboree sizze, 612
ipersicilianismi, 131
ipertrofia, 645
iperurbanismi, 207
ipocondria, 485
Ipocràte, 216
ippotamo, 235
ipso facto, 276
irreale, 611
irredentismo, 639, 666
irremeabile, 656
irritabile, 515
irsuzia, 513
isbà, 665
■isc- nei verbi, 425
-iSenpón ven. sett., 665
■ismo, 437, 517, 521, 643
isoleggiare, 438
ispettore, 576
issa, 178
■issimo con sost., 643
isso fatto, 276
■ista, 214, 437, 517, 521, 578, 595, 663,
664
■ista per -istico, 595
istantanea, 642, 643
■istico, 644
istigare, 509
istituire, 219
istoriare, 157
Istria, 624, 602
istrione, 31
Italia dialettale in Dante, 168
Italia Q’1 farà da sé, 573
italiana, cultura, in Europa, 344-347,
416-418, 478-479
«italiana», lingua, 243, 311-319, 328 e
passim
Italiano, 1 15
italianismi in altre lingue, 385-388,
447-448, 525-526, 598-599, 666
italichesco, 504
italiciano, 27
■itano, 82
■ite, 644
■itide, 644
iùiuma, 373
Iulio, 341
iustizia, 216
ivernale, 191
■izzare, 438, 505, 517, 521, 578
/ lat. resa con i, g, gh, 352
/: vedi «£ e j»
jockey, 597
joli, 522
junior, 659
Juradios, 380
k grafìa, 93, 96, 100, 101, 146, 207,
562
k per g velare, 146
karakiri, 666
kaulin, 523
kavaliere, 483
Kellnerin, 665
kimono, 666
kinesiterapia, 656, 659
ko, 93
konak, 665
krach, 664
Kulm, 665
Kulturgeschichte, 664
Kulturkampf, 665
Kursaal, 665
l nei gruppi lat. «cons. + l» e suo
trattamento, 69
l per r, 261
l per u, 207
l pronunziata £, 352
labbia , 134
labbreggiare, 438
labefattare, 442
labere (labi), 179
lacca «gamba», 512
lacchè, 379, 446
laciniato, 514
ladro, 38
Zagare, 174
lagnarsi, 43
lai, 180, 195, 273
laidura, 153
lambiccaboccacci, 365
lambiccato, 428
lambrecchia, 273
Lambruschini, R„ 562, 616
lamentata, 137
«Lamento della sposa padovana»,
140
lampada, 33
lampaneggio, 588
lance, 541
Lancelot, C., 417
lancia, 33, 543
Lancia, ser Andrea, 199
Landino, C., 241-242
landò, 519
Landoni, J., 588
lanfogti, 383
Lanfranco, G. M., 332
Lanfranco Cigala, 121
langoureux, 660
lanificio, 5, 644
laniglia, 381
lanza, 128
lanzi, 382
lanziilchinech, 382
lanzimanno, 382
laonde, 653
lapida, -e, 482
Lapini, E., 346
lapislazuli, 163
lappole, 191
larario, 589
largo (mus.l, 448
largo «piazzetta», 653
larice, 31
larva, 217
Las Casas, C. de, 346
lasciare (laxareì, 41
lascio, 152
lascivanza, 137
lascivire, 658
lasina, 436
lassare, 412
lassativa, 433
lasso, 590
lasta, 372
lastima, 445
lastrare, 174
lastrico, 82
latercolo, 513
Latini, Brunetto, 115, 120, 122, 144,
167, 170
latinismi, 102, 106, 107, 109, 132, 144,
154-158, 193, 200-201, 214-219, 231,
274-278, 365-371, 441-443, 513-518.
589-592, 655-659
718
Storia della lingua italiana
latinità barbara biasimata dagli
umanisti, 225, 298-299
latinità medievale, 58-62, 73-74, 184
latino e volgare, 85-88, 116-119, 171,
183-187, 285-300, 392-394, 469-471
latino insegnato per mezzo del vol-
gare, 142
latino volgare, 12-15
latria, 179
lattescente, 657
laudare, 133, 318, 586
laudari, 115
Laurenziano, ritmo, 104
lava, 500
lavaggio, 595
lavamano, 36
lavina, 501
Lavoisier, A. L., 498
làzaro, 273
Lazio, 203
lazione, 442
lazzarone, 444
lazzeretto, -aretto, 581
lazzi, 430
leader, 597
lebete, 642, 590
lecca, 75
lecchè, 379
le/a, 75
lega, 32
lega operaia, 639
legalità Uégalitas), 155
legalizzare, 517
Legalotre soprann., 152
legge Tobler-Mussafia, 66, 97, 151,
212, 267
leggiadribelluccia, 439
leggiadro, 134
legione, 215
legislatura, 516
legista, 155
legitimo, 581
legittimista, 572
legnaUuìolo, 373, 376, 434
legname, 373
legno santo, 384
legume d’Aleppo, 507
lei, 70, 208, 263, 355, 424, 487
Lei allocutivo, 263-264, 355, 633
Leitmotiv, 641, 665
lekythos, 656
Lelio agg., 274
lemma, 365
lenka emil., 28
lenocinio, 277
lentiggine, 28
Lentini, Giacomo da, 115, 123
Lentulo, Se., 346
lenzola, 434
Lenzoni, C„ 323-324
lenzuola, 434
Leo, 215
Leonardi, D. A., 461
leoncello, 213
Leonida, 631
Leonzio Pilato, 188
Leopardi, G., 535, 590
lepido, 277
lepore, 215
Lepòreo, L., 414
lepre C aver più debiti della), 583
lerfo genov., 79
lero pron., 109
lesela, 373
lesina, 76, 78, 626
lesionare, 643
lesione, 442
lessaio, 578
lestofante, 433
letale, 442
letame, 41
letteratessa, 640
letterati come segretari, 284
letterato, 457
lettericidio, 516
letto {guardare il), 521
lettura Uectura), 155
lettura in volgare di atti latini, 118
letturino, 435
leuto, 164
levar le gambe, 583
lev'innanzi, 330
levre, 214
levriere, 160
Ih grafìa, 259
li e gli particelle plur., 565
liagò, 158
liaison, 593
liana, 661
lias, 577
libeccio, 163, 166
libellula, 577
liberale, 572, 591, 598
libero, 152
libero muratore, 522, 523, 572
libero pensatore, 494
Indice alfabetico
719
libero pensiero, 523
libertà, 571
libertaio, 578
libertario, 639
liberticida, 571
libertino, -aggio, 429. 446
Libia, 625
libiano, 116
libito, 179
librazzo, 435
libretto, 495, 598
Libri, Matteo dei, 143
libriccino della Madonna, 453
libricciuolo, 495
libro, 155
libro da stampo, 270
libro in forma, 270
Libumio, N„ 329, 335
lice, 541
Liceo, 362
Liceti, F., 393
licitazione, 572, 576
licito, 179, 216
lidoca. 373
lietofestoso, 439
lievore, 214
lievre, 214
ligio, 81, 159
lignaggio, 159
liguri, vocaboli, 31
ligustro, 31, 373
liliale, 611, 644, 658
lillà, 519
Lilliputte, 524
lillipuziano, 495, 524
limbo, 218
limiere, 595
limitrofo Uimitrophus), 47
limone, 164
limòsina, 34, 551, 650
lindo, 381
linfatismo, 658
lingeria, 446
Ungi, 378
lingotto, 661
lingua, 34
lingua e sua funzione sociale, 172
lingua e sua stabilità, 172
lingua franca, 559
lingua parlata, 452-455, 533-535, 605-
607
linguaggio amministrativo, scientifi-
co, ecc.: v. termini ecc.
linguaggio forense, 457
linguaggio poetico, 378, 456, 540-544,
612-614, 620
linguaggio teatrale, 456, 458-459, 610-
612
linguaio, 495
linguistica, 578
linguistica spaziale, 39
Linneo, C„ 498
liofante, 368
lion, 597
lione, 551
lionedda, 586
lionfante, 368
liquido cristallo, 198, 541
liquirizia, 33
liquore, 520
liricetra, 439
lirismo, 658
Lissoni, A., 555
litografia, 578
litro, 593
littera, 368
lituo, 513, 656
liturgia in volgare, 287
liuto, 160, 164
livello, 28, 44
livragare, 647
lo riferito a frase precedente, 487
lobbia «loggia», 78
lobbia «cappello», 640, 647
loc, 384
locale, 584
lo che, 355, 488
lock OUt, 639, 664
locomotiva, 577, 597
loculo, 514
Lodi, Uguccione da, 138
logaritmo, 432
loggia, 159, 666
-logia, 516
logico, 368
logos, 656
lograre, 419
loico, 180, 368
Lomazzo, G. P., 372
Lombardelli, O., 331
Lombardia, 199
lombardismi, 511, 512, 585, 651
lombardo, 51, 115, 199
lombardo Sardanapalo, 574
longiamenti, 129
longicollo, 656
720
Storia della lingua italiana
longo, 412
Longobardi in Italia, 50-54
longobardismi, 75-77, 79-81
lonzo, .75
loppa, 273
lordò, 279
loro, 70, 100, 424
lor signori, 639
Lotario, 62
lotta, 36
lotta di classe, 573
lotta per la vita, 638
Lovati, L., 115
lubricare, 442
lubrico, 429
lucchese, ritmo storico, 106
lucemino, 573
lucertola verminara, 194
lucignolo, 33
luco, 656
luetico, 644
luffo, 75, 79
luffomastro, 220
luganica, 258
lùgigìiola, 273
lui, 70, 208, 263, 344, 355, 424, 487, 564
Luigi XIV, 417
luissimo, 427
lulla, 176
lumi, 493
lumifero, 576
luminello, 651
Luna, F-, 331
luna di miele, 596
lunghesso, 508
lungi, 38
luni, 373
lurco, 273, 573
lusingarsi, 520
lusso, 412
lussuoso, 658
lustrare, 47
luterano, -iano, 362
Luti, E., 550
luttare, 216
luvomastro, 220
m lat. finale, 24
ma, 99
macabro, 594, 631, 662
macadam, 596
macca (a), 583
maccaronata, 652
maccherella «mezzana», 161
maccheroni, 385
maccheronico, 386
maccheronico, 386
macchiatolo, 238-239, 295-296
macchinario, 641
macchinista, 642
maccione, 99
macellaio, macellaro, 434, 499
macello, 650
Machiavelli, N., 304, 320
macina, 43
macro, 150
madama, 159, 518
madamosella, 518
madia, 33
madido, 277
madre, 27
madrèpora, 645
madrigale, 221, 386
madrignale, 504
maestrato, 368, 508, 587
maestressa, 379
maestro, 598
Maffei, Sc„ 475
mafia, maffia, 653, 666
mafioso, 653
Magalotti, L., 398, 409, 413, 477
magazzino, 163
Magazzino, 524
magenta, 576 —
maggio, 148
maggioranza, 597
maggiorasco, 381
magistero, -erio, 481
magistratesco, 504
magistrato, 368
magistrato delle acque, 655
magistrato di commercio, 511
maglia, 159
Magna Curia, 123
magnadone, 137
magnano, 434
magnare, 453, 513
magnati ( magnatesi , 155
magnetico, 502, 503
magnificare, 217
Magnifico, 261
magone, 79
maidico, 644
maiesta, 216
mainò, mai no. 375, 588
maiolica, 220
Indice alfabetico
721
Maior, P., 559
maiorasco, 381
maire, 593
mais, 384, 644
mai sempre, 653
maisì, mai si, 375, 588
maiuscole, 206, 421, 484, 561, 628
malannaggia, 653
malaria, 666
malarico, 642, 644
mala signoria, 180
malato, 434
mal d’occhio, 500
male, 27
male-, non essere male, 662
mal francese, 279
malga, 31, 651 '
malgrado, 491
malinteso, 595
malioso, 611
malia, 519
malmantilesco, 504
malocchio, 513
malonesto, 521
malore, 437
mal sottile, 574
malta, 33
Malta, 559, 602, 625
malva, 573
malvagio, 46
malvino, §73
Mambelli, M., 415
Mamiani, T., 537, 621
mamma, 39, 174
mammana, 70, 436
mammella bnamilla), 39
mana, 353
mancia, 160
mandare, 45
mandarino, 445
mandolino, 525
mandorlo, 33
mandracchio, 82
manducare, 38, 160
mangiare, 111, 160
mangiasego, 573
manicare, 160
manicare: pres. io manuco, 209
manicomio, 591
maniera (maneries)^ 155
maniera «coniugazione», 329
manierato, 428
manierismo, 304, 496
manifattura, 497, 520
maniglia, 381
manigoldo, 80
mannaggia, 653
Manni, D. M., 466
mano, 27, 341, 353
manomorta, 496
manovra, 519
mansione, 580
mantarro, 273
mantiglia, 444
mantino, 585
manto agg., 134
manto, 518, 576
Mantova, 202
manucare, 160
Manuzio, A., 347
Manuzzi, G., 555
Manzoni, A., 422, 548-553, 563, 610
manzonicidio, 644
maogano, -i, 525
marangone, 373, 376
maratona, 642
maravedì, 382
maraviglia, 174, 377, 581
marca «contea di confine», 81
marca «segno», 476, 520
Marcello, B., 461, 467
Marche, 203
marchese, 380, 429
marchio, 434
marcia, 520
marciapiede, 519
marciare, 379
marcita, 651
marcitoia, 651
marco, 434
Marconi, F., 623
marengo, 580
— marescalco, 161
margarita, 179
mariage, 518
Marinello, G., 331
marinista, 437
Marino, G. B„ 394-395
marionetta, 519
marittimo, 277
marmellata, 381
marmitta, 593
Marmora, Raffaele, 188
marna, 520
marogna, 273
marrano, 279, 380
722
Stona della lingua italiana
marron , marrone , 661
marron glacé, 661
marsina, 430, 444
marsupio, 231
Martelli, L., 321, 335
martetìiano, 495
marti, 373
Martignoni, G. A., 468
