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Wednesday, June 18, 2025

Grice e Migliorini

 

Full text of "254922024 Bruno Migliorini Storia Della Lingua Italiana ( 2)"

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Bruno Migliorini 
Storia della lingua italiana 


Introduzione di Ghino Ghinassi 


lr|i[ TASCABILI 
^ BOMPIANI 




ISBN 88-452-4961-1 

© 1987 by RCS Sansoni Editore S.p.A., Firenze 
© 1994/2001 RCS Libri S.p.A. 

Via Mecenate 91 - Milano 



IX e dizi one Tascabili Bompiani aprile 2001 




INTRODUZIONE 


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£ 



BRUNO MIGLIORINI 

E LA SUA «STORIA DELLA LINGUA ITALIANA» 


a Bruno Migliorini, maestro e uomo 


Quando, cinquantanni fa, al momento di insediarsi nella cattedra 
di Storia della lingua italiana alla Facoltà di Lettere di Firenze Qa 
prima, istituita, si può dire, ad personam, per valorizzare a pieno le sue 
originali ricerche, e per permettergli di ritornare in patria dall’«esilio» 
svizzero), dette inizio ai corsi della nuova disciplina accademica, Bruno 
Migliorini, da quell’uomo retto e corretto che era, oltre che strenua- 
mente impegnato nei suoi studi, s’impose subito il dovere di giustificare 
questo provvedimento eccezionale, dando l’avvio ai lavori preparatori 
per un’opera che mancava ancora all’Italia: una storia della lingua 
italiana. Lo attesta Migliorini stesso nelle prime righe della Premessa 
del libro che viene ora ristampato, dopo quasi un trentennio dalla 
prima edizione (che uscì nel I960) 1 . 

Che una storia della lingua mancasse veramente all’Italia potrebbe 
essere messo in dubbio da chi si ricordasse che fin dal Settecento (per 
omettere episodi precedenti, frammentari e occasionali) personaggi 
illustri avevano affrontato un tema simile, o almeno avevano apposto 
un’etichetta simile ad alcune loro opere. Ma si trattava di opere diverse 
e nate in un clima lontano: o volte a ribadire, di fronte a un pubblico 
straniero, le glorie passate della lingua e letteratura italiana (non 
senza qualche preoccupazione per la sua sorte futura), come la History 
of thè Italian Tongue (1757) di G. Baretti; oppure a integrare, sulle 
tracce del Minatori, l’elemento «lingua» nelle origini medievali della 


1 Per le vicende che portarono Migliorini alla cattedra fiorentina si veda in 
particolare Fr. Mazzoni, Bruno Migliorini. Commemorazione tenuta a cura della 
Società Dantesca Casentinese prò cultura e pubblicata negli Atti delia «Accade- 
mia Petrarca di Lettere, Arti e Scienze» di Arezzo, Arezzo 1981, spec. p. U e segg.: 
l’insegnamento miglioriniano a Firenze cominciò il 5.1L1938. L’anno dopo la 
Facoltà di Lettere dell’Università di Roma chiamava Alfredo Schiaffini a 
ricoprire una cattedra analoga: cfr. A. Schiaffini, Italiano moderno e antico, a c. di 
T. De Mauro e P. Mazzantini, Milano-Napoli 1975, p. 343; e per diversi anni queste 
due rimasero le sole cattedre di Storia della lingua italiana esistenti nelle 
Università italiane. I modi e i motivi che portarono in quel periodo all’attivazione 
di una tale disciplina universitaria meriterebbero un’indagine specifica: chi 
scrive ricorda che Migliorini attribuiva una parte importante in questa vicenda al 
vivo interessamento deH'allora ministro dell'Educazione nazionale Giuseppe 
Bottai. 


Vili 


Stona della lingua italiana 


Introduzione 


IX 


civiltà italiana, preparando così, di lontano, materiali e argomentazio- 
ni per quella che sarà la tesi del suo «primato» in Europa: tale appare, 
per esempio, il capitolo «Lingua» nel Risorgimento d’Italia (parte II, 
capo I) di S. Bettinelli (1775). Gli incunaboli settecenteschi della storia 
della lingua italiana trovano insomma il loro baricentro in motivazioni 
assai distanti dal nostro tempo: in particolare nel desiderio di una 
piena legittimazione del nostro idioma di fronte al temibile dilagare del 
francese, che pareva ormai travolgere ogni difesa frapposta dalla 
nostra lingua, la «langue douce, sonore, harmonieuse» (Rousseau) di 
Petrarca, Ariosto e Tasso. Naturalmente in quest’epoca dire «lingua» 
significava ancora, in larga parte, dire «letteratura»; e per chi risiedeva 
e studiava o insegnava all’estero «letteratura italiana» significava 
inevitabilmente «letteratura in lingua italiana». È così che una settanti- 
na d’anni dopo la History del Baretti, il Foscolo compilò, ancora per un 
pubblico inglese, le sue lezioni, notevolmente più ampie, sulle Epoche 
della lingua italiana (1823-1825). L’animo nel frattempo era mutato: 
dalla difesa di fronte al francese si era passati alla sicura affermazione 
della lingua come contrassegno ineludibile di identità nazionale: «Ogni 
nazione ha una lingua», affermava il Foscolo in una lezione pavese del 
1809, «Ogni letterato deve parlare alla sua nazione con la lingua 
patria» 2 . E a lungo si sognò, nel rifiorimento romantico della medievisti- 
ca, di una storia che, seguendo a ritroso il sentiero della lingua | 

comune, superando le angustie regionali e municipali, attingesse le § 

origini della nazione e della civiltà nazionale: si accinsero a questo f 

compito, negli anni attorno al 1830, prima Giuseppe Grassi, e poi, dietro % 

il suo esempio, Cesare Balbo, senza peraltro giungere, né l’uno né f 

l’altro, a compiere i loro lavori 3 . Frattanto arrivavano in Italia i primi f 

echi dei nuovi indirizzi presi dalla linguistica storica in ambiente | 

germanico, e sul loro stimolo prendeva l’avvio, particolarmente a f 

# 

I 

2 Cfr. U. Foscolo, Lezioni, articoli di critica e di polemica (1809-1811}, ediz. crit. a g 

c. di E. Santini (voi. VII della Ediz. naz. delle Opere), Firenze 1933, p. 65. f 

3 In generale sulla viva e rinnovata aspirazione a una «Storia d’Italia» nella j 

prima metà dell’Ottocento cfr. B. Croce, Storia della storiografia italiana nel 3 

secolo decimonono, Bari 1930 2 , cap. V. Della incompiuta storia della lingua | 

italiana del Grassi solo ora si è ritrovato il manoscritto: cfr. Cl. Marazzini, La | 

linguistica di Manzoni, in Liceo linguistico «Cadorna» - Facoltà di Lettere - p 

Cattedra di Letteratura italiana A dell’Università di Torino, Manzoni e l'idea di | 

letteratura, Torino 1987, pp. 59-66, a p. 63; su essa cfr. C. Balbo, Pensieri ed esempi 1 

con l’aggiunta dei Dialoghi di un maestro di scuola, Firenze 1854, p. 226 e segg., | 
che al ricordo del Grassi e della sua opera fa seguire un suo interrotto abbozzo di I 
storia della lingua italiana (rifluito poi e ampliato in alcune sezioni del Sommario 1 
della Storia d’Italia del 1846). 1 

Si ricordino anche le parti dedicate alla lingua in opere quali la Storia della 1 

Toscana di Lamberto Pignotti (1813-1814), in bilico tra storia regionale e storia | 

nazionale. Riflessioni più aperte e penetranti proponeva qualche anno dopo Gino | 

Capponi nelle Lezioni sulla lingua italiana (1827-1835: la quarta e ultima è peraltro I 

perduta), che preparavano da lontano gli excursus linguistici della sua tarda | 

Storia della Repubblica di Firenze (1875). § 


Milano, per opera precipua di B. Biondelli e di C. Cattaneo, in quel 
vivacissimo laboratorio scientifico che fu la rivista «Il Politecnico», 
diretta dal Cattaneo stesso, quell’indagine rigorosa sull’origine e gli 
sviluppi degli idiomi dialettali italiani e sul loro complesso rapporto 
con la lingua comune, che portò alla formazione di studiosi quali G. I. 
Ascoli e al costituirsi di una scuola italiana di glottologia 4 . 

Suggestioni letterarie, polemica antifrancese, aspirazioni nazionali, 
nuovi metodi glottologici: tutto un complesso di fermenti culturali, che 
accompagna le vicende risorgimentali nel fervido clima sette-ottocente- 
sco, e che sembrò più volte sul punto di dare all’Italia, accanto a ima 
storia politica e civile e a ima storia letteraria, anche una storia della 
lingua. Ma non si riuscì che a produrre, per allora, se non frammenti, 
abbozzi, ricerche d’occasione o di dettaglio. Del resto il panorama 
italiano non si diversificava molto, per questo aspetto, da quello 
europeo: la storia della lingua non trovava ancora una sua sicura 
ubicazione, divisa com’era tra le descrizioni della storia letteraria e i 
nuovi schemi metodici della linguistica storica 5 . 

Negli ultimi decenni del secolo, fondata l’Italia e fattosi più pacato il 
clima dell’indagine storica, ci si rendeva ben conto che una storia della 
lingua italiana restava ancora nel limbo delle aspirazioni «Chi pensi 
gl’importanti lavori fatti da parecchie nazioni sulle lingue e i dialetti», 
scriveva il De Sanctis nel 1869, recensendo le prime Lezioni di 
letteratura italiana del Settembrini, «maraviglierà come in Italia, dove 
questi studi ebbero origine, stiamo ancora disputando se la lingua dee 
prendersi da’ vivi o da’ morti, e quale sia una forma di scrivere italiana, 
e niente ancora abbiamo che rassomigli ad una storia della nostra 
lingua e de’ dialetti, dove siano rappresentate le varie forme, che la 
lingua e il periodo ha prese nelle diverse epoche» 8 . Le aspirazioni 
peraltro non venivano meno; ma non veniva meno neanche la coscien- 
za delle grandi difficoltà da superare. Scriveva il romanista Pio Rajna, 
verso la fine del secolo, al collega glottologo Carlo Salvioni: «Tra i 
disegni che vagheggio ci sarebbe poi anche una storia della lingua 


4 Su ciò si veda compendiosamente B. Biondelli e la linguistica preascoliana 
di D. Santamaria (Roma 1981), di cui è stato pubblicato finora soltanto il primo 
volume. Contributi fondamentali sulTargomento si trovano peraltro in S. Timpa- 
naro, Classicismo e Illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa 1969, spec. nella 
sezione su «Carlo Cattaneo e Graziadio Ascoli» (p. 229 e segg.). 

5 Per questa posizione ancora incerta della storia della lingua nel corso 
dell’Ottocento si vedano i primi paragrafi del saggio di Alberto Varvaro, Storia 
della lingua: passato e prospettive di una categoria controversa (ora nel libro dello 
stesso Varvaro, La parola nel tempo. Lingua, società e storia, Bologna 1984, pp. 
9-77): al saggio del Varvaro, uscito la prima volta in Romance Philology nel 1972-73 
e fondamentale per il nostro tema, avrò occasione di rinviare ancora nel corso di 

' queste pagine. 

0 Verso il realismo. Prolusioni e lezioni zurighesi sulla poesia cavalleresca, 
frammenti di estetica, saggi di metodo critico , a c. di N. Borsellino, Torino 1965, pp. 
316-317. 


X 


Storia della lingua italiana 


italiana; ma Dio sa se sarà mai eseguito!» 7 . Per l’immediato il disegno j 
di una storia della lingua italiana non ebbe in effetti pratica attuazio- f 
ne. Dominava nel settore degli studi fìlologico-linguistici, l’idea, portata .] 
dal comparativismo, che la storia della lingua coincidesse sostanzial- 
mente con la storia delle sue origini. In particolare, la storia dell’italia- 
no si inseriva, per una parte, in quella largamente congetturale delle \ 
origini romanze (e il comparativismo romanzo ci dette allora la prima 
grammatica storica specifica dell’italiano: quella del Meyer-Lubke del 
1890); d’altra parte, appena spuntavano i primi notevoli monumenti 
letterari, la storia della lingua sfociava nella storia letteraria e 
s’intrecciava inestricabilmente con essa. La stessa Storia della lettera- 
tura italiana del De Sanctis si apriva su queste premesse (cfr. il cap. I), 
ribadite qualche tempo dopo, autorevolmente, da B. Croce, per il quale 
«la Storia delle lingue nella loro realtà vivente, cioè la storia dei 
prodotti letterari concreti» era «sostanzialmente identica con la Storia 
della letteratura » 8 . 

Fuori d’Italia tuttavia, particolarmente in Francia, paese che da 
sempre intratteneva legami culturali strettissimi con l’Italia, stavano 
venendo alla luce orientamenti diversi, che dovevano giungere a 
indicare strade nuove e più praticabili per costruire una vera storia 
della lingua e delineare compiutamente gli spazi ad essa pertinenti. 
Secondo questi orientamenti (ispirati a correnti sociologiche come 
quella di E. Durkheim, di cui sono noti i contemporanei influssi sul 
Saussure) la storia della lingua non era, o non era soltanto, storia più o 
meno congetturale delle origini e della preistoria, non storia letteraria, 
ma la storia, vista da un particolare angolo visuale, della società stessa 
che di quella lingua si serviva per esprimersi e comunicare. «Le 
langage», affermava nel 1906 il più rappresentativo dei nuovi maestri 
francesi, Antoine MeiUet, «est éminemment un fait social» e «du fait 
que le langage est une institution sociale, il résulte que la linguistique 
est une Science sociale, et le seul élément variable auquel on puisse 
recourir pour rendre compte du changement linguistique est le change- 
ment social dont les variations du langage ne sont que les conséquen- 
ces parfois immédiates et directes, et le plus souvent médiates et 
indirectes » 9 . Una concezione dunque dagli orizzonti vasti come quelli 
della società cui la lingua è inscindibilmente integrata. Il Meillet dava 
subito un esempio memorabile di questa sua concezione neWApergu 
d’une histoire de la langue grecque (1913): e intanto un suo connaziona- 
le, Ferdinand Brunot, aveva inaugurato nel 1905 una monumentale 


7 Carteggio Rajna - Salvioni, a c. di C. Sanfilippo, Pisa 1979. p. 69: la lettera del 
Eajna è del 31 maggio 1891. 

8 Estetica come scienza dell'espressione e linguistica generale , Bari 1958“, p. 162 
Qa prima ediz. dell’Estetica è, com’è noto, del 1902). 

9 Linguistique historique et linguistique générale , Paris, voi. I, 1975 (1“ ediz. 

1921), pp. 16-17. 


Introduzione 


xi 


Histoire de la langue frangaise, che, nel periodo pluridecennale della 
sua elaborazione, doveva orientarsi sempre più verso lo studio del 
nesso tra lingua e società, ricostruendo ampiamente e dettagliatamen- 
te (dodici tomi in venti volumi fino al 1815!) la storia linguistica di un 
paese moderno, che era stato e continuava ad essere il perno delia 
civiltà europea 10 . 

Emancipandosi la storia della lingua e sviluppandosi il grandioso 
nrogetto di Brunot, si faceva ancora più acuta in Italia l’esigenza di 
una storia della lingua nazionale. Lo stesso Migliorini, già m anni 
giovanili, dava voce a questa esigenza. Ha ricordato recentemente G. 
Folena che, segnalando «nel ’23 il volume del Sorrento sulla diffusione 
della lingua italiana in Sicilia e quello della Schileo sul Bembo e le sorti 
della lingua nazionale nel Veneto..., [Migliorini! apriva il discorso con 
aueste parole...: “Una storia della lingua italiana analoga a quella che 
hanno dato per il francese il Brunot e il Vossler sembra destinata a 
rimanere per un pezzo un pio desiderio-, ma intanto in questi ultimi 
anni non sono mancate le ricerche che ne costituiranno 1 indispensabi- 
le sostrato”» 11 . Col senso di realismo, che lo caratterizzerà per tutta la 
vita e che lo manterrà ugualmente distante dagli orientamenti ideali- 
stici crociano-vossleriani e dai vari schematismi del tardo comparativi- 
smo (il suo pr im o cospicuo approdo scientifico, il trattato Dal nome 
proprio al nome comune, del 1927, studiava l’origine di parole usuali 
nate dalla generalizzazione di singoli e concretissimi fatti biografici), il 
giovane studioso misurava le enormi difficoltà dell impresa e si 


10 VHistoire di Brunot fu continuata da Ch. Bruneau, con un altro tomo (il 
XIII), che la condusse fino al 1880 circa; recentemente è uscito il; pruno di tre tomi 
che dovranno portare la trattazione fino ai giorni nostri: cfr. Hist. de la Langue 
frane. 1880-1914, sous la direction de G. Antoine et R. Martin, Paris 1985. 

È da notare che i due volumi del tomo XI, lasciati mediti da Brunot, sono sta 
pubblicati a cura di J. Godechot il primo e di G. Antoine il secondo, m epoca 
relativamente recente, rispettivamente nel 1969 e nel 1979 ®runot era morto nel 
1938). Particolarmente interessanti sono le riflessioni "P? rt D,^ not 

appendice al secondo di questi due volumi postumi (p. 349), m cui Brunot 
ripercorre il lungo itinerario seguito nel comporre 1 Histoire: dagli inizi m cm 
storia della lingua gli appariva «delle qu’elle etait apparue à ses maitres, cest-à 
dire composée de l'histoire des sons, des mots, des formes et des tours, de lem 
formation de leur évolution, de leur disparition» fino all intuizione finale che essa 
dovesse penetrare «dans l’histoire tout court», poiché, «maniee avec cntique, 
l'étude du langage peut apporter à l'histoire des documents partiels, 
innombrables, et quelquefois de précieux éclaircissements». 

11 L'opera di Bruno Migliorini nel ricordo degli allievi con una bibliografia aei 

suoi scrìtti a cura di M.L. Fanfani, Firenze 1979, p. 10. Questo volume che si 
riallaccia all’altro: B. Migliorini, Saggi linguistici Firenze 1957 f’ff 

una bibliografia degli scritti miglioriniani fino al 56 curata da G. Folena) e uno 
strumento indispensabile per ripercorrere le tappe della camera scientifica di 
Migliorini. Il brano citato sopra è tratto dal primo dei saggi commemorativi 
scritto da G. Folena, La vocazione di B. Migliorini: dal nome proprio 
comune, pp.1-16, a p. 10: ad esso avremo occasione di attmgere anche nelle pagine 

seguenti. 


Storta delta lingua italiano 


Introduzione 


XIII 


affidava, per allora, a ricerche preparatorie di raggio limitato. Eppure, 
osserva ancora Folena, queste parole «dovevano valere per lui già 
come un programma personale», sia pure «troppo vasto e ambizioso 
per essere proclamato» apertamente 12 . In effetti da allora comincia, se 
non era già cominciata prima, quella schedatura di fenomeni della 
lingua italiana contemporanea, che, attraverso ima riflessione sempre 
più consapevole e approfondita (concretatasi nei saggi raccolti poi, per s 
gran parte, nei volumetti Lingua contemporanea, 1938, e Saggi sulla i 
lingua del Novecento, 1941), doveva costituire il punto d’awio per 
ripercorrere, a ritroso, le vie seguite dalla nostra lingua dalle origini | 
fino alle sue forme moderne. 

Che, dopo l’accenno del ’23, Migliorini non avesse interrotto, ma 
avesse anzi intensificato e approfondito i suoi interessi per una storia ì 
complessiva della lingua italiana, lo dimostrano, oltre le numerose | 
recensioni pubblicate in quegli anni (per lo più sulla «Cultura» di De 
Lollis), diversi importanti contributi successivi Intanto il saggio del ’32 * 

su Storia della lingua e storia della cultura 13 , primo schematico 
approccio alla grande opera. In esso Migliorini, dichiarando di voler | 
«considerare più dawicino il problema della formazione della lingua ;f 
comune italiana», nota che i «sussidi» che «la linguistica ha dato 
nelVultimo cinquantennio alla sua soluzione... sono piuttosto scarsi»; e 
aggiunge: «Se non si vuol torcere arbitrariamente il significato delle 
parole, è diffìcile trovare un problema che sia più schiettamente 
linguistico di questo-, eppure i linguisti ortodossi, i puri glottologi se ne 
lavano volentieri le mani, asserendo che questo è un problema storico 
o un problema letterario o un problema culturale e non un problema 
linguistico» (p. 11). Comincia quindi, per suo conto, a indicare alcuni di § 
quelli che dovranno essere i fondamenti essenziali per impostare - 
correttamente tale problema, primo fra tutti la denuncia dell’inadegua- 
tezza del mito, romantico e preromantico, «che solo il periodo delle 
origini abbia importanza»: se tale importanza va indubbiamente 
riconosciuta, osserva Migliorini, «non è detto che i fenomeni di età più J 
recente, sino a quelli che si svolgono sotto i nostri occhi, debbano 
perciò essere trascurati» (p. 16). Già in queste prese di posizione, lucide 5 
e decise, è in nuce l’opera futura; ed è sintomatico che, dopo altri 
notevoli interventi (fra cui è da ricordare quello su Dialetto e lingua i 
nazionale a Roma, che delinea in abbozzo, partendo da un caso tipico, 
il ruolo del toscano letterario nel processo di formazione della lingua i 
comune 14 ), a lui fosse affidata la rassegna sulla «Storia della lingua 


12 L'opera di B. Migliorini cit., ibidem. 

13 Apparso prima nella citata «Cultura», XI, 1932, pp. 48-60, e poi ristampato 
nella raccolta di scritti miglioriniani Lingua e cultura, Roma 1948, pp. 9-26: le mie 
citazioni provengono da questa ristampa. 

14 Apparso dapprima in «Capitolium» nel 1932, poi. Tanno dopo, in redazione 
ampliata, nella «Revue de linguistique romane», IX, 1933, pp. 370-38; quindi 
ristampato anch’esso in Lìngua e cultura cit., pp. 109-123. 


italiana» nel volume Un cinquantennio di studi sulla letteratura 
italiana. 1886-1936, pubblicato nel 1937 a cura della Società filologica 
romana e dedicato a Vittorio Rossi. 

Si era ormai al momento della sua chiamata alla cattedra fiorenti- 
na, e, con l’inizio del suo insegnamento di Storia della lingua italiana 
nella Facoltà di Lettere di Firenze, dal novembre del 1938, cominciava a 
maturare più concretamente il disegno dell’opera che vedrà la luce 
oltre vent’anni più tardi. Quasi contemporaneamente, dal gennaio 
1939 , prendeva l’avvio (condiretta con G. Devoto, che stava pubblican- 
do la sua Storia della lingua di Roma ) la rivista «Lingua nostra», che 
accompagnerà da vicino la lunga elaborazione della Storia. Già 
l’articolo d’apertura della rivista, dello stesso Migliorini, Correnti dotte 
e correnti popolari nella lingua italiana 15 , riprendeva e allargava i temi, 
affacciati nel ’32, sulle condizioni dello sviluppo storico dell’italiano: 
segno evidente che l’intelaiatura della Storia della lingua italiana 
andava precisando le sue linee essenziali. 

L’articolo ora citato si apriva su una presa di posizione che 
traduceva in termini più ampi ed espliciti alcune affermazioni del '32 
contrarie all’appiattimento della ricerca storico-linguistica su schemi 
naturalistici arbitrariamente identificati con un mitico livello popolare 
e primitivo della lingua (frutto di quella parte di eredità che l’età 
positivistica aveva filtrato attraverso il romanticismo). Non solo i 
«fattori culturali» non dovevano considerarsi elementi di disturbo nel 
funzionamento e nell’evoluzione delle lingue (cfr. Storia della lingua e 
storia della cultura cit., p. 17), ma era anzi venuto il momento (scriveva 
Migliorini) di affermare con chiarezza che dalla «linguistica a due 
dimensioni» si era passati «a una linguistica a tre dimensioni, in cui si 
tien conto, oltre che dello spazio e del tempo, della stratificazione 
sociale», cioè della società nel suo complesso: perché, se è legittimo e 
importante ripercorrere gli sviluppi di voci e forme di livello popolare e 
ereditario, «si fa tuttavia chiara ogni giorno di più la necessità di non 
trascurare le altre, le cui vicende non presentano minore interesse per 
il fatto che non il volgo, ma gli uomini di cultura le hanno conservate e 
reinstallate nella lingua. Se la linguistica tien conto in primo luogo 
dello strato popolare o addirittura plebeo, la storia della lingua deve 
tener conto di tutti gli strati sociali» (p. 29). Con quest’ultima contrappo- 
sizione (in cui per «linguistica» intendeva evidentemente, come aveva 
già indicato nel ’32, le riduttive dimensioni ad essa imposte dalle 
correnti dialettologico-naturalistiche) Migliorini apriva la storia della 
lingua a quella prospettiva in cui l’avevano immessa Meillet e Brunot, 
rivendicando per essa un dominio che la integrasse nella storia della 
società globalmente considerata, senza esclusioni di sorta. 


15 I 1939, pp. 1-8; poi ripubblicato in Lingua e cultura cit., pp. 27 46; anche in 
questo caso i miei rinvìi sono alla raccolta del '48. 


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xrv Storia della lingua italiana 1 

B 

Più si leggono e si meditano queste pagine, più ci si convince che | 
l’opera pubblicata vent’anni dopo, nel 1960, affonda le sue radici \ 
proprio in questi anni, nel decennio ’30-’40, che fu forse il più fecondo, 
intenso e raccolto dell’attività miglioriniana. Dopo quest’epoca verran- | 
no ancora dichiarazioni di principio e pronunciamenti vari sui proble- 
mi di fondo che man mano affioravano nella costruzione, lenta e 
paziente, della Storia. Se ne trovano, per esempio, nel lungo saggio 
sintetico «Storia della lingua italiana», uscito una decina d’anni dopo, 
nel 1948, neh volume miscellaneo Tecnica e teoria letteraria della 
Collana «Problemi ed orientamenti critici di lingua e letteratura 
italiana», pubblicata dall’editóre milanese Marzorati (pp. 177-229). Ma 
la fatica del raccogliere prima e dell’organizzare poi l’enorme massa di 
dati, predisposti per un lavoro di questa mole, prevalse nelle ultime fasi 
dell’elaborazione; e prevalse il timore di non riuscire a condurre a 
termine un’opera che si rivelava sempre più sterminata, e di non 
riuscire a concluderla e renderla pubblica per la data che Migliorini si 
era prefìssa e che aveva assunto per lui come un valore simbolico: il 
1960, l’anno in cui cadeva quello che lui, e altri con lui, considerarono e 
chiamarono il «millenario» della lingua italiana (essendo stata redatta 
nel 960 la «carta capuana», considerata il primo documento sicuro in 
un volgare italiano-, cfr. Storia, X, 8). 

Quando le considerazioni di fondo sulla struttura dell’opera riemer- 
gono, nella «Premessa» della Storia stessa, sono divenute assai più 
schematiche e strumentali: a volte colorite anche di un lieve scettici- 
smo, come di chi abbia superato una prova durissima, che ha scosso, se 
non le convinzioni fondamentali, un po’ della fiducia iniziale nelle 
dichiarazioni di principio e nella loro utilità. Si sa del resto che, l 
all’inizio, Migliorini aveva in mente un’opera più ampia, sull’esempio 
dell’Histoire di Brunot, anche se non della stessa mole, e che solo la 
constatazione che, per compiere una tale impresa, non gli sarebbe 
bastata la vita, lo indusse a ridurre il disegno primitivo entro imo 
spazio più limitato e, quindi, più denso e contratto. La breve «Premes- 
sa» si apre comunque sul tema iniziale dell’articolo del ’39, anche se nel 
frattempo le vicende e gli orientamenti della linguistica italiana ne 
hanno fatto spostare un po’ i termini. La storia della lingua deve ora 
difendere i suoi spazi d’indagine in primo luogo da una reincarnazione >' 
del vecchio idealismo crocianeggiante, cioè da quella che si chiamò a 
quel tempo «critica stilistica» ed ebbe il suo più noto portabandiera nel 
critico e linguista Leo Spitzer, le cui idee, per questo aspetto, si y 
diffusero in Italia prevalentemente nei primi dieci-quindici anni del f 
secondo dopoguerra 18 . Ritornava, sotto altra forma, quella commistio- f 
ne tra lingua e letteratura, tra creazione poetica e innovazione 


18 Sulla critica stilistica di matrice spitzeriana e sulla sua fortuna in Italia si 
può vedere, compendiosamente, il volume antologico L. Spitzer, Critica stilistica e 
storia del linguaggio, Bari 1954, curato da A. Schiaffini, che vi premise anche una 
illuminante e informatissima «Presentazione». 


Introduzione xv 

linguistica, che (come abbiamo visto) ha una tradizione molto antica e, 
particolarmente in Italia, assai fortunata. Per questo, presumibilmente, 
buona parte della Premessa miglioriniana è dedicata a riprendere il 
vecchio tema della distinzione tra storia della lingua e storia della 
letteratura, e, più in generale, tra lingua e letteratura, tra lingua e stile. 
Del resto fin dal 1923, dissociandosi dai crociani d’allora, Migliorini 
dichiarava: «L’effetto e il metodo dell’indagine letteraria e dell’indagi- 
ne linguistica, se non sono opposti, sono certo distinti...» 17 . Su questo 
abbrivio Migliorini riprende gli argomenti già affacciati nel ’32 e nel ’39, 
per riaffermare che, se è vero, da un certo punto di vista, che la realtà 
sono i «singoli atti di linguaggio concreto» e che «La lingua... non altro 
è che un’astrazione», è anche vero che gli «istituti» della lingua 
presentano obiettivamente ima continuità, di cui si può e si deve fare 
storia; e che, se non va sottovalutata «l’importanza che hanno sempre 
avuto gli individui nell’evoluzione della lingua», sarebbe d’altra parte 
errato «mettere al centro della trattazione i singoli letterati nella loro 
concreta personalità»: vero protagonista è l’insieme della società nella 
sua variata composizione e nelle sue molteplici esigenze espressive; 
vero protagonista è il «popolo» nel suo aspetto di entità complessiva, 
anonima, interindividuale (pp. 3-4). Ritorna qui, vista da un’altra 
prospettiva, la «terza dimensione» del saggio del ’39, e si conferma che 
il punto di riferimento essenziale, sul quale Migliorini ritiene si debba 
fondare l’identità e l’autonomia di una storia della lingua, è la società 
intera che la parla, o comunque se ne serve, senza limitazioni di sorta; 
e senza, d’altra parte, divagazioni verso finalità e obiettivi che non 
siano suoi propri. 

Principalmente per queste ragioni, quando comparve, nei primi 
mesi del 1960, la Storia della lingua italiana di Migliorini fu subito 
avvertita come una novità in assoluto nel panorama scientifico 
italiano: quell’aver individuato originalmente l’ambito proprio di una 
disciplina a lungo vagheggiata, ma ancora, si può dire, nuova, 
quell’averlo riempito di una quantità di dati enorme e, nella maggior 
parte, di prima mano rivelavano un aspetto della storia italiana fin 
allora non descritto se non incidentalmente o per frammenti; apporta- 
vano alla storia d’Italia come un fascio di luce nuova che serviva a 
metterne più chiaramente a fuoco momenti ed episodi rilevanti e a 
ridiscuteme la stessa linea complessiva di sviluppo. Era davvero, e tale 
fu giudicata da tutti, un’opera che veniva a colmare una lacuna tra le 
più vistose e sofferte. «Dopo il Profilo di storia linguistica italiana di G. 
Devoto (uscito nel ’53], che, come il titolo stesso indica, non è proprio la 
stessa cosa...», affermava uno dei più impegnati recensori, C. Dionisot- 


17 Cfr. «La cultura», II, 15.7.1923, p. 419: la frase si riferisce alle posizioni di G. 
Bertoni, che aveva appena pubblicato il suo Programma di filologia romanza 
come scienza idealistica (Genève 1923). 



XVI 


Storia della lingua italiana 


Introduzione 


XVII 


ti, «quella di Migliorini è la prima storia della lingua italiana su cui si 
siano posati i nostri occhi increduli» 18 . 

I rendiconti e le segnalazioni apparsi all’indomani della prima 
edizione dell’opera, in Italia e all’estero (Migliorini era considerato da 
tempo anche fuori d’Italia il più accreditato studioso della nostra 
lingua) furono numerosi e ne misero in rilievo adeguatamente l’impor- 
tanza fondamentale 19 . Presto il libro si diffuse e fu ampiamente 
conosciuto anche in molti paesi stranieri attraverso le traduzioni che 
ne fecero T.G. Griffith in inglese (1966 e edizz. successive) e Fr. P. de 
Alcantara Martinez, in spagnolo (1969). La Storia di Migliorini diventò 
un punto di riferimento essenziale per storici e linguisti italiani e 
stranieri. In Italia la sua influenza non si limitò agli strati elevati della 
cultura scientifica, ma, attraverso edizioni divulgative, ebbe una 
circolazione al livello del lettore medio, e s’affacciò anche nell’insegna- 
mento scolastico con l’edizione ridotta preparata in collaborazione con 
I. Baldelli e pubblicata nel 1964 20 , ben prima cioè che la riforma del ’77 5 

introducesse ufficialmente la storia della lingua italiana nella scuola 
media. f 

La Storia di Migliorini divenne subito quindi, nella sua imponente | 
struttura, opera di consultazione indispensabile e di indiscutibile 
prestigio. Tuttavia, fra le righe delle recensioni e degli interventi vari, si 
avvertivano a volte, fin d’allora, appena velati, atteggiamenti di 
riservata o recalcitrante ammirazione, da mettere in conto alla novità, f 
a suo modo non conformista, di questo libro tutto tramato di fatti, e di f 
fatti non addomesticati in alcun modo. In un momento in cui tornavano f 
a dominare le ideologie un’opera di questo genere in ima certa misura | 
disturbava. Forse sono queste le ragioni per cui, paradossalmente, se | 
nei quasi trent’anni che ormai ci dividono dalla sua prima apparizione 
la Storia di Migliorini ha avuto la fortuna e la diffusione che meritava, | 
non sembra avere avuto ancora una fecondità che sia pari al potenzia- | 
le scientifico in essa contenuto. Da una parte la «istintiva» e crescente § 
«ritrosia del Migliorini a impelagarsi in discussioni teoriche» (sottoli- I 
neata da uno dei più attenti recensori, P. Fiorelli 21 ) la ha estraniata | 
dalle prestigiosissime correnti di linguistica teorica che hanno ripreso f 
quota vigorosamente in Italia in questi ultimi venti anni 22 . Il clima in § 

fé 

18 La recensione di Dionisotti uscì dapprima in «Romance Philology», XVI, | 

1962-63, pp. 41-58; poi fu ripubblicata in C. Dionisotti, Geografia e storia della | 
letteratura italiana, Torino 1967, pp. 75-102, donde si cita (il passo riportato è in | 
apertura, a p. 75). § 

19 Se ne può vedere un elenco molto ampio nella preziosa bibliografia di M. | 

Fanfani contenuta nel volume cit. L’opera di B. Migliorini, a pp. 198-200. ;> 

20 B. Migliorini e I. Baldelli, Breve storia della lingua italiana, Firenze 1964. | 

81 «Studi linguistici italiani» I, i960, pp. 71-84, a p. 73. | 

82 A titolo solo approssimativamente indicativo si può ricordare che sono del sS 
1967 la traduzione del Cours de linguistique générale di F. de Saussure con ampio § 
commento a cura di T. De Mauro, e la traduzione degli Éléments de linguistique | 
générale di A. Martinet curata e adattata all'italiano da G.C. Lepschy (ambedue 1 


cui la Storia era nata e aveva messo le sue prime radici era tutt’altro, 
come abbiamo già osservato: in un periodo in cui risorgeva il culto 
della lingua come struttura in sé conclusa e anche diacronicamente 
autosufficiente (basti pensare alle cautele di un linguista di scuola 
francese come A. Martinet 23 ), era pressoché inevitabile che un’opera di 
questo genere, pervasa d’un sano e generoso empirismo, restasse, se 
non emarginata, non adeguatamente utilizzata e compresa. D’altra 
parte è vero che, parallelamente, altre correnti di linguistica, che, 
seppure in forme rinnovate, risalivano alle stesse fonti cui aveva 
attinto a suo tempo Migliorini, in particolare la ed. «sociolinguistica», 
riportavano in primo piano il nesso tra lingua e società, il loro 
reciproco condizionamento, i loro paralleli sviluppi 24 ; proprio da queste 
correnti derivava anzi nell’Italia di quegli anni un contributo di 
prim’ordine sulle ragioni e i problemi della storia della lingua quale è 
l’ampio saggio di A. Varvaro, Storia della lingua: passato e prospettive 
di una categoria controversa, pubblicato la prima volta nel 1972-73 25 . Ma 
la storia della lingua italiana, nelle sue manifestazioni più appariscen- 
ti, aveva ormai preso indirizzi che solo parzialmente si riallacciavano 
al gran testo miglioriniano e privilegiavano piuttosto questioni collega- 
te al lungo travaglio della società italiana per realizzare anche 
linguisticamente un amalgama reale fra le sue varie componenti: la 
resistenza dei dialetti di fronte all’espansione dell’italiano e i modi 
della diffusione di questo negli ambienti dialettofoni-, la presenza di un 
tipo di italiano parlato e popolare, spesso trascurato dagli studiosi e 
avversato dai grammatici; l’esistenza sul territorio politico italiano di 
min oranze alloglotte. Erano tutti temi in cui la ricerca linguistica si 
ricollegava scopertamente a motivazioni sociali, e anzi rischiava, a 


per i tipi dell’editore Laterza di Bari). Nel 1966 a Torino (ed. Einaudi) il Lepschy 
aveva intanto pubblicato il fortunato volumetto Linguistica strutturale. 

33 Per es. Economie des changements phonétiques. Traité de phonologie 
diachronique (Bem 1955), 6. 26: «... Les linguistes auront intérèt à distinguer, 
panni les facteurs dits extemes qu'on peut invoquer au moment où l’économie de 
la langue ne suffit plus, entre les facteurs linguistiques et les facteurs non- 
linguìstiques. Ces demiers sont ceux pour lesquels les amateurs manifestent ime 
prédilection qui devrait les rendre suspects aux yeux des linguistes sérieux...»-, 
Éléments de linguistique générale (Paris 1960), 6. 4: «... il est très difficile de 
marquer exactement la causalité des changements linguistiques à partir des 
réorganisations de la structure sociale et des modifications des besoins communi- 
catifs qui en résultent... L’objet véritable de la recherche linguistique sera donc, 
ici, l’étude des conflits qui existent à l’intérieur de la langue dans le cadre des 
besoins permanents des ètres humains qui communiquent entre eux au moyen 
du langage», ecc. 

M Per la diffusione della «sociolinguistica» in Italia è significativa la testimo- 
nianza di M. Cortelazzo, Avviamento critico allo studio della dialettologia 
italiana. I problemi e metodi, Pisa 1969, p. 139 e segg. Una ricostruzione a posteriori 
offre, fra gli altri, A.M. Mioni, Per una sociolingustica italiana. Note di un non 
sociologo, «saggio introduttivo» premesso a J.A. Fishman, La sociologia del 
linguaggio, Roma 1975, pp. 9-56, spec. a p. 12-14. 

“ Già citato sopra alla nota 5. 




XV1I1 


Storia della lingua italiana 



volte, di esserne addirittura travolta: il che giustifica la loro fortuna in 
questi ultimi due-tre decenni, che hanno visto verificarsi in Italia (come 
in gran parte del mondo) rivolgimenti sociali profondi. Alla nascita di 
questa problematica di storia, per così dire, «militante» dell’italiano la 
Storia di Migliorini ha partecipato, dobbiamo dire, solo marginalmente. 
Il libro che prima e più direttamente ne ha ispirato gli orientamenti e i 
contenuti è stata la Storia linguistica dell’Italia unita di Tullio De 
Mauro, uscita la prima volta nel 1963, e nata originariamente nel 1961, 
nel quadro delle celebrazioni per il centenario dell’unità politica 
d’Italia (lontana quindi, anche in ciò, dalla Storia di Migliorini, che 
aveva avuto, come s’è visto, fra i suoi stimoli quello di celebrare la 
ricorrenza di una data ben più remota: il «millenario» della lingua 
italiana 26 ). Per trovare uno studioso che si accinga a ripercorrere 
sistematicamente a ritroso la storia dell’italiano fino alle sue origini, a 
riprendere cioè il tema miglioriniano in tutta la sua ampiezza e con 
tutte le sue implicazioni (riproponendone, al tempo stesso, tutti i 
problemi e le difficoltà), bisógna aspettare fino al 1981, quando 
Marcello Durante nel suo volume Dal latino all’italiano moderno. 
Saggio di storia linguistica e culturale ? 7 ridisegnò, entro lo stesso 
quadro geografico e temporale miglioriniano, ma con più stretta 
sintesi, una sua linea interpretativa delle origini e degli sviluppi della 
lingua italiana 28 . 

A quasi trent’anni di distanza da quel 1960 in cui vide la luce, 
dopoché le varie e, a volte, tumultuose vicende che abbiamo appena 
schizzato qui sopra si sono susseguite entro l’orizzonte scientifico e 
culturale d’Italia, vediamo ora di riaprire questo libro di Bruno 
Migliorini, che proprio per la sua inattaccabile consistenza e solidità 
non appare affatto invecchiato e risulta ancor oggi il testo di storia 
della nostra lingua più ampio e affidabile cui professionisti e «amatori» 


26 Dopo la prima edizione (Bari 1963) la Storia di De Mauro ne ha conosciute 
una seconda, «riveduta, aggiornata e ampliata» (Bari 1970), e una terza, presso- 
ché immutata (Bari 1972); quasi identica a quest’ultima, salvo una breve 
«Avvertenza» (pp. xv-xvm), è l’ultima edizione pubblicata, sempre dall’editore 
Laterza di Bari, nel 1983. 

27 Pubblicato a Bologna dalla casa editrice Zanichelli. 

28 Tralascio qui, per brevità, di indicare altre «storie della lingua italiana» 
uscite nel frattempo, anche pregevoli e importanti per certi aspetti (penso, per es., 
al volume di F. Bruni, L’Italiano. Elementi di storia della lingua e della cultura, 
UTET, Torino 1984), ma sostanzialmente riportabili al panorama sopra descritto. 
Implicito è sempre il rinvio alle principali bibliografie di studi sulla lingua 
italiana uscite dopo il ’60, in particolare il primo (Firenze 1969) e secondo (Pisa 
1980) supplemento alla Bibliografia della linguistica italiana di R. A Hall jr., 
l'Introduzione allo studio della lingua italiana di Z. Muljacié (Torino 1971), i Dieci 
anni di linguistica italiana (1965-1975), a c. della Società di linguistica italiana 
(Roma 1977), ciascuna delle quali contiene una o più sezioni dedicate alla storia 
della Ungila. 


Introduzione 


xix 


' possano riferirsi in caso di bisogno o di curiosità e cerchiamo di far 

| affiorare da esso, sia pure per cenni necessariamente rapidi, quelle 

| potenzialità nascostevi dalla discrezione dello studioso-, cerchiamo 
insomma di offrire al lettore degli anni 80 e 90 una chiave di lettura per 
I penetrare in questo libro dall’accesso ingannevolmente facile e dalla 
ricchezza inesausta e, a volte, inapparente. 

§ Per introdurre il lettore contemporaneo dentro le pieghe del libro di 
v Migliorini, in modo che ne penetri i segreti e ne comprenda a pieno le 

linee costruttive, si deve innanzitutto esortarlo a dirigere la propria 
attenzione verso gli schemi in cui l’autore ha racchiuso la sua materia; 

\ schemi che appaiono spesso non dei più adatti a facilitare il cammino 
lungo il sentiero storico che nell’opera miglioriniana attraversa ima 
ventina di secoli. Anzitutto gli schemi di quella «che gli storiografi 
t chiamano col termine un po’ macchinoso di periodizzazione » (come 
scriveva Migliorini nel ’37, segnalando il neologismo). L’autore nella 
Premessa dichiara di aver optato per la «divisione convenzionale per 
| secoli», senza peraltro dare «alla data secolare altra importanza che 
quella di ima divisione comoda», che offre, nonostante gli inconvenien- 
§ ti, notevoli «vantaggi pratici» (pp. 5-6). In altre parole, l’urgenza di 

Ì stringere in una sintesi conclusiva gli sterminati materiali raccolti lo 

ha indotto a optare per una periodizzazione «esterna», per «epoche 
cronologiche», piuttosto che ricercare, all’interno della materia, una 
I periodizzazione, per cosi dire, immanente ad essa, «per epoche stori- 

1 che» (come avrebbe detto B. Croce). Ciò fa sì che la descrizione dello 

| sviluppo di singoli fenomeni o di singole vicende, il cui iter dura non di 

rado per secoli, sia continuamente interrotto e resti affidato al lettore il 
| compito di riannodare i fili rimasti pendenti. 

Per offrire un esempio, si può partire dal nome stesso della lingua, 
che solitamente non è una semplice etichetta esterna, ma riflette 
ì aspetti salienti della realtà sociolinguistica, come ha mostrato esem- 
plarmente A. Alonso nel suo Castellano, espafiol, idioma nacional 2S> . Per 
ciò che riguarda l’Italia e l’italiano, si parte da una situazione 
■ medievale, in cui, nonché la denominazione linguistica, neanche quella 
geografica è ben fissa (cap. IV, 3, p. 1 15); si attraversa poi un periodo in 
a cui dominavano ancora i nomi dei molteplici volgari, e soprattutto del 
I più prestigioso di essi, il «toscano» o «fiorentino» (cap. VI, 10, p. 196 e 
1 segg.; le eccezioni sono poche: fra esse spicca, singolarissima e 
| anticipatrice, quella di Dante col suo «vulgare latium » o «italico 

1 

| » Buenos Aires 1938 (2 a ed., «con adiciones y emniendas», ibidem, 1943). 

Osserva opportunamente N. Denison: «Language planners may care to note that 
| there seems to be an inbuilt psychological advantage in using for thè language 
variety selected as thè basis for a national standard a designation based on thè 
jf name of thè area or group over which its spread or consolidation is desired...», in 

| « Sociolinguistic Aspects of Plurilingualisin», negli Atti del Convegno « Internatio - 

§ nal Days of Sociolinguistics » (Roma, 15-17 settembre 1969), Roma, Istituto «Luigi 
I sturzo», S.d., pp. 255-278, a p. 274 n. 15. 



XX 


Storia dèlia lingua italiana 







volgare» o simili, cfr. cap. V, 2, p. 169 e segg.l; e si arriva, alla fine del | 
Quattrocento, a un momento in cui ormai «si adoperano promiscua- | 
mente e quasi indifferentemente i termini di volgare, fiorentino, fosca- | 
no, italiano », anche se italiano appare solitamente riservato a contesti f 
in cui si introduce «il confronto con altre lingue vive» (cap. VII, 6, p. | 
244 F°. La vera disputa sul nome della lingua, come tutte le altre più | 
sostanziali di cui essa è il riflesso, si apre nel Cinquecento, quando il | 
nome più frequente rimane ancora «quello di volgare, lingua volgare...», | 
ma parecchi «parlano di toscano, lingua toscana...-, e si tratta sia di § 
Toscani sia di non Toscani fautori della lingua trecentesca»; raro è | 
« lingua fiorentina...; e anche piuttosto raro lingua italiana...» (cap. Vili, 

8, p. 328). La tendenza continua nel Seicento, quando, «benché le 
designazioni di ‘fiorentino’, ‘toscano’, ‘italiano’ appaiano tutte e tre, la 
seconda è di gran lunga predominante, adoperata qualche volta anche 1 
da chi non accetta la disciplina della Crusca» (cap. IX, 9, p. 414). I 
Evidentemente un fatto politico, la costituzione del Granducato medi- § 
ceo, e un fatto linguistico sopraregionale, la consacrazione e la f 
codificazione del toscano trecentesco come lingua letteraria di dimen- § 
sione panitaliana, hanno favorito la denominazione toscano (che, fatte f 
le debite proporzioni, ha un valore simile a quella di castellano in 
Spagna). Nei secoli successivi, e soprattutto nel corso dell’Ottocento, § 
l’insofferenza per la vecchia disputa sulla lingua si fa sempre più I 
acuta, man mano che all’idea di ima lingua letteraria attinta ai maestri ; 
toscani del Trecento si va sostituendo l’idea di una lingua che rifletta 
l’unità nazionale italiana. È il periodo, ha osservato recentemente G. § 
Bollati, in cui «‘italiano’ cessa di essere unicamente un vocabolo della I 
tradizione culturale, o la denominazione generica di ciò che era g 
compreso nei confini della penisola, per completare e inverare il suo | 
significato includendovi l’appartenenza a una collettività etnica con g 
personalità politica autonoma» 31 . Da allora in poi la denominazione § 
lingua italiana prende decisamente il sopravvento: «Giacché il destino | 
dopo la caduta dell’imperio di Roma non ha mai conceduto all’Italia di | 
risurgere in ima sola nazione...», dichiarava Alessandro Verri nel 1806, | 

«sia almeno congiunta nella lingua letteraria. Per la qual cosa | 
spregiando quelle controversie puerili se le convenga il nome di f 
Fiorentina, di Toscana, o d’italiana, riserbiamole quest’ultima denomi- f; 
nazione» 32 . Fra gli stessi puristi, ancora asserragliati in genere nella 1 

1 

1 

30 Un ampio panorama suH’origine delle denominazioni dei vari idiomi § 

romanzi ed europei traccia G. Folena, «Textus testis-, caso e necessità nelle origini K 
romanze», in AA.W., Concetti, storia, miti e immagini del Medio Evo, a c. di V. | 
Branca, Firenze 1973, pp. 483-507. E 

31 Nel saggio «L’Italiano», raccolto ora nel volumetto di Bollati, L'Italiano. Il | 

carattere nazionale come storia e come invenzione, Torino 1983, pp. 34-123, a p. 43 | 

(ma si ricordi che originariamente questo saggio era stato pubblicato nel voi. 1 | 

della Storia d'Italia, Einaudi, Torino 1972, pp. 949-1022, di cui diremo fra poco). I 

32 I quattro libri di Senofonte dei Detti memorabili di Socrate. Nuova traduzio- | 


Introduzione 


xxi 


trincea delle vecchie denominazioni («Da’ Toscani...» osserva il . Cesar * 
Sf 1808 «si derivò e distese per tutta Italia il buon linguaggio, che 
cupidamente ci fu ricevuto: di che conseguita, che questa lmgùa non 
nnò altro che impropriamente, chiamarsi italiana»), comincia a 
SSo a tastouarsl U dubbio («... innanzi dovrebbe essere sufficiente, 
mente conosciuto il toscano o italiano che voglia chiamarsi..», scnve. 
Ranalli una quarantina d’anni dopo), e, nei piu impegnati politicarne 
te come rAngeloni, s’impone addirittura fin dall inizio la preferen a 
ner italiano (o, più ricercatamente, italico!*. Basta scorrere ì capP-XIe 
Xii della Storia di Migliorini (in particolare ai paragrafi, nsp ®^ 1 J a ™ e 1 ? 

6 7 9 e 8, 9) per rendersi conto dei decisivi progressi della 
denominazione oggi esclusiva. Da quando poi dalla .frammentazione 
noUto^sf pafsa Tn’unità d’Italia (cap. XII della Sformi i il vecchio 
termine diventa del tutto obsoleto (assai piu di guanto non sia 
accaduto a castellano, per continuare il paragone iberico), e all inizio 
del nostro secolo non si ritrova che, del tutto sporadicamente m 
nualche ritardatario o in qualche scrittore periferico (per es. Italo 
Svevo nella Coscienza di Zeno-. «Egli parlava il toscano con grande 
naturalezza», «Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo!», ecc ). 
Al di là della suddivisione in capitoli «secolari», si possonosegmre 
bene come si vede, le varie fasi di un fenomeno storico-linguistico non 
secondario: dal periodo del plurilinguismo vol S a ^ e ^rdomechevale a 
quello del «toscano» rinascimentale, fino a quello dell italiano, che 

contraddistingue l’epoca contemporanea. 

Altrove basta scorrere appena i titoli dei paragrafi, per capire che 
qualcosa di nuovo sta accadendo nel quadro sociale e culturale eh 
condiziona lo sviluppo dell’italiano. La struttura di quei capitoli c 
costituiscono la parte più organica e propria della Stona dal IV-Vi 
poi, ripete solitamente un cliché in larga misura prevedibde^ Osservare 
in esso una variazione, vale a dire un paragrafo o una titolatura nuova, 
è indizio che qualcosa di importante si è mosso nelle vicende della 

lingua. 

ne dal greco di Michel Angelo Giacomelli con note e variazioni di A.V., Brescia 

1806 j 3 Por Cesari cfr al cap IX della sua Dissertazione sopra lo stato presente 

della lingua italiana, scritta nel 1808, «coronata» nel 1809 * 'SS ‘"raccolti' 
nel 1810 Qa mia cit. è tratta da Opuscoli linguistici e letterari diA.C.,i raccolti, 
ordinati e illustrati ora per la prima volta da G. Gmdetti Reggio ^ 

173). D er il Ranalli Del riordinamento d'Italia, Firenze 1859, p. 157; per 1 Angelom si 
può vedere per esempio, Dell'Italia uscente il settembre del 1818. Ragionamenti IV 
P^rim 1818 voi II p 30Ò. I dubbi avevano finito del resto per insinuarsi anche 
nella mente del Cesari come risulta dalla nota del Guidetti al passo citato sopra. 
cfr U anche, su ciò, S. Timpanaro, Aspetti e figure _deUa 

1980 n 159 e n 18 Sulle discussioni che formano il sostrato di questa disputa sui 
nome deTa tagìia Riforma esaurientemente M. Vitale. La questiona della lingua, 
Palermo 1984, passim, e in particolare per 1 Ottocentop 345 e se Kg- 

« Cito dalla quattordicesima ediz., Milano, s.d., pp. 131 e 445-, la prima ediz. e 
(com’è noto) del 1923. 



xxn Storia della lingua italiana 


Fino al Quattrocento, per esempio, si parla di volgari, e il toscano è § 
uno fra essi, il più prestigioso. Dal Cinquecento l’etichetta cambia: si % 
parla (cap. Vili, 7) di «Uso letterario dei vernacoli»; ed è questa una § 
formula di transizione a quelle che figurano nei capitoli sul Seicento | 
QX, 7): «Uso effettivo e uso riflesso dei dialetti», e sul Settecento (X, 9): | 
«Uso scritto dei dialetti». È questo il periodo in cui la lingua comune si | 
è anche grammaticamente consolidata, e si può configurare per la | 
prima volta in modo netto un’opposizione tra essa e i vecchi volgari 
ormai divenuti dialetti 35 : dialetti, si deve subito aggiungere, dotati : 
ancora di una vitalità e di un prestigio letterario e, talora, sociale per 
niente trascurabile, in un’Italia che appariva (secondo le parole del f 
Goldoni) un «amabile paese», la cui «bellezza» e la cui «bontà trovasi f 
sparsa e divisa in mille parti» (di fronte a una Francia, dove tutto «il -f 
bello, tutto il buono... è a Parigi») 38 . Scorrendo la Storia di Migliorini ] 
non ci si deve insomma adagiare sulla troppo palese ripetitività dei | 
clichés ; quando una novità vera insorge, Migliorini è sempre pronto a f 
segnalarla in forma estremamente semplice, senza preamboli o «cica- i 
lamenti», secondo il suo stile, magari con un piccolo, quasi impercetti- § 
bile mutamento di schema. A un certo punto, per fare un altro esempio, g 
precisamente dal Settecento (cap. X) in poi, si osserva che nello schema f 
usuale si inserisce un paragrafo dal titolo nuovo, che si mantiene poi i 
fino alla fine del libro: il paragrafo dedicato alla «lingua parlata» (cap. | 

il 

” È d’ obbligo il rinvio al saggio crociano del ’26 La letteratura dialettale | 
riflessa, la sua origine e il suo ufficio storico, citato anche da Migliorini (pp. 293 n. £ 
75, 391 n. 55). Ultimamente due studiosi, M. Alinei, Dialetto.- un concetto rinasci- § 
mentale fiorentino. Storia e analisi in «Quaderni di semantica». II, 1981, pp. 147-173 
(poi in Id., Lingua e dialetti: struttura, storia e geografia, Bologna 1984, pp. 169-199) e % 
P. Trovato, « Dialetto » e sinonimi (« idioma », « proprietà », «lingua») nella termino- | 
logia linguistica quattro-cinquecentesca, in «Rivista di letteratura italiana», II, 3 
1984, pp. 205-236, ricostruendo la storia moderna del termine «dialetto», hanno t 
portato interessanti precisazioni su questo momento di passaggio dal volgare 
medievale al dialetto moderno. | 

M II brano di Goldoni è tratto da ima sua lettera al conte A. Paradisi del 
28.3.1763 da Parigi: cfr. C. Goldoni, Opere, a c. di G. Folena con la collaborazione di 
N. Mangini, Milano 1975 4 , pp. 1503-1504, a p. 1504. Osservazioni analoghe del il 
Bettinelli, che magnificano il policentrismo italiano (con sottintesa ^polemica | 
verso l’accentramento francese) sono citate dal Migliorini stesso a p. 435 n. 2. g 
Sulla vitalità dei dialetti e sul loro fecondo rapporto con la lingua nell’Italia di | 
questo periodo mancano ancora studi d’assieme sufficientemente approfonditi: si f 
possono citare, esemplarmente, l’ediz. Isella del Teatro milanese di C.M. Maggi J 
(Torino 1964), e i saggi attinenti nella silloge di G.P. Clivio, Storia linguistica e | 
dialettologia piemontese, Torino 1976. Sulle prese di posizione antagonistiche di 3 
vari idiomi regionali di fronte alla supremazia del «toscano» si veda intanto il g 
panorama di M. Vitale, Di alcune rivendicazioni secentesche della « eccellenza » dei f 
dialetti, in AA.W., Letteratura e società. Scritti di italianistica e di critica letteraria | 
per il XXV anniversario dell’insegnamento universitario di C. Petronio, Palermo | 
1980, pp. 209-222, ricordando peraltro che questo atteggiamento continua a lungo, g 
e raggiunge forse il suo momento di maggior prestigio sociale nel corso del | 
Settecento. I 


Introduzione xxiu 


X, 4, capp. XI, 5 e XII, 5). È il segnale, inviato discretamente al lettore, 
che da quell’epoca in poi cominciano a farsi consistenti le testimonian- 
ze di ima diffusione della lingua comune a livello parlato (prima d’ora 
non erano affiorati che indizi sparsi: cfr., per es., p. 300 n. 61): una 
diffusione che si attua per gradi, attraverso quelle varietà idiomatiche 
ibride, fatte di lingua mescidata a dialetto, che il Foscolo chiamerà 
italiano «mercantile» e «itinerario» e il Manzoni «parlar finito», e che 
rappresentano gli antecedenti di quelle che oggi si chiamano solita- 
mente «varietà regionali d’italiano» e rappresentano un punto di 
passaggio quasi obbligato per giungere all’uso parlato e colloquiale 
dell’italiano. È questo, così sobriamente segnalato dal Migliorini, imo 
dei processi fondamentali della lingua italiana moderna e contempora- 
nea: il processo attraverso il quale una lingua, nata come una lingua 
degli scrittori, soppianta a poco a poco gli idiomi dialettali nel loro 
ruolo di lingua materna, e diventa quella che il Manzoni chiamava una 
lingua «vera» e «intera». E tutto porta a supporre che i dati esibiti dal 
Migliorini non siano casuali: che cioè veramente nel secolo XVIII, per 
molte ragioni concomitanti, questo processo abbia conosciuto, se non 
proprio i suoi primi incunaboli, una accelerazione decisiva che ha 
condotto alla situazione odierna 37 . 

Già da queste poche e sparse osservazioni, tendenti a riannodare 
fili ripetutamente interrotti nel corso della Storia e a fame percepire al 
lettore la mobile continuità, ci si può rendere conto non solo della 
molteplicità di linee interpretative latenti negli schemi della trattazio- 
ne miglioriniana, ma anche della possibilità di inquadrare l’enorme 
quantitativo di materiali sistemati entro quegli schemi in una vera 
periodizzazione storica che renda più trasparente e agile la lettura. 
Proposte di periodizzazione della storia della lingua italiana erano già 
state avanzate per la verità anche prima del 1960, ed era forse aperta a 
Migliorini la possibilità di saggiarne, almeno parzialmente, la pratica- 
bilità 38 . Se si decise a ripiegare sulla periodizzazione cronologica, lo si 


31 Sulle varietà regionali d’italiano e sulla loro importanza per l’accesso alla 
lingua comune un contributo decisivo fu quello di G.B. Pellegrini, Tra lingua e 
dialetto in Italia, in «Studi mediolatini e volgari». Vili, 1960, pp. 137-153 (ora 
leggibile anche, con un’«Appendice», nella raccolta di scritti di Pellegrini, Saggi 
di linguistica italiana. Storia, struttura, società, Torino 1975, pp. U-54), Di lì a poco 
T. De Mauro nella Storia linguistica dell’Italia unita cit. riprese e svolse molto più 
ampiamente il tema, dando l’avvio a innumerevoli interventi sull argomento. 
Sulle dimensioni assunte dalla progressiva acculturazione dei dialettofoni all’ita- 
liano dall’Unità in poi, in particolare in questi ultimi decenni, cfr. ora, riassuntiva- 
mente, il saggio di L. Còveri, Lingua nazionale, dialetti e lingue minoritarie in 
Italia alla luce dei dati quantitativi in «Linguaggi», II, 1985, fase. 3, pp. 5-13. 

38 Spunti preziosi in tal senso si trovavano, per es., in P. Fiorelli, Storia 
giuridica e storia linguistica, in «Annali della storia del diritto», 1, 1957, pp. 261-291; 
e in G. Folena, L'esperienza linguistica di C. Goldoni, in «Lettere italiane», X, 1958, 
pp. 21-54, a pp. 21(-23) n. 1 (ora in Id., L’italiano in Europa. Esperienze linguistiche 
del Settecento, Torino 1983, pp. 89-132, a pp. 113-115), che rinvia al saggio del Fiorelli: 
si osservi peraltro che ambedue gli articoli si situano in un’epoca in cui la Storia 



XXIV 


Storia della lingua italiana 


Introduzione 


xxv 


deve probabilmente, oltre che all’urgenza dell’elaborazione, alla volon- 1 
tà, tipicamente miglioriniana, di non dissimulare al lettore alcuna delle I 
sue schede, di non barare con lui in alcun modo, di non nascondergli | 
alcun dato obiettivo in suo possesso, sacrificandolo a visioni soggetti- I 
ve, che potevano rivelarsi anche illusorie e fallaci. I 

Si deve poi aggiungere che il problema della periodizzazione, se è g 
sempre delicato per qualsiasi storico, diviene particolarmente arduo | 
per lo storico della lingua, la cui materia si presenta per lo più percorsa I 
e come divisa da una bipartizione in storia « esterna» e storia «interna» g 
(o come, forse più propriamente, si potrebbe chiamarle: storia sociocul- | 
turale e storia strutturale): due aspetti, ciascuno dei quali appare f 
regolato da ritmi propri, spesso non riconducibili, almeno a prima | 
vista, gli imi agli altri 39 . Migliorini si era posto questo difficile problema | 
prima di cominciare a organizzare e a stendere il suo testo, negli anni | 
deirimmediato dopoguerra (si ricordi che, per sua stessa testimonian- | 
za, la redazione vera e propria della Storia cominciò nel 1949: cfr. § 
Premessa, p. 3), e lo aveva risolto col suo solito sereno buon senso, | 
riconoscendo con onestà e acutezza che una tale bipartizione «è | 
veramente un po’ arbitraria»: «un ideale ordinamento spingerebbe g 
piuttosto a far sparire questa dicotomia, e a cercare le cause dei I 
mutamenti che man mano avvengono nelle vicende a cui la lingua i 
soggiace»; ma, aggiungeva subito, «se una certa corrispondenza tra § 
vicende esterne ed aspetti della lingua indubbiamente esiste, non è così | 
immediata e perspicua da potersi stabilire in ogni caso»; e per questo | 
decideva di mantenere la distinzione e lo schema dicotomico sia nella g 
sua trattazione sommaria del ’48 (cui abbiamo già fatto riferimento e g 
da cui abbiamo tratto queste affermazioni 40 ), sia in quella, ampissima e | 
distesa, della Storia. In quest’ultima, nella parte più nuova e originale I 
cui accennavamo poco fa, dal Duecento in poi, è possibile osservare I 
senza sforzo entro ciascun capitolo la forma dicotomica della trattazio- I 
ne. Dopo una serie di paragrafi dedicati alla vita dei volgari, al loro | 
prestigio, al crescere della lingua comune, ai suoi contrastati rapporti | 


doveva essere ormai in uno stadio di avanzata elaborazione. Ulteriori indicazioni 
bibliografiche in proposito per il periodo posteriore al i960 offre ì. Muljació nella 
Introduzione allo studio della lingua italiana cit., 2. 221 (pp. 299-300). 

39 Su questo particolare problema di storiografia linguistica si veda, a titolo 

indicativo, A. Varvaro, La storia della lingua: passato e prospettive di una 
categoria controversa cit., pp. 26-27; e inoltre il commento di T. De Mauro alla sua 
ediz. italiana pure cit. del Cours de linguistique générale di F. de Saussure, n. 94. 
La distinzione s’intreccia con l’altra tra fattori esterni e fattori interni nell’evolu- 
zione della lingua, cui accennava Martinet nei passi cit. alla n. 23 (cfr. anche 
Varvaro, La storia della lingua, p. 38 e seggi L’opportunità rilevata sopra di una 
diversa e più specifica coppia di termini è rafforzata dal fatto che i due termini 
oggi più in uso ricorrono negli storiografi (e nei teorici della storiografia) con 
tutt’altri significati: cfr. per es., B. Croce, Il carattere della filosofia moderna, Bari 
1963 3 , pp. 186-194. — , 

40 Storia della lingua italiana, in AA.W., Tecnica e teoria letteraria cit., pp. 177- 


con i dialetti e col latino e alle dispute cui tutto ciò dà luogo, vale a dire 
dopo una serie di paragrafi dedicati all’aspetto socioculturale o esterno 
della lingua, si passa, di solito verso l’undicesimo-dodicesimo paragra- 
fo (a volte un po’ più in là: dal quattordicesimo nei capp. VI e Vili), a 
descrivere i «fatti grammaticali e lessicali», cioè alla storia strutturale 
della lingua, secondo un metodo che potrebbe richiamare quello 
wartburghiano di «évolution et structure», se le sincronie strutturali 
fossero fondate su ragioni proprie e non trovassero il loro punto di 
riferimento approssimàtivo nei precostituiti ed «esterni» schemi secola- 
ri. Qui veramente, anche perché la documentazione diventa relativa- 
mente meno ricca e organica (e non certamente per colpa di Migliorini) 
una guida a leggere nel modo giusto questa Storia diventa ancora più 
indispensabile. La trattazione miglioriniana, ricchissima e profonda- 
mente convincente e istruttiva per la parte che riguarda il lessico (gli 
ultimi paragrafi di ogni capitolo), la più facilmente riportabile all’altra 
parte del dittico e anche quella in cui lo studioso si sentiva maggior- 
mente a suo agio 41 , trasceglie, per le sezioni riservate ai «fatti 
gr amm aticali» (grafia, fonetica, morfologia e sintassi), alcuni fenomeni 
suggeriti solitamente dalle grammatiche storiche, rinunciando spesso 
(malgrado i propositi iniziali: cfr. Premessa, p. 6) a sfruttare la possibili- 
tà che la storia della lingua offre di approfondire e ampliare le 
dimensioni dell’indagine su tali fenomeni. In queste sezioni i fili rimasti 
interrotti e pendenti da un capitolo all’altro si fanno più numerosi, e la 
necessità di guidare il lettore a riannodarli e ricostruirli si fa di 
conseguenza più urgente. 

Prendiamo, per semplicità, un esempio tipico e ben noto (già 
schizzato da Migliorini nel saggio del ’48), tratto dal settore sintattico: 
ria posizione dei pronomi e avverbi atoni rispetto al verbo. Dai 
«primordi» dei volgari fino al Trecento Migliorini segnala, quasi a ogni 
capitolo, che tale posizione è regolata dalla cd. «legge Tobler-Mussa- 
fia», cioè, con ogni probabilità, da fattori prosodici (cap. Ili, 11, p. 97; 


41 La vocazione miglioriniana a un’indagine lessicale, che lo portasse a 
stretto contatto con la storia della cultura nel suo significato più ampio, da quello 
«materiale» e etnografico (secondo l’indirizzo cd. «Wórter und Sachen», che 
segnò profondamente la ricerca linguistica nei primi decenni del nostro secolo) a 
quello ideologico e intellettuale, fu fin dal principio vivissima. È appena il caso di 
ricordare che il suo trattato giovanile Dal nome proprio al nome comune (cfr. 
sopra, p. ix) nasce da essa. Ma tutta l’attività di Migliorini ne è permeata: dai 
lucidi e nutriti «stelloncini» su vandalismo, cruciale, cosmopolita, emergenza, 
grattacielo e altre innumerevoli parole legate a vicende e momenti particolari 
della nostra storia fino ai grandi «medaglioni» su mots-témoins come ambiente o 
barocco. Parte di questa vastissima produzione fu raccolta in vari volumi 
dall’autore stesso (cfr., per es., Profili di parole, Firenze 1968, e Parole e storia, 
Milano 1975); ma per lo più si trova ancora sparsa nelle riviste e nei periodici in 
cui fece la sua prima apparizione (cfr., per ciò, la Bibliografia degli scritti di B. 
Migliorini a c. di M. Fanfani nel volume commemorativo più volte cit.). Sottolinea 
questo aspetto della attività miglioriniana Y. Malkiel in «Romance Philology», 
XXXIX, 1975-76, pp. 398 408, a p. 401 e segg. 


178 . 



XXVI 


Storia della lingua italiana 


Introduzione 


XXVII 


cap. IV, 16, p. 151; cap. VI, 18, p. 212; e cfr. già cap. II, 9, p. 66). Questa I affondava le sue radici nelle dispute settecentesche, quando l’italiano 
condizione, tipica delle origini dei volgari italiani e romanzi, comincia | era considerato come una lingua rimasta doviziosa, libera, poetica, di 
a incrinarsi nel periodo umanistico-rinascimentale, tra Quattro e | fronte a un francese, amputatosi della sua ricchezza originaria per 
Cinquecento (cap. VII 15, p. 267-, cap. Vili, 17, p. 357), quando appare la f f ars i strumento di clarté e di raison* 3 . Una visione di questo tipo, che 
«galassia Gutenberg» e lo scritto tende non solo ad accentuare i suoi f percorre ancora la Storia miglioriniana, ha portato probabilmente, in 
aspetti di distacco e di autonomia dal parlato, ma quasi a sostituirlo e a § modo inavvertito, ad arretrare le origini della lingua italiana ancora 
imporgli le sue leggi. Seguono due secoli, il Seicento e il Settecento, nei f più in là di Dante (considerato anche da Migliorini «padre della 
quali la Storia non fa più riferimento al fenomeno. Eppure sono | lingua», e titolare, eccezionalmente, di un capitolo apposito, il V), fino 
probabilmente questi i secoli in cui si andavano preparando le | a i placiti cassinesi del 960-963 (donde l’idea del «millenario» della 
condizioni per una norma nuova nell’uso quotidiano, mentre nei testi | lingu a italiana), trascurando o sottovalutando la distinzione essenziale 
scritti in genere, e in particolare in quelli letterari, si seguiva un uso | tra l’epoca delle prime attestazioni scritte in volgare italiano e l’epoca 
misto, libero e polimorfico, per cui, almeno nei modi finiti del verbo, % posteriore a Dante e al crescere del prestigio del volgare toscano: 
enclisi e proclisi erano ugualmente possibili in ogni posizione della I distinzione ineludibile, perché è solo con questi ultimi eventi che nasce 
frase: Pàrtomi, Andiànne, datemi, t'ingegna, per es., nella Gerusalemme | n primo germe di quella che sarà la lingua comune italiana. Prima 
del Tasso, ma anche (contro l’antica norma) L’onorò, Si prepara, § d’allora in Italia, a livello volgare, esisteva solo una quantità di idiomi 
T’essorteranno, ecc. La descrizione del fenomeno riaffiora nel cap. XI | distinti fra loro, descritti nella loro invincibile molteplicità da Dante 
sul Primo Ottocento (15, p. 571), cioè quando ci si avvicina al trionfo | stesso nel De vulgari eloquentia (cfr. Storia, cap. V, 2, pp. 169-70), che 
della nuova norma, già palese peraltro in quest’epoca in testi importan- | devono essere esaminati e studiati in un quadro storico sostanzialmen- 
ti come la quarantana dei Promessi sposi, e non solo in essa. Nel primo § te diverso da quello in cui si formerà la lingua italiana: essi costituisco- 
cinquantennio dell’Italia unita (cap. XII), tra Ottocento e Novecento, la £ n o una premessa o, meglio, un antefatto di essa, e non di più. Qualche 
nuova norma, a fondamento morfologico o morfosintattico, va verso la | abbozzo di koinè volgare d’epoca predantesca, per es. il volgare 
sua sicura stabilizzazione ed è ormai divenuta ineccepibile nell’italia- £ poetico siciliano (tanto diffuso nel Duecento, sempre al dire di Dante, 
no odierno: Migliorini può descriverne, insieme, le condizioni e il rapido | che «quicquid poetantur Ytali sicilianum vocatur», De vulg. eloq. I, XII, 
affermarsi attraverso la citazione di un passo, particolarmente illumi- | 2 ), è, oltre che fuggevole, orientato in direzione del tutto differente da 

nante, tratto dall’antologia Fior da fiore di Giovanni Pascoli (15, p. | quella verso la quale procederà in seguito la lingua italiana. Ma anche 
637)“. | oltrepassando il periodo dei molteplici volgari e rimanendo all’interno 

Basterà questo esempio per mostrare qual è la via che il lettore p del periodo propriamente occupato dalla lingua comune e dalla sua 
deve seguire per costruirsi, attraverso i capitoli miglioriniani, una I elaborazione, tra Dante o il Trecento e i giorni nostri, un’accentuazione 
visione prospettica dello sviluppo dei singoli aspetti della struttura I troppo spinta della tesi della continuità dell’italiano di fronte alla 
della lingua: imo sviluppo i cui andamenti sono da riferire a varie § discontinuità del francese e delle altre lingue, spinta fino al punto di 
circostanze (non di rado rintracciabili nell’altro versante, sociocultura- 
le, della trattazione), e che trascende comunque il più delle volte la 
partizione «secolare», configurandosi in periodi e ritmi evolutivi propri 
e diversi. 

Sulla riservatezza di Migliorini nelTaffrontare con decisione il 
problema della periodizzazione potrebbe aver anche influito la convin- 
zione, espressa fin dal saggio Storia della lingua e storia della cultura, 
che «per l’italiano si possono distinguere più periodi, ma non si scorge 
tra la lingua antica e la moderna un taglio così deciso come quello che 
divide il francese antico e lo spagnolo antico dalle lingue odierne, e, in 
modo non identico ma pur simile, il tedesco, l’inglese, ecc.» (p. 9): 
un’idea, che era, in realtà, un luogo comune della romanistica e 


42 Una recente e compendiosa trattazione del fenomeno (sia pure centrata su 
un aspetto particolare di esso) si ha in G. Patota, Ricerche sull'imperativo con 
pronome atono, in «Studi linguistici italiani», X, 1984, pp. 173-246. 


porre a proprio fondamento il criterio della più o meno facile intercom- 
prensione da fase a fase della stessa lingua (l’articolo di Migliorini 
citato continuava: «Un italiano, anche incolto, che legga Dante non 
intenderà qualche locuzione, ma sa e sente che quella è la sua lingua; 
mentre un francese che legga la Chanson de Roland », se vuole 
intenderne la lingua, «deve studiarla come ima lingua morta»), non è 
priva di pericoli. Può infatti ingenerare il sospetto che, in fondo, in tutto 
quel periodo plurisecolare, dal Trecento al Novecento, non sia accadu- 
to niente, o quasi, nella nostra lingua, comunque niente di veramente 
rilevante e degno di attirare l’attenzione dello storico; che ci si trovi di 
fronte a un periodo scolorito e uniforme, o, tutt’al più, a periodi distinti 
fra di loro solo per piccoli e trascurabili assestamenti interni; può 


43 Per i giudizi sulTitaliano, soprattutto in confronto col francese, si veda ora 
il suggestivo libro di G. Folena, L'italiano in Europa cit., in particolare le parti III 
e IV. 



xxviii Storia della lingua italiana | 

ingenerare cioè l’equivoco che la vera e apprezzabile evoluzione 1 
linguistica coincida con il «cambio di lingua», e che, di conseguenza, la I 
storia della lingua coincida, nei suoi aspetti essenziali, con la gramma- jj 
tica storica, sottovalutandone o, al limite, negandone l’originalità e la I 
fecondità dei metodi e delle funzioni. Ora, proprio la gran messe di \ 
fatti, e di fatti spesso assai importanti, condensata nel libro di | 
Migliorini, mostra che le cose non stanno così; e per questo dicevo poco | 
fa che la Storia miglioriniana racchiude dentro di sé una quantità di vie f 
nascoste e di sentieri inesplorati che possono condurre il lettore a 
recuperi del tutto imprevisti, al di là degli schemi stessi che l’autore si è 
imposto. «La circostanza, fausta nel risultato..., anche se non sempre 
nelle cause», osservava qualche tempo fa Gianfranco Contini in limine I 
a ima sua antologia della letteratura italiana, «che in Italia alla lingua 1 
moderna non se ne opponga una medievale di tutt’altra struttura, da 1 
apprendere oggi come una lingua straniera, diversamente da quanto f 
accade per la maggioranza delle lingue europee, francese, tedesco, I 
inglese, spagnolo, ecc. ecc..., non esonera dal distinguere, meglio forse 1 
di quanto la scuola non abbia fatto fin qui, ciò che è moderno e ciò che 1 
più sottilmente è antico, acuendo sulla pagina lo spirito d’osservazio- | 
ne» 44 . Lo storico dell’italiano è chiamato quindi ad un’operazione | 
delicata che richiede strumenti df elevata sensibilità linguistica. La | 
grande opera di Migliorini, proprio per la sua eccezionale e obiettiva | 
apertura documentaria, può costituire un viatico istituzionale tra i più I 
inesauribili a tale scopo e una guida insostituibile per ricostruire col i 
dovuto dettaglio le meno accessibili profondità storiche della nostra 1 
lingua 45 . 1 

Si è ripetutamente accennato che più si legge questa Storia, più 1 
essa sembra affondare le sue radici ideali negli anni dell’immediato 1 
anteguerra, che è poi l’epoca in cui l’impresa miglioriniana mosse i 1 
primi passi. L’affermazione stessa che l’« Italia, che di sé ha primamen- 1 
te acquistato coscienza attraverso la lingua, conoscendo più a fondo la 1 
storia della sua lingua conoscerà meglio se stessa» {Storia della lingua | 
e storia della cultura cit., p. 26), risente di quel clima, in cui l’identità | 
romantico-risorgimentale di lingua e nazione aveva ancora la forza 1 
potente di un’idea-mito, capace di cementare la solidarietà e di 1 
mobilitare largamente le energie di un popolo. Ora, non è fuori luogo | 
osservare che tutto ciò avveniva proprio nel momento in cui si I 
cominciavano a rimettere in discussione le basi stesse e la possibilità di 1 
una storia d’Italia che risalisse lungo il corso dei secoli, oltre l’epoca i 
unitaria, fino al Medioevo. È nota la polemica che ebbe come primi 1 


44 Letteratura italiana delle origini, Firenze 1970, p. ix. 

45 Per la «presunta immobilità dell’italiano», le circostanze particolari che 
hanno alimentato tale idea e le insidie che essa presenta ancor oggi per lo storico 
della nostra lingua si veda M. Durante, Dal latino all’italiano moderno cit., 16 (p. 
171 e segg.l. 


Introduzione xxix 

importanti protagonisti, attorno al 1930, Arrigo Solmi e Benedetto 
Croce, e si allargò negli anni successivi fino a coinvolgere alcuni tra gli 
storici italiani più preparati e consapevoli 46 . La lingua in questa 
disputa poteva costituire un argomento di non trascurabile importanza 
do rilevava esplicitamente L. Salvatorelli in un intervento tardivo e, per 
molti aspetti, rievocativo del 1954 47 ), perché, come ritenevano gli uomini 
del Risorgimento, «quando un popolo ha perso patria e libertà e va 
disperso per il mondo, la lingua gli tiene luogo di patria e di tutto» 
(Settembrini), e agli strati colti e medio-colti dei decenni che prepararo- 
no l’Unità la lingua comune appariva generalmente come «il solo 
legame d’unione» (Monti), «la men incerta e più nobile eredità lasciata- 
ci da’ nostri avi» (Foscolo). Ripercorrere le vicende della lingua, 
indagarne le origini, saggiarne la diffusione poteva offrire Qo abbiamo 
già rilevato all’inizio di queste pagine) indizi preziosi per ritrovare le 
ragioni profonde dell’unità del popolo italiano, della sua coscienza 
nazionale. La lingua diventava un rivelatore sensibilissimo dell’unità 
plurisecolare della storia d’Italia, così come la coesione del popolo 
italiano fin dai tempi più remoti poteva diventare presagio di unità 
linguistica. Non è affatto escluso che tali dispute, prolungatesi fino alla 
vigilia della seconda guerra mondiale (e poi a tratti riemerse in seguito) 
agissero in qualche modo sulla decisione miglioriniana di dar corpo a 
una grande storia della lingua italiana: la quale nasce (si noti) proprio 
come una «storia della lingua italiana», e non come ima «storia 
linguistica d’Italia», che, come già . notavano Dionisotti e Fiorelli 
(conirontando la Storia di Migliorini col Profilo di Devoto), era, ed è, 
una cosa diversa. 

Il tema dell’unità «italiana» percorre in effetti tutto il trattato 
miglioriniano: raramente però (come al solito) affiora esplicitamente 
alla superficie nella sua forma problematica. Affermava Walter von 
Wartburg nel 1936 (in uno scritto subito recensito da Migliorini): «oggi, 
dopo tanti decenni di linguistica storica si suole prendere la delimita- 
zione dell’italiano quasi come un dato, una cosa naturale che non 
abbia bisogno di spiegazione. Eppure è evidente a chi cerchi di 
scrutare il passato dello spazio linguistico italiano, che nessun altro 
paese romanzo è stato meno predestinato a diventare un’unità lingui- 
stica» 48 . Ci fu dunque alle origini dell’italiano un travaglio, e un 


48 Per un rapido riepilogo di questa discussione si veda G. Candeloro, Storia 
dell’Italia moderna, Milano, voi. I, 1975 8 , pp. 391-393-, interessanti osservazioni in 
proposito offre, più recentemente, P.G. Zimino, L'ideologia del fascismo. Miti, 
credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Bologna 1985, p. 70 e segg. Sui 
precedenti della discussione cfr. G. Galasso, L’Italia come problema storiografico, 
Torino 1979, pp. 166167 (libro sul quale torneremo più avanti). 