Martini, F„ 605, 610, 625, 647
martirare, 588
martire, 155
martiro, 134, 214
martiri della libertà, 573
martora, 77
marza, 499
marziale, 217
mascagnotta, 582
maschio, 36
masgalano, 445
massa, 33, 46, 73, 502, 571
massacro, 379, 576
massaggio, -agio, 596
massaro, 650
masserizia, 587
masseur, 661
massicciti, 644
mastello, 82
mastio, 424
mastodonte, 645
mastra, 82
Mastrofini, M., 554
matador, 598
Matamoros, 361
matassa, 33
matematica, 481
matematica, 290-292
materialismo, 493
materialista, 517
materia prima, 497, 515, 520
materna, lingua, 154, 328
matemale, 436
matinée, 661
matriselva, 374
mattarullo, 583
mattatoio, 650
matematica, 481
matterà, 82
Matteo dei Libri, 143
mattino, 36
matto, 272
matto da legare, 549
mattoide, 611, 644, 666
Mauro, G., 372
mavì, 383
maxime, 276
maximum, 592
mazale, 140
mazurka, 576
mazzoneria, 279
mb diventato mm, 20
mèa venez., 44
mebe pron., 92
medaglia, 270
medagliesco, 504
Medea, 404
medesimità, 364
medesliìmo, 34, 161
medianico, 644
mediante, 210
Medici, card. Leopoldo de', 409
Medici, Lorenzo de’ 242-243
medicina, 292
medievale, 574
medievista, 643
medievitico, 574
meditullo, 217
Medusa, 404, 655
medusa, 577
meduseo, 656
meeting, 597, 664
Mefistofele, 580
Megera, 404
meggiona, 583
Mehrwert, 664
megio «mezzo», 195
meismo, 598
melagrancia, 373
melanoscheno, 499
melanzana, 164
melarancia, 373
melgone, 511
Meli, G., 472
mellificare, 218
melma, 79
melo, -a, 33
melodia, 156
melodramma, 452, 614
melone, 412, 434
Melpomene, 538
membranza, 193
memorandum, 592
mena, 152
menageria, 447
Menagio, E., 416
menar buono, 650
menare, 44
Indice alfabetico
723
Meneghino, 430
menestrello, 160
menisco, 432
menna, 128, 194
menomo , 377
mensile, 572
mensola, 213
mentalità, 595
mente, 132
-mento, 132, 152, 364
menu, 661
menzione onorevole. 571
menzonare, 317
meraviglia, 377
mercadante, 482
mercanti, 182
mercatale, 372
mercede, 134
merceologia, 642
merciare, 219
merciologia, 642
mèrcore, 373
mercurio (mercurius ). 155
Mercurio, 404
merenda, 28
mergola, 382
mergugliese, 160
merla, 576, 593
merigge, 148
merito, 153
meritometro, 574
merletto, 373
merolla, 221
mertare, 506
merto, 541
merzede, 134
meschita, 279
mescianza, 188
mescolanze latino-italiane, 215 235-
239
mescolarsi, 520
mescuglio, 480
mesenterio, 398
meslea, 376
Mesmes, J. P. de, 345
messa, 23
messa in scena, 594
messapico, 17
messere, 159
messeta, 82
mestiere, -iero, 161. 481, 581
mestizzo, 594
mèta. 44
metà, 34
metafonia, 68. 97. 100, 136, 140, 200, 262
«metafore di moda», 645
metaforuto, 438
metallificare, 365
metalloide, 578
metallurgia, 292, 293
Metastasio, P., 452, 456
metatesi, 100
meteci, 614
meticcio, 594
metro, 82, 571, 593
metropolitana, 659
mettere, 45
mettere sul tappeto. 4 ■
meve, me'’ 1 pron., 14-j
mezò., 511
mezzadria, 650
mezzadro, 650
mezzaiiuìolo, 650
mezzeria, 650
mezzo punto. 364
mezzule, 176
mi e me, 265, 487
miccino, 28
micieffo, 219
microb(ik), 631, 642, 645
microcefalo, 645
microscopio, 432
microscopo, 504
mie «mio *7208
miglioria, 576
mignato, 373
mignatta. 499
mignotta, 279
mikado, 666
Miledi, 524
milieu, 638
milionario, 496
milione, 213
milite, 215
milizia, 218
milizie di ventura, 183
millefleurs, 593
million, 475
Milordio), 524
Milton, J„ 418
miluogo, 587, 655
milza, 79
mina (buona), 447
minatorio, 370
minchia, 28
minchione. 28
724
Storia della lingua italiana
ndice alfabetico
725
minestraio, 578
miniatura, 448
Miniera, 404
minimo, 377
ministrare, 160
minnesinghero, 665
minuetto, 519
minuzzapetrarchi, 365
miocene, 592
mirabolante, 662
♦ M ir acole de Roma», 144-145
miracolo, 174
miradore, 132
miraggio, 599
miraglio, 132
miragusto, 381
mirausto, 381
miriade, 514
mirmillone, 614
mirrare, 180
mirteto, 370
mw-, 214
misavveduto, 214
misa\n>entura, 214
miscadere, 214
miscuglio, 480
misericordia, 155, 506
mislea, 159
miso, 125
misogallo, 504
misprendere, 655
miss, 663
missionante, 429, 437
missionario, 429
missione, 429, 580
missiva, 277
mistificare, 658
mistoforo, 614
misura, 520
misura : a misura che, 520
misurare (mensurare), 36, 38
miterino , 545
mitingaio, 664
mitraglia, 519, 543
mo, 317
mobilitare, 579
mobilizzare, 578, 579
moccichino, 412, 580
, 430
moda, 475 .
modante, 430
moderatismo, 517
moderantista, 571
moderato, 572
modernismo, 641
modista, 580, 595, 650
moerre, -o, 522
mofeta, 498
moglie, 45, 148
mógliema, 193
moglio, 272
mogno, 445
moine, 650
molecola, 442
molestare, 155
molla, 506, 520
molle {animale), 271
mollettone, 519
mollicchio, mollusco, 271
molo, 82, 152, 165
Molossi, L., 555
molteplicità {multiplicitas ), 47
moltifronte, 365
momento, 431
momento psicologico. 639
monaco, 34
Monaci, E., 114
Monaldo da San Casciano, 198
monarchia, 571
mondan remore, 180
mondo Imundus), 46
mondo «gente», 520
monetaggio, 497
mongibellare, 437
mongibello, 501
mongioia, 375
monismo, 493
monofagia, 590
monopetalo, 499, 514
monopolio, 497
monopolizzare, 572, 578
Monosini, A., 415
monotono, -ia, 442
monsoni, 385, 523
monta, 163
montaggio, 642
montagna, 36
Montagna pistoiese, elenco di deci-
me, 100
montare, 520
monte, 153, 268
Monte Capraro, memoratorio di, 99
Montecassino, 84, 119
Montecassino, ritmo di, 104-106
monte di pietà, 268
monte fiammifero, 501
monte ignivomo, 501
monte vulcano, 501
Montemerlo, G S. da, 331
Monti, P., 556
Monti, V., 537, 546-548, 554
montiera, 381
Montieri, breve di, 102
montone, 31, 501
montura, 519
monumentale, 590
monumentare, 644
mora, 376
morale-didattica, letteratura, 108
moralizzazione, 578
Morandi, L„ 622
moraro, 515
Morato, P., 332
morbino, 372
morceau, 660
morchia, 33
morena, 594
moresca, 361
Moreto, P., 332
morfina, 577
morfologia. 591, 598
morganato, 137
morgue, 661
morice, 443
morione, 381
moroide, 443
morona, 270
morotrofio, 591
morsicare. 36
morta gora, 180
morta, lingua, 299
mortadella, 385
mortalità, 216
mortificare, 47
mortissa, 595
morviglioni, 434
moscadello, moscatello, 434
moscardino, 430
moscareccio, 438
moschea, 279
moschetto, 543
moschicida, 440, 592
moscio, 434
moscoleato, 194
moscone, 646
mosteruolo, 160
mostra, 36
motivazione, 643
motore. 591
mousseline, 593
mozione, 571, 591
mozzarella, 653
mozzo, 380
prt diventato mb , 81
muerre, 522
mùfferle, 524
mugàvero, 220
mugik, 665
mulacchia, 374
multiplicare, 156
multivolo, 656
mundualdo, 80
munere, 231
munificenza. 370
munifico, 370
munuscolo, 274, 589
muraio, 511
muratista, 572
muratore {libero), 522, 572
Muratori, L. A., 469
murice, 645
musa, 541
musardo, 121, 219
Museo, 362
musimagico, 439
musina, 34
musmè, 666
Musogonia, 516
musoneria, 584
mussoni, 523
mustacchi, 383
mastio, 424
musulmano, 447
mutilo, 277
muto, 377
mutolo, 377
Muzio, G„ 318, 368
nabab, 525
nada, 382
nadir, 163
nàibi, 220
Nannucci, V., 554
napoleone, 580
napoletanismi, 653
Napoli, 204, 227, 255
nappa, 79
narancio, -a, 373
naranza, 388 —
narvalo, 523
narwal, 523
nasello, 36
726
Storia della lingua italiana
Indice alfabetico
727
nosologia, 516
naspo, 78
nastro, 79
natale, 551
Natale, 36
natalità, 641
naticchia, 45
natiche, 41
natio, 551
natio loco, 180
nativo, 551
naturale, 155
nautilo, 502, 645
naverare, 101, 220
navigazione, 182
nazionale, 274, 412
«nazionale, lingua», 414
nazione, 494, 571
nd diventato nn, 20, 136
ne pron., 102, 487, 634
nece, 28
necesse, 178
negazione, 267
negghienza, neghienza, 508
négligé, 522
negro, 65
negus, 639, 665
Nelli, P., 372
Nembro, 29
nenia, 370
neogrammatico, 665
neologismo, 595, 517
neonato, 579 •
neoscolastica, 641
nepa, 31
nepitella, 612
nepote, 592
nepotismo, 429, 437
nequizia, 179
nero ( niger ), 27, 41
nervo, 33
nesto, 499
Nestore, 216
neutro distinto dal maschile, 97
neve, 400
nevicare ( *nivicare ), 36, 38
nevile, 137
nezza, 374
ngn grafia per gn, 259
Niccolini, G. B., 550
nìccolo, 525
Niccolò, 460
nicessità, nicistà, 218
nickel, 525
Nicola, 460
niece, 28
nientarchia, 644
nimico, 581
nimio, 231
nimo, 614
ninfemo, 218
nipotame, 574
nipote, 651
niquitoso, 375
nirvana, 666
niso, 513, 515
nissuno, 581
nitente, 589
nitrato, 499
niuno, 434
nivale, 657
Nizza, 528, 558
nobiltà, 134
nocca, 79
nocciòla, 36
nòda lomb., 28
nodrire, 368, 581
noievole, 364
noi si dice, noi si va. 567 634
nolo, 33
nomare, 586, 588
nome, 364
nominativi latini e loro tracce, 148
Nomotesia, 516
no pron., 102
non ... che, 490
non-essere, 598
non-io, 598
non ... ma, 99
nonno (nonnus), 37
nonpertanto, 509
non potere, 362
Norcia, confessione di, 97
nord, 381
nordico, 505
Normanni, 84,158
norte, 381, 587
nosocomio inosocomium), 47
nostalgia. 645
nostrificare, 624
nostromo, 444
notabile, 504
notaio, 28
notomia, 408, 443
nottetempore, 217
notula, 442
«Novellino», 142
novello, 36
novercale, 442
novitoso, 583
nozionale, 505
w diventato nd, 81
nubiaduna, 516
nubile Inubillaì, 216
nubilo, 231
nuca, 163
nudrimento, 581
nudrire, 368, 581
nui, 149, 540
nulla, 38, 386
nullatenente, 640
nullismo, 643
nullo, 434
nume, 276
numerali accorciati ivenzei, ecc.), 208,
264, 433, 487, 546, 564
numerali moltiplicativi, 26
numerizzare, 578
numero, 156, 364, 370, 386
numine, 276
nuovo, 27
nuper, 276
nuraghe, 653
nurse, 663
nutricari, 128
nutrire, 41, 581
nuzialità, 641
ny grafia, 259
o aperta o chiusa, 485
o ed uo ■. vedi «uo ed o»
-o- vocale copulativa nei composti, 43
obbedire, 551
obbiettivo, 442
obbligante, 446, 520
obbligato, 520
obblivione, 586 —
obedire, 319, 626
oberato, 589
obeso, 370
obiettivo, 659
obitorio, 661
obliare, 40
oblio, 654
obliterare, 277
oblivione, 586
oblò, 661
oboe, oboe, 519
obruto, 590
ocarina, 649, 652
occato «papero», 372
occhi ( saltare agli), 521
occhiale, 432
occhiatella, 499
occhi-azzurro, 505
occhi ladri, 214
occhi-pietoso, 505
occiduo, 613
occultismo, 643
oceàno, 541
oculare, 442
oculista, 501
odiosamato, 505
odorista, 430, 437
oe dittongo lat., 347, 628
Oenologia, 516
oeste, 381
offa, 367
offendere (a, ihJ, 219
offerta, 72
officiale, 582, 626
Officina, 404
officio, 377, 582, 626, 650
oftalmia, 592
oggetto ( obiectum ), 155
ogliapodrida, 444
ohm, 624
-oide, 578, 644
-oio, 152
oleografia, -grafico, 647
oligarchia, 571
Olimpionice, 441
olio, 33
olivello, 373
Olivetta, 373
olivo, 33
-olo, 581
olometro, 365
olonista, 572
oltra-, 438
oltrabello, 438
oltracotanza, 161
oltramirabile, 214
oltramortale, 438
oltrapiacente, 214
oltremontaneria, 504
omaggiare, 643
omaggio, 159
ombra dei cipressi, 574
ombra romita, 194
ombre, 444
omeopatia, 577
728
Srona delia lingua italiani.
òmero , 368, 613
omertà , 653
omiccino, 504
ominoso, 658
omiopatia, 592
omnibus, 577
omologare, 366
omonimia, 38, 258
omonimo, 370
■onare, 643
ondifero, 506
ondulazione, 514
■one, 70
onestà, 134
onestà (fare delle), 476, 521
onni-, 440
o nnifecondo, 440
onnivoro, 440
onomastico, 442
onomatopea, 277
onor del mento, 507
onore ( avere 11, 521
onta, 161
onto, 372
onto sottil, 374
onzione, 480
openione, 368
opera, 382, 430, 448, 599
operare, 506
opinione, 263, 368
o pio, 481
oppenione, 368
oppidano, 590
oppio, 481
opporto (è), 137
opposizione, 597
oprire, 137
optare, 626
opulento, 277
opzione, 626
■ora al plur., 69, 148, 208
ora, 551
orafo, 148
orango, 498
oratoria, 293-294, 462
orazione, 218
orbace, 653
orbita, 645
orco, 47
orda, 550
ordigno, 30
«Ordinamenti di giustizia» del co-
mune di Firenze, 114
ordinare, 44
ordine dei pronomi, 95, 149, 212, 357,
425, 487, 565
ordine delle parole, 151, 191, 193, 212,
267, 492, 569, 570, 637-638
■ore, 132, 152, 161
Oreadini, V., 335-336
orecchia, 36
orecchie della bilancia, 366
orfano, 33
orfanotrofio, 591
organizzare, 438, 571
organo, 33, 42
orgoglio, 31
oricrinito, 439
origini tarde della lingua e letter.
ital., 85-88
origliere, 159
orittogenia, 515
orittologia, 515
ori{u)olo, 368, 434, 443. 650
oriundo, 442
orizonomia, 516
ormeggiare, 82
omitogonia, 516
ornitologia, 365, 440
oro, 24
orobanche, 500
orologio, 368, 434, 443, 650
orrato, 218
orrendo, 412
orrepire, 658
orrevole, 218, 319, 508, 587
Orti Oricellari a Firenze, 320, 333
orto, 44, 348
ortolano, 368
osanna, 35
oscillare, -atorio, - azione , 514
oscioreccio, 41
osco, 17
osco-umbri, vocaboli, 32
oscurantista, 572
oso, 152
osolare, 137
ospe, 216
ospedale, 626, 650
osservatorio, 432
o ssigene, -o, 582
osso (ossum), 14, 38
ossorare, 221 —
ostacolare, 643
ostaggio, 159
ostare, 219
indice alfabetico
729
oste «chi dà alloggio e vitto», 160
oste «esercito», 156, 159, 218, 613
ostello, 160, 378, 540, 541
osteriggio, 597
osterò, 160
ostetrice, 217
ostetricia, 501
ostrica, 33
ostro, 506
-oto, 82
otta, 274, 375, 376
oftalmia, 592
ottare, 626
ottemperare, 277
ottica, 370
ottobrata, 564
ottone, 163
Ottonelli, G., 412
Oudin, A., 417
ovaia, 501
overiura, 519
ovidutto, 442
Owidio, 423
ozione, 626
■ozzo, 27 A
pà, 121
paccheboto, 523
pacchetto, 380
pacifista, 658
padella, 40
padiglione, 44
padovanello, 577
padre, 27
padrone, 43, 153, 368
paesanità, 644
Paesi Bassi, 383
pagano, 46
pagina, 155, 277
pago, 376
pagodo, 385
pailleté, 660
paiolo, 31
paladino, 160
palafitta, 641, 666
palafreno, 159
palagio, 319, 377
palanca, 33
palanchino, 447
palazzissimo, 643
palazzo, 319, 377, 666
palco, 79
palco scenico, 561
paleofrancese, 57, 80
paleontologia, 577
paleosardo, 16
palestra, 217, 366
paletnologia, 641
palla, 76, 79
Palladio, A., 372
Pallavicino, S., 410, 413
palmiere, 274
Palmieri, M.,
palpito, 575
paltò, 576, 594
paludamento, 366
Pamela, 524
pamela, 495
pamphlet, 524
panca, 76, 79
pancella, 273
pàndar ven., 28
pane di ghianda ( tornare al), 583
panegirico, 442
panettóne, 651
«Panfilo», 144
panfietit)o, 524
pania, 42
panificio, 579, 644
panizzare, 505
Pantalone, 361, 386
pantaloni, 576
pantografo, 432
Panzini, A., 623
paolotto, 647
papa, 37, 74
papà, 520
Papa Mundi, 278
papato e sua influenza linguistica, 17
papiiìello, 445
papigliotti, 519
papilla, 442
pappolata, 334
paracadute, 579
paracalunnie, 579
paradiso, 390
par affare, 593
paraffina, 577, 592
parafrasi, 370
parafrodi, 579
paragone, 82
paragrandine, 570
paraguanto, 444
parainvidia, 579
paraipotassi, 151
paraùllo, 480, 547, 580
730
Stona della lingua italiana
Indice alfabetico
731
paralizzare, 517
parallelismo, 143
parallelo, 485
paralume, 579
parangone, 341
paraninfo, 277
paraperfidia, 579
parapetto, 386
parassita, 591, 645
parassitico, 645
parassitologia, 642
parastrepito, 505
parata, 381
paratassi, 27
pareba, 65
parentela, 47
parentesi, 369
Parenti, M., 556
parergo, 442
pareri di Perpetua, 574
parersi, 65
parete m., 263
pargolo, 541
pariglia, 381
pariglia [render lai, 381
«parlamento», 742
parlare [parabolare), 23, 34, 41
parlare e sinonimi, 325
«parlar finito», 534
parnassiano, 641, 661
parodia, 442
parodiare, 505
parola, 34
parolaio, 495
parole-medaglie, 4
parole-testimoni, 4
parolibero, 644
paronomasia, 402-403
parossismo, 370
parrocchetto, 446
parrucca, 446
parruccone, 573
partecipe, -efice, 364-368
parterre, 477, 519
Partlhienodoxa, 405
partecipante, voce, 364
participio, 364
participio: forme, 191, 209, 211, 265,
266
participio: usi, 357, 569
particolare, -ulare, 368
partigiana, 269
partita, 430
partitivo, 210, 490, 569, 636
parvenza, 193
parvità di materia, 503
parvolo, 541
Pascoli, G., 605, 613, 656, 665
pascore, 129, 655
poso, 28
pasqua, 35
pasquinata, 361
pasquinate, 284
passabile, 521
passaggio, 160
passarsene, 662
passato, 364
passato remoto: forme, 70, 149, 209,
263-266, 356, 426, 568, 635
passato remoto: uso, 636
Passavanti, I., 197
passeggere, 581
passerella, 661
passione ( passio 1, 46, 47
passivo, 364
passivo, 26, 71, 151
Pasta, A., 468
pastetta, 653
pasticca, 646
pasticciaio, 578
pastiglia, 444
pastocchiata, 334
pastorelleria, 455, 504
pastrana, -o, 430, 444
pasturella, 134
patata, 384, 500, 580
patatucco, 573
Patecchio, Gherardo, 138
patella, 501
patema, 514
pàtera, 513
patetico, 496
patologia, 442, 645
patte, 368
patria, 494
patriotitìa, patriotto, 494, 515, 520, 571
patriotitUco, -ismo, 494, 571
patrocinare, 431
patrocinio, 431, 442
patrona, 447
patrone, 319, 368
pattinare, 661
pattini, 279
pàtulo, 513
pavana, 361, 388
pavaniglia, 388
pavere, 367
pavese, 447
Pauli, S., 468
pazzo da catena, 549
peaggio, 521
peccaminoso, 492
peccare, 46
peccata, 588
peccio, 540
pechèsce, 598
peco, 137
peculiare, 370
pedalare, 640, 643
pedante, 361
pedantesco, 295-297
pedantuzzo, -eria, -aggine, -esco, -are,
362 -
pedicure, 658, 661
pedignone, 580
Pegàso, 424
peghèsce, 598
pelago, 33
pelandrone, 651
pellagra, 501, 511, 599
pellegrina, 576
pellegrinaggi, 56
pellegrino, 72
pellegrino «elegante», 272
pèllice, 514
pelliccilo, 433
pellicola, 663
peltro, 31
pencolare, 30
pendente [tempo), 329, 364
pendolo, 373
pendolo, 431, 437
penisola, peninsola, 370
pennelleggiare, 180
penombra, 432
pensiero, -iere, 161, 481, 581
pepe, 33
peperino, 500
pepiniera, 594
per, 27, 135
per bene, 650
percalilìe, 576, 594, 596
percentuale, 640
perché con propos. concessive, 212
perdere, 41
perdita, 36
perduta, 153
perennare, 590
perentorio, 442
Peresio, G. C., 406-407
performance, 663
Pergamini, G., 331, 414, 415
periclimeno, 374
perifrasi, 540-541
perifrasi verbali, 131, 151
periodizzazione, 5
periodo e sua struttura 192-194, 357,
491-492, 570-571, 638
peripezia, 361, 370
periscopio, 640
peritoneo, 398
peritoso, 376
periziare, 612, 643
perizoma, 179
perla, 272, 400
per lo, per li: v. preposizione articola-
ta
permeare, 645
permiano, 577
permissione, 586
pernicioso, pemizioso, 481
Perpetua, 574, 580
per poco che, 490
perrompere, 513
permea, 446
persica, perzica, -o, 68, 434, 512
Persio, A., 331
persona, 31
perspicuità, 442
perterra, 447 " - —
Perticari, G., 546
perir attore, 155
perzare, 161
pesalettere, 644
pesanti, 128
pesare-, a pesare di, 382
pesca, 68, 434
pescecane, 646
Pescetti, Ò., 332, 411
pèschio, 34
pesciaiuolo, 434
pesciarello, 585
pesciolino, 585
pesciuomo, 439
pescivendolo, 434
pes'èlé abr., 73
pestare (pistare ), 36
petardo, 379
petit-maitre, 522
— petizione, 516, 597
Petrarca, F., 186, 190, 191, 243, 273,
305
732
Storia della lingua italiana
petrarcalità, 364
petrarcheria , 364
petrarchità, 575
Petrocchi, P., 607-609, 622 *
petroliere, 661
pettinare [pedinare ), 36, 38
pezetere, 614
pezza, 31
pezza (teatr., fr. pièce), 522
pezza (a), 537
pezza [buona), 375, 653
pezzire, 512
pezzo, 31
pezzo da sessanta, 575
pezzo d’asino, 583
pezzuola, 434, 453, 580
ph grafia, 259, 335, 347, 628, 659
Philolauro, 365
piacere, 134, 271
piagio, 219
pia madre (pia mater), 155, 164
pian-forte, 561
piangere, 43
pianista, 578
piano, 520
pianoforte, 496, 525
pianto de l’alba, 507
piattaforma, 446
piàvola de Franza, 475
piazza, 33
pica, 313
picca, 379
picca (mettere a), 583
piccaro, -esco, -iglio, 445
picchetto, 519
picciotto, 653
picco, 594
«piccole Italie», 602
piccolo, 599
pickpocket, 663
pièce, 522
pied-à-terre, 661
piede, 27
piedestallo, 386
pieggerìa, 373
Piemonte, 450-451, 557
piemontesi, sermoni, 107
piemontesismi, 651
piemontesista, 639
piemontista, 639
piemontizzare, 639
pierreries, 660
pietà, 134
pietanza, 154
pietra, 33
pieve, 47
pifferaro, 652
piffero, 220
Pigafetta, A., 372
Pigafetta, F., 366
piggiore, 276
pigiama, 640, 666
pigionale, 583
pigna «grappolo», 580
pigna «pentola», 372
pignolo, 652
pijama, 640
pila, 599
piloto, 386
pimaccio, 434
pimmeo, 518
pinguino, 594
pintore, 218
pinzuto, 272
pio (pius), 46
pioggia, 400
pioniere, 593, 662
piomo, 654
piovifero, 365
piovomo, 613, 654
pipa, 430
piquant, 522
piragua, 384
piramide, 156
piroga, 384, 523
pirone, 436
Pisce, 215
pispissìo, 642
pista, 661
pistagna, 444
pistard, 661
pistillo, 514
Pistoia, Cino da, 115
Pistoia, codicillo di, 100
pistola, 383
pistrino, 590
pitale, 412
pitchpine, 663
pitetto, 279
pittora, 640
pittore, 218
pittoresco, 496, 525
pittura di genere , 429
piucchepperfetto latino con valore di
condizionale: v. condizionale
piumacciuolo, 213
Indice alfabetico
733
pivello, 585
pizzacherino, 652
pizzarda, 652
pizzardone, 652
pizzicagnolo, 434
pizzicariutolo, 372, 434
pizzo, 373
placenta, 442
placiri «piacere», 129
plagiato, 521
plaid, 576, 598
planare, 640
planimetria, 217
planisferio, 365
plantigrado, 577
plastica, 370
plastico, 370
plastron, 661
— platina , -o, 523, 524