47 Lo si veda riprodotto in L. Salvatorelli, Spiriti e figure del Risorgimento. 
Firenze 1961, pp. 30-35, spec. a pp. 34-35. 

48 La posizione della lingua italiana, Firenze 1940, p. 8; il volumetto riproduce 
alcune conferenze tenute a Roma nel 1936 e pubblicate già nello stesso anno 
dall’editore Keller di Lipsia e dalla Biblioteca Hertziana di Roma, congiuntamen- 


xxx Storia della lingua italiana 

travaglio presumibilmente lungo e faticoso; ma questo rimane, per lo 
più fra le pieghe del discorso di Migliorini, non già assente, ma tutto 
oggettivato nei fatti. Il punto in cui forse il problema affiora più 
esplicitamente è un brevissimo paragraferò, all’inizio del cap. Ili, sui 
Primordi (III, 2). Migliorini si domanda a questo punto se sia «lecito, già [ 
in questo periodo 1960-12251, trattare le varie espressioni in volgare j 
come varianti di ima medesima lingua», cioè se sia già il caso, a questa ì 
altezza cronologica, di parlare di lingua italiana, e non si debba invece ì 
parlare solo di molteplici e vari volgari. La risposta è assai contratta ed lì 
elusiva: pur riconoscendo che di «manifestazioni linguistiche» vera- 
mente italiane si può parlare solo a cominciare da Dante, Migliorini si ; 
appiglia anche qui a uno schema «esterno», quello dei «limiti geografi- > 
ci», e, inoltre, a «quei primi caratteri superdialettali, che sia pure molto 
alla lontana prepararono la futura unità»; e con ciò supera rapidamen- ì 
te lo scrupolo metodico. Abbiamo già accennato alla debolezza di { 
questa tesi, che oggi siamo forse in grado di valutare in modo più netto \ 
di quanto non si potesse all’epoca della elaborazione della Storia. Nei ì; 
tre o quattro decenni che ci separano da quell’epoca gli studi sulle f 
prime scriptae volgari si sono infatti, anche in Italia, notevolmente I 
intensificati e raffinati (si pensi, per fare un esempio, a Gianfranco ì 
Contini e alla sua scuola) e ci permettono di disegnare oggi con molto ^ 
maggior dettaglio un panorama dei volgari medievali che si conferma ! 
estremamente variegato e franto: quello stesso, del resto, che appariva, 1 
già all’inizio del Trecento, a un testimone d’eccezione quale era Dante I 
(cfr. De vul. eloq. I, X e segg.). I 

Ma, lasciando da parte la questione dei «primordi», lo storico deve | 
obiettivamente rilevare che, anche quando, nel Cinquecento, la lingua I 
italiana (o «toscana») aveva raggiunto una sua prima piena maturazio- 1 
ne (attraverso due secoli di crescita e d’espansione del toscano e di 1 
vario e diseguale formarsi di larghe koinè: cfr. Storia, capp. VI, 9-13, f 
VII, 8-10), la sua consistenza rimaneva sempre soggetta a limiti e 
condizionamenti notevoli, più ristretti e comunque diversi da quelli ; 
odierni. Lo spazio stesso occupato da questa lingua coincideva certo j 
assai meno di ora con quel territorio che i geografi di oggi e di ieri 
chiamano e chiamavano «Italia». Le discordanze erano rilevanti, a 
volte perfino imprevedibili. 

Basterà ricordare che una regione come il Piemonte, decisiva per 
l’unificazione politica d’Italia, è rimasta per lungo tempo con un piede 
fuori e un piede dentro l’area della lingua italiana. Considerata da 
Dante così vicina alle «mete Ytalie» da possedere un tipo di volgare di 
transizione verso i volgari d’Oltralpe, rimaneva ancora, dopo la svolta I 
impressagli da Emanuele Filiberto, attorno al 1560 [Storia , cap. Vili, 10), 
un «paese anfibio», come lo chiamava Alfieri (Vito, Epoca III, cap. I; e 


te; è appunto su questa edizione che Migliorini si fondò per la sua recensione 
uscita nella rivista «Roma». 1937, 9, pp. 341-342. 


Introduzione xxxi 


cfr. Storia, capp. IX, 2; X, 3 e 10), e, dopo la calda esortazione del 
Napione a volgersi decisamente verso l’Italia e l’italiano {Dell’uso e dei 
pregi della lingua italiana, 1791), poteva di nuovo aspirare, qualche 
anno dopo, sotto il dominio napoleonico, a una drastica annessione al 
territorio linguistico, oltre che politico, francese (si ricordi l’opuscolo di 
Denina, Dell’uso della lingua francese del 1803: cfr. Storia, cap. XI, 10), e 
rimanere comunque in bilico tra italiano e francese fino alla vigilia 
dell’Unità, al punto che nello Statuto albertino del 1848 (rimasto in 
vigore, come si sa, per tutta la durata del Regno d’Italia, fin quasi ai 
giorni nostri), accanto all’italiano, «lingua officiale delle Camere», era 
ammesso facoltativamente il francese (art. 62); e pochi anni prima (1835) 
uno dei «padri della patria», il Cavour, spronato e rampognato da 
Cesare Balbo, doveva fare «l’humiliant aveu que la langue italienne lui 
était jusqu’olors tout à fait étrangère» 49 . Il dominio della lingua comune 
era dunque ben più lontano di oggi dall’identificarsi con l’Italia delle 
carte geografiche e geopolìtiche. Per non parlare del livello colloquiale 
e quotidiano, in cui ancora a lungo, fino all’Ottocento inoltrato e ai 
primi decenni del Novecento, dominarono gli idiomi dialettali (e 
Migliorini osserva puntualmente il fatto nei vari paragrafi sulla lingua 
parlata e sull’uso dei dialetto e per non parlare delle scritture meno 
formali, in cui pure le antiche scriptae volgari si andarono estenuando 
nell’italiano con molta maggiore lentezza di quanto solitamente non si 
creda, anche ai livelli più elevati e ufficiali ci furono brani di territorio 
oggi italiano, che conobbero solo assai tardi la lingua comune. Osserva 
Migliorini che nel Cinquecento «la Sardegna, direttamente soggetta 
alla Spagna, ha scarsi contatti con la Penisola» (cap. Vili, 2) e nel 
Seicento «la vita culturale si svolgeva quasi esclusivamente in spagno- 
lo» (cap. IX, 11, p. 416 n. 84); solo dopo l’annessione allo stato Sabaudo 
(che diventava così Regno di Sardegna, 1720) «la vita amministrativa e 
culturale dell’isola... si venne orientando... verso la lingua italiana» 
(cap. X, 2), ma «lentissimamente», sicché «solo nel 1764 l’italiano 
diventa lingua ufficiale nei tribunali e nell’insegnamento» (cap. X, IO) 50 . 


48 Sulle varie fasi della penetrazione dell’italiano in Piemonte si dispone 
ora dell'ottimo studio d’assieme di Cl. Marazzini, Piemonte e Italia. Storia di un 
confronto linguistico, Torino 1984. Sull’atteggiamento del Napione e dell’ambiente 
in cui viveva si veda da ultimo G.L. Beccaria, «Italiano al bivio: lingua e cultura in 
Piemonte tra Sette e Ottocento», negli Atti del Convegno « Piemonte e letteratura. 
1789-1870 » (San Salvatore Monferrato, 15-17 ottobre 1981), a c. di G. Ioli, s.l. né d. di st., 
voL I, pp. 15-55-, e sul Denina la silloge di suoi scritti d’interesse linguistico (fra cui 
anche Dell’uso della lingua francese) apprestata dal Marazzini in C. Denina, 
Storia delle lingue e polemiche linguistiche. Dai saggi berlinesi 1783-1804, a c. di Cl. 
M., Alessandria 1985. Tutti i documenti della vicenda Balbo-Cavour accennata 
sopra possono leggersi ora in C. Cavour, Epistolario, Bologna, voi. 1, 1962, pp. 185- 
190 (e cfr. anche R. Romeo, Cavour e il suo tempo, Bari, voi. I, 1977 3 , pp. 445-446). 

80 Oltre il libro classico di M.L. Wagner, La lingua sarda. Storia, spirito e 
forma (Berna 1951), che naturalmente Migliorini conosceva e utilizzava, si 
possono consultare oggi, sulla diffusione dell'italiano in Sardegna, molti altri 
contributi, pubblicati parallelamente all'accrescersi delle rivendicazioni sarde di 


XXXII 


Storia della lingua italiana 


Introduzione 


XXXIII 


Accenni simili si colgono qua e là a proposito di altre regioni 
italiane, specialmente le più periferiche rispetto al nucleo centrale 
tosco-romano: il che conferma quanto sia stata lunga, incerta e faticosa 
nei fatti la costruzione di quella Italia linguistica, che spesso è stata 
assunta, disinvoltamente, come punto di forza per affermare l’esisten- [ 
za già in tempi remoti di una compatta e formata «nazione» italiana, 
scambiando le aspirazioni di un Dante o di qualche suo più tardo e ! 
meno noto riecheggiatore, per es. un Muzio 51 , con la «cosa salda» di jj 
una lingua comune completamente identificantesi con una nazione di ’ 
popolo quale la concepiamo noi moderni. 

Queste indicazioni miglioriniane, che possono spiegare tante vicen- | 
de dell’Italia di oggi (per es. la non perfetta identificazione di varie 1 
regioni con lo stato nazionale italiano e la sua lingua), pur non \ 
sbandierate, ma tutte assorbite e concentrate nella esposizione dei ; 
fatti, hanno avuto ima loro parte quando, dopo alcuni decenni dal suo s 
primo apparire, la questione, cui accennavamo poco fa, dell’unitarietà 
e della plausibilità stessa di una storia d’Italia avanti il 1861 è tornata 
alla ribalta, soprattutto in occasione dell’avvio di alcune grandi ! 
imprese editoriali: la Storia d’Italia Einaudi, il cui primo volume (con j 
una «Presentazione dell’editore» centrata su questo tema) uscì nel I 
1972, e la Storia d’Italia UTET, che si inaugurò nel 1979 col libro ; 
introduttivo di G. Galasso, L’Italia come problema storiografico. Ambe- 
due le pubblicazioni rinoscevano in sostanza che, se troppo severa è la i 
tesi del Croce di una impraticabilità di una storia d’Italia prima del \ 
1861, è pur vero che le storie di ispirazione troppo scopertamente ! 
risorgimentale, che privilegiano e quasi isolano fin dall’Alto Medievo'il ; 
filone unitario e «nazionale», non risultano meno fuorvianti e unilate- 
rali: ché in realtà la storia linguistico-letteraria così come la storia 
socio-politica dell’Italia preunitaria, anche se percorse dal filo conti- 
nuamente interrotto o disperso delle aspirazioni unitarie e soffuse di 
un sentore di affinità e di rapporti privilegiati fra i vari territori 
«italiani», restano, al loro fondo, storie di una variegata molteplicità di 
tradizioni, istituzioni e idiomi diversi. «La lezione del De vulgati 
eloquentia-» , affermava G. Einaudi, citando esemplarmente C. Dionisot- 
ti, «è in breve questa: un’esigenza unitaria, di una ideale unità 
linguistica e letteraria, proposta e richiesta a una reale, frazionata 
varietà, un’unità insomma che supera, ma nel tempo stesso implica 


autonomia anche linguistica; compendiosamente si può rinviare al libro disegua- 
le, ma ampio, intelligente e appassionato di M. Pira, La rivolta dell’oggetto. 
Antropologia della Sardegna, Milano 1978; si veda inoltre da ultimo la Storia 
linguistica della Sardegna di E. Blasco Ferrer (Tùbingen 1984). 

51 DeU’«italianismo» linguistico-politico di Gerolamo Muzio, letterato e corti- 
giano della seconda metà del Cinquecento, ha proposto una rivalutazione 
(opportuna, quando se ne precisi la sostanziale eccentricità nel panorama del 
tempo) G. Salvemini, «Il Risorgimento», in Scritti sul Risorgimento, a c. di P. Pieri 
e C. Pischedda, Milano 1973, p. 473 e segg., a pp. 505-507. 


questa varietà» 52 . E Galasso: «La storia italiana pre-unitaria è... una 
molteplicità di storie cittadine, regionali ed interregionali, parallele ed 
interferenti fra loro», dove gli aggettivi «parallelo» e «interferente» 
alludono a una prima forma, più blanda e sfumata, di quella che sarà 
poi la vita pienamente unitaria della società italiana; una storia 
nazionale dal «carattere (se così si può dire) multinazionale» 53 . Ora, è 
da rilevare che tutte e due queste pubblicazioni, che hanno avuto il 
merito di riproporre come cruciale il problema della storia d’Italia 
come storia unitaria e di rilanciare, in relazione ad essa, quella visione 
feconda di «unità nella varietà», che costituì già un filone interpretati- 
vo forse meno fortunato, ma tutt’altro che trascurabile della storiogra- 
fia ottocentesca, hanno fatto riferimento, in vari modi e misure, nel loro 
articolato discorrere, alla Storia di Migliorini Qa Storia Einaudi dedica 
anzi agli aspetti linguistici del tema un contributo apposito: «Lingua, 
dialetto e letteratura» di A. Stussi 54 ): segno che l’opera del Migliorini ha 
avuto un suo peso nel suggerire certi obiettivi agli storici del nostro 
paese e nell’integrare alla loro ricerca un bagaglio di materiali 
documentari, rimasti fino a quel momento ai margini della loro 
attenzione. 

È cosi che, fondata su ima humus affatto diversa, in cui trovavano 
ancora eco passioni e miti risorgimentali, quest’opera, per molti aspetti 
eccezionale, si offre allo storiografo di oggi con interesse vivo e attuale. 
Vi si trovano rispecchiati, a leggere attentamente, le disarmonie, le 
resistenze, le contraddizioni, i contrasti, che hanno accompagnato nei 
secoli il formarsi della società e della lingua italiana, e la sua lunga 
fatica di aprirsi un varco verso uno spazio geografico, o geografico- 
sociale, via via più esteso e praticabile. Lo stesso potrebbe dirsi (anche 
se il discorso si fa qui più delicato) di un tema che accompagna questi 
sviluppi: il formarsi di una coscienza nazionale italiana, connesso 
com’è, oltre che col valore simbolico della lingua comune, col mobile 
sfaccettarsi del termine-chiave «nazione», lungo il corso dei secoli, in 
modi che gli studi di Kohn, Hayes, Weill, Chabod, Godechot, Sestan, 
Romeo, Renzi e tanti altri hanno cercato di chiarire in questi ultimi 
decenni. Migliorini osserva gli sviluppi dell’importante fenomeno da 
storico del lessico e della semantica. «Persiste ancora», avverte nel 


“ «Presentazione dell’editore» alla Storia d’Italia, Torino, voi. 1 , 1972, pp. xix- 
xxxvi, a p. xxx; il brano di Dionisotti deriva dal suo libro cit. Geografìa e storia 
della letteratura italiana, p. 31. 

53 L’Italia come problema storiografico cit., pp. 177-178. 

54 Voi. 1 cit., pp. 677-728. Va ricordato che lo Stussi incentrò poco dopo su 
questo nuovo motivo una sua assai utile antologia, Letteratura italiana e culture 
regionali (Bologna 1979), il cui contenuto, nonostante il titolo, dà largo spazio alle 
vicende linguistiche italiane. È doveroso segnalare peraltro che il motivo aveva 
ricevuto, già attorno al 1950, un notevole rilancio dagli originali studi di C. 
Dionisotti (raccolti, per la maggior parte, nel volume più volte citato), cui si 
riferiscono infatti ripetutamente sia Einaudi (come s’è visto), sia Stussi, sia 
Galasso. 


XXXIV 


Storia della lingua italiana 


Introduzione 


xxxv 


capitolo sul Settecento (X, 16 ), «il vecchio significato di patria e nazione 1 
riferito alla città o al piccolo stato a cui uno appartiene; ma sempre più | 
frequente è il riferimento all’Italia intera». È un indizio importante I 
della crisi profonda che si stava aprendo in quei decenni e alla quale 1 
abbiamo già accennato di sfuggita poco fa (p. xx): una crisi che doveva | 
portare in questi termini il significato che hanno conservato fino ad g 
oggi, permeato di connotazioni politiche fio notava, per nazione, alla f 
fine del Settecento il «giacobino» compilatore di ima lista di vocaboli 1 
«o nuovamente arrivati in Italia, o di nuova significazione, o d’un’anti- % 
ca, ma cambiata e travisata»; cap. XI, 16 55 ), e respingere lontano i | 
vecchi significati, in ima dimensione che stentiamo ancor oggi, talvol- I 
ta, a comprendere e definire con esattezza. Il rapporto tra lingua e 1 
nazione, così stretto e vibrante in epoca risorgimentale («La Patria è 1 
una e indivisibile», dichiarava Mazzini nei Doveri degli uomini, I 
esortando: «Come i membri d’una famiglia non hanno gioia della 1 
mensa comune se un d’essi è lontano, rapito all’affetto fraterno, così I 
voi non abbiate gioia e riposo finché una frazione del vostro territorio | 
sul quale si parla la vostra lingua è divelta dalla Nazione...»), non I 
passava ancora, prima del Sette-Ottocento, attraverso un terreno così 
incandescente. La lingua comune codificata e diffusa nel Cinquecento, 
come quella vagheggiata da Dante, era, malgrado l’apparente conti- 
nuità, qualcosa di diverso, e non aveva certo, salvo in casi isolati (come 
quello del Muzio citato sopra), questi sottintesi politici. Era una lingua 
letteraria, fatta in primo luogo per l’eleganza e la correttezza dello 
scrivere, e anche strutturalmente caratterizzata come tale (si pensi, 
per es., alla sua ricca e invincibile polimorfia di palese matrice retorica: 
Migliorini vi accenna al cap. Vili, 22, e, qua e là, altrove): una lingua 
offerta certamente soprattutto agli scrittori italiani (con le esclusioni e 
le limitazioni già indicate), ma proprio per la sua eleganza (che non ha 
confini) dilagante anche fuori d’Italia, e nota, nella sua epoca d’oro, e 
anche largamente praticata dalle persone colte di tutta l’Europa, come 
si può facilmente constatare scorrendo i paragrafi della Storia di 
Migliorini dedicati, tra Cinquecento e Settecento, ai «Rapporti» e 
«Contatti con altre lingue» (capp. Vili, 5 e 13 ; IX, 11 ; X, 10 ). Era, e 
rimarrà a lungo, una delle lingue europee più prestigiose; dopo le 
lingue classiche t anzi assieme ad esse, forse, per un lungo periodo, la 
più prestigiosa. E questo il momento, fra il Cinquecento e il Settecento, 
in cui essa diventa, secondo la felice espressione di Braudel, «un 
elemento persistente della cultura europea» e un modello di densa e 
armoniosa espressività 56 . Il Manzoni stesso lo avvertiva, a metà 


65 Per l’autore di questa lista cfr. Giacobini italiani, Bari, voi. I, a c. di D. 
Cantimori, 1956, pp. 422-423; e I giornali giacobini italiani, a c. di R. De Felice, 
Milano 1962, p. 476 e segg. 

58 La frase di Braudel si trova nel saggio L'Italia fuori d'Italia, in Storia 
d’Italia Einaudi, voi. Il, 1974, p. 2089 e segg., a p. 2098. Ancora nel Settecento, 
quando le sue fortune stavano ormai declinando, l'italiano figurava nel concerto 


dell’Ottocento, quando cancellava drasticamente quella lingua dalle 
sue speranze per un futuro che già si profilava distintamente, e la 
considerava come «una collezione parziale», «un mescuglio di vocabo- 
li», un fantasma di lingua piuttosto che una lingua vera 57 . E intanto 
affioravano, gravissimi, problemi pressoché ignoti al vecchio italia- 
no come quello di saldare, attraverso un’opera complessa di accultura- 
zione (che non si è del tutto conclusa neanche oggi) i «due gra- 
di di italianità», che erano convissuti fin allora parallelamente nel suo 
seno-, «quello unicamente qualificato delle classi alte e quello sol- 
tanto oggettuale e vegetativo delle classi popolari», immerse nei loro 
dialetti 58 . 


Come si vede, al di sotto di parole o istituzioni che apparentemente 
sembrano identiche o poco differenti, si nascondono di fatto realtà 
profondamente diverse e perfino divergenti. È questa la lezione che la 
moderna storiografia sull’Italia e sulla coscienza nazionale italiana, in 
cui la lingua ha certamente una parte non trascurabile, ci offre. 
Sarebbe pericoloso, e perfino impossibile, ricostruire una storia d’Italia 
e una storia della lingua italiana «a una sola arcata», come, nella sua 
impalcatura esterna, appare costruita quella di Migliorini, dai placiti 
cassinesi o da Dante ai tempi nostri, secondo uno schema prospettico 
che appiattisce sul presente un passato secolare, poggiando magari sul 
presupposto, pure miglioriniano, che la nazione e la coscienza naziona- 
le italiana sia nata già, miracolosamente compiuta, al tempo di Dante, 


delle principali lingue europee, apprezzato universalmente come «la plus douce 
des langues» (Rivarol), con un «genio» specifico che la rendeva particolarmente 
adatta per la musica e per la poesia: cfr. ancora G. Folena, L’italiano in Europa 
cit., spec. pp. 217 e segg., e 397 e segg. 

57 Sulla lingua italiana. Lettera al sig. cavalier consigliere Giacinto Carena, m 
A. Manzoni, Opere Varie, a c. di M. Barbi e M. Ghisalberti, Milano 1943, p. 751 e 
segg., a pp. 765-766 da lettera, inviata al Carena nel ’47, fu poi pubblicata dal 
Manzoni, con ritocchi e ampliamenti, nel 1850 nel volume delle Opere varie in 
stampa presso l’editore milanese Redaelli dal 1845). 

58 La frase citata è tratta da G. Bollati, L’Italiano cit., p. 45. Il problema 
dell’integrazione delle classi popolari alla cultura e alle istituzioni nazionali fu, 
com’è noto, uno dei temi più ricorrenti nelle meditazioni di A. Gramsci: cfr. 
Quaderni dal carcere, ediz. dell’Istituto Gramsci a c. di V. Gerratana, Torino 1975, 
voi. Ili, pp. 1914-1915, 2113-2120, ecc.; e per gli aspetti propriamente linguistici F. Lo 
Piparo, Lingua, intellettuali, egemonia in Gramsci, Bari 1979. In pratica l’accultu- 
razione linguistica dei dialettofoni all’italiano, vivamente sollecitata da ragioni 
politiche e civili, percorse dapprima le vie dell’alfabetizzazione-, cfr., compendio- 
samente, M. Raicich, Scuola e politica da De Sanctis a Gentile, Pisa 1981; e Cl. 
Marazzini, Per lo studio dell’educazione linguistica nella scuola italiana prima 
dell'Unità, in «Rivista italiana di dialettologia», IX, 1985, pp. 69-88. In tempi più 
vicini a noi entrarono in gioco altri fattori come i movimenti migratori connessi 
con l’industrializzazione e con l’urbanesimo, la sempre più larga diffusione dei 
mass-media in lingua parlata, ecc. Per tutta questa materia resta ovviamente 
sottinteso il rinvio a T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita cit. 


xxxvi Storia della lingua italiana 

anzi sia stata creata da Dante stesso (cap. V, l) 59 . In realtà la stra- 
grande e controllatissima quantità di dati documentari offertici da 
questo «libro onesto, sano, utile, e, grazie a Dio, non problematico» 
(Dionisotti) ci stimola in altre direzioni: a non dare per scontato nulla di 
quello che deve ancora avvenire, perché a ogni angolo, a ogni svolta 
della storia possono presentarsi fatti nuovi, che distruggono in un 
attimo ciò che pareva già acquisito; e a interpretare quindi le vicende 
della lingua per quello che furono, nella loro originale complessità, fase 
per fase, pacatamente, senza che la soluzione finale pregiudichi la 
obiettiva valutazione di ciascuna di quelle fasi; a non appiattire il 
presente sul passato né il passato sul presente, ma a lasciare spazio, 
tra passato e presente, a tutta la folla degli accadimenti che ci hanno 
fatti così come siamo oggi. Anche un organismo come la lingua si trova 
profondamente immerso, com’è ovvio, nella storia umana, e ne condivi- 
de e ne segue progressi, scarti e disarmonie, prestandosi a ricostruire 
sempre, ma ogni volta in condizioni diverse, e quindi diversamente, a 
seguito di questi contraccolpi, il suo delicato e duttile sistema di 
comunicazione interpersonale. Per ripercorrere questi itinerari, imper- 
vi e imprevedibili, nelle vicende plurisecolari di quell’organismo, che fu 
ed è la lingua italiana, la Storia di Migliorini, pur fondata in anni ormai 
lontani e, per certi aspetti, distaccati dal nostro attuale sentire, si offre 
a noi ancor oggi come la guida più competente e sicura di cui 
disponiamo. Dopo ventisette anni, un libro come questo non è, in tal 
senso, invecchiato, proprio perché (credo) non si presenta come 
un’opera storiografica semplice e rettilinea, rigidamente preordinata a 
una determinata tesi; ma come un’opera, nel suo genere, aperta, che, 
seguendo sempre da vicino il suo oggetto, ne estrae tante e tante cose, 


59 È questo un altro dei rarissimi momenti in cui Migliorini esce allo scoperto 
e prende posizione su modelli interpretativi di carattere generale-. «Si pensi», 
scrive Migliorini, «alle miserevoli condizioni d’Italia ai primi del Trecento... Non 
certo questo stato di cose autorizzava a sperare-, ma Dante credeva, e credendo 
operò il miracolo. L’Italia non era, in quanto essa non aveva coscienza della sua 
sostanziale unità culturale, che le avrebbe permesso di accogliere una comune 
lingua letteraria e civile, più adatta che il latino ad accomunare tutti gli Italiani. 
Dante sentì e le rivelò questa coscienza: così l’Italia fu» (p. 168). Si avverte qui, 
nella prosa miglioriniana, un tono insolitamente trionfale e sostenuto: c’è forse 
ancora un’eco di quelle agiografie risorgimentali, per cui Dante era il padre non 
solo della lingua, ma della nazione intera, «l’italiano più italiano che sia stato 
mai», secondo la nota definizione del Balbo (cfr. anche Migliorini, Lingua d'oggi e 
di ieri, Caltanissetta-Roma 1973, pp. 65-74, spec. a pp. 73-74). In realtà a questo 
punto, all’inizio del Trecento, ITtalia linguistica (l’abbiamo già osservato) era 
tutt’altro che fondata in modo stabile e irreversibile. Opportunamente M. 
Durante faceva rilevare di recente che in quest'epoca nell'Italia «volgare» «la 
situazione linguistica rimaneva estremamente frammentaria», e mancava «e 
mancherà ancora a lungo un embrione di coscienza nazionale» nel senso 
moderno della parola (Dai latino all’italiano moderno cit., 12. 2). Quello di Dante 
fu un primo acutissimo segno profetico proiettato su un futuro che rimaneva 
tutto da costruire. 


Introduzione xxxvu 


ignote prima o trascurate, o non accostate fra loro, a volte apparente- 
mente disparate, ma ognuna delle quali occupa pure, obiettivamente, 
un suo posto e ha avuto un suo peso nella formazione della nostra 
lingua. E questa in fondo la lezione più vera di un libro come la Stona 
di Migliorini, costruito passo passo, con fatica e pazienza da certosino 
e con estremo rispetto per chi fosse destinato a servirsene: un 
atteggiamento esattamente contrario a quello riflesso nel noto afori- 
sma di Voltaire, per cui la storia è come «un vaste magazin, où vous 
prendrez ce qui est à votre usage». 

Una postilla finale. La Storia di Migliorini termina con l'ingresso 
dell’I talia nella prima guerra mondiale, nel 1915. A chi non è al 
corrente dell’intero cursus dell’attività miglioriniana, ciò potrà sembra- 
re ima singolarità o un rifiuto a confrontarsi col presente. In realtà, col 
presente, con la «lingua contemporanea», Migliorini si era misurato 
(come s’è visto) prima che col passato; aveva anzi probabilmente tratto 
proprio dal presente gli stimoli a ripercorrerne a ritroso le ragioni, a 
ricercarne le origini. Nella quarta edizione «rifatta» del suo volumetto 
Lingua contemporanea (1963) avvertiva nella «Premessa» (p. vi) di 
essersi proposto, con questa riedizione, «di presentare nelle loro linee 
generali le condizioni e i fenomeni più notevoli della lingula dell’ultimo 
mezzo secolo, e così in certo modo completare la sua Storia della lingua 
italiana, in cui aveva condotto l’indagine fino al 1915» (e cfr. ancora a p. 
4 dello stesso volume). Questo originale e fortunatissimo libretto, 
assieme all’altro che l’aveva seguito dopo pochi anni, Saggi sulla 
lingua del Novecento (ripubblicato anch’esso nel 1963, dopo la compar- 
sa della Storia, in terza edizione «riveduta e aumentata»), rappresenta 
in realtà la vera continuazione della Storia; le due operette conducono 
infa tti la trattazione fino agli inizi degli anni 60, cioè fin quasi ai giorni 
nostri. Saremmo anzi tentati di dire: fin proprio ai giorni nostri, 
considerando la ricchezza di stimoli e la acutezza interpretativa sono 
cosparse a piene mani in questi due piccoli classici di linguistica 
«militante». I tempi sono certo cambiati anche per la nostra lingua, che 
sembra vivere l’avvio di un’epoca del tutto nuova, la cui «svolta 
decisiva», secondo la verosimile ipotesi di M. Durante, si è determinata 
«a partire dal miracolo economico degli anni cinquanta», e appare già 
tale «da caratterizzare il secondo Novecento come un punto cardinale 
della storia linguistica italiana» 80 . Eppure i due libretti miglioriniani, 
nati negli anni 30, non appaiono ancora in complesso «datati»; 
viceversa sono ancora in grado di gettare fasci di luce vivissima su 
fenomeni che si stanno svolgendo sotto i nostri occhi, in questo 
presente così nuovo e dinamico. Per queste ragioni non sarebbe forse 
inopportuno restituire alla Storia di Migliorini il compimento che 
l’autore le aveva predisposto, e riproporre ancora editorialmente. 


“ Dal latino all’italiano moderno cit., 28. 1. 


xxxvin Storia della lingua italiana 


accanto alla Storia, i due volumetti citati sopra, magari riunendoli in 
un tomo unico. Uno dei nostri linguisti più attenti, Gaetano Berruto, 
auspicava già, al momento delFultima riedizione, corretta e aggiorna- 
ta, della Storia, nel 1978, ima «integrazione» editoriale di questo 
genere 61 : non credo di cedere a una retorica d’occasione affermando 
che riportare alla luce il Migliorini «contemporaneista» significherebbe 
rimettere nelle mani dei lettori un filo d’Arianna preziosissimo, per 
renderli capaci di percorrere sicuramente, in lungo e in largo, quell’o- 
pera grande e complessa che è la sua Storia della lingua italiana. 

Ghino Ghinassi 


81 Cfr. la sua breve recensione comparsa sul «Corriere della sera» del 1 
ottobre 1978. 


STORIA DELLA LINGUA ITALIANA 

Volume I 



PREMESSA 


Quando nel 1938 cominciai a stendere i primissimi abbozzi di questa 
Storia e nel 1942 a redigerne il primo capitolo, pur rendendomi ben conto 
della scarsezza delle mie forze di fronte all’immane vastità del lavoro, 
movevo da un ambizioso proposito: quello di dare all’Italia un’opera che 
fino allora le mancava. Abbondano nel nostro paese le storie della 
letteratura, delle belle arti, del diritto, della medicina, ecc.: come mai 
invece mancano le storie della lingua? e come mai, per altre lingue, 
antiche e moderne, le storie non mancano, e per il francese abbiamo quel 
monumento che è il Brunot, per lo spagnolo quei poderosi frammenti che 
ce ne ha dati il Menéndez Pidal? La causa l’ha esposta ineccepibilmente 
il Dionisotti: « nella secolare considerazione retorica della lingua, invalsa 
più che altrove in Italia, è la giustificazione per l’appunto del fatto, che 
manchino a noi opere come quella del Brunot o del Menéndez Pidal » 
('Giom. stor. lett. it., CXI, p. 139). 

L'attenzione quasi esclusiva accordata alla lingua quale strumento 
letterario ha fatto sì che nel passato parlando di storia della lingua ci si 
riferisse principalmente allo stile degli scrittori e si tendesse piuttosto a 
tracciare delle storie dello stile, trascurando invece tanti altri aspetti, sia 
pur più modesti, che appaiono nella complessa realtà dell’uso linguistico 
quotidiano. Così le pagine dedicate alla istoria della lingua » dal Parini, 
dal Baretti, dal Foscolo, dal Giordani, dal Capponi e gli spunti talora 
felici che esse contengono concernono piuttosto la storia della letteratura 
che quella della lingua. 

Certo, la lingua quale la riceve dai suoi contemporanei chi partecipa 
a una data comunità non altro è che un’astrazione, fondata su miriadi 
di singoli atti di linguaggio concreto. E come media la studia il 
linguista: tuttavia non è trattar l’ombre come cosa salda studiare i 
singoli istituti della lingua (il condizionale nelle sue forme e nei suoi 
significati; i valori che ha avuti ed ha la parola virtùJ nella loro 
continuità, considerando essi istituti e non gli individui parlanti o 
scriventi come il filone principale della trattazione. 

Ciò non significa in alcun modo sottovalutare l'importanza che 
hanno sempre avuto gli individui nell’evoluzione della lingua: la loro 
efficacia demiurgica si riconosce a ogni momento nella storia di 
innumerevoli parole, e, se pur meno visibile, è fondatamente congettura- 
bile nella storia di molte innovazioni grammaticali. 



4 


Storia della lingua italiana 


Premessa 


5 


Ma altra cosa è riconoscere questa incontrovertibile verità, e altra 
cosa mettere al centro della trattazione i singoli letterati nella loro 
concreta personalità: per chi consideri la lingua nel suo insieme, essi non 
sono che uno dei tanti fattori che agiscono sulla lingua nel perpetuo suo 
evolversi: giuristi, economisti, artisti, tecnici, scienziati agiscono anch’es- 
si sulla lingua. Inoltre v'è il popolo: senza lasciarci irretire nel mito 
romantico del Popolo con la p maiuscola, ecco a ogni momento il singolo 
popolano il quale conia una parola o lancia un frizzo che saranno 
ripetuti domani da un’intera città o magari da tutta l’Italia. 

Inoltre, è opera del popolo (inteso come totalità della nazione) quella 
spinta generale, quel muto consenso nell’accettare o nel respingere 
un’innovazione che dà consistenza all’uso. 

Alcuni amici, che benevomente si sono interessati a questa mia opera 
senza conoscerne il disegno, mi hanno domandato quante pagine avessi 
dedicate a Michelangelo o come avessi trattato Daniello Bartoli. È stato 
tante volte osservato che quello che importa è il trattare seriamente i 
problemi, e che è invece secondario l’incasellarli nell’una o nell’altra 
« materia »: può sembrare dunque ozioso discutere se il tracciare un 
profilo linguistico e stilistico di Michelangelo o del Bartoli appartenga 
piuttosto alla storia della letteratura o alla storia della lingua. Tuttavia, 
se si volesse accettare il quesito, si dovrebbe rispondere, mi pare, che chi 
considera in primo piano la personalità artistica degli scrittori e 
analizza le loro opere e le ricolloca ciascuna nel suo tempo col fine di 
individuare queste personalità, fa storia letteraria, l’interesse per la storia 
della lingua comincia quando si commisura il linguaggio individuale 
d’uno scrittore con l'uso dei suoi contemporanei. 

Ricerche fondate su un perpetuo confronto fra il linguaggio di singoli 
scrittori e l’uso del loro tempo (penso alle luminose pagine del De Lollis 
sul lessico dei poeti dell’Ottocento o alla solida monografìa del Folena 
sull’Arcadia del Sannazzaro) sono per questo riguardo preziose. E, per 
venire ad esempi spiccioli, non è possibile giudicare se in un certo 
scrittore per li campi è o no un arcaismo, se io gli dissi per «io le dissi» è o 
no un toscanismo se non a patto di conoscere se l’uso comune della sua 
età consentiva o no una scelta, quali erano i pareri dei grammatici, quale 
era l’uso individuale di quello scrittore. 

Mi si consenta tuttavia di affermare che una trattazione che si 
limitasse a profili stilistici, anche numerosi, anche eccellenti, non sarebbe 
che un lacerto di una storia integrale della lingua, perché lascerebbe da 
parte alcuni fra i problemi più importanti che a questa storia tocca 
risolvere. 

Uno dei compiti più affascinanti è per esempio quello di vedere come 
si formino (o come si attingano ad altre lingue) le parole più tipiche 
(quelle che furono chiamate le « parole-medaglie» o le « parole-testimoni »): 
è ovvio che la spiegazione dei fenomeni linguistici va cercata nel 
momento e nell'ambiente in cui essi cominciano ad apparire. Si ricordi 
la storia dell'assunzione di Accademia in italiano e i significati che la 
parola prese nel Quattrocento e nel Cinquecento, diventando parola 


europea. Oppure si pensi alle parole che indicano nel Cinquecento il 
contegno, le quali in parte esprimono concetti dominanti in Italia 
^attitudine!, in parte riproducono forme di pensare spagnole (sussiego). 

Il mutamento di significato di setificio, lanificio da « lavorazione 
della seta, della lana » a « luogo dove si lavorano la seta, la lana» e poi il 
moltiplicarsi dei nomi in -ficio, non può trovar luce che nello studio delle 
origini e negli sviluppi dell’industria lombarda. 

La storia di ambiente e la svolta che la parola subisce per influenza 
del concetto tainiano di milieu è una pagina di storia della cultura 
dell’Ottocento che ha larga ripercussione sulla lingua. 

Certo, i riflessi della storia culturale d’Italia sulla lingua sono molto 
più evidenti nel lessico che nella grammatica, ma anche in molti capitoli 
di questa sono chiaramente percettibili: valga come esempio la storia del 
suffisso -iere, che sessant’anni fa si cercava di spiegare con artificiose 
combinazioni fonetiche, e ora si spiega senza esitazione con l’influenza 
della civiltà cavalleresca francese. 

Quando ho dovuto risolvere i problemi che la struttura di questo libro 
mi poneva, ho creduto di dovermi soffermare su scrittori singoli solo in 
funzione della continuità evolutiva della lingua, e non della loro 
personalità artistica. Ho invece cercato di dare la massima importanza 
alla storia delle principali correnti d’idee e dei più notevoli fatti 
grammaticali e lessicali. 

Altri problemi numerosi e gravi mi si sono presentati, e il lettore 
giudicherà come io abbia saputo affrontarli. 

Una delle questioni più difficili, per la scarsezza di testimonianze, è 
quella pur capitale dei rapporti fra lingua parlata e lingua scritta, 
dall’età imperiale (come mostrano le interminabili discussioni sul 
termine «latino volgare ») fino a oggi. 

In parte collegato con questo è il problema della coesistenza delle 
parlate locali e regionali con il progressivo enuclearsi di una lingua 
comune a tutta la nazione su basi toscane. 

Un altro punto importante su cui ho dovuto in parecchi capitoli 
soffermarmi, è quello dell’importanza che il latino per molti secoli ha 
avuto al di sopra del volgare o accanto ad esso, come lingua colta. 

Mi ha dato molto da pensare la divisione in periodi. Ho finito con 
l'adottare all'ingrosso, dal Duecento in poi, la divisione convenzionale 
per secoli, conscio che la divisione più razionale per generazioni avrebbe 
dato, allo stato attuale degli studi, difficoltà insuperabili; e poco meno 
grandi quella, già preconizzata dal Borghini, per cinquantenni. Senza 
dare alla data secolare altra importanza che quella d’una divisione 
comoda, non ho mancato tuttavia di sostituirla qualche volta con una 
data vicina, storicamente più importante. Non ho creduto di poter dar 
retta alla divisione del Salfi, che (nel Ristretto della storia della 
letteratura italiana, Firenze 1848) manteneva la divisione per secoli, ma 
collocandola al 1275, 1375, 1475, ecc. 

Suscitano molte difficoltà pratiche, nella divisione per secoli, gli 
autori a cavalcioni fra un secolo e l’altro: Dante stesso, il Prodenzani, 


6 


Storia della lingua italiana 


Leonardo, il Sannazzaro, il Chiabrera, il Magalotti, il Monti e tanti altri-, 
accadrà così qualche volta che le citazioni di uno stesso autore si trovino 
sparse in due capitoli successivi. 

Così pure, mi è accaduto non di rado di dover trattare più volte di 
una medesima parola da più punti di vista, sia nell’àmbito di un singolo 
capitolo, sia in più capitoli successivi. Per non rendere troppo numerosi e 
macchinosi i rinvii, li ho limitati al minimo, ritenendo che la consulta- 
zione dell’indice dei vocaboli me ne potesse dispensare. 

Nel cercare quando appaia la prima volta un singolo fenomeno 
grammaticale o lessicale, alla principale difficoltà, quella della scarsezza 
di documentazione, se ne aggiunge un’altra, di cui dobbiamo qui far 
menzione, quella del luogo in cui se ne deve trattare. Si sa ad esempio, 
che credenza nel significato di * armadio » risale alla locuzione far la 
credenza « assaggiare i cibi destinati a uno, per dimostrare che non sono 
avvelenati». Orbene, trovando che nei lessici italiani credenza non è 
documentato in quel significato prima del sec. XVI, ne tratteremo 
dunque in quel secolo? No certo, non appena avremo constatato che in 
un inventario (in latino) delle suppellettili di un albergo di Modena nel 
1347 si trova «dischum unum a crede ntia», cioè avremo visto che la 
semantica già si stava modificando. E chi può essere certo che la parola 
non abbia preso quel significato già prima? Per quanto grave sia questo 
inconveniente, non ho creduto di dover rinunziare ai vantaggi pratici 
che in complesso presenta la divisione per secoli. 

I paragrafi grammaticali riferiti alle età più antiche contengono solo 
alcuni fra i dati contenuti nelle grammatiche storiche correnti, invece nei 
paragrafi riferiti ai secoli seguenti si troverà in nuce quello che desidere- 
remmo trovare svolto in una grammatica storica la quale non si 
limitasse alle origini, ma tenesse largamente conto dei mutamenti 
avvenuti dal Trecento in poi. 

Nei paragrafi lessicali, fra le tante cose che meritavano di essere 
ricordate, quella a cui ho dato la massima attenzione è la coniazione 
oppure l’accettazione da altre lingue di vocaboli non precedentemente 
attestati. Ma anche qui scarseggiano ancora i lavori preparatorii. 

Quando nel 1953 è uscito il Profilo di storia linguistica italiana di 
Giacomo Devoto, mio sodale in tante altre imprese, mi sono domandato 
se quello scritto, così intelligente e così suggestivo, rendesse inutile il m io: 
ma sia la maggiore ampiezza del mio lavoro, sia la diversa impostazione 
di parecchi problemi e la diversa distribuzione della materia mi hanno 
indotto a perseverare. 

Certo, mi rendo ben conto che le indagini da compiere sono ancora 
innumerevoli: e io non posso che augurare che molti altri studiosi se ne 
occupino, in ricerche singole e in quadri di più vasto insieme: con 
larghezza di erudizione, con vigoria di sintesi, e soprattutto con amore. 


Firenze, novembre 1958. 


Si dà qui l’elenco non delle molte opere a cui si rinvia durante la trattazione, 
ma di quegli scritti più frequentemente citati di cui nel testo si dà il titolo in forma 
compendiosa. 


AlS 

Bartoli, Saggi 
Bezzola, Abbozzo 

Castellani, Nuovi testi 

Cresdni, Manuale proven- 
zale 
D E I 

De Lollis, Saggi forma poet. 

Devoto, Profilo 

Devoto, Storia 

D’Ovidio, Correzioni 

D’Ovidìo, Varietà 

Fanfani, Bibliobiogr. 
Folena, Crisi 

Folena, Piov. Ari 

Gamillscheg, Rom. Germ. 

Gamillscheg, Tempuslehre 


(Atlante Italo Svizzero): K. Jaberg - J. Jud, Sprach- 
und Sachatlas Italiens und der Sùdschweiz, Zofìn- 
gen 1928-40. 

M. Bartoli, Saggi di linguistica spaziale. Torino 1945. 
R. R. Bezzola, Abbozzo di una storia dei gallicismi 
italiani nei primi secoli (75 0-1300), Zurigo 1924. 

A. Castellani, Nuovi testi fiorentini del Dugento, 
Firenze 1952. 

V. Crescini, Manuale per l’avviamento agli studi 
provenzali, Milano 1926. 

C. Battisti-G. Alessio, Dizionario etimologico italia- 
no, Firenze 1950-57. 

C. de Lollis, Saggi sulla forma poetica dell'Ottocento, 
Bari 1929. 

G. Devoto, Profilo di storia linguistica italiana, 
Firenze 1953. 

G. Devoto, Storia della lingua di Roma, Bologna 
1940. 

F. D’Ovidio, Le correzioni ai Promessi Sposi e la 
questione della lingua, 4‘ ed., Napoli 1895. 

F. D’Ovidio, Varietà filologiche, Napoli s. a. (.Opere, 
voi. X). 

La Bibliobiografia di P. Fanfani, Firenze-Roma 1874. 

G. Folena, La crisi linguistica del Quattrocento e 
V* Arcadia» di I. Sannazzaro, Firenze 1952. 

Motti e facezie del Piovano Arlotto a cura di G. 
Folena, Milano-Napoli 1953. 

E. Gamillscheg, Romania Germanica, Berlino-Lipsia 
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E. Gamillscheg, «Studien zur Vorgeschichte einer 
romanischen Tempuslehre», in Sitzungsber. Afe. 
Wien, CLXXII, Vienna 1913. 


8 


Storia della lingua italiana 


Nota bibliografica 


9 


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Hoppeler, Cellini 

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Labande-Jeanroy, Question, 
I, Il 

Lazzeri, Antologia 
Lokotsch, Etym. Wòrt. 


Meyer-Lubke, Einfuhrung 


Meyer-Lubke, Gramm. 

Migliorini, Dal nome pro- 
prio 

Migliorini, Lingua contem- 
poranea 

Migliorini, Lingua e cultura 

Migliorini, Saggi ling. 

Migliorini, Saggi Novecento 

Migliorini-Folena, Testi Tre- 
cento 

Migliorini-Folena, Testi 
Quattrocento 

Monaci, Crestomazia 


Monteverdi, Saggi 
Monteverdi, Studi e saggi 

Monteverdi, Testi 

Nencioni, Fra grammatica e 
retorica 

Olschki, Gesch. wiss. Lit. 


R. A. Hall, Bibliografia della linguistica italiana, 
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C. Hoppeler, Appunti sulla lingua della «Vito» di B. 
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Italie, Strasburgo 1925,- La question de la langue en 
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G. Lazzeri, Antologia dei primi secoli della letteratu- 
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K. Lokotsch, Etymologisches Wórterbuch der euro- 
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romanischen Sprachwissenschaft, 3 a ed., Heidelberg 
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G. Nencioni, «Fra grammatica e retorica: un caso di 
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L. Olschki, Geschichte der neusprachlichen wissen- 
schaftlichen Literatur, I-III Heidelberg 1919, Lipsia- 
Ginevra 1922, Halle 1927. 


Parodi, Lingua e lett. 

Prati, Voc. etim. 
Problemi e orient. 

REW 

Rezasco 

Rohlfs, Hist. Gramm. 
Schiaffali, Momenti 
Schiaffali, Testi 
Schiaffali, Tradizione 

Segre, Sintassi del per. 
Solmi, Storia dir. 


E. G. Parodi, Lingua e letteratura: Studi di teoria 
linguistica e di storia dell’italiano antico, Venezia 
1957. 

A Prati, Vocabolario etimologico italiano, Milano 
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Problemi e orientamenti critici di lingua e letteratura 
italiana: collana diretta da A Momigliano, voli. 4, 
Milano 1948-49. 

W. Meyer-Lubke, Romanisches etymologisches Wòr- 
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G. Rezasco, Dizionario del linguaggio italiano stori- 
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C. Segre, «La sintassi del periodo nei primi prosato- 
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Lincei, s. 8 a , voi. IV, fase. 2, Roma 1952. 

A. Solmi, Storia del diritto italiano, 3 a ed., Milano 
1930. 


Sorrento, Diffusione L. Sorrento, La diffusione della lingua italiana nel 

Cinquecento in Sicilia, Firenze 1921. 

Sorrento, Sintassi romanza L. Sorrento, Sintassi romanza: ricerche e prospettive, 

Milano 1950. 


Sozzi, Aspetti B. T. Sozzi, Aspetti e momenti della questione lingui- 

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Terracini, Pagine B. Terracini, Pagine e appunti di linguistica storica, 

Firenze 1957. 

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Vidossi, Italia dial G. Vìdossi, «L’Italia dialettale fino a Dante», in Le 

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Vidossi, F. Arese, Milano-Napoli 1956. 

Vitale, Cancelleria M. Vitale, La lingua volgare della Cancelleria vi- 

sconteo-sforzesca nel Quattrocento, Varese-Milano 
1953. 


10 


Storia della lingua italiana 


Vivaldi, Controversie 


Wartburg, Ausgliederung 
Wartburg, Entstehung 
Wartburg, Raccolta 
Wiese, Elementarbuch 
Zaccaria, Elem. iberico 
Zaccaria, Raccolta 


V. Vivaldi, Le controversie intorno alla nostra lingua 
dal 1500 ai nostri giorni, 3 voli., Catanzaro 1894- 
1898; 2“ ed., Storia delle controversie linguistiche in 
Italia da Dante ai nostri giorni, 1° voi., Catanzaro 
1925. 

W. von Wartburg, Die Ausgliederung der romani- 
schen Sprachràume, Berna 1950. 

W. von Wartburg, Die Entstehung der romanischen 
Vólker, Halle 1939. 

W. von Wartburg, Raccolta di testi antichi italiani, 
Berna 1946. 

B. Wiese, Altitalienisches Elementarbuch, 2* ed., 
Heidelberg 1928. 

E. Zaccaria, L'elemento iberico nella lingua italiana, 
Bologna 1927. 

E. Zaccaria, Raccolta di voci affatto sconosciute o 
mal note ai lessicografi ed ai filologi. Marradi 1919, 


CAPITOLO I 

LA LATINITÀ D’ITALIA IN ETÀ IMPERIALE 


1. Da Augusto a Odoacre 

Nel lungo periodo che va da Augusto a Odoacre il latino parlato 
subisce notevoli modificazioni. Benché non si abbia ancora minima- 
mente coscienza di un sistema linguistico nuovo contrapposto a quello 
antico, molti fra gli elementi che costituiranno il sistema italiano sono 
già nati o nascono in questi secoli. 

Non ci sarà necessario fermarci troppo a lungo a giustificare né il 
limite iniziale di questo periodo, né quello finale, consci come siamo 
che tali confini non hanno che un valore approssimativamente indicati- 
vo. Ma per il momento iniziale vorremmo ricordare la modificazione di 
struttura sociale a cui dà la spinta il regime personale instaurato da 
Augusto, e il messaggio cristiano che tra breve agirà come irresistibile 
lievito. L’inclinazione di Augusto ai volgarismi 1 , ove si vada al di là del 
carattere aneddotico delle testimonianze, sarà pur essa sintomatica. 
La data finale C476), pur non dimenticando^ che già parecchi stanzia- 
menti di barbari erano avvenuti in Italia per concessione imperiale 2 , 
segna il momento in cui l’Italia cessa di essere sorgente autonoma di 
autorità imperiale, e l’inizio di stanziamenti barbarici assai più 
massicci 

Si sarebbe tentati di dividere ulteriormente questo lungo periodo di 
cinque secoli, distinguendo il periodo pagano da quello cristiano. I 
mutamenti sociali e linguistici sono così importanti che giustifichereb- 
bero ampiamente ima suddivisione, convenzionalmente databile con 
l’editto di Milano (313): dico convenzionalmente perché la libertà e poi i 
privilegi concessi ai Cristiani segnano solo il libero espandersi di 
peculiarità prima represse. 

Ma siccome per tanti e tanti fenomeni le datazioni sono molto 
incerte, e del resto ai nostri fini importa soltanto segnare le linee 


1 V. Pisani, «Augusto e il latino», in Ann. Se. norm. Pisa, s. 2“, VII, 1938, pp. 221- 

236. 

2 Tribù di Taifali, popolo gotico, erano state stanziate dall’imperatore 
Graziano (383) nell’Emilia (e così poi tribù di Alamanni furono accolte da 
Teodorico sulle rive del Po, ecc.). 




12 Storia della lingua italiana 

fondamentali, di solito sarà meglio considerare nel suo insieme tutta 
l’età imperiale. 

2. Lingua parlata e lingua scritta 

Tra l’inizio e la fine di questo periodo, il principale mutamento è nel 
rapporto tra la lingua parlata e la lingua scritta: la differenza, che 
all’inizio è lieve, è molto forte alla fine. 

Non possiamo qui dispensarci, benché se ne sia ormai parlato 
anche troppo, dall accennare alla questione che fa capo all’infelicissi- 
mo termine di latino volgare. 

Ma, invece che mettere insieme e ridiscutere i passi degli antichi e 
le teorie dei moderni, vorremmo anzitutto esporre nelle grandi linee i 
rapporti fra la lingua parlata e la lingua scritta durante questi secoli. 
La situazione del linguista è assai difficile, in quanto ciò che gli preme 
conoscere, il flusso ininterrotto della lingua parlata dall’età preistorica 
a quella augustea, e via via fino a oggi, può essere solo parzialmente 
conosciuto o ricostruito: e soltanto attraverso testimonianze scritte, 
cioè attraverso una stesura che è solo in parte una registrazione fedele, 
quasi sempre è una stilizzazione. La regola che «si deve scrivere come 
si parla» è stata seguita solo dai moderni, e solo parzialmente, e per 
brevi stagioni; gli antichi hanno sempre concepito lo scrivere, anche il 
più familiare, come soggetto a determinate regole e schemi. 

Distinti idealmente i due filoni, quello della lingua parlata, di gran 
lunga più variegato (secondo i tempi, i luoghi, le classi sociali, le spinte 
affettive), e quello più meditato e regolato della lingua scritta, anch’ es- 
so tuttavia più vario che di solito non si creda, non dobbiamo lasciarci 
andare a considerarli come due unità separate. Dobbiamo tener conto 
che la lingua parlata, persino quella degli analfabeti, risente molto 
dell’influenza della lingua scritta e viceversa. Abbiamo insomma due 
sistemi più o meno differenziati tra loro, secondo i tempi, i luoghi, gli 
strati, i toni, ma con coincidenze e interferenze numerosissime. 

Le nostre limitazioni nella conoscenza del latino letterario sono 
prodotte dalle dispersioni e dalle corruttele che i testi hanno subite nei 
secoli; invece quel che sappiamo del latino parlato si fonda quasi tutto 
su una serie di ipotesi, alcune altamente verosimili, altre molto più 
incerte. Non è lecito dubitare della sostanziale vicinanza fra latino 
parlato e latino scritto a Roma negli ultimi due secoli della Repubblica, 
quando appunto la lingua letteraria si costituì attraverso una stilizza- 
zione del parlato. Le differenze che potevano correre allora tra la 
lingua scritta e la lingua parlata in città dalla maggioranza dobbiamo 
credere fossero non maggiori di quelle che possono esserci ora, e la 
frase tanto discussa della lettera di Cicerone (od fam., IX, 21) 
«verumtamen quid tibi ego videor in epistolis? Nonne plebeio sermone 
agere tecum?» va certo intesa come «alla buona» e non «in latino 
volgare». 

Ma è indubbio che già allora al di sotto degli strati più colti, a 


La latinità d’Italia in età imperiale 13 

Roma, e con molto maggiore abbondanza altrove, si avevano nella 
lingua parlata varianti notevoli. Con intensità sempre crescente queste 
peculiarità della lingua parlata più incolta si manifestano nell’età 
imperiale; se si deve presumere che non ne sia stata impedita la 
comprensione reciproca tra popolazioni delle varie regioni dell’Impero, 
tuttavia dobbiamo concepire in modo ben diverso la forte unità della 
lingua scritta e le libertà largamente concesse alla lingua parlata. La 
prima rimane sempre legata dalla tradizione scolastica a norme 
severe, che i grammatici si sforzano di mantenere con un certo rigore 
anche nelle province, e anche quando con la crisi politico-sociale del III 
secolo l’ignoranza dilaga. Il rispetto per le norme grammaticali e 
l’amore per una forma ornata, elegante, riesce ad imporsi anche dopo il 
trionfo del cristianesimo, che pur rappresenta l’emergere di nuovi 
strati plebei e un sensibile distacco dalla tradizione. 

Ma, nella lingua parlata, dobbiamo immaginare molto più attive le 
forze innovatrici, che tenderebbero a portare a una disgregazione. Fin 
quando durano vivaci gli scambi di persone e di cose fra i territori 
dell’Impero, sono aperte le possibilità di penetrazione linguistica fra 
luogo e luogo; e fin che Roma mantiene una superiorità di prestigio, 
circolano di preferenza le innovazioni che Roma stessa ha create 
oppure accolte. 

3. Fonti per la conoscenza del latino parlato 

I nostri tentativi per raffigurarci quella che poteva essere la lingua 
parlata nei vari luoghi e tempi e strati della popolazione si fondano su 
due ordini diversi di testimonianze: quelle che riusciamo a ricavare 
dalle fonti scritte e quelle date dal riscontro con i risultati neolatini, 
cioè la persistenza di espressioni linguistiche (suoni, forme, costrutti, 
vocaboli) in determinate aree, più o meno vaste. 

Anzitutto è il tono di uno scritto letterario (o di qualche passo di 
esso) che ci permette di riconoscere che lo scrittore s’accosta all’uso 
parlato. Tipico, a questo riguardo, è il modo in cui Petronio stilizza la 
lingua di alcuni personaggi del Satiricon, specialmente dei liberti di 
origine orientale che fanno corona a Trimalcione. 

Utili indizi ci danno i testi di quelle scienze che per il loro carattere 
pratico non possono troppo discostarsi dal lessico popolare: agrono- 
mia, agrimensura, medicina, veterinaria. 

Le iscrizioni nella loro forma più illustre (quella per es. delle solenni 
dediche degli archi trionfali) si attengono alla buona lingua scritta; ma 
nelle forme meno curate traspaiono ignoranze di lapicidi che palesano 
quel che i parlanti ignoravano della lingua scritta; e le forme infime, le 
sconcezze scritte sui muri delle caserme o dei lupanari, o le formule di 
esecrazione, scritte su lamine di piombo con lo scopo di nuocere a un 
rivale inviso, mostrano erniose mescolanze di parlata plebea e di 
eleganze letterarie male rimasticate. 


14 


Stona della lingua italiana 


La latinità d'Italia in età imperiale 


15 


Quando leggiamo a Pompei, graffìta sul rotolo di papiro raffigurato 
in ima pittura 3 , l’iscrizione seguente: 

Quisquis ama valia, pena qui nosci amaLrel 
bis [tianti peria, quisquis amare vota 

in luogo delle forme consuete della lingua scritta: 

Quisquis amat valeat, pereat qui nescit amare; 
bis tanti pereat, quisquis amare vetat, 

vediamo bene alcune peculiarità plebee di pronunzia (scomparsa della 
t, i semivocale per e, votare per retare) trasparire attraverso gli errori 
dell’ignoto scribacchiatore. 

E così in iscrizioni in cui leggiamo iscaelesta, iscola, Ismymae t 
Ismaragdus, Isspes, ispeclararie, isperabi, ispeculator, ispose, ecc. 4 vedia- 
mo senz’altro affiorare l’abitudine fonetica della prostesi di i davanti a 
s impura; invece quando, in un’iscrizione del tempo di Traiano, 
troviamo scritto Spania per Hispania, il medesimo fenomeno s’intrave- 
de attraverso una «grafia inversa» cioè lo sforzo di ipercorrezione di 
chi scrive. 

Testimonianze analoghe, dirette o inverse, si possono ricavare 
anche dai manoscritti antichi. 

Molto più precise, ma anche molto più limitate, sono le testimonian- 
ze dirette di particolarità grammaticali o lessicali. Così, per citare solo 
qualche esempio, sappiamo che Augusto tolse dall’ufficio un legato 
consolare che aveva scritto di sua mano ixi per ipsi 5 . Festo (II sec.) 
compendiando Verno Fiacco ci dice « Orata genus piscis appellatila 
colore auri quod rustici o rum dicebant ut auriculas, oriculas ...» (196 
Lindsay). Servio ci attesta per il suo tempo (princ. sec. V) la pronunzia 
assibilata di ti e di davanti a vocale: «Iotacismi sunt, quotiens post ti 
aut di syllabam sequitur vocalis, et plerumque supradictae syllabae in 
sibilum transeunt, tunc scilicet quando medium locum tenent, ut in 
meridies » Un Don., IV 445 K.); « Media .- di sine sibilo proferenda est: 
Graecum enim nomen est, et Media provincia est» Un Verg. Georg. II 
126 Thilo). Altrettanto utili ci sono indicazioni lessicali come quelli dello 
stesso Servio: «latine asilus, vulgo tabanus vocatur» Un Verg. Georg. Ili 
148), o il passo di S. Agostino sull’uso di ossum-. «Non est absconditum os 
meum a te, quod fecisti in abscondito. Os suum dicit: quod vulgo dicitur 
ossum. Latine os dicitur. Habeo in abscondito quodam ossum. Sic enim 
potius loquamur: melius est reprehendant nos grammatici, quam non 
intelligant populi» [Enarr. in Psalmum CXXXVIII, 20). 


3 Corpus Inscr. Lat., IV, n. 1173, E. Diehl, Pompejanische Wandinschriften, Bonn 
1910, n. 594. 

4 Diehl, Vulgàrlat. Inschriften, Bonn 1910, nn. 208-219. 

5 Suet., Aug., 88. A riscontro troviamo in iscrizioni pompeiane Paris isse 
(Diehl, Pompejanische Wandinschriften nn. 309-311; V. Vaananen, Le latin vulgato 
des inscr. pompéiennes, Helsinki 1937, pp. 113-114). 


Tra queste testimonianze di scrittori e di grammatici, va ricordata 
ner la sua eccezionale importanza ì’Appendix Probi, una raccolta di 227 
avvertenze formulate secondo lo schema vetulus non veclus, messe 
insieme da un maestro di scuola del terzo secolo o poco dopo, 
probabilmente a Roma. Vi troviamo testimonianze dirette come appun- 
to vetulus non veclus, virìdis non virdis, correzioni di grafie inverse 
come miles non milex, ecc. 

Queste notizie, di vario carattere e valore, benché evidentemente 
poco numerose in confronto con tutto quello che ci piacerebbe sapere 
sulle varietà della lingua parlata sotto l’Impero, ci permettono di 
intravedere differenze notevoli, che pure in complesso non impedivano 
l’intelligibilità reciproca. 

Tra le innovazioni, alcune finirono con l’abortire, altre col persistere 
in tutte le lingue neolatine, altre con raffermarsi soltanto in una parte 
del territorio. La vitalità dei singoli fenomeni, la direzione in cui essi si 
verranno svolgendo e accentuando, si possono scorgere solo collocan- 
dosi da un punto di vista neolatino, cioè fondandosi sui risultati che 
essi hanno finito col dare negli idiomi romanzi. 

Sotto questo profilo, possiamo appunto distinguere il latino parlato, 
che include in teoria tutte le varietà del parlato, dalle più colte alle più 
rozze, dal latino volgare o plebeo che considera le particolarità della 
lingua parlata dalla plebe proprio in quanto esse prevalgono nel 
parlato e si ritrovano poi nelle lingue neolatine. Quanto al termine di 
preromanzo, o protoromanzo o romanzo comune, esso accentua 
ancora di più il carattere ricostruttivo dell’indagine: ma il termine in 
qualche modo suggerisce una compatta uniformità, anziché un gioco 
libero e vario di spinte e controspinte provocate da centri di maggior 
prestigio, nell’àmbito di una intelligibilità che alle volte doveva essere 
assai approssimativa. 

4. Lingue prelatine 

L’espansione del latino si fonda principalmente sull’espansione 
territoriale dei Romani e sulla colonizzazione conseguente. Mentre la 
colonizzazione greca era stata, come quella fenicia, di tipo prevalente- 
mente commerciale, e perciò limitata alle città costiere, quella romana 
è in prima linea agricola, cioè porta allo stanziamento di colonie di 
soldati-coltivatori nell’interno dei paesi; e da queste il latino si espande 
sugli alloglotti. Il servizio militare è un fattore di latinizzazione in 
quanto anche i soldati che avevano una lingua materna diversa dal 
latino si trovano immersi per lunghi anni in un ambiente di lingua 
latina plebea. Quando poi torneranno ai loro paesi d’origine, la loro 
qualità di veterani, di centurioni ecc. assicurerà loro nella vita 
municipale una certa preminenza, e contribuirà ad accelerare il 
progresso della latinizzazione. 

Questa spinta dal basso viene a convergere con quelle esercitate 
dalla scuola e dalla sempre crescente organizzazione burocratica. Per 


16 


Storia della lingua italiana 


compendiare il progrediente inserirsi di nuove popolazioni nella com- 
pagine sociale dell’Impero e nella compagine linguistica latina .si suol 
citare l’eloquente apostrofe che un oriundo della Gallia meridionale, 
Rutilio Namaziano, rivolgeva a Roma nel 416: 

Fecisti patriam diversis gentibus unam: 
profuit invitis, te dominante, capi; 
dumque offers victis proprii consortia iuris, 
urbem fecisti quod prius orbis erat 6 . 

Ma già nel primo secolo Plinio il Vecchio aveva detto non molto 
diversamente, anche più insistendo sul fattore linguistico: «tot populo- 
rum ferasque linguas sermonis commercio contraheret ad conloquia et 
humanitatem homini daret, breviterque una cunctarum gentium m 
toto orbe patria fieret» (Nat. hist., Ili 29). 

Le altre lingue, che ancor nel III o nel II secolo avanti Cristo si 
dividevano con il latino la penisola, erano, già al tempo di Augusto, 
scomparse ovvero ridotte a vernacoli di scarsa importanza. 

Cominciando dalle lingue preindoeuropee, sappiamo che il ligure 
era stato assai fortemente intaccato dal celtico de iscrizioni leponzie 
rappresentano un ligure gallicizzato), e il latino completa 1 opera di 

^EleU’ etrusco, pare che nessuna iscrizione sia posteriore alierà 
cristiana-, ma per i suoi studi sull’etrusco l’imperatore Claudio dev es- 
sersi ancora valso di persone che lo conoscevano, ed e probabile che 
almeno fino al sec. IV dopo Cristo l’etrusco sia persistitocome hn&m 
sacrale delTaruspicina-. gli «Etrusci haruspices» degli eserciti di Giulia- 
no° wmpulsavarK) i lori libri rituali, che dobbiamo credere fossero 

tUt \°Itetl C sottom^ssTda 1 Druso e Tiberio, sembra che almeno in parte 
conservassero l’uso della loro lingua fino ad Adriano • 

L’assorbimento degli Euganei, degli Adriatici (o Piceni), dei Sicam 
era certo avanzatissimo all’inizio della nostra era. , 

Del paleosardo, come è noto, non si ha nemmeno ^ iscnzione^ma è 
ipotesi non temeraria ritenere che si riferiscano anche alla lingua le 
condizioni arretrate di civiltà dei Barbaricim, i quali ancora ai tempi . ± 
Grecorio Magno vivevano «ut insensata ammalia» (Lp., ili, 
culto la lingua punica si mantenne assai a lungo in Sardegna-, si ha 
ancora in un santuario un’iscrizione in lingua punica del tempo degli 

Antonini. 

e Dereditu 1 w 63-66. «Di popoli stranieri - parafrasava V Crescini - facesti, 

SkÈSSSStSSwSSS 3 

mercé tua, cittadini di un solo comune». 

7 Ammiano Marc., XXIII, 5, 10-14. 

8 Arriano, Taci., 44. 


La latinità d’Italia in età imperiale 


17 


Quanto alle lingue indoeuropee, il celtico dev’essere sopravvissuto 
in qualche luogo della Gallia, e soprattutto nelle Alpi elvetiche, fino al 
V secolo e forse anche oltre 9 . 

Non vi sono iscrizioni né venetiche né messapiche posteriori al I 
secolo a. C. Né l’umbro né l’osco sono più usati come lingue ufficiali 
dopo la guerra sociale (88 a. C.). La data in cui furono incise le tavole 
iguvine è incerta, ma non si accetta più, come troppo bassa, l’età 
augustea a cui aveva pensato il Bréal. L’osco sopravvive più a lungo: le 
iscrizioni pompeiane dipinte su muri a stucco e i graffiti probabilmente 
sono di non molto anteriori alla catastrofe del 79 d. C. 

Questione non ancora definitivamente risolta è quella della persi- 
stenza del greco anche in età imperiale in qualche territorio della 
Calabria e della Puglia. Se il greco aveva tenui appoggi territoriali, 
Tenonne forza culturale e politica che gli veniva dal suo prestigio di 
lingua dotta e di lingua ufficiale delle regioni orientali dell’Impero era 
un importantissimo fattore di conservazione 10 . 

5. Condizioni sociali. Il Cristianesimo 

L’espansione del latino a spese delle lingue precedenti non è opera 
di propaganda conscia dei Romani (ima politica della lingua si avrà 
solo in età moderna), ma del prestigio di cui gode la lingua come 
veicolo di civiltà. 

Nell’età augustea, e durante tutto il I secolo, la posizione di Roma è 
di assoluto privilegio, e di conseguenza le innovazioni linguistiche che 
irradiano dall’Urbe hanno alte probabilità di essere accolte in tutta 
quella parte deUTmpero dove la lingua culturale è il latino e non il 
greco. Il fitto sistema stradale, l’organizzazione già assai burocratica 
portano a frequenti scambi di persone e di parole. 

Ma quella nova provincialium superbia di cui si lagnava ai tempi di 
Nerone il senatore Trasea Peto (Tacito, Ann., XV, 20) guadagna terreno 
di generazione in generazione. Se è ancora un episodio isolato quello di 
Galba eletto imperatore dalle legioni di Spagna, ricordiamo che 
Traiano e Adriano erano cittadini romani di Spagna, Antonino Pio e 
Marco Aurelio erano oriundi gallici. La posizione di privilegio di Roma 
recede irremissibilmente nell’età degli Antonini, e le province sono 


9 J. U. Hubschmied, Vox Romanica, III, 1938, pp. 48-155. Ma non è credibile 
ammettere (sul solo fondamento della corrispondenza fra il gallico oskilo e l’alto 
tedesco osk «frassino», rispettata nell’adattamento di Oscela in Eschental) che 
nella vai d’Ossola vi fossero ancora nel sec. XII abitanti che parlavano gallico e 
Alamanni che li comprendevano (p. 50). 

10 Le due tesi opposte, della continuità fino ad oggi (Rohlfs, Caratzas) e della 
interruzione (Morosi, Battisti) sono tuttavia meno discoste che non sembri, 
giacché anche il Rohlfs deve riconoscere che la grecità doveva essere ormai 
ridotta a ben tenue cosa quando sopravvenne a rinsanguarla e riplasmarla la 
nuova corrente bizantina. 


18 


Stona della lingua italiana 


parificate all’Italia. Settimio Severo dà all’esercito carattere decisa- 
mente provinciale; e la famosa «constitutio Antoniniana» del suo figlio 
maggiore e successore Caracalla (212), con la quale la cittadinanza 
romana è concessa a tutti i «peregrini», è un sintomo importantissimo, 
anche se la sua portata pratica non fu molto grande 11 . 

La crisi del III secolo porterà alla decadenza estrema il prestigio di 
Roma. Così già dall’età degli Antonini l’Italia è disposta ad accettare 
innovazioni linguistiche provenienti dalla Gallia 12 e si dà l’esempio di 
innovazioni del III secolo che possono essere accolte a Lione e a 
Narbona, ma non raggiungono, nonché Liberia e la Dacia, nemmeno 
l’Etruria e rUmbria 13 . Quando, dopo gli anni atroci dell’anarchia 
militare, l’autorità è ristabilita da Diocleziano, gli inceppi prodotti dal 
nuovo regime a mmini strativo e fiscale limitano grandemente la mobili- 
tà dei cittadini e contribuiscono a ridurre anche gli scambi linguistici. 
La partizione tetrarchia per un verso rispecchia, per altro verso 
favorisce correnti di traffico piuttosto trasversali che longitudinali 14 , e 
quindi diminuisce ancora l’efficacia delle innovazioni provenienti da 
Roma. “ 

La fondazione di Costantinopoli, che mirava a diminuire le differen- 
ze nell’amministrazione dell’Impero, contribuisce invece a consolidar- 
le. D’altro lato il fatto che l’imperatore di regola non risieda più a Roma 
viene ad accrescere l’autorità dei pontefici. 

Nella seconda metà del secolo IV, mentre Milano è la residenza 
abituale dell’imperatore di Occidente e la sede di S. Ambrogio, Roma, 
con il papa Damaso, è alla testa della cristianità (ed è in grado di 
esercitare una certa influenza linguistica su tutta la cristianità occi- 
dentale). E alla metà del secolo V, il papa Leone I si vanta che la sede di 
Pietro eserciti maggiore influenza che non esercitasse la sede di 
Cesare: «ut... per sacram Beati Petri sedem caput orbis effecta, latius 
praesideres religione divina quam dominatione terrena» (Sermo LXXX). 

L’espansione del cristianesimo nel mondo antico ha effetti linguisti- 
ci di grande rilievo; sia direttamente sul lessico, per il rivolgimento i 
prodotto nei concetti e nei sentimenti, sia indirettamente per la ; 
Levitazione causata nelle classi sociali. Nei primi secoli il cristianesimo | 
si rivolge soprattutto alle classi inferiori della società, e il suo trionfo | 
sociale e linguistico nel IV secolo significa il trionfo di un filone recente % 
e in complesso popolareggiante sopra una tradizione pagana tenace- , 
mente mantenuta per secoli da ceti conservatori. 

11 M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell’Impero Romano, trad. G. 

Sanila, Firenze 1933, pp. 483-484. j 

12 Bartoli, Saggi, p. 112 . 

13 Jud, Revue de ling. romane, III, 1927, pp. 234-238 dotta fra extutare, voce | 

sorta nel latino parlato della capitale, ed extinguereì. ; 

14 L’importanza della partizione dioclezianea nella geografia linguistica 5 

dell’età imperiale è stata sostenuta specialmente da M. Bartoli (Saggi , p. 119) e da | 
G. Devoto (Storia, pp. 302-305). j 


La latinità d'Italia in età imperiale 


19 


Nell’àmbito della latinità di questo periodo, la latinità cristiana 
costituisce una «lingua speciale», la lingua di un gruppo particolare, 
stretto da legami sociali e religiosi. Sullo sfondo della latinità imperia- 
le, si vengono svolgendo particolarità linguistiche (in primo luogo 
lessicali e sintattiche) le quali autorizzano a parlare di latinità 
cristiana e di singoli «cristianismi» 1 *. 

Non va dimenticato che la lingua delle prime comunità ebraiche ed 
ellenistiche a Roma è il greco, e che greca è inizialmente la liturgia 
della Chiesa. Solo più tardi (ai tempi di papa Vittore, cioè alla fine del II 
secolo), con l’entrata di importanti nuclei latinofoni, il latino diventa la 
lingua usuale della comunità cristiana dell’Urbe. Roma è in ritardo 
rispetto all’Africa, dove già la vita, la letteratura, la liturgia si 
svolgevano da tempo in latino. La successiva fase, cioè l’uso del latino 
come lingua ufficiale della Chiesa si avrà solo più tardi, al tempo di 
papa Damaso; e ancora in età posteriore la latinizzazione completa 
della liturgia. 

6 . Fattori di differenziazione 

Quali fattori portarono a differenziarsi in direzioni diverse gli 
idiomi neolatini, e, nell’ambito italiano, i vari dialetti? Uno dei fattori 
che furono addotti, la diversa data della colonizzazione 18 , è stato ormai 
riconosciuto di non grande importanza 17 . Per fare solo un esempio, non 
è possibile ritenere che i caratteri arcaici del sardo siano dovuti alla 
colonizzazione di antica data Qa conquista dell’isola è del 238 a. C.): se 
no la Sicilia (conquistata già anteriormente, in seguito alla 2 * guerra 
punica) dovrebbe presumibilmente avere ima lingua anche più arcaica, 
o almeno serbarne tracce. 

Il fattore del sostrato, cioè l’influenza esercitata sul latino dalle 
lingue alle quali esso si sovrappose e finì col sostituirsi, è indubbiamen- 
te un motivo assai forte, benché sulla misura e il modo di questa azione 
del sostrato i linguisti non siano affatto concordi. 

Dopo la conquista, le popolazioni alloglotte, quantunque, s’intende, 
in tempi e circostanze assai diverse, passano attraverso fasi successive 
di assimilazione: l’apprendimento del latino, il bilinguismo, l’abbando- 
no della lingua natia. In tale tirocinio, esse certo introdussero nel latino 
che andavano imparando, alcune particolarità di pronunzia, e un certo 

13 Nella sconfinata bibliografia sull’argomento, vanno particolarmente ricor- 
date le ricerche di J. Schrijnen e della sua scuola- la collezione «Latinitas 
Christianorum Primaeva», inaugurata dalla Charakteristik des Altchristl. Lateins 
dello stesso Schrijnen, Nimega 1932, la rivista Vigiline Christianae, diretta da Chr. 
Mohrmann, la raccolta di saggi della medesima autrice Études sur le latin des 
Chrétiens, Roma 1958. 

" Ne fu principale fautore G. Gròber, in Arch. Lat. Lex. und Gramm., I, 1884, 
pp. 210-213. 

17 Meyer-Lùbke, Einfdhrung, pp. 18-19. 


20 


Storia della lingua italiana 


numero di vocaboli, specie quelli che esprimevano nozioni più stretta- 
mente locali (nomi di animali, di piante, di forme del suolo). Ed è 
possibile, anzi probabile, che alcune peculiarità fonetiche represse, nei 
tempi in in cui le rèmore sociali prevalevano, dal buon uso e dalla 
scuola (nei limiti in cui questa poteva allora agire), siano riemerse poi 
con l’inselvatichimento della decadenza 18 . j 

Importa molto, per giudicare della maniera in cui il sostrato può ■ 
aver agito, rendersi conto del modo della conquista e della colonizza- 
zione. Uno dei problemi più interessanti è quello delle tracce scarsissi- 
me lasciate nel latino dall’etrusco, in confronto con quelle più notevoli . 
lasciate dal celtico e dall’osco-umbro. Già avvertiva Bianco Bianchi nel 
1869 19 che sul latino d’Etruria la lingua etrusca «se non giovò, poco gli > 
nocque, perché essendo lingua troppo diversa non poteva assimilarsi 
al latino-, mentre nella bassa Italia, dove si parlarono linguaggi | 
prossimi al latino, vivono oggi dialetti nel sistema fonetico più corrotti 
del toscano». La tesi che il toscano sia meglio conservato perché ! 
l’etrusco era impermeabile al latino fu poi svolta dal Mohl, grande ; 
fautore dell’azione dei sostrati 20 . La radicale diversità delle due lingue- : 
impediva, fuorché nell’onomastica, la formazione di miscele etrusco- : 
latine (diversamente da quel che accadeva con lingue più simili a < 
Preneste, a Falerii, a Spoleto, a Lucerà), e ciò che si mantenne fu il 
i| latino quasi intatto delle numerose colonie latine, mentre la vecchia 

tradizione delle famiglie etnische si chiuse in un’orgogliosa solitudine 
I e così si estinse 21 . Questo ci spiega come la Toscana abbia conservato il ? 

latino con minori alterazioni che Roma stessa, la cui parlata invece 
j subì fòrti modificazioni di tipo osco-umbro: nd diventato nn, mb ? 

diventato nini, ecc. 22 . Che le alterazioni del latino nell Italia meridiona- 
le siano in parte dovute a fenomeni di sostrato, non par dubbio 23 : più s 
i difficile è decidere se esse dipendano da influenze esercitatesi già al ì 

tempo dell’accettazione del latino, o se siano piuttosto dovute a | 
|ij espansioni dialettali accadute nell’alto Medioevo. Quello che ora ci 

jjl preme constatare è la eccellente conservazione della latinità in j 


l> In genere gli studiosi italiani, anche di scuole opposte (basti citare il Bartoli 
e il Merlo), sono inclini a seguire la tradizione dell' Ascoli, dando grande | 
importanza al sostrato; invece altri studiosi (ricordo specialmente Rohlfs e Hall) j 
sono molto più scettici. Orientano bene sul problema Terracini, Pagine, pp. 41-79 e < 
V. Bertoldi, La parola quale testimone della storia, Napoli 1945, pp. 121-177. 

19 In un articolo nella Rivista Urbinate di quell anno, largamente citato dal p. 

F. Sarri per illustrare il carteggio medito Ascoli-Bianchi, in Mem. Acc. Lincei , s. 6\ s 
Vili, 1939, p. 157. 

20 G. F. Mohl, Introduction à la chronologie du latin vulgaire, Parigi 1899, p. 13. . 

21 G. Devoto, Storia, pp. 198-199. TTT i 

22 C. Merlo, «Lazio Sannita ed Etruria Latina?», in Italia dialettale. 111, 1927, | 

pp. 84-93. „ .. .. . .’} 

23 «A costituire il legame tra l’antica situazione osca e 1 odierna situazione » 
campana basta anche il solo bennere ‘vendere’ attestato per 1 anno 826 dal Codex | 
Cavensis »: Bertoldi, La parola quale testimone, cit., p. 126. 


La latinità d'Italia in età imperiale 


21 


territorio etrusco. Assai probabile ci sembra anche l’origine etrusca 
dell’aspirazione intervocalica toscana 24 . 

Già nell’esaminare il sostrato come fattore di modificazione lingui- 
stica, abbiamo visto come non si possa prescindere dalla struttura 
sociale dei popoli che hanno accolto il latino. Proprio su questo fattore 
sociale-culturale si è fondata la discussione sulla persistenza della -s 
finale nelle lingue romanze occidentali. Questo tratto conservativo fu 
spiegato come dovuto al modo in cui il latino fu appreso in Gallia, da 
un’aristocrazia molto incline ad assimilare la cultura romana, e 
attraverso un insegnamento scolastico: insomma ima penetrazione 
«dall’alto» e non «dal basso» della scala sociale. Generalmente accolta 
per ciò che concerne la Gallia, questa spiegazione suscitò invece forti 
dubbi negli studiosi di sardo, per il fatto che la latinizzazione della 
Sardegna avvenne in condizioni radicalmente dissimili, eppure presen- 
ta la conservazione della -s 25 . Il fattore della circolazione linguistica 
dovuto a qualunque specie di scambio, pratico o intellettuale, fra vari 
paesi, è indiscutibilmente importante; e tale che si è potuto persino 
tentare di rinunziare a ogni altro fattore per spiegare solo per mezzo 
della circolazione più o meno intensa, messa in moto da centri di più 
alto prestigio, tutta la distribuzione delle particolarità linguistiche nei 
paesi neolatini. 