plauso, 360
plebeo, -eio, 216
plebescito, 217
plebiscito, 590
pletora, 645
pletorico, 441
plettro, 277
pleura, 442
pleuritide, 442
pleuronetto, 499
pliocene, 577
Plinio il Vecchio, 16
plinto, 270
ploro, 214
plotone, 446
plùffero, 573
plurale, 412
plusore, 149, 193, 220
plusvalore, 664
pluteo, 215
pneumonia, 582
pneumonite, 582
pochade, 661
pòcolo, 443
podestà, 216
podestà. 111, 153, 640
podestà, 81, 183
podestaressa, 373
podice, 442
podismo, 658
poemazzo, 435
poetale, 214
poetesco, 214
poetevole, 214
poetico, 214
poffare, 587
poggia, 81
poggio, 33
poker, 663
polo, 374
polenda, -enta, 584, 626, 650
poliglotta, -o, 659
polipetalo, 499, 514
Politi, A., 412
polka, 576
pollastro, 434
polline, 501
pollo, 43
polmonèa, 582
Polo, Marco, 188
polpettaio, 578
polpino, 573
polpo, 33
poltroncina, 430
polverero, 278
polviglio, 445
pomarancia, poma rancia, 373, 388
pomata, 385
pomeriggio, 574
pomice, 32
pomo d’Adamo, 164
pomo di terra, 500, 580
pomodoro, 384
pompa, 593
pompierata, 647
pompiere, 593, 647
pompon, 594
pone, 524
ponce, 597
ponchio, 524
pondo, 504, 524
pónere, 44
poney, 597
ponsò, 446
Pontano, G., 255
póntega, 372
pontica, 81
pontifice, 368
ponto, 221
popolare, letteratura, 532
popolarizzare, 578
popolazzo, 655
popolesco, 588
popolo, 31, 153, 319, 571
popone, 412, 434
poppa (puppa), 39
poppa (mar.), 376
734 Storia delia lingua italiana
populo, 319
popurì, 522
porcello, 36
porco, 27
poro, 215
porpora, 33
porta, 27
portamonete, 596
portantina, 430
portato tessere), 520
porte-enfant, 662
porte-monnaie, 596
portolano, 152, 386
posadera, 524
posare, 662
posata, 382, 444
poserai, 272
posereccio, 504
possessivo con art. indeterm., 211
possessivo enclitico, 136, 150, 193,
355
posta, 268
postale, 572
postemastro, 382
posticipare, 442
potaggio, 380
potare, 42
potenzlùa, 269
potenziale tpotentialis ), 155
potere, 178
pot pourri, 522
povaro, 412
pozzo, 27
Pracchia, -ola, 29
praesertim, 276
praeterea, 276
pragmatismo, 641
pranso, 480
pranzo, 480
pratalia, 65
Prati, G., 612
pratico, prattico, 481
precessione, 442
precingere, 589
precipitevolissimevolmente, 440
precoce, 367, 369
predella, 79
predicazione, 228, 454
prediche miste di latino e di italiano,
237-238
preferire, 370 —
prefetto, 590
pregadi. 373
Preggio, 29
preghiera, 161
pregiudizio, 494, 520
pregnante, 590
preistoria, 641
preite, 147
preliare, 137
prelodato, 612
premeditare, 218
premessa, 368
premio, 597
premissa, 368
premorienza, 442
prence , 160, 506, 588
prencipe, 368, 419, 480
prender guardia, 521
prendendola, 373
preparo o preparo, 485
prepose, preposeo 596
prenze, 174, 193
preposizione articolata, 486, 566, 632
preposizioni con pronome affisso,
209
preposto, 378
preromanzo, 15
prescindere, 442
presente congiuntivo: forme, 149,
264, 426, 488-489, 568, 635
presente indicativo: forme, 200, 209,
210, 252, 264, 265, 342, 356, 488-489
presenza di spirito, 521
presidente, 516
presiedere, 612
prestinaio, 584
prestinaro, 511
presto, 342, 377
prestoilare, 137
prete, 34
preveniente, 520
preventivo, 579, 591, 593
prevenzione, 520
prezzemolo, 33
pria, 506, 539, 588
primaio, 376
primaveresco, 574
primaverile, 574
primicerio iprimicerius ), 47
primor, 382
Prina, G., 535
principe, 480
princisbech, 524
prisma, 442
priso, 125
pristinaro, 272
privanza, 380
privativa, 567
prò’, 36
proàulo, 217
probiviri, 658
proccurare, 481
procedura, 582
procellipede, 516
processi, 289-290
processo (processus), 155
processo verbale, 572
processura, 582
proclama, 576
proclisi, 260
procombere, 574, 589
procurare, 481
procurane, 373
prode, 36
Prodenzani, S., 198
prodigalizzare, 578
prodigioso, 277
prodotto, 520
profazio, 217
professoressa, 640
profeta, 155
profilattico, 514
profondigorgo, 516
profumo, 385
progettare, 446
Proginnasmi, 405
prognosi, 514
progressista, 572
progresso, 516, 520
proibito o proibito, 485
proietto, 442
prolegomeni, 369
prolisso, 218
pronome, 364
pronome soggetto pleonastico, 211,
564, 633
pronomi: forme, 98, 149, 208, 265, 355,
424, 487, 564, 633
pronunziativo, 364
propio, 368, 443
proponimento, 364
proprietà, 476
proprio, 368, 443
«prosa borghese», 364
prosapia, 217
prosatoio, 644
pròspero, 576
prossimano. 375
Indice alfabetico 735
prostesi, 14, 26, 148, 261, 424, 563, 630
protagonista, 526
proteiforme, 516
protestante, 362
proto-, 440
protocollare, 576
protogiomale, 505
protoromanzo, 15
profane, 514
prova, 36
provedere, 481
provenzale, 89, 109, 121
provenzalismi, 106, 128-129, 144, 161,
191
«Proverbi de femene», 108
provianda, 447
prò viribus, 276
provisino, 160
provvedere, 481
Provvidenza, 362
prowisare, 361
provvisorio, 571, 576
prusore, 131
ps lat. e suoi esiti, 25
pseudo-, 440
pseudocipero, 499
pseudoconcetto, 641
pseudogazza, 364
pseudolaude, 364
Pseudo-Uguccione, 138
psicanalisi, 641, 659
psiche, 593, 641
psiche «specchio», 593
psicologia, 493
psicometria, 641
psicosi, 644
psyché, 593
pt lat. e suoi esiti, 25
ptomaina, 642, 644, 658
pubblica economia, 497
pubblicista, 643
pubblicistica, 284
pubblicità, 529
pubblico, 481, 520, 551
pube, 442
publico, 551, 626
pudding, -ingo, 524
pudìa, 81
pudino, 524
puella, 137
puerile, 218
puerpera, 574
Puglie, 256
736 Storia della lingua italiana
pugile, 370
Pulci, L„ 271, 273, 276
Pulcinella, 430, 448
pulcro, 656
pùliga, 435
pulmonia, 582
putte, 614
punch, 524, 597
puncio, 524
punga «pugna», 178, 273
puntarella, -erella, 644
punteggiatura: v. interpunzione
puntiglio, 380
punti sugli i, 662
punto, 429
punto, 350
punto e virgola, 350, 629
punto esclamativo, 350
punto interrogativo, 350
Puoti, B., 537, 545, 554, 556
pupazzetto, 652
pupazzo, 513
pupissima, 643
purismo, 517
purismo, 536-537, 544-546, 549, 604-605
purista, 495, 517
pusillanime, -o, 218
putrella, 661
putta, 373
puttina, 512
q, 483
q per g velare, 146
qua, 385
quacchero, 524
quadragesima, 368
quadrato, 503
quadretta, 317
quadriglia, 381
quaglifero, 506, 516
qualche con valore plur., 488, 565
quale, 266
qualificare, 218
qualità, 520
qualunche, 343
quando, 27
quarantottata, 573
quaranzei, 546
quaresima, 368
quarzo, 645
quaternario, 501
Quazzoldi, 264
quello al plur., 632
quercioso, 574
questionario, 658
questione della lingua: v. discussioni
sulla norma linguistica
questione meridionale, 639
questuare, 370
quia, 178
quidem, 276
quietismo, 437
quietista, 437
quinci e quindi, 376
quinta, 524
quinta declinazione latina e sue trac-
ce, 148, 265
quintale, 318
quintessenza, 277
Quirini, Giovanni, 194
quodammodo, 276
quominus, 276
quoniam, 276
quora, 435
quotidie, 514
quotizzare, 578
r per t, 141, 261
r uvulare, 485
Rabbi, C., 468
rabicano, 381
rabula, 590
racchetta, 163
raccolta, 495
raccolte, 451-452
racemifero, 506
rachitide, 514
raddoppiamento delle consonanti: v.
consonanti scempie e doppie
radeschi, 598
radicale, 572, 591, 597
Ràdulescu, I. H., 559
rafforzamento delle consonanti: v,
consonanti scempie e doppie
ràgano, 436
ragazzeria, 504
ragazzesco, 504
raggi di Rontgen, 646
raggio, plur. rai : v. rai
ragionateria, 584
ragione, 34, 153, 451, 494
ragione composta, 503
ragionie) di stato, 359
ragione inversa, 503 —
ragioniere, 153
raglan, 576, 597
ragnare, 454
ragoùt, 522
ragù, 476, 519, 522
Raguet, 475
Raguetta, - etto , 416
rai plur., 192, 208, 506, 654
raid, 663
rail, 597
ratte, 577, 597
raillerie, 593
raitro, 382
Rajna, P., 199
ramazza, 651
Rambaldo di Vaqueiras, 109-110
rame ( aeramen ), 36, 38
ramparo, 446
ranchetta, 524
ranco, 78
randevù, 596
rango, 446
rangolo, 587
Ranieri da Perugia, 143
ranno, 79
rantacare, 412
ranzonare, 519
| rapè, 519
j rapito, 521
rapportare, 571
rapporto, 521
rapsodia, 370
rarefazione, -442
raro, 276
ras, 639, 665
rascetta, 395
ì raspìo, 453
ratina, 511
ratto, 155
raunar le fronde sparte, 180
ravaniglio, 382
rave, 583
■ razionale, 155
? razzese, 160
I reale trealis), 155
, realismo, 189, 192
j realista, 641
realizzo, 612, 643
reame, 159
reatizzare, 576
rebbio, 79
reboare, 277
rebottu, 94
rebus, 516
recare, 78
Indice alfabetico 737
recensione, 659
réclame {reclami, 661, 662
recluta, 444
record, 663
Rectitudo, 276
redazione, 658
«re dei re», tipo elativo, 427
redengotto, 523, 524
Redi, F., 410
redigere, 590
redimito, 656
redine, 36, 38
redingote, 523
redolente, 612
reduce, 574, 591
refe, 374, 485
referti medico-legali, 185
refrattario, 516
refrigerio (refrigerium), 23
refurtiva, 590
regabio, 436
regalare, 412
Regali, M., 461
regalo, 444
regata, 375, 448
reggimento (mil.), 430, 446
regìa, 572, 593
regime, 572
registri parrocchiali, 283
regnarne, 279
regnicolo, 579
regno, 318
regno di Nettuno, 574
regolarizzare, 578
«Regole laurenziane», 244
regressioni, 207
regrettare, 520
regretter, 549 *
regretto, 380, 477
Reichstag, 665
religionaio, 578 —
Religione nazionale, 573, 579
religiosi e loro circolazione interre
gìonale, 88
relitti germanici, 56
relitti preromani, 31
rema, 547
rena, 547
rendevosse, 447
rendeva, 476
rendez-vous, 447, 596
rendiconto, 595
renduto, 377
738 Storia della lingua italiana
renetta, 661
renna, 447
rensa, 160
renuenza, 576
repleto, 509
repubblica, 215, 218
republicano, 626
repubblichino, 504
respitto, 348
responsabile, 595
resta, 586
restaurant, 661, 663
retaggio, 437, 613
rete, 24
retentire, 191, 340
retico, 16
retorica, 647
retroattivo, 572
retrogrado, 156
retrovia, 639
rettifica, 643
rettifilo, 612, 640, 653
rettore (rector), 155
rettorica, 155, 157
revancia, 595
rèver, 662
rèverie, 662
rèveur, 662
revisioni di testi, 340-344
Rezasco, G., 623
Rhys, J. D., 346
riàvolo, 435
ribeba, ribeca, 160, 184
ribes, 164
riboboli, 396, 433
ribotoli, 313
rìcadla, 580
Ricci, Matteo, 649
ricco, 76, 80
riccomanno, 164
riccore, 153
ricercato, 428
ricienta, 128
ricordare {recordare ], 41