Fin che la circolazione linguistica si mantiene attiva, le innovazioni 
che appaiono in tutti i territori in cui si parla latino tendono a 
diffondersi liberamente, tutt’al più trovando ostacoli nell’influenza 
della lingua scritta, e nello spirito conservatore di particolari tradizioni 
regionali dovute al sostrato o storicamente consolidatesi. Ma, svanita 
l’influenza di Roma come centro principale, rallentata quella circola- 
zione che manteneva vivi gli scambi tra le province, le peculiarità 
locali si vengono moltiplicando in direzioni diverse. 

Quanto profonde potevano essere al principio (oppure alla fine) del 
secolo III quelle divisioni fra Romania occidentale e Romania orientale 
che troviamo segnate nelle note cartine del Wartburg? 26 . Che differen- 
ze percettibili fra regione e regione esistessero non c’è dubbio 27 ; ma che 


24 Merlo, art. cit., con l’indicazione degli autori precedenti; Battisti, in Studi 
etruschi, TV, 1930, pp. 249-254. Le opinioni negative del Rohlfs (nell’art. della Cerm.- 
rom. Monatsschr ., XVIII, 1930, rist. in An den Quellen der rom. Sprachen, Halle 1952, 
pp. 71-75) e del Hall (Italica, XXVI, 1949, pp. 64-71) non mi pare che intacchino la 
probabilità che un suono così tipico sia da attribuire al sostrato (Wagner, Rom. 
Forsch., LXI, 1948, p. 14). 

25 Wagner, Rom. Forsch., LXI, 1948, p. 17; cfr. ancora Wartburg , Ausgliederung, 
pp. 24-26, Wagner, Rom. Forsch., LXTV, 1951, pp. 416-420. 

28 Nelle due edizioni dell’opuscolo su La posizione della lingua italiana 
(Lipsia 1936, Firenze 1940), e nel saggio «Die Ausgliederung der romanischen 
Sprachràume», in Zeitschr. rom. Phil., LVI, 1936, e poi in volume, Berna 1950. 

27 Si senta quello che S. Agostino scriveva alla madre (De ordine. II, 17, 45), 
testimonianza interessante sulle differenze della latinità d’Africa da quella 


22 


Storia della lingua italiana 


esistessero già grandi aree compatte c f^etticonfim difficilmente si 
può credere (né ritengo che lo pensi il Wartburg stesso) 28 . Il Bartoli 
preferiva, secondo i casi, opporre aree occidentali (o pireneo-alpine) e 
aree orientali (o appennino-balcaniche); aree continentali e aree medi- 
terranee; aree intermedie e aree laterali 29 . 

Non v’è dubbio che i vari fattori che siamo venuti enumerando (il 
sostrato, la diversa età della colonizzazione, il modo di essa la 
circolazione linguistica) e l’altro fattore che studieremo nel capitolo 
seguente d’influenza delle lingue dei popoli invasori) si sono vanamen- 
te assommati, anche se singoli studiosi tendano a mettere in ridevo 
piuttosto l’uno che l’altro fattore, secondo il loro atteggiamento 
scientifico e il tipo delle loro ricerche. Di qui la grande diversità delle 
ricostruzioni che sono state tentate, per le condizioni linguistiche 
dell’intera Romània o specificamente per 1 Italia, alla fme dell Impem 
Il Merlo ritiene che «la classificazione dei dialetti italiani è soprattutto 
un problema etnico», e sottolinea la coincidenza dei iimiti odierni con i 
limiti preistorici; lo Schùrr attribuisce invece ai Longobardi 1 origine di 
u ed ò. Il Muller (che si fonda esclusivamente sui documenti e non tien 
conto della continuità in loco ) ritiene «falliti tutti i tentativi di 
dimostrare un’antica dialettalizzazione» 30 , mentre il Lausberg amva a 
ricostruire una paleogeografia dei dialetti italiani alla fine del sec. IV, 
con una ripartizione in cinque gruppi: uno neoromanzo (romanzo 
occidentale), che comprende l’Italia a nord dell Appennino, e quattro 
gruppi paleoromanzi: l’Italia mediana, specialmente occidentale este- 
sa fino a Napoli; l’Italia adriatica; i territori arcaici (Lucania, Sardegna, 
Corsica); i territori grecizzanti (Puglia meridionale, Calabria, Sicilia) . 

7. Distacco della lingua letteraria 

La lingua scritta, nei suoi filoni letterari e nei suoi filoni tecnici, 
conduceva una vita sempre più artificiale, e staccata da quella della 
lingua parlata. L’ideale retorico dell’età aurea sopravvive negli scritto- 
ri pagani, impoverito, puntellato alla meglio dai grammatici; piu si 
procede nel tempo, più si sente l’imbarazzata pedanteria degli settori 
che si sforzano di imitare le antiche eleganze, e non ci riescono. Tra gli 


H’Ttalia e sulla discordanza di ambedue da ima lingua ideale esente da difetti: «si 
erllmdicamte facile ad eum sermonem perventuram, qui locutioms et lrnguae 
vitio careat profecto mentiar. Me enim ipsum, cui magna fuit necessitas ipsa 
perdiscere, adhuc in multis verborum sonis Itali exagitant-, et a me vicissim, quod 

ad % S cT H OI Meier ^DiTkntstehung der roman. Sprachen undNationen, Franco- 
forte 1941,' passim, M. Pei, Rom. Rev., XXXIV, 1943, pp. 235-247, M. L. Wagner, Rom. 

Forsch^ LX^l^ii f on( jamentali della lingua nazionale italiana e delle 

lingue sorelle», in Mise. Fac. Leti, e FU, I, Torino, 1936 PP- 79-81. 

30 H. F. Muller, A Chronology of Vulgar Latm, Halle 1929, cap. X. 

31 Rom. Forsch., LXI, 1948, pp. 322-323. 


La latinità d’Italia in età imperiale 


23 


scrittori cristiani c’è un continuo sovrapporsi di due tendenze: quella 
che porta a rispettare le norme della retorica classica, e quella che 
porta a piegarsi fraternamente al livello delle masse. In san Girolamo 
prevale la prima tendenza 32 , in sant’Agostino la seconda 33 . 

Tutto codesto non c’interessa che di scorcio, e andrebbe interamen- 
te lasciato agli studiosi della letteratura e della lingua argentea e 
cristiana se non ci premesse di rilevare due cose. In primo luogo che 
una certa influenza fu sempre esercitata sulla lingua parlata da questa 
latinità letteraria, e non solo per una continuazione di prestigio, ma per 
motivi religiosi: fra le opere c’è nientemeno che la Bibbia nelle sue 
versioni latine. In secondo luogo perché continua sempre nella lettera- 
tura cristiana e nell’uso liturgico la coniazione di vocaboli nuovi. La 
terminologia teologica, elaborata dapprima in Africa, poi in Italia, 
costituisce un ampio nucleo di ter mini dotti, che fin dai primordi delle 
lingue neolatine verrà ad arricchire il lessico {glorificare , incamatio, 
refrigerium e mille altri); inoltre fin da questo periodo parecchi 
neologismi penetrano profondamente attraverso il culto nella lingua 
parlata e sopravviveranno per via ereditaria: e non solo termini più o 
meno legati alla vita religiosa, come dominica (domenica), feria (fiera ), 
missa (messa), ma addirittura voci come angustiare ( angosciare ), cre- 
dentia (credenza), parabolare (parlare ), ecc. 


8. Principali fenomeni grammaticali 

Non possiamo né vogliamo fermarci a discutere minutamente su 
quei fenomeni grammaticali del latino parlato che si sono affermati in 
questo periodo e che affioreranno poi in tutta la Romania o in aree 
italiane: vi si soffermano ex professo i manuali di «latino volgare» e di 
linguistica romanza, e numerose monografie ne studiano l’area e la 
cronologia e ne cercano con maggiore o minore successo le cause. 

Tuttavia non possiamo dispensarci dall’indicare sommariamente i 
principalissimi tra i mutamenti prodotti nel latino parlato in Italia 
durante il primo mezzo millennio della nostra era. 

Anzitutto l’accento. Il ritmo del latino parlato in età classica si 
fondava sull’alternanza tra vocali lunghe e brevi, e con ogni probabili- 
tà quello fra i caratteri dell’accento che aveva valore distintivo era 
l’altezza musicale. Ambedue queste particolarità ora mutano: si perde 
la distinzione fondata sulla quantità, e l’accento diviene prevalente- 
mente intensivo. Di regola la posizione dell’accento rimane la medesi- 


32 «Ciceronianus es, non Christianus», gli dice l’eterno Giudice nel sogno che 
Girolamo riferisce nella lettera a Eustochio (Ep., XXII, 30). 

33 «Melius est reprehendant nos Grammatici, quam non intelligat populus» 
(Enarr. in Ps. CXXXVIII, 20). Il confronto tra le opere di sant’Agostino scritte 
prima e dopo la conversione è molto istruttivo: nelle seconde le costruzioni 
analitiche sono più frequenti che nelle prime. 


24 


Stona della lingua italiana 


La latinità d'Italia in età imperiale 


25 


ma, fuorché nel tipo mulIérem, fiuòlum (in cui la i perde insieme ; 
l’accento e il carattere vocalico e si passa a muljérem, fHjólumf, nel tipo ; 
fecèrunt, dixèrunt non si ha un vero e proprio spostamento di accento, ì 
ma la sopravvivenza nella lingua parlata d’una desinenza -èrunt (che 
in età classica era stata sopraffatta da un -èrunt sorto dall’incrocio dei I 
due tipi -ère ed -èrunt). 

Con la perdita della quantità, il riassestamento che avviene nel 
sistema delle vocali porta alla formazione di nuovi sistemi: quello di 
gran lunga predominante nella Romània presenta un solo fonema in ì 
luogo di o e di O (cosicché vóce da vòcem suona come cróce da crùcem), 
un altro fonema in luogo di E ed 1 ( réte come fède). Ma la Sardegna e una \ 
notevole area dell’Italia meridionale (e, per la u, anche la Dacia) 
mantengono la distinzione. 

Quanto ai dittonghi, giungono a termine, nel I secolo dell’era 
volgare, quelle tendenze di origine italica che spingevano già da tempo ] 
al monottongo: ae si confonde con E, oe con E. Più complicate sono le 
vicende di au, che in ima prima fase, ancora in età repubblicana, ! 
tendeva a ridursi a o e come tale si trova in una serie di voci plebee (p. \ 
es. cauda diventato còda, donde il nostro còda con ó), mentre l’au ; 
mantenuto intatto dagli ambienti latini conservatori resterà a lungo 3 '. ) 

La sincope delle vocali atone secondo i diversi incontri consonantici 
e secondo le diverse aree potè avvenire in tempi diversi. Si sa che in i 
complesso l’italiano centrale e meridionale è, insieme col romeno, I 
meno soggetto alla sincope che lo spagnolo, e questo a sua volta meno ; 
che il francese. Nei dialetti gallo-italici la sincope antica e moderna è J 
assai estesa. Rimangono ancora aperti molti problemi, che sembra J 
difficile risolvere solo con la diversa età della sincope: si pensi, tanto \ 
per fondarsi su esempi concreti, al doppio esito di tegghia ( teglia ) e 
tegola da tegola, del triplice esito di fola, fiaba, favola da fabOla < 
Siamo inclini a credere che possano essere convissute l’ima accanto | 
all’altra per lungo tempo, forse per secoli, ima tradizione plebea più 1 
incline alla sincope, e una più conservatrice. 

Passando al consonantismo, è noto che il trattamento delle finali t, | 
m, s ha avuto grande importanza, per il valore morfologico che quelle | 
consonanti avevano in latino come desinenze flessionali. La -m, così 
debole anche in età classica da permettere l’elisione metrica, non : 
sopravvive né in Italia né altrove, fuorché con poche tracce nei i 
monosillabi: sum che dà son e poi sono. Speme, spene da spem è dubbio, ; 
potendo anche essere un rifacimento flessionale o una voce semidotta. 5 
La debolezza della -t nel I secolo d. C. appare chiara nell’iscrizione \ 
pompeiana già ricordata: j 

Quisquis ama, valia; peria qui nosci amalre); 


34 Se il toscano e l’italiano letterario hanno ò (òro, ecc.l, in qualche dialetto 
settentrionale arcaico e nei dialetti meridionali le parole popolari presentano 
tuttora au (Rohlfs. Hist. Gramm., §§ 41-43). 


bis (danti peria, quisquis amare vota. 

La sola traccia lasciata dalla -t in italiano è nel rafforzamento 
nmdotto dai monosillabi e (da et) e o (da aut); ma qualche dialetto 
lucano e calabrese ha ancora -ti con valore flessionale: mi piaciti, ecc. 35 . 

T s aveva avuto nel latino repubblicano fasi alterne, di indebolimento 
O di ricupero. Nell’Italia settentrionale, a giudicare dalle numerose 
tracce sopravvisse certo assai a lungo 36 . In Toscana si ha qualche 
traccia di -s nei monosillabi (-i in noi, voi, poi, crai ecc., ovvero 
rafforzamento: più fforte, tre llibri ), ma non è necessario perciò credere 
che sia sopravvissuto sotto la forma di -s sino al Medioevo. La stessa 
„ona lucano-calabra che mantiene -t mantiene anche -s 37 . 

Nel periodo che stiamo studiando si è svolta in Italia la palatalizza- 
zione per cui ce, ci, ge, gì, che in età repubblicana sonavano ke, ki, ghe, 
ehi dapprima si differenziano nella pronunzia dalla c e dalla g in altre 
posizioni, senza tuttavia che i parlanti si accorgano di questa variazio- 
ne (si hanno suoni diversi, condizionati da quelli seguenti, ma un unico 
fonema), e più tardi si giunge (nell’Italia centrale e meridionale e in 
Romenià) alla pronunzia ancor oggi vigente. Una minuta verifica dei 
dati finora addotti per risolvere il problema 38 , pur senza giungere a 
conclusioni certe, permette d’intravedere che l’innovazione, forse 
dovuta a una spirita umbra, non si diffuse molto celermente, tardò a 
giungere nell’Italia meridionale e nella Sicilia, e non arrivò che 
parzialmente e assai tardi in Sardegna e in Dalmazia. 

Dati più sicuri sulla pronunzia di ti e di dobbiamo a grammatici del 
IV secolo: « iustitia cum scribitur, tertia syllaba sic sonat, quasi constet 
extribus litteris t, z et i» (Papirio, ap. Keil, Gramm. Lat., VII, 216); sulla 
pronunzia di Media v. il passo di Servio cit. a p. 14. 

La sparizione dell’aspirata h rispondeva a tendenze rustiche: la 
troviamo già scomparsa in parole rurali come olus e anser in luogo di 
holus e hanser che si aspetterebbero; all’interno di parola appare già 
anticamente indebolita (cfr. prehendo - prendo, nihil - nil ). I grammatici 
per secoli tentarono di tenerla in vita: questa lotta ci è testimoniata - 
oltre che da omissioni e grafie inverse nelle iscrizioni e da due 
avvertenze del l’Appendix Probi - dal noto passo di sant’Agostino: «si 
quis contra disciplinam grammaticam sine adspiratione primae sylla- 
bae o minem dixerit, displiceat magis hominibus quam si contra tua 
praecepta hominem oderit, quum sit homo» ( Confess ., I, 18). 

L’assimilazione di -pt-, -ps- a -tt-, -ss- e di -ct-, -cs- (x) a -tt-, -ss- ha già 
origini antiche: sembra si debba leggere issula (dimin. di ipsa ) nella 


« Rohlfs, Hist. Gramm., § 309. Per a sardo, v. Wagner, Hist. Lauti des 
Sardischen, Halle 1941, § 351. 

36 Wartburg, Ausgliederung, pp. 20-31. 

37 Rohlfs, Hist. Gramm., § 308. In sardo e in ladino la -s mantiene d suo valore 
flessivo. 

38 Migliorini, in Silloge... Ascoli, Torino 1929, pp. 271-301. 



26 Storia della lingua italiana 

Cistellaria di Plauto, v. 450, ixe per ipse ci è attestato da Svetonio per il 
tempo di Augusto (vedi p. 14), isse si legge in iscrizioni pompeiane, 
lattuca si ha nell’editto di Diocleziano (301): il fenomeno, che sembra di ! 
origine italica, viene a distinguere il trattamento italo-romanzo da 
quello gallo-romanzo Yit-, -is-). 

Alcune ammonizioni dell’Appendix, come camera non cammara, 
aqua non acqua, mostrano già in atto tendenze che hanno largo j 
sviluppo in italiano: il rafforzamento della consonante postonica nei I 
proparossittoni, il rafforzamento dovuto a u semiconsonante. 1 

La prostesi vocalica davanti a s impura dovè soggiacere a vicende 1 
alterne: la prima iscrizione in cui si trova è il nome Ismuma a Pompei 39 ; j 
altre ne cita il Diehl (cfr. p. 14); ma il fenomeno non appare mai nel- | 
YAppendix Probi. L’italiano occupa ima posizione intermedia tra le a 
lingue romanze occidentali, le quali presentano sempre la prostesi 3 
(spagn. espada, fr. épée, ecc.), e il romeno che non l’ha mai: esso | 
possiede o almeno possedeva ambedue le forme e le faceva alternare | 
regolarmente (la strada, in istrada)* 0 . _ } 

Nel campo morfologico-sintattico si tende decisamente in quest’età 1 
a semplificare la flessione nominale e verbale, sia lasciando cadere ! 
alcune peculiarità, sia sostituendole con morfemi nuovi, di tipo analiti- ; 
co. Del neutro spariscono le forme (fuorché un certo numero di quelle 
in -a e poche di quelle in -ora) e sparisce la categoria. Nella declinazio- \ 
ne, guadagnano rapidamente terreno a spese del genitivo e del dativo i l 
costrutti con de e ad, che in età classica si potevano adoperare soltanto ; 
per significati strettamente delimitati (templum de marmore -. Verg., J 
Georg., Ili, v. 13 ecc.). j 

Spariscono i comparativi sintetici (fuorché pochi adoperati molto ; 
frequentemente), e sono sostituiti da quelli formati con plus. Ai f 
moltiplicativi (bis, ter, ecc.) sottentrano forme analitiche (duas aut tres ! 
vecis, nell’Oribasio latino). 

Ille e ipse s’indeboliscono nel significato; e a ciò contribuì certo lo \ 
sforzo per tradurre gli articoli greci nei testi sacri, p. es. Dixit illis '] 
duodecim discipulis neiYltala Uoh., 6, 67). ] 

La categoria del deponente sparisce, mentre quella del passivo è j 
rinnovata nella forma (la coniugazione sintetica è sostituita da una ? 
coniugazione analitica per mezzo dell’ausiliare esse). Anche habere 
progredisce sensibilmente in funzione di ausiliare-, i costrutti del tipo j 
cognitum habeo «tengo come cosa nota» diventano più frequenti e man 
mano scolorendosi nel significato forniscono un sostituto alle forme dei 
tempi storici, sotto forma di «tempi composti» (ho conosciuto, ecc.). 

Accanto alle forme normali del futuro, non nitidamente caratteriz- 
zate dalle desinenze e scialbe nel significato, puramente obiettivo, si 


39 Notizie degli scavi, 1911, n. 458, n. 21 (cit. da Vaananen, Inscr. Pomp., p. 81). 

40 Accolgono questa alternanza anche le parole che avevano is + cons. (o his 
+ cons.) in latino: p. es. storia, Spagna. 


La latinità d'Italia in età imperiale 


27 


«ormano altre forme che esprimono più coloritamente ciò che deve 
an ® I T ciò C he si vuol fare: «Tempestas illa tollere habet totam paleam 
dp S area» (S. Agostino, Tract. in Ioh., 4, 1, 2). 

Crescono gli scambi fra le forme della seconda coniugazione e 
quelle della terza, specialmente all’infinito (da cadére si passa a cadére, 

eCC La paratassi, com’era da attendersi in un periodo di civiltà più 
elementare, prevale sull’ipotassi. Anche questa si semplifica, e i suoi 
nrdieni si riducono di numero-, quia guadagna terreno («dixit quia 
mustella comedit»; Petronio, Sat „ 46, corrispondente a un greco Sióxi) e 
“annunzia il nostro che-, nelle interrogative indirette, forse per 
modello umbro 41 , entra nell’uso si, ecc. Questo nuovo spirito che si 
manifesta nella sintassi (e nell’ordine delle parole) del latino parlato è 
ormai lontanissimo da quello dell’età classica, e preannunzia decisa- 
mente le lingue nuove. 


9. Il lessico: voci che sopravviveranno 

Nel passare rapidamente in rassegna gli elementi che costituiscono 
il lessico del latino parlato in Italia dal secolo I al V, bisogna anzitutto 
tener conto di quella notevole parte che rimane uguale o pressappoco 
uguale al latino parlato dell’età repubblicana, quale lo conosciamo 
nella sua stilizzazione letteraria classica. 

Molte centinaia di parole italiane sono tuttora uguali - salvo, 
talora, qualche mutamento fonetico e morfologico e non grandi 
va riazi oni di significato - a quelle del latino classico-, dunque erano tali 
anche nel latino parlato. Si ha, per. es.: homo uomo (è vero che yir è 
scomparso, e di conseguenza il significato di uomo è più ampio di 
quello di homo), pater padre, mater madre, filius figlio-, asinus asino, 
bos bue, canis cane, cervus cervo, porcus porco, vacca vacca-, aqua 
acqua, arbor albero, caelum cielo, terra terra-, manus mano, digitus 
dito, pes piede, porta porta, puteus pozzo, rota ruota- altus alto, bonus 
buono, calidus caldo, frigidus freddo, siccus secco, russus rosso, niger 
nero, novus nuovo, habere avere, tenere tenere, dicere dire, facere fare, 
bibere bere, currere correre, dormire dormire-, bene bene, male male-, 
quando quando, si se-, in in, per per ecc. 

Accanto a voci come queste, sopravvissute in tutta o quasi tutta la 
Romània, ve ne sono molte altre che sopravvivono soltanto in area 
italiana o italiciana 42 . 


“ Devoto, Storia, p. 240. 

“ Considero, negli esempi che seguono, insieme con l’area linguistica più 
strettamente italiana, anche l’area sarda e quella ladina. Senza entrare in 
minute discussioni di parentele più o meno strette, di aree più o meno 
precisamente delimitate, ma a scopo pratico, parlo in questo caso di area 
italiciana, di parole italiciane, riferendomi alla «diocesi italiciana» (dalla fine del 
III al V secolo) che comprendeva anche la Sardegna e la Rezia <L. Cantarelli, La 
diocesi italiciana da Diocleziano alla fine dell’Impero occidentale, Roma 1903). 


28 


Storia della lingua italiana 


Ecco un breve elenco, puramente esemplificatorio, di tali parole: I 
aegyptius «scuro»; tose, ghezzo ecc. IR EW 235); j 

agbestis «selvatico»: sic. arestu ecc. (REW 295), tose, agresto «uva 
immatura»; anche gnaresta da vinea agrestis-, j 

caligarius «calzolaio»: tose. ant. galigaio, it. sett. calegaro ecc. ! 
(REW 1515); j 

campsare: (sleansare ecc. t REW 1562); j 

catulus: tose, cacchio ecc. (REW 1771); 
congius: ant. tose, cogno ecc. (REW 2146); 

cunulae: culla, abr. cunèlè ecc. (REW 2400); 1 

LACULUM: giacchio ecc. (REW 4570); | 

lentigo: lentiggine ecc. (REW 4981); 

ubellus: livello (enfìteutico) (REW 5010); j 

mentula: it. mer. minchia, it. minchione (REW 5513); ’J 

micina: fare a miccino (REW 5561); ] 

notarius: notaio (REW 5964): si sa che quella del notaio è istituzione 
italiana (Solmi, Storia dir., pp. 157-158); J 

sidus: ant. tose, sido «gelo» (REW 7902); 1 

sororcula: ant. tose, sirocchia (REW 8103); ; 

spacus (di cui si hanno attestazioni in Cassio Felice e nell’Oribasio \ 
latino): spago; ecc. 

Alcune di queste parole, sopravvissute solo in una più o meno 1 
ristretta area toscana, sono entrate nella corrente della lingua lettera- I 
ria, e per questa via si sono di nuovo diffuse. Ma altre sono tuttora | 
limitate ad aree ristrette. Eccone una listerella, anche questa solo f 
esemplificativa: 

buccellatum: lucch. buccellato, veneto buzzolà, sic. vucciddatu | 
(REW 1361); | 

ficulnea (Vulgata, Ven. Fort.): ant. orviet. ficuna; > 

hastula: bologn. astia (REW 4073); ì 

illinc: emil. lenka (REW 4269); 

libitina: ven. la ( siora ) Betina (Migliorini, Dal nome proprio, p. 314); I 
nex: aret. nece, niece, ecc. (REW 5901); J 

nota: lomb. alp., engad., ampezz. nòdo «marchio di animali» (capre, 1 
pecore); 1 

notare: nodà, nudèr (REW 5962, 5963); — ì 

pandere: ven. pàndar, friul. pandi «divulgare», ecc. (REW 6189); ] 

pansus: ant. it. poso «aperto», casent. ecc. poso «tesa» (misura) ■: 
(REW 6205); ' j 

rudus: lomb. riid, emil. rud «concime» (REW 7422); j 

verendus agg., verenda pluT. neutro: moden. brend, lucch. merenda f 
ecc. (REW 9227); 

vetustus: piem. viosk, emil., logudor. (REW 9293). f 

Qualche vocabolo latino sopravvive solamente nella toponomastica ì 
italiana, come: J 

agellus: Agelli (Ascoli Piceno), Agello (Perugia), Gello (Pistoia, | 
Arezzo ecc.), Aielli (Aquila), Aiello (Cosenza ecc.); | 



Lo latinità d’Italia in età imperiale 


29 


^ktttjria- Centoia, Cintola (Pistoia, Firenze, ecc.); 

^Sluentia- Confienza (Pavia) (cfr. i nomi tratti da confluentes m 

TtaS e fuori, REW 2136 a); 

becumanus: Dicomano (Firenze); 

° Fiobbio (Bergamo), Fiuggi (Frosmone); 

nemus: Nembro (Bergamo) da in nemore (Salvioni, in Boll. Svizz. It., 

^’pratIÌa: Pracchia (Pistoia), Pracchiola (Massa); 
praedium: Preggio (Perugia), Prezza (Aquila); 

vk-(ii)lus: Vicchio (Firenze) 43 . . , 

Altri si trov an o addirittura solo nella toponomastica urbana: a 
n JJt ( dove è anche sopravvissuta sotto la forma di none la voce regio 
scomparsa altrove nella penisola), si hanno Termini da thermae e 
Satiri da theatrum: questa parola sopravvisse a lungo anche a Brescia, 
o Padova e a Pola, in luoghi vicini agli antichi teatri 44 

A aueste voci latine giunte fino ad oggi per via ereditaria bisogna 
«fungerne ancora un certo numero: sono quelle di cui non ci rimane 
airuna antica testimonianza scritta, ma che possiamo congetturare 
rheesistessero già nell’antichità, per un doppio ordine di considerazio- 
ni- l’esistenza di voci moderne, e l’impossibilità o 1 improbabilità che 
nueste voci siano state foggiate modernamente. Si abbiano ad esem- 
pio le voci italiane bigoncio e rozzo-, bigoncio e le varianti toscane 
(hiàongio) e d’altre regioni fanno pensare a un *bicongius, il quale non 
x testimoniato, ma possiamo ben dire casualmente, se troviamo che un 
certo Novellio Torquato era stato soprannominato Tncongius perché 
era stato capace di bere tre congii l’uno dietro l’altro (Plin., Nat. hist., 
14 22 144)- rozzo, conforme alle consuete norme fonetiche, corrisponde 
bene a un *rudius, comparativo neutro di rudis. Ora, formazioni simili 
sarebbero state impossibili già nell’alto Medioevo-, quanto a *bicongius 
sia per la scomparsa del congius dall’uso, sia per 1 ìmpossibihtà di 
formare composti di questo tipo, quanto a *rudius per 1 isterilirsi dei 

comparativi organici. „ „ 

Questa ricostruzione di parole antiche ha avuto, nella linguistica 
dei passati decenni, i suoi fasti e i suoi nefasti. In qualche caso, forme 
congetturate da un linguista hanno avuto la riprova dell esperienza, 
cioè sono state documentate. Il Gróber, nel primo di una sene di 
articoli che ebbero importanza notevole per questo tipo di ncostruzio- 
ni 45 aveva supposto resistenza di un latino anxia : e il Rossberg lo 
documentò poi nel tardo poeta Draconzio. Il Forster 40 spiegò la voce 
ruvido come nata da un ipotetico *rugidus «rugoso» derivato da ruga-. 


43 V. l’assai più ricca lista di G. Rohlfs, Arch. St. n. Spr., 184, 1944, pp. 122-123 (= 
An der Quelle, cit., pp. 171-172). 

44 Migliorini, Saggi ling., pp. 239-241. 

45 G. Gróber, in Arch. Lat. Lexik. Gr., I, 1884, p. 242. 

46 Z eitschr. rom. Phil., Ili, 1879, p. 259. 


30 


Stona della lingua italiana 


contestato dal Paris, l’ètimo ebbe invece conferma in un’iscrizione su 
un recipiente di terracotta trovato in Bosnia e conservato a Saraievo' 7 , 
Ma se in qualche caso le basi ipotetiche hanno trovato una brillante 
riprova, bisogna riconoscere che dell’asterisco si è abusato, e che in 
moltissimi altri casi l’aver trasformato l’incertezza di un etimo nella 
pseudo-certezza dell’esistenza d’un vocabolo nel latino parlato ha 
prodotto più danno che vantaggio. 

Ecco alcuni esempi di basi ipotetiche proposte per spiegare vocaboli 
italiani, le quali sembrano abbastanza consistenti: 

*cariolus (dim. di cariesì «tarlo»-, it. sett. caiiiìolio)-, 

*c asic are (der. di casus): cascare ; 

*cinnus: cenno ; 

*comptiare (der. di comptus, part. di comère «riunire; pettinare, 
ornare»): conciare; 

* in afflare : innaffiare; 

*lucinare: rappresentato nei dialetti sett. dal tipo « lusnare », in 
Toscana da baluginare ( REW 5142); 

*ordinium (der. di ordo, - inis ): ordigno-, 

* pendiculare (der. di pendere): pencolare; 

*rubiculus: tose. ant. rubecchio «rossastro», ecc. 

10. Relitti e imprestiti 

Il lessico latino ha incorporato in larga misura, come è noto, 
elementi alloglotti: sia dalle lingue di tipo «mediterraneo» parlate in 
Italia prima della venuta degli Indoeuropei (in primo luogo dall’etrusco 
e dal ligure), sia dalle altre lingue indoeuropee d’Italia (in primo luogo 
dalle lingue del gruppo osco-umbro, poi dal celtico, oltre a minime 
tracce venetiche, messapiche, sicule). Si tratta di azioni e reazioni 
numerose e complicate, che vanno riconnesse con le vicende preistori- 
che (arrivo dei Protolatini alle loro sedi) e storiche (sinecismo con 
Sabini ed Etruschi in Roma stessa, espansione del latino nella penisola 
e assorbimento delle altre lingue, ecc.): è compito dei latinisti studiare 
nei particolari le cause e gli effetti. 

C’è tuttavia un certo numero di parole che sfuggono ai latinisti, e 
invece interessano i neolatinisti: accanto alle voci documentate già per 
l’antichità nell’uso degli scrittori o per via di glosse o altrimenti, vi sono 
alcune parole che non affiorano nella scrittura, eppure debbono essere 
penetrate nel latino parlato, tant’è vero che sono arrivate a sopravvive- 
re attraverso i secoli fino alle parlate odierne. 

Si tratta quasi soltanto di parole connesse alla configurazione del 
suolo, alla flora, alla fauna: cioè di quel tipo di vocaboli così stretta- 
mente legati al suolo che i terrigeni continuano a servirsene persino se 
mutano lingua, in quanto la lingua nuovamente accolta non avrebbe 


' 7 Schuchardt, Zeitschr. rom. Phil., XXII, 1898, p. 532. 



La latinità d’Italia in età imperiale 


rnùni adeguati per esprimere quelle nozioni. Si sa che in questo caso 
iiimruisti piuttosto che di imprestiti parlano di relitti. 

1 II latino ha attinto all’etrusco qualche centinaio di parole, di cui 
arecchie penetrate profondamente nel lessico e sopravvissute tpopu- 
Exs persona, catena, tabema, ecc.), altre scomparse nell’uso parlato e, 
semai, rientrate in italiano come latinismi ( spurius , atrium, idus, 

histrio, mantisa, ecc.). _ . .. ... ,. 

Probabili relitti etruschi sono alcuni nomi toscam di piante (brenti, 
gigaro ilatro, nepa). Un caso a sé è quello di chiana, rimasto vivo in 
Toscana perché sempre collegato con la ben nota acqua stagnante, la 
Chiana (ant. Clanis, probabilmente voce tirrenica, cioè mediterranea). 

Lo studio delle parole lasciate dai Liguri, dai Reti e da minori 
popolazioni alpine 48 ha ravvisato come tali alcune parole già note ai 
Romani (genista, larix, ligustrum-, camox, segusius-, peltrum) e molte 
altre di cui si hanno testimonianze sia nella topomastica, sia nei 
dialetti alpini moderni i tipi balma, barga, grava, malga, rugia, ecc.). 

Anche per il fatto che il ligure fu assorbito, prima che dal latino, dal 
celtico, non sempre riesce facile distinguere, nell’area ligure, tra le voci 
preindoeuropee e quelle celtiche, cioè indoeuropee. 

La conquista delle Gallie, e i rapporti strettissimi instauratisi con 
l’Italia, ci spiegano la penetrazione di vocaboli gallici in latino; 
penetrazione assai larga e, per alcuni, così antica da non distinguersi 
tìfriifl. sorte delle altre parole latine. Sono voci come betulla (Plin.), verna 
«ontano» (Gloss.), alauda (Suet.), beccus («gallinacei rostrum», Suet.), 
salmo (Plin.), lancea (Verg.), carrus (Sisenna), benna (Fest.), braca (Ovid.), 
che tuttora vivono nei loro continuatori. Qualche altra voce è testimo- 
niata solo più tardi: cambiare (Apul.), geusiae (da cui il derivato 
trangugiare: Marceli. Empir., IV sec.). 

Il confronto degli esiti neolatini permette di ricostruire altre voci 
«con asterisco» che, data l’area in cui appaiono e i riscontri con 
vocaboli di lingue celtiche tuttora viventi, possono essere riconosciute 
come celtiche: *bracum «palude» (da cui braco, brago), *pettia (da cui 
pezza e pezzo), *camminum «via» (da cui cammino), *comboros «trince- 
ramento d’alberi» (da cui ingombro, sgomberare, ecc.), *multo, -o nis (da 
cui montone ), *garra (da cui garretto), *pariolum (da cui paiolo), ecc.* 9 . 

Mentre queste parole celtiche ^presumibilmente circolavano nel 
latino dell’età imperiale, altre hanno avuto fortuna più limitata, 
ristretta alla sopravvivenza nelle Gallie (transalpina e cisalpina). Ci 
limitiam o a citare qualche esempio di basi che hanno dato origine a 
vocaboli tuttora vivi nei dialetti settentrionali: cumba «valle», lausiae 
( lapides ) «lastre di pietra», cavannus «gufo», glastum «erba guada», 


,B Studio a cui hanno dato i più notevoli contributi J. Jud e la sua scuola, e in 
Italia V. Bertoldi, C. Battisti, C. Tagliavini, G. Alessio. 

48 Oltre ai noti lavori del Dottin e del Weisgerber, e ai lemmi celtici del REW, 
v. T. Bolelli, «Le voci di origine gallica nel REW», in It. dial., XVII-XTVIII. 


32 


Storia della lingua italiana 



brogilus «brolo», attegia, *tegia «capanna», *tamisio «staccio», *grenr\A 
«barba», *crodi- «duro, compatto», ecc. | 

Qualche altro vocabolo celtico è penetrato in italiano più tardi, pej 
via francese o provenzale: veltro , vassallo, cervogia, lega (misura), j 
La presenza di numerosi elementi osco-umbri nel lessico latino è; 
stata molto bene studiata dai latinisti 50 ; a noi interessano, più che j| 
termini già entrati nell’uso classico (bos, bufalus, lupus, scrofa, ursusì 
anas, turdus, casa, lingua, lacrima, consilium, ecc.) quelli testimoniati- 
poco e tardi (èlex, da cui élce, per ìlex; pómex, da cui pómice, per pumex-ji 
terrae tufer, da cui tartufo, per tuberi o quelli ricostruiti tenendo contò: 
delle corrispondenze fonetiche tra latino e tosco-umbro: *stèva per stivai 
Qt. stégola), *bufulcus per bubulcus (it. bifolco ), *tafanus per tabanus (it,. 
tafano), *mètius per mìtius (it. mézzo «troppo maturo»), *octufer peri 
october (lucano attrufu), *glefa per gleba (tarant. gliefa, gliofa). I 
Dovremmo anche dare un cenno sui vocaboli germanici penetrati! 
nel latino parlato prima della caduta dell’Impero, attraverso i contatti: 
militari e commerciali, gli schiavi germanici, gli stanziamenti concessi; 
dagli imperatori. Ma poiché è impossibile sceverare nettamente j 
germaniSmi di questa serie da quelli penetrati in età barbarica, ne; 
tratteremo più oltre, insieme con essi (v. cap. II, § 18). 

11. Grecismi 

Nessuno ignora che cosa rappresenti per la cultura e la lingua di ! 
Roma il contributo della cultura e della lingua greca: tracciarne, sia! 
pure brevissimamente, il quadro esorbiterebbe dai nostri scopi. Ricor- ■ 
diamo solo che nel grandioso processo di simbiosi tra la parte orientale ' 
e quella occidentale dell’Impero gli scambi si esercitano con grande 
intensità per l’appartenenza al medesimo Stato, la creazione di un solo \ 
ambiente culturale, gli intensi movimenti e scambi di persone; e il 
latino ne risente dall’alto e dal basso. 

Dall’alto c’è una larga e consapevole accettazione di concetti e di 
parole, grazie alla quale le migliori conquiste del pensiero greco, e ; 
innumerevoli parole, sono accolte nel lessico 51 . j 

Dal basso, attraverso colonie di varie popolazioni orientali, più o I 
meno ellenizzate, che a Roma e in molte altre città dell’Italia meridie : 
naie contavano numerosissime persone, si mantengono contatti orali ] 
molto stretti, i quali portano all’adozione di centinaia di vocaboli nel ; 
latino parlato. i 

Già forti ondate di grecismi erano giunte in latino per via orale nel ;j 


50 Specialmente nel classico volume di A. Ernout, Les éléments dialectaux du 
vocabulaire latin, Parigi 1909. 

51 Non frequenti sono i casi in cui si manifestano scrupoli nell’accogliere 
vocaboli greci: l’imperatore Tiberio <monopolium nominaturus, prius veniam 
postulavi, quod sibi peregrino verbo utendum esset» (Svetonio, Tib., 71). 


La latinità d’Italia in età imperiale 


33 


oi UT secolo a. C., e si erano fortemente acclimatate, con 
^ «Unenti fonetici, morfologici, paretimologici talora assai forti. Per 
"olo un paio di esempi, il nome IIuppo? era stato dapprima 
^tncomeBurrus e solo più tardi si trascrisse Pyrrhus-, purpura 
^JSnee fi greco mpfópot con la perdita dell’aspirazione; ampora e 
debbono avere oscillato secondo gli strati della popolazione 
renila forma popolare ampora è sorto il diminutivo ampulla). Poi ì 
fe ^ SùTtretti contatti, e una certa affettazione di cultura nel 
ri^odurre con esattezza i suoni greci, portano all’uso costante di y, ph, 

th ’ nellT'nùglSiadi parole greche entrate nel lessico latino quali si 
nafSono trovare registrate negli appositi repertori (quello del Weise o 
SSL del Saalfeld) c’interessano in questa sede solo le voci penetrate 
così profondamente nella lingua parlata da poter sopravvivere nei 
„„ p sono alcune centinaia. . , . 

8 Ecco tanto per dare un rapido e non esauriente elenco, nomi di 
ninnte e di frutta: melo (-a), ciliegio, olivo, dattero, giuggiolo, mandorlo, 
riso fagiolo sedano, prezzemolo, anice, garofano, pepe, senape, liquiri- 
zia bosso ecc. Anche cima appartiene a questo gruppo, se ricordiamo 
thè in latino cyma è attestato solo come «germoglio». 

° Gli anim ali che portano nomi greci ereditati attraverso il latino 
«mo fuorché pochi (come fagiano, scoiattolo ), animali marmi-, balena, 
delfino, tonno, cefalo, grongo, acciuga, polpo, seppia, gambero, chioccio- 

Termini Originariamente marittimi sono governare, pelago (che nel 
significato di «mare» è voce dotta, ma è anche vissuto popolarmente 
nel senso di «avvallamento»), scalmo, nolo, ecc. 

Si riferiscono a forme del suolo poggio e grotta, forse anche 
«nelonca. Sopravvivono numerosissimi nomi di oggetti domestici, o 
usati nelle arti e nei mestieri: ampolla, borsa, bossolo, canestro, cantaro, 
cofano lampada, lucignolo, madia, organo, tappeto-, pietra, calce, matta, 
palanca, scheggia, doga, tomUìo, trapano, colla, inchiostro, gesso, carta, 

corda matassa, morchia, porpora, ecc. , , 

Ecco qualche termine di cucina: olio, butirro (burro), massa (dappri- 
ma col significato di «pasta», poi con vasti sviluppi semantici: cfr. p. 46 . 
e REW 5396). La simbiosi greco-latina in questo campo è dimostrata 
dall’accento di fégato, che è dovuto a un incrocio tra fi gr. owcuxóii >e > il 
lat. ficatum «fegato di animale ingrassato coi fichi» (REW 8494, e bibl. 
ivi). 

Alcuni vocaboli si riferiscono alla città e alle sue parti: camera, 
bagno, piazza, bottega. Si hanno nomi d’armi: baléstra, spada. 

Parecchi vocaboli concernono fi corpo umano: braccio, stomaco, 
nervo, flemma. Gamba e spalla si riferivano prima agli animali e sono 
stati trasportati all’uomo. Malattie e cure sono pure largamente 
rappresentate: cancrena, spasimo, empiastro, teriaca, cerusico. 

La cetra e la zampogna attestano l’influenza sulla musica. 

Tra le voci generali ricordiamo aria, calare, colpo, orfano, gobbo 


34 


Storia della lingua italiana 


(attraverso *gubbus da xutpó?). Importante anche l’adozione del catti 
distributivo di catuno, cadano (cfr., nella Vulg., Ezech., XLVI, 14: «faciet 
sacrificium super eo cata mane mane*). 

Questo rapido elenco vuole soltanto mostrare quanto profonda è 
stata la penetrazione degli elementi greci nel lessico latino, se ancora 
in tanta abbondanza appaiono nel patrimonio ereditario dell’italiano. 
Può darsi che qualcuno dei vocaboli ricordati sia sopravvissuto 
durante i secoli soltanto in parte del territorio italiano, e che sia 
passato solo più tardi ad altre regioni: tale è per esempio, il caso di 
acciuga, che è propriamente voce del dialetto ligure. In altri numerosi 
casi troviamo voci latine di origine greca sopravvissute in aree 
dialettali italiane (e talora in altre aree romanze) e non accolte dalla 
lingua normale. Tanto per esemplificare abbiamo: 

cathedra, volg. catecra «seggio d’onore di avventori beoni » {Notizie 
degli scavi, IX, 1933, p. 277): it. sett. cadrèga, carèga, ecc. {REW 1768); 

phlebotomum «lancetta del flebotomo»: calabr. hiètamu, sicil. cittì- 
mari «salassare» {REW 6467); 

pessulus, pessulum, volg. pesculum (gloss.): sen. pèschia, calabr. 
pièssulu (REW 6441); 

trapetum: it. mer. trappitu «frantoio» [REW 8862). 

La serie di calchi latini su parole greche conta numerosissime 
parole colte, non sopravvissute nel lessico ereditario; ma anche 
parecchie parole penetrate nell’uso popolare e perpetuatesi: p. es. ars e 
ratio, nei significati di xéyyr\ e di Xó-yo?, lingua applicato alla «favella» 
con metonimia ricalcata su quella analoga di yXcòxxa, medietas coniato 
secondo l’esempio di p&aóx7)<;, cordolium modellato su xapSiocXyia, 
cortina su aùXoaa, ecc. Anche nella grammatica troviamo p. es. ipsimus 
(Petron.) calcato su aéxóxaxo?: è la forma che, rinforzata con il -met di 
egomet ecc., darà medesimo. E probabilmente sia l’articolo determinati- 
vo sia quello indeterminativo sono sorti sotto l’influenza dell’analoga 
evoluzione prodottasi in greco. 

Merita un cenno a sé la grande serie di grecismi penetrati in latino 
nell’espandersi del cristianesimo. La lingua parlata e liturgica dei 
primi gruppi cristiani in occidente era ovvio che esercitasse ima forte 
influenza sul latino nei primi secoli. Limitandoci a ricordare alcune fra 
le più importanti voci ereditarie, ecco chierico, monaco, prete, vescovo, 
basilica, chiesa 52 , limosina 53 , battesimo, battezzare, cresima Qat. chrì- 
sma), befana, bestemmiare, ecc. 

Parecchi vocaboli che oggi non appartengono più alla sfera religio- 
sa sono pure grecismi cristiani: parola e parlare (dalle parabole di 
Gesù, la «parola» divina per eccellenza), ermo (gr. ep-rifto?, da cui anche 
le forme dottrinali eremo, eremita ), geloso, incignare lencaeniare, da 


52 Della lotta fra i due termini basilica e ecclesia si è occupato a più riprese il 
Bartoli: v. i rinvìi nelTIndice dei suoi Saggi. 

53 Nei dialetti settentrionali il tipo musina è passato al significato di 
«salvadanaio» (REW 2839). 


La latinità d'Italia in età imperiale 


35 


encaenia -orum «festa di dedicazione»), ecc.; persino tartaruga (dal gr. 
tardo xapxapoóxo?, nome di uno spirito immondo, perché nel simboli- 
smo cristiano primitivo la tartaruga rappresentava lo spirito del male). 

Alcuni dei termini ricordati si sono imposti senz’alcuna resistenza 
nel latino cristiano; per altri si è fatto il tentativo di sostituirli con 
vocaboli latini: tingere ha lottato contro baptizare, lavacrum contro 
baptismus, testis contro martyr : ma in questi casi il vocabolo greco ha 
finito col trionfare, avendo ormai assunto un preciso valore terminolo- 

Alcune voci greche cristiane sono dovute a calchi sull’ebraico: per 
citarne solo un paio, angelo è ayyeXoc, che dal significato antico di 
«messaggero» è passato nel greco cristiano a quello di «messaggero di 
Dio, ang elo» per calco dall’ebraico mal'àk ; Cristo, gr. Xpiaxó?, ricalca 
l’ebraico mashi’ah, aram. mèshiha «unto (del Signore)», «messia». 

Un gruppetto di parole ebraiche ipasqua, sabato, osanna) è pure 
arrivato a insediarsi, attraverso il cristianesimo, tra le voci ereditarie. 

12 . Nuove formazioni 

Pullulano nel latino parlato dell’età imperiale, le formazioni nuove. 
Sono, in genere, forme concrete e colorite, e di una consistenza e 
trasparenza che spesso arriverà a farle trionfare sulle forme tradizio- 
nali, logorate nei suoni e rese astratte e vaghe nei significati. Vedremo 
nel paragrafo seguente qualche esempio di concorrenza tra i vocaboli 
nuovi e i vecchi, ma intanto vogliamo accennare ad alcune delle 
formazioni che hanno avuto maggiore fortuna. Considereremo anche 
qui soltanto voci sopravvissute in Italia. 

Vediamo anzitutto qualche tipo frequente nella formazione di nuovi 
sostantivi. Si hanno numerosi nomi di mestiere e in genere d’agente in 
- arius : clavarius, ecc. Tra le formazioni in -io ricordo companio -o nis, 
che veramente è documentato solo in un passo incerto della legge 
Salica (63,1), ed è considerato di solito un calco sul germanico 54 , ma può 
essere benissimo una formazione indigena 55 . 

Appaiono in questo periodo i primi esempi di nomi propri femminili 
in -itta Uulitta, Bonitta, Suavitta ecc.), da cui prende le mosse il 
fortunato suffisso diminutivo -ittus {-etto ecc.) 58 . 


M * ga-hlaiba ‘Genosse’ von hlaibs ‘Brot’ in companio geradezu ùbersetzt 
erscheint»; Meyer-Lùbke, Einfuhrung, p. 49. 

55 Cfr. il coarmio (nomin. ?) di un’iscrizione palermitana, purtroppo ora 
irreperibile e non databile ( Corpus Inscr. Lat., X, 7297): ...syrus hui — delicatus 
coarmio merenti — fecit. Quanto alle semplici formazioni in -io, esse sono 
numerose specialmente nella latinità tarda: litterio «grammaticastro» (Ammiano), 
tabellio, ecc. (e qui andrà anche compio, il quale pure si ritiene coniato per 
influenza germanica, perché appare solo in leggi barbariche). 

M L’origine è tuttora incerta, ma più probabilmente celtica: v. da ultimo B. 
Hasselrot, Études sur la formation diminutive dans les langues romanes, Upsala 
1957, cap. I. 


36 


Storia della lingua italiana 


Pure attraverso nomi propri (della grecità cristiana) è giunto il 
suffisso -issa (it. -essa di contessa, ecc.). 

Sarà di quest’età anche qualche formazione di pseudo-antroponimo 
come *Rufianus, da cui ruffiano 57 . 

Frequentissime, per i nomi di cosa, le formazioni collettive: aeramen 
rame, *caronla carogna, *montania montagna 55 , sementla semenza, 
victualia vettovaglia. 

I numerosi vezzeggiativi che già esistevano imasculus, auricula, 
ungula, porcellus, vitellus, anellus, cultellus, scalpellum, novellus, ecc.) 
tendono a perdere ogni valore diminutivo, e molte altre nuove forma- 
zioni i*genuculum, *nuceola, *fratellus, *av(i)cellus) seguono la medesi- 
ma via S9 . 

Frequente è la sostantivazione di aggettivi per indicare cose, sia 
attraverso un neutro, sia per ellissi: hibernum ItempusI inverno, diur- 
num giorno, matutinum mattino, infernum inferno, (dies) natalis IChri- 
stiI Natale, IdiesI dominica domenica, IaquaI fontana fontana, (via! 
carrarla carraia, IfabaI baiana baggiana, eoe. 

Frequenti sono pure gli astratti ricavati da participi: collecta, 
defensa, *perdita, *vendita, ecc. 

Per derivazione immediata nascono sostantivi come lucta CLucan.), 
proba (Amm.), *monstra, *retina e come dolus (it. duolo ) (Commod. e 
inscr.). La locuzione prode est, nata da prodest 60 , ha dato origine al 
sostantivo prode, prò’ e all’aggettivo prode. 

Cominciano ad apparire i composti imperativali ( labamanos , sec. 
IV) che avranno così ampia fortuna. 

Nei verbi si moltiplicano le formazioni da nomi: mensurare, pectina- 
re, minare, morsicare, carricare, bullicare, *nevicare, *furicare (it .frugare 
ven. furegàr ), ecc. Accanto alle formazioni già antiche in -icare, si 
moltiplicano in età cristiana quelle in -izare (da cui, per via popolare, il 
suffisso -eggiare). 

Come adiutare, cantare, iactare, saltare e tanti altri verbi 61 già da 
secoli esistevano accanto a adiuvare, canere, lacere, salire, con significa- 
to più intenso e tono più popolare, altri derivati nascono in questo 
periodo: pistare, tostare, Honsare (it. tosare), ecc. 


57 Simile a ebriacus (foggiato come pseudo-nome, Ebriacus-, Schulze, Zur 
Gesch. Lat. Eigennamen, Berlino 1904, p. 284). Cfr. il gelasianus di Sidonio 
Apollinare, Carni., XXIII, v. 301. Per riscontri moderni, v. Migliorini, Dal nome 
proprio, p. 215, e Saggi linguistici, p. 94. 

58 L’agg. montaniosus è documentato negli agrimensori. 

59 In qualche caso il diminutivo è adibito a designare un oggetto diverso da 
quello indicato dal nome base: cultellus è il coltello, culter una forma di 
vomere (tose, cóltro ), asinus rimane il nome dell’asino, mentre asellus per 
designare un insetto (asello) e un pesce [nasello)., ecc. 

60 Rònsch, Itala und Vulgata, Marburgo 1875, p. 468, Lófstedt, Philologischer 
Kommentar zur Peregrinano Aetheriae, Upsala 1911, pp. 184-187. 

61 Sternutare non è documentato prima di Petronio, ma doveva esistere già in 
età classica (Cicerone usa stemutamentum ). 


La latinità d’Italia in età imperiale 


37 


T verbi semplici sono alcune volte sostituiti da composti: initiare da 
* initiare (it. cominciare), noscere da cognoscere ecc. (v. p. 38). 

C Preposizioni e avverbi, specialmente quelli con significato locale, 
rfliono rinforzati con altre preposizioni: abante, de abante (da cui 
avanti davanti), incontra, de post (da cui dipoi e dopo), de ubi, de unde 

et dove donde), ecc. , ,. , .. 

( Crescono di numero nel lessico latino, in questo periodo, e s installa- 
re fortemente nell’uso parlato, voci onomatopeiche-, tata, pappa (che, 
sotto la forma papa, avrà grande fortuna nel latino cristiano), babbus, 
nonnus, mammare, ecc. 

13 Lotta fra parole vecchie e parole nuove 

Qualche volta l’apparizione dei neologismi è dovuta alla necessità 
onomasiologica di dare espressione a nozioni nuove: basti pensare alle 
coniazioni di nuove parole per esprimere i nuovi concetti cristiani: 
salvare dominica, papa, ecc. Ma per lo più il nascere delle nuove parole 
il prosperare di voci_che prima erano rimaste confinate agli strati 
nlebei avvengono a spese delle parole tradizionali. Ciò sarà dovuto 
Piuttosto alla «energia» delle parole nuove o alla «debolezza» di quelle 
vecchie? Sarebbe futile discorrerne in generale: se mai si potrebbe 
giudicarne caso per caso. In primo luogo va tenuto conto dei fattori 
sociali e politici: il controllo della lingua non è più nelle mani di una 
ristretta aristocrazia urbana: i gruppi colti si vengono sempre più 
assottigliando e restringendo; emergono nelle province, e giungono a 
imporsi persino a Roma, uomini originariamente alloglotti, i quali 
hanno imparato molto superficialmente la lingua tradizionale. E le 
remore opposte dai grammatici non bastano a mantenere intatto il 
latino in questa trasmissione a ceti nuovi e rozzi. D’altra parte 
predicatori e scrittori cristiani reputano doveroso accostarsi all uso del 

^ *u n fattore di debolezza per molte parole è il presentarsi isolate 
anziché in famiglie o in serie compatte. Abbiamo già visto (p. 26) come 
bis, ter ecc. tendano ad essere sostituiti da duae vices, tres vices ecc.: il 
procedimento «analitico» è psicologicamente più facile per la memoria 
che quello «sintetico». Così ima parola come hirudo non s’appoggia a 
nulla, non suggerisce nulla, è un nome «immotivato», più difficile a 
im parare e a ricordare di un composto «motivato» come sanguisuga, 
«la succhiasangue», che appunto compare e s’impone al tempo di 
Plinio- «Hausta hirudine, quam sanguisugam vulgo coepisse appellali 
animadverto» [Nat. hist.. Vili, 10). In un ambiente placido e compatto, 
hirudo avrebbe potuto perpetuarsi per secoli e secoli: invece, in 
condizioni tumultuarie, poco favorevoli al mantenersi della tradizione, 
sanguisuga è preferito 02 . 


52 Per quale caso poi hirudo abbia potuto sopravvivere fino a oggi in qualche 
luogo della Provenza (REW 4144), non è possibile dire. 


38 


Storia della lingua italiana 


Così pera è vinto da bisaccium «il doppio sacco*, nihil da nulla,] 
procul da longe, ecc. Così i verbi semplici, che di solito hanno una 
coniugazione piuttosto difficile, sono spesso abbandonati a vantaggio 
di intensivi o di denominali o di composti: i verbi citati adiutore, 
cantare, iactare, già esistenti da tempo accanto a adiuvare, canere, 
tacere, li soppiantano del tutto; mensurare, pedinare, *nivicare vincono 
metili, pedere, ninguere-, e così cognoscere, conducere, consuere, occidere, 
remanere, sufflare e innumerevoli altri sono preferiti ai semplici nascere , 
ducere, suere, caedere, manere, flare, ecc. 

In genere stentano a sopravvivere i monosillabi, troppo brevi e male 
discernibili nella catena del discorso: accanto ad aes, aeris appare e poi 
trionfa aeramen, it. rame. 

Al trionfo di o ssum sopra os, ossis conferisce anche un altro fattore, 
l’intenzione di evitare romonimia. In età classica, non c’era pericolo di ! 
confondere ós «osso» con òs «bocca», ma con lo sparire delle distinzioni 
di quantità ós tende a essere sostituito da ossum, che troviamo già in I 
Tertulliano, e ós da bacca, che prima significava «gota». S. Agostino 1 
leggendo nella versione pregeronimiana dei Salmi (138,15) «Non est | 
absconditum a te ossum meuin» (in quegli stessi anni S. Girolamo 1 
traduceva «Non est occultatum os meum a te»), difendeva la forma | 
popolare: «Mallem quippe cum barbarismo dici Non est absconditum a 1 
te ossum meum quam ut ideo esset minus apertimi quia magis Latinum 1 
est» (De Dodr. christ. , III, 3), e più oltre anche più chiaramente spiegava | 
la necessità di farsi capire dagli indotti: «Cur pietatis doctorem pigeat 1 
imperitis loquentem, ossum potius quam os dicere?» QV, 3)“. ' 1 

Pure a causa dell’omonimia che era venuta a crearsi tra avena e 1 
habena per la sparizione dell’/i e lo spirantizzarsi della b tra vocali, è 1 
da credere che *retina (it. redine ) abbia preso il sopravvento su habena. J 

Di fronte a queste parole tradizionali, con le loro debolezze 1 
strutturali e il loro scolorimento semantico, vigoreggiano altre parole 1 
più solide nella struttura e più energiche nel significato. Accanto al | 
delicato edere, irregolare nella coniugazione, appare dapprima comede- | 
re, che riesce a prendere piede nella penisola Iberica (sp., pori, corner). J 
Poi ha fortuna manducare, più immaginoso e plebeo: il nuovo verbo, | 
derivato da mandere attraverso il nome di Manducus, un tipo di J 
buffone da farsa, voleva dire «dimenar le mascelle» come faceva lui. f 
Invece di fur, che dovè a un certo momento sembrare troppo scialbo, si | 
cominciò a dire latro, che propriamente significava «brigante, grassato- | 
re», ma poi prese semplicemente il significato di ladro. Accanto a caput I 
(che tuttora sopravvive nel suo significato proprio e in parecchi | 
significati figurati) si cominciò ad usare in età imperiale testa, cioè 1 
«recipiente di terracotta», con lo stesso scherzo che si ha in coccia da l 
coccio 64 . I 


63 Cfr. il passo cit. a p. 14. 

64 Tuttavia è stata fatta l'ipotesi che si tratti originariamente di un’allusione 


La latinità d'Italia in età imperiale 


39 


Cabali " * «grosso cavallo castrato, da lavoro», parola proveniente 
dalla p enis ola Balcanica 65 e considerata per un pezzo come più umile 86 , 
Stace poi. come forma più plebea equus™ 

Oltre alle parole energiche, che s’impongono con la loro colorita 
volgarità, ne emergono altre affettive, familiarmente carezzevoli A 
nuesta tendenza va attribuito il progresso delle voci diminutive e delle 
voci onomatopeiche su cui già ci siamo soffermati. Una voce come 
uber sparisce quasi dappertutto, sostituita da mamma, mamilla, 

PU ^Svolba raffermarsi di una voce in luogo di un’altra è dovuto a un 
mutamento della nozione, particolarmente di un oggetto. Il largo 
revalere di encaustum su atramentum nel significato di «inchiostro» 
non va spiegato come una mera sostituzione di vocaboli, ma come una 
ripercussione di un progresso tecnico: la sostituzione dell’inchiostro 
fatto di nerofumo o di nero di seppia con l’inchiostro di galla preparato 
«1 fuoco". 


14. Geografia areale. Caratteri delle innovazioni italiane 

La concorrenza fra sinonimi che fin qui abbiamo considerata 
tenendo conto dei pregi e dei difetti strutturali delle parole, delle 
cariche affettive, del sostituirsi di im oggetto all’altro in analoga 
funzione, si svolgeva, nell’àmbito dell’Impero, secondo le correnti di 
tr affi co materiale e culturale che in esso dominavano. 

Matteo Bartoli ha tentato, con la sua «linguistica spaziale* 70 , una 
ricostruzione delle grandi aree della latinità in età imperiale. Attraver- 
so alcune norme euristiche da lui fissate, fra cui particolarmente 
importante quella delle «aree laterali», il compianto maestro ha 
cercato di tracciare le grandi linee dell’espansione dei fenomeni 
linguistici in quell’età. 

Valga come esempio l’aggettivo che significa «bello». In portoghese 
si ha formoso, in spagnolo anticamente /ernioso, oggi hermoso-, in 


all'uso barbarico di crani come recipienti da bere (per le singole fasi del 
mutamento di significato, v. Stolz-Schmalz-Leumann-Hofmann, Lateinische 
Grammatik, Monaco 1926, p. 193). 

° Cocco, in Mem. Acc. d'Italia, s. VII*, III, pp. 793-833 e in Biblos, XX, 1944, pp. 
71-120. 

« Lo scoliasta a Persio, Prol., 1, nota: « caballino autem dicit non equino, quod 
satirae humiliora conveniant». 

47 11 femminile equa resiste più a lungo, tant’è vero che se ne trovano tracce in 
qualche dialetto italiano, e resti anche più forti in altri territori neolatini IREW 
2883). 

“ Quest’ultima forse è di origine germanica (ma non sicuramente: cfr. la 
riconnessione con titillo suggerita dall’Emout-Meillet, s.v.). 

* E. Mùller-Graupa, PhiL Wochenschr., LIV, 1934, coll. 1356-60. 

™ Principalmente con l'Introduzione alla neolinguistica, Ginevra 1925, e con 
numerosi articoli, di cui i più notevoli sono raccolti nei Saggi più volte citati. 


40 


Storia della lingua italiana 


Oriente il romeno ha frumos ; invece l’italiano e il francese hanno bello, 
beau. Il Bartoli prescinde dalle sfumature di significato che poterono 
esistere nella lingua letteraria tra formosus e bellus, ritenendo che nel 
latino parlato dei singoli luoghi e tempi dovè predominare l’una oppure 
l’altra di queste parole-, prescinde da pulcher, il quale non conta perché 
negli idiomi neolatini è scomparso-, fondandosi soltanto sulla distribu- 
zione geografica, ne trae un’argomentazione che si può enucleare 
come segue. Quando l’Iberia e più tardi la Dacia furono colonizzate, la 
parola che ricevettero dall’Italia, nel significato di «bello», fu formosus. 
dunque anche in Italia questa doveva essere la parola prevalente 
nell’età repubblicana e nei primi tempi dell’impero. Più tardi in Italia 
prevalse l’innovazione bellus-. già la parola esisteva in età classica nel 
senso di «carino», ma ora diventa il vocabolo normale che significa 
«bello». La Gallia, che ancora in quest’età tlI-III secolo d. C.) è in 
strettissimo contatto con l’Italia, accoglie anch’essa l’innovazione 
bellus, mentre 1’Iberia e la Dacia non accettano la nuova ondata 
linguistica., e continuano ad attenersi a formosus. Se invece si ammet- 
tesse che formosus e bellus e magari pulcher sono giunti tutti quanti nei , 
vari territori dell’Impero, e alla fine nelle singole aree ha finito col J 
prevalere l’uno ovvero l’altro, non si spiegherebbe la «figura» che la | 
distribuzione geografica presenta: due aree laterali conservative che j 
affiancano un’area centrale innovativa. | 

Volendo un altro esempio della stessa «figura», si possono citare le | 
voci per «dimenticare»: ma in questo caso non solo la Penisola Iberica 
e la Dacia mantengono o blitare (sp. e pori, olvidar, rom. uità), ma anche 
la Gallia (frane, oublier, prov. oblidar): invece l’Italia ha l’innovazione 
dimenticare (dementicastis è spiegato in un glossario con oblivioni 
tradidistis ) 71 . 

Un po’ meno ovvie sono le conclusioni che si possono trarre dalla 
giacitura geografica quàndo ci si deve accontentare del confronto fra 
i due tipi che sopravvivono in aree diverse. Ma indizi vari ci rendono 

certi che patella (it. padella ) è di più recente espansione rispetto a 
sartago (che tuttora sopravvive nella penisola Iberica, in Sardegna e 
fi nei dialetti dell’Italia centrale e meridionale), e così granarium (it. 

| granaio ) rispetto a horreum (che sopravvive in Sardegna e in Proven- 

ì za); sapere (poi sapere ) prendendo sempre più decisamente valore 

transitivo e significato di «sapere», ha vinto scire (che sussiste in 
Romenia e in Sardegna). Clusum (it. chiuso), estratto dai composti del 
tipo conclusum, inclusum, si è divulgato dopo che già la Gallia aveva 
ricevuto clausum (fr. cios), ecc. 

Non è scarso il numero delle parole latine che non hanno lasciato 
alcuna traccia in Italia, mentre sopravvivono qua e là in altri territori 
neolatini più o meno vasti: per citare solo qualche esempio, venere vive 

71 Obliare non entra in questo ragionamento, perché è un francesismo 
medievale. 


La latinità d'Italia in età imperiale 


41 


tuttora nella penisola iberica (spagn. banef), mentre è stato sopraffatto 
in Italia da scopare-, fimus e derivati ( fumier , ecc.) persistono in Gallia, 
sostituiti in Italia da laetamen-, forum vive in Iberia (fuero, ecc.) e in 
Gallia (nella locuzione au furi mentre solo la toponomastica ne serba 
ricordo in Italia. 

Molti vocaboli persistono solo in Sardegna ( discere , sus, ecc.) o solo 
in Romenia ( lingula , noverca, venetus, aucupare, ecc.), parecchi solo in 
Sardegna e in Romenia (haedus, vitricus, ecc.). 

Non breve sarebbe l’elenco di parole latine di cui non rimane alcun 
continuatore nelle lingue e nei dialetti neolatini. E non solo di parole 
che indicavano nozioni piuttosto astratte, non solo di parole indicanti 
oggetti poi spariti (sarebbe assurdo pensare che potessero persistere 
attraverso i secoli la nozione e il nome di apalare «cucchiaio per 
mangiare le uova bazzotte», che è attestato in Ausonio) 72 . Ma sono 
scomparse anche parole come amnis (sostituita da flumen ), clunes e 
nates (naticae), ignis (focus), os (bacca); ater (niger); alere (nutrire), 
amittere (perdere), interficere (o ccidereV 3 , linquere (laxare), ludere 
(iocare), meminisse (memorare, recordare), nere (filare), potare (bibere). 


ecc. 

Alle volte si vede o s’intravede la successiva espansione di diverse 
parole. Di loqui non resta più alcuna traccia; in luogo di esso ebbero 
dapprima fortuna fabulare (sp. hablar, pori, fatar) e fabellare (che 
sussiste nel sardo e nel ladino, ed era vivo nel dalmatico); poi s’affermò 
il neologismo cristiano parabolare arrivando a predominare in Gallia e 
in Italia: ci rendiamo conto del suo lento, progressivo espandersi da 
nord a sud se pensiamo quanto ancora era vivo favellare nei più antichi 
testi italiani, specialmente centrali e meridionali 74 . 

È ovvio insomma che, dovunque sia possibile, la testimonianza che 
si ricava dalla distribuzione odierna delle aree vada integrata con i 
dati che si ricavano dai testi scritti dei secoli intermedi: se oggi non si 
ha più nessuna traccia di uxor, e continuatori di *uxorare si hanno solo 
nei dialetti dell’Italia meridionale, il francese e il provenzale antico 
avevano ancora forme popolari risalenti a uxor, tracce di * uxor are sono 
documentate anche per l’Italia mediana («ke lu voleva puro exo rare»-. 
Ritmo di S. Alessio, v. 108), e (o)scioreccio (da *uxoricium) si ricava da 
documenti di Lucca e di Pistoia del s. XIII (Serra, Arch. glott. it, XXXIII, 
1941, p. 123). 

Valendoci del metodo areale, opportunamente integrato dalle testi- 
monianze dei testi, vediamo che in molti casi l’area italiana concorda 
con quella dell’Iberia e della Gallia, in altri casi con quella della Dacia; 
in un numero grandissimo di casi la coincidenza si ha solo fra Gallia e 

72 H. F. Muller, Époque mérovingienne, New York 1945, p. 225. 

” La scarsa vitalità di interficere rispetto a occidere nella lingua parlata 
postclassica è mostrato dal fatto che in Petronio interficere è usato una sola volta, 
occidere sedici. 

74 Si ricordi il fabellare che appare tre volte nel Ritmo cassinese. 


42 Storia della lingua italiana 

Italia. Ciò trova corrispondenza con le conclusioni degli storici, che 
fino a tutto il III secolo la circolazione entro l’àmbito imperiale fu assai 
intensa; e se più tardi fu molto minore, i rapporti fra Gallia e Italia non 
s’interruppero mai. 

Le innovazioni sorte in Italia nella te rda età imperiale arrivano molto 
più difficilmente nelle province, cosicché l’Iberia e la Dacia (e anche la 
Sardegna) conservano ima latinità in complesso più arcaica di quella 
della penisola italiana. Nell’àmbito italiano l’Italia meridionale mantie- 
ne un maggior numero di fenomeni e di voci arcaiche, in confronto spe- 
cialmente con l’Italia settentrionale, che va più spesso d’accordo con la 
Gallia: l’Italia centrale mantiene quella sua posizione intermedia che nei 
secoli venturi le agevolerà la sua funzione mediatrice. 

15. Mutamenti di significato 

I mutamenti di significato avvenuti nel latino parlato dell’età 
imperiale sono assai numerosi. In parte essi si presentano in modo tale 
che potremmo trovarli in qualsiasi altro tempo e luogo. Che acer dal 
significato di «acuto» sia passato a quello di «agro», che collocare, 
collocare se si sia ristretto a quel significato «coricare, coricarsi» che 
in età classica non aveva che occasionalmente C collocate puellulam è 
f! già in Catullo, Carni., 61, v. 188), che bucca «gota» sia passato a 

indicare la vicina bocca, per rimediare all’inopportuna omonimia in cui 
era venuto a trovarsi os (p. 38): tutto ciò rientra nei fenomeni più 
generali della semantica. 

Ma da altri mutamenti ricaviamo indizi interessanti sulle condizio- 
ni sociali e sulla psicologia collettiva dell’ambiente in cui quei fenome- 
ni hanno avuto origine e, in genere, della loro età. Per indicare la 
«tavola per i pasti familiari», il desco, si diffonde discus: prova che essa 
era per lo più rotonda. Il bustum era il luogo dove si bruciavano i 
cadaveri, quindi il sepolcro: l’uso di adornare i sepolcri con le immagini 
scolpite dei defunti ha dato origine al significato italiano di busto. Il 
grecismo organum voleva dire in generale «strumento»: lo specificarsi 
del significato al particolare strumento musicale chiamato organo 
mostra la voga che esso ebbe in età imperiale. 

Spessissimo vediamo - ed è un indizio che ci palesa le condizioni in 
cui la latinità parlata si perpetuò — che quando si avevano in età 
classica parole di duplice significato, uno concreto e imo astratto, solo 
quello concreto sopravvive nell’uso parlato (l’altro, se mai, sarà 
restaurato più tardi come latinismo). Ecco qualche esempio: 

gradus: sopravvive nel senso di «gradino», muore in quello di 
«grado» (grado è voce dotta); pagina «pergolato» e «pagina» : vive nella 
voce pania ( pagina è voce dotta); putare «tagliare» e «ritenere»: 
persiste come potare-, stirps vive solo nel significato di «sterpo» e non in 
quello figurato di «stirpe, discendenza»; stimulus «pungolo» e «stimo- 
lo»: persiste in molti dialetti nel priifto significato, sotto la forma 
stómbolo che risale a ima variante *stumulus. 



La latinità d’Italia in età imperiale 43 

E se fiscus è scomparso dalla lingua parlata, sia nel significato di 
«cesto» che in quello di «cassa dello Stato (o dell’imperatore)», i 
diminutivi fìscolo, ftscola, fiscina, fiscella dei dialetti meridionali si 
ricollegano al significato più concreto. 

Rarissimo è il caso che il concreto e l’astratto si continuino 
ambedue, come ingenium nel senso d’«ingegno» e in quello di «conge- 
gno» (l’ingegno della chiave-, cfr. il derivato ingegnere ). 

Molti fra i mutamenti di significato ci mostrano questa tendenza 
all’espressione concreta, eppur vivacemente colorita, e quindi ci fanno 
intravedere l’influenza predominante degli strati plebei in queste 
innovazioni. 

Il lat. exemplum vive nell’italiano scempio (propr. «una strage tale da 
servire di esempio»); fuga si continua in foga-, furia in foia, testa 
«recipiente di terracotta; guscio» è adoperato, dapprima scherzosa- 
mente, in luogo dell’ormai troppo scialbo caput {cfr. p. 38); e similmente 
il dimin utivo *testulum, da cui teschio ; grandis arriva a prevalere su 
magnus perché ha una stretta associazione formale con le voci grossus 
e grassus, più calde e concrete. 

Per esprimere il dolore, non basta più plorare, ma si dice che ci si 
graffiano le guance, ci si picchia il petto: questo significavano lanlare 
se, piangere, che poi passano semplicemente a lagnarsi e piangere. 

E, fra le tante espressioni per «morire», nasce ora quella, così 
evidentemente plebea, di crepare «scoppiare» («praecipitaveruntque 
eos de summo in praeceps, qui universi crepuerunt»: Vulg., II Parai., 
XXV, 12). 

Una larga serie di parole mostra mutamenti di significato tali che di 
per sé testimoniano di un ambiente rustico: con lo spopolarsi delle città 
negli ultimi secoli dell’Impero, la vita più attiva si svolse nelle 
campagne, e molte parole ne serbano traccia, hodieque manent vestigia 
ruris (Hor., Ep., II, I, v. 160). 

La sopravvivenza di patronus nel significato che ha padrone 
sembra riferirsi a quell’istituto del patrocinio per cui moltissimi 
preferirono rinunziare alla libertà e ai gravami fiscali diventando 
affittuari di ricchi proprietari, loro patroni 75 . 

La sparizione del vocabolo domus 7 " e il prevalere di casa, che in età 
classica significava «capanna, casetta rustica» è indizio di ruralizza- 
zione. 

La macchina per eccellenza è la mola del mugnaio fiat, machina, it. 
macinai. 

Pullus non è più il piccolo di qualsiasi animale, ma specificamente 
il pollo-, e quanto importante sia la pollicoltura si vede anche da index 

78 .11 fenomeno già appare nel sec. II (Rostovzev, Storia, cit., p. 240) e poi si 
aggrava sempre più («dediticios se divitum faciunt»: Salviano, De gubemat. Dei, 
V, 38). 

n Fuorché in Sardegna; e nella voce duomo, ellittica per domus ecclesìae, la 
casa dei canonici annessa alla chiesa. 




44 


Storia della lingua italiana 


passato a éndice, da cubare che prende il significato specifico di covare. 

Il verbo ponere assume in qualche area (Arezzo pónere, Bologna, 
Modena p'ander) il significato di «mettere a covare» (mentre nel Friuli,! 
in Francia, in Catalogna assume quello di «far le uova»). 

Invece catulus, che pure significava il nato di un animale, prende 
ora, con la forma cacchio, il significato di «primo tralcio» o, all’accresci- ! 
tivo ( cacchione ), quello di «penna che sta spuntando» o di «larva 
d’insetto». 

L’hortus, che presso i Romani era insieme «orto» e «giardino», si; 
riduce al solo significato utilitario (orto). Lo stilus si limita al valore di j 
stelo-, thyrsus non sopravvive nel significato mitologico e letterario di 1 
«tirso» delle Menadi, ma come un assai prosaico tórso o tórsolo. 1 
La meta vive solo in qualche luogo nel senso di «meta (di giochi ! 
fanciulleschi)», p. es. nel venez. méa Q’it. mèta non è, ben s’intende, voce ì 
ereditaria): vivissimi invece sono i significati rustici di méta «catasta», 1 
«mucchio di fieno», «pezzo di sterco». ’ ! 

Da minabi «minacciare» si passa a menare «condurre» attraverso I 
l’accezione di «condurre animali minacciandoli o percotendoli» che 3 
risulta chiara nella glossa di Festo-. «Agasones: equos agentes id est I 
minantes » (p. 23 Lindsay). | 

Il significato astratto di volta (da un lat. *volvtta) si spiega bene 1 
partendo dal voltarsi dei buoi giunti all’estremità del campo (cfr. anche 1 
tornata e tornatami. I 

E, per citare un ultimo esempio, il Raj'na ISpeculum, III, p. 301) 1 
spiegava così la coniazione del termine alba: «che nei parlanti latino si 1 
sia sentito il bisogno di una parola che esprimesse la fase intermedia 1 
fra il crepuscolo e l’aurora, ben si capisce. Sentirlo dovettero special- 1 
mente, e provvedere, T campagnuoli, sempre mattinieri». 1 

Fortissima era già stata l’impronta della vita rustica nel latino 1 
preclassico 77 ; prevalentemente rustico il latino apparve di nuovo, | 
mentre stava per trasformarsi in neolatino. f 

In molti altri casi i mutamenti semantici si sono prodotti in ambienti J 
speciali, più o meno tecnici. È una metafora militare papilio nel senso | 
di «tenda», per confronto con le ali aperte di una farfalla («tentoria, 1 
quos etiam papiliones vocant»: S. Agostino, Locutiones de Genesi, I, | 
- 1 141. di qui l’italiano padiglione, il fr. pavillon, ecc. Anche ordinare nel | 
senso di «comandare» proverrà dalla lingua militare. 

Fra i mutamenti semantici che si possono attribuire al diritto | 
ricordiamo il passaggio da libellus «libretto» a livello, attraverso I 
l’«atto scritto» che regola questa concessione fondiaria. Le parole | 
apprendere, * imparare «procacciarsi una nozione» e insignare «incide | 
re» quindi «ficcare in testa» 78 , da cui apprendere, imparare, insegnare si j 

j 

77 J. Marouzeau, «Le latin langue de paysans», in Mèi. Vendryes, Parigi 1925, | 
— pp. 251-264. 

78 La parola è documentata solo nel primo significato nella glossa « i'f/ap&G™ ! 

insigno, inciso» ( Corpus gloss. Lat., II, 284, 17). ì 


La latinità d’Italia in età imperiale 


45 


direbbero nate nel gergo studentesco, in un periodo in cui a scuola si 
sempre meno. 

m pianto e cervello sono originariamente termini di cucina: ficatum 
r-a orariamente iecur ficatum «fegato d’animale ingrassato coi fichi»; 
ftticina prevale su cerebrum il diminutivo cerebellum-. di li poi ì due 
fjTboli passano alla lingua comune. 

Pnrobabile che abbia seguito la stessa via anche spalla da spatola 
i.snatula porcina»: Apicio) e forse anche gamba, originariamente 
tarmine di veterinaria (camba, gamba), trasportato poi all uomo. 

La terminologia delle arti e dei mestieri si arricchisce di metafore 
Aoiifi fonti consuete (specialmente nomi di animali e di piante): 
^-jtherius cantiere, cyc(i)nus it. mer. cécénè «un recipiente» ciconia, 
r-rroNioLA, sopravvissuto nei dial. sett. per designare van strumenti, 
ìLattcula it. mer. naticchia «chiavistello», vms vite (di legno o di 
metallo) ecc. E la lingua popolare ricorre per metafore a nomi di 
strumenti noti: così è nato da tornare «far girare sul tornio» il 

significato romanzo di tornare. 

Senza confronto più rare, in questo periodo, sono le ondate 
semantiche che scendono dall’alto: valga come esempio il nuovo 
significato che comes assume al tempo di Costantino, quello di «alto 

funzionario imperiale» (poi conte). . . , 

I significati costituiscono un sistema, sia pure non molto ngiao, 
sono cioè tutti concatenati fra loro; e se ima parola muta di significato 
è assai probabile che il mutamento si ripercuota su altre parole, be 
bucca prende il significato di «bocca», occorre un’altra parola per 
esprimere il concetto di «guancia» e sarà gabàta «ciotola», adoperato 
metaforicamente: di qui l’it. gota. Se mittere passa dal significato di 
«mandare» a quello di «mettere» («et nemo mittit vimini novum m 
utres veteres»: Vulg., Lue., V, 37), occorre un nuovo verbo per 
esprimere quella prima nozione, e sarà mandare. Il verbo ferire passa 
dal significato di «colpire» a quello nuovo di «ferire», ed è sostituito da 
percutere. In quelle aree in cui mulier prende il significato di 
«moglie», occorre esprimere con un’altra parola il concetto di «lemmi- 


o rncì vifl. 


16. Semantica cristiana 

Moltissime parole mutano di significato in conseguenza della 
rivoluzione spirituale portata dal Cristianesimo, e penetrata in pochi 
secoli in tutti gli strati della popolazione. La massima parte dei 
vocaboli che si riferiscono alla vita dello spirito ricevono nuovi 
significati o almeno nuove connotazioni; i concetti morali e religiosi 
collegati con il pensiero pagano vengono travolti o sconvolti dalla 
concezione cristiana e dai nuovi rapporti che essa proclama fra il 
divino e rumano. 

Si pensi al significato di parole come fides, spes, caritas, virtos, 


46 


Storia della lingua italiana 


PASSIO, MUNDUS, SAECULUM, PIUS, SACER PECCARE, COMMUNICARE nella 

lineala del tempo di Augusto e in quella del tempo di Teodo • 

Della lotta fra i due diversi significati della parola salus, intesa dai 
pagai come «sanità, e dai cristiani come «salvezza, abbiamo una 
curiosa testimonianza in un sermone di S. Agostino . 

Come la semenza evangelica sia sbocciata nei nuovi concetti è 
stato studiato in saggi innumerevoli di teologia floscia, ■ hturgm: a no1 
imnorta qui soltanto segnalare la grandiosa trasmutazione . 

^Talvolta il mutamento di significato ha ongme da un preciso 

riferimento a un passo evangelico. « .. 

Astensione di massa da «pasta fermentata che serve per fare il 
nane* a gruppi di persone è un’allusione a un passo di S. Paolo Wom, 
ES 21: ifAsaio die trae come vuole i suoi vasi dalla massa luti) 
frequente nelle controversie religiose del IV secolo: S. Ottato di Milevi 
considera massa poenitentium i Cattolici soggetti ai Donatisti, 1 ro- 
Astro e S postolo raffigurano l’umanità peccatrice come una massa 

d eccati in conseguenza del fallo di Adamo. . . 