riddare, 80
rideau, 661
ridò, 519, 661
ridolente, 513
riduzione, 524
riedo, 588
riflessibile, 505
riforma della grafìa, 335-339, 484, 562,
628-629
riformatore, 362
rigodone, 519
rigoglio, 81
Rigutini, G., 622, 623
rilieffo, 521
rima diffìcile, 402
rima perfetta e rima imperfetta, 125
130-131
rimanere (remanere ), 38
rimarcare, 663
rimarchevole, 446
rimarco, 520, 576
rime guittoniane, 131, 132
rime siciliane, 133, 135, 137
rime umbre, 134
rimembranza, 129
rimpiazzare, 520
rinascita, 361, 655
rinculare, 506
rinf amare, 180
rinfocolare, 588
ringavagnare, 180
Rinnovamento, 572
rinoceronte, -ote, 235
rinomo, 655
rinovare, 481
rinvegno, 595
rione, 29
ripristinare, 590
risacca, 444
risagallo, 164
riserbatoio, 521
risma, 163
riso, 33
risolvere, 571
risorgimentale, 644
risorgimento, 494, 572
risorsa, 380, 520
risotto, 651, 666
rispondiero, -iera, 504
rissor, 272
ristorante, 661, 663
ristoratore, 663
Ristoro di Arezzo, 142
ritaglio, 522
ritentire, 273
rameggiare, 438
ritmi storici, 106-107
ritorte o, 369
ritorta, 374
ritrangola, 153
ritropico, 547
rittorico, 369
rivaggio, 193
rivilicare, 587
rivista, 596
riviste, 392, 529, 609
rivoluzionare, 571, 595
rivoluzionario, 571
rìzotomo, 514
roano, 581
roastbeef, 597
rob, 384
roba, 78, 423
Roberto d'Angiò, 188
robiola, 651
rocca, 55, 78
raccoglie, 519
rocco, 164
Rocco, E., 607-608
roccolo, 584, 586
rodò, 518
rococò, 594
rodengotto, 523
roggio, 586, 655
roi, 188
roideur, 593
rollo, 380
Roma, 253, 391, 604, 606, 615
romagnolismi, 652
romanella, 652
romaneschismi, 652
Romània occidentale e Romàni a
orientale, 21
Romano, 52
romanticismo, 531, 537-539
romantico, 496, 574
romanza, 574
romanzare, 437
romanzeria, 437
romanzesco, 495
romanzo, 496
romanzo comune, 15
rompiparole, 364
ronco, 586
rondicchio, 500
rondò, 519
rondone, 500
ronzino, 159
rosbif, -iffe, 596, 597
roselo, 372
Rossano, carta di, 99
rossardo. 274
rosso, 27
rosso Cpolit.), 579
rosta, 79
Indice alfabetico 739
rotaia, 576, 597
rotina, 476
ròtolo, 163
rotta, 381
rouge, 594
routier, 661
rovano, 381
rovinare, 36
Boy, 379
rozzo, 29
ruba, 214
rubare, 78
rubecchio, 30, 178
rubesto, 273
rubicondo, 218
rubidio, 658
rubrica, 155
rubro, 179
ruca, 510
rud emil., rùd lomb., 28
ruffiano, 36
rugiada, 231
rullìo, 593
ruolo, 380
ruota, 27
ruscelli, 400
Ruscelli, G., 332, 338, 343
russare, 75, 80
rusticale, poesia, 246, 397, 407
Rustichello da Pisa, 188
Rutilio Namaziano, 16
ruvido, 29
s lat. finale, 25
s sorda o sonora, 485
s-, 152
sabato, 35
sabbato, 562
sabglia, 383
sabotaggio, 661
sabotare, 639, 661
sabretascia, 595
saccoccia, 453
saccomanno, 164
sachemi, 504, 525
sacro, 46, 368, 390, 480
sacro egoismo, 639
saga, 665
sagena, 513
saggio «savio», 161
saggio «articolo», 521
saginato, 387 —
sognare, 129, 160
740 Storia della lingua italiana
Indice alfabetico
sagro, 368, 419, 480, 581
saisir, 593
sala, 76, 159, 547
salamandrevole, 364
salarino, 586
salciza, 258
saldare, 153
Salento, 256
salgazo, 384
saligastro, 193
Salimbene da Parma, 116-117
salimpendola, 373
salma, 317, 613
salmone, 31
saltare, 36
saltimbocca, 652
salubre, 631
salubriore, 590
salute (salus), 46
salvaguardia, 446
salvare, 37, 47
salvataggio, 661, 662
salvatore, 47
Salviati, L„ 326-327, 331, 334
Salvini, A. M., 467, 482, 504
Salvioni, C., 202
sambòn, 476
sampareglie, 522
sanari, 128
sanatore «senatore», 218, 547, 581
sanatorium, 659
San Clemente, iscrizione di, 94-95
sanculotto, 571
sanfedista, 572
sangalla itela), 437
sangue freddo, 521
sanguettola, 499
sanguisuga, 37, 499
sanie, 587
sanitario, 643
Sannazzaro, I., 255
sans pareille, 522
Sant’Alessio, ritmo di, 104-105
Santa Margherita, leggenda di, 41
santarella, -eretta, 581
santo, 390
santolo, 372
santuario di Temi, 574
sanza, 121
sapere, 40; forme antiche, 92, 131-132
sapienza, 155
sapone, 77
sapor di forte agrume, 180
saporetto, 587
sarabanda, 444
saramento, 220
Sardanapalo, 574
Sardegna, 93, 114, 282, 416, 449. 478
sardi, documenti, 93-94
sardismi, 653
sargasso, -azo, 384
sargia, 160
sarrò, 595
sartie, 82
sarto, 148, 434
sartore, 434
sassafrasso, 445
satelle, 216
satellite «scherano», 277
satellite «corpo celeste», 432
satellizio, 588, 590
satira, 397
Satiri, 29
satiro, 216
Satumus, 276
saturo, 501
savana, 384
Savelli, M. A., 393, 413
savere, 191
savi della mercanzia, 511
savi di ragione, 145
savio, 161
Savoia, 558
Savona, carta di, 100
sbafo, 652
sbarbare, 152
sbarcare il lunario, 584
sbastigliato, 504
sberleffo, 79
sbocciare, 480, 626
sbraitare, 584
sbreccare, 80
sbrisso Idi), 372
sbrizzarsi, 583 —
sbucciare, 480, 626
scabino, 81
scacco, 164
scaccomatto, 164
scafandro, 496, 514
scaffa, 79, 511
scaffale, 79
scagnozzo, 582
scala, 82
scalco, 80
Scaldatole, 77
scaldo, 598
scalessare, 574
scalmo, 33
scalpello, 36
scaltro, 317, 376
scalzacane, 439
scalzagatto, 439
scamotaggio, 595
scangè, 279
scansare, 28
\ scapigliatura, 641
scapolo, 365
Scappino, 448
j scarabattolo, 444
j Scarabelli, L., 622
\ scarabocchiatorio, 504
Scaramuzza, 435
] scarana, 272, 372
j scàrdova, 176
] scarlattina, 501, 514
| scarmigliato, 414
I Scamafol, 52
scarsella, 153
\ scartamento, 661
| scartate ( dar nette), 365
I scattedrare, 574
scedone, 213
| scélerato, 581
I scelleranza, 588
I scelta, 366
scempiare, 317
l scempio, 43
scena, 412
1 Scena, 404
| scenario. 430
j scenografia, 366, 370
I scepticismo, 581
j scerbet, 383
scheggia, 33
\ schei ven., 598
ì scheletro, 442
? schembo, 313
; schena, 341
scherano, 81
schermo, 76
scherno, 76, 80
scherpa, 77
scherzare, 80
| schiaccianoci, 644
? schiampe, 652
! schiatta, 78
schiave bianche, 664
{ schiavo, 73
] schiena, 75, 79, 341
schienale, 270
schiera, 81, 159
schietto, 78
schifare, 81
schifo, 79
schincherche, 524
schioppetti o, 454
schiuma di sangue, 498
schivare, 81
schizzo, 388
sci, 665
sciabarà, 596
sciàbica, 163
sciabola italo-amer., 664
sciaccò, 596
sciaguaro, 582
scialle, -o, 597
scialuppa, 519
sciàmito, 82
sciampagna, 519
sciancato, 79
scianto, 583
sciantosa, 661, 662
sciara, 435
sciarabbà, 596
sciarada, 594
scibile Iscibilis), 47
scicche, 662
scientifico (scientificus ), 47
scienza, 155
scimmietà, 644
scimmio, 277
scimmiologo, 644
scio «so», 259
scioano, 571
scioccarello, 581
sciopero, 639
sciotta, 445
sciovinismo, 661
scirocco, 163
sciroppo, 164
sciupateste, 579
sciurta sic., 162
sciusciuliare, 642
sciverta, 220
scocca, 366
scocciare, 653
scocollato, 505
Scodosia, 77
scoerro, squero, 511
scoglio, 165
scoiattolo, 33
scolo, 521
741
I
742
Stona della lingua italiana
scomberello , 372
scommunica, 423
scontare, 153
scopa, 626
scopare, 41
scorbuto, 631
scortilo, 525
scorto, 525
Scorpio, 215
scorzonera, 444
scosso, 372
scottone, 137
scranna, 79
scredente, 504
scrittarello, 643
scrivano, 70
scriviarticoli, 574
scroto, 442
scrutinio, 368
scudiere, 159
scudone, 137
scugnizzo, 653
sculdascio, sculdascia, 77
scultore, 273
scuriosarsi, 504
scutica, 513
sdruccioli, 275, 656
sdrucire, 626
sdruscire, 626
se, 27
sebbene, 358
sebe pron., 92, 105
secchia, 74, 412
secchiaio, 586
secco, 27
secentismo, 485
secentista, 495, 517
secento, 365
secolo (saeculum), 46
secondarie (scuole), 595
secrétaire, 593
secreto, 581
sedano, 33, 374, 448
sedia rullante, rollante, 430, 446
sedicente, 594
segnacolo in vessillo, 180
segnare «salassare», 160
segno di caso, 364
segnorso, 176
segone, 573
segretario (secretarius ), 47
Segretario Fiorentino, 362, 390
segugio, 31
seguidiglia, 524
séguito, 521
seguso, 435
selcio, 434
selenografia, 443
selezione, 638, 659
self govemment, 597
selfinduzione, 664
seiino, 374
selinografia, 443
Sella (sigaro), 647
sellerò roman., 448
sellino, 640
selva, 80, 277, 400
selva oscura, 195
semantica, 659
semantica cristiana, 45-47
semantica rustica, 43-44
sembiante, 121
sembianza, 193
sembrare, 131
Semelè, 179
semenza, 36
semi-, 440
semidigiuno, 440
semidottore, 440
sémifiloso fo, 440
semigigante, 440
semilibro, 440
semiluterano, 440
seminario, 370, 496
semipelagiano, 440
semipollo, 504
semipubblico, 440
semitiranno, 504
sempiterno, 155
sempremai, 587
senaita, sinaita, 75, 99
senape, 33
senato, 363
senatoconsulto, 366
senatore, 155
sene, 509
seni plur., 661
senior, 659
seno, 368
senno, 81
sensale, 163
sensazionale, 644
sensibile, 497, 521
sensibilità, 521
sensitivo (sensitivus ), 155
senso comune, 523
sensuale (sensualis), 155
sentare, 372
sentenza, 590
sentimentale, 494
sentimento, 451, 494
sentinella, 386
senza termine, 329
separatista, 573
separo o separo, 485
seppia, 33
sepsi, 592
septico, 592
sepulcro, 656
sequestrare, 155
Serao, M., 609
Serdonati, F., 332
sere, 159
serico, 218
scrocchia, 205, 214
serpe, 367
serpente, 403
serra, 594
serraglio, 383 ■
serrata, 639, 655, 664
serventismo, 504
servitore, 580
servo, 580
sesquiplebe, 504
sessione, 516
setificio, 5, 644
setteggiare, 274
Settembrini, L., 616, 653
settentrione, 218
settico, 592
settimanale, 505
seud o-, 440
sezzaio, 375, 376
sfacelo, 442
sfarzo, 330
sfavillo, 191
sfera, 156
sferisterio, 591
sferlato, 543, 586
sferlo, 372
sferru sic., 585
sfilinguellare, 583
sfilosofarsi, 438
sforzato, 380
sforzo, 380
sfrattetur, 514
sfregolare, 586
sfroso, 511
sfruttare, 594
sfumare. 213-
sftimatura. 521
sì? grafia 259
sgannare. ISO
sgargiante. 53 S
sgemmare. 435
sghembo. 79
sgherro. 80
sgomberare. 31
sguattero , 79
Shakespeare. W., 418
sì e se, 487
siccità, 218
Sicilia, 218, 276
Sicilia, 204-205, 256-257
siciliana, scuola (e sua influenza),
122-134
sicilianismi, 653
siciliano, 276
siciliano illustre, 169
siculo-toscani, poeti, 129-134
sicuranza, 193
siderale, 657
sido, 28
sigaretta, 576
sigaro, -arro, 582, 632
signera, 160
signora, 359
signore , 359, 380
signoria, 359
Signoria Vostra, 425