P II verbo tradere prende il significato di tradire per nfenmento a 
Giuda che «consegnò, Gesù («Iudas qui tradidit eum»; Matth., XXVI, 
25) e a quei vescovi traditores che al tempo della persecuzione di 
Diocleziano consegnarono alle autorità i testi sacri. 

Anche il Dassaggio di significato dal lat. captivus allit. cattivo 
«malvagio, (e al fr. chétif «miserabile») è dovuto al latino cristiano e 
cioè alluso in locuzioni come captivus diaboli e simili («prigioniero del 
diavolo, ossesso»), le quali l’inquadrano nella teoria agostimana della 

• Pre La S voce Z dei e tardo latino malifatius, da malurn fatum, forse e stata 
suggerita anch’essa dalla dottrina della predestinazione: da essa 

Pr0 Scor^ggTS°(Sscute come paganus abbia assunto il significato 

° PP Voc°i genTrichr associate a modi particolari di vita, prendono 
significato più ristretto: vesper sopravvive applicato alle preghiere 


78 Attendebat enim forte Christianus pauper humiììs in Pagano forte divite 
ac potenti, attendebat florem foeni et eli fidereta^rSSpes 

Cfr. von Wartburg, Franz, etym. Wórt ., s. v. captivus, e Ph. Haerle, Captivus 
catiivo-chétif, Berna 1955 

82 Schuchardt, Zeitschr. rom. Phil XXX, 1906, . P- 327 

ss v da ultimo S. Boscherini, m Lingua nostra , XVII, 1956, pp. lui ìu . 


La latinità d’Italia in età imperiale 


47 


dette a una data ora della sera, i vespri, ieiunium è il digiuno secondo le 
prescrizioni della Chiesa, plebs si restringe a indicare la pieve, cioè la 
parrocchia rurale. La tunica romana sopravvive trasformata nella 
tonaca ecclesiastica. 

Quanto alle parole più strettamente associate al culto pagano esse 
o spariscono, come p. es. ara, sostituita sempre più frequentemente da 
altare, finché questa voce trionfa con S. Girolamo che l’adotta nella 
Vulgata-, o si laicizzano, come p. es. lustrare che dal significato di 
«espiare con sacrifici» passa a quello di «lucidare»; o assumono 
colorito spregiativo: è la sorte toccata a parecchi nomi di divinità, 
ridotti a nomi di esseri malefici: Diana sopravvive in molti dialetti 
romanzi col significato di «fata, ninfa, strega», Orcus come orco, ecc. 84 . 

Parecchi tra i mutamenti semantici del latino cristiano sono dovuti, 
com’è noto, a calchi sul greco; e alcuni a calchi che già il greco aveva 
fatti sull’ebraico. Basterà ricordare un paio di esempi: passio che 
ricalca raScOos, salvare e salvator con i significati di e aoorrip, 

Dominus equivalente a Kópios, testamentum calcato su Siadrpcr], che a 
sua volta ha il significato dell’ebr. berith «alleanza» ecc. (qualche altro 
esempio alle pp. 34-35). 

Se si aggiungono i mutamenti semantici or ora esemplificati al- 
la penetrazione dei grecismi e alla coniazione di vocaboli nuovi, ci 
si renderà conto dello sconvolgimento operato nel lessico dal cristia- 
nesimo. 

17. Tarde coniazioni dotte 

In questi ultimi paragrafi (§§ 12-16) ci siamo occupati soltanto delle 
parole che avendo messo radici nel latino parlato d’Italia sono riuscite 
a sopravvivere attraverso i secoli per via ereditaria. Senza confronto 
più numerose sono quelle che entrano nella tradizione scritta comin- 
ciando da testi di età imperiale. Sono voci giuridiche, amministrative, 
filosofiche, teologiche, ecc.: voci come parentela-, inventarium, secreta- 
rìus, primicerius, limitrophus; brephotrophium, nosocomium-, intimare, 
ultimare; scibilis, scientifìcus, multiplicitas-, vivificare, mortificare, glorifi- 
care, beatificare; confortare; incorruptibilis-, ecc. Ne dovremo tener conto 
nei capitoli successivi, quando vedremo in ogni secolo l’italiano 
attingere alla latinità scritta: non a quella classica soltanto ma anche a 
quella tarda e a quella medievale. 


84 Migliorini, Dal nome proprio, pp. 310-318. 


CAPITOLO II 

TRA il LATINO E VITALIANO 

(476-960) 


1. Limiti 

Con il 476 comincia la soggezione politica dell’Italia a stirpi 
straniere, che durerà per molti secoli: fatto anche linguisticamente 
importante. E nel 960 appare il primo documento in cui si scrive 
consapevolmente in una nuova lingua: siamo ormai intorno al Mille, 
q uando le sparse membra dell’Italia cominciano a ricomporsi in un 
barlume d’unità. 

2. Romani e Germani. I Goti 

L’instaurarsi di una serie di regni barbarici fa sì che si affievolisca o 
addirittura si perda il sentimento d’appartenenza allo stato imperiale 
romano e di una relativa preminenza rispetto alle province. Né le 
pretese di Bisanzio all’universalità dell’Impero, né la restaurazione 
carolingia mutano questa situazione: non è più Roma, non è più l’Italia 
che porta l’aquila. Ma se l’unità politica del mondo romano è rotta, 
persiste, sia pure in tono minore, ima comune civiltà, e i rapporti 
ecclesiastici si mantengono forti; o addirittura crescono, nell’àmbito 
della civitas Christiana. 

n vivere secondo la «legge romana», il partecipare, sia pture in modo 
vago e lontano, del primato ecclesiastico rivendicato da Roma, rendo- 
no in Italia molto più difficile che altrove il distacco dall’universalismo 
imperiale. Perché sul concetto geografico dell’Italia s’innesti il concetto 
d’una particolare nazione italiana bisognerà che gli altri particolarismi 
nazionali siano già arrivati a vigoreggiare. E bisognerà d’altro lato che 
il concetto di nazione vinca i particolarismi locali, che proprio in questo 
mezzo millennio si vengono più che mai approfondendo. 

Il dominio degli Eruli, dei Goti, dei Longobardi ha anzitutto la forma 
d’una colonizzazione militare. 

I Goti, già vissuti per un paio di secoli a contatto con i Romani nelle 
loro sedi danubiane, ne avevano certo subito un forte influsso. La 
tendenza a romanizzarsi, sia dei Visigoti che si stanziano nell’Iberia e 
nella Gallia meridionale, sia degli Ostrogoti discesi in Italia con 
Teodorico (489), è evidente; e si riconosce proprio dagli sforzi fatti dai 
loro sovrani per evitare che con la romanizzazione andasse perduta 


50 


Storia della lingua italiana 


l’individualità etnica e la virtù guerriera del loro popolo: essi miravano 
a ottenere che i Goti assimilassero la saggezza romana e conservasse- 
ro il valore barbarico Uìomanorum prudentiam caperent et virtutem 
gentium possiderent: Cassiodoro, Variar., Ili, 23). 

Dev’essere di poco posteriore al tempo della conquista l’epigramma 
conservatoci d&ll’Anthologia Latina, di un Romano che non sapeva più 
che versi comporre, nel frastuono delle parole gotiche che risonavano 
intorno a lui: 

Inter eils goticum, scapia, matzia, ia, drincan, 
non audet quisquam dignos edicere versus 1 . 

Ma il fatto stesso di prender la penna in mano per scrivere fa 
inclinare verso il latino: le sottoscrizioni di sacerdoti ariani nei papiri 
ravennati sono più spesso in latino che in gotico. 

Specie nei luoghi dove avvennero più forti stanziamenti, le profes- 
sioni di legge gotica si mantengono a lungo 2 ; ma le testimonianze che si 
ricavano dalle parole gotiche sopravvissute sembrano rivelare un 
inabissarsi nella romanità circostante, collegato ad ima decadenza 
sociale. «Che differenza dalle abbondanti serie di nozioni, in cui si 
manifesta l’influenza della cultura franca nella Francia settentrionale! 
Negli imprestiti gotici in italiano si rispecchia tutta la miseria della 
popolazione straniera restata in Italia, che fino all’arrivo dei nuovi 
signori germanici, i Longobardi, condusse una vita da paria» 3 . 

Con la capitolazione degli ultimi Goti (555) si concludeva la conqui- 
sta o riconquista dell’Italia da parte di Bisanzio. Quando vediamo 
Aligemo, fratello di Teia, che comandava le truppe di Cuma, arrendersi 
a Narsete consegnandogli la città e il tesoro, lo vediamo in qualche 
modo perdere la sua individualità di capo barbarico, diventar suddito e 
quindi mescolarsi alla vita dei sudditi romani 4 . 

Se questa riconquista abbia contribuito a portare in Italia qualche 
influenza greca, ci è difficile dire: ciò che più importa tener presente è 
la nuova divisione geografico-politica dell’Italia che viene ad instaurar- 
si dopo l’entrata dei Longobardi in Italia (568) e le loro conquiste. 

3. I Longobardi 

I Longobardi non erano molto numerosi-, benché si siano tentate 
valutazioni molto varie, gli storici più autorevoli ritengono che i 


1 Anthologia Latina, ed. Riese, I, n. 285; cfr. W. Streitberg, Gol Elementarbu- 
ch, Heidelberg 1920, pp. 37-38. 

2 A Goito ifundus Godi, campus Godi, vico Godi) in un documento del 1045 vi 
sono persone che professano «legem vivere Gothorum» (Tamassia, Atti Ist. Ven., 
LXI, 1901, p. 131 ss., D. Olivieri, Dizionario di toponomastica lombarda, Milano 1931, 
p. 273). 

3 E. Gamillscheg, Rom. Germ., II, p. 29. 

4 Dobbiamo la notizia allo storico bizantino Agatìa (Agathias, Histor., I, 20). 


Tra il latino e Vitaliano 


51 


» avevano già avuti con i popoli civili' li qUe 1 contatti che essi 

cristianizzati (erano di relgone Sana *J5 SS T Un po ’ Uzzati e 
più come ospiti o aspirando » 11 ^ iana ’ 1 ^® S1 entravano in Italia non 
Sarte deli-impero, ma “me uTese^d.^ 11 ^ <“ Parete 
imporre ai tónti le condizioni che volesse™ %^ nqu ^ tatori ’ Uberi di 
za, nei grandi latifondi, e occupandoni le ?1 v nd -° si ’ m P ref eren- 

rono tuttavia le città fatte sedi 1 iru ^ llon . non disdegna- 

cartelli organizzano le sparae fare °In nS C fn„ Co ^ la ^azionfà 

militare, e sottraggono afle città parte^ei^ quad ^ amento di tì Po 

loro stanziamenti più fìtti furono n!irrf !° r ° ra ^° di influenza I 
Tuscia, come risulta*; oltre che dalle fonti- , set tentrionale e nella 
mastiche; meno fìtti dovevo esseS n?*? 16 ’ daU ? tracce to P°no- 

Benevento.- ma ciò non toglierle il r»rrtt^ i dUCa ì 1 ^ S P olet o e di 

foia nelle imprese militari, sia neU’attSSSintn I ^i 0bar< Ì 0 * Benev ento 
fosse assai forte. attaccamento alle credenze religiose) 

os^onStt.faU^rosStrdecSti ^^] 81 Ch ® * Lon S obard i 

detenton di una cultura superiore alialo™ t^ i !?- ro potenza eppure 

! t££SS? * l0r ° Un com Pl es so a di° r su^riorùà P e e un ) c^ffo 

Giunga cSfremSaf dure alterni mutare durante 

tempo di Liutprando e degli ultimi re benrh/ ^ C ^ fi ’ meno dure al 
seia Pre la spinta di gruppi partS«™~ft S1 veda ° «Intraveda 
Quale fosse lo stato dei S intransigenti. 

fino a che punto fosse progredita la fìisicme SecOT \ do la le gge romana, 
ne l’invasione franca 773 so Ptawen- 

ncordano il contributo portato Ì qSti , d f, CUSSO ’ e tutti 

Manzom. In questo lento processo onei oì, ® tudl dal Muratori e dal 
è il progredire della romanizzaz^ole Rn ^,^ 0 ® 1 " 613136 a noi sa P ere 
misura ì Longobardi divennero hìiinm ~ n ® uis . tic a: sapere cioè in che 
lingua nazionale; e con quale raSdiK 1 n PQ1 abband °narono la loro 
tempi e luoghi. Purtroppo non è leSto ne^ c processo avve nne nei vari 
ne, sperare che si possa precisar molto SCarsezza * documentazio- 

altra coirVT^,^^^^ S^riH P?ng f n ° * giuristi ’ ma 

Imgua: il diritto longobardo passato ^ UndlC1 ’ altra quella della 

« -5^ AffiS 
Lombardi si .•asrsssìu del ^ 

1 4» S? Vf * "• ’*• * «w Mittelaiter, 

tìsss pfsjfissss 


52 


Storia della lingua italiana 


avversi ai comuni: probabilmente discendenti e eredi dei conquistatori 
Viceversa, anche in Italia appare qualche accenno di quella che fu la 
sorte del nome di Romano presso i Latini d’Oriente, presso i quali 
rumin finì col significare «servo della gleba»: in un documento di 
Pistoia del 767 romani ha il senso di «coltivatori» per antonomasia: 
«omnes romani qui modo sunt vel eorum heredibus» (Co dice diplomati- 
co Longobardo, II, p. 219). 

Per la lingua abbiamo un interessante aneddoto riferito al principio 
dell’ottavo secolo e tramandatoci da Paolo Diacono, il dotto longobar- 
do fattosi storico del suo popolo: il duca Ferdulfo rimprovera allo 
sculdascio Argait di non aver catturati certi ladri: «quando tu aliquid 
fortiter facere poteras qui Argait ab arga nomen deductum habes» 
( Hist . Lang., IV, 24), e da questa accusa di «viltà» nasce fra i due una 
gara che porta a una vittoria degli Slavi. Paolo Diacono qualifica 
questo scambio d’insolenze «vulgaria verba», cioè «parole triviali» - e 
non mi sembra si possa dedurne, come faceva il Hartmann 7 , che i 
Longobardi più distinti parlassero già latino fra loro. Un passo del 
Chronicon Salemitanum (c. 38) composto nel 978 circa ci attesta: 
«lingua todesca quod olim Longobardi loquebantur» (Mora. Germ. hist., 
Script., Ili, p. 489) che mostra come nel X secolo il longobardo non fosse 
più parlato nell’Italia meridionale (benché il cronista sia tuttora in 
grado di spiegare qualche voce). 

Mentre il Bluhme 8 pensava che già il «romaneggiante» re Liutpran- 
do avesse ormai solo mia scarsa conoscenza della lingua longobarda, il 
Bruckner sosteneva addirittura che gruppi di persone che parlavano il 
longobardo persistessero, almeno in alcuni territori, all’alba del secon- 
do millennio 9 . Ma gli argomenti su cui egli si fonda si sbriciolano se li 
guardiamo dawicino; Yih di un documento dell’872 non è un ich ma un 
hic, i pretesi soprannomi germanici del 919 e del 1003 non sono affatto 
verosimili 10 . 

Il Hartmann, come abbiamo accennato, propende a credere a 
un’assimilazione relativamente rapida (e più rapida presso le classi 
dominanti). Insomma è probabile che al tempo della conquista franca, 
ci fossero ormai solo alcuni nuclei che continuassero l’uso del longo- 
bardo, pur essendo anch’essi diventati bilingui 11 . 


7 L. M. Hartmann, Geschichte Italiens im Mittelalter, II, 2, Gotha 1903, p. 58. 

8 F. Bluhme, Die Gens Longobardorum, II, Bonn 1874, p. 3. 

8 W. Bruckner, Die Sprache der Langobarden, Strasburgo 1895, p. 13. 

10 L’esempio del 919 (Joh. Zanvidi filii quondam Petri Zanvidi ì è di Chioggia, 
cioè di un’area dove l’onomastica greco-latina ha ima predominanza schiaccian- 
te, e non si può intendere altro che «Gian-Vito» (così lo interpreta anche l’Olivieri, 
in Onomastica, Ginevra 1923, p. 140, senza conoscere l’ipotesi del Bruckner); 
l’esempio del 1003 (il soprannome Scamafolì potrebbe essere uno «schemisci- 
pazzo», ed è comunque tanto isolato che non può essere tenuto in conto. 

11 Purtròppo nulla possiamo dedurre per il grado di bilinguismo dei Longo- 

bardi dall’episodio che ci narra Paolo Diacono l Hist. Lang., V, 29) di quel capo di 

Bulgari di nome Alzeco, che al tempo di re Grimoaldo ottenne per sé e i suoi 


Tra il latino e l'italiano 


53 


La conquista franca indubbiamente accelerò i tempi della romaniz- 
zazione linguistica. I Longobardi dei ceti meno alti entrarono in 
rapporti sempre più stretti coi Romani con cui convivevano; quelli dei 
ceti più alti si trovarono sì a dividere i «servi» e gli «armenti» con i 
Franchi che erano sopravvenuti, in numero non grande ma favoriti 
dalla protezione regia: ma la romanizzazione dei Franchi era già così 
avanzata che è da presumere che abbiano trovato più comodo per 
intendersi adoperare una specie di latino intriso di volgarismi romanzi, 
piuttosto che di quel poco che ormai dovevano possedere delle loro 
rispettive lingue germaniche 12 . 

Nell’845, in un placito tenuto a Trento a proposito dei possessi di un 
monastero in vai Lagarina 13 si parla dei vassalli «tam Teutisci quam et 
longobardi», e uno di questi, nativo di Tiemo, portava il soprannome 
di Suplainpunio, Supplainpunio «Soffia-in-pugno», cioè era ormai un 
«Lombardo» e non un «Longobardo». 

Poco c’insegnano per quel che concerne il procedere del bilinguismo 
le glosse e i glossari. Già nei testi degli editti qualche termine più 
diffìcile, longobardo o no, è spiegato con un sinonimo 14 . 

Evidentemente il moltiplicarsi delle glosse e la compilazione di veri 
e propri glossari (specialmente nel territorio beneventano, nel sec. IX) 1S 
palesa l’ignoranza non sappiamo dire se progrediente o ormai comple- 
ta del longobardo; ma bisogna anche tener conto dell’estendersi 
dell’uso delle leggi longobarde a luoghi dove non c’era mai stata 
colonizzazione longobarda. 

Opinioni molto diverse si sono avute e si hanno tuttora anche 
intorno al modo di vita degli Italiani sotto il dominio longobardo. Certo 
si ebbero momenti terribili (stragi di proprietari al tempo di Clefì) ma in 
complesso una vita e una cultura urbana persistettero: sia ecclesiasti- 
ca 13 che laica. Si pensi al persistere di tradizioni agiografiche, scolasti- 
che, giuridiche (con l’ininterrotta vitalità della scuola di Pavia) 17 , si 
pensi alle tradizioni agrimensorie attestateci dalle Casae litterarum, 
alle tradizioni metallurgiche di cui danno prova le Compositiones 
Lucenses: testi ambedue di età longobarda. 


nomini terrea, Sepino, Boviano, Isemia, «qui usque hodie in his ut dicimus locis 
habitantes, quamquam et Latine loquantur, lìnguae tamen propriae usum 
minime amiserunt». 

18 Tanto più che dopo la seconda mutazione consonantica subita dal 
longobardo la differenza tra longobardo e franco era ormai piuttosto forte. 

13 Cipolla, Arch. storico per Trieste ecc., I, 1882, pp. 274-300; Id., Rend. Acc. 
Lincei, s. 5* IX, p. 415. 

14 «De hairaub (rairaub), hoc est qui hominem mortuum invenerit » (Ed. 
Rothari, § 16) e simili; ma anche all’infuori dei termini germanici si hanno 
sinonimie come «De palo quod est carracio » (ivi, § 293) e simili. 

15 Mora. Germ. hist., Leges, IV, pp. 652-657. 

13 Ci dice Paolo Diacono QV, 42) che al tempo di Rotari in quasi tutte le città 
del regno c’erano due vescovi, uno cattolico e uno ariano. 

17 Viscardi, Le origini, 2® ediz., Milano 1950, passim. 


54 


Stona della lingua italiana 


Se in origine i Longobardi non avevano desiderato la proprietà 
fondiaria di per sé, ma in quanto potevano ottenerne i frutti senza 
coltivarla, più tardi molti degli stessi arimanni si erano trasformati in 
agricoltori, e già l’editto di Rotari (643) ci mostra i legami che j 
Longobardi ormai hanno con la terra. 

Si svolge in questo periodo nell’Italia longobarda (e solo in essa, 
poiché sembra non se ne abbia traccia in quella bizantina) la curtis, con 
la sua economia autosuffìciente o quasi, accentrata intorno a un 
monastero, oppure intorno a ima villa tenuta da un signore longobardo 
(più tardi franco). 

Le condizioni politiche ed economiche ci fanno pensare a una 
scarsa circolazione e perciò a un isolamento crescente di piccole unità 
quasi autosuffìcienti, parrocchiali o diocesane. 

Tuttavia non manca una certa circolazione. Anzitutto vanno ricor- 
dati i magistri co mlmìacini, nominati dall’editto di Rotari, dal Memora- 
torium de mercedibus magistrorum commacinorum e anche, non di 
rado, dai documenti (p. es. in un documento di Toscanella del 739: Cod. 
diplrLong., I, p. 216) 18 . 

Poi non mancavano i mercanti 19 : e artigiani e mercanti saranno 
stati quei Transpadani o Transpadini che troviamo in Toscana e nel 
Lazio in età longobarda (Arezzo 715, Pistoia 742, Marta 765, Lucca 
772). 

I patti di Liutprando con Comacchio, e i diritti di dazio che allora si 
fissano, ci mostrano la regolarità dei traffici fluviali con gli empori 
adriatici. 


4. La circolazione linguistica al tempo dei Longobardi 

La divisione d’Italia che la conquista longobarda segnò e che i 
intorno al 680 si consolidò con una pace o ima tregua che implicava \ 
da parte dei Bizantini una tacita rinunzia alla riconquista, ebbe, come ] 
si sa, una influenza politica enorme, perché solo il Risorgimento can- \ 
celiò politicamente quei confini. Non dobbiamo tuttavia credere che la | 
circolazione linguistica fosse del tutto interrotta. Si sa che Roma era ì 
congiunta all’Esarcato da quel «corridoio» bizantino (e più tardi I 


16 Con molta probabilità il loro nome, come già sostenne il Muratori, non è ì 
altro che l’etnico di Como (v. spec. P. G. Goidànich, in Lingua nostra , II, 1940, pp. | 
26 29). La proposta del Bognetti e del De Capitani (nel volume su Santa Maria di ? 
Castelseprio , Milano 1948, pp. 290, 469, 710-711) di trame il nome dalla Commagene, j 
provincia della Siria, benché assai ingegnoso (per il tentativo di inserire l’opera | 
dei cornlmkicini nel quadro delle influenze orientali sull’arte italiana) non arriva 1 
a convincerci. Ci sembra che, se fosse vera l’ipotesi, dovremmo trovare almeno I 
qualche volta il nome ben più comune di Siri o Sirici. Fanno riscontro ai Comacini | 
«comaschi» gli Antelami «carpentieri, poi muratori e lapicidi della Val d'Intelvi» !; 
(Bognetti, ivi, p. 282). | 

19 F. Carli. Il Mercato nell'alto Medio Evo, Padova 1934, passim. J 


Tra il latino e l’italiano 


55 


papale) che seguiva, la via Flaminia; Venezia, Bari, Amalfi, Napoli 
comunicavano fra di loro e con l’Oriente soprattutto per via di mare. 

Se, nella geografìa dialettale, qualche traccia di quel «corridoio» si 
può ancora notare, non scorgiamo affatto quella differenza che a priori 
ci si potrebbe aspettare, poniamo, tra Bologna e Ravenna da una parte, 
Parma, Piacenza, Pavia dall’altra. Ma purtroppo è impossibile dire se 
questo si debba a ima ininterrotta continuità di traffico, ovvero a un 
conguagliamento più tardo 20 . 

Importanti, nella geografia culturale dell’età longobarda, sono i 
rapporti fra la Lombardia e la Toscana, e anche quelli con i Longobardi 
dei ducati meridionali. 

In linea d’ipotesi, se ai germi di disunione che già il latino parlato 
d’Italia presentava negli ultimi tempi dell’Impero (sostrati diversi, linee 
di traffico orizzontali più importanti di quelle verticali) si fosse venuta 
ad aggiungere una diversità di dominio, se cioè, poniamo, la Toscana 
fosse rimasta bizantina, la differenziazione fra essa e il Nord sarebbe 
stata anche più grande, e quindi diffìcilmente la Toscana sarebbe stata 
in grado di svolgere quella che fu più tardi la sua funzione storica, di 
mediatrice fra Italia settentrionale e meridionale. Ma fra il riconoscere 
questo e il fame un merito ai Longobardi, ci corre molta differenza: ci 
accontenteremo di dire che fortunatamente quelli che distrussero 
l’unità politica d’Italia non ne separarono le parti in tal modo da 
compromettere la riedificazione di una lingua comune a tutta la 
penisola anche prima che si potesse giungere alla riedificazione 
dell’unità politica. 

Non mancano argomenti per negare che i Longobardi venissero a 
ricostruire una circolazione linguistica che era sul punto di spezzarsi. 
Anzitutto si hanno alcune voci con ogni probabilità gotiche la cui area 
si estende al settentrione e al centro: per es. rócca (da filare) e lésina. 
Poi la persistenza di esiti fonetici diversi nelTItalia settentrionale e in 
Toscana, che la circolazione dei tempi longobardi non valse a distrug- 
gere né ad attenuare: alludo soprattutto al diverso esito di ce, ci 
(sibilante nell’Italia settentrionale, palatale del resto d’Italia). Infine la 
frequenza di risultati diversi dati nelle diverse regioni dalle medesime 
voci longobarde (ne daremo qualche esempio più oltre): ciò mostra che 
si tratta di più ricezioni avvenute in luoghi diversi, e conferma che la 
circolazione delle voci longobarde non fu tanto intensa. 

Due sono i modi in cui le peculiarità germaniche poterono entrare 
nel lèssico delle parlate romaniche d’Italia: o i futuri Italiani le 
sentirono dai loro signori mentre ancora essi parlavano germanico, e le 
ripeterono per farsi capire da quelli; oppure esse rimasero come 
peculiarità idiomatiche nella parlata di quei (Goti o) Longobardi che. 


*° Potrebbe, diciamo, essere accaduto in quel periodo (s. XI) in cui i 
giuristi notano sempre più intensi rapporti fra la regione lombardo-toscana e la 
romano-ravennate (P. S. Leicht, Il diritto privato preimeriano, Bologna 1933 , pp. 
5-6), o anche più tardi. 


56 Storia della lingua italiana 1 

avendo imparato a parlare romanico, dopo aver perduto l’uso della 1 
loro lingua nazionale si fusero linguisticamente con la popolazione I 
rimanente: relitti linguistici, insomma. Solo nel primo caso si tratta 1 
propriamente di un effetto del prestigio linguistico, di un’azione del 1 
superstrato. | 

Il bilancio fra i germaniSmi dei due tipi è molto difficile a farsi. Se f 
l’influenza longobarda fu più forte e più lunga di quella gotica, non può | 
essere confrontata nemmeno da lontano con quella esercitata dai | 
Franchi nella Francia settentrionale. In complesso l’influenza dovuta J 
al prestigio sembra scarsa, mentre la penetrazione dei relitti fu, 1 
relativamente, piuttosto copiosa. | 

| 

5 . I Franchi 1 

I conquistatori franchi estesero la loro dominazione solo sul \ 
settentrione e il centro della penisola, mentre i ducati longobardi \ 
meridionali finirono col rendersi pressappoco indipendenti. Ma le j 

buone relazioni instaurate col papato certo conferirono a intensificare 
le relazioni tra i territori soggetti ai Franchi, il patrimonio di S. Pietro e J 
quegli altri ducati in cui ormai la soggezione all’impero d’Oriente era 
sempre più vaga. Le relazioni commerciali si fanno più intense 21 , e cosi 1 
pure l’affluire dei pellegrini 22 . | 

A differenza dei Goti e dei Longobardi, non abbiamo più un popolo J 
che si muove a cercare nuove sedi, ma, dopo gli scontri per la I 
conquista, un piccolo numero di capi che vanno a occupare posti di | 
comando e di guadagno. La loro influenza di «prestigio» è stata assai | 
notevole, mentre l’influenza eventualmente esercitata dai relitti lingui- I 
stici di qualche loro stanziamento dev’essere considerata pressoché » 
nulla. | 

E ormai la romanizzazione dei Franchi di Francia è così avanzata, j 
che dobbiamo considerare anche i germaniSmi introdotti da loro j 
nell’italiano in formazione a tuia stregua del tutto diversa da quella j 
delle voci gotiche e longobarde; infatti esse sono ormai voci accolte nel | 
patrimonio romanico di Francia, voci paleofrancesi, ed entrano in J 
Italia, da Carlomagno in poi, allo stesso titolo a cui entrano voci di J 
origine latina foneticamente o semanticamente rielaborate in Francia. 1 
Ciò non toghe che talvolta gli indizi fonetici non ci aiutino per nulla e J 
quelli geografici poco (in quanto ci dicono solo che la parola esiste sia | 
in Francia sia in Italia). Può esser utile, in qualche caso, l’indizio I 


21 Benché anche prima non mancassero: pur senza sapere esattamente che 
cosa siano le dieci «cumaras et alias franciscatas » donate con altri fornimenti per 
letti da Wamefredo, castaido di Siena, a ima chiesa nel 730 (Cod. dipi. Long., I, p. 
169), dobbiamo supporre che si tratti di oggetti designati secondo il luogo di 
provenienza. 

22 Si veda i capitoli introduttivi dell’importante monografia del Bezzola, 
Abbozzo. 


Tra il latino e l’italiano 


57 


sociale: una parola che si riferisce a usi dei ceti più elevati ha maggior 
probabilità di essere franca che gotica o longobarda. 

La più grave difficoltà in cui c’imbattiamo nello studio degù 
elementi franchi e paleofrancesi è quella di stabilire la cronologia della 
loro penetrazione in Italia. A prescindere dal poco che poteva già esser 
giunto in Italia per influenza merovingia, sia la grande espansione 
politica e culturale dell’Impero carolingio (VIII-IX s.), sia i contatti 
religiosi, commerciali, culturali che si hanno nell’età delle Crociate, 
delle conquiste normanne, della civiltà cavalleresca (XI-XIII s.), si sono 
svolti prima che Vitaliano appaia interamente formato: cosicché in 
molti casi ci è impossibile dire se una parola sia penetrata in italiano 
nel tempo di Carlomagno o in quello degli Altavilla o anche più tardi. 
Solo nel caso, purtroppo non molto frequente, in cui la parola compare 
nei documenti medie vah di età carolingia, possiamo giungere a 
conclusioni sicure-, invece il fatto che un vocabolo non è attestato non 
permette conclusioni ex silentio. 

•Non si dimentichi che con i Franchi si estende all’Italia il sistema 
feudale, con le sue divisioni, e quindi, possiamo presumere, con 
un’accentuazione del frazionamento dialettale. 

6. Bizantini e Musulmani 

Con il passaggio dell’Esarcato e della Pentapoli al Patrimonio di S. 
Pietro, il dominio bizantino è ormai definitivamente ridotto all’Italia 
meridionale. Ma, fra l’età carolingia e quella degli Ottoni, i Bizantini 
hanno una notevole ripresa politica e culturale; ed è quello il periodo in 
cui alcune zone dell’Italia meridionale sono colonizzate o ricolonizzate 
da ehenofoni. Nel X secolo al «regno d’Italia», che comprende l’Italia 
settentrionale e centrale, si contrappone il «tema bizantino d’Italia», 
che comprende i ducati campani, i principati longobardi, la Puglia e la 
Calabria. 

Naturalmente oltre che del fattore politico dobbiamo tener conto di 
quello religioso e di quello commerciale. A Roma sbarcavano sulla ripa 
Graeca, cioè nel quartiere intorno a S. Maria in Cosmedin, le navi che 
venivano dall’Oriente, e nel sec. X, durante la festa della Comomannia 
vi si cantavano versi greci, ed erano largamente intesi 23 . 

In complesso l’influenza linguistica bizantina in questo mezzo 
millennio è stata meno forte di quella germanica; tuttavia mentre non 
si hanno, per quanto addietro si vada nella storia, notizie di isole 
linguistiche germaniche che risalgano all’età delle invasioni, le isole 
linguistiche greche di Calabria e di Terra d’Otranto (appartengano 


23 Sulla conoscenza del greco a Roma, a Ravenna, a Napoli, in Puglia, in 
Calabria abbiamo notizie sparse e non molto copiose. V. specialmente Steina- 
:ker, «Die ròm. Kirche und die griech. Sprachkenntnisse des Frùhmittelalters», in 
7 estschr. Gomperz, Vienna 1902, pp. 324-341. 


58 


Storia della lingua italiana 


esse ad età, bizantina o rappresentino un nuovo innesto bizantino su | 
un ceppo anteriore) sopravvivono tuttora. 1 

La conquista musulmana della Sicilia (sec. IX) portò nell’isola nuclei I 
importanti di Arabi; ma la separazione fra le due stirpi dovuta alla 1 
religione, e mi certo rispetto dei conquistatori per le usanze e la lingua ! 
dei loro sudditi fecero sì che le parlate di Sicilia si svolgessero | 
senz’altra alterazione che l’accoglimento d’un certo numero di vocabo- 
li arabi. Che gruppi notevoli di Siciliani siano stati arabizzati e dopo la 
cessazione del dominio musulmano rilatinizzati, è da escludere in 
modo assoluto. 

7. La latinità medievale. Alcuni esempi tipici 

Se il nome di latino volgare si presta a grandissimi equivoci, poco 
minori inconvenienti presenta quello di latino medievale 24 . 

È passato il tempo in cui era necessario rivendicare l’importanza di 
questo studio, e si sa ora valutare la latinità dei diversi periodi del 
Medioevo con la loro stessa norma, e non con quella ciceroniana. 
Quando Gregorio Magno (| 604) dice, a proposito della grammatica dei 
retori, che egli ben conosce, di sprezzarla, per non sottomettere la 
parola di Dio alle regole di Donato 25 , egli vagheggia in modo consape- 
vole un suo proprio ideale di latinità. 

E altri, di secolo in secolo, perseguiranno altre norme: non si può 
dire, p. es., che Benedetto Crispo o Paolo Diacono o Agnello Ravennate 
non raggiungano una loro efficacia. Resta vero tuttavia che, aH’infuori 
di un sottilissimo strato di persone colte, che mantengono come 
possono una rispettabile tradizione scolastica, agiografica, giuridica, 
la conoscenza della lingua scritta è decaduta in modo pauroso. 

Si legga qualche passo del rendiconto di un’inchiesta che il notaio 
regio Guntheram è andato a fare nel 715 nella corte regia di Siena per 
l’annosa questione della pertinenza a Siena o ad Arezzo di alcune 
chiese e monasteri nel territorio senese. 

Item dixit nobis suprascriptus Aufrit presbiter Ide monasterio Sancti Petri ad 
Absol: ‘Homines fuerunt Senensìs, ambulabant ad Sancto Felice diocea Clusina; 
posteas quod Wilerat subtraxit eos de plebe Clusina, illi vero fecerunt sibi 


24 Si vedano i capitoli Vili e IX delle Origini di A. Viscardi (importantissimi, 
anche se non tutti i punti mi trovino consenziente). Sulla latinità medievale v. K. 
Strecker, Einfuhrung in das Mittellatein, 2* ed., Berlino 1939 (anche in trad. 
francese e inglese), G. Cremaschi, Guida allo studio del latino medievale, Padova 
1959. 

23 «Et ipsam loquendi artem quam magistri disciplinae exterioris insinuant 
servare despexi. Nam sicut huius quoque epistolae tenor denuntiat, non metacismi 
collisionem fugio, non barbarismi confusionem devito, situs motusque et praeposi- 
tionum casus servare contemno, quia indignimi vehementer existimo ut verba 
coelestis oraculi restringam sub regulis Donati » (Exp. in lib. Job, in Migne, PatroL 
Lat., LXXVI, col. 514. 


Tra il latino e Vitaliano 


59 


baselica in onore Sancti Ampsani. Dedicavit ea episcopus de Sena per rogo 
gacerdotum Aretine ecclesiae, eo quod in eorum diocea erat; nam ipsa baselica 
usaue in anno isto semper sub presbiteros de Sancto Vito fuit, qui est diocia 
Sancti Donati-, ..in isto anno infra quadragensima fecit ibi Deodatus episcopus de 
Sena fontis, et per nocte eas sagravit, et presbiterum suum posuit unum infantulo 
de annos duodecim; antea, ut dixi, semper ipse tedolus 1= titulus] de sub ecclesia 
Sancti IDonati) fuit...’ Item Romanus clericus de castro Policiano dixit: ‘Wamefrit 
tmstaldius mihi dicebat: Ecce missus venit inquirere causa ista, et tu, si 
interrogatila fueris, quomodo dicere habes ? Ego respondi eh Cave ut non 
interroget, nam si interrogatus fuero, veritatem dicere habeo. Sic respondit mihi: 
Ergo taci. Tu viro, qui est missus domili regi modo me invenisti, et non te > posso 
contendere, Deo teste, quod veritatem scio. Tibi dico quia diocias istas...’ 28 . 

Oppure si leggano documenti privati del secolo Vili: p. es. la carta 
di vendita di un certo Rodoin stesa dal notaio Ansolf (Pisa 730): 

venondavi tivi Dondoni aliquanta temila in locum qui dicitor ad stabla 
Marcucci; uno capite tenente in terra Chisoni et alium capite tenente in terra 
Ciulloni, de uno latere corre via publica... 27 . 

Oppure il «libello» (redatto dal notaio Teutperto, Lucca 804) con cui 
Astruda, badessa di S. Maria Ursimanni, dà a Gudolo casa e poderi a 
Montemagno, e questi si obbliga a corrispondere ima parte dei 
prodotti: 

...per singulos annos reddere debeamus medietate vino puro da tertia vices 
uba bene calcata, et indi vinata, nani non pondum inibi nobis uvandum; quidem 
et vobis reddere debeamus per singulos annos medietatem aulivas, quas de ipsa 
res Dominus donare dignatus fuerit; et per omnes vendemia reddere debeamus 
medio porco valente dinari sex, et tres pani boni mundi, et duo casii mediogrii; 
seu et duo fila fica sicché bone, et in ter cici, farro et linticle sistario uno, et per 
singulos annos vobis reddere debeamus trés pulii cum quindecim ovas“. 

Persino in testi redatti certamente da uomini fi*a i più colti del regno 
affiorano, specie nelle citazioni da dialoghi, curiosi volgarismi. Leggia- 
mo nelle leggi di Liutprando: 

Hoc autem rei veritas pervenit ad nos, quod quidam homo diabolum 
instigantem dixissit ad servum alienum-. ‘Veni et occide dominum tuum, et ego 
tibi facere habeo bonitatem quam volueris*. Die autem puer, suasus ab ipso, 
intravit ih causam ipsam malam, et hisdem qui eum suaserat in tantam mali ti am 
perductus est, ut aetiam praesentialiter dicerit eidem puero-. ‘Feri ipsum domi- 
num tuum’, et ipse ei prò peccatis feritam fecit, et iterum dixit eh ‘Feri eum adhuc, 
nam si non eum feriveris, ego te ferire habeo'. Ipse autem puer conversila fecit 
eidem domino suo alteram feritam, et mortuos est 2 ®. 


22 Schiaparelli, Cod. dipi. Long., I, p. 70 e 74. 

27 Schiaparelli, cit., I, p. 153. 

22 Memorie e doc. per la storia di Lucca, V, II, p. 189. 

22 Liutprando, Leges, § 138 (in Mon. Germ. Hist., Leges, IV, p. 168). 


60 





Per prendere un testo d’altro genere, si veda il trattatelo intitolato 
dai filologi Compositiones ad tingenda musiva o Compositiones Lucen- 
ses: è una raccolta di ricette metallurgiche e vetrarie conservata nel 
cod. 490 della Biblioteca Capitolare di Lucca, la cui stesura si colloca 
intorno al 600, mentre il codice è dell’800 circa. Ecco le istruzioni che si 
danno per trasformare l’oro in fili: 


Quomodo petalum fiet ad fila aurea. Auro bonum sicut metrum; batte 
lammina longa et gracile. Quomodo per longum battis, plica eam unum super 
un um et sic eas battes, sed plecaturas non battis. Et postea apens aurum per 
medium et amba capita non battuta in medio veniant; et batte et cum ala eum 
divide: et post debeas aplanare cum matiola lignea. Et de solum unum debeas 
facere III petalas. Et post tolles forfices bonas, subtilissima longas et graciles et 
circina illum usque ad sanum; et plica unum cata unum petalum; et contine ìlla 
cum tenalclla ferrea; et tota sic similiter fieri debet. Et tolle carbones minutos, 
adprehende illos in focario; et debeas mittere tota petala nitro modico et scalda 
equaliter, ut tota scallldata fiat. Et habes aquam paratam et bersa super, ut 
adluminentur se ipsa petala... 30 . 


Non c’è sforzo dialettico che possa spingerci ad ammettere che m 
Italia nei secoli VII e Vili si parlasse così. Ognuno di questi testi 
rappresenta una peculiare miscela, dovuta al sovrapporsi nella mente 
dell’estensore di due norme; da un lato quella della lingua parlata, che 
è una norma ancora non bene enucleata e fissa, e vige solo come 
consuetudine inconscia, nata dalla trasmissione ininterrotta e dalla 
lenta alterazione del latino parlato, e in cerca di un suo nuovo 
equilibrio; dall’altro la norma della latinità scritta, quale poteva essere 
sentita e insegnata in quei secoli. Ma se questa norma operava ancora 
con qualche forza nelle scuole retoriche e giuridiche o nelle officine 
agiografiche di pochi centri importanti, all’infuon di essi giungeva m 

forma pallida e larvale. . 

Dobbiamo immaginare un poveruomo che abbia imparato alla 
meglio pochi rudimenti di latino per poter officiare, o quattro formule* 
te per fare il notaio; nel parlare non adopera più né s, ne m, ne t finali, 


» L 15-28 Cito dell’edizione Hedfors, Uppsala 1932 (tenendo .presente anche lo 
studio di J. Svennung, in Uppsala Universitets Àrssknft, 1941). Ecco una traduzio- 
ne- «Come la foglia si trasforma in fili d’oro. Prendi oro buono nella quantità 
occorrente, batti lamina lunga e sottile. Nel batterla per iungo piegala intra 
soprammettendo Cle due parti laterali alla parte centrale) e cosi battile ma non 
battere le piegature. E poi apri l’oro per mezzo e le due estremità non battute 
verranno in mezzo. E batti, e dividi il foglio con una lesina (?); e poi devi 
appianare con un mazzuolo di legno. E di una sola devi fare tre foglie, e poi 
prendi forbici buone sottilissime, lunghe, e taglialo doro) sino in fondo, e p 
ga cadauna foglia-, e tienila con una tenaglia di ferro; e ciascuna dev essere trat 
tata così E prendi carboni minuti, accendili sul focolare; e devi mettere dentro 
per un po’ tutte le foglie e scalda uniformemente, in modo che siano tutte scal- 
date. E abbi dell’acqua preparata e versala sopra, in modo che esse foglie s arr 
ventino», ecc. 


Tra il latino e l’italiano 


61 


ma sa che scrivendo bisognerebbe adoperarli, in certi modi, secondo 
schemi (p. es. l’accusativo), che non sente più e non ha mai imparato ad 
applicare: quindi scrivendo mette le terminazioni come la memoria gli 
suggerisce, e perciò non di rado, poiché la memoria non gli suggerisce 
nulla, come gli capita. 

Il peso della tradizione scolastica si manifesta soprattutto con 
quest’obbligo incombente, a cui nessuno può nemmeno pensare per un 
istante di potersi sottrarre, l’obbligo di scrivere in latino. Perciò ci 
appaiono fuori d’ogni realtà quei bizzarri esperimenti che A. Gloria 
aveva fatti mettendo insieme diversi volgarismi rintracciati nelle carte, 
p. esempio ricostruendo una lettera che avrebbe potuto essere scritta 
verso il 750 a Lucca: «A lo domno Gualprando episcopo. Possedeo 
hodie, patre meo, a Castagnulo in Monticello ima casa cum castello, 
torre, sala, panario, porticale, canava, orticello, curticella e altere 
adiacentie e pertinentie, uvi soleo abitare cum Racculo meo fratello», 
ecc. 31 . 

Ma bisogna tenere assolutamente per fermo che una tradizione 
popolare ininterrotta sia esistita: che non sia un mito romantico, si può 
vedere dal riscontro con le parlate romene, che in ambiente culturale 
unicamente slavo e greco, e quindi prive per molti secoli di ogni 
contatto con la tradizione culturale scritta del mondo latino, si svolsero 
tuttavia mantenendo un carattere sostanzialmente romànico. 

Se la tradizione orale ininterrotta nei vari centri abitati è un fatto 
indiscutibile, possiamo solo in via ipotetica (ma è ipotesi teorica e 
contrastante alla storia effettuale) immaginarla scevra dagli effetti di 
quell’altra tradizione che fu anch’essa viva, in ceti ristretti ma pieni di 
prestigio: la tradizione colta, fondata sulla latinità scritta. 

Le testimonianze di singole parole o forme adoperate dall’uso 
parlato popolare appaiono qua e là, da Vairone in poi, indicate dalla 
formula vulgo 32 , e naturalmente abbondano nel periodo che stiamo 
studiando. 

Non molto diverso è il valore di un passo rilevato dal Novati 33 : san 
Columba (o Colombano), il fondatore del monastero di Bobbio, in ima 
lettera del 613 a Bonifacio IV (e alla Curia) osserva che quel nome di 
Columba che egli portava in latino esisteva anche nell’idioma, cioè 
nella parlata volgare d’Italia («Columba latine, potius tamen vestrae 
idiomate linguae»). Altre espressioni attestanti l’uso plebeo troviamo in 
Agnello Ravennate (s. IX): «quod rustici nescientes vocant eum ad 
Pinum» (p. 363 Holder-Egger), «quae rustico more Galiata dicitur» (p. 


31 A Gloria, Del volgare illustre dal secolo VII fino a Dante, Venezia 1880, 
pp. 38-39. 

33 J. Sofer, «Vulgo: ein Beitrag zur Kennzeichnung der lat. Umgangs- und 
Volkssprache», in dotta, XXV, 1936, pp. 222-229. 

33 F, Novati, «Due vetustissime testimonianze dell’esistenza del volgare. II. 
L’epistola di S. Columba a Bonifacio IV (613)», in Rend. Ist. Lomb., s. 2 a , XXXIII, 
1900, pp. 980-983. 


62 


Storia della lingua italiana 


Tra il latino e l’italiano 


63 


379). Un altro episodio che Agnello ci narra (p. 383), della frase detta 
dall’arcivescovo Grazioso a Carlomagno convitato a pranzo: «Pappa, 
domine mi rex, pappa», serve piuttosto a mostrare la «gran semplicità» 
del dignitario, che non per nulla i suoi confratelli avevano ammonito a 
non parlare. 

Una vasta esplorazione metodica dei frammenti di volgare che 
appaiono nelle carte di questi secoli non è stata ancora fatta, benché 
non manchino numerose ed utili ricerche, a cominciare da quelle del 
Muratori 34 : chi ha compiuto spogli o studi su singole raccolte 35 , chi ha 
compilato spogli grammaticali o lessicali, di carattere regionale o 
nazionale, che includono più o meno compiutamente anche le carte 
dell’alto medioevo (Parodi, Trauzzi, Nigra, Sella, Bosshard, Arnaldi); 
chi in monografie su singoli fenomeni o vocaboli si è fondato largamen- 
te su spogli di quelle carte (Aebischer, Castellani). 

L’utilizzazione dei dati che si possono ricavare dalla grafìa dei 
documenti ben di rado può essere immediata: ma tale sarà, ad 
esempio, per grafie nuove come il nesso tz-, uno petztz o, uno petztziolo, 
Lucca 740 (Cori. dipi. Long., I, p. 222). 

Per lo più si dovrà tentare di giungere a quello che poteva essere 
l’uso parlato rendendosi conto dell’immagine grafica che si presentava 
alla mente di chi scriveva e in cui trasponeva ciò che voleva esprimere. 
Se troviamo ligibus, heridibus, mercide, non dobbiamo pensare che si 
pronunziasse così, ma che uno abituato a dire prometto e a scrivere 
promitto ricorresse allo stesso metodo anche quando voleva esprimere 
il suono di mercede senza che la memoria gli fornisse un’immagine 
visiva della parola. In qualche caso si potè addirittura costituire una 
tradizione scritta medievale ( curtis, octubrìs, ecc.). 


8. L’apparire del volgare 


dell’820, ratificate da Eugenio II, sulla necessità di scuole vescovili e 
parrocchiali 39 . 

Il miglioramento della latinità porta come necessaria conseguenza 
la separazione dal volgare. Fin che si scrive approssimativamente, 
senza districare la norma latina da quella del volgare parlato, si hanno 
risultati come quelli di cui s’è visto qualche esempio: ma quando la 
grammatica e il lessico latini s’imparano più a fondo, secondo canoni 
ben determinati, le confusioni diventano meno frequenti, e di rimbalzo 
il volgare si manifesta come un modo diverso di espressione, sentito, 
sia pure ancora embrionalmente, come autonomo. 

Solo nel decimo secolo abbiamo indizi certi dell’uso pubblico del 
volgare; siamo vicini a quella data che abbiamo fissata come termina- 
le, il 960. 

Il Novati 37 enumerava questi indizi così: «un’allusione del panegiri- 
sta di Berengario ai canti che il popolo romano mescolava nel 915, voce 
nativa, alle sapienti melodie greche e latine durante l’incoronazione 
del suo signore; il passo famoso dell’epistola scritta nel 965, in cui 
Gonzone rammenta l’usus nostrae vulgaris linguae quae latinitati 
vicina est; l’accenno non meno noto che Widukindo ha lasciato della 
perizia d’Ottone I nel favellare in lingua romana-, infine le lodi che 
l’autor del metrico epitaffio di Gregorio V (f 999) prodiga all’estinto 
pontefice, perché era solito esporre in tre diversi idiomi alle plebi la 
parola divina: 

Usus francisca, vulgari et vuce latina 
instituit populos eloquio triplici». 

A queste testimonianze non saprei aggiungere che quella data da 

J un penitenziale cassinese del sec. X (cod. Cassin. 451), il quale avverte 
«fiat confessio peccatorum rusticis verbis » 33 . 


È noto quale forte stacco si manifesta in Francia tra l’età merovin- 
gia e la carolingia, principalmente per effetto della politica culturale e 
scolastica di Carlomagno: né possiamo entrar qui nella controversa 
questione su quella che è stata la parte dei dotti italiani in quel primo 
movimento umanistico. 

In Italia si ha un distacco meno sensibile e un po’ più tardivo: si 
ricordi l’istituzione delle otto scuole regie col capitolare di Lotario 
dell’825 (Torino, Ivrea - affidata al vescovo -, Pavia, Cremona, 
Vicenza, Cividale, Firenze, Fermo) e le prescrizioni del concilio romano 


34 A. Monteverdi, «L. A. Muratori e gli studi intorno alle origini della lingua 
italiana», in Arcadia-, Atti e mem., s. 3 a , I, 1948, pp. 81-83. 

35 V. De Bartholomaeis, «Spoglio del Cod. dipi. Cavensis », in Arch. glott. it., 
XV; W. Funcke, Sprachliche Untersuchungen zum Codice Dipi. Long., Bochum 
1938; R. L. Politzer, A Study of thè Language of Eighth Century Lombardie 
Documents, New York 1949. 




9. L’indovinello veronese 

Come primo uso scritto del volgare, risaliremmo al sec. IX se 
potessimo senz’altro considerare come tale l’indovinello veronese, che 
da qualche decennio, cioè da quando lo Schiaparelli lo scoperse e lo 
pubblicò 3 *, e più ancora da quando il Rajna ne sottolineò i caratteri 
volgari 40 , ha preso cronologicamente il primo luogo fra i monumenti 
della lingua e della letteratura italiana. 

In un libro liturgico scritto nei primi anni dell’ottavo secolo a Toledo 


89 G. Manacorda, Storia della scuola in Italia, I, i, Palermo 1913, pp. 60-62. 
37 Rend. Ist. Lomb., s. 2», XXXIII, 1900, p. 980. 

* Schmitz, Die Bussbucher und die Bussdisciplin der Kirche, 1883, 1, p. 745, cit. 
in Civiltà Cattolica, 4 genn. 1936, p. 34. 

" Arch. stor. ital., s. 7», I, 1924, p. 113. 

40 Speculum, III, 1928, pp. 291-313. 


. Storia della lingua italiana | 

(forse ancor prima che gli Arabi nel 711 occupassero la città), vane f 
mani successive lasciarono tracce che permisero allo Schiaparelli di | 
ricostruirne le peregrinazioni. Il codice passò dapprima a Cagliari, poi | 
probabilmente a Pisa, dove un certo Maurizio cane vario vi si dichiara- | 
va fideiussore per l’anfora di vino di un certo Bonello 41 . Negli ultimi | 
anni del secolo ottavo o nei primi del secolo nono una mano con ogni 1 
probabilità veronese vi scrisse come prova di penna le parole seguenti | 

+ separeba boues alba pratalia araba & albo uersorio teneba & negro semen 
seminaba. | 


Componeva, di deliberato proposito, dei versi in volgare o, traendo 
dalla memoria esametri ritmici latini, vi introduceva, senza rendersene 
ben conto, numerosi volgarismi? La risposta è difficile, e in parte 
dipende dall’interpretazione di alcune parole. 

Ma anzitutto, di che si tratta? Dopo un breve sviamento che 
portava a ritenere il testo un frammento d’un canto di bifolchi, si vide 
chiaramente 42 che si tratta di un indovinello fondato su di una 
metafora antichissima, il confronto fra l’aratura e la scrittura 43 : i buoi 
sono le dita, l’aratro è la penna, il prato è la pergamena 44 . 

L’indovinello, ancor oggi vivo in molti dialetti («Il campo bianco - 
nera la semente - tre buoi lavorano - e due non fanno niente»; e simili) 
era diffusissimo nella letteratura latina medievale. Il Monteverdi cita 
fra i molti riscontri imo di Paolo Diacono, che è particolarmente 
notevole perché degli stessi tempi e degli stessi luoghi in cui fu scritto 
l’indovinello veronese: 





I 



Candidolum bifido proscissum vomere campimi 
visu et restrictas adii lustrante per occas. 


L’indovinello veronese ha un andamento molto più popolareggian- a 
te, ma fu certo composto da un chierico che non ignorava qualcuno di M 
questi precedenti. fi 

La chiave di volta della discussione linguistica è il se pareba, per cui m 
furono date parecchie interpretazioni. Quella che più tenta a prima » 
vista è che si tratti di una forma di parare nel senso di «spingere m 


il 


41 Leggo Maurezo canevarius fidiiosor (mentre altri legge, secondo me a torto 
fidilocor, ridi iocos, fidi iocor) de anfora vino de Bonetto. 

42 De Bartholomaeis, Giom. stor. lett. it., XC, 1927, pp. 197-204, De Bartholo- 
maeis-Monteverdi ivi, XCI, 1928, pp. 67-76. 

43 Cfr. il nome di scrittura bustrofedica, il verbo exarare, eco. 

44 Comunemente si dà come soluzione dell’indovinello «la mano che scrive»; 
G. Presa lAevum, XXXI, 1957, pp. 241-252) intende «la penna»: comunque, la serie 
d’immagini è la medesima. 



il 




Tra il latino e l'italiano 65 


Innanzi » (buoi, pecore ecc.): e tenta sia perché si parla di buoi, sia 
perché nel Veneto questo significato di parar è ancor oggi vivissimo 45 . 

Se essa fosse certa, se ne dedurrebbero due tratti caratteristicamen- 
te volgari dell’indovinello, un imperfetto in -eba da un verbo della 
prima coniugazione e un se con valore di dativo di vantaggio. Il Rajna 
fece di -eba addirittura il fulcro della sua ricostruzione, rimodellando 
su quella forma i due imperfetti in -aba-. 

Boves se pareba 
e albo versorio teneba 
alba pratalia areba 
e negro semen semineba. 

Ma le difficoltà non mancano: la discordanza fra questo -eba e gli 
altri -aba, la precocità di se con valore di dativo di vantaggio, il 
mancato parallelismo fra la prima proposizione, in cui bisognerebbe 
ammettere un soggetto sottinteso «il bifolco», e le altre tre che meglio 
sottintendono come soggètto «i buoi». 

Benché a qualcuna di queste obiezioni si sia cercato di rispondere 
ingegnosamente, credo convenga sfuggire alla seduzione di quel 
pareba da parare, e ricorrere al verbo parere, parersi nel senso di 
«apparire»; negli indovinelli e nelle filastrocche l’oggetto da indovinare 
è talvolta presentato con «c’è», «ecco», «si vede», «salta fuori» e simili. 
Intenderei perciò: «i buoi apparivano»: quanto al se, è ovvio il riscontro 
con l’uso antico italiano di parersi attestato in poesia ( qui si parrà la tua 
nobilitate : Dante, lnf, II, 9; si, che l’effetto convien che si paia-. Par., 
XXVI, 98-, sicché si pare all’acqua : Iac. Alighieri, Dottr. , XXI, v. 41) e 
anche in prosa (Boccaccio, ecc.) 48 . 

Se pareba non è da parare, le altre particolarità lessicali e morfologi- 
che sono molto più scialbe-, pratalia (non pradalia, si noti, anche se 
ormai a Verona si deve supporre che verso ì’800 si avesse -d-l e versorio 
si possono supporre adoperati anche in versi latini di andamento 
volgareggiante; e anche il trattamento che fa di -lia e -rio due 
monottonghi è normale nella poesia ritmica latina del Medioevo. I 
fenomeni fonetici, cioè la caduta di -ni finale nei quattro verbi di 
significato plurale, la desinenza -o per -um in albo, versorio, negro, e 
quello che si presenta come il fenomeno più «moderno» del nostro 
testo, cioè negro per nigrum, sono tali che nessuno di essi appartiene 


45 In altre regioni (e anche in parte della Toscana) parare i bovi invece 
significa «vigilarli al pascolo». 

40 2 G. Contini, che ha pensato anche lui a parere (Revue des langues rom., 
LXVII, 1934, p. 162) intende invece «da cosa da indovinare) assomigliava»: ma con 
questa interpretazione restano un po' più difficili da spiegare l’uso dell’imperfetto 
e il se (malgrado il riscontro con «s'assomigliava»). Non mi par possibile 
interpretare il se come congiunzione ipotetica (con C. A. Mastrelli, Arch. glott. it., 
XXXVIII, 1953, pp. 190-209). 


66 


Stona della lingua italiana 


I 


necessariamente a chi compose e non semplicemente a chi vergò 
rindovinello. 

Mancano poi altri tratti (e può anche darsi che il volgare non li 
avesse ancora acquistati): gli articoli, il divieto della proclitica iniziale 
(legge Tobler-Mussafia-. il testo dice se pareba boves, non boves se 
parebaì. E altre caratteristiche del nostro testo sono ancora nettamen- 
te latine: la -s finale di boves (non è escluso che questa si sentisse 
an cora a Verona negli anni di Carlomagno, ma vorremmo esserne più 
certi), la -t- di pratalia, la -n- finale di semen, l’uso di albo, alba nel 
significato di «bianco». 

Insomma il nuovo idioma già si sente, già sta per prorompere: ma 
non si può ancora asserire con sicurezza che chi compose e chi vergò 
Tindovinello - sia che fossero, come mi pare più probabile 47 , due 
persone diverse, sia che si tratti di una sola persona - si rendesse conto 
di scrivere in una lingua diversa dal latinuccio che usava scrivere. 

Non si dimentichi che rindovinello è degli anni di Carlomagno. Ora, 
pur non consentendo con la tesi estremista che vuol fare persistere il 
«latino volgare» fino all’età di Carlomagno, bisogna riconoscere che 
tra la lingua parlata Qa quale ha già accolto le più notevoli innovazioni 
che saranno tipiche della lingua nuova) e la lingua scritta (in cui i 
chierici incoltissimi introducono sporadicamente i loro volgarismi) la 
differenza è difficile a stabilire; mentre sarà molto più sensibile dopo 
che la riforma letteraria carolingia avrà fatto sentire i propri effetti. 

Anche perciò preferiamo attenerci nella lettura dell’indovinello a un 
testo il più possibile conservatore, quale è quello che il Monteverdi ha 
dato 48 espungendo semplicemente le due &: 

Se pareba boves, alba pratalia araba, 
albo versorio teneba, negro semen seminaba. 

10. Influenza linguistica dei dominatori e suo carattere 

Fin dai tempi dell’Umanesimo, si è posto il problema della parte che 
hanno avuto le popolazioni germaniche nell’alterazione del latino e 
nella formazione delle lingue nuove-, in nuove forme, adeguate ai più 
maturi strumenti d’indagine, il problema è ancora aperto: ma le 
opinioni sono tutt’altro che unanimi 

Non ci soffermeremo qui a fare la storia delle discussioni e a 
soppesare gli argomenti portati per dimostrare o negare l’influenza 
germanica nel prodursi delle innovazioni. Ci accontenteremo di dire 
che mentre le innovazioni lessicali sono abbastanza esattamente 
misurabili, e, in complesso, importanti (anche se meno forti che nelle 


v il testo del codice veronese «forse riproduce Tindovinello come correva 
nelle scuole»; Ruggieri, in St. Romanzi, XXXI, 1947 p. 95. 

43 Studi mediev., n. s., X, 1937 pp. 214-224 Crist. in Saggi pp. 39-58). 


Tra il latino e l’italiano 


67 


altre parlate della Romània occidentale), nelle innovazioni del sistema 
fonologico e morfologico, molto più che la diretta influenza delle lingue 
degli invasori, dobbiamo considerare l’influenza indiretta esercitata 
dallo sconvolgimento sociale 49 : le stragi operate nelle classi superiori, 
lo stato di anarchia o di disordine durante assai lunghi periodi, la 
circolazione delle persone, delle idee, degli oggetti molto ridotta fanno 
si che si approfondisca il distacco fra le due tradizioni, quella scritta e 
quella parlata. L’anemica lingua della cultura quasi cessa di esercitare 
la sua efficacia di rèmora sulla lingua parlata, e questa perde gran 
parte della sua forza coesiva, non conserva altro freno che quello 
indispensabile per mantenere i legami tra generazione e generazione e 
tra luoghi vicini. Senza negare che una certa influenza da parte dei 
do mina tori ci sia stata, riteniamo senza confronto più importante 
questo «inselvatichirsi» della lingua parlata nelle varie regioni e nei 
cing oli centri minori. Anche se non possiamo conoscere con una certa 
precisione quale potesse essere la lingua parlata a Torino o a Firenze, 
a Melegnano o a Milazzo nell’anno 500 e nell’anno 800, .dobbiamo 
figurarci un lento divergere dalla latinità parlata, in direzione di quelli 
che saranno gli odierni dialetti, ma con un lessico piuttosto ristretto e 
adeguato a uno stato culturale assai modesto. 

Delle singole innovazioni fonologiche e morfologiche, meglio che 
cercare «il» modello saranno da cercare imo o più germi che, inseriti in 
un sistema in equilibrio instabile per i motivi ora detti, hanno dato 
origine a nuove forme e nuovi equilibri. 

11. Mutamenti fonologici 

A rigore dovremmo occuparci dei principali mutamenti fonologici 
avvenuti in tutto il territorio: ma, senza perdere di vista il quadro 
complessivo, di solito ci limiteremo a vedere che cosa accadde in 
Toscana. 

La caduta di vocali afone (originariamente connessa con l’intensità 
dell’accento) è assai forte nel Settentrione d’Italia e molto più debole 
nel Mezzogiorno. Che essa sia ben viva nel nostro periodo, si vede 
dall’applicazione a vocaboli germanici: il gotico haribergo ha dato 
albergo. Poiché una delle condizioni della sincope è l’aspetto fonologico 
del gruppo consonantico che ne risulterebbe, la Toscana, che ha 
sempre avuto ripugnanza per molti gruppi consonantici, anche perciò 
è piuttosto parca (e anzi addirittura dove si hanno gruppi con s + 
consonante è incline all’epentesi: cristianesimo, fantasima ). 

Un’osservazione assai interessante e che, come vedremo più oltre, 
trova riscontro in altri campi, è quella che possiamo fare a proposito di 
favola e tegola. L’elaborazione di suono e di significato che indubbia- 


49 Le considerazioni qui svolte collimano con quelle del Meyer-Lubke, Dos 
Katalanische, Heidelberg 1925, p. 188. 


68 


Storia della lingua italiana 



mente i vocaboli hanno subito ci obbligano a considerarli di tradizione 
ininterrotta; ma d’altra parte il riscontro con fiaba e tegghia (poi teglia ) 
mostra che si sono avute anche forme popolari sincopate. La spiegazio- 
ne più probabile è che si siano avute due tradizioni parallele, una 
«superiore», più strettamente governata dalla tradizione latina e 
perciò più aliena dalla sincope, e l’altra «inferiore», più incline ad 
accogliere innovazioni provenienti dalla Francia e dall’Italia settentrio- 
nale 50 . Mentre in Toscana non sono percettibili tracce sicure di 
metafonia, il fenomeno è largamente rappresentato nel resto d’Italia, 
ed è probabile che abbia avuto la sua parte nelle origini del dittonga- 
mento. 

Il dittongamento diÉinieedioin uo in sillaba libera appare nel 
sec. Vili: anche se è incerto un quocho in una carta lucchese del 761 
(Cod. dipi. Long., II, p. 75), che potrebbe essere una semplice metatesi 
grafica individuale, abbiamo nello stesso testo il toponimo Quosa. Più 
tardo e indubbio è Yaqua buona di un documento lucchese del 983 51 . 

Varie e contrastanti spiegazioni sono state date per l’origine del 
dittongamento, e per la formazione delle vocali miste u ed ó nei dialetti 
dal Piemonte all’Emilia: fenomeni che si svolgono in un quadro storico 
e geografico così vasto (non si può evidentemente prescindere da ciò 
che è avvenuto in Francia e negli altri territori romanzi) possono sì 
essere dovuti ad influenze di sostrato o di superstrato, ma non 
esercitatesi immediatamente, bensì attraverso alterazioni e successivi 
riassestamenti di tutto il sistema vocalico 52 . 

Nel vocalismo atono, ricordiamo la tendenza al passaggio di e 
protonica a i, a cui si deve la nascita della preposizione di: di una 
parte... et di alia parte, Chiusi 746-747 (Cod. dipi. Long., I, p. 266); 
Wiliplerì di Lunata, Lucca 752 (Cod. dipi. Long., I, p. 304). 

Nel consonantismo, l’intacco di ce, ci, ge, gì, probabilmente già 
assai avanzato agli inizi del nostro periodo, dà origine ad affricate 
sibilanti nell’Italia settentrionale, ad affricate palatali in Toscana e 
nell’Italia centro-meridionale. 

La sonorizzazione delle consonanti intervocaliche si manifesta 
proprio nel periodo che stiamo studiando, in pieno nell Italia settentrio- 
nale, limi tatamente ad alcune parole in Toscana. L idea parziale che ce 
ne formiamo attraverso i documenti 53 , integrata dall odierna distribu- 
zione geografica, permette di vedere il rapido espandersi del fenomeno 


60 Anche tavola sarà di strato superiore. Cfr. anche la coppia persica / pe sca . 
Conte sarà, forma indigena o sarà stato promosso dalla sincope francese? (cfr. 
còmito nelle città marittime: es. nel Rezasco, s. v.). 

51 Castellani, in St. filol. it., XII, 1954, pp. 12-16. 

52 Sul problema del dittongamento, che è uno dei più importanti e dibattuti 

della linguistica romanza, v. da ultimo F. SchOrr, «La diphtongaison romane», in 
Revue ling. rom., XX, 1956, pp. 107-144 e 161-248. . 

53 P. es. troviamo nel Cod . dipi. Long.: constitudus , habidare , Treviso 710 U, p. 
36, p. 38); Aredino ecc. nel più volte citato Breve de inquisitione, Siena 715 CI, p. 69); 
eglesia, sagrosancto, Lucca 700 (I, pp. 31-32); segreta, Lucca 713 Q, p. 44), ecc. 




Tra il latino e l'italiano 


69 


nell’I talia settentrionale, e le forti infiltrazioni in Toscana, poi in parte 
riassorbite. Fattori di geografia politica (Lucca centro longobardo in 
stretti rapporti con Pavia) 54 e di geografia del traffico (influenza dei 
, Com bini e dei Transpadani) 55 spiegano questa spinta dal settentrione 
sulla Toscana: l’equilibrio raggiunto tra il filone conservativo e quello 
innovativo ci fa di nuovo pensare alla possibilità di una doppia 
tradizione, in due strati socialmente sovrapposti. 

I gruppi con l (pl, bl, tl, cl, gl) subiscono nella parlata italiana 
un’alterazione più forte che nelle altre parlate neolatine. Gli inizi 
dell’alterazione per l’Italia centrale debbono risalire- assai indietro 56 , 
certo molto più che nei documenti 57 . 

Nei gruppi con i consonante (nj, rj ecc.) l’alterazione è pure assai 
antica: troviamo vigna presso Lucca nel 773, e la differenziazione del 
tipo toscano e umbro -aio, -oio dal settentrionale e meridionale -aro, 
-oro si ha almeno fin dall’ottavo secolo 58 . 

12. Mutamenti morfologici 

Soffermiamoci un momento sui principali fenomeni morfologici. 
Abbiamo visto che l’affievolimento e la scomparsa della categoria del 
neutro nella lingua parlata sono da collocarsi in età imperiale: la 
lingua parlata e la lingua cancelleresca applicano poi secondo varie 
spinte analogiche le desinenze rimaste disponibili. Mentre nel singola- 
re non si hanno ripercussioni apprezzabili 59 , al plurale le desinenze -a e 
-ora (con la variante -oras, certo puramente grafica) si estendono molto: 
come si sa, il tipo le mura è tuttora vivo in un buon numero di vocaboli, 
mentre il tipo domora, ortora, tectora 60 è quasi morto 01 . 

Per i plurali dei maschili e dei femminili, il toscano si orienta verso 
le forme nominativali -i ed - e ; ma nel Settentrione le tracce di plurali in 
-s persistono a lungo 82 . 


04 P. Fiorelli, in Convivium, 1951, pp. 575-576. 

“ G. Serra in Riv. di studi liguri, XVII, 1951, pp. 226-228. 

“ I gruppi cl e gl subiscono l’intacco anche in romeno: chiae, chele da clave, 
ghindà da glande. 

67 Una glossa colurn conoclea, che accenna a palatalizzazione, è nel Cod. 
Cassin. 90, del sec. X (C. Gloss. Lat., V, 565, 57). Troviamo Santa Maria inter piano, 
anno 799, nel Cod. dipi, cavense-, Trespiano a Firenze nel 967, ecc. Cfr. Castellani, 
in St. fil. it., XII, 1954, p. 19. Nell’Italia settentrionale il fenomeno è certamente 
assai più tardo. 

58 Si ha Satoiano in ima carta lucchese del 761, ecc. (Castellani, in St. filol. it., 
XII, 1954, p. 18). 

“ Non importava che os diventasse ossum oppure ossus (come si legge 
nell’editto di Rotali, § 47). 

80 Aebischer, in Arch. lat. m. aevi. Vili, 1933, pp. 5-76, IX, 1934, pp. 26-36; su 
cibora in Anthimus (De observ. ciborum 23) e rivora nelle Casae litterarum, v. A. 
Josephson, Casae litterarum, Upsala 1950, pp. 151-153. 

01 Rohlfs, Hist. Gramm., II, pp. 57-61. 

02 W. v. Wartburg, Ausgliederung, pp. 26-31. 


70 


Stona della lingua italiana 


L’influenza della declinazione debole germanica è sensibile nell’an- 
troponimia: si ha non solo Gudoloni, Gaidoni, ecc., ma Ursoni, Loponi, 
Iustoni, PetronUs), ecc. All’infuori dell’onomastica 1 influenza è ben 
scarsa, e va a confondersi con quella del tipo latino glutto -onis. 

Influenze germaniche e latine convergono pure nella formazione 
del tipo -a -ane, in nomi maschili (per es. scrìvaneis ) nell’Editto di Rotari, 
c. 8, da cui scrìvano) e femminili (p. es. mammana, ecc.) 63 . 

L’indebolimento del dimostrativo e del numerale uno ad articoli si 
svolge attraverso un lungo processo, il quale s’inizia negli scrittori 

cristiani e continua per più secoli. 

Per il determinativo, l’area settentrionale e centrale ha ille Ulta 
aetema vita quod nobis Dominus preparare poteest, Gricciano di Lucca 
755-, illu ortu ad ilio flou subtus casa mea, Chiusi 774-, e ormai in forma 
moderna rio qui dicitur la Cercle, Lucca 779), mentre nell Italia meridio- 
nale, dalle Marche alla Sicilia, si ha un’area di ipse, che però non arriva 
a vere e proprie funzioni di articolo, e finisce con l’essere sopraffatto da 


Pure nel secolo Vili è pienamente formato 1 articolo indeterminati- 
vo (presbiterum suum posuit unum infantulo, Siena 715: Cod. dipi. 
Long., I, p. 70; et infra ipsa temila est uno pero, Pisa 730: Cod. dipi. Long., 

I, p. 150). , , . 

Appaiono ora anche lui, lei, loro-, mentre il caos di forme (qui, quem, 
quod, quid, que ) che troviamo nelle scritture per il pronome relativo 
mostra che ormai che serve nell’uso parlato per tutti ì generi e numeri. 

Anche la flessione verbale procede in questi secoli rapidamente 
verso il tipo moderno. Ecco forme come somo (Lucca 700) ed essere 
(Lucca 822), o ffertum (Lucca 685) e vinduta (Lucca 754). L estendersi 
analogico dà dedi per la formazione del passato remoto può essere 
esemplificato con battederit GLiutprando, Leg., § 123). Lo spostamento di 
significato dei tempi storici (il piucchepperfetto fuissem che diventa 
fosse, con valore d’imperfetto), può essere esemplificato da «si aberet 
credentes homines, qui causa ipsa scirent, et ausi fuisserunt iurare a 
Dei evangelie, quod ita sic fuisset veritas, ad non?» (Lucca 892: Mem. e 


doc., IV, il, p. 631 85 . . _ , 

Stentano ad apparire nella scrittura le nuove forme del futuro 
(formate, come nelle altre lingue romanze occidentali, dall’infinito 
seguito da habe o) e del condizionale (infinito + habui, *hebui nell Italia 
settentrionale, infinito + habebam nell’Italia meridionale), ma un passo 
come quello citato (p. 59) delle leggi di Liutprando, si non eum ferìvens 

ego te ferire habe o, è trasparente. 

La formazione dei tempi composti per mezzo di avere ridotto a 
semplice ausiliare, è ormai normale: a quo tempore ex quo auditum 


63 Rohlfs, Hist. Cramm., II, pp. 36-38; sul plurale, pp. 61-62. 

M Aebischer, Cult, neol., Vili, 1948, pp. 181-203. 

65 Cfr. anche la discussione di Gamillscheg, Tempuslehre , pp. 217-219. 


Tra il latino e Vitaliano 71 


habetìs, S. Genesio 715 (Cod. dipi. Long., I, p. 83); si neglectum non 
habuisset (Liutpr., legge del 733); si quis Langobardus habet comparatas 
terras in Liburìa, 780 (Bluhme, Leges, p. 181); lumina oculorum amissa 
habeo (Agnello Ravennate, p. 371); non adimpletum abetis, Lucca 871 
(Mem. e doc., TV, ii, p. 53), ecc. 

E anche la formazione del passivo analitico con esse è diventata 
normale: iram Dei incurrat et in Tartarum sit consumptus, Pistoia 767 
(Cod. dipi. Long., II, p. 211). 

Nel sistema delle preposizioni italiane, ha acquistato una propria 
fisionomia do, che nel suo principale significato, quello di provenienza, 
risale a de ab 69 . Il primo esempio nei documenti è (per ora) un passo di 
una carta lucchese dell’anno 700: «neque subtragendum do vos hoc 
ipse ecclesie» (Cod. dipi. Long., I, p. 31) 67 . 

I problemi sintattici meriterebbero ampio esame: dobbiamo qui 
limitarci a ricordare che la costruzione dell’accusativo con l’infinito, la 
quale già nella Vulgata e negli scrittori cristiani tende largamente a far 
posto a costruzioni con quia, quod, quomodo, si riduce a pochi tipi (il 
tipo far fare, i verbi di percezione: vedo fare, odo dire). 


13 . La derivazione 

Nel campo della derivazione ricordiamo la fortuna di alcuni tipi. 
Per la mozione, specialmente dei nomi che hanno funzione di titoli, si 
adopera - isso : abbatissa, comitissa, ducissa, italiano badessa, ecc. 

Vengono a formare nuovi aggettivi i suffissi -esco e -ingo (-erigo). Il 
primo risale principalmente a -isk germanico, e lo troviamo applicato a 
nomi comuni, a nomi di persona, a nomi di luogo, a nomi etnici: 
warcinisca facere «fare delle giornate di lavoro obbligatorio» in un 
documento amiatino di Toscanella del 736 (Cod. dipi. Long., I, p:.180), 
cobalti Maurisci in un’epistola di papa Leone III, utiles et optimos 
Maurìscos in una di Giovanni Vili (Ducange), fine Bulgarìsca in 
documenti ravennati del sec. Vili (Fantuzzi), fontana Warcinisca in Val 
di Susa nell’814, prehensa Gardonesca a Verona nell’844 (Cod. dipi. 
Veron., p. 251), ecc. 68 . 

La terminazione -ingo -erigo ha lasciato forti tracce nella toponoma- 
stica settentrionale, e la documentazione è antica e vastissima 68 ; per la 
Toscana, benché la documentazione cominci un po’ tardi, è frequente il 

88 Le forme de ab e dab sono attestate non di rado: citiamo solo de ab unam 
partem delle Casae litterarum, V. 5, cod. C: cfr. Josephson, cit., pp. 206-208. 

67 Altri esempi, dal 710 in poi, cita P. Aebischer, Cult, neol., XI, 1951, pp. 5-23 
Sull’etimo di da da de ab v. da ultimo De Felice, St. fil. it., XII, 1954, pp. 248-255. 

88 W. Bruckner, Die Sprache der Langobarden, cit., p. 333, G. Serra, Contributo 
toponomastico alla teoria della continuità nel Medioevo delle comunità rurali, Cluj 
1931, p. 39 e 244-247. 

85 J. Jud in Donum natalicium Jaberg, Zurigo 1937, pp. 162-192. 


72 


Storia della lingua italiana 


tipo terra Rolandinga (Lucca 999, Mem., V, n, pp. 612-613) 70 . Anche 1 
wardingus, gardingus «capo del presidio militare» in varie città sarà J 
gotico, benché il primo documento in cui la parola è attestata sia del 1 
1133 71 . I 

Il suffisso - ardo , che appare più tardi, è certo dovuto all’influenza 1 
francese. j 

Si diffondono i composti imperativali del tipo portabandiera-, abbia- \ 
mo già visto il soprannome Suplainpunio di un vassallo di Val | 
Lagarina (anno 845F. 

Accanto a questi procedimenti derivativi e compositivi, si continua- i 
no a coniare vocaboli con i mezzi già in uso nella latinità parlata : 
dell’età imperiale: formazioni di sostantivi da participi (p. es. ferita, ì 
nelle leggi di Liutprando; offerta, Lucca 892, ecc.), di verbi da sostantivi ] 
ecc. jj 

Si continuano a coniare diminutivi, che poi non di rado sono : 
arrivati a imporsi soppiantando i loro primitivi: avo, frate, suora, vetere t 
sussistono in aree ristrette, o in significati speciali, mentre i rispettivi J 
diminutivi avolo, fratello, sorella, vecchio (da vetulus, veclus) hanno la | 
meglio 73 . 


14. Mutamenti semantici 

Tra gli innumerevoli mutamenti avvenuti nei significati delle parole j 
ereditarie in questo mezzo millennio, alcuni sono owii, cioè tali che \ 
potrebbero accadere in qualsiasi tempo e luogo (p. es. testimonium che | 
passa dal significato di «testimonianza» a quello di «teste»). 

Maggiore attenzione meritano quelli che avvengono in correlazione j 
con la vita di questi secoli. Ecco alcuni mutamenti dovuti alla vita : 
religiosa: cella che viene ad indicare «cella monastica» e «convento», J 
caritas che prende il significato di «opera di carità», «elemosina» (come | 
già elemosina, eleemosyne l’aveva preso precedentemente-, Tertulliano J 
ecc.; elemosinae opera caritatis sunt: Leone Magno). Il nuovo significato J 
di «pellegrino» preso da peregrinus «straniero» mostra il frequente J 
passaggio di stranieri in qualità di pellegrini. Cappella è in origine, | 
com’è noto, ima voce della latinità franca (l’oratorio del palazzo dei re 4 


70 Aebischer, Zeitschr. rom. Phil., LXI, pp. 114-121; Rohlfs, Arch. St. n. Spr., I 

CLXXXI, p. 67. | 

71 Davidsohn, Geschichte von Florenz, I, Berlino 1896, p. 68 e 866; cfr. Pisani, in 1 

Studi... Monteverdi, II, Roma 1959, pp. 610-6U. J 

72 Invece il Garibaldus qui dicitur Tosabarba di un documento cremonese del | 

723 non serve, perché il documento è falsificato (Schiaparelli, Cod. dipi. Long., I, p. :1 
U6). ! 

73 Avolus si ha già in Venanzio Fortunato come cognomen gallico (Thes. , s. v.l; 1 

fratellus fa la sua apparizione anzitutto come nome proprio o come soprannome, | 
nel sec. Vili (Aebischer, in Zeitschr. rom. Phil., LVII, p. 257). J 


Tra il latino e l’italiano 


73 


franchi dove si conserva la cappa di S. Martino), poi estesasi per 
influenza cancelleresca. 

La vita sociale nelle sue forme politiche, amministrative, giuridiche, 
ha pure ampi riflessi. Si pensi, p. es., alla storia del titolo di dux (nella 
forma ereditaria doge e in quella grecizzante duca), in cui si riassumo- 
no secolari vicende del potere civile e militare. Curtis e massa prendono 
il nuovo significato di «grande possesso terriero» (da cui massarius, 
massaricia ). Angaria diviene uno dei nomi delle prestazioni d’opera 
dovute non più allo stato, ma a signori privati. Sclavus, che aveva il 
significato etnico di «Slavo», prende anche quello di «schiavo» in 
conseguenza delle campagne degli Ottoni contro gli Slavi (sec. X), le 
quali ne trassero parecchi in servitù. 

Fra le parole che si riferiscono alla casa e alla città ricordiamo 
pensile, che dovè in origine indicare il pavimento sotto cui erano gli 
appositi impianti di riscaldamento G balneae pensiles, Valerio Mass., 
Macrobio; Seneca parla di suspensurae balneorum ): la parola è docu- 
mentata nelle leggi longobarde nel significato di «gineceo» («ipsam in 
curte ducere et in pisele inter ancillas statuere»: Ed. Rothari, 221); la 
troviamo in forma longobardizzata nella toponomastica urbana di 
Lucca 74 , e tuttora sopravvive in alcuni dialetti dell’Italia centrale (oltre 
che nel francese poèleY. abruzz. pesèlè, ecc. [REW 6392). 

Il latino classis «sezione» prende il significato di «vicolo»: in un 
documento di Lucca del 769 leggiamo «qui capu tene et lato in classo, 
alio capu in via» (Cod. dipi. Long., II, p. 276), e nel toscano sopravvivono 
chiasso e chiassuolo. 

A un costume non bene chiarito nei suoi particolari si riferisce la 
voce settentrionale toso, tosa «ragazzo, ragazza», da tonsus, tonsa «coi 
capelli tagliati» 75 . 

15. Influenza del latino medievale 

Numerose, come già abbiamo accennato (§ 7), sono le interferenze 
fra la trasmissione orale e la latinità scritta del Medioevo. 

Non è questo il luogo per parlare dei caratteri del lessico di questa 
latinità, tanto varia, del resto, secondo i vari scrittori. Alla componente 
classica e a quella cristiana s’aggiungono numerosi vocaboli d’origine 
germanica, specialmente per istituti giuridici. Ma, col mutare delle 
istituzioni, anche termini abbondantemente attestati nei documenti 
(per es. aldius o aidio, aidia o aldiana, aldiaricius, ecc.) spariscono del 
tutto. 

La penetrazione nella lingua scritta di voci della lingua parlata è 
quasi sempre legata alla maggiore o minore cultura dei singoli 
individui: quanto meno profonda è l’istruzione ricevuta, più è facile che 


74 F. Schneider, Die Reichsverwaltung in der Toscana, I, Roma, 1914, p. 222. 

75 J. Pauli, Enfant, garpon, fille, Lund 1919, pp. 260-268 


74 


Storia della lingua italiana 


i volgarismi penetrino. E anche a scrittori discreti può capitare di tanto | 
in tanto di usare un vocabolo volgare: quando Agnello Ravennate I 
scrive «aereum vasculum, quod vulgo siclurn vocamus » (330, 20) J 
possiamo solo dire che egli ignorava il latino situla (o non si rendeva 1 
conto dell’identità delle due parole). | 

Viceversa per parecchie voci dobbiamo pensare che esse siano I 
penetrate nella lingua parlata dopo essere state accolte nella lingua | 
scritta e per influenza di questa. La storia di parole come papa, riferito | 
prevalentemente, a partire dal VI secolo, al pontefice romano, o di , 
cappella, o di forestis non si spiegherebbe se accanto alla tradizione {j 
orale non fosse esistito un filone scritto, saldamente appoggiato alle J 
cancellerie e ai notai. I 


16. Gli elementi germanici 

A chi si accinga ad esaminare, con l’aiuto delle indagini già 
compiute in questo campo 76 , gli elementi germanici entrati in questi 
secoli nel lessico italiano, il primo problema che si pone è a quale strato 
attribuirli, fra i quattro che si possono fissare: se ai contatti tra Romani 
e Germani prima della caduta dell’Impero (strato paleogermanico), o ! 
allo strato gotico (ed eventualmente èrulo), o allo strato longobardo, o a 
quello franco. 

I criteri che possono essere utilizzati sono raramente diretti da testi- 
monianza d’uno scrittore), per lo più indiretti da cronologia dell’appari- 
zione del vocabolo; l’area in cui la voce si adoperava anticamente o si 
adopera oggi; peculiarità fonologiche o morfologiche attribuibili a una 
lingua piuttosto che a un’altra; indizi di carattere semantico). 

17. Distinzione dei vari strati germanici 

II criterio dell’area (possibilmente dell’area antica, o anche, se 
mancano notizie antiche, di quella moderna) è particolarmente utile 
per le voci gotiche e per quelle longobarde. 

Quando si ha un’espansione panromanza, non sempre è facile dire 
se si tratti di voci paleogermaniche, o di voci gotiche penetrate in latino 

79 Si consulterà, specialmente la Romania Germanica del Gamillsctieg, Berli- ; 
no-Lipsia 1934-36, che, malgrado qualche grossa svista, è ormai l’opera fondamen- 
tale in questo campo. In parte sorpassati, ma tuttora utili, sono gli studi deh 
Bruckner, Die Sprache der Longobarden, cit., Id., Charakteristik dergerm. Elemento 
im Italienischen, Basilea 1899, e il repertorio del Bertoni (L’elemento germanico 
nella lingua italiana , Genova 1914, da integrarsi con la bella recensione del; 
Bartoli, Giom. stor ■„ LXVI, 1915, pp. 165-182, e le numerose correzioni del Salvioni, 
Rend. Ist. Lomb., XLIX, 1916, pp. 1011-1067). Utili anche gli articoli del Gamillscheg,! 
«Zur Geschichte der german. Lehnwòrter des Italienischen», in Zeitschr. fùr 
Volkskunde, X, 1939, pp. 89-120, e del Rohlfs, « Germanisches Spracherbe in der 
Romania», nei Sitzungsber. der Bayer. Ak. der Wiss., 1944-46, n. 8. ■ 



Tra il latino e l'italiano 


75 


volgare al principio del quinto secolo, oppure di voci diffusesi posterior- 
mente da un paese all’altro, specie per influenza della civiltà franca. 
Mentre il Brùch (Der Einfluss der germ. Sprachen aufdas Vulgàrlatein, 
Heildelberg 1913) attribuiva a influenza paleogermanica un centinaio 
di voci, il Bartoli (Giom. stor., LXVI, p. 169) tendeva a ridurle di molto, e 
sì e no ima ventina pensa che fossero il Gamillscheg. Il principale 
argomento per negare la loro alta antichità è la mancanza di esse nel 
sardo e nel romeno. 

È probabile che siano gotiche quelle voci che si trovano, oltre che in 
Italia, nella Francia meridionale e nella penisola Iberica: il Gamil- 
lscheg cerca di distinguere il gruppo di voci diffuse dai Visigoti, i quali 
si erano già molto romanizzati al tempo della loro espansione in 
Occidente (sec. V), quando ancora esisteva nell'Impero una notevole 
circolazione linguistica, dal gruppo di voci ostrogote, di area soltanto 
italiana. 

. Le voci importate dai Longobardi sono pur esse di area soltanto 
italiana, ma le figure areali che esse presentano sono molto varie. 

Alcune, come schiena (v. la cartina in Gamillscheg, Rom. Germ., II, 
p. 176), gramo, spaccare hanno un’area assai vasta; ma le più hanno 
un ’area ristretta: o sono penetrate solo nei dialetti settentrionali (per 
es. braida, brera «prato», broivìar «scottare», godazzo «padrino», stoa 
«cavalla» ecc.), o hanno un’area limitata alla Toscana o a qualche 
parte di essa (bica , chiazzare, chionzo, federa, gruccia, lonzo, russare, 
somacare, strozza, tónfanoì, oppure si trovano in aree più o meno vaste 
dellTtàlia settentrionale e nella Toscana (tuffare, ecc.), o ancora vivono 
in territori più o meno ampi dell’Italia mediana o meridionale (lèfa, 
lecca «femmina del cinghiale», luffo, uffo «fianco», sinaita, finaita 
«confine», gafio «pianerottolo», ecc.). 

Tuttavia non bisogna dimenticare che la distribuzione areale 
odierna può essere dovuta a rimaneggiamenti avvenuti nell’ultimo 
millennio. Può darsi il caso che l’area antica si sia ristretta (si sa p. es. 
che sinaita si trova in antichi documenti lombardi e emiliani, mentre 
oggi non se ne hanno tracce che nei dialetti meridionali), o che la 
parola rimanga solo in qualche toponimo, o sia addirittura sparita. 
Viceversa altre parole hanno guadagnato terreno, o per espansione in 
territori contigui (sono dovute a tale fenomeno piuttosto che a influen- 
za germanica immediata, le parole di origine germanica che troviamo 
nei dialetti liguri e romagnoli, cioè in territori che non appartennero 
mai ai Longobardi) o per il prestigio che ha loro conferito Tesser 
entrate nella lingua letteraria. Purtroppo solo in un ristretto numero di 
casi il restringersi o l’espandersi delle aree si può individuare con 
qualche esattezza-, sappiamo p. es. che la voce bèga, di origine gotica, si 
espande in Toscana e a Roma (sotto la forma bèga ) dall’Italia setten- 
trionale o dall’Umbria, solo relativamente tardi (si ha sì un esempio 
trecentesco nelle Memorie di Ser Naddo da Montecatini, ma poi non 
troviamo la parola fino al Seicento). 

Alcune volte l’appartenenza all’uno o all’altro strato germanico si 


76 


Storia della lingua italiana 


può stabilire per mezzo di indizi tratti dalla fonologia o dalla morfolo- ] 
già dei singoli vocaboli 77 . I 

Così, per il vocalismo, bara e strale si riconoscono come voci 1 
probabilmente longobarde, perché, se fossero gotiche, non avrebbero a I 
ma e-, viceversa bega è voce gotica-, federa e snello debbono essere voci 1 
longobarde per la loro vocale aperta, e schermo, scherno, stormo per la ] 
loro vocale chiusa. I 

Per il consonantismo, non possono essere che voci longobarde (o I 
eventualmente voci alto-tedesche, di più recente importazione) le | 
parole che presentano la seconda mutazione consonantica: panca, J 
palla (di contro a banca, balla), zazzera, zolla (di contro a tattera, tolla). f 
Altre volte l’attribuzione ad una piuttosto che ad un’altra lingua J 
germanica può trovare un appoggio in criteri semantici: mentre 1 
trescare nel senso rustico di «trebbiare» è di origine gotica, nel senso di | 
«ballare» (cfr. trescone ) proviene dal franco. E così sala è voce i 
longobarda nel significato di «casa di campagna con stalla» che J 
troviamo nella toponomastica lombarda, veneta e toscana, mentre nel 
significato di «stanza» è stato importato al tempo dei Franchi. Stormo j 
«moltitudine, mischia» è talmente staccato da stormire «far rumore» 1 
che si può pensare a due vie diverse di penetrazione. J 

Non c’è ragione, tuttavia, che si debba cercare esclusivamente in f 
una lingua la provenienza di un dato vocabolo: può darsi benissimo ì 
che la penetrazione cominciasse sotto la spinta di una delle lingue | 
germaniche, e continuasse poi per l’influenza d’un’altra: così probabil- \ 
mente è avvenuto per ricco, spiedo, tregua, per cui si distinguono fasi | 
successive di penetrazione. i 

Se ci domandiamo per quale motivo si sentisse l’opportunità di | 
ricorrere a vocaboli germanici, accogliendoli nel lessico, vedremo che f 
spesso si è ricorsi alle parole barbariche per esprimere nozioni nuove | 
(o che per qualche aspetto sembravano nuove). Così l’uso di recipienti f 
rivestiti di vimini o di sala, recipienti indicati con il nome germanico di 1 
*flasko, *flaska (della stessa famiglia del ted. flechten «intrecciare») è la j 
causa dell’importazione di fiasco, fiasca. L’usanza germanica di fissare ì 
dei sedili tutt’intomo alle stanze d’abitazione spinge ad accogliere j 
banca, panca. La lesina germanica probabilmente era di forma un po’ ; 
diversa dalla subula latina. L’uso della staffa è introdotto dai Germani ; 
Le insegne di guerra mutano radica lm ente nei secoli, e quelle che i | 
popoli germanici adoperavano per indicare il luogo della raccolta di i 
una «banda» e vincolarne l’onore spiegano l’introduzione di nuovi \ 
vocaboli: «vexillum quod bandum appellant», Paolo Diac., Hist. Lang., 1 
I, 20 (poi in forma frane, ant. bandiera ; cfr. p. 159). 

Altra volta rintroduzione di nuovi vocaboli germanici è dovuta i 
principalmente a qualche motivo che rendeva insufficiente, o in ì 
qualche modo disadatta, la voce latina: la parola di origine longobarda j 


77 Si veda principalmente la Charakteristik cit. del Bruckner. 


Tra il latino e l’italiano 


77 


spaccare s’impone a spese di findere, che era irregolare nelle forme e 
troppo astratto e scolorito nel significato. Dos, dotis, astratto, muore, 
sopraffatto da corredo e scherpa più concreti. 

Molte parole germaniche tuttavia, dopo esser riuscite a penetrare 
più o meno largamente nell’uso, vennero più tardi eliminate. Avviene 
sempre che, quando un popolo che aveva avuto il predominio lo perde, 
molte delle parole che esso aveva imposte tramontino: così molti degli 
arabismi penetrati nello spagnolo durante il Medioevo spariscono dopo 
cessato il dominio arabo, gli «austriacismi» ottocenteschi del Lombar- 
do-Veneto sono quasi tutti dimenticati, ecc. 

I nomi delle istituzioni giuridiche quasi tutti scompaiono: che faida 
o guidrigildo appartengano tuttora al nostro lessico storico non 
implica sopravvivenza nell’uso, mà soltanto conoscenza storica da 
parte dei giuristi. Alcuni nomi di cariche mal sopravvivono, degradati, 
in qualche dialetto 78 . 

C’è poi da tener conto di quella particolare forma di sopravvivenza 
che è la toponomastica: il nome degli sculdasci e dei territori loro 
sottoposti, le sculdasce, è sparito nell’uso, ma sopravvivono toponimi 
come Casale di Scodosia (Padova) e, alterato dall’etimologia popolare, 
Scaldasole (Pavia) 79 . 

18 . Voci germaniche di età imperiale 

Passiamo rapidamente in rassegna le principali voci germaniche 
appartenenti ai vari strati successivi 80 . 

Abbiamo già detto che le indagini recenti tendono a ridurre di molto 
la lista delle voci germaniche che si possono credere entrate nel lessico 
dal latino parlato prima della caduta dell’Impero. Quelle che gli 
scrittori classici e tardi attestano, alces, urus, taxo, ganta, glesum, 
firamea , ecc. 81 sono in gran parte voci adoperate per descrivere gli 
animai', le cose, i costumi dei paesi nordici, cioè a scopo di color locale. 

Le pochissime parole che hanno preso radice nella tradizione sono 
martora, tasso, vanga, bragia, sapone (sapo -onis è voce mutuata al 
germanico attraverso la Gallia; in origine indicava la sostanza che 
dava un color rosso ai capelli; più tardi «sapone»); tufazzolo (derivato 
di un tufa che Vegezio ci attesta nel significato di «ciuffo, ornamento 
dell’elmo»); arpa (strumento musicale dei Germani, secondo la testimo- 
nianza di Venanzio Fortunato: «Eomanus lyra plaudat tibi, Barbarus 
harpa»). 

78 Migliorini, Lingua e cultura, p. 24 (su gastaldius, duddus, scafardus). 

79 I?. Olivieri, Saggio di una illustrazione gen. della topon. veneta. Città di 
Castello 1914, pp. 344-345; Id., Dizion. di topon. lombarda, Milano 1931, p. 497. 

80 Lasciamo di solito da parte quelle che vivono solo in aree ristrette, e non 
hanno riscóntro nella lingua nazionale. Chi cerchi notizie particolari sulle singole 
parole, dovrà ricorrere anzitutto al Gamillscheg. 

81 Brùch, Einfluss, cit., pp. 14-18. 


78 


Stona della lingua italiana 


Meno certo è che risalgano al periodo più antico stalla, roba e 
rubare, fresco, lesina, smarrire. Anche più dubbio è il caso di borgo, 
perché il burgus «castellino parvulum» di Vegezio non è probabilmente 
voce germanica, ma il greco nópyoi; 82 . 

Né sappiamo se appartenga a questo primo strato (o se sia una più 
tarda espansione di età carolingia) la voce werra (guerra ) invece di 
bellum. La sostituzione ci mostra il prevalere del disordinato modo di 
combattere dei Germani sull’ordinato bellum dei Romani: werra si 
connette con l’ant. alto ted. (fìrVwèrran «avviluppare»; e quindi significa 
etimologicamente «mischia» 83 . 

19. Voci gotiche 

Fra le voci gotiche 84 ricordiamo anzitutto quelle che, sopravvissute 
oltre che in Italia, nelle Gallie e nella penisola Iberica, sono probabil- 
mente dovute ai Visigoti, e hanno avuto ancora il tempo di diffondersi 
nella tarda latinità prima che la Romània si spezzasse (ma potrebbero 
anche essere state possedute in comune da Visigoti e Ostrogoti, e 
trasmesse dagli uni e dagli altri alle rispettive popolazioni conviventi). 

Abbiamo alcune voci militari come bando (e banda), guardia (e 
guardiano), elmo; anche arredare, corredare, albergo (da hari-bergo 
«rifugio dell’esercito») appartengono a questa serie. 

Agli attrezzi domestici si riferiscono (n)aspo, rocca, spola. 

Il termine di schiatta è un segno dell’importanza del vincolo di 
parentela fra i Germani. La presenza di verbi e di aggettivi mostra 
quanto stretti fossero i contatti fra Germani e Romani: recare, smaga- 
re 85 ; ranco (da cui arrancare), guercio, schietto. 

Veniamo poi alle voci di origine gotica, ma di area soltanto italiana, 
e quindi portate presumibilmente dagli Ostrogoti. Non parola di 
guerra, ma segno di convivenza difficile è bega. Alla vita sociale si 
riferisce arenga «luogo di adunanza». 

Per l’abitazione e gli attrezzi abbiamo lobbia, stia; fiasco (fiasca ), 


82 Brùch, Einfluss, cit. p. 17; Gamillscheg, Rom. Germ., I, p. 35. 

83 F. Klugc { Urgermanisch , Strasburgo 1913, p. 13) aveva ritenuto di età 
paleogermanica i numerosi aggettivi di colore entrati nelle lingue romanze 
(biavo, biondo, bruno, falbo, grigio), riferendosi al passo di Tacito ( Germania , 6>. 
«scuta lectissimis coloribus distinguunt». Il Wartburg C Entstehung, p. 83) pensa 
(per bianco, bruno, grigio, falbo ) all’importanza dei Germani nella cavalleria 
imperiale. Altri riportano questi aggettivi a età più recenti, talvolta persino 
troppo: il Rohlfs (Germ. Spracherbe, cit., pp. 15-16) ritiene bianco di provenienza 
franca, ma non va dimenticato che già in età longobarda troviamo un « Bianco 
cum filio suo Ursicino» in Garfagnana (Campori 716, in Cod. dipi. Long., II, p. 64). 

84 Oltre agli scrittori citati nella nota di p. 74, v. Battisti, «L’elemento gotico 
nella toponomastica e nel lessico italiano», nel voi. 1 Goti in Occidente, Spoleto 
1956, pp. 621-649. 

85 Anche l’applicazione di prefissi latini a verbi germanici, quale si vede 
appunto in smagare, arredare, corredare è prova di stretta simbiosi linguistica. 


Tra il latino e l'italiano 


79 


nastro, stanga (che potrebbe anche essere voce longobarda), stecca, 
ebbio. Si riferisce al corpo umano, considerato senza benevolenza, 
grinta. Riguardano le forme del suolo forra e (forse) greto. 

* Non molti i verbi (citiamo astiare «litigare» e smaltire «lasciare 
scorrere», «digerire») e gli aggettivi (sghembo ). 

20. Voci longobarde 

Le voci di origine longobarda costituiscono una serie notevolmente 
più numerosa e importante delle altre due che abbiamo esaminate fin 

^Ricordiamo anzitutto alcune voci di carattere militare: strale, 
briccola, spalto. Di alcune voci (come non di rado accade) si è perduto il 
significato milit are antico: lo spiedo non è più un'arma, ma un arnese di 
cucina, il guattero o sguattero non più una «guardia» ( yvahtari , ted. 
Wàchter) ma un «lavapiatti». 

Un termine che pure in origine aveva designato presso i Longobardi 
un progresso tecnico, stamberga, casa di pietre, o su base di pietre 
(contrapposta alla primitiva casa di legno), è più tardi decaduto a 
stamberga. 

Alla struttura della casa si riferiscono pure il balco o palco (in 
origine una «trave»), la banca o panca, la scranna, la scaffa (col 
derivato scaffale), la rosta, all’arte stessa del costruire lo stucco. 

Arnesi e utensili per varie attività domestiche e tecniche sono la 
gruccia, la spranga, la greppia, il trogolo, lo zipolo, lo zaffo («tappo»), la 
trappola, la palla. All’operazione del bucato allude la voce ranno. 

Parecchi termini longobardi troviamo per designare parti del corpo 
umano: guancia, schiena, nocca, milza, anca (e sciancato), stinco; e 
parecchi altri ne troviamo più o meno diffusi nei dialetti magone, (buffo 
«anca», zinna, zizza. Un certo numero implicano ima connotazione più 
o meno spregiativa: ciuffo, zazzera, nappa «naso», sberleffo (genovese 
lerfo «labbro» ecc.), grinza, zanna, strozza, grinfia. Probabilmente 
longobardo è spanna. t 

Q ual che nome di animale: lo stambecco, la taccola - e la zecca. L uso 
del cavallo ha portato all’introduzione dei termini staffa, predella 
«redine», guidalesco. E dal longobardo viene la caccia all’abborrìta. 

Qualche termine si riferisce alle forme del suolo-, tónfano, melma, 
zana; molti di più all’agricoltura: grumereccio, sterzo (dell’aratro), bica, 
stóllo, trogolo, bara, forse anche riga-, molti altri ai boschi e all’utilizza- 
zione della legna: gualdo, cafaggio (e gaggio), stecco, sprocco, zincone 
«pollone», spaccare. 

Sintomatico per farci conoscere le condizioni di vita dei Longobardi 
prima di giungere in Italia è il termine schifo, che nelle altre lingue 
germaniche indica la «nave», presso i Longobardi invece la «barchet- 
ta» fluviale. 

Ricordiamo due materie coloranti, la biacca e il guado (o erba 
guada); e probabilmente longobardo è il color bianco (v. p. 78). 


80 


Storia della lingua italiana 


Dei non pochi vocaboli longobardi indicanti cariche o professioni 
ben pochi sono sopravvissuti, e per lo più decaduti-, oltre allo sguattero, 
ricordiamo il castaido , lo scalco, lo sgherro, il manigoldo (risalga esso a 
un antroponimo ovvero a una degradazione di mundualdo) 

I verbi penetrati in italiano in piccola parte designano azioni 
concrete, tecniche: ( imbastire , gualcare (più vago è il corradicale 
gualcire), riddare, spaccare, strofinare, spruzzare . Altn uwece ^cano 
uiù o meno affettivamente azioni quotidiane-, baruffare guermre, 
graffiare ( arraffare , sbreccare, scherzare, tuffare, ecc. Oltre che russare, 
abbiamo anche, in parte della Toscana, il sinonimo somacare i 

Non molto numerosi gli astratti: smacco, scherno, tanfo, tonfo. E cosi 

Dure eh aggettivi: gramo, ricco, stracco. , 

Non si dimentichi che in questa rapida elencazione abbiamo 
considerato quasi esclusivamente le voci che sono penetrate (per lo piu 
dXso toscano) nel lessico normale e che tuttora : sopra^ mvono se 
avessimo considerato anche le voci dialettali e le voci uscite dall uso la 
lista sarebbe stata assai più lunga. 


21. Voci franche 

Abbiamo già accennato alle principali difficoltà a cui si va incontro 
nell’identificare i vocaboli franchi penetrati in Italia prima del Mille. 
Anzitutto la scarsezza di indizi fonetici che ci permettano di distoglie- 
re le voci franche da quelle paleogermamche o gohche: cosi è m^to 
probabile, ma non sicuro, che guerra sia un vocaboio franco. Poi data 
la forte romanizzazione dei Franchi giunti m Italia già in età ca o g a 
(così che linguisticamente si deve trattare ormai quasi sempre non di 
Franchi di lingua germanica, ma di Franchi paleofrancesi), rimane 
l’incertezza sul periodo in cui molti vocaboli sono penetrati: età, 
carolingia o età cavalleresca. Infine per il fatto che l’influenza linguisti- 
ca franca e paleofrancese è dovuta molto piu al prestigio po - 
culturale che a immigrazione di persone, parecchie voltebisogn 
tener conto (sia per le parole di origine germanica che per quelle di 
origine romanza) del tramite deha lingua scritta, il latino medievale. 

Alcune volte si può risalire con la documentazione delle carte 
medievali al nono o al decimo secolo: così si può seguire abbastanza 
bene l’espansione di bosco e di foresta, a spese di selva e del longobar o 
caf ag a io o gaggio: bosco è probabilmente voce franca, su foresta 
permangono molti dubbi (forse il lat. cancelleresco forestis e un 

der a a piaSrebbe poter dar qui una lista di francesismi giunti in Italia 
prima del Mille, sceverandoli tra quelh che elencheremo nel ^pitolo 
IV ma poiché una tal lista conterebbe troppi punti interrogato, 
preferiamo restringere il nostro elenco a quelle voci di origine germani- 
ca ner le quah l’antica importazione sia piu probabile. 

Ecco alcune voci militari-, baratta «lite», battifredo, dardo, galopp , 


Tra il latino e l'italiano 


81 


gonfalone, guaita e guastare, guarnire, guardare, schiera e tregua 
(probabilmente penetrato sotto la forma cancelleresca), usbergo. 

Per ciò che concerne l’abbigliamento abbiamo cotta e guanto, pure 
penetrati in forma latinizzata: guanto è già testimoniato da Iona di 
Bobbio IVita Columbani, c. 14) come parola franca-, «tegumenta ma- 
nuum, quos Galli wantos, i. e. chirothecas, vocant, quos ad operis 
laborem solitus erat habere», ma la parola si impone come termine 
giuridico, perché il guanto è uno dei simboli del passaggio di proprietà. 

Alle attività commerciali si riferiscono bargagnare «contrattare» e 
sparagnare «risparmiare»; e anche guadagnare (che in origine significa- 
va «pascolare»). 

Giunge in Itaha con i Franchi tutta la terminologia feudale, di 
origine assai composita e parzialmente incerta: feudo, barone, ligio (tre 
termini di cui ancora si discute se siano o no di origine germanica), 
vassallo (di origine celtica), ecc. Altri termini riferentisi alla vita pohtica 
e sociale sono marca, scabino, guarento e guarentire (molto più tardi, 
con due alterazioni fonetiche dovute a ulteriore influenza francese, 
garantire ), guiderdone, e anche abbandonare (che propriamente vuol 
dire «lasciare in bando, alla mercé»). 

Qualche altro verbo e alcuni astratti: grattare, guarire, trescare 
(«ballare»); ardire, schifare e schivare ; orgoglio e rigoglio, senno. 

Se non si può escludere che qualcuno di questi ultimi vocaboh 
possa esser giunto più tardi, nell’età cavalleresca, sono certo antichi gh 
avverbi troppo e guari. 

22. Voci bizantine 

Per le voci di provenienza greca, è spesso difficile dire se siano 
penetrate nelle parlate itahane in questo periodo o nei secoh seguenti. 

A distinguerle da quelle già accolte nella tarda latinità, spesso 
servono criteri fonetici. Anzitutto l’accento: p. es. il tipo merid. pudìa di 
contro a poggia «cavo per tirare l’antenna», i nomi Tòdero, Firpo, Elmo 
di contro a Teodoro, Filippo, Erasmo, ecc. Poi l’itacismo di rj, p. es. in 
bottiga, pontica da àitoCTpa), it. mer. canzirru «mulo» da xavi?7jXio<;; la 
sonorizzazione dell’esplosiva nei gruppi vx, gir, diventati nd, mb, p. es. 
in gondola, indivia, sardo condaghe, ecc. 

Le vie di penetrazione, come si è detto (§ 6), sono varie; e a 
identificarle spesso servono indizi geografici; parecchi vocaboh vivono 
tuttora soltanto in territori un tempo bizantini (Esarcato; aree meridio- 
nali, talvolta a contatto con quelle colonizzate da popolazioni greche). 

Diamo un rapido elenco di quei grecismi che probabilmente risalgo- 
no al periodo bizantino più remoto, senza escludere che qUalcuno 
possa essere penetrato in Itaha nei secoh seguenti. Lasciamo di solito 
da parte i vocaboh che si hanno soltanto in dialetti meridionali 88 . 


89 Per essi si troveranno informazioni nell’JStym. Wórt. der unterital. Gràzitàt 
del Rohlfs. Anche per le voci seguenti sottintendiamo per le voci che non hanno 
altri richiami un rinvio al REW, al Rohlfs, al DEI . 


82 


Storia della lingua italiana 


Per l’abitazione troviamo androne (it. sett. andrond), lastrico (propr. 

«terrazzo fatto con cocci», gr. rà (o)a-rpaxa). 

Fra gli oggetti domestici, ricordiamo mastra, matterà (nome della 
«madia»), mastello”. Citiamo anche il nome della «nicchia con immagi- 
ne sacra», che presenta nell’Italia settentrionale il tipo ancona, in 

quella meridionale il tipo cona. . 

Numerosissime sono le voci marinaresche: nomi di navi, come galea 
e gondola M , di attrezzi, operazioni, installazioni marittime: argano, 
sartie, calumare, ormeggiare 8B , falò, molo, mandracchio, squero, scala 

«luogo di sbarco» 90 . , , , , . , , 

Tra le voci militari ricordiamo turcasso (dal bizant. -toOTxaaiov, da 

provenienza orientale). . . . 

Il commercio promosso dai mediatori (it. sett. messeta, gr. p.£amv;) si 
estende a merci diversissime: importante quello della bambagia e dei 
tessuti ( sciàmito , ecc.). Sopravvive ancora, specie nell Italia nord- 
orientale, il tipo metro come nome di misura. E troviamo termini 
artigiani come paragone, che deve essere originariamente vocabolo 
degli orafi d’assaggio dell’oro sulla «pietra di paragone»), smeriglio, 

I nomi delle autorità civili e militari bizantine lasciano parecchie 
tracce- duca è la forma grecizzata di dux-, catapano e strafico sono 
sopravvissuti a lungo-, il genov. centraco, cmtraco «banditore» e un 
continuatore del biz. xévxapxo? (decaduto nel significato). Voce di 
amministrazione è anche il condaghe sardo. , 

Si divulga la conoscenza di alcune piante: 1 anguria, 1 indivia (e 
anche il basilico, almeno in quelle aree che presentano il tipo basilico) 9 . 
Di quest’età è anche ganascia [ganathos in una glossa del sec. X, da 

^ Una forte influenza bizantina si vede anche nella fortuna di alcuni 
suffissi: -ia con i tonica (in formazioni come abbatta, it. abbazia), -itano, 

■oto (che è andato a confluire con -otto). . 

Per le voci arabe, riesce così difficile sceverare le voci penetrate 
attraverso la dominazione araba di Sicilia da quelle giunte piu tardi 
per altre vie che preferiamo farne cenno più oltre. 


« Sia che la parola si riconnetta con mostra, sia che risalga come propone 
l’Alessio (in Lingua nostra , XI. p. 47-, DEI, s v.), a una metafora da (laoxó; 
«mammella». 

88 Kahane, in Romance PhiL, V, 1951-52, pp. 174-176. 

» Vcxie^orighiariamente latina, ma che ha preso il nuovo significato maritti- 
mo a Costantinopoli (Kahane, in Italica, XXVIII, p. 290). 

81 Bertoldi, in Arch. glott. it., sez. B, XXI, pp. 140-142. 

88 Corpus Gloss. Lat, III, p. 564. v. Meyer-Lùbke, Worter u. Sachen, XII, 1929, p. 
9, Bonf&nte, Biblos , XXVII, 1951-, pp. 369-377. 


CAPITOLO III 

I PRIMORDI 

(960-1225) 


1 . Limiti 

Studieremo in questo capitolo le prime manifestazioni del volgare 
in Italia, cominciando dai placiti cassinesi, in cui la prima volta appare 
in un testo una nitida coscienza della distinzione fra latino e volgare, e 
gi ung endo fino a una data, il 1225, che pressappoco segna ima nuova 
fase della lingua: il suo uso per un inno d’alta ispirazione religiosa, cioè 
il cantico di Frate Sole (1225 o 1226), e il suo uso per liriche d’intenzione 
decisamente letteraria, in gara col provenzale, cioè l’inizio della poesia 
nella corte siciliana. 

2. Si può già parlare di testi italiani? 

Liminàrmente, ci si pone il quesito che ha assillato e assilla i cultori 
della storia politica e i cultori dei vari aspetti della storia culturale 
italiana: è lecito, già in questo periodo, trattare le varie espressioni in 
volgare come varianti di una medesima lingua? Gli storici si domanda- 
no, se in difetto di ima unità politica che l’Italia raggiungerà solo 
nell’Ottocento, si può almeno parlare, e da quando, di un’« Italia 
morale», che giunga in qualche modo a toccare i confini dell’Italia 
geografica. Quanto alle manifestazioni linguistiche, esse possono 
essere considerate di pieno diritto tutte insieme solo quando chi parla o 
chi scrive ha come uditorio ideale tutti gli abitanti della penisola: ciò 
che è ancor dubbio per i poeti della Scuola siciliana, ma è ormai certo 
per Dante. Se tuttavia già in questo capitolo trattiamo insieme dei vari 
testi dei primordi, lo facciamo tenendo conto dei limiti geografici e di 
quei primi caratteri superdialettali che sia pur molto alla lontana 
prepararono la futura unità. 


3. Eventi storici 

Anche l’apparire dei primi testi è in certo modo una testimonianza 
di quel risveglio, di quel rinnovamento che si nota nella penisola verso 
il Mille. Le repubbliche marinare mostrano un’energica attività politica 
e commerciale: Genova, Pisa, Amalfi nel Tirreno e sulle coste africane, 
Venezia nell’Adriatico. 


84 


Storia della lingua italiana 


Il grande moto di riforma religiosa che s mcentra m Gregorio 
rafforza l’unità morale del mondo cattolico, e dà un energica spir 
alle Crociate, mosse tuttavia anche da un prorompente spinto d awen- 

tUT per nt aliala più importante delle Crociate è la quarta, che porta 
Venezia a una grande espansione politica e ® ^ nsedia 

numerosi signori italiani nei feudi dell impero latino dOnente. 
nUI Quel contrasto fra Settentrione e Mezzogiorno, che è uno dei 
caratteri immanenti della storia italiana - e sara proprio “ 
contrasto che si incuneerà più tardi la Toscana diventando la mediatn^ 
ce linguistica - viene ad accentuarsi tra il secolo XI e il XII. Nel Nord e 
nel Centro si afferma quella tipica istituzione italiana che è ^ Comune 
ner cui numerosi centri urbani assumono le funzioni di altrettante 
città stati. organizzate ad opera della piccola nobiltà e della borghesia. 
La loro vita operosa e tumultuosa le spinge anzitutto a combattere fra 
loro- poi la lotta contro Federico Barbarossa le porta ad acqmstare 
coscienza di sé: ma questo sentimento antumpenale e antitedesco è 
ancora Negativo più che positivo, e le loro unioni sono poco piu che 
consorzi in difesa di interessi particolari. Che anche poi, nello spartirsi 
fra Guelfi e Ghibellini, i comuni obbediscano piuttosto a mteressi 
municipali che a ideali politici generali, si vede dalla loro distribuzione 

ge °Quanto' all’Italia meridionale, ie condizioni mutano radicalmentem 
doco più di un secolo, in seguito alla conquista normanna. Intorno 
all’anno 1000 la parte meridionale della penisola è divisa fra Bizantini, 
rinomati longobardi invasori musulmani in lotta fra loro-, nel secolo 
sSSSte Sero “duca di Puglia e re di Sicilia 111301 ha ormai in 
pugno le sorti di quasi tutta l'Italia meridionale e della Sicilia, e ha 
Lizio con lui una tradizione unitaria, che diventerà anche piu forte con 
un accentratore come Federico II, e che durerà per molti secoli, dando 
una particolare fisionomia a quella parte d Italia. 


4. Movimenti culturali 

I principali movimenti culturali di questo periodo vanno considerati 

nell’àmbito dell’Occidente cristiano, e perlo ^metà^Sec XI si 
Francia vi ha una posizione preminente. Verso la metà dei ^ec.Ai s 
diffonde quel modo di vivere e di pensare che va sotto il nome di ideale 

CaV hnportanti riforme monastiche irradiano da Cluny, da Cistercio 
(Citeaux) dalla Certosa; in Italia, da Camaldoli. Nell’Italia meridionale, 
£ esenta largamente l’influsso della cultura cassmese'^ principio 
del '200, sorgono l’ordine domenicano e quello francescano. 


i roccinr, h annnrp semcre più come una capitale anche linguistica, oltre 

che unSXdeposHÓe una roccaforte della culture .occidentale al i ncrocrc , * 

nMltec ornanti, lattee e greche e longobarde* (Folena. Rassegna , LXII, 1958, p. 247). 


I primordi 


85 


Nell’architettura assistiamo al principio del Cento alla fioritura del 
romanico (con le grandi cattedrali di Modena, 1106, Cremona, 1107, 
Piacenza, 1122, ecc.), poi a quella del gotico. 

Nella matematica, nell’astronomia, nella medicina si fa molto 
sentire l’influsso arabo, che anche nella filosofia si manifesterà con la 
larga fortuna delle idee averroistiche. 

La preminenza italiana è invece assai notevole nel campo del 
diritto: le scuole di Pavia e di Ravenna preparano la grande fioritura di 
quella di Bologna: la rinascita del diritto romano e l’elaborazione del 
diritto canonico sono altissime manifestazioni di questa età. 

Una ininterrotta tradizione scolastica si mantiene nelle scuole 
monastiche ed episcopali: l’insegnamento, quasi sempre fatto da 
ecclesiastici, mira anzitutto a dare ima conoscenza grammaticale e 
retorica del latino, attraverso la quale si ascende per gradi a ogni 
specie di scienza, fino al diritto, fino alla teologia. Gli stranieri si 
meravigliavano, nel sec. XI, che in Italia anche i laici studiassero, e che 
dessero tanta importanza all’insegnamento grammaticale-retorico: 
Vippone di Borgogna nel Tetralogus fa questo confronto: 

Hoc servant Itali post prima crepundia cuncti, 
et sudare scholis mandatur tota iuventus: 

Solis Teutonicis vacuum vel turpe videtur, 
ut doceant aliquem, nisi clericus accipiatur i 2 . 

E Radolfo Glabro narra di un certo Vilgardo di Ravenna, «studio 
artis grammaticae magis assiduus quam frequens, sicut Italis mos 
semper fuit artes negligere caeteras, illam sectari», al quale apparvero 
dei demoni in apparenza di Virgilio, di Orazio, di Giovenale 3 . 

5. Tardo affermarsi del volgare 

Porta d’ogni specie di cultura è dunque la grammatica, cioè la 
conoscenza del latino; E all’infuori di pochi testi (pochissimi fra i quali 
si sono salvati), tutto quello che è stato scritto in questi secoli in Italia, 
è stato scritto in latino: carte pubbliche e private, epigrafi, decreti e 
bolle, commenti giuridici, trattati teologici e morali, vite di santi, 
cronache, poemi di argomento storico o moraleggiante, e tutto il resto. 

Le innumerevoli varietà dialettali che si parlavano nei vari luoghi 4 
erano sentite come manifestazioni di carattere inferiore, prive affatto 
di quella formalità, di quella regolarità, di quella dignità che erano 


1 Tetralogus, w. 197-200 (cit. da F. Novati, L'influsso del pensiero latino sopra la 
civiltà ital. nel Medio Evo, Milano 1899, p. 212). 

3 Historiarum sui temporis, 1. II, in Patrol. Lat., CXLIII, col. 644. 

4 Si veda la nitida trattazione di G. Vidossi, su «L’Italia dialettale fino a 
Dante», nel volume di A. Viscardi, B. e T. Nardi, ecc.. Le Origini, Milano-Napoli 
1956, pp. xxxm-Lxxi. 


06 


Stona della lingua italiana 


reputate necessarie per mettere in iscritto qualsiasi cosa, anche la 
meno importante; tanto meno si poteva concepire d’accostarsi all’altez- 
za della poesia se non obbedendo alle regole di Donato. 

Occorre una lunga serie di tentativi e di sforzi perché anche in 
Italia i volgari superino questo sentimento d’inferiorità, e accanto e di 
fronte al latino si senta il desiderio e la necessità di fissare la fuggevole 
parlata, dandole valore al di là del suo spazio e del suo tempo: occorre 
soprattutto che si conosca e si apprezzi il risultato vittorioso ottenuto 
dalle letterature d’oc e d’oil. 

A lungo fu dibattuta, nei decenni passati, la questione delle tarde 
origini della lingua e della letteratura italiana; e con risultati assai 
scarsi, per la ragione incisivamente enunziata dal Parodi: «in verità noi 
non dovremmo chiederci mai perché ima letteratura non nasce, ma 
perché nasce» 5 * . 

È legittimo insomma studiare come mai gli anni intorno al 1100 
offrano in Francia il clima opportuno per la fioritura della Chanson de 
Roland e delle liriche di Guglielmo IX, purché non si dimentichi che 
quelle opere non sono il prodotto di quel clima, ma opere di scrittori 
che in esso hanno semplicemente trovato opportune condizioni. Ora 
invece il chiederci come mai in Italia non siano sorte opere in volgare 
vuol dire proprio considerare le opere d’arte come necessario prodotto 
di un certo clima. 

La risposta che comunemente si dà a questo quesito: «ima lettera- 
tura in volgare non è sorta perché il latino godeva troppo prestigio», ha 
un nucleo di verità, ma non è sufficiente a spiegare le tarde origini 
della letteratura: basti osservare che se è vero che il secolo XII non ha 
quasi alcun poeta in volgare, è vero altresì che ha pochissimo anche in 
latino. Se fosse sorto un vero, un grande poeta, avrebbe pur scritto in 
una lingua o in un’altra, in latino o in volgare. Invece questo secolo 
rivolse la sua poiesi all’azione: creò il Comune, fondò colonie oltre 
mare, tra le arti belle predilesse la più pratica, l’architettura. Ai giuristi 
bolognesi che fondarono il nuovo diritto, non poteva nemmeno passare 
per il capo di servirsi del volgare, sia per la continuità che essi 
andavano restaurando con il diritto romano, sia perché il loro orizzon- 
te non era locale o nazionale, ma si apriva su tutta l’Europa civile. 

Il prestigio di cui ildatino godeva in Italia, la tenace consuetudine 
che faceva di esso Tunica lingua che si potesse scrivere, perché 
fermata da salde regole e capace di ornato, la sua diffusione relativa- 


5 Nel discorso su «L’eredità romana e l’alba della nostra poesia», rist. in 
Poesia e storia nella Divina Commedia, Napoli 1921, p. 43. V. anche Novati- 

Monteverdi, Le Origini, cap. I; K. Vossler, in Zeitschr. fur vergi. Literaturgesch., XV, 

1903, pp. 21-32; Id., Die Góttliche Komódie, II, ì, Heidelberg 1908, pp. 582-586 (2 a ed., 

II, Heidelberg 1925, pp. 394-397); E. Gorra, «Di alcune questioni di origini» (1912), in 
Mise. Crescini, Cividale 1927, pp. 463-499; N. Zingarelli, in Nuova Antologia, 16 
genn. 1923, rist. in Scritti di varia letteratura, Milano 1935, pp. 428 449; A. Roncaglia, 
in Problemi e orientamenti, III, pp. 88-92. 


I primordi 


87 



mente larga, la sua differenza non grandissima dalla lingua parlata, la 
rispondenza che esso presentava, nella fase medievale, alle molteplici 
esigenze della vita pratica: tutto questo servì a ritardare l’avvento del 
volgare. 

Ma se andiamo cercando opere letterarie troveremo ben poco, e 
dovremo concludere che questi secoli ebbero i poeti dell’azione, i 
creatori del Comune, e i cultori delle discipline più legate all’attività 
pratica Cretorica, diritto, medicina): non ebbero invece ancora i poeti e i 
cultori del verbo, né in latino, né in volgare. 

I singoli testi in volgare che ci rimangono per questi primi secoli 
rappresentano sporadiche eccezioni alla regola generale che per 
scrivere bisognava scrivere in latino; e ci si potrà caso per caso 
domandare, e non sempre trovare, il perché. 

La coscienza della separazione tra volgare e latino è nettissima nei 
quattro placiti cassinesi; e solo qua e là potremo ritrovare, in scribi di 
eccezionale ignoranza, confusione fra i due sistemi 8 . 

Che si parlasse quotidianamente nei diversi volgari, è ovvio. Ma ne 
abbiamo anche testimonianze precise, per usi ecclesiastici, giuridici, 
mercantili. Il papa Gregorio V (Bruno, figlio di Ottone margravio di 
Verona), morto nel 999, fu sepolto in S. Pietro, e sul sarcofago, che si 
vede tuttora nelle Grotte vaticane, si leggono, come abbiamo già 
ricordato, i seguenti versi: 

Usus francisca, vulgari et voce latina 
instituit populos eloquio triplici. 

Angerio vescovo di Catania (sec. XII) dispose che il catecumeno 
adulto, se non era in grado di rispondere in latino alle domande che gli 
si facevano per Tamministrazione del battesimo, potesse rispondere 
anche in volgare: «si nescit litteras, haec vulgariter dicat» 7 . 

Nel 1133, re Ruggero fa che si legga un memoratorio contenente 
privilegi concessi dall’abate Ambrogio agli abitanti di Patti, e che poi si 
esponga in volgare. «Audita tandem memoratorii continentia, et 
vulgariter exposita, Pactenses...» 8 . 

Nel 1189, come risulta da una carta di quell’anno, il patriarca di 
Aquileia fece una predica in latino nella chiesa delle Carceri, villaggio 
padovano, e il vescovo di Padova Gherardo la spiegò al popolo in 


8 Più di una volta notiamo confusioni ed esitazioni nei Sardi: citiamo solo una 
frase del chierico Nicita, in un atto di donazione di un giudice di Torres a 
Montecassino: «Nicita lebita iscribanus in palaczio regis iscrisi...» (cit. da 
Monteverdi, «L. A. Muratori, ecc.», cit., p. 93). 

7 L. Vigo, Canti popolari siciliani, Catania 1857, p. 22; Id., Raccolta amplissi- 
ma, Catania 1870-74, p. 27. Non ho potuto appurare donde il Vigo abbia attinto la 
notizia. 

8 V. il testo in G. G. Sciacca, Patti e l’ammmistrazione del comune nel medio 
evo, Palermo 1907, p. 217. 


88 Stona della lingua italiana 

volgare: «cum predictus patriarcha litteraliter sapiente pre^casset 
et.. S predictus Gherardus Paduanus episcopus matemaliter eius predi- 

Cat B?nSmSgnTne e ila"sua Rhetorica antiqua ci fa anche conoscere 
l’uso scritto che i mercanti facevano del volgare: «Mercatores in suis 
epistolis verborum omatum non requirunt, quia fere omnes et srnguli 
per idiomata propria seu vulgaria vel corruptum latmum ad mvicem 
sibi scribunt et rescribunt...» 10 . Ma siamo ormai nel 1215. 


6. Circolazione di persone 

Mentre il latino adempie la sua funzione di lingua cernirne per tutta 
l’Europa occidentale, i singoli dialetti servono ai singoli luogh^o poco 
più^perpetuo contrasto fra spirito di circolazione e spirito particolari- 
stico trova espressione in questi due mezzi distinti. 

Fra le categorie di persone che più si muovono da un luogo all altro 
sono i religiosi i quali bene o male adoperavano il latmo, almeno con ì 
loro confratelli. Ma i mercanti, meno colti e maggiormente spinti dalla 

necessità di farsi intendere, avraimo dovuto S eSd^ ÌJfiSS * 

luoghi in cui trafficavano, particolarmente delle sedi delle nere. 

Altra occasione di scambi di persone e di parlate istituzione dei 
podestà forestieri. Prendiamo per esempio le notizie che abbiamo del 
giudice e poeta bolognese Rambertino Buvalelli 11 : forse podestà di 
Brescia nel 1201 podestà di Milano nel 1208, console di giustizia a 
Bologna nel 1209, ambasciatore a Modena nel 1212, podestà di Parma 
nel 1213 console di Bologna nel 1214, podestà di Mantova nel 12 15-16, 
podestà di Modena nel 1217, podestà di Genova nel 1218-20, podestà di 
Verona nel 1221 dove morì. Possiamo immaginare agevolmente quali 
effeS dovesse avere una vita pubblica di tal genere sulla lingua di 
quelli che la esercitavano: ne doveva risultare un parlare fortemente 

m6 Un altro gruppo su cui dobbiamo un momento soffermarci è quello 
dei giullari. Il loro mestiere è quello di divertire con la parola per trame 
guadagno 12 - tutte le loro attività, sia quella di una recitazione mtegrat 
ron i gesti e talora con le vesti, sia il fare da corifeo di una danza 
accompagnata dal canto, sia i giochi di prestigio o il mostrare orsi o 


» A. Gloria, Del volgare illustre dal see VII fino a Dante Monac0 

.0 L Rockinger, Briefsteller und Formelbucher des XI. bis XIV. Jh,., Monaco 

1863 ,\ g. Bertoni, Rambertino Buvalelli trovatore bolognese, Dresda 1908, pp. 12-14. 

12 Acci gente di corte 
• che sono use ed acorte 
a sollazzar la gente, 
ma domandan sovente 
danari e vestimenti 

dirà Brunetto Latini nel Tesoretto (w. 1495-1499). 


I primordi 


89 


scimmie» esigono stretto contatto verbale con il pubblico che si vuol 
divertire. Ora si tratterà del pubblico di un solenne convito signorile o 
episcopale, in cui ci sarà da recitare in latino la Cena Cypriani, ora 
invece bisognerà intrattenere i villani accorsi a una fiera per spillar 
loro un po’ di denaro-, e per farsi capire da loro occorrerà un volgare 
raccostato il più possibile a quello del luogo. Naturalmente vi saranno 
stati giullari d’una certa cultura, ecclesiastici mancati diventati clerici 
vagantes, e giullari appena infarinati dal contatto con persone colte; 
ma è chiaro da tutta la produzione giullaresca che un po’ di dottrina 
bene o male digerita non manca mai. 


7. Conoscenza delle lingue e letterature d’oc e d’oil 

Contatti pratici e contatti culturali contribuivano a diffondere una 
certa conoscenza delle lingue d’Oltralpe in Italia. Si pensi alle continue 
correnti di pellegrinaggio, alle Crociate, alle fondazioni cluniacensi e 
cisterciensi. La rigogliosa fioritura degli studi teologici e filosofici in 
Francia nei secoli XI e XII dà grande prestigio alle scuole transalpine, 
ma l’influenza s’esercita rimanendo nell’àmbito della lingua delle 
scuole, il latino medievale; poi il fatto che, a partire dal 1100 circa, 
siano sorte due fiorenti letterature in volgare costituisce un esempio 
talmente cospicuo da invogliare a seguirlo (per ora quasi soltanto 
ponendosi sulla via di quegli scrittori, con le loro stesse lingue). 

Per l’Italia meridionale, è notevole l’influenza esercitata dagli 
insediamenti normanni e dalla loro corte; si hanno molte notizie delle 
relazioni dei Normanni d’Italia con quelli dì Francia e d’Inghilterra, e si 
sa che la conoscenza del francese era indispensabile alla Corte; Arrigo 
conte di Montescaglioso rifiutò la carica di reggente durante la 
minorità di Guglielmo II, scusandosi col fatto di non sapere il francese: 
«Francorum se linguam ignorare, quae maxime necessaria esset in 
curia». Giunsero per questa via leggende carolinge e arturiane (e così 
si spiega che il nome della fata Morgana, sorella di Artù, arrivasse in 
Sicilia). 

Nell’Italia settentrionale, alla fine del Cento e nei primi decenni del 
Duecento, dapprima le Corti (specie nel Monferrato, in Lunigiana, 
presso gli Estensi, nella Marca Trivigiana), poi anche le città s’interes- 
sano alla poesia provenzale; numerosi trovatori vengono in Italia e 
trovano imitatori. Non ci resta che il soprannome Cossezen (cioè 
«bellino») del più antico trovatore d’Italia, quel «vecchietto lombardo» 
che secondo la caricatura di Pietro d’Alvemia avrebbe chiamato 
codardi i suoi vicini 13 ; mentre ci resta il serventese di Peire de la 
Cavarana, composto nel 1196 o poco dopo, che esprime i sentimenti 
d’qdio dei Lombardi contro «la gent d’Alemaigna». Vedremo più oltre (§ 


13 Crescini, Manuale prov., p. 185. 


90 


Storia della lingua italiana 


21) in qual modo Rambaldo di Vaqueiras abbia applicato il suo talento 
poetico a scrivere in un dialetto italiano. 

Un po’ più tarda, ma popolare e duratura, sarà nell’Italia settentrio- 
nale l’influenza della letteratura in lingua d’oil. 

8. I placiti cassinesi 

I doc um enti in cui per la prima volta il volgare appare in piena luce, 
coscientemente contrapposto al latino, sono i quattro placiti cassinesi. 

Si tratta di un gruppetto compatto di quattro pergamene di analogo 
argomento (quattro placiti o più esattamente tre placiti e un «memora- 
torio» sull’appartenenza di certe terre, nei quali la base per la 
decisione è fornita da testimonianze giurate), appartenenti allo stesso 
tempo (il breve periodo dal 960 al 963) e agli stessi luoghi 14 . I placiti 
concernono beni di tre monasteri dipendenti da Montecassino, e sono 
stati pronunziati a Capua, a Sessa e a Teano: tutto cioè si è svolto 
nell’àmbito dei principati longobardi di Capua e di Benevento (per 
essere più precisi, in quello di Capua, riunito in quegli anni al 
principato di Benevento, in una delle periodiche fusioni e scissioni dei 

due territori). ..... 

Fuorché nella prima delle carte di Teano (il «memoratorio»), il tipo è 
costante: in un primo tempo il giudice comunica alle parti il testo della 
forinola, in un secondo tempo tre testimoni presentandosi separata- 
mente, la pronunziano: cosicché in tre dei documenti la forinola è 
ripetuta quattro volte. 

I quattro passi in volgare sono i seguenti: 

(Capua, marzo 960): 

Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le 
possette parte sancti Benedicti. 

(Sessa, marzo 963): 

Sao eco kelle terre, per kelle fini que tebe monstrai, Pergoaldi foro, 
que ki contene, et trenta anni le possette. 

CTeano, luglio 963): 

Kella terra, per kelle fini que bobe mostrai, sancte Mane è, et 
trenta anni la posset parte sancte Marie. 

14 V. il testo completo delle quattro carte in M. Inguanez, I placiti cassinesi del 
sec. X con periodi in volgare, 4 a ed., Montecassino 1942. Un ottima collazione della 
prima carta dà P. Fiorelli, Il placito di Capua del 960, Trieste 1960 (al quale 
dobbiamo anche un’acuta esposizione di tutti i problemi del placito: Lingua 
nostra, XXI, 1960, pp. 1-16). Cfr. ora A. Schiaffini, I mille anni della lingua italiana, 
2 a ed., Milano 1962. ... , , 

Per i testi citati in questo paragrafo e nei seguenti si potrà comodamente 
ricorrere alla Crestomazia del Monaci (nella riedizione dell’ Arese) o alle raccolte 
del Monteverdi, dell'Ugolini, del Lazzeri, di Dionisotti e Grayson, che ci dispensia- 
mo perciò dal citare volta per volta. 


I primordi 


91 


(Teano, ottobre 963): 

Sao eco kelle terre, per kelle fini que tebe mostrai, trenta anni le 
possette parte sancte Marie. 

Le formule corrispondono ad altre simili, ma in latino, che sono 
state additate altrove (Lucca 822); e anche per territori vicini al nostro 
pochi anni prima (S. Vincenzo al Volturno, 936, 954; e poi anche 976). 

poiché i testimoni, tutti chierici e notai, sarebbero certo stati in 
grado di pronunziare in latino la forinola testimoniale, si deve essere 
ritenuto opportuno di fame conoscere il tenore a tutti quelli che erano 
presenti al giudizio, come era avvenuto in modo più solenne a 
Strasburgo nell’842, quando Lodovico il Germanico aveva giurato 
romana lingua per farsi capire dai soldati francesi, e Carlo il Calvo 
teudisca lingua per farsi capire da quelli tedeschi. Alcuni pensano che 
questa desiderata pubblicità mirasse ad assicurare per mezzo di un 
giudizio, promosso non da un avversario autentico, ma da imo che 
agiva d’accordo col monastero, la proprietà di beni che si pensava 
potessero venir contestati 15 . 

H giudice nei tre casi preannunzia le parole che i testimoni 
dovranno giurare e che saranno state probabilmente da lui stesso 
preparate, e il notaio poi sottolinea la perfetta conformità itoti tres 
quasi ex uno ore ; quasi uno ore ) delle dichiarazioni 16 : siamo dunque 
certi che questi documenti non sono la riduzione scritta di frasi 
pronunziate ex abrupto, ma rappresentano i primi documenti di un 
lin gua ggio cancelleresco. 

Così ci spieghiamo la struttura sintattica piuttosto complessa delle 
forinole 17 . Quanto ai genitivi di nomi propri, contenuti nei documenti, è 
facile spiegare parte Sancti Benedicti e parte sancte Marie, che appar- 
tengono a quel filone che sbocca nel tipo moderno Piazza San 
Giovanni, Via Garibaldi. Più diffìcili a spiegare in testi volgari sono i 
genitivi di appartenenza dipendenti dal verbo «essere»; Pergoaldi foro, 
sancte Marie è. Giacché l’uso del volgare è nella mente dei partecipanti 
così nettamente separato dall’uso del latino, mi sembra che per 
spiegare la presenza di questi genitivi nelle formule si debba ammette- 
re che l’uso cancelleresco di tali forme fosse stato trasportato dal 
dibattito orale in latino al dibattito in volgare, e che perciò i giudici 
ritenessero di poterle adoperare anche in formule scritte intenzional- 
mente in volgare 18 . — 


15 S. Pellegrini, Lingua nostra. Vili, 1947, pp. 33-35. 

** Due lievi discordanze nel placito di Sessa sono spiegate dal Debenedetti, 
St. mediev., n. s., I, 1928, pp. 141-143. 

17 Un po' imbrogliata per l’accumularsi delle proposizioni dipendenti è la 
forinola del placito di Sessa: «So che quelle terre, per quei confini che ti mostrai, 
furono di Pergoaldo - ciò che qui si contiene (= que ki contene ) - e trenta anni le 
possedette». 

“ Si confronti la lunghissima persistenza del genitivo in Toscana per 
influenza cancelleresca, quale risulta dalle ricerche del Bianchi, Arch. glott. it„ IX, 
pp. 365-436, X, pp. 305-412. 


sSik -’ì; 


92 


Storia della lingua italiana 


Invece le forme tebe e bobe sono importanti reliquie di dativi latini 
nell’uso popolare meridionale 19 . 

Un notevole problema è quello della forma sao. Di per sé, essa non 
meraviglia affatto: si può spiegare benissimo come una formazio- 
ne analogica promossa da un lato dalle forme di 2 a e 3 a persona, sai 
Qat. sapis) e sae Qat. sapit), e dall’altra da presenti come ao, da o, stao 
che possiamo supporre posseduti dai dialetti campani intorno al- 
l’anno 1000, giacché li troviamo in testi non molto discosti: testi semi- 
latini del Codice diplomatico Cavense hanno abo per «ho» e dabo 
Der «do» 20 . 

Quello che fa sorgere qualche dubbio, è il fatto che i dialetti 
meridionali odierni presentano invece uniformemente il tipo saccio o 
meglio saccè 21 , continuatore del lat. sapio. Un testo di questa stessa 
zona di circa due secoli posteriore ai placiti, ha già saetto (Ritmo 
cassia., v. 14). D’altra parte non è lecito mettere in dubbio questa 
testimonianza dei placiti: ogni errore è escluso per il fatto che si tratta 
di carté _ originali e che la forma è adoperata dodici volte. 

Non ci si presentano che due soluzioni. L una è che a Capua e nei 
dintorni si fosse lasciato cadere neU’uso parlato il continuatore di 
sapio, mettendo al suo posto la forma analogica sao-, e che solo 
successivamente, per influenza di altri centri, si sia accettata anche là 


la forma meridionale saccio o sazzo. L’altra ipotesi, prospettata dal 
compianto Bartoli 22 , è che il sao provenga da un area settentrionale, e 
rappresenti nei nostri testi un indizio di superamento del dialetto. «Le 
formule cassinesi rispecchiano un linguaggio regionale, della Campa- 
nia quale era parlato abitualmente dai giureconsulti e dagli ecclesia- 
stici campani nella seconda metà del sec. X. Ma quel linguaggio 
regionale conteneva anche elementi interregionali e di due specie 
diverse- latinismi e italianismi. O mèglio e più semplicemente: elementi 
latini e italiani. Il più sicuro di tali elementi è sao, onde so». Dobbiamo 
confessare che tra le due ipotesi, la prima 23 ci appare senz altro la piu 
probabile. 


I» Ritroveremo ancora nel Ritmo cassinese tebe e sebe e l’analogico mete-, nel 
contrasto di Cielo sopravvivono le forme mevejeve, seve, senza ormai significato 
di dativo; e non tarderanno a sparire. Vedi D Ovidio m Arch glott. it IX , pp. 55- 
59; Id„ in Zeitschr. rom. PhiloL, XX, 1906, pp. 523-525-, Id„ in St. rom.. Vili, 1912, pp. 

ll2 ’ 20 Bartholomaeis, Arch. glott. it ., XV, p. 268. Cfr. anche lo stao del contrasto 
di Cielo, v. 54 Q’altro sta o, v. 84, è di terza persona, e va probabilmente corretto in 

staci), a i carta 1693. L’unica eccezione è Guardia Piemontese (Cosenza), che 
probabilmente è una colònia dovuta a una migrazione settentrionale del sec. 

Prima in un rapido accenno, in Arch. glott. it., XXVII, 1935, p. 102, poi 
nell’ultimo articolo da lui scritto, in Lingua nostra , VI, 1944-45, PP- l 

23 Difesa da G. Folena, in Paragone, febbraio 1954, p. 31 e da A. Castellani. 

Lingua nostra, XVII, 1956, pp. 3-4. 


I primordi 


93 


Un’altra forma interessante dei placiti è feo (Capua), con la varian- 
te eco (Sao eco. Sessa, Teano II). Si tratta certo di una sopravvivenza 
del lat- Quoo, che è più tardi confluita, insieme con ca (continuato- 
re di quam e forse di quia) e con che o ched Qat. quid) nell’unica for- 
ma che 2 *. 

I primi che si trovarono a scrivere i suoni dell’italiano con l’alfabeto 
tradizionale latino ebbero a lottare contro la difficoltà di rappresentare 
quei suoni che il latino pronunziato secondo l’uso medievale non 
possedeva: anzitutto la c e la g velare davanti a e ed i. Dove l’affinità 
con il vocabolo latino era ancora fortemente sentita, era ovvio che si 
tendesse a rimanere alla grafia latina: il che con significato di pronome 
relativo è reso con que. Invece per kelle ekii notai ricorrono al segno k, 
raro nel latino (salvo che nell’uso cristallizzato di kal.), ma che aveva il 
vantaggio di non prestarsi ad alcuna ambiguità. La regolarità con cui 
essi se ne servono, che a noi moderni può sembrare scarsa 25 , è invece 
così grande, se la confrontiamo con le oscillazioni nell’uso medievale, 
che conferma nell’impressione di un uso notarile incipiente 20 . 

0 . Testi del secolo XI. Carte sarde. Postilla amiatina 

Dopo i quattro placiti, per un secolo intero non appaiono altri 
documenti volgari: nell’immensa congerie di documenti latini, nelle 
iscrizioni relativamente numerose appare solo qua e là qualche 
briciola di volgare sfuggita agli estensori, ma nessun testo continuato. 

Bisogna aspettare gli ultimi decenni del sec. XI per trovare due 
carte sarde e tre testi dell’Italia centrale. 

Le due carte sarde sono di grandissimo interesse, perché manifesta- 
no un precoce affermarsi del volgare anche in quegli usi che più a 
lungo nella penisola rimasero riserbati al latino. Ma poiché quei 
documenti (come le carte e i condaghi del secolo seguente) rappresenta- 
no una tradizione a sé, formatasi su un ceppo dialettale che ha tanti 
caratteri peculiari, la loro storia presenta problemi che vanno affronta- 
ti separatamente. E qui basti l’avervi accennato. 

In calce a una carta del 1087, con la quale un certo Miciarello e sua 
moglie Gualdrada facevano dono di tutti i loro beni all’ Abbadia di S. 
Salvatore (sul Monte Amiata), il rogatario, notaio Rainerio, aggiungeva 
questa postilla-. 


“ quod sopravvive ancora, sotto la forma ku, nell’ Appennino campano, A I S, 
1143, punto 712 (Rohlfs, Arch. St. n. Spr., 173, p. 143). La geminazione in eco è 
possibile risalga, secondo la congettura del Rajna, all’analogia di forme come cca 
(dal latino eccu-hac ), benché i nostri testi non presentino ancora cca, ma invece ki. 
25 Per le .due oscillazioni già notate-, feo = eco; que e non ke. 

“ Sorvoliamo su numerosi altri particolari che meriterebbero di essere 
precisati; è ovvio che nella discussione di documenti, di opere, di autori singoli 
dobbiamo vincere la tentazione di discuterli in sé e per sé anziché limitarci a 
cogliere quegli elementi che si ricolleghino a un filo continuo. 


94 


Storia della lingua italiana 


Ista car tuia est de caput coctu 
ille adiuvet de illu rebottu 
qui mal consiliu li mise in corpu. 

L’assonanza di coctu , rebottu e corpu fa pensare che si tratti di versi, 
endecasillabi se si leggono senz’alcuna elisione, novenari se si suppone 
che il notaio rivestisse di sembianze latine altrettante parole volgari, 
pressappoco le seguenti: 

Està carta è de Capucottu 
e ll’aiuti dellu rebottu 
che mal consigliu i mise in corpu”. 

L’interpretazione non manca di difficoltà, fra cui la principale è il 
significato di rebottu™: io spiegherei pressappoco in questo modo: 
«Questa carta è di Capocotto (soprannome di Miciarello, probabilmen- 
te da intendere come «Testadura») e gb dia aiuto contro il Maligno, che 
un mal consigbo gli mise in corpo». 

S’intenda così o altrimenti, il nostro testo ci mostra ima fase di 
concretamento della lingua molto meno avanzata che non nei placiti 
cassinesi. Il notaio Rainerio non sa scrivere che in latino, e ogni parola 
del suo volgare che deve scrivere non sa scriverla altrimenti che 
riferendosi al latino. Pronunziando capucottu, scrive caputcoctu. Dice- 
va è, e scrive est. E forse dietro Yadiuvet (che egli certo pronunziava, 
secondo l’uso medievale, adiùvet ) sta nascosto un aiuti. 

Tuttavia attraverso questo velo tralucono alcune caratteristiche i 
notevoli Q’articolo illu, le terminazioni in -uì. 

10. Iscrizione di S. Clemente 

Molto più importante della postilla del notaio Rainerio è l’iscrizione 
affrescata su un muro della chiesa di san Clemente a Roma, negli 
ultimi anni del sec. XI. Più importante perché si tratta di un’iscrizione 
esposta al pubblico, e per di più in una chiesa. 

È noto l’episodio che l’ affresco rappresenta, attinto alla Passio 
sancti Clementis 29 . Il patrizio pagano Sisinnio è pieno di collera contro 
il santo, che egli accusa di aver esercitato arti magiche contro di lui, 
togliendogli momentaneamente la vista e l’udito per abusare di 
Teodora sua moglie, convertita al cristianesimo. Egli ordina a tre servi 
di trascinare per terra san Clemente legato-. 


27 Monteverdi, in St. rom., XXVIII, 1939, pp. 150-151; Ruggieri, in St. rom., XXXI, 
1947, pp. 93-108. 

28 Ruggieri, in Lingua nostra, X, 1949, pp. 10-16; Cocito, in Giom. it. di filoL, Vili, 
1954, pp. 256-259. 

28 A. Monteverdi, «L’iscrizione volgare di S. Clemente», in St. rom., XXIV, 1934, 
pp. 5-18 (rist. in Saggi, pp. 59-74); S. Pellegrini, «Ancora l’iscrizione di S. Clemente», 
in Cult, neol.. Vili, 1948, pp. 77-82. 


I primordi 


95 


Fili de le pute, traite. 

Poi insiste con due di essi perché lo trasc inin o con la fune: 

Gosmari, Albertel, traite. 

e al terzo, Carboncello, dà ordine di spingere con un palo il santo: 
Fàlite dereto colo palo, Carvoncelle. 

Ma un miracolo è avvenuto: il sant’uomo che il patrizio e i suoi tre 
satelliti vorrebbero martirizzare, è libero: mentre essi credono d’avere 
in mano lui, stanno legando e spingendo una pesante colonna. 

Da questa si leva una voce, che spiega il miracoloso avvenimento: 

Duritialmi cordis vestrilsl 
saxa traere meruistis 30 . 

Chi delineò il modello dell’iscrizione, con quello scarso storicismo 
che è proprio del Medioevo, adoperò nomi e lingua del proprio tempo 
per raffigurare il fatto avvenuto nel primo secolo, ma con un’importan- 
te eccezione: a Sisinnio e ai suoi uomini mise in bocca il volgare (e già 
questo fatto, ma più ancora il carattere plebeo delle parole a loro 
attribuite, mostra una certa intenzione scherzosa), mentre le parole del 
santo le fece risonare con la solennità della lingua liturgica 31 . 


II. Confessione di Norcia 

Il più importante dei testi dell’undecimo secolo che sia stato fin qui 
rintracciato appartiene anch’esso all’Italia mediana, ed è la formula di 


90 II Monteverdi corregge e integra il testo sulla scorta della Passio-. «Duri- 
tiam cordis vestii in saxa conversa est, et cum saxa deos aestimatis saxa traere 
meruistis», ma è da osservare che la mancanza di tante parole non è dovuta a 
un’omissione più o meno casuale, ma all’intenzione, in chi ha ideato l'affresco, di 
compendiare in poco spazio l’invettiva del santo. Intenzione non molto felicemen- 
te realizzata; ciò che tuttavia non ci autorizza a inserire nell’edizione critica 
dell’iscrizione tante parole di più, ma solo a valercene per comprendere il testo 
conservatoci. Giacché, comunque, dobbiamo correggere duritiam in duritia, 
penso che l’autore intendesse: «per la dimezza del vostro cuore avete meritato di 
trascinar sassi». 

31 Numerose, nel breve testo, le particolarità degne di nota. Nella grafia, la 
sola difficoltà dello scriba è stata la rappresentazione del suono gli (fili, e forse 
falite). La geminazione non appare nella scrittura anche dove la pronunzia 
doveva essere rafforzata Ipute e anche Sisinium, ma Carvoncelle ). Alla finale, dal 
lat. -u si ha -o e mai u. In dereto (dissimilato da de-retró) non si ha dittongamento. Il 
passaggio da -rb- a -rv ( Carvoncelle ) è dei dialetti italiani mediani. Si hanno ben 
due esempi di preposizione articolata {de le, colo). Il vocativo una volta è in -e 
( Carvoncelle ), secondo il tipo latino un’altra volta è troncato (Albertel), forse 
preannunziando il troncamento meridionale dei vocativi. 

Del verbo abbiamo due imperativi: traite (ripetuto due volte) e fa di falite, in 
cui vediamo i due pronomi seguirsi nell’ordine «complemento di termine + 
complemento oggetto», mentre, com’è noto, nell’italiano del Duecento e del 
Trecento prevale (salvo qualche raro caso) l’ordine inverso. 


96 


Storia della lingua italiana 


I 


confessione di Sant’Eutizio. In un codicetto miscellaneo proveniente 
dall’abbazia di S. Eutizio presso Campii (oggi Campi) non lungi da 
Norcia, tra le formule sacramentali del rito della penitenza {Ordo ad 
dandam penitentiam ) è contenuto un pezzo in volgare. 

La prima parte è un’enumerazione di peccati e un atto di contrizio- 
ne, che s’immaginano pronunziati dal penitente: 

Domine mea culpa. Confessu so ad me senior Dominideu et ad mat donna 
sancta Maria letc.J de omnia mea culpa et de omnia mea peccato, ket io feci letc.l 
Me accuso de lu corpus Domini, k’io indignamente lu accepi letc.l. Pregonde la 
sua sancta misericordia e la intercessione de li suoi sancti ke me nd’ aia 
indulgentia letc.l. 

Seguono parole di esortazione e di assoluzione, parte in volgare, 
parte in latino, del confessore: 

De la parte de mine senior Dominideu et mat donna sancta Mario letc.l. Et 
qual bene tu ai factu ui farai en quannanti, ui altri farai prò te, si sia computatu 
em pretiu de questa penitenza letc.l 32 . 

La formula è databile all’incirca alla seconda metà del sec. XI 33 e 
trova corrispondenza in parecchie formule penitenziali in latino. 

Su tutto il testo, l’influenza latina pesa moltissimo. Anzitutto, 
parecchi passi sono latini. «Quando la formula venne compilata - 
osserva il p. Pirri (art. cit., p. 35) - doveva verificarsi qualche cosa di 
simile a ciò che avviene al presente, presso persone illetterate per le 
preci in volgare introdotte nell’uso dal Catechismo di Pio X. Anche ora 
vediamo che certe frasi del Confìteor, come verbo et opere ; mea culpa, 
mea culpa, mea maxima culpa-, ad Dominum Deum nostrum da molti si 
recitano in latino». Anche all’infuori di questi frammenti, fortissima è 
la dipendenza dal latino nella grafia 31 , nella sintassi 35 , dappertutto 33 . 


32 La formula è stata la prima volta pubblicata dal Flechia nell’Arch. glott. it., 
VII, 1880, p. 121-129. Una nuova edizione del p. Pirri, nella Civiltà Cattolica del 4 
gennaio 1936, è specialmente importante per i riscontri storico-liturgici che 
l’accompagnano. Nelle citazioni che seguono, ci atteniamo alla numerazione del 

- Monteverdi, Testi, pp. 31-33. 

33 II p. Pirri dà come termine estremo post quem il 1037 e ante quem il 1089. 

34 Si oscilla continuamente tra baptismu (r. 16) e battismu (r. 6), observai (r. 17) e 
oservai (r. 21), ipsu (r. 28) e esse (r. 26). Grafìe del tipo factu ir. 46) portano per falsa 
analogia a grafie come mecto (r. 28), grafie come ad me conducono a un adcusare 
(r. 34), di contro ai numerosi accuso. 

Per trascrivere forme che dovevano sonare pressappoco o gna, l’estensore si 
serve dell’abbreviazione stessa del latino omnia, cioè dà. D’altra parte, parole 
latine come adulteria e commissatione sono raccostate al volgare e diventano 
aulteria e commessatione. 

35 Nella r. 1 , confessu so ricalca confessus sum. 

33 Latino è accepi (r. Il), perché il verbo antico non è sopravvissuto in nessuna 
parlata romanza (e, se fosse sopravvissuto, avrebbe preso altra forma). Il senior 
di me senior (r. 1) avrà sonato davvero così? o non si tratterà d’un travestimento 
erudito d’un messor o qualcosa di simile? 


I primordi 


97 


Da notare, nella grafìa, l’uso del k limitato a ke congiunzione o 
pronome (come pronome, anche kedì, e l’oscillazione nel rafforzamento 
sintattico. 

Uno dei tratti fonetici più caratteristici del nostro testo è la 
distinzione alla finale tra la o (dal lat ó, o) e la u (dal lat. ù): io, accuso, 
preso, corno, e invece confessu, battismu, diabolu, Petru, Paulu ecc. 37 . 

Nel verbo si hanno alcune forme forti notevoli (abbi, dibbi). 

Quanto all’ordine delle parole, la legge che esige l’enclitica iniziale 
Qegge Tobler-Mussafia) non è osservata nel gruppo frequentissimo Me 
accuso, ma ciò sarà dovuto alla prepotente influenza del modello 
latino, perché invece dove si ha una locuzione volgare indipendente si 
ha Pregonde. 


12. Testi del secolo XII 

Riunendo in gruppi affini per argomento i testi superstiti del sec. XII 
e del principio del sec. XIII, troviamo anzitutto la registrazione di 
qualche testimonianza giudiziaria; poi ima serie di scritte private, 
d’inventari, di libri di ricordi contabili. L’iscrizione monumentale di 
Ferrara sarebbe unica, se fosse autentica: ma probabilmente non lo è. 
Poi abbiamo una serie di poemetti giullareschi di argomento edificante, 
tutti provenienti da un territorio che va dalla Toscana alla Campania 
attraverso le Marche e il Lazio. Altri ritmi, di argomento storico- 
narrativo, appaiono nel Veneto e in Toscana. Le ventidue prediche 
piemontesi sono tutto quel che ci resta documentato della predicazione 
in volgare, che pure era certo viva in tutta la penisola. I Proverbi de 
femene aprono al cominciare del sec. XIII la fioritura di poesia 
didattica nel Duecento lombardo. Le strofe di Rambaldo di Vaqueiras 
tentano di riprodurre nel genovese le risorse d’ima lingua letteraria 
matura come il provenzale. 

Manca, tra le voci delle diverse regioni, quella degli Abruzzi; e 
mancano testi siciliani certi, malgrado lo sviluppo culturale della 


37 La distinzione sembra anche applicarsi, come in qualche dialetto mediano 
odierno al neutro pronominale («corno ipsu Dominideu io sa» r. 29) di contro al 
maschile («lu corpus Domini, k’io indignamente lu accepi», r. 10). 

Si ha qualche traccia di metafonia: puseru (r. 12), dibbi (r. 19). 

Non si ha dittongamento di £ e ó, ma e tonica in iato dà i -. mia, mie. 

Nel trattamento delle atone si noti decema (r. 18), iudecatu (r. 34): ma anche, 
per influenza latina, genitore e genitrice (r. 13), quadragessime (r. 20), ecc. 

Alla finale si tende all’epitesi: ene (v. 48); e così andrà spiegato anche il farai 
«farà» della r. 47. 

Nei possessivi si distingue la serie tonica meu mia mei mie dalla serie atona 
me ( seniori e ma (se, come è quasi certo, mat donna non è un’abbreviazione per 
mater donna, ma una grafia per maddonna ). Meno bene si vede il paradigma 
degli altri possessivi. 


98 


Storia della lingua italiana 


l primordi 


99 


Sicilia sotto i Normanni e il prossimo fiorire della cultura fridericiana. 
Continuano invece a spesseggiare i documenti sardi. 

Passeremo rapidamente in rassegna i testi indicati, per vedere ciò 
che ci possono insegnare sul consolidarsi dell’uso scritto del volgare in 
questo periodo. 

13. Testimonianze giudiziarie 

Un gruppo importante di passi in volgare, di poco posteriore alla 
metà del sec. XII, contenuto in una pergamena volterrana del 1158, ci 
riferisce un episodio di un’annosa controversia tra il conte Ranieri 
Pannocchieschi e suo fratello Galgano vescovo di Volterra. Il giudice 
Balduino riferisce le testimonianze che presso di lui hanno date sei 
uomini di Travale, per provare l’appartenenza di un certo numero di 
casolari a Travale, e quindi la dipendenza dal conte Ranieri. In due 
casi, i più importanti, Balduino riferisce le parole dei testimoni in 
discorso diretto. 

Le parole di Enrigolo suonano cosi: Io de presi pane e vino per li 
maccioni a Travale; Poghino ha sentito dire da Ghisolfolo che Manfredo 
dopo aver fatto la guardia a Travale, si lagnò del trattamento con 
queste parole-. Guaita, guaita male, non mangiai ma’ mezo pane, e così 
fu dispensato dal servizio. Questo è il passo più importante delle 
testimonianze, perché, quantunque resti qualche incertezza d’interpre- 
tazione, certo si tratta di un motto fondato o su un ritornello o su un 
proverbio popolare 38 , che s’inquadra dunque in ima tradizione in 
volgare. 

Anche dove riferisce con parole proprie le altre testimonianze, il 
giudice adopera numerosi vocaboli in volgare; non solo si guarda dal 
travestire in latino i nomi e i soprannomi delle molte persone di cui si 
parla, ma anche in molte altre cose fa intravedere abbastanza bene le 
parole dei testimoni. 

Siamo, come già con la postilla amiatina, nella Toscana occidenta- 
le; e alcune caratteristiche del nostro testo sono degne di nota 39 . 


38 V., oltre alla bibl. cit. dall’Ugolini, F. Chiappelli, in St. fllol. itaL, JX, 1951, pp. 
141-153; L. Spitzer, in Lingua nostra, XIII, 1952, pp. 1-2. 

39 Molto interessante è qualche tratto della grafìa-, l’uso di ke, ki per la velare 
sorda ha fatto nascere l’idea di ricorrere alla fe per indicare il corrispondente 
suono velare sonoro: si ha dunque non solo Gerfalcki, ma pure Maccingki, 
Pogkino, Gkisolfolo. Più diffuso Qo ritroviamo specialmente a Pistoia) è il modo di 
esprimere la z sorda per mezzo di th- «ego certetham aliam non scio nisi per 
auditam», Eldithelli, Benthuli. 

Per la fonetica, appare ben documentato il noto fenomeno toscano della 
riduzione di -ariu ad -aio-, «Andreas Starna qui Nappaio vocabatur» di contro a 
«li nappari». La -e- atona, nella preposizione de non articolata oscilla: «la curie de 
Travale» «la curie di Travale», inde atono è ridotto a de-. «Io de presi pane e 
vino». 

Al singolare Starna (soprannome) corrisponde un plurale Stami. 


14. Scritte e ricordi 


ì Vediamo ora l’uso del volgare in scritte e ricordi 40 . 

.j La carta fabrianese del 1186 incomincia in un latino assai tenten- 

j nante, e poi, fin che il formulario aiuta, procede alla meglio indicando il 

\ modo in cui i due contraenti debbono procedere nel dividere i frutti di 

| beni posseduti in comune. Ma a un certo punto il notaio sembra non 

| sappia più sbrogliarsi nel rendere il noi, e poi addirittura l’io, di cui si 

1 serve il conte Attolino nell’indicare il modo di spartizione; e passa a 

1 servirsi del volgare per un lungo tratto che dura sin quasi alla fine del 

1 documento: 





m 





de quale consortia mai advemo piu de vui, nuì partimo et vui tollete; et o 
(«ove») advemo de paradegu, de paradegu parterimu... 

et set ce fosse impedementu varcante, lu ’mpedementu sia complitu et pignu 
vet mecto per X livere de inforzati... 41 . 

Più netta è l’intercalazione del volgare nel latino in un’altra carta 
marchigiana di poco posteriore (del 1193), proveniente dall’abbazia 
cisterciense di Fiastra. Si tratta di una breve scritta privata in volgare, 
inserita nel bel mezzo di ama carta notarile di vendita. Diversamente 
dalle carte, «le scritte, che sono atti di carattere assolutamente privato. 