Signorie, 114
signorina studente, 640
silenzioso, 590
silfo, 524
sillaba, 364
sillogisma, -o, 659
siluro, 646
simblanza, 129
simbolismo, 611, 657
— simbolista, 641, 661
simmetria, 366
sina ven. sett., 665
sinaita, senaita, 75, 99
sinalife, 369
sincope, 364
sincope, 67, 178, 207, 209, 262
sindaco, 640
sinestro, 218
sinfonia, 156
sinfonia di odori, 611
sinfoniale, 644
singulare, 156
•741
Storia della lingua italiana
mdice alfabetico
745
1
siniscalco, 159, 161
sinistra, 572, 579
sino «seno», 368
sinopsi, sinossi, 517
sinoride, 442
sintassi, 44°
sintesi, 442
sintomo, 315
sire, 159
sirocchia, 28, 5U
sirocchievol '
sisamo, 363
sismografo, 846
sitire, 588
skating, 663
ski, 665
sky-scraper, 665
slancio, 598
smacco,- 80
smaferare, 43t
smagare, 78
smagato, 509
smaltire, 79
smalto, 383
smalzo, 374
smarrire, 78
smeriglio, 82
smetrizzare, 504
smoking, 640, 663
smotta, 500
snaturato, 505
snello, 76
snit bologn., 665
snob, 663
snobbessa, 640
soave, 261, 368
Soave, F., 466
socialismo, 591
socialista, 572
società, 442
societario, 659
socio, 216, 480
Socrates, 276
soda, 162
sodalità, 277
sodio, 577
sodisfo, 579
sofà, 383
sofferire, 551
soffiare isufflare) 38
Soffredi del Grazia 144
soffrire, 521, 55
soffrire : la forma soffre, 377
sofia, 515
sofistico, 218
so/o, 515
sofretoso, 129
sofrosine, 656
soggetto isubiectumì, 155, 368
soggiuntivo, 364
soirée, 661
solazo, 128
soldano, 164
soldato, 386
sole, 192, 400
Sole dell'avvenire, 639
solere, 151, 191
solfanello, 576
solferino, solfino, 576
sollazzo, 129
sollo, 433
solo, 271
solum, 276, 367
solvere, 513
somaio, 161
Somalia, 625
somiere, -iero, 159, 161
Sommariva, G., 250-25
sommergibile, 640
somministrare, 370
sommità, 575
sonettaio, 505
sonetto, 386
sonito, 590
sonniloquio, 574
sonnip rendere, 439
sono verbo, 24
sonorizzazione delle sorde, 147
sopperire, 343
soppiare, 374
sopra, 368
sopraccarta, 580
sopraccoperta, 580
soprano, 587, 599
soprascritta, -o, 580
sopravvivenza di voci latine nei dia-
letti, 28
sopravvivenza di voci lat. nella topo-
nomastica, 27-30
sopressata, 381
sor-, 132
sorbetto, 383
sorcio, -co, 214
sorcotta, 159
sorcotto, 654
Sordello. 121
sorella, 72, 154, 214
sorellissima, 643
sorgo, 214
sorice, -ico, 214
somacare, 75, 80
sorore, 191, 214
sororità, 364
sorpriso, 273
sorta, 161
sorte, 390
sorvegliare, 595
sospiro, 214
sospite, 590
sospizione, 587
sostanza, 155
sostrato, 19-20
sottano, 587
sotto «sciocco», 379
sottomarino, 640
sottoscala, 505
sottosegretario, 639
sotto-ufficiale, 572
soubrette, 661
sovente, 317, 376
soverchio, 376
sovra, 368
sovra-, 132, 438
sovramortale, 438
sovrapiacente, 132
I sovventore, 590 _
j sozio, 216, 480, 537, 587
; sozzopra, 587
i spaccare, 75, 77, 80
spada, 33, 165
spadroneggiare, 584
spaghettata, 652
spaghite, 644
spagnolismi: v. iberismi
spagnolo: influenza, 300-301, 416,
i spago, 28
spaldo, 376
| spalla, 35, 45
ì spalto, 79
spanna, 79
sparagnare, 81
spàresi ven., 511
sparruccarsi, 504
sparviere, 160
spasimo, 33
spassoso, 435
spatosa, 501
spavento, 361
specchio, 132, 409
speciale, 216, 481
specialista, 643
specie, 155, 480
specillo, 514
specioso, 277
specola, 432
speculativo ispeculativusì, 155
spedale, 626, 650
speech, 597, 664
spegazzo, 435
speglio, 132, 409
spelda, 408
spelonca, 33
spelta, 408
speme, 24
spencer, 597
spene, 24
spensare, 504
spera, 132
speranza, 129
speranzare, 576
Speroni, S., 299, 311
spessore, 595
spettatore, 360-361
spettro, 432
speziale, 216, 481
spezie, 480
spezzantenne, 439
spiacenza, 193
spiacevolezza, 504
spice, 664
spiedo, 76, 79
spiemontizzarsi, 504
spinacio, 164
spinilo, 658
spiritello, 134
spirito, 134, 155, 377
spirito forte, 494, 521
478 Spirito, L., 343
spirto, 132, 377, 613
spizio, 525
spoetarsi, 364
spogliazza, 588
spola, 78
spoltrire, 180
sponte, 276
sporta, 378
sportare, 273
spranga, 79
spreco, 579
spregiudicato, 494
sprinter, 663
sprocco, 79
746
Stona della lingua italiana
sprotetto, 504
spugna, 33
spulciacodici, 644
spurio, 31, 218
sputaincroce, 439
squero, 82, 158, 511
squitinio, squittinio, 368, 653
sreligionato, 504
- ss - per -zz-, 131
stabale, 624
stabilimento, 497
stabilito, 368
staccionata, 652
stadico, 161
staffa, 76, 79
staio, 576
stalagmite, 514
stalla, 78
stamani, 261
stambecco, 79
stamberga, 79
stampa: v. arte della stampa
stampa di libri in volgare, 223. 229
stampa quotidiana: v. giornalismo
stampare, 270
stanco, 272
stan forte, 164
stanga, 79
stapula, 383
starna, 99
statico, 161
stationario, 156
Stati generali, 504
Stati Uniti, italiano negli, 625
stato, 359
stato d’animo, 662
statuare, 364
statuito, 368
statuti in volgare, 118. 184, 287-288
statuto, 155, 580
stearina, 517
stecca, 79
stecco, 79, 191
steeple chase, 597
Stefano Protonotaro, 126
stégola, 32
stella, 214, 400
stella alpina, 642
stella errante, 370
stelle Medicee, 432
stelo, 44
stendardo, 159
Stendhal, 535
Stenterello, 575
stephane, 656
steppa, 523
steresi, 590
steriino, 164
sternutare, 36
stero, 160
sterpo, 42
stertore, 446
sterzo, 79
stessissimo, 427
steura, 383
sti- per schi-, 261, 352, 424
stia, 7, 8
stiampa, 652
stiattaione, 500
stidione, 424
Stigliani, T., 414
stilare, 505
stilistica, 598
stillo, 191
«Stil nuovo», 130, 132-134, 171, 174,
189
stimolo, 42
stinco, 79
stipo, 444
stirpe, 42, 218
stoa «cavalla», 75
stoccafisso, 271
stock, 663
stolido, 370
stollo, 79
stomaco, 33, 631
stomacone, 137
stombolo, 42
storgere, 582
storia della cultura, 664
storiare, 157
storiografia in latino e in volgare,
293
storlomia, 156
stormire, 76
stormo, 76
straccalettori, 365
stracchino, 585
stracco, 80
strada ferrata, 577, 597
stradico, 158
stradiotesca, lingua, 302
stradiotto, 269
strale, 76, 79, 317
strano, 272
straticò, 82, 158
Indice alfabetico
747
stratificare, 442
stratigrafia, 577
strato, 271
stravizzo, 383
stregghia, 176
strennissima, 643
streppare, 373
strep(p)one, 272
stria, 277, 366
strillozzo, 500
stroppa, 374
strozza, 75, 79
struggicuori, 439
stucco, 79
studentessa, 740
studianaio, 644
studiare, 652
studio, 155
stufa, 358
stummia, 582
suave, 261, 368
subarcadico, 504
subbia, 626
sublime, 494
subornare, 442
subsannare, 657
succedituro, 590
succhione, 639
succiamele, 500
succiso, 156
sucì, 519
sudate carte, 574
Suffetti, 366
sufficiente, 481
suffisant, 594
suffiziente, 481
suggetto, 368
suggezione, 581
sughillo, 586
sugliardo, 220
suini, 572
sulky, 663
sultano, 164
SUO, 208, 266, 488
suon dell’ arpe angeliche, 575
suora, 154, 214, 506
suore, 214
suoro, 214
super-, 643
superfetazione, 645, 659
superficiale, 521
superlativo, 150, 174, 211, 266, 267,
427
superlativo relativo con l’articolo ri-
petuto, 490, 564
superstrato germanico, 56
superuomo, 643
Suplainpunio, 53
supra-, 578
supra-romantico, 578
surmenage, 662
surrepire, 658
surtù, 519
suscettibile, 446
sussecivo, 441
sussiego, 5, 380
susta, 586
sustanza, 581
suto, 316
suttiliore, 263
svànzica, 598
sventramento, 640, 646
sversato, 583
svescovato, 364
Svevi, 113-114
sviluppamento, 521
svilupparsi, 645
svìmero, 496, 524
t lat. finale, 24
t lat. intervocalica e suo trattamen-
to, 108, 201
tabacco, 384
Tabarrini, M., 604
tabellione, 35
taccia, 219
taccola, 79, 374
tacchino, 383
taccuino, 152, 163
tacere : pass. rem. tacque e tacette, 177
tachigrafo, 578
tachitipo , 578
tafano, 32
tafferia, 583
tafferuglio, 271, 279
taglia, 121
tagliaborse, 439
tagliando, 596
Tago, 403
taille, 476
tailleur, 640
talento, 129
Taliano n. pers., 116
taliter qualiter, 276
tallero, 382
tamen, 367
748
Stona della lingua italiana
Indice alfabetico
749
tanca, 653
tandem, 367
tando, 128
tanè, 220
tanfo, 80
tangere-, non mi tange, 655
tango, 655
tantaleggiare, 505
tanto minus, 276
tantum, 276
tappa, 446, 663
tappeto, 33
tappeto : mettere sul t., 447
tappezzeria, 379
tara, 163
tara «grave difetto», 595
fargia, 159
tariffa, 163, 386
tarpano, 539
Tartaglia, N., 290
Tartaro, 540
tartaruga, 35
tartina, 593
tartufo, 32
tarzanà, 162
tasca, 453
tascabile, 496
tassabile, 497
tassametro, 659
tasso (anim.), 77 _
tasso (econ.l, 595
Tasso, T., 304, 366
Tassoni, A., 412
tata, 37
tattera, 76
tattow, 525
taumaturgo, 442
Tauro, 215
taverna, 31
tavola, 68, 153
tavoletta, 522
tavolo, 584, 650
tazza, 220
tè, 430
Teatro, 404
teatro, 529, 603
tebe pron., 92, 105
tecmirio, 369
tecnico, 516
tecnomasio, 651
tecomeco, 152
teda, 614
tedesco: influenza, 303, 478,
624
tedeschismi, 164, 220, 279, 382-383,
447, 598, 664-665
tegghia, 24, 68
teglia, 24, 68
tegola, 24, 67
teint, 476
telegramma, 592
telepatia, 641
telescopio, 432, 440
teletta, 522
tellurico, 592
temenza, 193
temmirio, 369
tempeste dell’acciaro, 456
tempo, 453
Tempo, Antonio da, 198
Tenca, C., 548
tender, 577, 596, 597
tenenza, 640
tenere, 27
tenere in bilico, 509
tener per fermo, 589
tenorista, 214
tentarne, 590
teocrazia, 571
teofilantropia, 571
teoria, 611, 659
tergiduttore, 366
tergiversare, 442
teriaca, 33
Termasse, 215
Termi, 215
terminare : pàss. rem. terminonno.
177
Termini, 29
termini amministrativi, burocratici,
611-612, 620-621, 636
termini architettonici, 270, 293
termini artistici, 213
termini giuridici, 431, 496
termini grammaticali, 363-364
termini medici, 500
termini scientifici, 271, 458, 498-504,
547, 611
termini sericoli, 510-511
termini tecnici, 363 e passim
termini teologici, 23
termometro, 440, 646
terra, 27
terralcìqueo, 515
terr amara, 641
terra natia, 541
terrapieno, 386
Terra Santa, 561
terremoto, 480
tersanaia, 162
terza pagina, 641
terza pagina, 603
terzenale, 162
terziario, 501
teschio, 43
«Teseida», 186
tesi, 442
tesoro, 192, 214
Tesoro, 404
testa, 38, 43
testa-, a testa a testa, 521
testamento, 47
teste, 658
testé, 316, 376, 412, 588
testimonio, 72
testore, 273 — — .