La costruzione non ma («non mangiai ma’ mezo pane») ha altri riscontri 
nell’italiano antico: «e molla ci ho rimedio ma uno» in un’ Ars dictandi del sec. XIII 
(Debenedetti, Giom. stor., CV, 1935, p. 1911, più spesso con l'aggiunta di che «non 
avea pianto ma’ che di sospiri» (Dante, Inf., IV, 26), ecc. 

Nel lessico, notevoli maccioni «muratori» (dal germ. machio ) e moscia 
«massa». 

“ La carta di Rossano, del 1118, trascritta dall’Ughelli e poi perduta, è 
preziosa per il molto volgare che vi traspare (tanto più se si tien conto della 
penuria di antichi testi calabresi): l’intenzione dell’estensore era tuttavia di 
scrivere In latino. Si veda il testo critico di A Colonna, in Rend. Ist. Lomb., Lettere. 
LXXXIX, 1956, pp. 9-26. 

Anche i periodi in volgare inseriti da Ruele, figlio di Ugo signore di 
Montemiglio, e priore dell’eremo di Monte Capraro, in un memoratorio della 
consacrazione di una chiesa di quell’eremo Qi71), si inseriscono stranamente in un 
contesto latino: si direbbe che a un certo punto il priore Ruele si trovasse 
imbarazzato nell’esprimere in latino le ipotetiche che si affollavano al suo 
pensiero, e perciò le scrivesse in volgare, riprendendo il latino proprio all’ultima 
parola, «sci scia excommunicatus ». 

41 La distinzione fra -o e -u (mecto, advemo, partimo, ecc.; paradegu, vostro, 
tolta, dictu, bonu pingnu, ecc.) è osservata nella grande maggioranza dei casi. 
Tipico della zona mediana è il tipo arcoltu per «raccolto». 

Il presente di avere, come degli altri verbi in -ere, è in -emo ( advemo , 
odstendemo.adtendemo), mentre il futuro è in -imo (parterimu, adrenderimu, 
atverimo). 

Per il lessico, si noti sinaita, senaita nel senso di «confine»-, si tratta della voce 
longobarda snaida « taglio» (propriamente «intacco fatto in un albero per 
indicare il possessore»), documentata in carte latine medievali e viva ancor oggi 
in dialetti abruzzesi e siciliani. 


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Storia della lingua italiana 


I primordi 


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senza valore legale, e conseguentemente senz’obbligo dello stile e della 
formula degli atti legali, cominciano prestissimo a essere dettate ne’ 
dialetti volgari». Con questa scritta si risale infatti al 1193, «mentre le 
carte notarili ufficiali per più secoli ancora durarono a scriversi in 
latino» 42 . 

Il notaio, a un certo punto della carta di vendita, v’inserisce, senza 
avvertire in alcun modo del passaggio, la scritta privata di pegno fra i 
medesimi contraenti, la quale era servita di premessa alla vendita. Le 
tracce della parlata base si vedono abbastanza bene attraverso la 
patina della scrittura 43 . 

Una carta savonese, probabilmente del 1182, ci conserva l’inventario 
dei modesti averi di una vedova, Paxia, quali essa li dichiarò ai consoli 
della città 44 . 

Una serie di ricordi privati concernenti le decime che spettavano a 
un certo Arlotto si conserva in un testo della montagna pistoiese della 
seconda metà del sec. XII: 

Alpicione dr. XXVIIII et del due anni l’uno una spalla et una callina, et ornai 
anno mezzo staio de orzeo, et ki fuori... 45 . 

A ricordi privati appartiene anche la postilla apposta a una carta 
pistoiese del 1195. In un codicillo al suo testamento, steso naturalmente 
in latino, Gradalone prometteva di rendere ai danneggiati le usure che 
aveva percepite. In calce al documento (o, più esattamente, in calce a 
una copia autentica, vergata dal notaio Gerardo) si leggono, di mano 
dello stesso notaio, alcune righe che costituiscono una specie di 
verbale o promemoria della restituzione delle usure compiuta da 
Gradalone: 


42 C. Paoli, Arch. star, ital., s. 5“, V, 1890, p. 278. 

45 Anche qui è osservata, benché non molto scrupolosamente, la differenza 
tra -u ed -o finale. Segni di metafonia si avvertono con certezza (mentre erano 
vaghi e incerti nella carta fabrianese): Carvone di contro a Carvuni, quistu 
accanto a questo ; e cfr. ancora Fracliti, Ofridi , issu; tuttavia resicu. 

È ben sviluppato il significato di loro come pronome obliquo (sia loro a 
proprietate ). Nel significato di «o» si ha uo, in cui non è da scorgere un 
continuatore di aut, che non potrebbe avere il dittongo, ma un vo per voi «vuoi», 
di cui conosciamo numerosi altri esiti nell’Italia centro-meridionale. 

44 V. il testo pubblicato e commentato da G. Pistarino, in Cult, neol., XII, 1952, 
pp. 239-242. Vi si scorgono bene tratti spiccatamente liguri. Per la grafia, notiamo 
la x di prixon « prigione» ecc. e il digramma gu in brague «brache». Per la 
fonologia, ai noti la metatesi in pairol «paiolo», e il trattamento di cl in oreger 
«origliere» e di ct in peiten « pettine». Il pronome di prima persona è ei. Piuttosto 
ricco e interessante il lessico. 

45 II testo è stato pubblicato da A. Castellani, in Studi fil. ital., XII, 1954, pp. 
5-21. La velare è rappresentata con k (Botaciatikiì o da eh (Finochioì, ma la k 
rappresenta anche gh (Kerardiniì. Figurano nel testo i dittonghi ie, uo (tiene, fuori ) 
e i come esito di rj (dinaio). Si noti il suffisso atono -oro da -olo. 




Gradalone si fue nanti Bonus, ke est aguale episcopus de Pistoria, et nanti 
l’arcipreite Buoso, sì si concioe con tuti questi omini... 46 . 

Della fine del sec. XII è l’elenco parzialmente conservatoci dei beni 
e dei redditi della chiesa di Fondi. E una serie di note di questo tipo: 

Item vinale unu posto alla veterina a llatu Antoni de Trometa et a sancto 
Antoni a la via a longu la macera. 

Item Pastena deve dare prò olo sanctu et prò crissima tomela de granimi 
nove rase. 






Ma molte espressioni rimangono inintelligibili, anche perché prete 
Antonio figlio di maestro Niccolò di Fondi era non meno approssimati- 
vo nello scrivere in volgare che nello scrivere in latino, se poteva 
adoperare locuzioni come prò sacristia capitillum fundanus 47 . 

Una serie di ricordi molto più ampia e ricca, importantissima per la 
conoscenza del fiorentino del primo Duecento, si ha nei noti frammenti 
del libro di conti d’un banco fiorentino, riferiti all’anno 1211 e contenuti 
in due fogli di pergamena che fin dal sec. XIV erano stati adoperati per 
una legatura. Sono notazioni di questo tipo: 

MCCXI. Aldobrandino Petri e Buonessegnia Falkoni no diono dare katuno in 
tuto libre lii per livre diciotto d'imperiali mezani, a rrascione di trenta e cinque 
meno terza, ke demmo loro tredici dì anzi k alende luglio, e diono pagare tredici dì 
anzi kalende luglio: se più stanno, a iiii denari libro il mese, quanto fosse nostra 
volontade. Testi Alberto Boldovini e Quitieri Alberti di Porte del Duomo. 

La lingua del frammento 48 , malgrado parecchie incertezze nella 
grafia 49 , ha una sua fisionomia netta, con una notevole precisione di 
termini bancari, la quale ci fa pensare all’esistenza di un uso scritto di 
parecchio anteriore alla data del testo 50 . 

Troviamo già le caratteristiche del fiorentino, quali sara nn o più 



48 Si noti la mancanza del dittongo in omini (Buoso, come nome proprio 
germanico, ha un’altra storia); la persistenza di i in arcipreite (da archipresbiter, 
-pkebiter), l’epitesi di -e in fue e concioe. 

47 È vivo l’uso di fe, come si vede da un esempio di ke. La distinzione fra -u ed 
•o è per lo più osservata. Si noti per il vocalismo Valle mature, per il consonanti- 
smo Vallecorza e canneté. Al lessico meridionale appartengono le misure 
adoperate nell'inventario, le cafise e le tomela. 

48 Lo spoglio del Parodi, ricco d’importanti riscontri (Giom. stor., X, pp. 178- 
196), va integrato con le ulteriori ricerche di Schiaffmi, Testi, Castellani, Nuovi 
testi, e specialmente con l'analisi che accompagna la nuova e dizi one del 
Castellani, in Studi filol. ital., XVI, 1958, pp. 21-95. 

48 La fe è di gran lunga predominante in tutte, le posizioni, ma Rusticuci, 
Compaginino, Compangno, Bellacalza. L’estensore è imbarazzato nello scrivere 
ghe, ghi (Arrihi, Ugetti-, con rafforzamento Teckiaio ) e gue, gui (Bonaguida di 
contro a Bonaquida, ecc. 

50 Si aggiunge anche una conferma esterna: il richiamo di partite segnate in 
un «libro veckio». 


102 


Storia della lingua italiana 


ampiamente documentate in testi dei decenni seguenti, tuttavia qua e 
là con qualche tratto più arcaico 51 . 

Il «breve» del 1219 degli uomini di Montieri nella Maremma toscana 
è un documento unico nella copiosa letteratura statutaria italiana. Dì 
regola, gli statuti in volgare che ci rimangono sono relativamente tardi, 
e rappresentano la versione di anteriori testi latini: invece lo statuto di 
Montieri rappresenta, come dimostrò il Volpe che scoprì e pubblicò per 
primo il testo 52 , una minuta in volgare, con emendamenti e aggiunte 
evidentemente nati dalla pubblica discussione, e introdotti per servire 
a una formulazione definitiva dello statuto in latino. Non c’è dubbio 
che l’estensore della minuta aveva nella memoria le formule consuete 
della legislazione statutaria, che traspaiono chiaramente nel suo 
volgare («non essare in consilio nè in facto nè in ordinamento con 
alcuna persona», «observare ed adimpire a bona fede senza frode», «se 
non fusse per se difendendo», ecc.l. 

La grafia è un po’ più «moderna» che nel libro di conti fiorentino 53 , 
ma ancora molto oscillante; alcuni tratti grammaticali distintamente 
senesi 54 ; la sintassi piuttosto involuta, per l’evidente sforzo di formulare 
già ipotatticamente, in vista della traduzione latina da compiersi, le 
osservazioni e controsservazioni sorte nella «compagnia». 


15. Iscrizione del Duomo di Ferrara 

Si soleva attribuire a una data di poco posteriore al 1135 un’iscrizio- 
ne che, secondo testimonianze non anteriori al secolo XVIII, si leggeva 
nel duomo di Ferrara. Secondo queste fonti, in un arco che divideva la 
navata principale dal coro c’era, accanto all’immagine della Vergine a 
mosaico, quella di un profeta, e in un cartoccio pendente dalla mano 
sinistra di questo c’era la seguente iscrizione: 

51 Si ha l’.anafonesi» caratteristica del fiorentino, e poi -er- per -or- (Aquerellì, 
Kafferelli , quiderdoné), epitesi di -a in prestoa (che trova riscontro in testi di San 
Gimignano). Troviamo ci accanto a no (e ne in enclisi) come pronome atono di 
prima plurale (no promise, no die dare-, ci diè; dene pagare ). 

51 ha ovemo (non ancora abbiamo ) e ponemo. Lo' strano infinito avire è 
spiegato dal Parodi come effetto del tipo notarile placire, monastirium, e quindi è 
diverso dall’avire che troveremo in Guittone, dovuto a influenza siciliana 
(Schiaffini, Rassegna, XXIX, 1921, p. 285). 

I latinismi non sono frequenti, fuorché in formule di data (infrante, kalende 
aprilis ); vivace è però il tipo Arrisalito figlio Turpini, mamma Sinibaldi, per lo 
mercato San Brocoli, Borgo Sa Lorenzi (ma anche a konto Amolfino). 

52 G. Volpe, «Montieri: Costituzione politica, struttura sociale, attività econo- 

mica di ima terra mineraria toscana del sec. XIII», in Vierteljahrschr. fiir Social- 
und Wirtschaftsgesch. , VI, 1908, p. 315 ss. Vedi ora il testo, con qualche correzione, 
in G. Fatini, «Letteratura maremmana delle origini», in Bull. sen. st. patria, n. s., 
IV, 1933, e in quasi tutte le antologie citate. 

53 Si pensi alle scrizioni paghi, paghino, camarlenghi; rasgione, ecc. 

54 Cfr. p. es. Iettare, essare, rendare. 


I primordi 


103 


Li mile cento trenta cenque nato 
fo questo tempio a san Giorgio donato 
da Glelmo ciptadin per so amore, 
e tua fo l’opra, Nicolao scolptore. 

(«Nel 1135 sorto, fu questo tempio a San Giorgio dedicato da Guglielmo cittadino 
per suo amore; e tua fu l’opera, Niccolò scultore»). 

Nel 1570-71 il mosaico sarebbe stato danneggiato dai terremoti; nel 
1572 si chiamò un pittore a restaurarlo, in modo che l’iscrizione 
figurava in parte a mosaico e in parte dipinta; nel 1712 l’arco fu 
demolito. 

Malgrado qualche dubbio espresso da singoli eruditi sull’antichità e 
l’autenticità dell’iscrizione, essa dai più venne ritenuta genuina, e fu 
accolta in tutte le sillogi di testi antichi. Ma un rigoroso esame delle 
fonti compiuto dal Monteverdi 55 l’ha portato a concludere che si tratta 
di una falsificazione di un erudito settecentista, G. Baruffaldi (cui si 
aggiunse poi la versione un po’ diversa, ma non meno fantasiosa, di G. 
A. Scalabrini). La sua dimostrazione ci sembra senz’altro da accoglie- 
re. La copia del Baruffaldi darebbe la trascrizione del testo qual era 
dopo il restauro, mentre il testo dello Scalabrini riprodurrebbe l’iscri- 
zione prima del restauro (e comunque conterebbe pochissimo, salvo 
forse per la parola cinque, che appartenendo alla prima parte non 
restaurata potrebbe anche, qualora il testo fosse autentico, rappresen- 
tare la scrittura originaria). 

La questione dell’autenticità ha una certa importanza per l’origine 
degli endecasillabi, di cui si avrebbe nell’iscrizione ferrarese uno dei 
più antichi esempi, anzi il più antico conosciuto, se non si interpretano 
come endecasillabi i versicoli della postilla amiatina 58 . 

Nella lingua dell’iscrizione scorgiamo qualche traccia settentriona- 
le (fo «fu», so «suo») e fortissime impronte latine: latinismo è tua, come 
si deve certo leggere nell’ultimo verso 57 , latineggiante è la grafia di 
scolptore (e, a suo modo, quella di ciptadin ). Ma tutto codesto non 
importa più se si tratta di ima falsificazione. 

16. Ritmi giullareschi. Elegia giudaica 

Con i ritmi giullareschi abbiamo la testimonianza di un modo 
peculiare di vita culturale: uomini con una certa infarinatura di studi 


55 Monteverdi, «Lingua italiana e iscrizione ferrarese», in Atti dell’Vlll 
Congresso int. di studi romanzi, II, Firenze 1959, pp. 299-310. 

“ L’ipotesi più probabile sulTorigine dell’endecasillabo è tuttora quella del 
D’Ovidio che Io faceva risalire al saffico ritmico (Ut queat laxis resonare fibrisY. 
D’Ovidio, Versificazione ital. e arte poetica medievale, Milano 1910, pp. 197-202. 
Monteverdi, in Studi rom., XXVIII, 1939, pp. 141-154. 

57 Prima di L. Olschki (Arch. rom., XX, 1936, pp. 257-260), si leggeva mea, 
attribuendo i primi endecasillabi italiani allo stesso Nicolao. 



104 


Stona della lingua italiana 


I primordi 


105 


che si rivolgono a una cerchia di persone per divertirle, per edificarle, 
per trame guadagno. 

Il più antico conservatoci, il quale, malgrado numerose oscurità 
d’interpretazione, ci permette d’intravedere parecchi aspetti della vita 
dei giullari, è il ritmo Laurenziano, il più antico componimento poetico 
it alian o che si possa chiamare letterario (sia pure molto modestamen- 
te) 5 ®. Si tratta di venti doppi ottonari, scritti di séguito, nell’ultima 
pagina di un codice laurenziano contenente un Martirologio, da ima 
mano degli ultimi anni del sec. XII o del principio del XIII. Il giullare si 
rivolge a un vescovo (Villano arcivescovo di Pisa, secondo 1 ipotesi del 
Cesareo, accolta dal Mazzoni) facendone lodi sperticate e pronostican- 
dogli nientemeno che il pontificato, con la speranza di ottenerne in 
dono un cavallo: se lo ottiene, lo mostrerà al vescovo di Volterra, 
Galgano. Del resto, un dono simile lo aveva già avuto da un altro 
vescovo generoso, Grimald(esck>. La scena del giullare che recita i suoi 
versi davanti al vescovo e alla sua corte s’immagina bene; dove essa si 
sia di fatto svolta, è difficile dire, per le incertezze che rimangono 
nell’identificazione dei tre vescovi: forse la stessa Toscana occidentale, 
dove già abbiamo trovato che Malfredo per un verso o un buon motto 
era dispensato dal far la guardia. Molto più importerebbe 1 accerta- 
mento del territorio linguistico da cui il giullare proveniva, ma le 
incertezze permangono 59 . 

Le allusioni dottrinali (Fisolaco, cioè «il Physiologus »; Cato, cioè «i 
Disticha Catonis »), lo schema metrico affine alla Sancta Fides provenza- 
le, l’ordinamento conforme alle prescrizioni retoriche (salutatio , capta- 
no benevolentiae, petitio, exemplum ) mostrano nel verseggiatore ima 
certa cultura, applicata al fine pratico che egli si proponeva. 

Più alto livello e fini di edificazione rivelano il ritmo di Sant’Alessio, 
di provenienza marchigiana, e il ritmo Cassinese, conservato in copia 
nel cenobio in cui probabilmente fu composto: l’uno e l’altro della fine 
del sec. XII o del principio del XIII. Ambedue si rivolgono a un pubblico 
distinto 80 , riferendosi nella narrazione, più o meno mimata, a un rotolo 


58 Ampia bibliografia nelle antologie più volte citate (aggiungi i contributi più 
recenti di L. Spitzer, Italica, XXVIII, 1951, pp. 241-248“; Camilli, Lingua nostra, XIII, 
1952, pp. 45-46, Castellani, St. fll. it., XVI, 1958, pp. 10-13). Gli articoli più importanti 
sono quelli del Mazzoni, St. mediev., n. s., 1, 1928, pp. 247-287, del Casella St. fll. it., 
II, 1929, pp. 129-153, e di nuovo del Mazzoni, St. fll. it., Ili, 1932, 103-162;ora quello del 
C&stsU ani 

50 II Castellani, dopo aver mostrato (art. cit., pp. 12-13) che i fondamenti su cui 
il Casella aveva pensato alla Toscana orientale sono troppo incerti, conclude che 
il ritmo non offre elementi per ima localizzazione sicura nell’àmbito della 
Toscana propria: nulla tuttavia si oppone all’ipotesi che il giullare fosse 
volterrano. . . 

» cfr. «ore odite», S. Alessio, v. 3; «hore mo vo dico», v. 13-, «et mo, semun, or 
ascoltate», v. 222; «Eo, sinjuri, s’eo fabello, lo bostru audire compello», R. Cassia., 
w. 1-2; «Ergo poneteb’a mente», v. 27, ecc. 



ovvero a un cartellone contenente una figurazione dei principali 

episodi 61 . 

1 257 versi del ritmo di sant’Alessio narrano solo la prima metà della 
leggenda del santo (cioè la nascita, il matrimonio, l’esortazione alla 
moglie, la fuga a Laodicea, la vita da mendicante) 62 . Parecchi indizi 
confermano che l’autore del ritmo era della stessa regione da cui 
proviene la copia del poemetto, cioè marchigiano 63 . Le numerose 
oscillazioni di forma che si osservano nel testo del ritmo saranno in 
parte dovute alla copiatura, ma altre è probabile siano mescidanze 
linguistiche dovute al giullare. Il quale di tanto in tanto adopera 
qualche verso intero o qualche parola in latino, parecchi latinismi e 
alcuni gallicismi. 

Lo schema metrico, una serie di lasse ciascuna composta di una 
serie di ottonari (o novenari), seguita da una coppia di endecasillabi, si 
ritrova, in forma leggermente più complicata, nel ritmo di Montecassi- 
no. In questo 64 , il verseggiatore dopo una specie di prologo con la 
captatio benevolentiae e la dichiarazione del carattere allegorico del 
componimento, narra ai suoi uditori l’mcontro e il dialogo fra due 
personaggi, l’imo (il Mistico) che viene dall’Oriente, l’altro (il Mondano) 
che viene dall’Occidente. Il testo è stato ritenuto molto lacunoso dal 
D’Ovidio, che voleva conformarlo a uno schema rigoroso, ma poiché 
alla poesia delle origini dobbiamo riconoscere un’assai ampia libertà 
metrica, è meglio rimanere aderenti al testo tramandato: e basterà 
amm ettere una sola lacuna. 

La lingua del testo offre problemi diffi cili, ma nulla ci obbliga ad 
allontanarci dalla Campania, anzi dai dintorni di Montecassino 66 . 



81 È un’idea del Nigra, accolta dal Monaci (Rendic. Acc. Lincei, XVI, 1907, p. 
113) e applicata dal Casini (Studi di poesia antica. Città di Castello 1914, p. 87) al 
ritmo Cassinese. Sull’uso degli exultet, rotoli membranacei ornati di miniature 
disposte in senso inverso al testo perché il popolo le osservasse, v. Monaci, Crest., 
p. 47L 

62 Sappiamo da altre fonti che la leggenda del santo era cara alla tradizione 
giullaresca: subito dopo la metà del sec. XII, Pietro Valdo a Lione, mescolatosi 
alla turba che ascoltava un giullare narrare di sant’Alessio, «ex verbis ipsius 
compunctus fuit». 

63 La distinzione fra u ed o finali è osservata con notevole costanza; si 
distingue il maschile dal neutro nei pronomi e in alcuni dimostrativi; nd dà nn, 
con qualche oscillazione e parecchie regressioni, i gruppi «cons. + l» sono intatti 
(flore, slatta, ecc., fuorché in kina o), ecc. Ricordiamo un solo fatto lessicale: afflao 
217 «trovò» (da afflare, tuttora ben rappresentato nei dialetti meridionali). 

64 Sul ritmo cassinese, si vedano specialmente l’ampio saggio del D’Ovidio, in 
Studi rom., VIII, 1912, pp. 101-217 e Vuolo, in Cult, neol., VI- VII, 1946-47, pp. 39-79, 
Spitzer, in St. mediev., XVIII, 1952, pp. 23-54, Pagliaro, in Rend. Acc. Lincei, s. 8 a , 
XII, 1957, pp. 163-248 (rist. in Poesia giullaresca e poesia popolare, Bari 1958, pp. 194- 
232), Panvini, Il Ritmo cassinese, Catania 1957, Segre, in Giom. star. , CXXXIV, 1957, 
pp. 473-481. Il lavoro di L. De Palma (Bari 1946) è peggio che mutile (Contini, 
Belfagor, I, 1946, pp. 595-601, Schiaffini, Rass. d’Italia, nov. 1946, pp. 107-U5). 

65 Manca il dittongamento di é e ó; nel trattamento delle atone prevalgono e 


106 


Stona della lingua italiana 


L’appello al pubblico, il probabile uso di immagini figurate, il 
dialogo che fa pensare a una recitazione mimata, la struttura metrica 
ci richiamano alla letteratura giullaresca; ma certo l’autore del ritmo 
Cassinese è notevolmente più colto di quello del ritmo Laurenziano e 
del Sant’Alessio: lo mostrano le voci latine non adattate (ergo, vir, ecc.) 
e i latinismi assai numerosi ( compello , interpello, albescente, sitiente, 
ecc.) che palesano familiarità con il latino dei tribunali e delle scuole. 
Né mancano provenzalismi e francesismi ( deportare , 22; fui trobata, 65; 
destuttu 59, ecc.). 

Siamo insomma in presenza di uno scrittore che, adeguandosi alle 
forme giullaresche, sa il suo latino e conosce la vita cortese. Non è 
illegittimo parlare per il nostro testo, di «campano illustre*. 

Un altro componimento poetico religioso, diverso di carattere 
perché proveniente da ima comunità israelitica, è un’elegia giudeo- 
italiana, conservata da due manoscritti in lettere ebraiche. 

Scritta per essere cantata dal sacerdote durante le cerimonie del 
digiuno di Ab, l’elegia narra la dispersione del popolo ebreo, sofferman- 
dosi sulla triste sorte di due giovinetti di nobile stirpe, fratello e sorella, 
venduti come schiavi, sulla loro agnizione e la loro morte; le lamenta- 
zioni sul popolo ebreo e sui due giovinetti si mescolano alle invocazioni 
al Signore. È indubbia l’influenza di composizioni giullaresche di 
carattere religioso (p. es. nel dialogo della meretrice e del taverniere, 
padroni dei due giovinetti), ed è possibile che vi sia qualche preciso 
ricordo del S. Alessio. Per la localizzazione del testo non ci soccorre 
alcun indizio esterno: i riscontri letterari (S. Alessio, Pianto delle Marie ) 
fanno pensare piuttosto alle Marche; i tratti dialettali ci riportano ai 
dialetti mediani (marchigiano-umbro-romaneschi), senza che sia possi- 
bile ima più precisa determinazione 96 . 


3 

,-s 

-V 

J 


17. Ritmi storici 

Due altri testi ci documentano un diverso aspetto dell’uso del 
volgare: la narrazione fatta da cittadini in ritmi facili e concitati di 
avvenimenti bellici che interessavano le rispettive città, una specie di 


ed u; -u finale si distingue da -o e produce metafonesi; quasi dappertutto abbiamo | 
b in luogo di v ; i gruppi «cons. + l» persistono; importanti i resti e le espansioni 3 
analogiche di pronomi personali dativi Uebe 84, sebe 8; por vebe 111 che ci 
richiamano bobe della testimonianza di Teano (ma anche u tteve-, S. Alessio 65>, 
fora 46, e probabilmente boltiera 51, sono piucchepperfetti con valore di condizio- 
nali («sarebbe», «vorrebbe»). . ì 

66 Sulle difficoltà dipendenti dall’uso dei caratteri ebraici, v. Cassuto, m | 
Silloge ..Ascoli, Torino 1929, p. 357. Uno spoglio dei suoni e delle forme è dato dal | 
Cassuto, pp. 376-381. Per il lessico, si noti, ad es., certo (v. 109) «presto» fiat. cito), .» 
che figura come marchigianismo nella canzone del Castra (Cierto detto s agia, v. | 
2), si ha in Iacopone e spesso nelle laude drammatiche umbre, e di cui si trovano , 
tracce nel Lazio. 11 S. Alessio ha la parola nella forma citu (v. 201). ; 


I primordi 


107 


bollettini di guerra in versi, con l’esaltazione della «buona causa». Si 
tratta di un frammento bellunese del 1193, di quattro versi, e di un più 
ampio frammento lucchese del 1213, l’uno e l’altro inclusi in narrazioni 
cronistiche latine di poco posteriori: il cronista, giunto a parlare 
dell’avvenimento che era stato messo in versi sùbito dopo il fatto, fa 
sue le parole del verseggiatore. 

Il passaggio dal latino al volgare avviene senza alcuna transizione 
nel testo bellunese: 

De Casteldard avi li nostri bona pari;, 
i lo getà tutto nitro lo flumo d'Ard; 
e sex cavaler de Tarvis li plui fer 
con se duse li nostri cavaler. 

(«Di Castel d’Ardo ebbero i nostri buon partito, e lo gettarono tutto entro il 
fiume d’Ardo; e sei cavalieri di Treviso i più fieri con sé condussero i nostri 
cavalieri» 67 ). 

Invece nel testo lucchese, il cronista che ha cominciato a narrare in 
latino lo scontro tra un gruppo di Lucchesi contro un maggior gruppo 
di Massesi, Pisani, Pistoiesi e altri ancora, man mano che viene a 
precisare i particolari si ricorda delle parole del ritmo; e ne fa proprie 
alcune frasi, finché passa addirittura a ripetere le notizie e il commento 
politico («Di lui e li altri sia vendecta*, ecc.). 

Questa funzione cittadina e «pubblicistica* del volgare è assai 
importante, anche se le testimonianze ne sono così scarse. 


18. Versi volgari in un dramma liturgico 

Il brevissimo lamento di Maria, cioè i tre versi, rimati, con caratteri 
fortemente meridionali, che chiudono un dramma liturgico latino sulla 
Passione, della fine del sec. XII, 

... te portai nillu meu ventre. 

Quando te beio, moro presente. 

Nillu teu regnu agirne a mente 

è un’importante testimonianza dell’infìltrarsi del volgare nella poesia 
drammatica religiosa 88 . 


67 Nel testo bellunese va notata qualche traccia supradialettale: sia per 
mezzo di latinismi (non solo il discusso sex, ma anche intro ), sia per la 
reintegrazione della vocale finale in tutto e in flumo (specialmente riconoscibile 
nel secondo vocabolo, in quanto si tratta di ricostruzione analogica). 

“ Si noti, accanto a beio con b- da v-, ventre con v-, probabilmente per ricordo 
latineggiente di fructus ventris tui. 


108 


Storia della lingua italiana 


19. Sermoni 

Altra manifestazione dell’attività religiosa in volgare sono 22 
sermoni piemontesi, la cui lingua non è stata ancora studiata nei 
particolari 88 . Il predicatore per lo più parte da un passo del Vangelo, 
che traduce e commenta. P. es. (sermone II): 

Dominus dicit in evangelio: Beati nusericordes quoniam ipsi misericordiam 
consequentur. Seignor frere, nostre Sire dit en son evangeli que bonaurai sun cil 
qui an misericordia, quar il la troveran plenerement. Perqué etc. 

Si tratta di un testo piemontese, messo per iscritto e copiato da uno 
che era abituato alla grafia francese, e ne applicava le consuetudini (e 
anche alcune forme e alcuni vocaboli) al testo che scriveva o che 
copiava 70 . 

Notevole è anche l’influenza del latino: l’autore dei sermoni lo 
distingue più nettamente dal volgare che non sappia distinguere i 
-diversi volgari fra loro. 

In complesso, il territorio piemontese era (e sarà ancora a lungo) 
linguisticamente molto staccato dal resto d’Italia. 

20. Versi didattici 

Appartiene probabilmente ai primissimi anni del sec. XIII un 
poemetto di 189 quartine monorime di doppi settenari: è una serie 
d’affermazioni e di consigli fieramente misògini, primo esempio rima- 
stoci di quella letteratura morale-didattica a cui daranno opera 
Uguccione, Patecchio, Bonvicino. Lo scritto, che si può intitolare 
Proverbi de femene, è in un dialetto lombardo a cui non è possibile 
assegnare un luogo preciso. 

Ecco una quartina-. 

E corno son falsiseme piene de felonia 

et unqa mai no dotano far caosa qe rea sia. 

Or dirai qualqe caosa de la lor malvasia, 

ond se varde li omini de la soa trìijaria 71 . 

Può bastare un solo esempio a mostrare come si mescolino nel testo 
(certo in gran parte per opera dell’autore, forse in piccola parte del 
copista) rudi forme dialettali con altre che rappresentano un uso più 
arcaizzante, e altre ancora che si conformano al latino. Se si esamina- J 
no le parole che avevano in latino una -t-, troviamo ben quattro esiti: % 
sparizione (spaa, quart. 54, mua, 149), dh (redhi, 155), d ( mercadi , | 


69 Dopo lo spoglio del Forster, Roman. Studien, IV, 1879-1880, pp. 40-80. 

70 È pressoché costante, p. es., la grafia que, qui per la velare davanti a c, i, .. 
senza tracce (fuorché nel latino: fratres karissimi) della fe. 

71 La lingua del poemetto è stata studiata da A. Raphael, Die Sprache der 
Proverbia que dicuntur..., Berlino 1887. 


1 primordi 


109 


ramadi, resonadi, 55), t tornito, entenduto, recordato, dato «dado», 53). La 
ragione della scelta spesso è riconoscibile: nella quartina 55 l’ultima 
parola del primo verso è Barbacoradi, che ha suggerito la scelta della 
forma in -d-. Questa libertà qualche volta giunge a provocare degli usi 
regressivi: nella quartina 81 il versificatore adopera scaltride e tride per 
rimare con ride e aside ; ma altrove (56) accanto a marito, partito e 
fiorito si lascia andare a adoperare un rito per rido, che certo non è 
stato mai usato parlando 72 . 

Nel lessico abbondano i gallicismi ( acolar «abbracciare», 93-, cobiti- 
eia «cupidigia», 181; a lo men esciente, 94; esdito «sentenza» 20; meseli 
«lebbrosi», 181-, sagire «afferrare» 146; trigaria «inganno» 17, ecc.) e i 
latinismi (malicia, 143-, nequicia, 64; ne novene ne sene, 63 ecc.). 

Insomma, se il pensiero e la tecnica dell’autore dei Proverbi 
possono sembrarci ingenui, la lingua è assai composita. 

21. Il contrasto e il discordo di Rambaldo di Vaqueiras 

Nel canzoniere di Rambaldo di Vaqueiras, trovatore provenzale fra 
i più notevoli, troviamo un contrasto e un discordo con parecchi versi 
scritti volutamente in italiano 73 . Nel contrasto, scritto verso il 1186, 
Rambaldo presenta un cavaliere che dichiara il proprio amore a ima 
donna, in tre strofe di 14 versi e un congedo di 6, con lo stile 
convenzionale della lirica cortese; la donna, ima popolana, risponde in 
altrettante strofe con energico disdegno, rifiutando il suo amore e 
trattando il cavaliere da giullare. L’uomo parla in provenzale, la 
donna, che è presentata come una «genoesa», in un dialetto letterariz- 
zato. 

Rambaldo visse a lungo in Italia come poeta di corte (e poi valente 
guerriero) presso Guglielmo III e Bonifacio di Monferrato; ma egli era 
un poeta provenzale e non un dialettologo moderno: il valore di questo 
testo consiste non tanto nel carattere documentario, che non potrebbe 
avere, quanto nello sforzo del poeta di adattare un dialetto non scritto 
(e, nel sottofondo, i tanti altri dialetti che avrà sentiti in Italia) agli 
schemi linguistici e letterari della fiorente cultura provenzale. Ne è 
risultato un testo assai misto 74 . 


72 Qualche altra peculiarità: il largo uso di q per c velare iriqe, 135); la facoltà 
di adoperare forme apocopate in consonante o gruppo consonantico, salvo che 
alla fine del verso o dell’emistichio («Quel q’eu diga de femene, eu noi dig per 
entagna» 85); la forma lero per «loro», sia come pronome obliquo plurale (70, 87, 
180) sia come possessivo (98, 162, 183): però qualche volta c'è anche loro; la 
desinenza in -emo per il pres. ind. della I con.: trovemo; oscillazione fra -ave e -ia 
nel condizionale (porave, 88, devria, 142). 

73 Dei due testi si è occupato a varie riprese il Crescini (negli articoli citati nel 
suo Manuale provenzale e nei Testi del Monteverdi); per la lingua, v. spec. Parodi, 
Lingua e lett., pp. 296-300. 

74 Spesso si sente il provenzale sotto ima patina genovese: Rambaldo, che ha 
appreso che a plus provenzale corrisponde chu genovese, applica il modulo 


no 


Storia della lingua italiana 


Nel discordo, che è probabilmente degli ultimi anni del secolo XII, 
Rambaldo vuol mostrare lo sconvolgimento prodotto in lui dalla sua 
donna usando cinque lingue diverse, una per ciascuna delle cinque 
strofe, e tutte e cinque (due versi per ciascuna) nel congedo. Alla strofa 
provenzale segue quella italiana; poi una francese, una guascone e una 
ibero-romanza. La lingua della quinta strofa è così mista da rendere 
impossibile di dire se il poeta abbia voluto scrivere in portoghese o in 
galliziano (meno probabilmente in spagnolo); e proprio questo fatto ci 
suggerisce di considerare per parallelismo la seconda strofa, piuttosto 
che genovese, «lombarda» (nel senso antico del termine). C è sì uno 
spiccato genovesismo: un codice (a 1 ) ci dà al verso 15 ghu, che trova 
riscontro nel chu del verso 25 del contrasto. Ma i dieci versi sono in ima 
lingua molto composita-, si veda p. es. ò 12 di contro a aio 9 (cfr. anche i 
futuri averò 10, partirò 16, farò 44) 75 . 

Le strofe italiane di Rambaldo manifestano, come s’è visto, una 
forte dipendenza dal provenzale. Ma, a differenza di tutti gli altri testi 
che abbiamo visto sin qui, non c’è traccia, si può dire, di influenza 
latina 78 . La sua propria lingua era già abbastanza alta e nobile e 
matura, agli occhi di Rambaldo, per valere come lingua a sé, senza che 
ci fosse bisogno di ricorrere al latino. 


22. Bilancio di due secoli e mezzo 

Se consideriamo in complesso i testi che abbiamo visti fin qui, 
troviamo che il bilancio è assai magro. Intravediamo bene o male, 
piuttosto male che bene, il quadro dell Italia dialettale già formato 77 -, e 
in esso emerge l’influenza di centri come Roma e Montecassino. 


anche a chaidejai 16, deschasei 47 (ma ci sono pure plui 17 e plait 19). Anche ganzo 
72 sembra il provenzale gaug travestito in genovese Gè antiche Rime genovesi, 
d’un secolo più tarde, hanno goyo e gozoì. Interessanti i futuri scanerò e amerò, 
serbati dal codice a': li troviamo anche nelle antiche Rune; e poiché m quelle 
troviamo Catarina, Margarita, masaritie, i futuri vanno spiegati non con un 
mutamento fonetico, ma per analogia dei futuri della 2“ e 3 a coniugazione 
(Flechia, Arch. gioii il, X, pp. 146 e 160). 

75 Anche qui abbiamo voci provenzali travestite, p. es. glaio «gladiolo». Non 
ci dobbiamo poi nascondere che la tradizione manoscritta lascia campo a molte 
incertezze 

Il chu del verso 15 è estremamente probabile, come lectio difficilior che nessun 
copista si sarebbe arbitrato d’introdurre in luogo di plus o pus degli altri codici: 
ma non possiamo dire lo stesso di io, testimoniato dal solo codice f in luogo di eo 
eu degli altri codici. Nel contrasto si ha pure e (o euì-, e il criterio della lectio 
difficilior (Crescini, Romanica fragmenta, Torino 1932, p. 524) non si può senz altro 
applicare, perché il copista del codice f può anche aver voluto ipentalianizzare 
un testo che sapeva italiano. 

76 Vapril del v. Il del discordo è attestato solo dal codice f (contro abnl o 

abrilo di tutti gli altri codici): se aprii è autentico, sarà un latinismo dell uso 
genovese, non di Rambaldo. , 

77 Rinviamo ancora al bel panorama del Vidossi (cit. a p. 88). 


I primordi 


111 


Quantunque l’esempio delle grandi letterature d’oc e d’oil e delle 
lingue rispettive si faccia sentire, non vi è ancora alcuna opera d’arte 
che possa anche lontanamente competere con quelle, e che possa 
assumere il valore di un modellò letterario e linguistico 78 . 

Si tratta ancora di tentativi modesti, quasi sempre prevalentemente 
pratici. S’intravede ima tradizione nei ritmi dei giullari, ma non è 
verosimile che le loro rozze cantilene possano avere contribuito a 
portare ima qualsiasi forma o parola toscana agli iniziatori della 
poesia siciliana 79 . 

Tuttavia già appare la tendenza a evitare le forme dialettali più 
crude, più strettamente locali; e specialmente nei testi in versi appaio- 
no numerosi doppioni. 

Certo, la testimonianza dei testi andrebbe completata con il molto 
che si può ricavare dai volgarismi sparsi nelle carte latine di questa 
età. Ma questa esplorazione di caratteristiche grammaticali e lessicali 
volgari è, si può dire, appena iniziata. 

Data la relativa scarsezza e disformità dei testi e degli spogli da 
documenti, non ci sembra che metta conto di tracciare un inventario 
dei fenomeni grammaticali per questo periodo. Anche per il lessico un 
inventario separato è difficile. Si potrebbero, certo, mettere in luce 
molte nuove formazioni e nuovi significati sorti in questi secoli: p. es. 
podestà applicato nella seconda metà del sec. XII ai podestà imperiali, 
poi al principio del sec. XIII ai podestà forestieri. Spesso si ricorre al 
latino ( comune , console, ecc.), e si è già fatta sentire l’influenza francese 
(suffisso -iere, mangiare nelle testimonianze di Travale, ecc.) e quella 
araba. Ma sarà meglio dare un cenno complessivo sul lessico quando 
potremo anche disporre della documentazione assai più larga che si ha 
nel Duecento: rinviamo perciò la trattazione al capitolo seguente. 


78 V. le pagine sintetiche del Terracini, in Cult, neol., XVI, 1956, pp. 19-25. 

79 Come pensava il Torraca, nella conclusione dell’articolo «Su la più antica 
poesia toscana» (1901), rist. in Studi di storia letteraria, Firenze 1923. 



CAPITOLO IV 

IL DUECENTO 

(1225-1300) 


1. Limiti 

Toccheremo in questo capitolo delle principali vicende dei volgari 
d’Italia, cominciando dal terzo decennio, in cui appaiono le prime 
sicure manifestazioni di scritti con intenzioni d’arte, e terminando con 
la fine del secolo. E assisteremo al costituirsi di una tradizione che 
durerà poi sempre saldissima, almeno per la poesia. 

2. Vicende politiche 

La politica italiana è dominata dalla poderosa figura di Federico II 
dal terzo al quinto decennio del secolo, cioè dall’anno del suo ritorno in 
Italia e della sua incoronazione (1220) fino all’anno della morte (1250). 
Alcune direttrici dell’azione di Federico hanno importanza durevole: 
l’opera di riordinamento amministrativo del regno di Sicilia, fondata su 
funzionari anziché sul tradizionale regime feudale ed ecclesiastico, 
l’opera di legislazione ripresa come continuazione del Corpus iuris 
giustinianeo; invece il suo tentativo di ri unir e sotto un solo governo il 
Regno e quella parte d’Italia che non dipendeva direttamente dal 
pontefice fallisce, per la forza e il sentimento d’indipendenza che ormai 
possiedono in quelle terre della penisola le città-stato, i Comuni e 
alcune potenti casate. All’appoggio di Federico sono forse dovute 
alcune migrazioni di colonie valdesi (provenzali) in Calabria. 

A Firenze, la città che tiene, si può dire, le fila dell’opposizione a 
Federico, ricevono nuovo impulso i nomi di Guelfi e Ghibellini: essi 
erano nati in Germania nelle lotte per la successione dell’Impero dopo 
l’estinzione della Casa di Franconia, e a Firenze diventano segnacoli 
della politica italiana. 

Alla morte dell’imperatore tien dietro, in Firenze, lo stabilirsi del 
regime del «primo popolo»; e nel 1252 viene coniato il fiorino d’oro, che 
s’impone rapidamente per la sua eccellenza e la sua stabilità in tutti i 
mercati italiani ed europei Qo segue, nel 1289, il ducato di Venezia, 
altrettanto apprezzato). 

La battaglia di Montaperti (1260) segna un breve trionfo dei 
Ghibellini: poco dopo, per contraccolpo della sconfitta e della morte di 
Manfredi a Benevento (1266), si ha la riscossa dei Guelfi. 




114 


Stona della lingua italiana 


I possessori di terre dai dintorni tendono a entrare in città e a 
farvisi cittadini. Nel 1293 gli Ordinamenti di giustizia segnano il 
predominio del popolo nel Comune-, contemporaneamente la pace di 
Fucecchio dà a Firenze la supremazia sulle altre città toscane (Arezzo, 
Pisa). 

Segni di crescente importanza dei ceti popolari (benché non mai di 
quelli infimi) sono l’istituzione del capitano del popolo che rappresenta 
le Arti e limita l’autorità podestarile, e più tardi quella dei priori. 

In parecchie città settentrionali si sta consolidando l’autorità di 
famiglie che di fatto esercitano la signoria (Estensi, Scaligeri, Visconti). 

Gli Angioini, collocati in posizione preminente dall’appoggio papàie 
e dalla vittoria sugli Svevi, hanno ima potente piattaforma nel Regno e 
propaggini d’autorità in tutta l’Italia. La Sicilia, dopo poco più di un 
decennio di dominazione angioina, è più o meno strettamente legata 
agli Aragonesi. Questi tentano anche d’impadronirsi della Sardegna, 
dove tuttavia ancora predominano i Pisani. 


3. Vita culturale 

Alla corte fridericiana, un gruppo di laici colti prende quelle 
funzioni esecutive che finora nelle corti erano state esercitate da alti 
dignitari ecclesiastici o feudali. | 

Si sa quale fervore intellettuale dominasse Federico e, per suo | 
impulso, la corte-, l’imperatore si faceva leggere Aristotile e compieva | 
osservazioni naturalistiche, disputava per lettera di cose matematiche 
con sovrani orientali, promoveva traduzioni dal greco e dall’arabo. | 
Quel favore di cui i trovatori godettero largamente presso le corti | 
settentrionali, mancò loro invece in quella di Federico II. Di imo solo, ;■ 
Guglielmo Figueira, sappiamo che fece breve soggiorno presso di lui 1 . | 
Ma l’affiato della poesia trobadorica animò la nuova forma di poesia | 
che ebbe nome dal «regale solium» di Federico. | 

La vita universitaria, che prima sì era manifestata solamente a ìj 
B ologna, ora si estende a varie sedi: Padova (1222), Napoli, consciamen- | 
te contrapposta da Federico a Bologna (1224), Arezzo, Roma, Siena. | 
Nelle università si coltivano distinte, ma non separate, l'ars notariae e | 
l’ars dictandi: diritto e retorica si congiungono nella stesura degli atti J 
pubblici. Anche se non è possibile accogliere la tesi del Monaci 2 che fa | 
nascere il volgare illustre dal contatto avvenuto all’università di | 
Bologna fra studenti di varie regioni d’Italia, è certo che Bologna J 
esercitò una notevole influenza conguagliatrice. f 


1 Quanto ai giullari, con una delle sue prime leggi, promulgata a Messina, li | 

abbandonò alle vendette di quelli che fossero stati offesi dalle loro parole j 
(Torraca, Studi di storia lett., cit., p. 21). — ) 

2 Nel noto articolo della Nuova Antol ., 15 agosto 1884: «Da Bologna a Palermo: | 

primordi della Scuola poetica siciliana». 


Il Duecento 


115 


Ed è nota l’importanza che hanno nella vita culturale di questo 
periodo notai e giudici: Giacomo da Lentini (il Notaro per antonomasia), 
Pier della Vigna, Brunetto, Guido Guinizzelli, Cino da Pistoia, ecc. Giu- 
dice era anche il fondatore del preumanesimo padovano, Lovato dei 
Lovati. 

La stragrande maggioranza degli scritti di questo periodo è ancora 
in latino, e l’appena nascente letteratura volgare s’appoggia alla pluri- 
secolare letteratura latina per trarne alimento, soprattutto per mezzo 
di traduzioni 

Hanno notevole prestigio anche le due lingue letterarie d’oltralpe. 
Da un lato l’epopea carolingia e le ambages pulcerrime dei romanzi 
arturiani (Dante, De vulg. el., I, x, 2), dall’altro la poesia trobadorica con 
la nuova concezione dell’amore cortese si presentavano alla nuova 
civiltà italiana come insigni modelli letterari, degni di essere imitati 
nelle lingue originarie o in un volgare italiano nobilitato. 

Intensa è la vita religiosa, sia nelle forme che si incanalano (o che la 
Chiesa riesce a incanalare) nell’ortodossia, sia in forme più o meno 
ribelli Dei primi decenni del secolo è la nascita dei nuovi ordini di san 
Domenico e di san Francesco; un po’ più tardo è il riordinamento degli 
agostiniani, seguito dalla loro rapida espansione nella seconda metà 
del secolo. Ondate di pietà suscitano veri movimenti di folla: il «tempo 
dell’Alléluia» (1233) e la devozione dei Flagellanti (1260) danno origine 
non solo avarie devozioni, ma a laudi e cantilene. Le Confraternite che 
si fondano un po’ dappertutto vogliono avere i loro laudari, e così le 
laudi si scambiano fra paese e paese. 

Nel campo scientifico, il Duecento segna il trionfo della scienza 
greca passata attraverso l’interpretazione di Averroè e degli altri mae- 
stri arabi 

Il pensiero teologico, che fa capo principalmente a Parigi, è dappri- 
ma contrario alla filosofia di Aristotile; ma poi, specialmente per opera 
di Tommaso d’ Aquino, le difficoltà sono superate e il pensiero dello 
Stagirita diventa un caposaldo della filosofia cristiana occidentale. 

E appena necessario ricordare la grande fioritura delle arti, special- 
mente dell’architettura, in questo periodo, che è quello che vede 
sorgere le cattedrali di Siena, di Orvieto, e Santa Maria Novèlla e 
Santa Croce a Firenze. Santa Maria del Fiore è iniziata nel 1296. 

Sintomo di un ravvicinamento fra le sparse membra della penisola 
è l’apparizione del nome di Italiano. Nella latinità medievale accanto a 
Italia si avevano Italus e Italicus, in volgare mancava ancora un 
termine. Specialmente oltre le Alpi si tendeva a adoperare lombardo 
come termine complessivo: i Francesi, dice Salimbene (Cron., p. 933 
Bernini), e le testimonianze si potrebbero moltiplicare, «inter Lombar- 
dos includunt omnes Italicos et cismontanos». Nel 1278, avverte il 
Sapori 3 , quando si trattò con il re di Francia per il ritorno a Nimes dei 

3 Studi di storia economica medievale, Firenze 1940, p. 561. 


116 


Stona della lingua italiana 


mercanti italiani scacciati, si fece avanti un Piacentino col titolo di 
«capitaneus mercatorum lumbardorum et tùscanonim»; invece nel 
1288 nelle fiere di Sciampagna apparve l’«Universitas mercatorum 

Italicorum ». . 

Già qualche anno prima Brunetto Latini nel Tresor (fra il 1260 e il 
1266) aveva adoperato a più riprese Ytaile (contrapposta alla più 
ristretta Lombardie) e Ytalien (I, 1,7; I, 129,2; III, 1,3; III, 75,15 Carmody) 
e un anonimo compilatore di «esempi» aveva rielaborato un passo di 
Valerio Massimo (in un linguaggio di colorito senese) con le parole 
seguenti: «Et di ciò dice Valerio che avendo li romani preso uno 
grande ytaliano...» 4 . L’etnico è coniato evidentemente partendo da 
Italia, secondo il modello di Sicilia-siciliano 5 , Venezia-veneziano, Istria- 
istriano, ecc. 6 . 


4. Latino e volgare 

Per rendersi conto della consistenza e del carattere degli scritti 
in volgare, bisogna anzitutto tener conto che in questo secolo e ancora 
per lungo tempo, gli scritti in latino rappresentano la stragrande 
maggioranza. Le opere teologiche e filosofiche, le leggi e i commenti 
al codice, le cronache, i trattati di medicina e di astrologia: tutto o 
quasi tutto è in latino. La latinità di S. Tommaso, di S. Bonaventura, 
di Albert ano da Brescia, di Iacopo da Voragine, di Salimbene da 
Parma, di Stefanardo da Vimercate, si manifesta in forme assai 
diverse 7 . 

Si legga la lettera di condoglianza indirizzata da Pier della Vigna 
ai professori di diritto civile di Bologna per la morte di Giacomo 
Balduini: 

Iuris civilis professoribus universis magister Petrus, salutem... Amaritudo 
amarissima et materia concreta doloribus humanis noviter mentibus occurre- 
runt. Nam unicus et singularis in terris homo, in quo velut in suo proprio leges 
convenerant, et vivebat eloquentiae tuba, et consilii plenitudo sedebat, est 
revocatus ad patriam, de cuius revocationis amaritudine vox populi a fine usque 
in fmern et terminos orbis terrae dolorosa multum exivit. Nec mirum, quia iam 


< Rheinfelder, in Rom. Forsch., LIV, 1940, p. 327. Già ci sono esempi di Taliano 
come antroponimo alla fine del sec. XII presso V arese e a Pallanza CAebischer, in 
Raccolta... Serra, Napoli 1959, p. 41). 

5 Già p. es. nei Proverbi de femene, v. 213, ceciliana le anche, v. 101 , hbianah 
nella profezia di Merlino riportata da Salimbene c’è ab Hispanianis (p. 777 

Bernini). . i . . 

« Un esempio di Lombardo opposto a Toscano, linguisticamente interessante, 
è nel passo di Salimbene in cui si ricorda un fra Barnaba che «optime loquebatur 
Gallico, Tuscice et Lombardice » ( Cron ., p. 851 Bernini). 

7 Una ricca scelta di testi latini del ’200 si ha nel cit. volume di A. Viscardi, B. 
e T. Nardi ecc.. Le origini, Milano-Napoli 1956, pp. 739-983. 


Il Duecento 


117 


optimus persuasor bonorum operum, omnium excellentissimus Iacobus, de Regio 
Iesu Christo vitalem spiritimi resignavit 8 . 

Il testo è pieno di ornati retorici: figure etimologiche come 
amaritudo amarissima, clausole ritmiche come mentibus occurrèrunt, 
spìritum resignàvit («cursus velox»), plenitudo sedèbat («cursus pla- 
nus») ecc. 9 . 

Si legga ora un passo di Salimbene: 

Nota quod Innocentius papa fuit audax homo et magni cordis. Nam 
aliquando mensuravit sibi tunicam Domini inconsutilem, et visum fuit sibi quod 
Dominus parve fuisset stature; quam cum induisset, apparuit grandior ipso. Et 
sic timuit et veneratus est illam, ut decens fuit. Item solitus erat aliquando 
librum tenere coram se, cum populo predicabat. Cumque quererent capellani, 
cur homo sapiens et litteratus talia faceret, respondebat dicens: ‘Propter vos 
facio, ut exemplum dem vobis, quia vos nescitis et erubescitis discere’. Item 
homo fuit qui interponebat suis interdum gaudia curis; linde cum quadam die 
quidam ioculatur de marchia Anconitana salutasset eum dicens: 

Papa Innocentium, 
doctoris omnis gentium, 
salutat te Scatutius 
et habet te prò dominus, 

respondit ei-. ‘Et unde est Scatutius?’. Cui dixit: 

De Castro Recanato, 
et ibi fui nato. 

Cui papa: 

Si veneris Romana, 
habebis multam bonam, 

id est ‘bene faciam tibi’. Fecit papa quod gramaticus docet: Per quemcumque 
casum fit interrogano, per eumdem debet fieri responsio. Quia enim malam 
gramaticam fecit ioculator, malam gramaticam audivit a papa (pp. 42-43 Bernini). 

Il poriodare e non di rado anche il lessico di Salimbene lasciano 
trasparire assai bene l’ùso volgare, attraverso una grammatica che 
segue con relativa correttezza le norme scolastiche del tempo. 

Si legga ora il passo in cui San Tommaso discute l’obiezione 
secondo cui in certi casi la simonia sarebbe lecita, «puta quando 
sacerdos puerum morientem baptizare non velit». 

Ad primum ergo dicendum, quod in casu necessitatis quilibet potest baptiza- 
re; et quia nullo modo est peccandum, si sacerdos absque pretto baptizare non 
velit, ac si non esset qui baptizaret; unde ille qui gerit curam pueri, in tali casu 
licite potest eum baptizare, vel a quocumque alio facere baptizari-, posset tamen 


8 A. Huillard-Bréholles, Vie et correspondance de Pierre de la Vigne, Parigi 1865, 

p. 299. ■ — 

9 Sui vari stili e le varie forme di questi ornati, v. A. Schiaffini, Tradizione, e la 
bibl. ivi citata. 


118 


Storia della lingua italiana 


licite aquam a sacerdote emere, quae est purum elementum corporale. Si autem 
esset adultus, qui baptismum desideraret, et immineret mortis periculum, nec 
sacerdos eum vellet sine pretio baptizare, deberet, si posset, per alium baptizari; 
quod si non posset ad alium habere recursum, nullo modo deberet pretium prò 
baptismo dare, sed potius absque baptismo decedere, suppleretur enim ei ex 
baptismo flaminis, quod ei ex sacramento deesset (Summa thè oi., II Secundae 
Partis, Quaestio C, Art. ID. 

Ma non basterebbero venti o cinquanta passi a dare un’idea della 
varietà di questo latino, ben vivo nell’uso di tutte le persone colte. 

Quelli che si mettono a scrivere in volgare non ignorano questa 
tradizione, almeno in alcune delle sue varietà. Accanto, perciò, a 
un’influenza del volgare sul latino, percettibile specialmente nei testi 
con minori pretese letterarie, ve n’è un’altra, fortissima, che il latino 
esercita sul volgare, sia nell’arte del periodare, sia nel lessico. 

La coscienza della grande superiorità del latino sul volgare è 
sempre presente agli autori di volgarizzamenti (v. § 11). 

Andare a scuola vuol dire anzitutto imparare la grammatica, cioè il 
latino. E non solo per chi si proponga di diventare notaio o ecclesiasti- 
co o simili, ma anche semplicemente d’esercitare il commercio: un 
contratto notarile genovese del 1266 parla di «grammatica commumter 
edocenda secundum mercatores Ianuae» 10 . 

Nella vita civile occorre tuttavia che i reggitori tengano conto dei 
molti che ignorano il latino. Gli Statuti di Bologna nel 1246 danno 
esatte prescrizioni per gli esami che dovevano subire quelli che 
aspiravano a diventar notai. Gli esaminatori dovevano «videre et scire 
qualiter sciunt scribere, et qualiter legere scripturas quas fecerint 
vulgariter et litteraliter, et qualiter latinare et dictare» 11 -. dovevano 
insomma dimostrare d’esser capaci di leggere in volgare i loro atti a 
quelli che li avevano incaricati di redigerli. E Pietro dei Boattieri, nel 
commento alla Summa artis notariae di Rolandino, dava istruzioni in 

proposito 12 . ..... 

Ormai cominciano ad apparire alcuni statuti scritti di, proposito 
solo in volgare-, ci rimangono gli statuti di Montagutolo dell’Ardinghe- 
sca, del 1280-97, che esplicitamente prescrivono al «camarlengo» di 
designare tre «buoni omini» perché rivedano il «costeduto», e facciano 
scrivere «tucti gli ordini che per li detti tre omini fussero fermati, di 
buona léttara di testo, e non in grammatica» 13 . 

Anche nella vita monastica si trae notizia dalle Commentationes di 


10 S Caramella, nella riv. Il Comune di Genova, 31 luglio 1923. 

11 Statuti di Bologna dall'anno 1245 all'anno 1267, a cura di L. Frati, II, Bologna 
1869, p. 185. Anche più precise sono le prescrizioni dello statuto del 1252 (ivi, p. 186): 
«faciat singulos legere et reccitare scripturas quas fecerint et ìnstrumenta que 
dixerint vel vulgariter vel litteraliter ibidem coram examinatoribus». 

1 2 Gaudenzi, I suoni, le forme e le parole del dialetto di Bologna, Torino 1889, 

pp. xxn-xxni. , _ , 

13 F. L. Polidori, Statuti senesi scrìtti in volgare, I, Bologna 1863, p. 43. 


Il Duecento 


119 


Montecassino che quotidianamente si tenevano nel capitolo conferen- 
ze in volgare 14 . 

Mentre le scuole vescovili continuano a provvedere all’insegnamen- 
to per i futuri ecclesiastici, sorgono in quell’età, sotto la spinta e a 
spese della borghesia mercantile, scuole laiche in cui s’impara, sul 
fondamento del volgare, un po’ di latino 15 . 


5. Conoscenza del francese e del provenzale 

I contatti con la Francia e con le due grandi letterature che in essa 
già erano fiorite sono più forti che mai in questo periodo. Una delle 
manifestazioni più cospicue è la passione per l’epopea, specialmente 
carolingia, nell’Italia settentrionale. Ne abbiamo numerosissime testi- 
monianze: il giurista Odofredo ci parla degli «orbi qui vadunt in curia 
c otT uini s Bononie et cantant de domino Rolando et Oliverio», imo 
scrittore della fine del Duecento descrive il giullare che in barbaro 
-francese canta alla plebe le imprese di Carlo: 

celsa in sede theatri 
Karoleas acies et gallica gesta boantem 
cantorem aspicio; pendet plebecula circum 
auribus arrectis: illam suus allicit Orpheus. 

Ausculto tacitus: Francorum dedita lingue 
carmina barbarico passim deformat hiatu 1 *. 

Caratteristica è questa accoglienza fatta negli strati più popolari a 
una poesia straniera solo approssimatamente intelligibile. La cosiddet- 
ta letteratura franco-italiana ci mostra numerosi gradi dell’inevitabile 
ibridismo 17 . 

Ecco, per dar solo un esempio, come si presenta la canzone di 
Orlando in un noto testo franco-veneto, il cod. Marciano V 4 : 

Rollant a messo l’olinfant a sa boge 
inping il ben, per gran vertù lo toce; 


14 A. Walz, S. Tommaso d' Aquino, Roma 1945, p. 18. 

15 Si vedano i frammenti grammaticali con esercizi fondati sul volgare, 
pubblicati da Sabbadini, Studi mediev., I, 1904, pp. 281-292; De Stefano, Revue 
langues rom., XLVIII, 1905, p. 495-529; Manacorda, Atti Acc. Torino, XLIX, 1914, pp. 
689-698, tutti degli ultimissimi anni del '200 o dei primissimi del '300. Un po' più 
tardi sono quelli latino-friulani pubblicati dallo SchiafBni, Riv. Soc. fil. frìul., II, 
1921, pp. 3-16; 23-105, III, 1922, pp. 1-31. 

“ V. l’articolo fondamentale di P. Meyer, «L’expansion de la langue frangaise 
en Italie pendant le Moyen-àge», in Atti del Congresso intemazionale di scienze 
storiche (1903, IV, Roma 1904, pp. 61-104. Il passo del rimatore in Novati, Attraverso 
il medioevo, Bari 1905, p. 298. 

17 Vedi A. Viscardi, Letteratura franco-italiana, Modena 1941, e il capitolo sulla 
«Letteratura franco-italiana», in Viscardi - Nardi, ecc., Le Orìgini, pp. 1053-1219. 


120 


Storia della lingua italiana 


grand quindes leugue la vox contra responde, 

Carlo Tolde et ses conpagnons stretute. 

Co dist li roi: - «Batailla fa nostri home!» - 
Et Gainelon responde alo’ inconter: 

«Se un altro lo disesse, el senblaria menzogne!». 

Li cont Rollant per poi e per achant 
et per dolor si sona l’ilifant; 
per me’ la gole li sai for li sange, 
de soe cervelle se va lo tenpan ronpant. 

(w. 1864-1874 Gasca Queirazza). 

Tracce molto più lievi d’ibridismo troviamo in altri testi composti in 
prosa da italiani, che per un motivo o per l’altro avevano scelto di 
scrivere in francese: il trattato di falconeria tradotto per re Enzo da 
Daniele Deloc di Cremona (ed. H. Tjemeld, Stoccolma 1945), il Tresor di 
Brunetto Latini (ed. F. Carmody, Berkeley-Los Angeles 1948) 18 la , 
cronaca di Martino da Canale (ed. F. L. Polidori, Firenze 1845) 18 , il |] 
Milione di Marco Polo, steso da Rustichello da Pisa (ed. L. F. Benedetto, 
Firenze 1928). 

Dobbiamo anche tener conto dei frequenti contatti dovuti ai 
commerci. Il nome di Francesco e la conoscenza del francese testimo- 
niata dai biografi per il santo di Assisi dipendono dai legami del padre 
con la Francia. I libri di commercio fiorentini mostrano quanto fitti 
fossero i rapporti, specialmente con la Sciampagna 20 . E quando 
leggiamo il Fiore, compendio del Roman de la Rose, ovvero Ylntelligen- 
za, abbiamo l’impressione che i due autori avessero una così stretta 
familiarità col francese (e non solo, direi, col francese letterario) da 
spostare troppo in là il limite della ricettività (lessicale e talora anche 
grammaticale) dell’italiano. Bastino, a comprovarlo questi versi: 


18 Nel notissimo passo in cui Brunetto spiega perché abbia scelto il francese 
(«Et se aucuns demando it por quoi cis livres est escrit en roumang selonc le 
raison de France, puis ke nous somes italien, je diroie que c’est pour .ii. raisons, 
l’une ke nous somes en France, l’autre por gou que la parleure est plus delitable 
et plus commune a tous langages (var.: gens)»: 1, 1, 7) il primo fattore fla residenza 
in JFrancia) sembra quello preponderante. Malgrado la ricchezza e l’ingegnosità 
della documentazione, non ci sembra accettabile la tesi di A. Pézard [Dante sous 
la pluie de feu, Parigi 1950) che Dante abbia condannato Brunetto per il suo 
«eccesso» nel lodare il francese e metter da parte l’italiano: se questo fosse il 
motivo della condanna, non si spiegherebbe in alcun modo il verso «sieti 
raccomandato il mio Tesoro» Un/., XV, v. 119). 

19 Cfr. lo studio sulla lingua, di P. Catel, Rend. Ist. Lomb., LXXI; 1938, pp. 305- 
348, LXXIII, 1940, pp. 39-63. 

20 Ricchi di gallicismi, come è ovvio, sono specialmente i conti tenuti da 
Italiani residenti in Francia. Si veda, p. es., il «ragionato» di Cepparello Dietaiuti 
pratese, incaricato della «balia d’Alvernia»: «Ricordanza k io paghai a Parigi a 
messer Etaccia di Belmercieri per suoi ghagi alla Tusanti ottanta otto, libre cc 
tornesi» (1288): Schiaffìni, Testi, p. 249-, o un Libro di mercanti fiorentini in 
Provenza (1299-1300): «uno ronzino tavolato ferrante il quale fu di Messer Pere 
Giovanni ciantre di messer l’arciveschovo...» (Castellani, Nuovi testi, p. 758). 




Il Duecento 


121 


sì non son troppo grossa nè tr o’ grella 

(Fiore, son. 43) 

ma 1 Die d’amor non fece pà sembiante 

(son. 104) 

E s’ella non è bella di visaggio 
cortesemente lor tomi la testa 
e sì lor mostri senza far arresta, 
le belle bionde trecce davantaggio 

(son. 166) 

covriceffo o aguglier di bella taglia 

(son. 190) 

la grada è di cipresso inciamberlata 

Unteli, st. 62) 

e Cesar quand’uccise Artigiusso 
che non fu de’ musardi sanza faglia 

(st. 79) 

Vergenteusso il fedì su la fronte 
sì forte che ciancellò tutto ’l ponte 

(st. 126) 

Per l’Italia meridionale bisogna tener conto dell’influenza politico- 
amministrativa degli Angioini. 

L’influenza del provenzale è quasi unicamente legata al grandissi- 
mo prestigio della sua letteratura, e al culto della parola che alcuni dei 
suoi poeti avevano portato al sommo. La guerra albigese distrusse la 
vita di corte in provenza, e con essa i fondamenti materiali della poesia 
dei trovatori. La dispersione di questi potè per un breve periodo 
contribuire all’espansione del provenzale fuori della terra d’origine: già 
abbiamo visto, all’inizio del secolo, trovatori provenzali accolti nelle 
corti e nelle città settentrionali. Il prestigio della lingua d’oc (e la 
mancanza d’una lingua poetica nazionale) fa sì che parecchi, nel nord, 
si mettano alla scuola dei trovatori e compongano nella loro lingua, 
cosicché nella schiera dei maggiori poeti in lingua provenzale si 
possono annoverare anche Italiani come Lanfranco Cigala e Sordello 2 *. 

Invece nel Mezzogiorno non si imitò, ma si emulò: e nacque la 
scuola siciliana. 

Percivalle Doria, nobile genovese e fedele agli Svevi, scrive in 
- provenzale un serventese in lode di Manfredi, e tenzona con Filippo di 
Valenza; ma poi anche scrive in siciliano illustre due canzoni («Come lo 
giorno...»; «Amor m’a priso...»). 

In conseguenza della forte influenza esercitata dai modelli francesi 
e provenzali sulla letteratura duecentesca, i francesismi e i provenzali- 


21 G. Bertoni, I trovatori d’Italia, Modena 1915-, V. De Bartholomaeis, Poesie 
provenzali storiche relative all’Italia, Roma 1931; F. A. Ugolini, La poesia provenzale 
e l’Italia, Modena 1939; e numerose edizioni di singoli poeti. Testimonianza 
dell’interesse che si ha in Italia per il provenzale è la compilazione di grammati- 
che (Ugo Faidit, Terramagnino da Pisa); e del resto le vite dei trovatori sono state 
cori ogni probabilità composte da Ugo di Saint Circ nell’ambiente trevigiano. 



122 


Stona della lingua italiana 


smi sono assai numerosi, specie in alcuni scrittori, come Guittone. 
Talvolta essi rispondono a una precisa intenzione stilistica: cosi 
l’abbondanza di espressioni francesi e provenzali nel contrasto di Cielo 
d’ Alcamo è una caricatura della lingua cortese 22 . 

Daremo più oltre un elenco sommario dei gallicismi entrati nel 
lessico, sia per questo tramite sia come conseguenza di contatti diretti. 


6. Poesia d’arte e prosa d’arte 

Le varietà locali del volgare parlato erano molto divergenti, e i 
tentativi che finora erano stati fatti per metterli in scrittura avevano 
tentato di levigarne la rozzezza eliminando le peculiarità troppo 
spiccate e ricorrendo ai suggerimenti che poteva dare la lingua scritta 
per eccellenza, il latino. Proprio l’esempio del latino, con la sua relativa 
fissità e regolarità, fa sentire il bisogno di modelli anche per il volgare. 
C’è nell’aria l’idea che se e quando appariranno dei modelli degni, essi 
saranno imitati anche nelle loro particolarità, . e per questa via si 
troverà un rimedio alle incertezze grammaticali e lessicali. 

Non si mira insomma direttamente a una lingua comune: si mira a 
una lingua bella e nobile, la quale eliminerà i particolarismi e sarà 
perciò anche «comune». Nell’Italia di questa età, artisticamente così 
matura e politicamente così divisa, modello voleva dire modello di 
bellezza, di eleganza artistica. Questo ci spiega come emergano tanto 
im periosamente, creando ima scia d’imitazione letteraria e linguistica, 
quegli scritti in cui si persegue un ideale di bellezza. 

E la lirica che si pone all’avanguardia della letteratura, e che crea 
un moto d’entusiasmo, con conseguenze che dureranno per secoli. La 
spinta iniziale data dai poeti siciliani della cuna sveva, i primi in Italia 
a servirsi del volgare per fare poesia d’arte sarà trasmessa a tanti altri: 
e tutti, non solo i pedissequi imitatori siculo-toscani ma anche il 
Guinizzelli, gli stilnovisti e in genere tutti quelli che scriveranno in 
versi, terranno conto in proporzione maggiore o minore dei modelli 
siciliani, così che alcune peculiarità entreranno stabilmente nell uso 

poetico italiano. . . .. . . 

Non basta: questa spinta fa sì che la poesia acquisti un vantaggio 
tanto sensibile sulla prosa da creare fra i due modi di scrivere 
addirittura una scissione che durerà per secoli. I modelli poetici che si 
susseguono costituiscono una tradizione, che fornisce un modello di 
lingua relativamente uniforme per le varie regioni; invece la prosa 
stenta (e stenterà per molto tempo) a uscire dall’àmbito locale. Sorge si, 
poco dopo la fioritura siciliana, una prosa d’arte, che ha a Bologna con 
la persona di Guido Fava il suo primo maestro. E anche la prosa d mie 
troverà in Toscana cultori appassionati come Brunetto e Guittone. Ma 


22 Monteverdi, Studi mediev., XVI, 1943-50, pp. 161-175 (rist. in Studi e saggi, pp 
101-123). 


Il Duecento 


123 


il min or livello artistico da loro raggiunto in confronto con la poesia e 
lo stretto legame che la prosa ha sempre con le contingenze pratiche di 
carattere personale e locale, per cui essa non può staccarsi troppo dal 
parlare quotidiano, neppure quando è soggetta a elaborazione artisti- 
ca, fanno sì che il processo di unificazione della lingua prosastica sia 
senza confronto più lento. Non va, poi, dimenticato che testi in prosa 
mancano completamente per l’Italia meridionale e la Sicilia durante il 
Duecento: vi si scrive ancora soltanto in latino. 

Questo sguardo Complessivo aiuterà il lettore ad intendere con 
quale criterio abbiamo scelto gli argomenti che illustreremo nei 
paragrafi che seguono. Presteremo attenzione particolare al costituirsi 
di una tradizione poetica, in quanto ad essa risale rimpianto fonda- 
mentale del linguaggio poetico italiano. Invece per la prosa ci dovremo 
accontentare di accennare ai vari filoni, non essendoci lecito attribuire 
importanza esclusiva alla prosa d’arte. 

7. La scuola poetica siciliana e la sua lingua 

La prima fucina di poesia che meriti di esser considerata poesia 
d’arte è la Magna Curia di Federico II. 

I tentativi di datare qualcuna delle poesie della scuola siciliana ai 
primi anni del Duecento si fondano su argomenti troppo fragili per 
scuotere la verosimiglianza che le prime poesie nascano da uno 
scrittore particolarmente dotato, il notaio Giacomo da Lentini, con 
l’appoggio datogli «heroico more» (De vulg. el., I, xii, 4) da Federico, 
nella atmosfera creatasi alla sua corte dopo il suo ritorno in Italia. Che 
si tratti di un meditato disegno del sovrano svevo non è probabile, ché 
in questo caso probabilmente si sarebbero avuti serventesi politici, e 
non canzoni e sonetti. 

La novità della scuola siciliana rispetto al suo modello, la poesia 
provenzale, è la lingua: mentre i trovatori del Settentrione d’Italia 
avevano accolto, insieme col modello poetico, anche la lingua, i 
trovatori siciliani lo ricalcano, adattando all’uso artistico una lingua 
fino allora usata in qualche canto plebeo o giullaresco, di cui possiamo 
tutt’al più congetturare 1’esistenza. 

I presupposti sociali e culturali erano gli stessi su cui si era fondata 
la poesia occitanica: il carattere di gioco elegante di una società 
aristocratica, raffinata, per cui si sottomette alle convenzioni dell’amor 
cortese l’imperatore stesso 23 . 


23 E quando Federico dice: 

Dolze mea donna lo gire 
non è per mia volontate, 
che mi convene ubbidire 
quelli che m'à ’n potestate 

non bisogna scambiare la finzione poetica con la realtà. 


124 


Storia della lingua italiana 


Sembra staccarsi molto dal tono generale di questa poesia il 
contrasto di Cielo d’Alcamo 24 «Rosa fresca aulentissima» 25 tant’è vero 
che Dante scegliendo per citarlo (nel De vulg. el., I, xii) il terzo verso, 
ricco di plebeismi ( Tragemi d’este focora, se feste a bolontaté), lo 
considerava come scritto nel siciliano usuale «quod prodit a temgenis 
mediocribus», non raffinato da intenti d’arte. Ma la critica più autore- 
vole riconosce nell’autore del contrasto un poeta non incolto: solo che 
l’autore avendo scelto di rappresentare per realismo due personaggi 
volgari, sa dosare con efficacia artistica i tratti aulici (roso fresca, de 
l’orto, donna col viso cleri cioè «dame au cler vis», ecc.) e i tratti 
dialettali Ibolontate, bolta, càrama, ecc.), i quali non si possono 
attribuire a una zona precisa proprio perché il poeta li ha scelti per 
dare colorito plebeo. Questa voluta accentuazione di caratteristiche ci 
ha valso una discreta conservazione del testo, perché i trascrittori le 
hanno intese e rispettate. 

Fulcro della Magna Curia fu la Sicilia, con gli importanti centri 
culturali di Palermo e di Messina-, ma la corte risiedette spesso e a 
lungo sul continente e parteciparono all’attività poetica anche scrittori 
non nati in Sicilia. 

Non toccò in sorte, a questa poesia sbocciata nella corte fndencia- 
na come in ima serra, di avere un grande poeta; e con la morte di 
Federico e poi di Manfredi spari anche quell alto ma ristretto ambiente 
in cui era fiorita. Ma l’esperimento era stato nobile e bello, ed era 
piaciuto molto sul continente: se scompare la corte sveva, e tacciono in 
Sicilia e nella Italia meridionale le note di quella poesia, altri nella 
borghesia comunale toscana e bolognese hanno ormai raccolto 1 eredi- 
tà. Non solo le esperienze tecniche non vanno perdute: ma, ciò che più 
c’importa in questa sede, la poesia della prima scuola ha anche ima 
notevole efficacia linguistica sulle scuole successive. 

Quale era, linguisticamente, la fisionomia delle composizioni di quei 
primi poeti? Ricorriamo a imo qualsiasi dei canzonieri che, scritti negli 
ultimi anni del Duecento o nel primo Trecento, ci conservano quei testi; 
ecco, per esempio, che cosa troviamo nella prima carta del famoso 
codice Vaticano 3793 (= A), il più importante di quei canzonieri: 

Notaro Giacomo 

Madofia dire uiuolglio. come lamore mapreso. jnverlo grande orgolglio. 
cheuoi bella mostrate enómaita. oilasso lome core, chentanta pena miso. cheuede 
chesimore. gbenamare etenolosi jnuita. 


44 II testo è conservato dal solo ms. A CVat. 3793), e il nome è stato apposto 
dall'erudito cinquecentista mons. Angelo Colocci, sul fondamento, dobbiamo 
supporre, di fonti oggi perdute. La forma Giulio non è che una falsa lettura della 

grafia del Colocci. . w 

25 Sul contrasto si ha un'ampia bibliografia: oltre agli scritti meno recenti 
citati nelle note antologie, v. Monteverdi in Studi e saggi, pp. 101-123, Pagliaro, in 
Saggi di critica semantica, Firenze 1953, pp. 229-279, ld., in Poesia giullaresca e 
poesia popolare, Bari 1958, pp. 193-232. 


Il Duecento 


125 


Introducendo la divisione di parole, l’interp unzione e l’uso grafico 
moderno per u, v, gl, lo possiamo trascrivere così: 

Madonna, dire vi voglio 
come l’Amore m’à preso; 
inver lo grande orgoglio 
che voi, bella, mostrate, e’ non m’aita. 

Oi lasso, lo me’ core 

ch’è ’n tanta pena miso, 

che vede che sì more 

per ben amare, e tenolosi in vita. 

L’aspetto è complessivamente non molto diverso dalla lingua 
poetica che vigerà in Italia fino all’Ottocento. Ma già in questa prima 
mezza strofa, c’è (oltre a una svista evidente, tenolosi per tenelosi «se lo 
tiene») una rima imperfetta, preso: miso. Si può facilmente ricostruire 
quale fosse la lezione esatta ipriso-. miso), anche perché un altro 
canzoniere, il Laurenziano-Rediano 9 (= B) scrive corno lamorprizo. Il 
copista toscano di A nel trascrivere un codice che portava priso, ha 
creduto lecito di fare quello che usavano fare i copisti nel Medioevo, 
cioè di conformarlo alla propria pronunzia, e ha scritto preso-, invece 
poi non ha avuto il coraggio di scrivere messo in luogo di miso (che del 
resto si poteva appoggiare al passato remoto misi); così la parola in 
rima è rimasta a rivelarci l’arbitrio. 

Ora la stragrande maggioranza dei testi della prima scuola è in 
queste condizioni; e non è possibile credere, come fece qualche 
autorevole studioso delle due passate generazioni (Caix, Gaspary, 
Monaci, Zingarelli, De Bartholomaeis), che la fisionomia dei testi 
originari non fosse molto diversa, e che questo impasto fosse dovuto al 
fatto che i poeti della prima scuola già mirassero a ima coinè, 
volutamente impiegando voci e forme continentali? 8 . 

La tesi della toscanizzazione, che già era parsa più verosimile a 
Adolfo Bartoli, al D’Ancona, al D’Ovidio, ebbe conferma da uno scritto 
fondamentale (anche se discutibile in molti particolari) di G. A. 
Cesareo, Le origini della poesia lirica in Italia (Catania 1899, 2 a ed., 
Palermo 1924) e da un saggio di I. Sanesi 27 sulla progressiva toscanizza- 
zione dei canzonieri; il Tallgren 28 e meglio ancora il Parodi 28 chiarirono 
definitivamente alcuni punti più oscuri di questo processo. 

C’è poi un altro elemento che interviene in aiuto dei filologi. Il 
cinquecentista Giovanni Maria Barbieri, da un codice che egli chiama- 


“ Si è già accennato che il Monaci, in un articolo che ebbe molta risonanza 
(Nuovo Antol., 15 agosto 1884) aveva addirittura creduto di poter porre a Bologna, 
centro universitario, il primo punto d’incontro di quelli che sarebbero stati poi i 
poeti della scuola siciliana. 

47 Giom. stor., XXXI V, 1899, pp. 354-367. 

28 Mém. Soc. Néo-phil. de Helsingfors, V, 1909, pp. 233-374. 

29 Buil. Soc. Dant., XX, 1913, pp. U3-142 Crist. in Lingua e letteratura, pp. 152-188). 


126 


Storia della lingua italiana 


va il Libro siciliano e che purtroppo è andato perduto, ha ricavato una 
canzone di Stefano Protonotaro messinese e due frammenti di re Enzo 
(il figlio di Federico II, re nominale di Sardegna, fatto prigioniero alla 
Fossalta nel 1249 e morto a Bologna nel 1272). 

Ecco come si presenta, nella trascrizione del Barbieri, la prima 
strofa della canzone di Stefano (con quattro piccole e probabilissime 
correzioni del Debenedetti): 

Pir meu cori allegrali, 
ki multa longiamenti 
senza alligranza e ioi d’amuri è statu, 
mi ritorna in cantari 
ca forsi levimenti 
da dimuranza tumiria in usatu 
di lu troppu tacili. 

E quandu l’omu à rasimi di diri 
ben di’ cantari e mustrari alligranza, 
ca, senza dimustranza, 
ioi Siria sempri di pocu valuri. 

Dunca ben di’ cantar onni amaduri 30 . 