testudinato, 276
testudo, 513
tetragono, 179, 180
Tetragrammatonne, 276
tetro, 342
tetta (fitta), 39
teute, 499
teve pron., 195
th grafìa, 98, 146-147, 259, 335, 347-348,
420, 659
Thalweg, 596
tholos, 656
Thomas, W., 345
-ti- lat., 25
ti grafia etimologica, 259, 335, 347-
348, 419-420
ti e te, 487
ticchettio, 642
tiepido, 509
Tifi, 403
tifo, 577, 591
tifone, 385
tight, 640, 663
figlia, 614
tigre m., 263
Tigri, G., 616
tilbury, 657, 697
timbro «bollo», 593
timbro «campanello», 662
timore, 156
tin tin, 642
tirabussone, 519, 576
tirannia, 571
tirocinio, 370
titoli, 405
titolo, 155
titubazione, 442
toast, 524
toccante, 521
toccare, 521
Tòdero, 81
toelette, -a, 522
fognino, 573
toilette, 522
tolda, 381
tolerare, 481
toletta, 522
t olla, 76
tollerare, 481
Tolomei, C., 315, 321-322, 332, 335-338
tornate, 384
tombaca, -acco, 519
tombolo, 500, 501
tomela, 101
tomismo, 115
Tommaseo, N., 535, 556, 621, 622
Tommaso d’ Aquino, 117
tómolo, 163
tonaca, 47
tonfano, 75, 79
tonfo, 80
ton(n)ellata, 381
tonno, 33
tono, 480, 581, 626
topistomelli, 214
topologia: v. ordine delle parole
topipìè, 522
-torà, 640
torba, 383, 500
torbido (pescare nel), 521
torcilegge, 574
-tore, 640
torero, 598
torista, 627
tèrmini, 514
tomabuona (erba), 384
tornaconto, 579
tornagusto, 587
tornare «ritornare», 45
tornare «voltare», 121
tornata, 44
tomàtile, 514
tomatura, 44
torneo, 160
tomese, 160
tomiello, 588
torno, tornio «strumento», 521
750 Storia della lingua italiana
tomo, tornio «giro», 521
tramontana, 386
torpedine, 646
tramway, 577, 597, 640, 663
Torraca, F., 645
trancia, 661
torreggiare, 180
trangugiare, 31
torrenziale, 659
tranquillizzare, 517
Tornano, G., 418
transazione, 516
torrone, 381
transire, 589
tórso, 44, 270
transitivo, 364
tórsolo, 44
transitorio, 218
Torti, F„ 547
Transpadani, -padini, 54
tory, 524
transumanare, 180
tosare (* tornare), 36
trantran, 595
Toscana, 189, 196-198 e passim
tranvai, 627, 640
toscana, influenza, 143, 196-201, 306,
trapano, 53
460-463,- 539, 582-584
trapassato remoto, 211
toscanità della lingua, 243-244, 320-
trapelare, 437
328, 460
trappitu, 39
toscanizzazione dei canzonieri, 125,
trappola, 79
130
trappu, 273
Toscano, 116
trasferta, 576
toso, tosa, 73
trasformatore, 642
tostare, 36, 524
trasformismo, 601, 638 639
tosto, 342, 377, 524
traslatore, 277
totale (fotolisi, 155
traslocare, 576
tour, 521
trasporto, 521
tour : à notre tour, 522
trasposizioni, 492
tour de force, 662
trattino, 561
Touring Club Italiano, 663
trattore, -ia, 594
toumure, 640
travaglio, 521
tovaglia, 160
Travale, testimonianza di, 98
tra-, 132, 564, 578
travedere, 594
trabante, 383
travestire, 428
trabocchello, 588
travet, 647
tracasseria, 521
traviata, 575
tracotanza, 437
trecentesco, 544
tradire, 46
Tre corone, 194-196, 243, 304
■
tradolze, 132
tregenda, 221
tradurre, 276
tregua, 76, 81
traduzioni, 186-187, 234-235, 292-293,
tremuoto, 480, 581
456, 459
treno, 446, 579
trafiletto, 641, 661
Trentino, 602, 624
tragediabile, 504
treppare «saltare», 221
tragediessa, 504
trescare, 76, 81
tragelafo, 277
trescone, 76
tragicommedia, 277
trias, 577
traiettoria, 659
tribo, 587
tròtto, tratto, 148
tribolato, 506
tralatare, 277
triclinio, 276
tram, 640
tricolore, 572
Tramater, 555
tric trac, 364
tramelogedia, 504
Trieste, 602,624
tramenio, 454
trigonometria, 478
tramite, 590
trilingue, 370
ndice alfabetico
trilingui, sonetti, 198
trina, 373
trincea, -era, 379
trinchesvaina {aliai, 382
Trinità, 216
triplicista, 639
tripode, 370
Trissino, G„ 315-317, 329, 335-336
triumviri, 591
triunfare, 179
tro', 121
trovadore, 582
trobadorica, poesia, 114
trofeo, 277
trogolo, 79
troika, 665
trolley, 640, 663
troncamento, 250, 262, 353, 485, 563,
630-631
tropa, 380
troppo, 81
troppo ... per, 490
trovadore, 378
trovante. 652
trovare, 160
trovatore, 160, 582
truculento, 218
tramò, 519
truppa (mil.l, 380, 419
truppa «compagnia teatrale», 521
trust, 663
trutina, 366, 589
trutta, 435
tuba, 576
tubercolosi, 642, 644, 658
tucul, 665
tufazzolo, 77
tuffare, 75-80
tulipano, 383
Tunisia, 624
tunnel, 577, 597
tuo, 208
tuono, 480, 581, 626
tupipìè, 522
turba, 383
turbante, 384
turbato, 153
turbina, 642, 661
turcasso, 82
Turchia, 624
turchismi, 383
turf, 597, 663
tuffa, 500
75 )
turismo, 663, 664
turista, 627, 663, 664
turlupinare, 661
tufo, 368
tuttatré, 318
tutti e due, tutt’e due, 509, 551
tutto giorno, 521
tz grafìa, 62, 259
tzerbet, 383
-u- lat. semiconsonante e suoi esiti,
26
u alternante con o nei latinismi, 352
u pronunziata alla francese, 485
-U e -O finali, 95, 97, 99, 101, 105, 127,
136, 253
u e v distinti nella grafia, 259, 335,
336, 349, 421, 482
u’, 375
ubbidire, 551
ubèro, 381
ubi, 178
ubriaco, 36
uccellino, vite, 585
uccello, 36
uccidere loccidereì, 38, 41
ufeggiare, 579
ufficiale, 582, 626
ufficio, -izio, 377, 582, 626, 650
uffiziale, 627
uffiziolo, 453
affo, 75, 79
ufiziale, 626
ufizio, 626, 650
uggioso, 551
Ugolini, F., 556
ugonotto, 362, 382
Uguccione da Lodi, 138
ulcerare, 215
uliginoso, 520
-ufo, 581 —
ultimare, 47
ultimatum, 592
ultimo avanzo..., 575
ulto, 540
Umanesimo, 182, 224
umanesimo volgare, 231, 332-334
umanista, 361
umanità, 521
umanizzare, 517
Umbria, 203-204, 252
umbro (dial. italico), 17
ùmero, 368
752
Stona della lingua italiano
Indice alfabetico
753
1
Umidi, 333
umile, 132
Umlaut, 665
umlautizzare, 665
undici once, 583
ungarese, 581
Ungheria, 58J
unghia, 36
uni-, 440
unico, 272
uniforme, 595
unisillabo, -ico, 440
univalve, 365
universalizzazione, 578
università luniversitasì, 155
Università, 114, 152, 183, 284, 286, 529
unqua, 645
unquanco, 376, 588
unto sutile, 258 .
unzione, 480
UO ed O, 191, 207, 261, 262, 314, 351,
423, 434, 485, 551, 563, 620, 630
uo ridotto a u, 147
uo «o», 100
uomo, 148
uomo «vassallo», 161
uomo come indefinito di terza perso-
na, 150
uopo, 376, 614
■ura, 132, 152, 161
uragano, 384
urango, 498, 645
urbanismo, 640
urbano, 624
Urbino, 252
urente, 313
uro (urusì, 77
usbergo, 81,-159
usignoleggiare, 438
«uso» linguistico, 617
ussero, 383
ussorìcida, 440
ustionare, 643
usucapione, 442
usurpo, 505
utente, 590
utero, 370
utilizzare, 578
uuid uid, 642
vacca, 27
vaccherella, 581
vaccina, 501
vaccinogeno, 644
vagabondaggio, 593, 595
vagabundo, 216
vago, 156
vagone, 577, 596, 597
vaiuolo, 434
valdesi, colonie, 113
Valeriani, G., 556
Valeriano, G. P„ 317-318
Valhalla, 598
vallare, 179
valletto, 219
Vallisnieri, A., 468
valore, 134
valtz, valz, 582
vammastro, 595
vampate, 274
vampiro, 504, 525
va narello, 581
vanesio, 495
vanga, 77
vangelo, 218
vanni, 654
vanume, 574
vanvara (a), 582
vaporiera, 657
Varchi, B., 323-326, 339
varola, 372
vaso, 318
vassallo, 32, 81, 159
vattelappesca, 584
vebe pron., 105
vecchio, 72
vedere: la forma veo, 131
vedere : veduto e visto, 377
veedoiie), 382
veemente, 277
Vega, 163
veggio, 176
veglionissimo, 643
velen dell’argomento, 180
velico, 644
velite, 590
velivolo, 611,640, 664, 657
velocifero, 574, 577
velocipede, 640
velocipedismo, 603, 643
velocitare, 437
velodromo, 661
veltro, 32, 160
vendeista, 571
vendemmiatore, 582
vendemmiese , 582
vendetta, 599
vendetta allegra, 180
vendilettere, 579
vendi-sangue, 504
vendita, 36
venenoso, 513
venerabundo, 514
Venere, 216
I vènere «venerdì», 373
venereo, 218
venefico, 17
3 venetismi, 372, 435, 510-513, 586, 651
Veneto, 183, 195
veneto forense, 454
! Venezia: arte della stampa, 251-252
: Venezia: influenza nel Levante, 346
! vengiare, 193
ì venire modale, 212, 490
\ venir di .... 476
! Veno, 216
venti generali, 385
ventilatore, 496, 514
ventipreda, 439
Venus, 216, 276
j Venusso, 216
I venusto, 218
; venzei, venzette, 209, 264, 487
vera, 585
| verace, 156
j veranda, 666
verbale, 612
verbi di timore, 212
verbi gratta, 367
\ verbo, 364
| verbo: flessione, 149, 208-210, 264-265,
; 356, 425-426, 488-490, 567, 634-635
\ verbo in fine, 194, 638
\ verdatero, 279
j verde, 272
! verecondia, 216
j verecondo, 218
verecundia, 216
verga, 597
j Verga, G., 610
verginile, 274
; verismo, 643
verista, 641
vermicelli «spaghetti», 448
vermicello, 373
ì vermiglio, 159
] vermut, -utte, 627
' vernacolo: v. dialetto
\ vernissage, 661
vero aw, 276
Verri, A., 462
versante, 595
versiscioltaio, -ato, -eria, 504
verso bianco, 523
versorio, 65
versuto, 589
vertuoso, 360
verzaglio, 373
verziere, 160
vescovo, 34
vespro, 46
vestaglia, 651
vestibolo, 366
Vesuvio, 501
vetrina, 595
vetriolo ( vitriolumì , 155
vettina, 372
vettovaglia, 36
vettura, 579
vetula, 215
vezzeggiativi che perdono il valore
diminutivo, 36
vi aw, 487
viadotto, 577, 597
via ferrata, 597 ,
viaggi e scoperte, 292
viaggio, 160
Viani, P., 556
viapiù, 481
vibrione, 577
Vicchio, 29
vice-, 438, 440
Vicedio, 438
Vicefebo, 438
vicenome, 364
vicepiè, 505
vicetiranno, 504
Vico, G. B., 460. 469
victoria, 640
vigilare, 218
vigile, 218, 590
vigliacco, 380, 412
viglietto, 444, 445
vigna, 69
Vigna, Pietro della, 116
vignetta, 521
vigogna, 384
vilipendio, 368
villa, 525
villanoviano, 641
villareccio, 581
villeggiatura, 525
754
Storia della lingua italiana
Indice alfabetico
755
villeggio, 505
villoso, 370
vime, 216
vincibosco, 374
vinciglio, 374
viola, 160
violino, 448
violoncello, 525
viosk piem., 28
viraggio, 642
virente , 613
Virgo, 215
virgola, 349, 442
virtù ivirtus), 45, 271, 360
virtuale Ivirtualisì, 155
virtude, 541
virtuoso, 360, 448
visaggio, 121, 161, 436
visare, 519
vis-à-vis, 662
Visconti, Filippo Maria, 226
Visconti, G., 248
visibilio { andare in), 650
vista, 521
vite, 45
vitello, 36
vitreo, 277
viva, lingua, 299
vivificare, 41, 156
vivituro, 590
vocabolari, 245, 331, 416, 467, 554-556,
622-663
vocaboliera, 504
vocabulizare, 275
vocale, 364
vocativi latini e loro tracce, 95, 148
voce, 24
vocessa, 437
voci latine sparite, 40-41
voci letterarie, 586-589
volante, 662
volcano, 501
volere modale, 212
volerne, 662
volgare: prime testimonianze, 62-63
«volgare», 244, 328
«volgare illustre», 169
volgare schiera, 180
volgarizzamenti, 144-145, 185 (v. an-
che traduzioni)
volgo, 368
volpinesco, 274
volt. 624. 642
volta, 44
Volterra, 104
voluta, 366
vongola, 653
vortice, 442
Vorwàrtsl, 664
vosco, 509
vossignorare, 504
Vostra Signoria, 263
vulcano, 384, 501
vulgo, 368, 581
vulgo avv., 61
vulture, 613
wagon, 596
walser, 582
walzer, 576, 582, 598
water-closet, 663
Welser, M., 418
Weltanschauung, 664
whig, 524
Wurstel, 665
x lat. e suo trattamento, 25-26
x grafia ligure e sicil., 100, 259, 42 1
xanzio, 499
xilologia, 516
y grafia in latinismi e grecismi, 259,
335, 482, 627, 659
yacht, 663
Z e f, 336
z grafia per s sonora, 207
z scempia e doppia, 420, 483
zabbattera, 273
zafferano, 163
zaffo, 79
zàgara, 162, 653
zaino, 381
zamarra, 381
zambello, 272
zambra, 159, 220
zambracca, 220
zampano, 373
zampogna, 33
zana, 79
zanna, 79
Zanni, 361, 386
Zannichelli, G. G. e G. 1., 498
Zanvido, 52
zanzara, 373
zara, 164
zavana, 384
zazzera, 76, 79
zebra, 385
zecca (dove si coniano le monete),
163
zecca (insetto), 79
zeccare, 511
zecchino, 361
zenit, 163
zenzala, -ara, 372, 373
Zerbino, zerbinotto, -eria, 403
zero, 386
zetani, 654
zettazione, 420
zibibbo, 164
zibra, 372
zifra, 163
zlgaro, 582
zighediglia, 524
zighinetta, 220
zi gotto, 380
zimarra, 381
zimbello, 160
zinale, 434
zinco, 519
zincone, 79
zinna, 79
-zione, 152
zipolo, 79
zirlare, 642
zitella, zittella, 626
zizza, 79
zoani, 656
zodiaco, 156
Zoilo, 403
zoioso, 159
zolfanello, 576
zolfatara, 435
zolfino ., 576
zolla, 76
zona, 217
zone grigie, 639
zoofitico, 645
zoolatrico, 590
zucchero, zuccaro, 163, 626
zuppa sauté, 662
INDICE GENERALE
Introduzione - Bruno Migliorai e la sua «Storia dalla lingua
italiana» vii
Premessa 3
Nota bibliografica 7
I. La latinità d’Italia in età imperiale li
1. Da Augusto a Odoacre, p. 11 -2. Lingua parlata e
lingua scritta, p. 12 • 3. Fonti per la conoscenza del
latino parlato, p. 13 - 4. Lingue prelatine, p. 15 --5.
Condizioni sociali. Il Cristianesimo, p. 17 - 6. Fattori di
differenziazione, p. 19 - 7. Distacco della lingua lettera-
ria, p. 22 - 8. Principali fenomeni grammaticali, p. 23 - 9.
Il lessico: voci che sopravviveranno, p. 27 - 10. Relitti e
imprestiti, p. 30 - 11. Grecismi, p. 32 - 12. Nuove
formazioni, p. 35 - 13. Lotta fra parole vecchie e parole
nuove, p. 37 - 14. Geografia areale. Caratteri delle
innovazioni italiane, p. 39 - 15. Mutamenti di significa-
to, p. 42 - 16. Semantica cristiana, p. 45 - 17. Tarde
coniazioni dotte, p. 47.
II. Tra il latino e l’italiano (476-960) 49
1. Limiti, p. 49 - 2. Romani e Germani. I Goti, p. 49 - 3. I
Longobardi, p. 50 - 4. La circolazione linguistica al
tempo dei Longobardi, p. 54 - 5. I Franchi, p. 56 -
6. Bizantini e Musulmani, p. 57 - 7. La latinità medieva-
le. Alcuni esempi tipici, 58 - 8. L’apparire del volgare, p.
62 - 9. L’indovinello veronese, p. 63 - 10. Influenza lingui-
stica dei dominatori e suo carattere, p. 66 - 11. Muta-
menti fonologici, p. 67 - 12. Mutamenti morfologici, p. 69
- 13. La derivazione, p. 71 - 14. Mutamenti semantici, p.
758
Storia della lingua italiana
72 - 15. Influenza del latino medievale p. 73 - 16. Gli
elementi germanici, p. 74 - 17. Distinzione dei vari strati
germanici, p. 74 - 18. Voci germaniche di età imperiale,
p. 77 - 19. Voci gotiche, p. 78 ■ 20 . Voci longobarde, p. 79 -
21 . Voci franche, p. 80 - 22 . Voci bizantine, p. 81.
III. I primordi (950-1225) 83
1 . Limiti, p. 83 - 2 . Si può già parlare di testi italiani?, p.
83 - 3. Eventi storici, p. 83 - 4. Movimenti culturali, p. 84 -
5. Tardo affermarsi del volgare, p. 85 - 6 . Circolazione
di persone, p. 88 - 7. Conoscenza delle lingue e lettera-
ture d’oc e d’oil, p. 89 - 8 . I placiti cassinesi, p. 90 -
9. Testi del secolo XI. Carte sarde. Postilla amiatina,
p. 93 - 10 . Iscrizione di S. Clemente, p. 94 - 11 . Confessio-
ne di Norcia, p. 95 - 12 . Testi del secolo XII, p. 97 -
13. Testimonianze giudiziarie, p. 98 - 14. Scritte e ricor-
di, p. 99 - 15. Iscrizione del Duomo di Ferrara, p. 102 -
16. Ritmi giullareschi. Elegia giudaica, p. 103.- 17. Ritmi
storici, p. 106 - 18. Versi volgari in un dramma liturgico,
p. 107 : 19. Sermoni, p. 107 - 20. Versi didattici, p. 108 -
21 . Il contrasto e il discordo di Rambaldo di Vaqueiras,
p. 109 - 22. Bilancio di due secoli e mezzo, p. 110.
IV. Il Duecento 113
1 . Limiti, p. 113 - 2 . Vicende politiche, p. 113 - 3. Vita
culturale, p. 114 - 4. Latino e volgare, p. 116 - 5. Cono-
scenza del francese e del provenzale, p. 119 - 6 . Poe-
sia d'arte e prosa d’arte, p. 122 - 7. La scuola poetica
siciliana e la sua lingua, p. 123 - 8 . La lingua dei poeti
toscani, p. 129 - 9. La poesia religiosa umbra e la sua
lingua, p. 135 - 10 . La poesia religiosa e didattica nel-
l’Italia settentrionale, p. 138 - 11 . La prosa. Origini e
fioritura della prosa d’arte. I volgarizzamenti, p. 141 -
12 . I fatti grammaticali, p. 145 - 13. Grafia, p. 146 -
14. Suoni, p. 147 - 15. Forme, p. 148 - 16. Costrutti, p. 149 -
17. Fatti lessicali, p. 152 - 18. Latinismi, p. 154 - 19. Gal-
licismi, p. 158 - 20 . Voci di origine orientale, p. 162 -
21. Altri filoni del lessico, 164.
V. Dante 167
1 . Dante «padre della lingua», p. 167 - 2 , Idee di Dante
sul volgare, p. 168 - 3. La lingua di Dante dalle liriche
giovanili alla Divina Commedia, p. 173 - 4. Grammatica
e lessico della Divina Commedia, p. 176 - 5. Efficacia di
Dante, p. 180.
Indice generale
759
VI. Il Trecento 181
1 . Il Trecento, p. 181 - 2 . Eventi politici, p. 182 - 3. Vita
civile e culturale, p. 182 - 4. Latino e volgare, p. 183 -
5 . Conoscenza di altre lingue, p. 187 - 6 . Il volgare in
Toscana, p. 189 - 7. Petrarca, p. 190 - 8 . Boccaccio, p. 192
- 9. Culto delle Tre corone, p. 194 - 10. Preminenza di
Firenze in Toscana e della Toscana in Italia, p. 196 7
il. Il volgare nell’Italia settentrionale, p. 198 - 12 . Il
volgare nell’Italia mediana, p. 203 - 13. Il volgare
nell’Italia meridionale e nelle isole, p. 204 - 14. I fatti
grammaticali e lessicali, p. 205 - 15. Grafia, p. 206 -
16. Suoni, p. 207 - 17. Forme, p. 208 - 18. Costrutti, p. 210 -
19. Consistenza del lessico e suoi mutamenti, p. 213 -
20 . La tinismi, p. 214 - 21 . Gallicismi e altri forestierismi,
p. 219 - 22 . Voci non toscane, p. 221 .
VII. Il Quattrocento 223
1 . T .imiti, p. 223 - 2. Eventi politici, p. 223 - 3. Vita
culturale, p. 224 - 4. La «crisi» quattrocentesca, p. 230 -
5. Latino e volgare, p. 232 - 6 . L’umanesimo volgare, p.
241 - 7 . Il volgare in Toscana, p. 245 - 8 . Il volgare
nell’Italia settentrionale, p. 247 - 9. Il volgare nell’Italia
mediana, p. 252 - 10 . Il volgare nell’Italia meridionale,
p. 253 - il. La norma linguistica, p. 257 - 12 . Grafia, p.
259 - 13. Suoni, p. 261 - 14. Forme, p. 263-15. Costrutti, p.
266 - 16. Consistenza del lessico, p. 268 - 17. Latinismi, p.
274 - 18. Forestierismi, p. 278.
Vili. Il Cinquecento 281
1. Limiti, p. 281 - 2. Vicende politiche, p. 281 - 3. Vita
sociale e culturale, p. 282 - 4. Latino e volgare, p. 285 -
5 . Contatti con altre lingue moderne, p. 300 - 6. La lin-
gua letteraria, p. 303 - 7. L’uso letterario dei vernacoli, —
p. 308 - 8 . La questione della lingua, p. 309 - 9. Gramma-
tici e lessicografi, p. 328 - 10. Interventi di autorità.
Opera di accademie, p. 332 - 11. Tentativi di riforme
ortografiche, p. 335 - 12. L’accettazione della norma, p.
339 - 13. L’italiano fuori d’Italia, p. 344 - 14. Grafia, p. 347
- 15. Suoni, p. 350 - 16. Forme, p. 353 - 17. Costrutti p. 357 -
18. Consistenza del lessico, p. 358 - 19. Latinismi, p. 365 -
20 . Voci dialettali e regionali, p. 371 - 21 . Voci antiquate,
p. 375 - 22 . Gerarchie di parole, p. 376 - 23. Forestierismi,
p. 378 - 24. Italianismi accolti in altre lingue, p. 385.
%r-
760
Storia della lingua italiana
IX. Il Seicento 389
1 . Limiti, p. 389 - 2. Eventi politici, p. 389 - 3. Vita sociale
e culturale, p. 390 - 4. Latino e italiano, p. 392 - 5. Scritti
letterari e scritti pratici, p. 394 - 6. Artifìci del concetti-
smo, p. 399 - 7. Uso effettivo e uso riflesso dei dialetti, p.
406 - 8. Il Vocabolario della Crusca, p. 407 - 9. Discussio-
ni sulla norma linguistica, p. 410 - 10. Grammatici e
lessicografi, p. 414 - 11. Rapporti con altre lingue, p. 416
- 12. 1 fatti grammaticali e lessicali, p. 418 - 13. Grafia, p.
419 - 14. Suoni, p. 422 - 15. Forme, p. 424 - 16. Costrutti, p.
427 - 17. Consistenza del lessico, p. 428 - 18. Latinismi, p.
441 - 19. Forestierismi, p. 443 - 20. Italianismi diffusi in
altre lingue, p. 447.
X. Il Settecento 449
1. Limiti, p. 449 - 2. Eventi politici, p. 449 - 3. Vita sociale
e culturale, p. 450 - 4. La lingua parlata, p. 452 - 5. Scritti
in versi e scritti in prosa, p. 455 - 6. Discussioni sulla
norma linguistica, p. 459 - 7. Grammatici e lessicografi,
p. 466 - 8. Latino e italiano, p. 469 - 9. Uso scritto dei
dialetti, p. 471 - 10. Rapporti con altre culture e lingue
europee, p. 473 - 11. I fatti grammaticali e lessicali, p.
480 - 12. Grafia, p. 482 - 13. Suoni, p. 484 - 14. Forme, p.
485 - 15. Costrutti, p. 490 - 16. Consistenza del lessico, p.
493 - 17. Il «linguaggio poetico», p. 506 - 18. Arcaismi, p.
508 - 19. Dialettalismi e regionalismi, p. 510 - 20. Lati-
nismi, p. 513 - 21. Francesismi, p. 518 - 22. Altri forestie-
rismi, p. 523 - 23. Italianismi in altre lingue, p. 525.
XI. Il primo Ottocento (1796-1861) 527
1. Limiti, p. 527 - 2. Eventi politici, p. 527 - 3. Vita sociale
e culturale, p. 528 - 4. Principali tendenze nel mutamen-
to linguistico, p. 530 - 5. La lingua parlata, p. 533 - 6. Il
linguaggio della prosa, p. 536 - 7. Il linguaggio della
poesia, p. 540 - 8. Discussioni sulla lingua, p. 544 -
9. Grammatici e lessicografi, p. 553 - 10. Rapporti con
altre lingue, p. 557 - 11. Oscillazioni nell’uso, p. 559 -
12. Grafia, p. 560 - 13. Suoni, p. 562 - 14. Forme, p. 563 -
15. Costrutti, p. 569 - 16. Consistenza del lessico, p. 571 -
17. Voci popolari moderne, p. 582 - 18. Voci letterarie ed
arcaiche, p. 586 - 19. Latinismi, p. 589 - 20. Francesismi,
p. 592 - 21. Altri forestierismi, p. 597 - 22. Italianismi in
altre lingue, p. 598.
Indice generale
761
XII. Mezzo secolo di unità nazionale (1861-1915) 601
1. Limiti, p. 601 - 2. Eventi politici, p. 601 - 3. Vita sociale
e culturale, p. 602 - 4. Principali tendenze nel mutameli-
to linguistico, p. 604 - 5. La lingua parlata, p. 605 ■ 6. D
linguaggio della prosa, p. 607 - 7. Il linguaggio della
poesia, p. 612 - 8. Discussioni sulla lingua, p. 615 -
9 Gr amm atici e lessicografi p. 621 - 10. Rapporti con
altre ling ue, p. 623 - 11. Oscillazioni nell’uso, p. 626 -
12. Grafia, p. 627 - 13. Suoni, p. 630 - 14. Forme, p. 631 -
15. Costrutti, p. 636 - 16. Consistenza del lessico, p. 638 -
17 . Voci popolari moderne, p. 648 - 18. Voci letterarie
arcaiche, p. 653 - 19. Latinismi e grecismi, p. 655 -
20. Francesismi, p. 660 - 21. Altri forestierismi, p. 663 -
22. Voci italiane in lingue straniere, p. 666.
Epilogo
667
Aggiunte e correzioni
669
Indice alfabetico
677
L 64745296
STORIA DELLA
vLlhffiOA, ITALIANA
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Saggi Tascabili Bompiani
Periodico quindicinale anno XIII numero 31
Registr. Tribunale di Milano n.269 del 10/7/1981
Direttore responsabile: Francesco Grassi
Finito di stampare nel mese di aprile 2001 presso
il Nuovo Istituto Italiano d’ Arti Grafiche - Bergamo
Printed in Italy
fé
ISBN 88-452-4961-1
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