Siccome la buona fede del Barbieri è fuori discussione, e d’altronde 
non è possibile che un falsificatore cinquecentesco conoscesse partico- 
larità sottili come quelle che si trovano applicate nelle poesie siciliane 
copiate dal Barbieri (posizione delle enclitiche, uso dell’h), la testimo- 
nianza è da accogliere in pieno, a conferma e integrazione di quello che 
già si poteva intravedere attraverso le rime. E cioè, scartando l’ipotesi 
poco fondata del Bertoni che ai poeti siciliani fossero aperte «due vie», 
quella di comporre in una coinè italianeggiante e quella di comporre in 
«siciliano illustre» 31 è necessario ritenere che l’aspetto primitivo di 
tutte le poesie della scuola sveva fosse simile a quello rivelatoci nella 
canzone di Stefano Protonotaro e nei due frammenti di re Enzo 33 . 
Linguisticamente, allora, questi testi assumono il primo posto, anche se 
di una generazione posteriori alla prima fioritura poetica, e tutto il 
resto può essere utilizzato per stabilire la grafia, la fonologia, la 
morfologia dei poeti della prima scuola solo nella misura in cui o la 


30 V. l’eccellente discussione di S. Debenedetti, «Le canzoni di Stefano 
Protonotaro», in Studi romanzi, XXII, 1932, pp. 5-68. 

31 V. la conclusiva dimostrazione del Monteverdi, Studj rom., XXXI, 1947, pp. 
40-41 e 44-45. 

33 Abbiamo lasciato da parte la famosa testimonianza dì Dante (De vulg. el., I, 
XII), perentoria per le origini della scuola poetica, ma non sufficiente a 
dimostrare la maggiore o minore sicilianità linguistica di quei poeti. Ricordiamo 
anche le parole del catalano Jofre de Foixà, nelle sue Regles scritte in Sicilia tra il 
1289 e il 1291 e dedicate a Giacomo II d’ Aragona: «si tu vols far un cantar en 
frances rio.s tayn que y mescles proemiai ne cicilià ne gallego» (rr. 220-222 Li 
Gotti): parole che in qualche modo attestano la possibilità di usare il siciliano 
illustre come lingua letteraria. 


Il Duecento 


127 


rima o la discordanza dei codici ci permettono di riconoscere tratti 
siciliani conservati da uno o obliterati da un altro. I testi siciliani in 
prosa purtroppo aiutano poco, perché cominciamo ad averne solo con 
il sec. XIV, quando l’atmosfera culturale è fortemente cambiata. 

Nel dare un cenno dei tratti più importanti di questa lingua, non 
dobbiamo tuttavia dimenticare che essa non è una lingua completa, 
ma una stilizzazione artistica compiuta sul fondamento del dialetto 
siciliano, già un po’ dirozzato dall’uso fatto tra persone di una certa 
levatura, tenendo per modelli da un lato il latino, esempio costante di 
qualunque scrittore medievale, dall’altro il provenzale, che è imitato 
più dawicino, in quanto costituisce anche il modello letterario, e fissa 
l’ideario a cui quei poeti in complesso si attengono 33 . 

Quanto alla grafìa, eh aveva valore palatale. Infatti il notaio 
bolognese che trascriveva in un memoriale la canzone di Giacomo da 
Lentini «Madona, dir ve voio» manteneva la grafia del suo testo in 
despiache-, fache M . Ma chi rappresentava anche l’esito di pl-, e qualche 
volta i manoscritti lo mantengono, qualche volta lo adattano, qualche 
volta non capiscono: una chiacenza di Giacomo (nel discordo «Dal core 
mi vene», v. 113) è correttamente toscanizzato dal codice Laur. -Rediano 
9 in piagienza, mentre il Vaticano 3793 fraintende, scrivendo achia 
senza. 

E breve ed o breve del latino non dittongano sotto l’accento: feri, 
bona. 

I breve ed e lunga latine danno alla tonica i: vidi, taciri-, u breve ed o 
lunga danno u.- dundi, hunuri. Ma è anche possibile un trattamento di 
tipo latineggiante, che prende un aspetto diverso da quello continenta- 
le (anzi, per cèrto rispetto, inverso). Accanto ad a muri, che è la forma di 
tipo popolare, si può avere amori, con la vocale del latino. Ma non va 
dimenticato che il siciliano aveva ed ha un sistema fonologico di sole 
cinque vocali, nel quale non si ha distinzione fra o aperta ed o chiusa, e 
aperta ed e chiusa: perciò qui si ha amóri. Le parole con o ed e per le 
quali si ricorra al latinismo (e al provenzalismo) possono presentare 
due forme e rimare in due modi: amuri: duluri oppure amóri-, còri. 


33 Oltre agli scritti citati (fra i quali va tenuto presente soprattutto il Parodi), e 
alle opere del Caix (Le origini della lingua poetica italiana, Firenze 1880) e del 
Gaspary (Die Sizilianische Dichterschule der XIII. Jahrhunderts, Berlino 1878), che 
tuttora possono riuscire utili benché molto invecchiate, ricordo gli scritti del 
Santangelo (fra cui principalmente «Il primato linguistico dei Siciliani», in Atti 
Acc. Se., Lett. e Arti, Palermo, XX, 1938, ristampato con ritocchi nel volumetto II 
siciliano lingua nazionale nel secolo XIII, Catania 1947) e del Monteverdi 
(specialmente l’articolo sintetico «La critica testuale e l’insegnamento dei Sicilia- 
ni i, in Essais de philologie moderne, Biblioth. Phil. Lettres Liège, CXXIX, pp. 209- 
217), e l’introduzione del volume di M. Vitale, Poeti della prima scuola, Roma 1951. 

M Si è più volte discusso se i testi poetici contenuti nei Memoriali siano stati 
copiati da manoscritti o riprodotti a memoria: indizi come questi rendono più 
probabile la prima ipotesi. 


128 


Storia della lingua italiana 


Il Duecento 


129 


Le e e le o atone, particolarmente quelle finali, si presentano come i 
t tintiti , piacili l 35 ed u ( mustrari , dintru ). 

Il gruppo cj dà -z-. lonza, solazo. 

Per la morfologia, si nota l’alternanza di esti con è, di avi con à, di 
sapi con sa, di fochi con fa. L’imperfetto è del tipo avia, putta. Nel 
condizionale si ha di regola il tipo diviria; esiste anche un gruppetto di 
forme in -ro: fora; gravara, sofondara-, finera; partirò, sulla cui prove- 
nienza non vi è consenso. Il De Bartholomaeis le riteneva «continenta- 
li», il Debenedetti escludeva che fossero siciliane, il Vitale le crede di 
origine provenzale. Ma il piucchepperfetto latino con valore di condi- 
zionale non sopravvive solo in dialetti continentali dalla Calabria agli 
Abruzzi, bensì anche in qualche dialetto siciliano 3 ® e non vediamo 
motivo sufficiente per dubitare della loro indigenità, tanto più che, se si 
trattasse meramente di un’imitazione del provenzale, troveremmo la 
desinenza -era anche per la prima coniugazione (cfr. p. 132). 

Venendo ora al lessico, potremo tener conto, oltre che della canzone 
e dei frammenti in siciliano illustre, anche dei sicilianismi e francesismi 
e provenz a li smi che gli altri testi presentano (pur pensando che altre di 
queste peculiarità possano essere andate perdute). 

Ecco qualche vocabolo siciliano 37 : abento «riposo, tranquillità»; 
adiviniri «accadere»; ammiritatu «compensato»; ghiora «gloria»; 
(iìntrasatto «improvvisamente» (REW 4510); (i invoglia «avvolge»; menno 
«mammella»; nutricali «nutrire»; ricienta «sciacqua»; sanari «guarire»; 
tondo, infondo «allora» ecc. 38 . 

Anche più importante è la serie delle parole di origine galloroman- 
za. Pei* quelle francesi si può rimanere incerti se siano vocaboli entrati 
nell’uso siciliano (più o meno popolare) con i Normanni, ovvero se siano 
vocaboli genericamente culturali o specificamente letterari; invece per 
le parole provenzali la provenienza letteraria è pressoché certa. Non si 
dimentichi tuttavia, che molto spesso è difficile distinguere i francesi- 
smi dai provenzalismi 38 . 


55 Si veda, p. es., il verso 52 di «Madonna dir vi voglio» («la nave - c’a la 
fortuna gitta ogni pesanti»), in cui i codici B e C (Palat. 418) hanno pezante e 
pesante, mentre A (il Vat. 3793) ha un pesante corretto in pesanti, cioè un primo 
impulso a toscanizzare respinto dopo che il copista ha veduto la rima del v. 56 («li 
mie’ sospiri e pianti»). Nella canzone «Madonna mia...», al v. 14 c’è un «ogni 
amanti» al singolare («a cui prega ogni amanti»), salvatosi in A, mentre C lo 
toscanizza molto semplicemente, scrivendo «a cui serven li amanti». 

* Ugolini, Giom. stor., CXV, 1940, pp. 175-176. 

87 Segno in maiuscoletto le poche forme di colorito più siciliano (ricavate da 
Stefano o da re Enzo); le altre sono riportate nella forma in cui ce le danno i 
canzonieri. 

38 Gaspary, Siz. Dicht., pp. 190-199; Cesareo, Origini, 2* ed., pp. 281-287; 
Debenedetti, St. rom., XXII, pp. 32-33. 

33 Gaspary Siz. Dicht., pp. 199-229; Bezzola, Gallicismi, passim; Debenedetti, 
St. rom., XXII, pp. 34-43; G. Baer, Zur sprachlichen Einwirkung der altprov. 
Troubadourdichtung auf die Kunstsprache der frùhen italien. Dichter, Zurigo 1939; 
P. M. L. Rizzo, in Convivium, 1949, pp. 740-748, e in Boll. Centro St. Sicil., I, 1953, 



I francesismi includono vocaboli come ciera «volto» (fr. ant. chiere ), 
cominzare, ttìntamato «leso» (fr. entamé; la parola sarà adoperata 
anche dal Villani), sognare. Ma è molto più ampia la serie dei 
provenzalismi, che include tutta la gamma delle idee e dei sentimenti 
dell’amore trobadorico: amanza, intendanza, amistate (e amistanza ), 
drudo, ascio, disascio, sollazzo, gioia (o anche gioi, gio’ e gaugio ), 
dulzuri, alma «anima», coraggio e corina «cuore», simblanza, fazone 
(prov. faisò, frane. Zapon), speranza, dottanza, rimembranza, ballla 
«potere, balìa», orgoglio, talento «volontà, desiderio» (per metafora 
dalla parabola evangelica). E poi augello, pascore «primavera», aigua. 
Alcuni aggettivi: avenente (.-ante), gente «gentile» (e genzore «più 
gentile»), corale, liali, sofretoso «scarso». Tra i verbi cito: placiri, 
ciausire «scegliere, esaltare», blasmari, dottare, alciri «uccidere». E tra 
gli avverbi ricordo: adesso, adesso (dapprima nel senso di «sùbito»), 
longiamenti 40 . 

Voci provenienti dal continente non figurano mai, a quel che 
sembra, nei poeti siciliani propriamente detti; solo nei poeti nati in 
terraferma e nei Siculo-toscani. 

8. La lingua dei poeti toscani 

La prima poesia d’arte foggiata dai Siciliani piacque tanto che 
subito si propagò 41 in Toscana. «L’ammirazione e l’entusiasmo col 
quale gli Italiani accolsero la lirica siciliana, il primo tentativo di ima 
poesia d’arte italiana, sono attestati (ed è prova che non si cancella...) 
dal mirabile ed eloquentissimo fatto che la lingua di quella poesia 
divenne in un istante la nostra lingua poetica, per dir così, nazionale e 
pur attenuando via via i suoi caratteri siciliani e cedendo a poco a poco 
il campo dopo circa la metà del secolo, rimase assai ferma e tenace 
alcuni decenni specialmente nel suo dominio della rima» 42 . 

Si tratta d’ima ondata di ammirazione, d’una grande voga, a 
spiegar la quale non bastano certo i contatti che Federico e la sua corte 
poterono avere con Arezzo patria di Guittone o con Pisa patria di un 
gruppetto di minori poeti. 

Si noti che, da poesia appoggiata a una corte, essa diviene ora 
poesia di una scuola, esercitata da un piccolo gruppo di borghesi colti, 
ad Arezzo, dove fiorisce Guittone, il principale rappresentante a Pisa, a 
Lucca, a Pistoia, a Siena, a Firenze, a Bologna 43 . 


pp. 115-129, II, 1954, pp. 93-151; Elwert, in Homenaje a F. Krùger, II, Mendoza 1954, pp. 
85-112, 

40 Cfr. il § 19, dedicato ai gallicismi. 

41 II Petrarca dice manavit-, «Quod genus Ha poesia volgare) apud Siculos, ut 
fama est, non multis ante seculia renatimi, brevi per omnem Italiani ac longius 
manavit» (Fornii., I, ì, 6 Rossi). 

42 Parodi, Bull. Soc. Dant., XX, 1913, p. 129 (= Lingua e lett., p. 171). 

43 Guittone mette in rilievo, nella nota canzone in onore di Giacomo da Lèona 


130 


Storia della lingua italiana 


Per la lingua non vi è gran differenza tra i cosiddetti * siculo- 
toscani» (Guittone, Bonagiunta, ecc.) e i cosiddetti «poeti di transizio- 
ne» (Chiaro Davanzati, ecc.). Lo Stil nuovo rappresenta un energico 
stacco, con un nuovo atteggiamento del gusto: ma il Guinizzelli stesso 
aveva cominciato come guittoniano, e molte delle peculiarità linguisti- 
che dei Siculo-toscani sono accolte e continuate nello Stil nuovo. 

La voga dei Siciliani è manifestata dalla propagazione di copie delle 
poesie: diffusione avvenuta secondo il costume medievale, con trascri- 
zioni che più o meno consciamente miravano a adattare il testo alle 
abitudini linguistiche del trascrittore. I pochi canzonieri che ci riman- 
gono non sono che i relitti di un naufragio; i più antichi sono tutti di 
provenienza toscana, e già con le loro differenze rispecchiano la varia 
origine, il vario grado di toscanizzazione, il vario atteggiamento di chi 

li ha messi insieme 44 . , . _. 

Dobbiamo supporre che i verseggiatori toscani che negli anni 
intorno al 1250 si proponevano d’imitare i Siciliani avessero sotto gli 
occhi copie di poesie simili a quelle che ci rimangono, se mai un po 

meno toscanizzate. . . 

I Siciliani, messisi alla scuola dei Provenzali per 1 quali la rima era 
rigorosamente perfetta 45 avevano anch’essi, come s'è visto, adoperato 
rime perfette, ma applicate al loro sistema di cinque vocali. I Toscani, 
che possedevano un sistema di sette vocali, vedevano nei manoscritti 
dei poeti che consideravano loro modelli rimare non solo delle e e delle 
o che in toscano avevano timbri diversi; ma vedevano anche delle e che 
per loro erano chiuse rimare con i, delle o chiuse rimare con u. Non 
avevano motivo per rifiutare questo esempio, in modo particolare 
quando attingevano ai loro modelli i vocaboli medesimi. 

Così troviamo nei poeti toscani di questo periodo non solo rime tra 
vocale aperta e vocale chiusa, del tipo core-, maggiore, mostro : vostro, 
oppure vene-, pene, effetto: distretto (tipo che, aiutato dalla mancata 
distinzione nella scrittura, rimarrà stabilmente acquisito alla poesia 
italiana per tutti i secoli successivi), ma anche rime piu imperfette. 
Anzitutto del tipo servire: avere : cherere-. provedere (Guittone, son. 17, eoa. 
B) 46 oppure disire: piaciere-. languire-, miri (Chiaro Davanzati, canz. 


(XLVI) la coscienza tecnica e l’alta ambizione lirica (il «proenzal labore») che 
sopravanzano il fondamento dialettale «artino» nell’opera dell amico e nella sua 
propria: 

Francesca lingua e proenzal labore 
più dell’artina è bene in te, che chiara 

la parlasti... , . . . 

« II Vat. 3793 (A) è probabilmente di stesura fiorentina; la prima e principale 
mano del Laur. Red. 9 (B) è di un pisano; il Pai. 418 (C) presenta tracce ài un 
copista lucchese. Una descrizione dei codici antichi ap. B. Panvim, m St. di filol. 

« in provenzale non è ammessa, com’è noto, la rima di una e od o aperta con 

la stessa vocale chiusa. . , 

,a Una mano più recente ha scritto una i sulle e toniche. 


Il Duecento 


131 


«Molti lungo tempo anno», cod. A), piaciere-. servire o placire -. servire 
(Betto Mettefuoco, «Amore perché m’ai», cod. A e B), fina-, regina: 
s’ataupina-. mischina : fina-, camina -. mena (Pucciandone Martelli, canz. 
«Lo fermo intendimento», cod. C), ecc. 

Non v’è dubbio che gU autori si sono attenuti ai modelli siciliani, 
quali li avevano sott’occhio, per rimare parole che nell’uso parlato 
toscano non rimavano. Il Parodi riteneva che essi usassero di questa 
licenza scrivendo alla siciliana avire, pìacire, mina-, altri pensavano 
piuttosto (e il Contini ha ora ripreso con buoni motivi questa opinione) 
che si attenessero alla rima imperfetta anche nella scrittura. Quello 
che è sicuro, e che più importa, è il fatto che per questi poeti rima 
imperfetta non vuol dire possibilità illimitata di rimare e chiusa 
toscana con i, ma possibilità di farlo per quelle parole per cui i Siciliani 
avevano dato l’esempio. Gli «ipersicilianismi» sono estremamente rari: 
p. es. pena-, affina in Baldo da Pasignano (cod. A) 47 . 

Una serie di rime, che il Caix aveva ritenuto bolognesi-aretine, 
mostrano la -u- lunga trattata come -o-: il Parodi ha fatto vedere che 
quasi tutti gli esempi si riducono alla famiglia di alcono, niono, ogni 
ono per alcuno, niuno, ognuno, per cui bisogna piuttosto parlare di 
rime guittoniane, mentre forme come altroi, coi sono probabilmente 
dovute ad amanuensi. 

Nella lingua della lirica siculo-toscana manca di regola il dittonga- 
mento di e e di o, così che per es. Guittone (come più tardi Dante) scrive 
novo in poesia e nuovo in prosa, e l’uso prosastico trova conferma 
nell’uso dei documenti. La mancanza di dittongo sarà dovuta al triplice 
influsso del latino, del provenzale, del siciliano, che convergevano nel 
suggerire l’idea che la forma non dittongata fosse più nobile. Troviamo 
tuttavia traccia nei nostri poeti della riduzione, propria del toscano 
meridionale e dell’umbro, di ie in i, di uo in u-. Guittone usa rechire per 
rechiere, pui per puoi-, e un furi per fuori si avrà persino nella Divina 
Commèdia* 3 . 

Il dittongo au è promosso dall’esempio dei Siciliani non solo in 
parole che in qualche modo possono appoggiarsi al latino (laudo, auso ) 
o al provenzale ( augello , ciausire ), ma anche in aucidere, aulire e, non 
sempre, in caunoscere, aunore. 

-Frequentissimo è nei nostri poeti il passaggio a -r- della -l- dopo 
consonante: prusore, sembrare. 

Limitato ai poeti lucchesi e pisani è l’uso di - ss - per -zz-. allegressa-. 
messa (Bonagiunta), lasso-, impasso (Bacciarone). 

Le forme del verbo palesano pure notevoli influenze dei Siciliani: 
aggio* 9 , saccio, veo, creo, ecc.; specialmente gli imperfetti e i condiziona- 

47 Parodi, Bull. Soc. Dant., XX, 1913, p. 125 (= Lingua e lett., p. 166). Re Enzo rima 
plenu e penu. 

—— 48 Parodi, Bull. Soc. Dant., Ili, p. 98, XX, p. 132 (» Lingua e lett., pp. 178 e 225). 

49 «Dai lirici proviene a Dante aggio, che tuttavia dovette anch’essere del 
toscano meridionale» (Parodi, Bull. Soc. Dant., Ili, p. 129 - Lingua e lett., p. 257). 


132 


Stona della lingua italiana 


li in -ia, i quali esistevano anche nella Toscana meridionale, ma 
nell’uso poetico sono entrati indiscutibilmente 50 attraverso 1 imitazione 
dei Siciliani e rimarranno nell’uso letterario, specialmente poetico, 
anche nei secoli seguenti. 

I condizionali in -ra [fora , -ara, -era, -ira) sono anch essi dovuti al 
duplice influsso dei Siciliani e dei Provenzali; mero provenzalismo è il 
rarissimo condizionale in -era della prima coniugazione («che morte mi 
sembrerà - ogn’altra vita»: Bondie Dietaiuti, A, n. 184). 

Può servire a illustrare il carattere composito di questa lingua il 
fatto che nella medesima canzone di Compagnetto da Prato («L amore 
fa»: A, n. 88) troviamo tre tipi di futuro: «lassa, come faragio?», v. 2; 

« manderò per l’amore mio», v. 23; «gliele dirabo io», v. 25: accanto alla 
forma usuale del fiorentino abbiamo quella sicilianeggiante (e toscana 
meridionale) in -aggio, e quella della Toscana occidentale e meridionale 
in -abbo. Frequente nei Siculo-toscani, per influenza provenzale, è 
anche il tipo sono perdente in luogo di perdo 51 . . 

II lessico ci mostra molti dei provenzalismi già accolti dai Siciliani, 
qualche sicilianismo, qualche provenzalismo di cui non abbiamo 
notizia presso i Siciliani [anta «vergogna», bamagio «nobiltà morale», 
amburo «ambedue», ecc.). 

Continua la prolificità dei suffissi -anza, -enza, -o re, -ura, -aggio, 
-mento. Guittone adopera molto i prefissi accrescitivi sor- [sorbella, 
ecc.)., sovra- [sovr apiacente, ecc.), tra- [tradolze, ecc.), e i suoi seguaci lo 

imitano. „ . 

Molto più forte che nei Siciliani è il contmgente di latinismi. 

Anche il lessico di questi poeti è assai composito. Basti un solo 
esempio: per esprimere la nozione di «specchio» si trovano almeno 
cinque vocaboli: miradore (Guittone), specchio, speglio (Palamidesse di 
Bellendote), spera, miraglio (Bondie Dietaiuti). 

L’apparizione dello Stil nuovo getta lo scompiglio tra ì seguaci di 
questa poesia cortese convenzionale-, Guittone satireggia (son. Ili) i 
luoghi comuni di alcuni sonetti del Guinizzelli, Bonagiunta trova che il 
Guinizzelli «muta la mainera» del poetare, ricorrendo alla «sottiglian- 
za», Dante da Maiano risponde trivialmente al sonetto «A ciascun al- 
ma presa», dicendo al rivale di farsi passare «lo vapore - lo qual ti la 
favoleggiar loquendo»; Onesto da Bologna rimprovera a Cino da 
Pistoia le parole che così frequentemente adopera («Mente ed umile e 
più di mille sporte - piene de spirti...»), e biasima il suo continuo 

filosofare. . . , 

Il nuovo clima culturale che il Guinizzelli e i suoi seguaci instaura- 
no non solo rinnova alcuni concetti, fra cui principalissimo quello di 
nobiltà, ma crea intorno all’immagine della donna un’atmosfera rare- 
fatta di meraviglia, di contemplazione quasi mistica. 


50 Schiaffini, Italia dial., V, 1929, pp. 1-31. 

51 Corti, in Atti Acc. Tose., XVIII, 1953, pp. 9-60. 


Il Duecento 


133 


Quanto alla lingua, non va dimenticato che il Guinizzelli aveva 
cominciato la sua carriera poetica come guittoniano, e che è un 
bolognese colto, cresciuto nell’atmosfera culturale dell’università di 
Bologna. Mancando testimonianze sincrone, siamo di nuovo a doman- 
darci: quali saranno state le peculiarità grafiche, fonetiche, morfologi- 
che del Guinizzelli? Avrà scritto assicura o asegura, ciò o go, saggio o 
sago ? Avrà scritto pressappoco come leggiamo nel cod. A? 

Omo chesagio nonchorre legiero 
ma passa e grada corno vuole misura, 
poi ca pemsato ritene suo penzero 
jnfìno a tanto che lo uero lasichura. 

Oppure come leggiamo in quattro versioni complete e tre incomplete 
del medesimo sonetto, rintracciate nei memoriali bolognesi, la più 
antica delle quali è stata scritta nel 1287, una decina d’anni dopo la 
morte del poeta? Il testo che Adriana Caboni ha ricostruito su questi 
manoscritti è il seguente: 

Homo ch’è sago non corre ligero, 
ma pensa e grada sì con voi mesura; 
quand’à pensato reten so penserò 
de fin a tanto che 1 ver 1' asegura. 

Non ci par dubbio che la stesura del Guinizzelli dovesse essere più 
vicina a questa seconda che alla prima: ma ogni ricostruzione che 
«emilianizzasse» i testi quali effettivamente ci rimangono sarebbe 
arbitraria. Basti ima sola osservazione: due dei memoriali portano la 
forma ligero, e perché non potrebbe risalire all’autore? 52 . 

Non abbiamo cosi forti incertezze per il gruppo maggiore degli 
stilnovisti, quelli toscani. E per essi abbiamo, sia per le caratteristiche 
grammaticali sia per i problemi testuali, il saldo appoggio delle 
indagini condotte dal Barbi per le sue edizioni della Vita Nuova e delle 
Rime 53 . Non mancano segni evidenti della continuità di tradizione che 
dai Siciliani attraverso i Siculo-toscani, conduce agli stilnovisti: ma, 
come è ovvio, in questi ultimi i sicilianismi e i provenzalismi sonò in 
numerò notevolmente minore. 

Prevalgono negli stilnovisti le forme non dittongate [tene, penserò, 
core, mova) su quelle dittongate, laudare è più frequente di lodare (per 
effetto della tradizione e per ricordo del latino, come s’è già accennato). 

Si ha ancora qualche esempio di rima siciliana: vedite : sbigottite: 
ferite: partite (Cavalcanti, son. «Deh! spiriti...»: si noti che i manoscritti - 


“In forma emilianizzata ha presentato I rimatori bolognesi del sec. XIII G. 
Zaccagnini, Milano 1933, e ha trovato scarsissimo consenso. Cfr. il saggio di G. 
Toja, La lingua della poesia bolognese nel'sec. XIII, Berlino 1954. 

“ V. l’Introduzione alla Vita Nuova, 1“ ed., Firenze 1906, pp. cclvi-cclxxxv; 2 a 
ed, pp. ccLxxvn-cccvni. 


134 


Storia della lingua italiana 


il Chig. e il Vat. 3214 - hanno vedete ). Troviamo alcune rime guittoniane: 
paurosi-, chiosi (Dante, son. «Degli occhi...»); come : lome (Cavalcanti, 
canz. «Donna me prega», che riappare neU’Infemo, X, 19, proprio 
nell’episodio del padre di Guido, e si ritrova in Cino, son. «Da poi che la 
natura...»); scritto -. prometto-, metto-, intelletto (Dante, son. doppio «Se 
Lippo amico...»); venta («vinta»): penta-, spenta-, rappresenta (Dante, son. 
«Voi, donne...»). Par di sentire un’eco guinizzelliana nel dantesco 
conosciuda (: nuda-, chiuda-, druda), nello stesso sonetto. 

E non manca qualche rima umbra: pui per «puoi» (oltre che per 
«poi») in Dino Frescobaldi, ecc. 51 . 

Nel lessico, appaiono in piena luce le parole tipiche della nuova 
scuola: nobiltà, onestà, gentilezza, pietà, piacere, ecc. Anche voci che già, 
erano nei Provenzali e nei guittoniani, come mercede (qualche volta 
merzede ) e valore (che in Guittone era femminile, alla provenzale) 
appaiono transvalutate. Vi sono poi le angele e angiolette, e angelico e 
angelicato, gli spiriti e spiritelli, e poi le fo resette e pasturelle, le 
giovanette e giovanelle, i loro atterelli e l’aspetto che prende la loro 
labbia. 

Ma v’è ancora, in alcuni più in alcuni meno 55 , una serie non scarsa 
di nomi in -anza, in -enza, in -aggio, che continuano la serie corrispon- 
dente dei Siciliani e dei Siculo-toscani. E poi decine e decine d’altre voci 
dello stesso filone-, beltate, disio (e disiro ), martiro-, adastare, agenzare, 
gabbare, gecchire-, manto «parecchio», ecc. Ma leggiadro, che per 
Guittone aveva il significato spregiativo di «superbo» o di «frivolo» 
(conforme al provenzale leujaria «frivolezza») assume negli stilnovisti 
significato favorevole. 

L’appartenenza rii Dante agli stilnovisti e i legami che uniranno il 
Petrarca a questa scuola fanno sì che essa abbia un’efficacia grande 
anche per i secoli seguenti. Di qui l’importanza capitale di questa 
decantazione dei risultati delle scuole precedenti e di questa fissazione 
del fiorentino letterario fatta dagli stilnovisti. J 

Tutte le altre voci che la poesia toscana del Duecento ci fa sentire 
(quelle che «differunt a magnis poetis, hoc est regularibus»: Dante, De 
vulg. el., II, iv, 3) importano piuttosto come testimonianza dell’uso 
parlato e, in qualche caso, per valore poetico: ma non hanno avuto nei 
secoli seguenti influenze linguistiche apprezzabili. Penso ai poeti 
realistici e satirici fiorentini e senesi 56 , ai componimenti amorosi 


51 Ageno, Boll. Centro St. Sicil., I, 1953, pp. 167-168. 

55 Più «arcaico» è Lapo Gianni (F. Figurelli, Il dolce stil nuovo , Napoli 1933, p. 

317). 

58 V. anche per la lingua, M. Marti, Cultura e stile nei poeti giocosi del tempo di 
Dante, Pisa 1953. Ricordo la curiosità per le varianti dialettali manifestata da uno 
di questi poeti (Cecco Angiolieri?) nel sonetto «Pelle chiabelle di Dio...» (Massera, 
Sonetti burleschi, I, p. 134, Marti, Poeti giocosi, p. 247): vi si passano in rassegna 
frasi dialettali di Roma, di Lucca, di Arezzo, di Pistoia, di Firenze, di Siena. La 
canzone del fiorentino Castra (ricordata nel De vulg. el. e conservata nel Vat.; 


Il Duecento 


135 


popolareschi, alle tenzoni politiche, alla poesia allegorico-dottrinale del 
Tesoretto e del Favo letto, del Fiore e dell’Intelligenza. Anche su questa 
poesia si riverberarono più o meno forti i riflessi della traslazione della 
poesia siciliana in Toscana, specie nella rima 57 . Il drappello di poeti che 
s’impone agli altri, anche per la lingua, è sempre quello dei lirici. 

9. La poesia religiosa umbra e la sua lingua 

Vasti movimenti di religiosità popolare, promossi da uomini che 
all’afflato del divino univano le doti di trascinatori di folle, si diramano 
dall’Umbria nelle regioni contermini e poi in tutta l’Italia. Primo e più 
importante il francescanesimo, poi il moto dell’Alleluia (1233), poi il 
moto dei Flagellanti (1260). «A Dieu ne plaise - diceva l’Ozanam 
studiando Les poètes franciscains en Italie au XIII e siècle - que j’aie 
voulu réduire les saints à n’ètre que les précurseurs des grands 
poètes»; quel che ci preme tuttavia assodare, dal nostro angolo visuale; 
è se questi movimenti possono avere avuto importanza per la formazio- 
ne dell’italiano, e se per loro mezzo esso ha accolto qualche particolari- 
tà umbra. 

S. Francesco predicò in volgare, ponendosi all’unisono con l’anima 
degli umili, e tutto l’ordine da lui fondato partecipa di questo fervore di 
predicazione, a stretto contatto col popolo. Anche la continua circola- 
zione dei religiosi potè in qualche modo contribuire a scambi interdia- 
lettali. 

Di scritti di san Francesco in volgare non ci rimane che il famoso 
«Cantico di Frate Sole» o «Cantico delle creature», da lui dettato (nel 
1225 o 1226) dopo una notte di atroci sofferenze e tentazioni tormentose, 
e probabilmente scritto nei suoi rotoli da frate Leone, che fu segretario 
usuale del Santo dal 1222 sino alla morte. Le parole - sublime effusione 
di preghiera e insieme altissima poesia - erano destinate al canto (ma 
purtroppo la melodia ci resta ignota). 

Il testo, quale si può ricostruire dai manoscritti che ne rimangono 58 , 
è in prosa assonanzata, in un dialetto umbro illustre a cui conferi- 
sce solennità il sottofondo biblico, presente attraverso copiose remini- 
scenze 59 : 


3793; cfr. da ultimo Camilli, St. fil. ital., VII, 1944, pp. 79-96) deride le particolarità 
del dialetto marchigiano. 

57 V. p. es. l’articolo di G. Petronio su «La rima nell’Intelligenza », Giom. stor. 
CXXIX, 1952, pp. 363-381. 

" Le edizioni critiche più recenti e importanti sono quelle date indipendente- 
mente da V. Branca (Arch. francisc. hist., XLI, 1948, pp. 3-87) e da M. Casella CSf. 
mediev., XVI, 1943 50, pp. 102-131). 

. “ L. F. Benedetto, Il Cantico di Frate Sole, Firenze 1941, passim. Per dare solo 
un esempio, si pensi alle discussioni suscitate dal per, che appare tante volte nel 
cantico nella formula «Laudato si, mi Signore, per...» (cfr. A. Pagliaro, Saggi di 
critica semantica, cit., pp. 199-226). 


130 


Stona della lingua italiana 


Altissimu, onnipotente, bon Signore, 
tue so le laude, la gloria e l’onore e orme benedizione. 

A te solo, Altissimo, se confano 
e nullu omo ene dignu te mentovare. 

Nel testo si ravvisano con certezza alcuni caratteri umbri, p. es. 
terze persone plurali come so, sostengo, mentre mancano altri caratteri 
umbri che forse apparivano come troppo evidenti deformazioni del 
latino e quindi troppo plebei per vui testo così solenne (p. es. nessun 
codice ha iocunno o iocunnu, tutti iocundo al v. 19). _ 

Il tratto più vistoso, la -u finale {altissimu), lascia perplessi, perche il 
codice più importante di tutti 60 lo presenta solo in 8 casi, mentre in 19 
altri dà o ( altissimu , p. es., nel primo verso, altissimo al v. 3), cosicché 
siamo tutt’altro che certi che appartenesse al linguaggio di san 
Francesco. 

Nella vasta letteratura delle laudi, sia liriche che drammatiche, la 
composizione di alcuni testi risalirà al sec. XIII, mentre i piu sono dei 
secoli seguenti. Avveniva di solito così: ciascuna compagnia metteva 
insieme il proprio laudario ricorrendo alle compagnie circonvicine, e 
nel copiare i testi seguiva il solito metodo, di adattarli più o meno al 
proprio dialetto: fatto d’ibridazione che certo contribuì a ravvicinare le 
varietà locali ima che a noi rende molto difficile la ricerca dei testi piu 

antichi e genuini). „ .. . ,. . 

Guardiamo piuttosto la lingua del più importante fra ì poeti mistici 
umbri dopo san Francesco, Iacopone da Todi. Convergono, come nella 
sua poesia, così nella sua lingua, filoni popolareggianti e filoni 
dottrinali. La fisionomia del suo «todino illustre» ci è abbastanza nota, 
specialmente da quando sono state eliminate dalle raccolte parecchie 
poesie non sue e i suoi versi si possono leggere nell edizione di Franca 
Ageno, che si è principalmente valsa, nella sua ricostruzione critica, di 

due manoscritti antichi provenienti da Todi 61 

La lingua di Iacopone mostra numerosi tratti dell ìtaliaiK) mediano, 
analoghi a quelli dei dialetti laziali e diversi da quelli del fiorentino . 
Nella fonetica troviamo forti tracce di metafonia, il trattamento di nd 
come nn {spenne, monna, profonno ), di gn pure come nn llenno «legno», 
penno «pegno», rennare), lo sviluppo di a- davanti a r {aracomanno, 
arfreddato ). Per la morfologia si hanno possessivi enclitici del tipo 
maritota, terze persone plurali come vengo, futuri in tmesi del tipo a 
penare «penerà», piucchepperfetti con valore di condizionale. Il paradi- 


« L’Assisiate 338, che anzi, secondo il Casella, è quello da cui tutti gli altri 

den ^ e I r acopone da Todi, Laudi, trattato e detti, a cura di F. Ageno, Firenze 1953; 
circa i criteri di ricostruzione, si veda il suo saggio su Donna de 
Rassegna lett. it„ LVII, 1953, pp, 62-93 (e la discussione di G. Contini, ivi, pp. 

Ol (VOtOÌ 

82 Sono tuttora utili il prospetto grammaticale e il lessico che accompagnano 
l’ed. Ferri del 1910, purché, naturalmente, si riscontrino con il testo Ageno. 


Il Duecento 


137 


gma del verbo essere al presente indicativo è so, ei o si, è o ene, semo o 
simo, sete o site, so. Nella sintassi, emergono alcune caratteristiche 
spiccatamente individuali: imperativi sostantivati («bello me costa el 
tuo ride», XVI, v. 31, cioè «il tuo riso») 63 , infiniti con valore di gerundio 
(«abbrevio mia detta’n questo luogo finare » XXXVIII, v. 62). 

Il lessico mostra alcune voci specificamente umbre {carnee, cotozare, 
ecc.), altre che trovano riscontro in qualche dialetto toscano meridiona- 
le lene amato, entrasatto, finente, osolare «origliare»), molte che appar- 
tengono a vaste zone mediane leetto «presto», aprire «aprire», peco 
«pecora»), Iacopone usa di grande libertà nella coniazione suffissale di 
sostantivi lamoranza, lascivanza-, albergata, lamentata-, assaiato, gloria- 
to; grassìa, ecc.) e di aggettivi («li freddi nevile », LXI, v. 48); e non ha il 
minimo scrupolo nel munire parole usuali di suffissi che gli servano a 
ottenere una rima («lo ’nfemo se fa celesti o, prorompe l’amor frenesìa », 
XLVI, w. 25-26; « ’ngavinato al catenone..., pò tener lo mio cestone..., per 
empir mio stomàcone..., estampiando el mi o bancone..., a pagar lo mio 
scottone..., starian fissi al magnadone..., mentre ha a collo lo scudone..., 
gir bizocone », LV). 

Non ci stupiremo di trovare in Iacopone, insieme con molti latinismi 
attestati per la prima volta (almeno allo stato attuale delle ricerche), i 
quali rimarranno stabilmente nel lessico ( angustiare , appetire, balsamo, 
ecc.), adozioni individuali {decetto «ingannato», derenzione «separazio- 
ne [dalla vita)», morganato «condizione di inferiorità nel matrimonio», è 
opporto «è d’uopo», preliare, prestolo «attendo», puella, ecc.). 

Influenze della precedente lirica amorosa non mancano: lo mostra 
non solo qualche imprestito come entennenza «amore», ma l’accetta- 
zione di parecchie rime di tipo siciliano 64 . 

Il linguaggio di Iacopone e in genere quello della poesia religiosa 
umbra è per più rispetti importante, ma nella storia della lingua dei 
secoli seguenti non ha quasi lasciato traccia, essendo rimasto tagliato 
fuori dalla corrente principale. 

Quando le poesie di Iacopone si trascrivono in Toscana, subiscono 
la solita opera di adattamento, per non dire di travisamento: ecco come 
si presenta il principio della lauda XIX nel manoscritto di Londra (Brit. 
Mus., Ms. Addit. 16567), il migliore di tutti: 

Figli neputi frate rennete / lomal tollecto loqual uo lasai 

Uui lo promecteste alo patrino / de rennerlo tucto e non uenir meno / 

ancor non medeste / per Ialina un ferlino 

de tanta moneta / quanteo guadangnai. 

Ed ecco gli stessi versi in un manoscritto toscano (Ricc. 2841): 

Figli et nipoti et frati / rendetel maltollecto 


83 Ageno, Lingua nosira, XIII, 1952, pp. 109-110. 

84 Ageno, Buli. Centro Studi Sic., I, 1953, pp. 152-184. 



^tòtia della lingua italiana 


loquale io tapinello uilassciai / 

Voi promcctcsti alunostro p atrino / di renderlo tucto e non uenir meno / 
Ancora nonne desti pellanima unfrullino 
di tanta moneta / che peruoi guadagniai. 


Diversamente da quel che era accaduto per la poesia siciliana, non 
vi è chi si entusiasmi per te peculiarità degli Umbri, che piuttosto 
dovettero sembrare plebee. È vero che intanto era passato più di 
mezzo secolo, e la poesia toscana era diventata assai più matura. 


10. La poesia religiosa e didattica nell’Italia settentrionale 

Anche l’Italia settentrionale ha una fioritura di verseggiatori, che 
spunta nella vita tanto attiva e ricca di fermenti religiosi, non tutti 
ortodossi, delle città settentrionali. I poemetti hanno scopi morali, 
religiosi, didattici, e benché gli autori pensassero di fare opera di 
bellezza («Mo el è plusor ditaori - ki an dito de beli sermoni»: 
Barsegapè, Serm., w. 884-885), non raggiungono che livelli assai 
modesti. 

Gherardo Patecchio, notaio cremonese (che come tate partecipò alla 
pace fra Cremona e Piacenza del 1228) si rivolge, nei 600 alessandrini 
del suo Spianamento de li Proverbii de Salomone, non a «li savi», «q’ig 
sa ben go q’ig dé, - anz per comunal omini qe non san ogna lé» (w. 14- 
15), e dà una sequela di massime e consigli morali-. 

Quel qe de povertad mena goi e legrega 
vai des dig rie avari c’a tesor e riqega 

(w. 434-35) 

Pegr’ om, voia o no voia, s’adovra de nient; 
mai l’om qe ben s’adovra, serà rie e mainent 

(w. 457-58). 

Mentre questo Spianamento è conservato dall’ottimo codice Saiban- 
te (ora a Berlino), te Noie dello stesso autore ci sono tramandate solo da 
una trascrizione quattrocentesca, che te rende pressoché inservibili 
linguisticamente. 

Il codice Saibante conserva anche il Libro di un altro poeta 
probabilmente cremonese, Uguccione da Lodi. Il Libro è composto di 
due parti in metro diverso, che Ezio Levi ® 03 * 5 * intitolò il Libro e l'Istoria 98 , e 
ambedue trattano i consueti temi della letteratura ascetica medievale, 
corruzione del mondo, r imminenza della morte, te pene dei dannati: 


Il Duecento 139 


abunda e desmesura, 
avolteri e sogura. 
sì falsa ni spergura, 
unca no mete cura, 
qe sta sopra l’altura, 
ognun ca creatura. 

(w. 130-135). 

Il Sermone di Pietro da Barsegapè, di 2440 versi, alessandrini e 
novenari, compiuto dall’autore nel 1274, ci è conservato dal manoscrit- 
to Archinto, ora alla biblioteca di Brera. La lingua è un milanese 
illustre, molto simile a quello che troviamo in Bonvicino. Si leggano per 
es. i versi 25-38, in cui Pietro preannunzia gli argomenti che sta per 
trattare: 


Avaricia en sto segolo 
tradhiment et engano 
Carnai no fo la gente 
qe de l’ovra de Deu 
del magno re de gloria 
quel per cui se mantien 


E clamo margé al me segniore 
Patre Deo creatore 
ke posa diite) sermon divin 
e comengà e trarie) a fin 
corno Deo a fatto) lo mondo 
e com(o) de terra fo Ito) homto) formo; 
cum el desces de cel in terra 
in la verge n regai polcella; 
e cum el sostene passion 
per nostra grandte) salvation; 
e cum verà al di de 1* ira 
là o serà la gran(de) roina; 
al peccatorie) darà gramega 
lo iusto avrà grande alegrega... 

Bonvicino della Riva scrisse negli ultimi decenni del Duecento i suoi 
«contrasti», e poemetti espositivi, narrativi, didattici in quartine d’ales- 
sandrini. La sicurezza che il poeta mostra nella fattura dei suoi versi in 
milanese illustre, la bontà della tradizione manoscritta, te cure spese 
nello studio del testo, della versificazione e della lingua dal Mussafìa, 
dal Salvioni e dal Contini ® 7 fanno delle opere volgari di Bonvicino il 
testo meglio conosciuto di questo periodo. 

La grafia del codice migliore, quello di S. Maria Incoronata (ora a 
Berlino) è in certo modo etimologica, giacché segna anche suoni che 
secondo la testimonianza del metro e della rima dovevano essere 
spariti. Ecco ima quartina del contrasto fra la rosa e la viola, dove te 
lettere messe tra parentesi indicano i suoni ormai spariti: 


03 Poeti antichi lombardi, Milano 1921. 

66 Attribuita dal più recente editore, R. Broggini, a uno pseudo-Uguccione 

IStudj rom., XXXII, 1956). Anche altri due poemetti, su La misera vita de l’orno e 

l'Anticristo, erano stati attribuiti ad Uguccione da E. Levi, ma non è probabile che 

siano di lui. 


* 7 A. Mussafìa, «Darstellung der altmail. Mundart nach Bonvesin’s Schri- 
ften», in Sitzungsber. Ak. Wien, LIX (1868); C. Salvioni, «Osservazioni sull’antico 
vocalismo milanese», in Studi... Rajna, Firenze 1911, 367-388; G. Contini, Le Opere 
volgari di Bonvesin de la Riva. Roma 1941. In attesa del glossario del Contini può 
ancora rendere qualche servizio A. Seifert, Glossar zu den Gedichten des B. da 
Riva, Berlin 1886. 


IO 


Storia della lingua italiana 


Il Duecento 


141 


■mr-'r 


Anchora dis(e) la rosa: Eo pairo intro calor, 
in temp(o) convenievre, ke paren i oltre flor, 
il tempio) ke (Di lissiniotDi cantan per grand amor; 
i olceflUi me fan versiti, k’en plen de grand dolzor (w. 85-88). 

Giacomino da Verona è autore d’un poemetto sulla Gerusalemme 
sieste in 280 alessandrini e di imo sulla Babilonia infernale in 340 
lessandrini; lo stesso codice Marciano che ce li conserva contiene 
nche altri poemetti dello stesso ambiente culturale. 

La Gerusalemme e la Babilonia mostrano qualche tratto sicuramen- 
; veronese; p. es. nei versi seguenti: 

Lo re de questa terra si è quel angel re’ ^ 
de Lucifer ke diso: «En celto) metrò el me se’; 
eo serò someiento a l’alto segnor De’», 
dond’el cagì da cel cun quanti ge gè dre». 

( Babil ., vv. 25-28) 

i o d’appoggio non etimologica si ha non solo in someiento ma anche 

i diso. . 

Il Detto dei Villani di Matazone da Calignano presso Pavia non ha 
aratteristiche dialettali spiccate (forse solo mazale «maiale»). 

I versi della Bona gilosia o della Fé Hai, che a lungo sono andati 
otto il nome di Lamento della sposa padovana, sono probabilmente un 
rammento di un poemetto in cui si narravano i vari casi d amore a 
copo morale: la lingua è un padovano illustre. 

L’Ano nimo Genovese che scrisse negli ultimi anni del Duecento e 
tei primi del Trecento, alterna versi d’entusiasmo cittadino per le 
ittorie sui Veneziani con consigli religiosi e morali. Ecco come si deve 
importare chi vuol prender moglie: 

Quatro cosse requer 
en dever prender moier: 
zo è saver de chi el è naa, 
e corno el è acostuma; 
e la persona dexeiver; 
e dote conveneiver. 

Se queste cosse ge comprendi 
a nome de De la prendi. 

Tutti i testi che abbiamo menzionati, e gli altri minori, meritano di 
ìssere studiati come testimonianza di sforzi vari per mettere in iscritto 
e parlate dialettali, nobilitandole secondo l’esempio delle lingue 
6t;tì erarie 

Questo sforzo,* che è comune a tutti i verseggiatori, e un certo 
rumerò di tratti comuni a tutti i dialetti settentrionali (p. es. la 
netafonia) hanno contribuito a creare l’illusione di una specie di coinè 
veneto-lombarda, o se si vuole, padana. Vi sono indubbiamente 
correnti di scambio e di conguaglio, da riferire sia alluso «naturale» 


dei singoli dialetti, sia all’uso letterario di questi scrittori: basta 
pensare alla -o epitetica del veronese (che è certo una fase ricostruttiva 
dopo un periodo di caduta delle finalD, oppure alla coesistenza di 
condizionali formati col perfetto e di condizionali formati con l’imper- 
fetto (p. es. porave e devria in Barsegapè). Ma i singoli testi presentano 
ancora una fisionomia abbastanza nettamente caratterizzata secondo 
la città o almeno secondo l’area di provenienza: nei testi lombardi 
troviamo g per ct (benedigi , condugio, confegi ) solo i Cremonesi 
dittongano é in ie, solo i Milanesi e i Genovesi mutano l in -r-: gora, 
perigoro (Bonvicino), povoro (Anon. Gen.). 

In complesso, non possiamo dire che negli scrittori si veda in atto 
una forte tendenza a passare da questi volgari illustri municipali a una 
sola lingua conguagliata: non portava a questa unità lo sgretolamento 
politico, non un comune slancio verso un esempio di bellezza partico- 
larmente fulgido, ché non c’era bellezza in questa onesta e piatta 
letteratura borghese. 

Testi piuttosto conguagliati ci si presentano quando un’opera è 
passata attraverso parecchie trascrizioni, in modo che i tratti originari 
rimangono obliterati (e tutt’al più ci sono rivelati dalla rima). Così la 
leggenda versificata di S. Margherita, che il Wiese aveva pubblicata 
servendosi di otto manoscritti e giudicata lombarda 68 , fu poi ritenuta 
dal Salvioni piuttosto veronese (Arch. glott. it., XII, p. 378); e più tardi 
(Giom. stor., XXIX, 1897, p. 437) originariamente piacentina. 

Questa modesta letteratura continuerà ancora, sempre più scialba 
e stracca, nel Trecento e nella prima metà del Quattrocento. La 
ignorarono i Toscani, e perciò nulla ne accolsero. 


11. La prosa. Origini e fioritura della prosa d’arte. 

I volgarizzamenti 

Le occasioni di mettere per iscritto il volgare per uso pratico si 
moltiplicano in questo periodo; specialmente per la Toscana abbia- 
mo una notevole quantità di documenti, e miglior possibilità di ser- 
vircene 8 ®. 

Abbiamo registri di spese e di prestiti compilati da privati o da 
compagnie, elenchi di tassazione (p. es. i Libri della Lira di Siena, dopo 
un po’ di latino nelle prime pagine, passano francamente a servirsi del 
volgare), lettere in cui le notizie scambiate con i rappresentanti 


M B. Wiese, Etne altlombardische Margarethen-Legende, Halle 1890. 
w Per Firenze abbiamo le due eccellenti raccolte dello Schi affini, Testi 
fiorentini del Dugento e dei primi del Trecento, Firenze 1926, e del Castellani, Nuovi 
testi fiorentini del Dugento, Firenze 1952. Parecchi testi (statuti, libri commerciali, 
lettere) abbiamo anche per Siena e per altre città toscane (v. la bibl. del 
Castellani). Un’eccellente scelta di testi letterari dà La Prosa del Duecento di C. 
Segre e M. Marti, Milano-Napoli 1959. 


142 


Storia della lingua italiana 


commerciali talvolta s’intrecciano a considerazioni e previsioni politi- 
che™. 

Abbiamo inoltre alcune iscrizioni in volgare. 

Nell’insegnamento del latino, quale si fa nelle scuole laiche, il 
volgare serve come punto d’appoggio: il latino vendor è spiegato con 
fire vendù, e segue l’esempio Pero fo despoià de le vestimento, dal 
maistro 7 ‘. 

Il linguaggio f naturale» cosi si estende lentamente a spese del 
latino,- e la conoscenza di tali documenti poco o punto letterari è 
preziosa per la localizzazione precisa dei singoli fenomeni linguistici. 

Ben scarse pretese artistiche troviamo anche nelle cronache, brevi e 
schematiche. 

La prosa narrativa [Novellino ) nel suo tono semplice e popolaresco, 
non manca tuttavia di influenze lessicali e stilistiche di modelli francesi 
e provenzali. 

Mentre i bestiari risentono molto del latino del Physiologus, Ristoro 
d’ Arezzo ci dà il primo esempio d’una prosa scientifica originale. 

Un impulso decisivo alla formazione d’una prosa artistica venne da 
Bologna, caput exercitii litteralis, secondo la definizione di Boncompa- 
gno, e più precisamente dall’ars dictandi che fioriva in quell’università. 
L’obbligo fatto ai notai di leggere in volgare alle parti i documenti che 
rogavano in latino era già una spinta perché si curasse il volgare. Ma 
una spinta molto più fòrte, e che incitava ad andare al di là delle 
esigenze meramente pratiche, era una consuetudine che si veniva 
instaurando nella vita comunale dell’Italia settentrionale e centrale-, i 
podestà, i capitani, ecc., dovevano ogni tanto tenere concioni nel 
pubblico arengo. E anche in queste modeste contingenze si fa sentire la 
spinta verso il culto della forma. 

Mentre alcuni dei più famosi maestri dello Studio bolognese, come 
Boncompagno da Signa o Bene da Firenze, volsero le loro cure 
esclusive a insegnare come si dovessero tenere ornate orazioni latine, 
Guido Fava ebbe l’idea di applicare quelle dottrine al volgare. Le 
formule volgari della Gemma purpurea e i Parlamenti ed Epistole 72 
«sono non soltanto uno de’ più antichi nostri testi volgari, ma forse 
anche il primo tentativo che sia stato fatto di trasportare i formulari di 
lettere in volgare, e di fondare una prosa letteraria italiana» 73 , e se 
possiamo trovare un po’ ridicola la sua pretesa nel proclamarsi 
(nell’esordio della Gemma) Tullii [et) Ciceronis heredem (speriamo 
almeno che l 'et non sia suo!), non possiamo disconoscerne l’importan- 


70 V. p. es. la bella raccoltina di Lettere volgari del sec. XIII scritte da Senesi 
pubblicate da C. Paoli e E. Piccolomini, Bologna 1871. 

71 Manacorda, art. cit. (a p. 126). 

72 II parlamento in volgare enunzia il tema, il quale poi è svolto per lò più da 
tre epistole latine, una maggiore, una minore, una minima. 

73 Parodi, in Misceli, stor. della Valdelsa, XXI, 1913, p. 241 (= Lingua e lett., p. 
489). 


Il Duecento 


143 


za, per un primo sentore di preumanesimo. Malgrado le difficoltà che 
presenta la ricostruzione del testo volgare 74 , intravediamo nelle forino- 
le del Fava, accanto ad alcune caratteristiche genericamente setten- 
trionali e a peculiarità del bolognese più antico, visibili tratti latineg- 
gianti; malsicure sono alcune tracce toscane™. 

Piuttosto che pensare a un prestigio letterario toscano che, per testi 
scritti e copiati prima della metà del secolo, è diffìcile ammettere, si 
può pensare che il gran numero di Toscani che studiavano e insegna- 
vano a Bologna avesse portato a Bologna certi influssi, e soprattutto la 
persuasione più o meno chiara che il toscano, come quella fra le 
parlate italiane che era la più s imil e al latino, avesse una particolare 
distinzione. 

La stretta dipendenza dei testi di Guido Fava dalle tradizioni dei 
dettatori latini 78 si vede nell’uso del cursus, del parallelismo dei 
membri, e di altri artifici, con lo scopo che quelli che a lui si attengono 
possano «favelare ornata mente e dire bellega de parole» (Parlam. 93, 
Gaudenzi p. 159). 

Scritti di questo genere sono numerosi per tutto il secolo e il 
principio del secolo seguente, a opera principalmente di Bolognesi: fra 
Guidotto nel Fiore di retorica dà soprattutto le regole della «favella 
giudiciale», Matteo dei Libri scrive «dicerie» volgari. Dell’Ars notariae 
di Ranieri da Perugia abbiamo parecchie formule volgarizzate (giunte- 
ci in copia di amanuensi viterbesi). Giovanni da Viterbo, nel Liber de 
regimine civitatum, scritto probabilmente nel 1253 77 , fornisce ai futuri 
podestà o capitani del popolo schernì di discorsi in latino e in volgare. 

In primis, sedato rumore populi, petat audiri, quod sic fieri consuevit: ‘Noi 
faimo pregu alla cavallaria et al popolo et a ttutta l’altra bona gente, la quale ene 
en questu arengu, et generalmente a ttuttu ’1 comunu di questa cittade, ke per lo 
vostro honore nui debiamo essere entisi...’. 

Si tratta di un umbro illustre, assai difficilmente localizzabile. 

Gli scopi pratici della retorica mirano ad innalzarsi a eloquenza 
letteraria nell’opera di Guittone d’Arezzo. Le sue lettere, anche se 


7 * Monteverdi, Saggi, pp. 75-110; Terracini, «Osservazioni sul testo delle 
formolo epistolari volgari della Gemma purpurea », in Atti Acc. Scienze Torino, 
LXXXIV, 1949-50, pp. 315-329; Castellani, in St. filo l. it., XIII, 1955, pp. 5-78. 

75 Settentrionale è di regola il trattamento delle sorde (amigo, seguro, tenudo, 
fiada, savere) e delle palatali (furai-, bolognese antico è il trattamento di s- davanti 
a i (sci, scia 1 , latineggiante (cioè corretta o ipercorretta) è la scrittura delle doppie; 
toscani potrebbero essere il trattamento delle atone in signure, signorìa (ma cfr. 
Castellani, art. cit., pp. 70-71), i presenti diamo e s(cìiamo, la forma epitetica ene, 
ecc. 

79 V. il capitolo su «L’ars dictandi e la prosa di Guido Faba», in Schiaffini, 
Tradizione. 

77 Pubblicato da G. Salvemini, nella Bibl. iuridica medii aevi, III. I brani in 
volgare sono stati coliazionati e studiati da G. Folena, Lingua nostra, XX. 1959, pp. 
97-105. 


144 Stona della lingua italiana 

indirizzate a persone singole, sono «lettere aperte», dissertazioni 
morali ammantate di un’eleganza ritmica, con tutti gli espedienti 
insegnati dai dettatori: cursus, amplificazioni, simmetrie, figure etimo- 
logiche, ecc. «Maldestro, ma indefesso e coraggioso innovatore» nelle 
sue canzoni come nelle sue lettere, Guittone persegue, con «fasto 
culturale», «un tipo di espressione da umanità superiore» 78 . Sforzo 
animoso 70 , ma ancora immaturo, specie in un periodo in cui era ancora 
necessario dissodare il terreno, abituare la gente a leggere in volgare. 

A ciò miravano i volgarizzamenti dal latino e dal francese, numero- 
si in tutta l’Italia settentrionale e centrale, rari nell’Italia meridionale, 
specialmente copiosi e importanti in Toscana. Si traducono - oltre ad 
opere d’interesse pratico, come statuti di confraternite e corporazioni - 
opere retoriche, scritti morali e politici, compilazioni storiche 80 . 

Brunetto Latini parafrasa liberamente, nella sua Rettorica, i primi 
17 libri del De Inverinone di Cicerone, tenendosi abbastanza vicino ai 
semplici moduli della prosa narrativa. Il suo sforzo di divulgazione 
enciclopedica si manifesta in spiegazioni, richiami, postille, e la sua 
prosa riesce chiara, anche se non saldamente organica 81 . 

Andrea da Grosseto e il pistoiese Soffredi del Grazia volgarizzano i 
trattati morali di Albertano da Brescia, il primo con maggior sicurezza 
stilistica, il secondo con più spiccato colorito dialettale (ancora inedita 
è la versione di Fantino da San Filano). Bono Giamboni traduce dal 
latino Orosio, Vegezio e altri parecchi, e dal francese il Tresor di 
Brunetto. Taddeo Alderotti volgarizza (male, secondo il giudizio di 
Dante) YEtica nicomachea di Aristotile (dal latino, s’intende). 

Lucchesi o pisane sono le versioni della Navigatio Sancti Brendani, 
del Thesaurus Pauperum, di quei passi dello Speculum historiale di - 
Vincenzo di Beauvais i quali vanno sotto il nome di Fiore e vita di 
filosofi. 

Veneti sono i traduttori del Panfilo (ridotto in prosa dal testo 
medievale in distici) e dellTmogo mundi di Onorio di Autun. Due 
Romani volgarizzano il Liber Historiarum Romanorum, mentre ima 


78 De Lollis, « Arnaldo e Guittone », in Idealistische Neuphilologie, Heidelberg 
1922, pp. 159-173. 

™ Sulle peculiarità sintattiche e stilistiche di Guittone, v. i capitoli «Guittone 
d’ Arezzo» e «Guittone, Guittoniani, Rhétoriqueurs» in Schiaffìni, Tradizione, e lo 
speciale capitolo in C. Segre, Sintassi del periodo. 

Per ciò che concerne le peculiarità fonetiche e morfologiche, purtroppo è quasi 
impossibile discemere ciò che è di Guittone e ciò che invece appartiene al copista 
lucchese o pisano del codice da cui quasi esclusivamente dipende la nostra 
conoscenza del frate aretino, il Laur. Red. 9. Il lessico è ricco di latinismi e di 
provenzalismi poetici, e meriterebbe di essere studiato dawicino. 

60 V. specialmente F. Maggini, I primi volgarizzamenti dai classici latini, 
Firenze 1952, e i Volgarizzamenti del Due e Trecento a cura di C. Segre, Torino 1953 
(introduzione e scelta). — 

81 V. l’eccellente analisi di C. Segre, nella seconda parte della sua Sintassi del 
periodo. 


Il Duecento 145 

terza versione è fortemente toscanizzata; pure di un Romano è il 
volgarizzamento dei Mirabilia Urbis Romae. 

Parecchi libri della Bibbia sono tradotti in questo tempo, special- 
mente per uso di mercanti e artigiani. 

Molto numerosi sono pure i volgarizzamenti dal francese, e i più o 
meno liberi rimaneggiamenti: storie del ciclo dell’antichità (di Troia, di 
Tebe, di Cesare), romanzi arturiani; anche alcune opere latine sono 
tradotte attraverso versioni francesi Qa Disciplina clericalis di Pietro 
Alfonso, il De regimine prìncipum di Egidio Romano). Abbiamo già 
ricordato la versione del Tresor di Brunetto. 

Per lo più il colorito locale di questi testi è assai spiccato; nello stile, 
molto dipende, oltre che dalla struttura più o meno complessa del testo, 
dalla capacità maggiore o minore degli autori. Si confronti l’andamen- 
to pedestre e per lo più paratattico della versione delle Miracole de 
Roma (§ 6 Monaci): 

Ad porta Flamminea Octabiano fece fare uno castiello lo quale clamao 
Agoste, dove se sotterravano tutti li imperatori de Roma. Lo quale fu tabolato de 
diverse prete. Et lo giro de mieso de sotto era cupo, et intravano per nasscoste 
vie. Et lo giro de mieso sì be stabano le sepolture de li imperatori. Et in orme 
sepoltura erano scripte lectere ke diceno così: Queste sonno Tossa la cenere de 
Nerva imperatore, et la victoria ke fece. 

con la complessa struttura del volgarizzamento da Orosio di Bono 
Giamboni (II, via): 

Ma quegli d’ Atena, poscia che Dario venne contra loro, awegna che a quelli 
de Lacedemonia aiuto avessero adomandato, nonpertanto, ispiato per certo che 
quegli di Persia si riposavano per un digiuno di quattro dì che faciano, per quella 
cagione pigliata speranza, armati solamente diece migliaia de’ loro cittadini e 
mille cavalieri, settecento migliaia di uomini ne’ campi marattonei ardirò 
d’assalire. 

In complesso, attraverso questo largo, costante esercizio la lingua 
acquista un lessico più ampio e una più salda struttura periodica. Le 
allusioni a «realità» del mondo antico sono spesso trasposte in parole 
moderne, che a noi sembrano travestimenti: citharoedus = giullare, 
iurisconsulti = savi di ragione, respublica = comune, ma numerose 
altre parole, specialmente astratte, entrano per questa via nel lessico 
italiano (v. § 18). 

12. I fatti grammaticali 

Non esiste un’ampia descrizione dei fenomeni grammaticali dei 
testi di questo periodo. Tuttavia il rapido panorama tracciato da M. 
Bartoli in appendice alla crestomazia del Savj - Lopez 82 , il manuale 


“ P. Savj Lopez - M. Bartoli, Altitalienische Chrestomathie, Strasburgo 1903. 


146 Storia della lingua italiana 

d’italiano antico del Wiese 83 , e il Prospetto grammaticale del Monaci 
permettono un primo orientamento generale. 

Per il fiorentino di questa età, confrontato con gli altri dialetti 
toscani, abbiamo le ottime introduzioni ai Testi fiorentini dello Schiaffì- 
ni e ai Nuovi testi fiorentini del Castellani. 

Nei paragrafi che seguono, non potremo far altro che indicare 
alcuni fenomeni più caratteristici, limitando quasi sempre i nostri 
cenni all’Italia centrale 84 . Notiamo qui un’esigenza che ci sembra 
d’importanza capitale (anche se non sempre potremo metterla in 
evidenza nei brevissimi cenni che seguono). Nello studiare la lingua di 
un dato periodo nei singoli suoi istituti, è necessario distinguere l’uso 
delle singole località, quale ci è testimoniato nei testi di carattere 
pratico giuntici negli originali, da quello che ci appare nei testi in prosa 
artistica o in versi, in cui si hanno sempre deviazioni più o meno forti 
dall’uso quotidiano. È importante rendersi conto dell’àmbito di queste 
deviazioni, e valutare fino a che punto siano dovute a meditati 
propositi artistici. 

13. Grafia 

La grafìa è ancora molto oscillante, in quanto ima salda tradizione 
di scrivere in volgare comincia a instaurarsi solo in questo periodo. In 
presenza dei suoni che il latino medievale non ha (p. es. ciò, ciu, gio, 
giu, che, chi, ghe, ghi, gl, z sorda di za, zo, zu), gli espedienti vari a cui si 
ricorre stentano a coagularsi in un metodo comune. 

La k è ancora assai frequente, e l’alternanza con c è assai saltuaria 
e irregolare: nei Capitoli della Compagnia d’Orsanmichele (1294) 
troviamo più spesso chiesa, ma anche kiesa, nel codice Laur.-Red. delle 
Lettere di Guittone si ha k solo in karissimo, ecc. 85 . 

Perdono terreno le grafìe k, q per g velare (Kerardi, quadannio, nel 
quaderno pistoiese del 1259) e quella ancora più rara di c per g palatale 
(Ciunta, avantacio, nello stesso quaderno). 

Per qualche peculiarità si può dare ima localizzazione abbastanza 
precisa. Il gruppo th col valore di z è del toscano occidentale (Pisa, 
Lucca, Pistoia): abbiamo p. es. vethosa per «vezzosa» (Schiaffimi, Testi, 
p. x), mentre a Firenze i Conti di banchieri hanno Matzingo, ecc., e il 
Libro del Chiodo (1268) dà Veczosus m . 


83 B. Wiese, Altitalienisches Elementarbuch, 2“ ed., Heidelberg 1928. 

84 Sottintendiamo un continuo rinvio ai manuali del Meyer-Lùbke, del Rohlfs, 
del Wiese. 

85 Invece il digramma eh ha valore palatale qua e là nell’Italia settentrionale 
e in Sicilia (Debenedetti, St. rom., XXII, p. 17; Contini, lt. dial., X, p. 226); cfr. p. 135. 

84 Nell’Italia settentrionale troviamo th (probabilmente col valore di ima 
interdentale sonora o sorda) a Brescia (Contini, It. dial., XI, 1935, p. 146) e altrove 
(id., XIV, 1938, p. 223). Nella Lombardia della seconda metà del Duecento è 
frequente dh (Contini, Bonvesin, pp. liii-liv). 


Il Duecento 


147 


È continua 1 oscillazione tra grafìe etimologiche (preferite dai testi 
più colti) e grafie fonetiche (nei testi più popolari). 

L h etimologica è piuttosto frequente (homo), ma sparisce quando la 
parola sia preceduta da proclitica Uomo). Dante manifesta la sua 
preferenza per le grafie etimologiche in un passo del Convivio-. 
«tEpicurol disse questo nostro fine essere vo luptade (non dico volunta- 
de, ma scrivola per p)» (IV, vi 11) 87 . 

L indicazione dei rafforzamenti, specie in alcune posizioni, p. es. 
dopo la a- prefissale 88 , è così oscillante anche in Toscana, da lasciarci 
spesso incerti se si tratti di fenomeno fonetico o solo grafico. 

14. Suoni 

m^£ re vv? n ° par ^ ato di regola presenta il dittongo negli esiti di é ed o 
in sillaba libera, anche dopo i gruppi di consonante seguita da r (priego, 
tnema, pruova, truova). Manca, per lo più, il dittongo in figliolo e 
qualche volta dopo altra palatale 89 . 

La riduzione di no a u (del tipo furi, figliulo, Ceriulo, Cavicciuli ) è 
aretino-cortonese-umbra, e a Firenze si trova solo in sporadici esempi, 
certo provenienti da quella zona. Anche più rara è la riduzione di ie in i 
(cfr. priga, lita in Iacopone). Numerose forme non dittongate (dei tipi 
novo e vene ) appaiono in poesia, sotto la triplice spinta del latino del 
provenzale e del siciliano. 

Le forme del tipo conseglio, someglio e ponto, onghia 90 circondano 
Firenze da ogni parte. 

La perdita della -i- nei dittonghi discendenti (preite che diventa prete) 
va collocata verso la metà del secolo. 

Solo della lingua letteraria, e dovuto a imitazione dei Siciliani e dei 
Provenzali, è il dittongamento in sillaba iniziale di o, u in au-. aulire 
aunore, ausignuolo, rausignuolo, ecc. 

Nel vocalismo atono ricordiamo il passaggio di -ar- ad -er-, caratteri- 
stico del fiorentino (loderò), mentre viceversa nel senese anche gli -er- 
passano ad ar- (vìvare); la sincope in avrò, dovrò, potrò è avvenuta verso 
del Duecento. Il dittongo -ia- in posizione atona passa ad -ie- 
(Bietnce, vie più-, anche sie, sieno, Die sa). Ogni vince ogne negli ultimi 
decenni del secolo. 

Nel consonantismo, la sonorizzazione delle sorde si osserva in un 
numero maggiore di voci che non siano poi sopravvissute (imperadore, 
ambasciadore, armadura, savere) e con maggiore abbondanza nei testi 
d arte che in quelli documentari. 


A Bologna troviamo mantenuta la grafìa etimologica anche nei nessi con l- 
compluta per «compiuta», scianti per «schianti», nei Memoriali. 

V. la prefazione del Parodi al Tristano riccardiano, p. clvii. 

Castellani, Gloss. dei Nuovi testi, s. v. figliolo. 
p 2 : Ci ° è senza * ana f° n esi», per usare il termine del Castellani, Nuovi testi. 


148 Storia della lingua italiana 

La riduzione di -rj- a -i- ha portato come conseguenza a un 
paradigma nominale singolare denaio plurale denari, ancora ben vivo 
{p. es. nella Tavola di Riccomanno lacopiì. Ma appaiono anche 
numerose voci con la riduzione semidotta a -r-, contraro, memora, 
Grigoro, Melora. 

La prostesi di i- (più raramente di e-ì davanti a s impura è quasi 
costante 91 . 


15. Forme 

Per il nome 92 , predominano di gran lunga, come si sa, i tre tipi 
corrispondenti alle tre prime declinazioni latine-, ma si hanno anche 
forti tracce della quinta, in Toscana [merigge ; adomezze, altezze, 
bellezze, face in Guittone) e anche più in dialetti settentrionali e 
meridionali. 

Relitti di nominativi si hanno, oltre che in molti nomi tuttora vivi 
[uomo, sarto, orafo, moglie, ecc.l, in tràito (e tratto) «traditore», èdima 
«settimana» e nell’agg. maggio «maggiore»; inoltre nel tipo semidotto 
maiesta, povertà e in nomi propri dotti come Cato ecc. 

Sembrano semidotti i vocativi del tipo figliuole (Dante), Còste 
(Bonvicino); dotti sono i genitivi singolari frequentissimi nell’uso notari- 
le Uà figluola Guidi Tinagi, lo kapitale Arriki, ecc.) e i genitivi plurali in 
-oro cristallizzati in qualche formula e in qualche toponimo (ma estesi 
talvolta anche a nomi in -a, come regno femminoro). 

Per il plurale notiamo spesso oscillazioni dove sono in gioco le 
palatali e le velari (cuoci «cuochi», cronice «cronache», ecc.). Dei plurali 
in -ora abbiamo ancora esempi in testi toscani (bustora, campora, 
pratora, luogora ); molto più largo e saldo è l’uso nell’Italia meridionale. 

Il genere di amore, fiore, negli antichi lirici è spesso femminile (per 
influenza provenzale). 

Per l’articolo, lo è ancora la forma predominante; il, che dapprima 
era solo ammissibile quando potesse appoggiarsi a una vocale prece- 
dente, acquista autonomia (Il marito è morto, Firenze 1277, in Castella- 
ni, Nuovi testi, p. 368). Similmente si hanno al plurale li (più di rado, ma 
anche davanti a consonante gli ) ed i, ormai autonomo. Il sing. el e il 
plur. e' sono propri dei dialetti occidentali, ma qualche esempio se ne 
ha anche a Firenze. Nel toscano meridionale (e nell’umbro) si ha il tipo 
in elle sale (Guittone), in ella croce (Iacopone), en nella vigna (Bestiario 
umbro-toscano). 

Al provenzale è dovuto qualche comparativo organico nei poeti 

91 V. gli spogli da testi del Duecento in Meyer-Lùbke, Behrens-Festschrift, Jena- 
Lipsia 1929, pp. 24-30. 

92 Oltre alle trattazioni già indicate, può rendere ancora utili servizi, benché 
invecchiatissima, la Teorica dei nomi della lingua italiana di V. Nannucci, 
Firenze 1847. 


Il Duecento 


149 


f enzore <più gentile», forzare «più forte» (in plusore 
la spinta provenzale converge con quella francese) P 

tm^TTZi S ^nV a Perorazione per influenza siciliana di meve 

rimasto nella lingua poetica SS3 MaS Eg^TguJ eTetenZ 

Sinomw 0 dOVUtÌ ad analo ^ a con le forme vfrbah Nelle SLSbS 

de? semini] Hnn dal tÌP ° mi ne al tipo me ne P° co dopo la metà 
secolo mà conuncia a c edere a me lo solo verso la fine del 

secolo, ma persisterà ancora a lungo 83 . 

Per fi verbo 94 , notiamo al presente le forme poetiche aggio dpggin 

w» l S1Cfflan Ì /U>bo (con la varianti) 
tutta la Toscana, ma cade presto in disuso 

-abbo, U Jt£ 0 ’ ° ltre aUe f0rme normali ^ -à abbiamo esempi di -aggio, 

—Sa lingu^poetica Mi* " 

o^ Nel passa o remoto, abbiamo spesso forme deboli dove niù tardi «si 
avranno quelle forti (nascé. Brunetto, toglie. Giamboni ZStte Dante 

rj ^ congiuntivo, sono pressoché costanti a Firenze le forme dea stea 

noS?T F Ln™ t£ Ve “‘ (1 a Con1, che * «aadacfti SSe oonTè 

normale a Firenze nella seconda metà del Duecento 99 e «sì ritrovo in 
(v. a Slp. b VX Ché qUand ° egU scrivev a ormai l’uso generale fosse mutato 

col^eSfSS e ’^ ant ? al parad ignia popolare toscano formato 
- ? ' 'Ri troviamo m poesia fi paradigma formato con 

p3to Sr p ^ ° ngÌne Sicmana ’ e d^che voce dal piucchep- 
All imperativo, il tipo crede è normale nella Toscana periferica. 

16 . Costrutti 

Nella sintassi dei gruppi e nella proposizione si delinea eià netta 

che salvo SSiTn aeolatino la fisionomia sintattica deU’itahÌno 
che, salvo poche peculiarità, nmarra stabile. La sintassi del periodo si 


« Sclfe U Su W verhn^;- PP - 7 ?̰ 5 fcon Escussione degli studi precedenti) 
verbi italian^Firenze 1843 vola 5 al del Nannucci, Analisi crìtica dei 

difettivi, Firenze 1853- essi’ vamn del prospetto generale di tutti i verbi anomali e 
solo perché invecchiati ma consultati con estrema cautela, non 

* pos “ tar *' d “ 

Schiaffim, Italia dial, V, 1929, pp. 1-31. 

Castellam, Nuovi testi, pp. 68 - 71 . 


Stòria della lingua italiana 



presenta assai diversamente in scritti narrativi di tipo più o meno 
popolaresco, come il Novellino, e in scritti dottrinali dominati dai 
modelli latini, come quelli di Guittone 97 . 

Daremo qui solo un cenno su alcuni costrutti dell’italiano del 
Duecento che già nel secolo successivo saranno affievoliti o addirittura 
scomparsi. 

Dio è adoperato in alcune locuzioni col significato di «di Dio, a Dio»: 
se Dio piace Getterà senese 1260), «l’amistà del mondo è Dio nemica » 
(Guittone, lettera XXXVI, p. 41 Meriano); la Dio mercé persisterà per 
secoli. 

Il costrutto senza preposizione, limitato ai nomi propri, il campion 
San Pietro (Pallamidesse), lo di San Vito (Cron. Pisana, 1279), la gente 
Gieso Cristo (Fiore), il nodo Salamone (Dante, sonetto a Forese), il porco 
Sant’Antonio (Dante, Par., XXIX, v. 124) 98 si ricollega ai genitivi di tipo 
notarile già ricordati (lo kapitale Arriki, ecc.) e si prolungherà nei secoli 
seguenti nei costrutti in casa i Frescobaldi, Piazza San Marco™. 

Sono ammesse coi superlativi altre parole intensive: «Gorgias 
Leontino, il più antichissimo rettorico» (Brunetto, Rettorica, c. 38); 
«Cassandra cominciò a fare sì grandissimo pianto» Ustor. troiana, ed. 
Gorra). 

Il pronome di terza persona indeterminata è spesso indicato da 
uomo, l’uomo, ma poiché uomo ha sempre conservato anche il valore 
pieno, non c’è mai stata una completa grammaticalizzazione come in 
francese 100 . 

Il possessivo enclitico, che nei secoli seguenti si restringerà all’area 
mediana e meridionale, è ancora vivo in Toscana: a Firenze si ha 
mógliama, càsasa (Castellani, Nuovi Testi, Gloss.l, a Siena frateima, 
cognàtoma (Mattasalà). 

L’indefinito tutto è spesso adoperato senza articolo: «a quella ch’ave 
tuto ’nsegnamento» (Rinaldo d’ Aquino, «In un gravoso affanno», v. 20). 

Il comparativo può avere il suo complemento in un possessivo: 
«quand’orno è vinto da un suo migliore » (Guido delle Colonne, canz. 
«Amor che lungiamente...»), «chi contr’al suo forzor vo star rapente» 
(Guittone, canz. V): è il tipo che si ritrova nel dantesco «delli altri miei 
miglior » (Purg., XXVI, v. 98). 


97 Manca una sintassi dell’italiano antico comparabile a quella del Foulet per 
il francese antico. Ma abbiamo un certo numero di monografie su fenomeni 
singoli, e parecchie pagine importanti nei Testi dello Schiaffini e nei Nuovi testi 
del Castellani. Una rapida rassegna di fenomeni dà il Wiese, Altital. Elementar- 
buch. Per la sintassi del periodo, che studiata autore per autore va a identificarsi 
con la stilistica, si veda specialmente G. Lisio, L’Arte del periodo nelle opere 
volgari di Dante Alighieri e del sec. XIII, Bologna 1902, Parodi, Lingua e letter., pp. 
301-328, Schiaffini, Tradizione, passim. Segre, Sintassi del periodo, passim. 

88 Debenedetti, Bull. Soc. Dant., XXVII, 1920, pp. 75-81. 

89 Cfr. anche la torre Babel (Brunetto). 

100 R. Schlaepfer, Die Ausdrucksformen fùr «man* im Italienischen, Zurigo 
1933, spec. pp. 38-67. 


Il Duecento 


15i 


usato al presente con valore di imperfetto («E la rica 
aiegranza caver soglio »: Bondie Dietaiuti, canz. «Greve cosa» v S 
probabilmente secondo l’esempio provenzale, 
i Passivo, oltre che dalle voci di essere e da quelle di fieri aggregate 

£?* ma • A'"*'»”' P*> «•«£ da 

divenire, «e tal è che non mai venta dovene » (Guittone, «Ai lasso», v. 

I numerosi costrutti perifrastici sono in parte propri della lingua 
P NeUe C connfe e A temp ? st f sormontando» (Chiaro Davanzali) ecc. 103 . 

am ° 7re quentemente il tipo villana ed 

netrative’.nimto , con , va to re avverbiale (.un nonnulla,; nelle frasi 
SlK.fsS amC0 ' nè Di ° gUarda fi ° re ' ottone, .Al 

mo MMra jStfdf ™ n«^ °° nv f r S 0 no, boto, varie forme, abbia- 

ZrfSvife neTSs^» n ° n ^ SÌCfflan1 ’ *» ancha neUs 

Frequente nei testi del Duecento e del Trecento è la narainntn«ci 

MtoSKV 011 eOSÌ ' - E Ì acciand0 to tale mSSa dSlSprtaà' 
pàrodi p ór'r* Tespero ’ e adora pervenne a una fontana, ITrULBUx. 

fo ™,?feS«» S T D al a , ? nÌ COStratli assotat t «>u tendenza a diventar 

(cSSne Siterai) 'T*/'® 6 ' " J . ,a “ 0 s ' è s P onso grazia sua, 
p. To4l ’ ^ X) ’ ’ gmzia dl Dl °’ non Potè» (Schiaffini, Testi, 

tnnt? U r khe Problema di topologia è stato bene studiato- la norma che 

Misia™ ‘SXSS?" all’iniziale, la cosiddetta legge Sbler 
ivi usa au a , assai regolarmente osservata 109 . 


esempi” Menati,' cSS" ^osSo avevano Pacchie altre forme.- 

i95S^et^7etschr er r^tht m. Passividee im ^eren Italienischen, Tubinga 

e Mem C Acc. fo^nT^mH&tpp. J ° StiIn oovo». in Atti 

Migliorini, Saggi ling., pp. 148-155. 

XXXIV N r 2 T“g nel Tommaseo-Bellini: si ricordi Dante, Inf., XXV, v. 144, 
103 A M^safìI e 1n M 3 2Q J,’ S ° rr l nto ’ Sintassi romanza, cip. II. 

nlTof 

deb.ToS.'^SIuSSSi 01 fa “> re 61 ™ °» 



della lingua italiana 

17. I fatti lessicali 

Diamo una rapida occhiata alla consistenza del lessico quale si è 
venuto costituendo nei primi tre secoli dopo l’apparizione dei primi 
documenti, anzi, diciamo all’ingrosso dal 950 al 1300. Prima del Mille, 
possiamo immaginare un lessico ristretto alle più elementari necessità 
della conversazione quotidiana; verso il 1300 troviamo che il lessico del 
volgare è ormai in grado di esprimere concetti e sfumature scientifici, 
filosofici, letterari. Si è passati da un lessico dell’ordine di grandezza di 
quattro o cinquemila vocaboli a un lessico di forse dieci o quindicimila. 

Certo un lessico di questa ampiezza era posseduto ancora da non 
molti uomini colti qua e là, specialmente in Toscana e nei territori 
limitrofi, mentre l’enorme maggioranza non era ancora capace che 
dell’uso spontaneo di un dialetto non coltivato. 

Tuttavia, proprio per il lessico dobbiamo sforzarci di volgere lo 
sguardo quanto più si può anche al di fuori della Toscana. In ogni 
luogo dove fervono le attività umane si possono, in servigio di nuove 
nozioni che acquistino consistente fisionomia e valore sociale, coniare 
nuove parole o mutare i significati delle antiche, ovvero si possono 
accogliere e adattare vocaboli forestieri. E molte di queste parole nate 
o trasformate o accettate in questo periodo in varie città e regioni 
d’Italia, saranno più tardi accolte in pieno nel lessico nazionale-, i 
vocaboli universitari che prendono nuovo significato (in latino) a 
Bologna (v. p. 155); il molo e la darsena di Genova, l'arsenale e il 
catastitelo di Venezia, il taccuino di Salerno, l’ammiraglio e il portolano 
di Palermo. 

Il fondo più stabile e consistente è costituito dalle parole ereditarie 
giunte dalle generazioni precedenti. Talvolta assistiamo alla scompar- 
sa o alla degradazione semantica di qualcuna di esse, dovuta alla 
concorrenza di parole nuove. Il lat. caligarius, ancora vivo, se pur non 
molto vegeto, in alcuni dialetti settentrionali (veneziano caleghèr, ecc.), 
a Firenze sotto la forma galigaio ha prima preso il significato di 
«conciapelli», poi è scomparso. 

Diminuisce la fortuna delle parole di origine germanica, specie per 
la rinascita del diritto romano: libero guadagna terreno su franco, ecc. 

Si coniano parole innumerevoli, con i consueti procedimenti. Accan- 
to ai suffissi ereditari (per i nomi, -aio, -ore, -occhio, -oio, -ura, -ia, -mento, 
-zìone ecc.) prendono vigore alcuni suffissi di origine forestiera, special- 
mente -iere e -aggio, provenienti dal provenzale e dal francese. Per gli 
aggettivi, accanto a -oso, -ano, -agno, abbiamo : ale, -esco, -ingo. Per i 
verbi si moltiplica -eggiare. 

Vigoreggiano i prefissi a-, in-, dis-, s-, ecc., che valgono anche a 
foggiare voci parasintetiche ( allibrare , indenaiato, sbarbare ). 

Abbiamo numerosi deverbali, sia maschili, sia femminili ( comincio , 
estimo, frodo, lascio, ecc., dura, mena, monta «somma»,-ecc.). 

Non mancano composti di vari tipi ( fattibello , tecomeco, ecc.), e vivace 
esemplificazione ne danno i soprannomi ILegalotre, Lucca 1076, ecc.). 



Il Duecento 


li 


. ET E Uei penodl . per cui siamo meglio informati, e specialmente nt 
testi letterari, possiamo seguire certi gusti individuali e certe mode: £ 
pensi alla fortuna dei tipi dolzore, riccore, calura, laidura 110 o de 
participi passati deboli sostantivati con valore astratto Gl turbato, h 
perduta ) U1 nel tardo Duecento. 

Nelle nuove coniazioni, accanto ai moventi razionali, appaionc 
talvolta anche moventi scherzosi: si pensi p. es. a scarsella, propr 
«quella che è sempre a corto di denaro». 

Quanto ai mutamenti semantici subiti da moltissimi vocaboli in 

caratteristico °’ ^ P ° tremo ’ com è ovvio - che citare qualche esempio 

h ricor ^ iamo a nome dell’istituzione tipica del Medioevo ita- 

hano, il Comune-, e il nome di popolo è sinonimo di « regime democratico ». 
buri bolo del Comune è il carroccio (che troviamo a Milano già dal sec. XI, 
a Firenze nel XIII). Il centro politico e civile della città porta nomi diversi: 

i a . f <? r j™ a ? he ebbe in questo significato il Broletto milanese 
m molti centri dell Italia settentrionale 112 . 

, ® molto va ri sono i nomi delle autorità civili, militari, giu diziar ie: 
diffusissimo, insieme con l’istituzione, il nome di podestà (che fino al 
secolo seguente sarà femminile, la podestà ) «parola di schietta creazio- 
ne padana» . La stessa provenienza ha anche padrone, in cui si 
continua con nuovo significato il patronus latino. Risultato di assai 
complesse vicende è anche il mutamento di significato per cui contado 
anziché «territorio soggetto a un conte» viene a indicare il «territorio di 
campagna» sottoposto (e contrapposto) a un Comune, e contadino 
viene a dire «coltivatore dei campi». 

. , terminologia assai ricca e precisa si viene formando per tutto 
c , he col \cerne la circolazione del denaro: ragione nel significato di 
«conto» e di «contabilità» (col derivato ragioniere ); saldare, scontare, 
cambio secco ecc. Monte indica Gn lettere senesi del ’200) «unione di 
capitali». Tavola è nel ’200, a Firenze, il nome usuale per «banco di 

f; ambiatore> luel ’300 prevarrà banco, e avrà col derivato 
banchiere fortuna intemazionale). Camera è in più luoghi riferito 
all erano. La severità con cui la Chiesa condannava l’usura fa sorgere 
molti eufemismi 114 per indicare l’«interesse»: già il termine stesso 
a interesse è eufemistico Gndicando propriamente la «mora», il periodo 
che trascorre tra il prestito e la restituzione); dono volutamente fa 
apparire 1 affare sotto altro aspetto; merito è metafora tratta dalle 
opere che procurano ricompensa. 


... m Rend. Acc. Lincei, s. 8 », Vili, 1953, pp. 294-312. 

1 Corti, m Arch. glott. ital., XXXVIII, 1953, pp. 58-92 
Serra, in Lingua nostra, V, 1943, pp. 1-5 
113 Bartoli, in Lingua nostra, VI, 1944-45 p 4 

“ L '^ el ^ va H Sacchetti (nov. XXXII): «Ed hanno battezzato l'usura in 
rifrango!* e “ teresso ' cambio > civ anza, baroccolo. 


154 


Stona della lingua italiana 


Le monete hanno una nomenclatura estremamente varia secondo i 
luoghi e i tempi: agostaro flat. augustalis ), aquilino o a guglino (der. di 
aquila), fiorino (der. di fiore), ducato (dall’iscrizione che la moneta 
veneziana portava), ecc. 

Conseguenza semantica del titolo di frate e suora dato ai religiosi 
dei nuovi ordini è la limitazione di quelle parole all’uso ecclesiastico, 
mentre fratello e sorella subentrano loro nel significato comune. 
Pietanza oltre al significato proprio di «pietà» («Villana morte che nonn 
a pietanza»: Giacomino Pugliese) ha quello di «cibo che si dava ai frati 
in certe ricorrenze» (in seguito a lasciti e simili). 

Alla pratica dell’insegnamento è dovuto il significato che aveva 
preso grammatica, quello cioè di «latino». In opposizione alla gramma- 
tica insegnata nelle scuole sta l’espressione di lingua materna, nata, 
sembra, in questo periodo 115 . Il verbo compitare si riferisce parimenti ai 
calcoli aritmetici («trentaquattro soldi ci kompitano»; Ricordi di Aglia- 
na, Schiaffini, Testi, p. 222) 116 e alla pronunzia esattamente scandita 
(«secundo ke aio compitatu et voi avete (uditul kosì zurarete»: Volgariz- 
zamento di Ranieri da Perugia, in Monaci-Arese, p. 65). 

18 . Latinismi 

Già in qualcuno degli esempi di mutamento semantico citati nel 
paragrafo precedente abbiamo per necessità sconfinato in un campo ih 
cui dobbiamo ora entrare di proposito: quello del latinismo. In un 
tempo in cui ancora quasi tutto ciò che è scritto suol essere scritto in 
latino, in cui quasi ogni manifestazione di cultura si svolge in quella 
lingua, la simbiosi è tale che è impossibile tener separati come fossero 
due fiumi diversi quelli che sono due filoni, due correnti con scambi 
continui. 

E naturalmente, quando parliamo di latino non dobbiamo pensare 
tanto a Cicerone o a Virgilio quanto al latino come si usava allora (cfr. 
§ 4): lingua stabile eppure duttile, adatta all’uso ecclesiastico come a 
quello del diritto, della filosofia, delle scienze, nel cui lessico figuravano 
con egual diritto parole classiche, parole del Vangelo e parole del 
Digesto, vocaboli coniati dai padri della Chiesa e dagli scolastici, da 
medici e da giuristi; e quando occorreva non si aveva scrupolo di 
introdurre parole volgari o forestiere 117 . 

Questa latinità c’interessa anche perché qualche nuovo vocabolo 
ovvero qualche nuova accezione, esprimenti particolari aspetti della 


“ s Spitzer, Essays in historical Semantics, New York 1948, pp. 15-05. 

119 Cfr. Castellani, Testi sangimign., Gloss. 

117 «Nani cum ars habeat sua vocabula propria quemadmodum et cetere 
artium, et nos non invenìremus in gramatica Latinorum verba convenientia in 
omnibus, apposuimus illa que magis videbantur esse propinqua per que intelligi 
possit intentio nostra», dice il proemio al De arte venandi cum avibus di Federico 
II, che infatti presenta alcuni francesismi. 


Il Duecento 


155 


vita spirituale di questi secoli, possono esser nati proprio in questa 
veste latina prima d’essere accolti nel volgare. Si pensi alla terminolo- 
gia universitaria, che sorge insieme col più antico centro di vita 
lt -t Ua ? a ’ . queUo ^ Bologna: voci come universitas che 
^ * corporazione . ente associativo» svolge quello 

rertor^nlfnr 0 ^^ stud8ntl> - qumdi Quello di «università» 116 ; facultas 
rector, doctor, lectura, artista «studente della facoltà delle arti» legista 

«studente della facoltà delle leggi», canonista, decretista, ecc ’ 

per stìdSe rfSif? S6 ? ta qU6 ^ tÌ Secoli ha grande ^Portanza 
per studiare una delle fonti principali a cui il volgare ricorre per 

?2S«rÌ are U ^ r ° pn ° le . ssico ’ man mano che si cominciano a trattare in 
volgare cose di cui prima si trattava soltanto in latino. 

Ecco terminologie come quella filosofica, ricca di vocaboli patristici 

ti^alTZ^Z^r maneries ' obiectum ’ subiectum -, actualis, condi- 
reallS ’ sensualls ’ totalis, virtualis, causativa, specu- 
lativus sensitivus, ecc, come quella giuridica: curatela, legalità mole- 

extremitt^^t seq “ estrare ’ ecc > Quella medica: coniunctiva, cerumen, 
extremitas, fontanella, pia mater, ecc, quella alchimica: aqua vitae 

cohobare, cupa rosa, mercurius, vitriolum, ecc, a tutte queste e a 
volgare reV01 a tr6 ’ attinge e attingerà anche nei secoli seguenti il 

maììir^+ÌT 611 * 6 5 Jf tinismi afflui to in questi secoli nell’italiano 
spirito * è soprattutto co Pioso per ciò che concerne le cose dello 

Abbiamo già visto (cap. Il) come parole quali Cristo, spirito nrofeta 

s&stic^klTuS n’ di ? V ° to d8bbono ess ere passate dalla latinità e4le- 
secondo nr m ?° r °, P1Utt0 , st ° sempre riconguagliate e ricorrette 
antichissima.^ 017116 h U P ° POl ° sentiva “ chiesa, fin da un’età 

- tar ?° ^edioevo parole come edificare (adificare in 

misttó wn T™T C ° rd i a ’ dlvmitdde («teologia», Brunetto Latini). Dai 
chilare g Parole come absorto, ratto «rapimento mistico», anni- 

za filosofici: scienza, coscienza, sapien- 

Ittuale fn™ ? ccidente ’ causa, genere, specie, razionale, reale, 
nTequiv^Z ecc ’ COrp ° mle ’ nat “rale, eterno, eternale, sempiter- 

^ latino . gran parte dei termini che si riferiscono alla 

SbertanS d dod? r °^ COPltoto ; POgÌna ’ tUol °’ mbrica ’ Pertrattare (ve rs. di 
Albertano), dottore, grammatica, rettorica, ecc. E così i termini giuridici- 

SSio n?' Più importanti s ST,ScS 

Sodato a n c ° ncret ° : ^ uffici di console e di senatore 

(rinnovato a Roma), quello di assessore, ecc. Il titolo di magnates appare 


1948,'pS f 8 a 49 aterra ' Alma Mater Studiorum: l'Università di Bologna. Bologna 


156 


Storia della lingua italiana 


qua e là in scrittori medievali che l’attingono alla Vulgata, ma a 
Firenze negli ultimi decenni del Duecento diviene un termine preciso 
(esprimente il punto di vista del popolo grasso); nella riforma del 1281 
dello Statuto del podestà c’è ima rubrica «De securitatibus praestandis 
a Magnatis civibus». E possiamo esser certi che contemporaneamente 
la parola si sarà adoperata anche in volgare. 

Parecchie scienze (e pseudoscienze) danno ampi contingenti di 
termini: l’aritmetica (arismetica, arìsmetrica-. p. es. numero, multiplicare, 
ecc.); la geometria {sfera, piramide, ecc.); la musica {melodia, sinfonia, 
ecc.); l’astronomia (ecco p. es. qualche termine usato da Ristoro 
d’ Arezzo: clima, declinazione, deferente, eccentrico, epiciclo, exaltatione, 
retrogrado, stationario, zodiaco ). 

Per varie vie entrano nel lessico del volgare innumerevoli termini 
generici: cibo, consolazione, desiderio, fastidio, gaudio, timore ; singula- 
re, vago, verace; esordire, vivificare, ecc. 

Non vorremmo tuttavia che questi esempi, dati in luogo di un 
elenco che risulterebbe troppo lungo, potessero dar l’idea di una 
penetrazione illimitata e senza resistenza. Anzitutto, dove già sono in 
uso parole saldamente popolari, i latinismi stentano ad entrare. Una 
parola come facile non esiste ancora nel Duecento (o, se dovesse saltar 
fuori un testo che la documentasse, potremmo comunque dire che è 
inconsueta): per esprimere quel concetto si adopera solo agevole. Si 
veda la storia della penetrazione nel volgare della parola esercito quale 
l’ha tracciata con ricca documentazione il Maggini 119 : nel Duecento è 
pressoché costante l’uso di oste, e solo il Giamboni nel tradurre Vegezio 
è costretto a usare esercito (anzi exercitoì per mantenere una spiegazio- 
ne etimologica: «L’oste che di pedoni e cavalieri è mescolata per lettera 
(cioè «in latino») si chiama exercito, cioè a dire operamento...»; e solo 
negli ultimi anni del secolo si trovano esempi di exercito col significato 
di «moltitudine». 

Qualche volta si riconosce nel vocabolo una fonte precisa, il passo 
di uno scrittore: l’eco del virgiliano «Purpureus veluti cum flos succisus 
aratro» (Eneide , IX, v. 435) si trova già in Bonagiunta («che ’l core da lo 
petto - pare che mi sia diviso - com’albore succiso », nella canz. 
«Novellamente amore»), poi nelle Rime di Dante («come succisa rosa», 
in «Tre donne», v. 21), e per questa via nella tradizione letteraria 120 . 

Sintomo di faticosa penetrazione sono le alterazioni che le parole 
latine subiscono, presentandosi così in forma semidotta: alimenti 
«elementi», dificio «edifìcio», storlomia «astronomia», ecc. 

I raccostamenti paretimologici sono qualche volta mal riusciti 
tentativi dottrinali (« eretici sono coloro che errano dalla veritade»: 
Bono Giamboni) rimasti senza alcuna conseguenza, ma altre volte 


110 Lingua nostra. III, 1941, pp. 76-79. 

120 Bocci, Fiammetta-, Poliz., Orfeo ; Boiardo, Amorum, CLI e Orlando inn.. Ili, 
vii, 18: «poi che soccisa fu la bella pianta» Ima il Bemi correggeva soccisa in 
tagliata). 


Il Duecento 


157 


influiscono sulla forma e sulla fortuna del vocabolo: rettorica è scritto 
«rettori Ct ) 6d è volgarmente interpretato come l’arte che serve ai 

Che n 1 latini f mi ass nmono in italiano è, naturalmente, 
h ie smgoìe parole avevano nella latinità medievale: una 
parola come (lìstoriare, specie nella locuzione fissa dipinto e storiato 

loShS? 6 c ° nforme al significato che historiare aveva nella 

latinità dei tardo medioevo, cioè «rappresentare con immagini» 122 
Piu difficilmente ravvisabili sono i calchi sul latino: p. es. dirozzare 
digrossare sono probabilmente calchi su erudire. 

™i^ 1 Q J ÌSU u at ° co ™P lessivo è un cospicuo allargamento del lessico 
volgare, che costituisce un’acquisizione stabile. Ma non ci si è giunti 
senza tentennamenti, e certo non tanto per una pigra acquiescenza 
alla constatata «penuria dei vocaboli volgari», o per il desiderio 
d incastonare alcune parole antiche nel dettato volgare nobilitandolo 
quanto per uno sforzo di attività creativa, la quale nel latino trovava 
un modello e un incentivo. 

Q u eSt u quad 5° complessivo vanno valutati i latinismi singoli, sia 
quelli che hanno fatto qualche fugace apparizione e poi non hanno 
attecchito Gu vedano p. es. quelli che abbiamo citati per Iacopone nel § 
^ qaelh ch e sono stabilmente penetrati nel lessico letterario, sia 
quelli che accolti per via letteraria o per via pratica, sono stati 

nrsr 1 largamente nell ’uso da essere adoperati quotidianamen- 

Non è possibile separare dalla storia dei latinismi, come tante volte 
si è visto, quella dei grecismi, classici ed ecclesiastici. Non potevano 
certo contribuire a migliorare la conoscenza del greco opere come il 
Grecismus di Eberardo di Béthune (1124), con nozioni del tipo di queste: 

Est universale cata fìtque catholicus inde 
Et caia sit fluxus, inde catarrus erit. 


Est quoque mors feron. feralis dicitur inde' 

Est flegmos sanguis, indeque flebotomus. 

Quod moys unda sit, hoc Moyses et musica monstrant, 

*4. Ug^ccione e di Giovanni da Genova, che attingevano 
essenzialmente al Grecismus. 

Tuttavia, è proprio alle norme dei grammatici che ci dobbiamo 
ilare per spiegarci 1 accento duecentesco e spesso anche posteriore di 


'l' Brunetto Latini scrive rector, ma dà la definizione corretta, quella che 
^ rhetor: « Rector è quelli che ’nsegna questa scienza secondo il 
reg °t, ® comandamenti dell’arte» (Rettorica , ed. Maggini, I, 5 ). 

195-208 oynbee ' no te on storia, storiato », in Mélonges Picot, Parigi 1913, pp. 


158 


Storia della lingua italiana 


parecchi nomi propri e di alcuni nomi comuni: Semelè, Calliopè, Iliòn, 
aloè, ecc.' 23 . 

Bisogna tener conto dei contatti politici, commerciali, culturali coi 
Bizantini. Il titolo di cnpaxr\yói; si mantiene anche nei territori bizantini 
passati in potere dei Normanni, prendendo il significato di «giudice 
criminale»; Federico II ancora mantiene la carica e il titolo a Messina e 
a Salerno 124 . 

Testi greci si leggevano alla corte di Federico e anche nella scuola 
medica di Salerno: di qui probabilmente, l’accettazione di ana nelle * 
prescrizioni mediche, sopravvissuta fino ad oggi 125 . 

Venezia, rimasta sempre più o meno strettamente in contatto con 
Costantinopoli, attinge ai Bizantini nomi come liagò «terrazzo» da 
T[XiaxÓ 5 o come dromo, squero. Essa inizia nel secolo XII la descrizione 
dei beni «riga per riga», xa-cà oxixov, da cui catasticum e poi catasto. 

Di altre parole è assai difficile dire come siano penetrate in Italia e 
Europa: Vandanico «acciaio», lat. med. andanicum, è il biz. tvSavixòs 
aiSrjpo? «ferro indiano», importato dall’India attraverso la Persia 128 . 

19 . Gallicismi 

Per elencare i principali gallicismi penetrati in Italia dal 1000 al 1300 
le difficoltà non mancano. Anzitutto, come già s’è accennato (p. 80), in 
parecchi casi non si hanno gli elementi per decidere se siano penetrati 
in età carolingia o postcarolingia. Poi è spesso difficile rendersi conto 
della via per cui mia data parola può esser penetrata in Italia, tanto 
sono stati molteplici i contatti: può essere stata portata dai Normanni, 
imparata in Levante dalla bocca dei Crociati francesi, trasmessa da 
pellegrini o da mercanti, può esser giunta per tramite letterario. ecc. In 
questi secoli, alcuni degli aspetti fondamentali della vita e della cultura 
europea si regolano secondo il modello francese: in prima linea le 
istituzioni feudali e la vita cavalleresca. Il fatto stesso che la letteratu- 
ra d’oil e quella d’oc abbiano avuto dei capolavori prima delle altre 
letterature romanze, ha dato loro mia posizione di privilegio e una 
funzione di modello. 

La penetrazione dei francesismi fino agli strati più popolari è 
dovuta nell’Italia meridionale ed in Sicilia al contatto con i dominatori 
normanni; ma anche nel resto d’Italia le relazioni sono così varie e 


123 V. le belle pagine del Parodi, in Bull. Soc. Dant., Ili, 1896, pp. 105-107 {» 
Lingua e lett., pp. 232-235; cfr. anche 361-303). La regola che prescriveva di 
accentare sull’ultima tutti i nomi «barbari», principalmente quelli ebraici Uacob, 
Esau, Satanas ) si era estesa, principalmente per influenza della tradizione 
scolastica francese, anche ai nomi greci i quali non rientravano nella normale 
declinazione latina. 

124 Rezasco, s. v. stradicó e varianti l straticò, ecc.). 

125 Folena, Lingua nostra. III, 1941, pp. 81-83. 

126 Austin e Kahane, in Byzantina Metabyzantina, I, 1946, pp. 181-187. 


Il Duecento 


159 


copiose che molti dei francesismi penetrati in questo periodo sono vivi 
ancor oggi, anche nell’uso dialettale 127 . 

Alcuni dei termini fondamentali del feudalismo ( vassallo, ecc.) erano 
giunti già nei secoli precedenti. Citiamo alcuni titoli: conestabile (il lat 

rn^rifn^ 11 ^ T a carica nel Basso Impero), siniscalco e 
camarlingo (ambedue m forma latinizzata). Assise e demanio entrano 

C01 Normanni. Realme è dal fr. ant. reame o reialme (in cui 
1 aggettivo retai * regale» si era intruso nel vocabolo risalente a 

propriamente alla terminologia feudale an- 
cheomqggto (il dichiararsi «uomo», cioè vassallo, del signore feudale) e 

Alla vita cavalleresca si riferiscono cavaliere, scudiere «giovane che 
aspira al grado di cavaliere», baccelliere «valletto; primo grado univer- 
sitario»; latto di addobbare (propr. «far cavaliere») e i titoli di sire sere 
messere, dama, madama, damigello -a, donzello -a. 

La nobiltà tiene molto al proprio lignaggio (fr. ant. lignage, propr. la 
«linea» di discendenza). 

Ricca di francesismi è tutta la terminologia del cavallo.- il destriere il 
corsiere, il palafreno (prov. palafrè), probabilmente il ronzino, e così 
anche il somiero. 

Tra i numerosi termini di guerra troviamo oste, schiera (prov 
esquiera), foraggio, foriere («chi andava innanzi alle truppe per procura- 
li®. 7*? e foraggio»), berroviere «soldato a piedi», mislea (fr. antico 
mesleeì, ostaggio, ecc. Ecco anche nomi d’armi: arnese («armatura» poi 
ust3e ^° ° usbergo, maglia, camaglio, cervelliera, targia. ecc. 
Gonfalone (fr. ant. gonfanon, dal franco gund-fano «vessillo di guerra») 
e probabilmente bandiera provengono pure da contatti con la Francia 
e cosi stendardo parola diffusasi dopo la prima Crociata. Con numero^ 

H^T7£^ a / ac ? ostan ì? nti Paretimologici si presenta in Italia 
fi termine di battifredo «torre di vedetta», «torre mobile d’assedio» (fr 
ant. berfrei, ecc.). 

casa e agli arredi domestici si riferiscono loggia, ciambra o 
zambra, sala nel senso di «grande stanza» 128 , cuscino e origliere 
doppiere, guastada, ecc. 

Per le vesti e gli adornamenti ricordiamo cotta «veste femminile ed 

c ° rsettot-covrìcefo o covercefo (Fiore; Gloss. 

Hi ™ ^ CasteU ): guardacuore, ecc.-, gioiello, fermaglio, ecc. Con le 
voci di moda sono entrati anche alcuni nomi di colori: giallo (fr. ant. 
jalne, lat. galbinus), vermiglio, bioio ecc. 


127 Molto utile, anche se non esauriente, è il saggio di R R Bezzola Ahhm 

Heidelbfirv^fiP^P 8 °^ icismi ita Hani Primi secoli (750-1300), Zurigo 1924 <~ 
l? 25 Per numero dei termini che citeremo qui sotto, nel Bezzola 
si possonb trovare ulteriori notizie. 

125 Invece sala nel senso di «abitazione rustica» era già voce longobarda. 


160 Storia della lingua italiana 

Mangiare entra assai presto in Italia 129 e per qualche secolo lotta 

contro l’equivalente indigeno manducare, manica - V anche il 
antico è desinare -. ma desinèa è già nel Novellino. Ricordiamo anche il 

bU fl nome ^de^giardini e dei verzieri si diffonde presto in Italia 130 . 

I cavalieri provano la loro forza e la loro abilita neHa 

giostra nel bigordo ; e si può ritenere accaduto m tali occasioni il 
passaggio dal fri ant. manche «manica» all’ital. mancia (attraverso il 
significato di «dono d’una manica fatto da una dama»). 

Altro passatempo cavalleresco è la caccia co jJklc°ne, che ha 
occasione di ricevere i nomi di sparviere, astore, artiglio (dal P£0 - 
«dito del piede», accolto in italiano come termine di falconeria), 
zimbello, ecc. Anche la caccia coi cani ha dato occasione di accoghere 
qualche termine francese o provenzale: veltro, ' £vner ?’® c< f'. -, 

Musica e poesia fanno giungere in Italia parecchie voci: canbo, 
liuto, ribeba o ribeca, viola, cennamella, ecc., il nome di tovatorej (con d 
significato provenzale di trovare «poetare»), giullare, mimstnere (che 
Romantici chiameranno piuttosto menestrello). 

Alcuni vocaboli si riferiscono a viaggi e pellegrinaggi: viaggio, 
passaggio, bolgia «bisaccia», probabilmente oste «chi dà alloggio e 
vitto» (fr. ant. oste, lat. hospiteImI), ostello {osterò, stero, fr. ant. ostel),ecc. 
Specificamente religiosi sono i termini di palmiere, cordigiiere, 
Certtrìosa, ecc. La penetrazione di grangia igrancia) in Italia è avvenuta 
specialmente per opera di monaci cisterciensi 131 . Anche tovaglia è, nelle 

sue prime apparizioni, limitata all’uso liturgico.^ . 

Numerosi sono i termini la cui accettazione è dovuta agli scambi 
commerciali: derrata, detta «debito», civanza, gaggio « pegno »impro^ 
tare, ecc.; dozzina-, alla (nome di misura); tomese, provmno mergugliese 
(nomi di monete), ecc. Si hanno anche molti nomi di stoffe: celone, 

mosteruolo, rensa, razzese, sargia, ecc. , . , , ,, Q 

E non mancano esempi di antichi francesismi nel campo della 
medicina {sognare, segnare «sanguinare» e «salassare», ^«ra 
so»-. Gloss. Testi Schiaffimi) o delle arti e mestieri ( ingegnere -, capelli 

«trucioli» nel Novellino). . . , 

Molto importante è il filone letterario. Alcuni termini penetrano 
attraverso l’epica {paladino, prence), altri attraverso 1 romanzi cavalle- 
reschi ( avventura ). Molto più numerosi e penetrati m profondità sono 
quelli che i poeti siciliani hanno mutuato ai provenzali, e sono Perloro 
mezzo passati ai siculo-toscani e poi almeno in parte agli stilnovist 


. „ in un documento del U40 (Trincherà, 

neU. parole di Matfredo a Travata 

wS“°”S<S <> L 1 !S earta semivoteare di Hoeeaao, righe 13 e 21 

“^fe^ln-Doetom.. Ili, 1321, pp. 317-343. 


Il Duecento 


161 


alla tradizione lirica ulteriore. Ci basti rinviare all’ampio elenco che ne 
abbiamo già dato (§ 7) 132 . 

Talvolta si tratta di voci già esistenti in italiano, che per influsso 
provenzale o francese hanno preso un significato speciale 133 . 

Non sappiamo se siano giunti per la strada della poesia o per 
diverso cammino altri termini spirituali, astratti: onta, damaggio 
«danno», oltracotanza, mestiere, pensiero, preghiera, foggia, sorta, dibo- 
naiiìre, medestiìmo, cominciare, corteare, donneare, ecc. 

E alla convergenza di varie spinte si deve la penetrazione di suffissi 
diventati produttivi anche in Italia: -aggio, -ardo, -iere. L’incremento che 
avevano avuto i suffissi già indigeni -enza, -anza, -ore, -ura si può invece 
ritenere pressoché esaurito col venir meno dell’influenza provenzale. 

Francesismi e provenzalismi sono spesso riconoscibili in confronto 
con le voci indigene per indizi fonetici o morfologici: così cavaliere si 
oppone a cavallaio o a cavallaro, somiere a somaio, ostaggio a statico, 
stadico, ecc.- 

Meno facile è talora distinguere il filone francese da quello proven- 
zale.- in certi casi, oltre agli indizi formali giova tener conto dell’area in 
cui li troviamo anticamente attestati. Si hanno alcuni casi di doppia 
penetrazione: damigello (fr.) - donzello (prov.), saggio (fr.) - savio 
(prov.) 131 , ecc. Bisogna anche tener conto della possibilità che si tratti di 
vocaboli giunti dalla Francia in veste latina-, così dev’essere avvenuto 
per marescalco e siniscalco, faldistoro, e altri ancora. 

Abbiamo ricordato tra gli altri anche qualche vocabolo ora caduto 
in disuso. Ne avremmo potuto citare un numero di gran lunga 
maggiore: sia parole più volte attestate, come maccherella «mezzana», 
agenzare «piacere», {in)naverare «ferire» (anche fig.), perzare «forare», 
ecc., sia voci che troviamo in singoli autori 135 o in singole circostanze 138 . 

Nei secoli successivi, come sempre accade dopo un’invasione di 
vocaboli così massiccia, molti sono scomparsi. Ma non si dimentichi 
che p. es. visaggio si trova usato non solo nel Fiore, ma in Dante e poi 
nel Pulci, e poi ancora nel Davanzati. 


132 A p. 132 abbiamo anche ricordato che qualche provenzalismo ignoto, per 
quel che sappiamo, ai Siciliani, è stato accolto dai Siculo-toscani. Su leggiadro, 
cfr. p. 134. 

133 Si pensi al significato che può avere uomo («vassallo»), intendere («convien 
ch’intenda in donna di valore»: Guittone), ira, ecc. 

131 Cfr. Baer, Sprachl. Einwirkung, cit., pp. 62-68. 

133 È anche accaduto che qualcuna sia rimasta inosservata, e poi sia stata 
identificata: il Contini ha dimostrato (Giom. stor., CXVII, 1941, p. 62) che Guittone 
adoperava abbo nel senso del provenzale aip, ap «costume». 

138 P. es. curattiere, curattaggio sono comunemente adoperati nel senso di 
«sensale» «senseria» dagli Italiani residenti in Provenza e a Bruges (Castellani, 
Nuovi testi, Gloss .1. si tratta del provenzale corratier, propr. «corridore», che è 
penetrato anticamente anche in altre regioni e che ha dato origine al fr. mod. 
courtier. 


162 


Storia della lingua italiana 


20. Voci di orìgine orientale 

Le relazioni con il mondo islamico concernono in questo periodo 
principalmente gli Arabi, sia per la loro dominazione durata due secoli 
e mezzo in Sicilia, sia per la predominanza marittima esercitata per 
molti secoli nel Mediterraneo, sia per l’importanza che specialmente in 
alcune scienze (astronomia, medicina, ecc.) ebbero gli studiosi arabi. In 
qualche caso si tratta di influenza arabo-persiana,- i Turchi quasi non 
contano 137 . 

È ovvio che importerebbe conoscere per ciascuna parola per qual 
via è entrata, diverse essendo le conclusioni che si possono trarre da 
una parola entrata nel lessico per la simbiosi siculo-araba e da una 
parola appresa in un porto del Mediterraneo. Ma benché le ultime 
ricerche 138 siano decisamente rivolte in questo senso, per molti vocaboli 
siamo ancora incerti 139 . 

Il problema non presenta difficoltà per parole la cui area sia solo 
siciliana, come per esempio giuggiolena «sesamo», sciurta «sentinella» 
(o siciliana recentemente estesasi dalla Sicilia al resto d’Italia come 
zàgara «fior d’arancio»). Ma anche nel caso di parole di area amplissi- 
ma, in qualche caso l’origine siciliana è storicamente dimostrabile: così 
per ammiraglio che indicò dapprima «capo, comandante», e solo nel 
sec. XII in Sicilia e nel XIII altrove si fissò nel significato di «capo delle 
forze di mare» 140 , ovvero per soda, che risale all’arabo suwwàd, 
adoperato per indicare varie piante litorali del genere Salsola e poi le 
ceneri da esse ricavate 141 . 

In altri casi la penetrazione è avvenuta altrimenti. La stessa 
espressione araba dàr-sinaa («casa del mestiere», poi «luogo di 
costruzioni navali») trova accoglimento in Italia sotto forme diverse: 
arzanà (poi arsenale ) a Venezia, darsena a Genova, a Pisa tersanaia, ad 
Ancona terzenale, a Palermo tarzanà (e anche in spagnolo e catalano 

137 Due voci tatare, cane ( khan ) e orda, sono state divulgate dalle notizie che 
circolarono intorno all’Orda d’Oro. Orda significava propriamente «accampa- 
mento», e così usa la parola Giovanni da Pian del Carpine nel rendiconto della 
sua missione (1245-47) dato nell’Hisioria Mongalorum: «post haec pervenimus ad 
primam ordam Imperatoris», e passim. 

138 Specialmente quelle di A. Steiger, Contribución a la fonètica del hispano- 
àrabe y de los arabismos en el ibero-romànico y el siciliano, Madrid 1932; id., 
«Aufmarschstrassen des morgenlàndischen Sprachgutes», in Vox Romanica, X, 
1948 49, pp. 1-62. 

138 II repertorio più comodo (benché tutt’altro che originale e non sempre 
preciso) è quello del Lokotsch. Per le influenze sul siciliano, si vedano i nn. 3689- 
3695 della bibliografia di Hall (6525-6533 della 2 a ed.). G. B. Pellegrini ha raccolto 
gli arabismi delle carte pisane medievali iRend. Acc. Line., s. 8 a , XI, 1956, pp. 142- 
176: cfr. i riscontri veneti adunati da M. Cortelazzo, in Lingua nostra, XVIII, 1957, 
pp. 95-97). 

140 Amari, Storia dei Musulmani di Sicilia, ed. Nallino, III, pp. 357-60. 

141 Steiger e Hess, in Vox Rom., II, 1937, pp. 53 76. 


Il Duecento 


163 


antico daragana, teramana). La prima forma ebbe, come è noto fortuna 
itahana ed europea, e così pure, sebbene in minor misura, la seconda 
Genova è anche stata il centro di irradiazione di cotone 142 

„„ v*.;'r rno dev essersi divulgato taccuino per mezzo del Tacuinum 
sanitatis (da taqwim «corretta disposizione») 

1 Rlc .? ] rdiamo rapidamente, senza escludere’ che qualcuna delle voci 

p™Tab£S a essere emrata a " che d ° p ° 11 ‘ 3 »o 

gabella* tariifcScShf 1 S commorci ° ; magazzino, fondaco, dogana, 
gaoeua, tariffa fardello, tara-, zecca, cantàro, ròtolo, tómolo carato 
risma ; sensale, dragomanno, ecc. ’ ’ 

Attraverso gli scambi commerciali, sono giunti lo zucchero p in 
zafferano, l’azzurro o lapislazuli, il baiaselo e?c “ 3 ° 6 1o 

càssero° C<Wo iTS leccio, scirocco, gomena, sciàbica, 

offre un bel1 esempio di un fenomeno frequente tra 
gh arabismi: esso ci e stato trasmesso dagli Arabi (con il donnin 
significato di «cittadella» e di quello di «castello della nave») ma a toro 
volta gli Arabi avevano avuto la parola xàa-cpov dai Bizantini e questi 

coi ^ TOm) ‘ ES i S ° SerVe inoltre a esemplificare, attraverso il 

arabS^ù nrpfp 1 ^ spagnol ° a /càzar, un altro fenomeno: in Spagna gli 
arabismi presentono spesso (non sempre) forme in cui appare congiuri 

CÌt±°'-,i Clr , ' , ‘' tì0Al/ spa3n “Icacnof^coZI/ 3* 

si anChe l ucchem/ spasn. azdcarì, cosicché 

ermare che quando un arabismo italiano comincia con al- è 
con ogni probabilità passato attraverso la Spagna 144 

S mcontra spesso nei termini di matematica, algebra 
algoritmo ecc.; e si sa che attraverso la Spagna musulmana sono’ 

fndLni^S^Tifrìf Clfre arabiche - che £li Arabi avevano ricevute dagli 
indiani. Cifra, zifra era propriamente lo «zero», cioè la novità essenzia- 
le del nuovo sistema di numerazione («staratole per zifra a la rns l 
ne» cioè non contando nulla: Iacopone, 43 v 921 ^ 

àst™ astron ? mia {zenit ' nadir < auge «apogeo» di un 

ivo’ k ’ Y ega ’ ecc) sono giunti attraverso le traduzioni 

HbreSa pe 1 ? fi fatto nhp f Ispagna: la forma * zenit si manifesta come 


Battisti <3 Furlani, in It. diai. III, 1927, pp. 234-246 

persia,S; S S 1S oùon e a e a ^ 2 o arere &SSaÌ Pr ° babÌU ’ S ° n ° gU etimi arabi f ° arabo, 

olftó»o N “cSZtilo S. 0 S,ve£ r eX 1Zl,>,,<! taVerSaì le par * se “ a <* ci 
145 Nallino. in Riv. studi orient.. Vili, 1919 , p . 376 . 


164 


Storia della lingua italiana 


mano»), sciroppo, ribes, eco. Spesso si passa attraverso una forma 
latinizzata. 

Anche la terminologia araba dell’alchimia ha lasciato parecchie 
tracce ( alambicco , alcali, borace, risagallo , ecc.). 

Si osservi, in aggiunta agli esempi di queste ultime serie, che 
parecchi calchi da voci arabe passano al volgare attraverso il latino 
scientifico. Così imprimere iinì è il termine che indica l’influenza 
esercitata dai corpi celesti sui mondi sublimali («E se ’l cielo colla sua 
virtude ha ad operare ed imprimere nella terra»; Ristoro, VI, c. 3, p. 79 
Narducci; «colui che ’mpresso fue - nascendo, si da questa stella forte»; 
Dante, Par., XVII, w. 76-77) 14 ®. Nell’anatomia pomo d’Adamo, pia 
madre, ecc. sono calchi arabi. 

L’abilità degli Arabi come coltivatori e irrigatori del suolo fece sì 
che molte piante utili penetrassero per mezzo loro in Europa; le arance 
e i limona ie albicocche, i carciofi, gli spinaci, le melanzane, lo zibibbo. 

Alcuni nomi di strumenti musicali risalgono pure all’arabo per 
tramite provenzale-, leuto o liuto, ribeba o ribeca. 

Arabi sono anche il gioco della zara e quello degli scacchi, con 
alcuni dei termini relativi {scaccomatto, rocco, alfino, poi mutato in 
alfiere ). 

Alcuni vocaboli si riferiscono a istituzioni del mondo islamico: 
soldano (più tardi sultano ), califfo. Anche il nome degli Assassini, prima 
di diventare un nome comune, era adoperato con preciso riferimento 
alla setta dei fanatici ismaeliti radunati intorno al Vecchio della 
Montagna, e piuttosto alludendo alla fedeltà al loro capo che alla loro 
micidialità. 


21. Altri filoni del lessico 

Minore di quel che ci si attenderebbe, data la frequenza dei rapporti 
con la Germania, è la penetrazione dei tedeschismi. Si ha qualche 
termine politico (come quelli dei Guelfi e dei Ghibellini, applicati a 
Firenze alle condizioni italiane; cfr. p. 113), qualche termine di guerra 
(saccomanno e, a giudicare dal nome proprio che ne è stato tratto, 
riccomannoì; tedeschi sono parecchi dei termini minerari importati da 
operai dell’Erzgebirge sassone e boemo nelle miniere che col loro aiuto 
si cominciarono a coltivare (guercus «operaio», coffarum «rame greg- 
gio», ecc.) 147 . 

I commerci con l’Inghilterra fanno conoscere lo stanforte e gli 
steriini. 


148 Nallino, in Riv. st. or.. Vili, 1919, p. 38L 

147 V. i capitoli minerari nello statuto di Massa Marittima, il cui nucleo 
principale è anteriore al 1294, e nel testo che possediamo non è posteriore al 1325 
(Ordinamento super arte fossarum rameriae et argenteriae Civitatis Massae, 
Firenze 1938, con il glossario di M. Casella, pp. 101-104). 


Il Duecento 


165 


r«J^ nt °i agli scambi .esercitatisi in questi secoli fra regione e 
gione, alcune correnti s’intravedono abbastanza distintamenfp- 

da^Genova ^^5£ r J v ^ ,enti . dal Nord: «*“«**» carena, molo, scoglio 

d’amù lombardi nn da Venezia; spada Probabilmente dalle fabbriche 
danni lombarde; cavezza «scampolo» da chissà quale città settentrio- 

SÌcUiana e a quella bolognese sulla poesìa toscana 

scarsìTnef notPrT nat °' Tuttavia > la documentazione è ancora troppo 
carsa per poter tracciare con sicurezza un quadro complessivo . 



CAPITOLO V 

DANTE 


l. Dante « padre della lingua » 

È vera, e in che senso, l’espressione vulgata che chiama Dante 
«padre della lingua italiana» o l’altra, un po’ meno forte, ma non meno 
onorevole, per cui il Petrarca lo chiamò G Sen., V, 2) dux nostri eloquii 
vulgaris ? 

Se è vero che da Giacomo da Lentini prende le mosse la lirica 
fridericiana, perché questi titoli non dovrebbero spettare, invece, a lui? 
E se troviamo nel Duecento a Firenze e anche a Bologna testi scritti in 
una prosa volgare con caratteri grammaticali e lessicali non molto 
dissimili da quelli della prosa di Dante, come possiamo parlare di 
«padre della lingua»? 

Ma, ove si intenda «lingua» nel senso di «lingua capace di tutti gli 
usi letterari e civili», è indiscutibile che a Dante spettano i meriti di un 
demiurgo. Prima di lui alla preponderanza schiacciante del latino, e 
all’uso occasionale delle due lingue di Francia, letterariamente insigni, 
non si contrapponevano che dialetti in via di dirozzamento, e tentativi 
sporadici di assurgere all’arte e alla bellezza. Tutta l’opera di Dante ha 
una «càrica» spirituale nuova e potente, che in breve tempo opera un 
rivolgimento nell’opinione pubblica in Toscana e fuori, e fa d’un balzo 
assurgere l’italiano al livello di grande lingua, capace di alta poesia e 
di speculazioni filosofiche. 

Il pensiero di Dante è ancora per tutti i suoi elementi intimamente 
legato al pensiero medievale, ma egli è il primo laico che nell’Europa 
cristiana assurge a dominare tutta la cultura xlel tempo. L’entusiasmo 
per la divulgazione che già animava il suo maestro Brunetto e una 
piccola schiera di volgarizzatori dal latino diventa in lui un program- 
ma consapevole: egli sa che clerus vulgaria temnit (per servirci delle 
parole di Giovanni del Virgilio), sa che ci sono troppi letterati che 
hanno fatto delle lettere una professione, anzi un mercimonio, e d’altra 
parte tanti altri che «per malvagia disusanza del mondo hanno 
lasciata la letteratura a coloro che l’hanno fatta di donna meretrice; e 
questi nobili sono principi, baroni, cavalieri e molt’altra nobile gente, 
non solamente maschi ma femmine, che sono molti e molte in questa 
lingua, volgari e non litterati» (cioè capaci di servirsi del volgare ma 
non del latino) (Conv., I, ix, 5). Ora, Dante mira a «inducere a scienza e 


168 


Stona della lingua italiana 


virtù», a innalzare a vera nobiltà queste persone per mezzo del 
volgare: creare cioè schiere di laici colti e valenti. La fede di Dante 
nell’arte e la sua fede nel nuovo strumento di essa animano insieme le 
sue opere letterarie e i suoi scritti teorici. 

Per una felice contraddizione, Dante non pensa a risolvere il 
problema linguistico in modo conforme a quelli che sarebbero gli 
interessi della monarchia universale, ma a quelli dell’Italia: l’esilio 
gliela ha fatta conoscere quasi tutta, e attraverso le molte diversità 
delle parlate egli ha ravvisato una sostanziale conformità, che gli 
permette d’immaginaria unita da una sola lingua. Suo uditorio ideale è 
dunque l’Italia, in tutte le parti «a le quali questa lingua si stende» 
(Conv., I, m, 4), nei suoi confini naturali, dal Varo e dal Quamaro fino a 
Pachino. 

Si pensi alle miserevoli condizioni politiche dell’Italia nei primi anni 
del Trecento: il Papato, dopo l’oltraggio di Anagni (1303) e il conclave di 
Perugia (1305), trasmigrato oltre le Alpi; lTmpero vacante; i comuni 
straziati dalle, lotte e i signorotti che cominciano a farsi tiranni; la 
Sicilia che con la pace di Caltabellotta (1302) aveva avuto il suo reuccio 
e si rinchiudeva in sé. Non certo questo stato di cose autorizzava a 
sperare: ma Dante credeva, e credendo operò il miracolo. L’Italia non 
era, in quanto essa non aveva coscienza della sua sostanziale unità 
culturale, che le avrebbe permesso di accogliere una comune lingua 
letteraria e civile, più adatta che il latino ad accomunare tutti gli 
Italiani. Dante sentì e le rivelò questa coscienza: così l’Italia fu. 

Non bastarono a ciò i due trattati incompleti in cui Dante parla del 
volgare, né sarebbero bastate cento opere dottrinali: valse invece la 
Commedia, il capolavoro in cui gli Italiani riconobbero la loro propria 
lingua riplasmata e sublimata. 


2 . Idee di Dante sul volgare 

A più riprese Dante espresse le proprie opinioni sul volgare, con 
brevi cenni nella Vita Nuova, distesamente nel De vulgari eloquentia e 
nel Convivio, incidentalmente di nuovo nella Divina Commedia. I 
dantisti si sono ripetutamente occupati delle dottrine deU’Alighieri 
sulla lingua in generale e sul volgare in particolare, soffermandosi 
specialmente su quei punti (maggior nobiltà del latino o del volgare, 
mutabilità della lingua) in cui nelle varie sue opere le dottrine non 
coincidono o non sembrano coincidere. 

Qui esporremo brevemente le dottrine del De vulgari eloquentia e 
del Convivio : le prime anche per l’importanza che ebbero nelle 
discussioni posteriori, le seconde per il caldo entusiasmo che manife- 
stano attraverso il saldo schema del ragionamento scolastico. 

Il De vulgari eloquentia e il Convivio sono pressappoco contempora- 
nei. Probabilmente la stesura dei capitoli che abbiamo del trattatello 
latino è del 1303, e ha l’aspetto di un primo getto, non molto rifinito; 


Dante 


169 


quando scriveva il Convivio, cioè, come si crede, negli anni 1303-1307 il 
poeta si proponeva eh compiere e di pubblicare l’altra operetta, appena 
^°zzata; poi, quando tutto il suo tempo e il suo entusiasmo furono 

non 1 compiuti VU1 ° P ° ema ’ 1 due scritti teorici furono lasciati da parte 

Se nel Convivio si parla del volgare italiano in generale nel De 
el ^9 uent . ia . u problema è in parte più ampio in parte più 
astretto. Nei primi sette capitoli del primo libro Dante discute della 
favella umana m generale, toccando anche alcune questioni che ora ci 
sembrano un po’ futili (parlò prima l’uomo o la donna?) ma che 

del tem P°- Nei capitoli VIII-X egli viene a 
1ChOTm l Eur ° pa ® Particolarmente d’Italia. Dante divide 
™ Europa ia tre .rami, il greco, il germanico-slavo, e il triforme 
idioma romanzo che si suddivide in francese, lingua d’oco (cioè 

S°ri!ai Za e ’if talail f ’ italiano. Egli ritiene che la tripartizione maggio- 
rnT^f^? c Ua C P^ usl ° n « babeUca . mentre le tre varietà dell’idioma 
romanzo si sarebbero differenziate spontaneamente più tardi per la 
instabilità della favella umana. Quanto al latino, esso sarebbe una 
fissazione artificiale dell’idioma triforme, regolata dal comune conili 
so di piu genti (e piu simile all’italiano che alle altre due lingue come si 
vede dalla conformità fra sic e il nostro sì). 

, i E ° po ave F rapidamente confrontato i titoli di merito del francese 
^f 1 P J°^f ale e deE Galiano secondo i pregi delle rispettive letteratu- 
«h’hnSfi f la trattazione al volgare d’Italia («vulgare latium»), e 
^ ^ f n ° a dlV1SÌOne dell’Italia dialettale in quattordici sezioni 
rtnn^nir le innumerevoli variazioni secondarie e subsecondarie. 
Criunto all undicesimo capitolo, Dante inizia un discorso che pur 
legandosi strettamente con la divisione dialettale che precede è del 
dlverso - a questo punto (salvo il criterio di confronto tra le 
tre lingue neolatine, per cui s’era appellato alle rispettive letterature) 
pfria7 ev ^ parlat ° soltanto di lingua ( loquela , eloquium, ydiomaì, aveva 
pa ^’ daremmo oggi, da glottologo. Ora egli comincia a trattare dì 
Pr ° b ema dL stUe: comincia veramente qui il «trattato 
f.^! ar f,® J dir ® 111 volgare » (De vulgari eloquentia ). Egli va cercando per 
tato lltalia d voigare pm elegante, e comincia con l’eliminare le 
parate peggiori 01 romanesco, il marchigiano e lo spoletino; il milanese 
infme fi ^ard S o)° : ^ fnulan0 e Ariano; d casentinese e il frangiano-, e 

illii^H ie ^ o 0 f P0 f- a1 ^ siefiiano (cap. XII), Dante ricorda che esso ha avuto 
ilrpnl Pce* 1, fi o ntl nell a corte dei re svevi, e che a quei suoi 
predecessori fu dato e si continuerà a dare il nome di siciliani, non 

Pe ^ OSSer ° tutti - is u° lani ’ ma perché daUa Sicilia prendeva nome il 

SSffJUKS ' %ss * NapoU) ha avut ° p °° a 

Quanto ai Toscani (cap. XIII), è folle stoltezza quella d’arrogarsi il 


170 Stona della lingua italiana 

privilegio del volgare illustre: Guittone d’ Arezzo, Bonagiunta da Lucca, 
Brunetto e altri hanno scritto versi municipali e non curiali. Singole 
frasi (o versi) che Dante cita mostrano particolarità spiccatamente 
municipali: da Firenze per esempio: Manichiamo introque, che noi non 
facciamo altro 1 Non meno sgradevole è la parlata dei Genovesi, con 
tutte le sue z. 

A oriente dell’Appennino (cap. XIV), si trovano il troppo femmineo 
romagnolo e il troppo ispido veneto. Più gradevole è il bolognese (cap. 
XV), temperato a lodevole soavità dalla commistione dei caratteri 
Opposti (femminilità e ispidezza): beninteso per ciò che si riferisce al 
dialetto; quanto al volgare aulico, lo raggiunsero Guido Guinizzelli e 
altri maestri scostandosi dal dialetto e valendosi del loro discernimen- 
to («vulgarium discretione repleti»). Troppo prossimi ai confini sono il 
trentino e il piemontese perché metta conto esaminarli. 

In nessun luogo d’Italia il poeta è riuscito a trovare (cap. XVI) 
l’odorosa pantera di cui era andato a caccia (i bestiari medievali 
favoleggiavano che gli animali fossero attratti dal grato odore della 
pantera, di cui poi rimanevano vittime) - cioè il volgare illustre. 
Bisognerà, per identificarlo, cercare la più semplice unità di misura 
(nello stesso modo che il bianco è misura dei colori, e che Dio, sostanza 
semplicissima, risplende più nell’uomo che nel bruto, più nel bruto che 
nella pianta, ecc.). Ora il volgare illustre, cardinale, aulico e curiale, è 
quello che è di ogni città italiana e sembra non risieda in alcuna. 

Illustre lo chiama Dante (cap. XVII), cioè fulgido perché sublimato 
per magistero d’arte, e atto a commuovere col suo potere; cardinale 
(cap. XVIII), perché intorno ad esso, come la porta sul suo cardine, si 
muovono i dialetti; aulico, perché degno della reggia, se l’Italia avesse 
una reggia; curiale, perché degno del supremo tribunale, se anche 
questo l’avessimo. 

Il volgare che appartiene a tutta l’Italia è questo volgare illustre 
(cap. XIX): conosciuto questo, si potranno studiare quelli inferiori; e 
Dante si riprometteva di farlo in imo dei libri successivi. 

Nei 14 capitoli del II libro, l’autore parla della poesia a cui il volgare 
illustre principalmente si addice, cioè la canzone-, nel VII egli spiega 
come si debbano cernere («cribrare») i vocaboli magnifici («grandiosa 
vocabula») adatti alla canzone: naturalmente solo alcune esclusioni 
possono essere fondate su criteri estrinseci, mentre quasi sempre si 
tratta di gusto. 

Che cosa dovessero contenere i libri seguenti, sappiamo solo da 
qualche rinvio: forse nel III si doveva trattare della prosa; al IV Dante 
rimandava per il volgare mediocre e quello umile. Nemmeno è certo se 
il trattato dovesse terminare con il quarto libro. 

1 II Rajna, staccandosi dall’autorità dei manoscritti, proponeva di leggere 
facciaNO aTro, con due altre particolarità dell’antico fiorentino plebeo. Ma non è 
detto, osserva il Marigo (p. 112 della sua edizione), «che il canto plebeo dovesse 
contenere in ogni parola una brutta deformazione». 


Dante 


171 


L incompletezza dell’opera non solo lasciò priva la posterità di 
quelle preziose notizie che Dante avrebbe certo date, ma fu la cau- 
sa principale dei malintesi a cui il trattatello diede origine nel Cinaue- 
cento. M 

, ricerca, dantesca, benché prenda le mosse dallo stato linguistico 
dell Italia del suo tempo, non è una ricerca di lingua (intesa come 
strumento sociale, atto a servire alla generalità degli Italiani), ma 
di stile (cioè di una sublimazione artistica della parola). Date le pre- 
messe dantesche, così doveva essere: se «lo volgare seguita uso», cioè 
non è legato da regole stabili come quelle artificialmente fissate per il 
latino, esso non può essere elaborato altro che individualmente con 
la mira rivolta a un ideale d’arte simile a quello che hanno avuto i 
grandi poeti dell antichità («lo bello stile», dirà Dante nella Comme- 
dia). Nulla dipende dalle regole, tutto dal «discernimento»: noi diciamo 
(con un termine che, com’è noto, risale ai letterati spagnoli del 

Cinquecento) gusto o buon gusto, Dante parla scolasticamente di 
discretio. 

Il raffinamento, la sublimazione a cui il poeta sottopone i materiali 
grezzi che trova intorno a sé consiste soprattutto in un’opera di 
ehmmazionempn debbono apparire nella canzone che parole generali, 
attinte a_ quel fondo che tutti gli Italiani hanno in comune, e perciò 
lontane dalla realtà minuta, che è tanto varia, e aliene da tutto ciò che 
è provinciale o municipale. 

Sono fuori dell’arte quelli che non sanno staccarsi dalla realtà 
quotidiana e attingere questa sfera ideale, di qualunque luogo essi 
siano, anche toscani. Dato questo carattere ideale del linguaggio 
artistico splendido, non è possibile trovare un «luogo» dove esso 
risieda. Sede esso potrebbe trovare soltanto (e qui le speranze politiche 
levano il volo sopra la meschina realtà della penisola serva e divisa) se 
1 nana avesse di nuovo una residenza sovrana e ima suprema sede di 

glUSllZldi. 

Dante volge lo sguardo a una schiera di poeti che hanno realizzato 
f. uo . '«e™, j linguaggio artistico, dopo i Provenzali che sono stati 
ottimi fabbri del volgare materno: i lirici della scuola che si suol 
chiamare siciliana; il Guinizzelli, con alcuni Bolognesi; e poi i poeti del 
nuovo stile: Guido Cavalcanti, Lapo Gianni, Cino da Pistoia e lui stesso 
Dante. 

Giacché ha di mira l’arte di scrivere con eleganza, il raffinamento 
stilistico e non la lingua di tutti, Dante sorvola su quelle che potevano 
essere nei suoi predecessori le varianti idiomatiche (e del resto egli 
conobbe ì poeti siciliani già un po’ toscanizzati dai copisti). 

Troppo pochi particolari concreti abbiamo sul modo in cui egli si 
raffigurava questo processo di raffinamento: esso certo soprattutto 
consisteva in una eliminazione di caratteristiche urtanti per il loro 
municipalismo plebeo, non in ima sorta di mescolanza (il concetto di - 
«mescolanza» è solo, in un certo modo, implicito nella discretio, e 
appena adombrato qua e là, per i vocabula curialiora adoperati dagli 


172 


Storia della lingua italiana 


Apuli, I, xxi, 8, e per la commixtio oppositorum avvenuta nel parlare di 

^ Nel Convivio quasi tutto il primo trattato è dedicato a giustificare 
ed esaltare il volgare, scelto a preferenza del latino per commentare le 
canzoni morali del poeta; ma esso non contiene alcuna affermazione 
notevole circa la norma da seguire. „ . 

Presentatosi «quasi a tutti li Italici» m vile apparenza, ora Dante 
deve dare alla sua opera «alto stile», per conferirle «un poco di 
gravezza» (I, iv, 13). Egli ha scelto il volgare, per tre ragioni (I, vi: la 
prima è uno scrupolo di tecnica artistica d’opportunità che essendo le 
canzoni in volgare anche il relativo commento sia nella stessa lingua); 
la seconda è il suo desiderio di «pronta liberalitade» (cioè la mira di 
riuscire più largamente benefico facendosi intendere a un maggior 
numero di persone); la terza è «lo naturale amore de la propria 
loquela». Vero è che il latino è superiore al volgare «e per nobilita e per 
virtù e per bellezza» (I, v, 7), per la sua stabilità, per la capacità di 
esprimere cose che il volgare non è in grado di far®* per la maggiore 
armonia, «però che lo volgare seguita uso e lo latino arte» : ma un 
commento latino mal si adatterebbe a canzoni in vogare. Un commen- 
to scritto in latino «avrebbe a pochi dato lo suo beneficio, ma lo volgare 

servirà veramente a molti» (I, ix, 4). . lo 

Il pacato ragionamento si anima quando Dante viene a illustrare la 
terza delle ragioni addotte per spiegare la scelta del volgare «lo 
naturale amore de la propria loquela» d, x, 5). Egh vuol magnificare il 
volgare, proteggerlo dai rischi che il cattivo traduttore di un commento 
latino gli potrebbe far correre, difenderlo contro i denigratori (I, x, 7-11). 
Per mezzo di esso l’autore potrà manifestare «altissimi e novissimi» 
concetti, e così mostrare «la gran bontade del volgare di si»: nella 
prosa si vede meglio la «vertù» della lingua che nella poesia, in cui 

sono «accidentali adomezze» (I, x, 12). , 

«Li malvagi uomini d’Italia che commendano lo volgare altrui e lo 
proprio dispregiano», cioè quelli che hanno preferito e preferiscono 
(specialmente nell’Italia settentrionale, come sappiamo) il provenzale o 
il francese, meritano «perpetuale infamia e depressione» Q, xi) per 
mossi da ignoranza o da malizia (in quanto attribuiscono a incapacità 
del volgare quella che è incapacità loro) o da vanagloria (per farsi 
ammirare scrivendo in lingua altrui) o da invidia o da pusillanimità: 
varie scuse per aver «a vile questo prezioso volgare» u, », 21). 
«perfettissimo amore» alla propria loquela a, xii, 2) è nato m Dante 
dalla sua prossimità a lui, in quanto «uno e solo è prima ne la mente 
che alcun altro» a, xn, 5) e dalla bontà propria di esso Dal volgare 
Dante ha ricevuto «dono di grandissimi benefici» (I, xni, 2), perche esso 


2 Su queste asserzioni, in confronto con altre del De vulgati eloquentiasi 

vedano ftSna, in Mise. Hortis, Trieste 1910, p. 128; Busnelli e VandeUi, neUa loro ed. 

del Convivio, pp. 87-89; B. Nardi, Dante e ta cultura medievale, 2<* ed., Ban 1949, pp. 

230-233. 


Dante 


173 


congiunse i suoi genitori, perché lo introdusse nella via della scienza, 
«in quanto con esso io entrai ne lo latino e con esso mi fu mostrato: lo 
quale latino poi mi fu via a più innanzi andare» a, xm, 5). Per il volgare 
sarebbe giovevole alla sua conservazione «acconciare sé a più stabili- 
tade» (I, xm, 6) 2 3 * , e ciò potrebbe ottenere diventando lingua poetica. 
Questo Dante ha fatto legandosi con esso di lunga consuetudine. 

Giustificata così la bontà del volgare e la sua attitudine a un 
commento in prosa, proclamato il suo affetto ad esso, Dante chiude il 
primo libro del Convivio con le famose parole di tono profeti- 
co: «Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale surgerà là dove 
l’usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre e in 
oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce» Q, xm, 12). Anche 
quelli che non conoscono il latino potranno finalmente accostarsi a 
opere di alto pensiero. E, grazie anche all’opera di Dante, la profezia si 
avverò'. 


3 . La lingua di Dante dalle liriche giovanili alla Divina Comme- 
dia 

Non è mai senza rischio confrontare le dottrine che uno scrittore 
professa sulla lingua e lo stile con le sue opere d’arte. Per Dante, i 
fraintendimenti sono stati specialmente gravi nei secoli passati, quan- 
do si è preteso di trovare applicate nella Commedia quelle teorie che 
egh riferiva esclusivamente allo stile sublime. 

Da questa classificazione in «generi» non ci è lecito prescindere; 
tanto più se teniamo conto che le esperienze artistiche di Dante 
volutamente spaziano per un’amplissima gamma. «Ecco in Dante 
convenire l’epistolografia di tipo apocalittico, il trattato di tipo scolasti- 
co, la prosa volgare narrativa, la didascalica, la lirica tragica e la 
umile, la co media» 5 . 

Anche prescindendo, come in questa sede dobbiamo, dagli scritti 
latini, Dante atteggia la propria lingua nelle varie opere, anzi nelle 
varie parti delle opere, a stili diversissimi. 

Nelle liriche, passa dai primi esperimenti ancora legati ai provenza- 
leggianti siculo-toscani, a quel nuovo timbro suo e di pochi amici, che 

3 Un passo del De vulgati eloquentia (I, ix, 9) ci fa vedere come Dante 
considerasse la stabilità della lingua quale attributo indispensabile della sua 
funzione sociale: «sub invariabili sermone civicare» («partecipare d’una comune 
cittadinanza per mezzo d’una lingua invariabile»). Che tuttavia egli mirasse a 
dare al volgare una fissità analoga a quella del latino, non par probabile (Parodi, 
Bull. Soc. Dant., Ili, p. 94 - Lingua e lett., p. 220). 

4 Anche nella Divina Commedia si possono spigolare alcune affermazioni di 
Dante sulla favella umana e sul volgare italiano: si troveranno citate nella 
«Categoria quinta» delle Concordanze dantesche di G. Falorsi, Firenze 1920. 

5 Contini, nel volume miscellaneo della Libera Cattedra sul Trecento, Firenze 
1953, p. 98. 



174 


Storia della lingua italiana 


in ottemperanza al giudizio espresso da lui medesimo, chiamiamo 
stilnovistico. 

Nella Vita Nuova , le prose che, quasi svolgendo il suggerimento 
dato dalle «ragioni» provenzali, accompagnano le poesie, risentono 
inevitabilmente della moda della prosa ornata, con ripetizioni, figure 
etimologiche e altre raffinatezze formali, ma pur riescono, insieme con 
la melodia dei canti di lode, a creare un’atmosfera d’incomparabile 
levità: e l’efficacia della Vita Nuova come modello stilistico non sarà 
inferiore nemmeno alla Divina Commedia. La frequenza di parole 
come miracolo e maraviglia e delle espressioni superlative conferisce a 
creare questa atmosfera 6 . 

Il canzoniere raccoglie numerose e varie esperienze artistiche: le 
rime allegoriche per cui Dante potè attribuirsi il titolo di «poeta della 
rettitudine», le battute realistiche della tenzone con Forese, le rime 
petrose e le sestine in cui il poeta gareggia con il robusto e difficile 
Arnaldo Daniello, tentando «novità - che non fu già mai fatta in alcun 
tempo»-, poi ancora, negli anni dell’esilio, la breve e vigorosa canzone 
«Tre donne» 7 . 

La scelta lessicale nell’alta lirica è sempre severa e schifiltosa, né in 
essa appaiono quelle parole che il De vulgati eloquentia condanna 
come «puerilia» (mamma, babbo) o «silvestria» (c etera o cetra, greggia) o 
«urbana lubrica et reburra», come femmina e corpo ( corpo veramente 
compare nella canzone della nobiltà, in cui Dante dice di dover lasciare 
il suo «soave stile»!: invece egli adopererà senza scrupolo tutte queste 
parole nella Commedia. Viceversa, appaiono nelle Rime parole che non 
si leggono nella Commedia-, p. es. lagare, prenze, lastrare. 

Il poeta riconosce che ha attinto «lo bello stilo» attraverso l’assiduo 
studio dei classici e specialmente di Virgilio: 

Tu se’ lo mio maestro e i mio autore-, 
tu se’ solò colui da cu’ io tolsi 
lo bello stilo che m’ha fatto onore. 

Unf., I, w. 85-87) 

Nel verso, il poeta ha esteso il campo del volgare alla lirica 
filosofica, in prosa dà col Convivio il primo cospicuo esempio di opera 
dottrinale in volgare. Vi è assimilata l’esperienza della latinità classica 
e di quella scolastica in ima sintassi periodica di ampio respiro, e 
rivolta non a scopo ornamentale ma ragionativo 8 . Valga un solo 
esempio: 


8 Ci basti rinviare a Schiaffini, Tradizione, cap. V. 

7 Cito due sole opere: l’ottimo commento del Contini alle Rime, 2* ediz., Torino 

1946, e F. Maggini, Dalle «Rime» alla lirica del Paradiso, Firenze 1938. _ 

8 Rinvio soltanto a Schiaffini, Tradizione, cap. VI, e a Segre, Sintassi del 
periodo. Parte III. 


Dante 


175 


la ’ n ™ ei } su f abile bontà divina l’umana creatura a sé riconformar,» 
t. ' F,BllUOl ° * Dl ° 81 discendesse a fare questa E 

con moduli* così^perfettament^^ostrufif 1 *^^ 61 !!^^ 11 ^^^!^!!!^^^ 

processo “ S °“° * Classicità tra le arcate 8 ° tteha del 

„• Commedia il poeta, pur attraverso le rigorose limita- 

*° m ch V S1 , è imposte scegliendo lo schema della terzina, si comporta 

PartP^ri Pll H S11 f a a b6rtà per quell ° che concerne la gamma degli stili 10 
Partendo da fondamenti grammaticali e lessicali senza alcun dubbio 
fiorentini, egli si vale Uberamente di tutte le risorse UnSche che 
abbiano già avuto una consacrazione letteraria. ungmstlcfte cjie 
In vari luoghi del poema possiamo trovare versi «illustri» in cui non 
c è alcuna pecuUarità locale. Versi come ’ 

Per te poeta fui, per te cristiano 
E la bella Trinacria, che caliga 
Oh Beatrice dolce guida e cara 


“ r °, esse ?" e sc . rt «‘. ™ rta d’ipotesi. anche da un poeta non 

opacamente dottrinale: PU ° *" 0ualcha I— • <**£» pure. 

Ogni forma sustanzial, che setta 
e da matera ed è con lei unita 
specifica virtù ha in sé colletta, 

la qual sanza operar non è sentita... 

IPurg., XVIII, w. 49-52). 

Invece troviamo all altra estremità della gamma versi di stile 
mediocre o addirittura plebeo, in cui perciò ajpatono vcSbSi non 

SiaMc^ a coS e i t -nlf er l alta llr ‘ ca to c l uanto hanno un forte colorito 
idiomatico. Cosi 1 ultimo verso del c. XX deW Inferno 


'0 S ^i 3 àrn^- L 8 a F' ZZamentÌ i el Due e Trecento, Torino 1953, p 18 

fimi, «A proposito dello ‘stilè comico’ di Dante», in Momenti, pp. 43 - 56 . 


'ìpsp 


176 Storia della lingua italiana 


Sì mi parlava ed andavamo introcque 
e parecchi confronti realistici di altri canti dell7n/emo: 

Già veggia per mezzul perdere o lulla," 
com’io vidi un, così non si pertugia 
rotto dal mento infin dove si trulla 

(XXVIII, w. 22-24) 

e non vidi già mai menare stregghia 
a ragazzo aspettato dal segnorso 

(XXIX, w. 76-77) 

e sì traevan giù l’unghie la scabbia 
come coltei di scàrdova le scaglie 

(ivi, w. 82-83). 

Non tocca a noi analizzare quelle doti che fanno di Dante uno dei 
più grandi poeti dell’umanità: la sua miracolosa adesione al concreto 
anche dove si solleva ai vertici della spiritualità, l’armonia or dolce or 
solenne con cui il suono delle parole accompagna lo snodarsi delle 
immagini e dei concetti; non tocca a noi, anche se la fortuna di Dante 
nei secoli, e quindi la sua durevole efficacia nella lingua siano dovute 
proprio a queste qualità. 

Il problema più propriamente nostro è quello di vedere fino a che 
punto la grammatica e il lessico di Dante si possano dire fiorentini. La 
rielaborazione che Dante ha fatto del proprio dialetto natio ne ha 
mutato il carattere al di là di quello che i poeti sogliono fare quando 
sublimano la loro parlata «naturale» in linguaggio artistico? 

4. Grammatica e lessico della Divina Commedia 

L’uso dantesco 12 è, in confronto con l’uso «naturale» del fiorentino 
del suo tempo 13 , molto più ricco di doppioni 1 *. 


" «Un verso che solo i Fiorentini possono capire... E chi è colui che sappia ciò 
che Dante si volesse dire in quel verso Già veggia ecc.? Certo io credo che nessun 
altro che noi Fiorentini...» (Della Casa, Galateo, xxu, sulle orme del Bembo). 

12 Sarebbe utile poter disporre di inventari completi dell’uso grammaticale e 
lessicale di Dante; ma purtroppo non possiamo disporre che di repertori 
invecchiati: la magra dissertazione di H. Zehle, Laut - und Flexionslehre in Dantes 
D. C., Marburgo 1885, la concordanza del Fay (1888), i vocabolari di L. G. Blanc 
Ù859), di G. Poletto Ù885-87), di G. A. Scartazzini (1905), di G. Vivanti-Siebzehner 
(1954). 

13 Quale lo conosciamo specialmente dai Testi dello Schiaffini e dai Nuovi testi 
del Castellani. 

14 Può rendere tuttora utili servigi l’articolo giovanile di N. Zingarelli, «Parole e 
forme della Divina Commedia aliene dal dialetto fiorentino», in St. di fU. rom., I, 
1884, pp. 1-202. Importantissimo per ogni ricerca sulla lingua di Dante è sempre il 
luminoso articolo di E. G. Parodi, «La rima e i vocaboli in rima nella Divina Comme- 
dia», in Bull. Soc. Dant., Ili, 1896, pp. 81-156 (rist. in Lingua e lett., pp. 203-284). 


Dante 177 


Si ha diceva accanto a dicea (come vediamo con sicurezza in esempi 
m rima: diceva I Purg., XXIV, 1181 in rima con Evo-, dicea [ Purg., XXVII, 
con eterea ); vorrei Unf, XXXIII, 97) accanto a vorria {Par.] 
XXXIII, 15), fero e feron accanto a fermo, ecc. Il perfetto forte di tacere 
(; tacqui , -e) si ha 10 volte, quello debole ( tacetti , -e) quattro. 

Padre alterna con patre, e madre con matre ; lasciare ha accanto a sé, 
quasi altrettante volte, lassare. Manicare e manducare sono usati 
promiscuamente con mangiare, e così pure vendicare (3 volte) e 
vengiare (altre tre volte): è evidente che Dante approfitta volentieri 
della possibilità di servirsi di un quadrisillabo oppure di un trisillabo, 
anche se questa non sia la ragione esclusiva. Re e rege, imagine, imago 
e image sono adoperati liberamente, con ima scelta di cui non è sempre 
agevole scrutare i motivi. Accanto a specchio, che è la forma «norma- 
le», adoperata 16 volte, Dante ha nella sua tavolozza speglio (4 es.), 
speculo, miraglio; accanto a speranza, adopera speme (7 volte) e spene (3 
volte). 

Questa libertà di scelta basta a mostrare che Dante, pur tenendosi 
saldamente radicato all’uso natio, guarda intorno a sé, ed accoglie 
accanto alle parole e alle forme del fiorentino contemporaneo, anche 
voci e forme che stanno cadendo dall’uso, qualche forma del toscano 
occidentale e meridionale, qualche rara voce d’altri dialetti italiani, 
molte voci latine, parecchie francesi. Questa vastità d’orizzonte ha 
tuttavia una limitazione rigorosa: mentre il poeta ammette se nz ’altro, 
ove gli occorrano, le forme e i vocaboli fiorentini, gli altri devono aver 
avuto ima qualche consacrazione letteraria. Quindi i vocaboli latini 
possono essere accolti di diritto, ma se usa il tipo vorria lo fa 
appoggiandosi ai Siciliani e ai Siculo-toscani; vonno (3 a pers. plur. del 
pres.) era deH’umbro letterario; fenno, apparinno, terminonno (3 a pers. 

Perfetto) erano stati usati letterariamente da Toscani occiden- 
tali; la rima di tome (o lume che sia) con nome e come ha precedenti nel 
Cavalcanti e nei Bolognesi, e così via 15 . 

Non meraviglia che Dante si attenga piuttosto alle forme che si 
usavano in Firenze nella sua giovinezza o nella generazione preceden- 
te piuttosto che a quelle prevalse un po’ più tardi. A proposito di alcune 
forme verbali usate da Dante il Parodi aveva concluso: «Pare che 
Dante, piuttosto che l’uso dei lirici, abbia seguito qui pure l’uso toscano 
di poco più che una generazione innanzi alla sua, attingendo in quel 
moderato arcaismo nobiltà e solennità di linguaggio» 16 ; il Castellani 
( Nuovi testi, p. 69), pur non escludendo che quelle forme fossero ancora 
vive nella generazione di Dante, conclude che «certo all’epoca in cui fu 
scritta la Divina Commedia erano in piena dis soluzione» 

In un altro caso vediamo Dante usare alternativamente il tipo 


5 ^ P 1 ^ 1 volte citato art. del Parodi, e la concisa formulazione del suo 

articolo postumo «Dante e il dialetto genovese» (Lingua e lett., pp. 285-300). 
Bull. Soc. Dant., Ili, p. 126 (= Lingua e lett., p. 253). 


178 


Storia della lingua italiana 


vederai, corrente nella generazione a lui anteriore, e il tipo vedrai, che 
prevale tra i suoi contemporanei (« vedrai li antichi spiriti dolenti... e 
vederai color che son contenti»: Inf., I, w. 116 e 118) 17 . 

Dante non si fa scrupolo di adoperare nella Commedia voci 
fiorentine d’ogni strato sociale, anche plebee. Il riscontro d’altri testi o 
la testimonianza di altri dialetti toscani ha spesso consentito d’inter- 
pretare con puntuale precisione vocaboli danteschi prima intesi ap- 
prossimativamente 18 : p. es. bastare nel senso di «durare» iPurg. XXV, v. 
136) trova riscontro nel Pulci e nel proverbio «Tanto bastasse la mala 
vicina quanto basta la neve marzolina»; burlare per «buttar via, 
sparpagliare» t/n/, VII, v. 30) è nell’onomastica t Burlafave di Montepul- 
ciano, soldato a Firenze nel 1290) e nel Pucci; piovomo fu sentito dal 
Giuliani in Val di Nievole (e rubecchio nella montagna pistoiese); potere 
nel senso di «esser capace di portare» (Par., XVI, v. 47) è ancora vivo in 
Toscana (e altrove) in locuzioni come lo puoi?; punga ( Inf, IX, v. 7) ha 
molti esempi trecenteschi e quattrocenteschi «scomparsi per buona 
parte dalle stampe, per le troppo amorevoli cure degli editori» (Parodi); 
ecc. 

Qualche volta la scelta di vocaboli dialettali mira a caratterizzare 
singoli personaggi (p. es. il lucchese issa attribuito a Bonagiunta). 

Amplissima, quasi direi illimitata, è l’apertura verso i vocaboli 
latini, classici, tardi e medievali. L’ammissibilità teorica di tutti essi, 
anche i più strani, è dimostrata da quel passo del De vulgati eloquentia 
(II, vii, 6) in cui Dante cita come adoperabile in volgare la capricciosa 
coniazione della latinità medievale « honorificabilitudinitate , quod duo- 
dena perficitur sillaba in vulgari, et in gramatica tredena perfìcitur in 
duobus obliquis». 

I latinismi sovrabbondano nei canti di discussione dottrinale-, quindi 
ne troviamo in quantità crescente dall’/n/emo al Paradiso. Molti già 
dovevano essere stati accolti nell’italiano scolastico prima di Dante, 
ma molti sono certamente suoi 10 . 

Alle volte l’abbondanza dei latinismi è suggerita dalla solennità del 
discorso attribuito a un personaggio. Per citar solo un esempio, nello 
scorcio di storia dell’Impero tracciato da Giustiniano (Par., VI), ce ne 


17 Castellani, Nuovi testi, pp. 62-63. Qualche altro esempio-di «polimorfia» 
aggiunge Nencioni, Fra grammatica e retorica, pp. 14-19. 

18 Osservazioni in questo senso faceva già il Borghini, contraddicendo il 
Ruscelli. Si veda poi l’articolo di G. B: Giuliani, Dante e il vivente linguaggio 
toscano, Firenze 1872, il volumetto di R. Cavemi, Voci e maniere nella Divina 
Commedia dell’uso popolare toscano, Firenze 1877 (esagerato nella tesi, pieno di 
errori storici ed etimologici, eppure di qualche utilità), il solido saggio di I. Del 
Lungo, «Il volgare fiorentino nel poema di Dante» (in Atti Acc. Crusca, 1889, rist. in 
Dal secolo e dal poema di Dante, Bologna 1898), e il più volte citato articolo del 
Parodi. 

18 Dell’uso delle scuole, in quanto vi accadesse di parlare volgare, erano certo 
anche le locuzioni fisse del tipo ab antico Unf., XV, v. 62) o le sostantivazioni di 
ubi, necesse, quia, ecc. 


Dante 


179 


t0nalità del Scorso: dal cirro 

Ani cofnhm ? * "i l bl - tnun f aro ~ si cuba ... co l baiulo seguente 
dal colubro - la morte prese subitana ed atra... al lito rubro... e il suo 

delubro... era fatturo... nel commensurar di nostri gaggi alcuna neaui 

eiavau SSTd?' compare sol ° * ^ «“ *5 
xxxlr V inn ! U ® sarai meco senza fine cive»; Purg. 

SS Par Vlil v ??6)°d^ ar ^ t° ( ? er in terra ’ Se non fos ^ 6 

rivi»:' Par.]’ XXIV% 43 ) S ' perché questo re g no ha fatto 

Altre volte è l’aderenza alla sua fonte che suggerisce a Dante il 
latinismo: 1 agricola del canto di S. Domenico (Par., XII v. 71 ) risale alla 
parabola del vignaiolo; il conservo di papa Adriano (Pura XIX v 1 34 ) 
viene dall’Apocalisse; gli iaculi serpevi di Lib^n/ ?' 86) sono Si 
dl Lucano; il libito e il licito scambiati da Semiramide Unf. V v 
^apposti in un passo di Orosio; «l’alte fosse eh e valimi 
2araf?iSo SH 77) Salgono al Ubro dei Proverà, 
iw rp Stova“u p as s ft‘ £c nv,vio Uquand ° “ ddIo, con certa 

lathùsr^Chf^’i ^SS ÌCOl ° CÌ Ì ato ’ ^ a el encato circa cinquecento 
,. ,. , , mettesse a rifare il calcolo dovrebbe tentar Hi 

distinguere ì latinismi propri di Dante da quelli già comuni al tempo 
suo; ma non vogliamo tentare questa diffìcile impresa né cercare quali 
possono essere state nei singoli casi le ragioni della scelta del poeta- ci 
basti aver segnalato l’ampiezza del fenomeno 10 . 

£ rr- Q Ì; 1 ^° ranZa d f 1 greco ha ^attenuto Dante dall’adoperare vocaboli 
‘ he vedesse già accolti nei testi latini di cui si serviva to es 
penzoma lo trovava nella Vulgata, latria e tetragono in S Tommaso) 

?ain(« eC< ; e o Z10nalmen Ì e egli si ventura a ricostruire più ch^ non 
sappia, come quando prende per un singolare il plurale entoma 

ca?rÌn P f3s!fSn S nt6 i nel ^istoria animalium di Aristotile) e ne 

cava un falso plurale entomata IPurg , X v 128) 21 

I gallicismi che troviamo in Dante’ non sono pochi ma si stenta a 

qualCUn ° n ° n Si trovi anche in altri testi fqvSiS possa 

dri fr St ^veZ m S T' AnChe fl ^ illi War - XX - v ' 14) ’ adattamento 
.* ant - f lavel > flajel, finora non documentato da alcirn altro testo 

?SmoS SSere gÌUn ‘° a Dan,e per tramite 

Diffirile è anche stabilire il confine tra le voci coniate da Dante e 

sfossi”" altint0 attorao a sé ' da i 

Probabilmente sono sue parecchie derivazioni immediate, deverbali 


Bema C 1948! n cap e ^vnf^ 3 ’ Euro P a ^he Literatur und lateinisches Mittelalter, 

» ^ come Calliopi. Semelè. ecc., v. p. 169 . 

Schiaffìm, It. dial., IV, 1928, pp. 229-230. 


180 Storia della lingua italiana 

come cunta [Purg. , XXXI, v. 4) o denominali come alleluiare, golare, 
mirrare. 

Tra le molte derivazioni prefissali ( adimare, appulcrare-, dismalare, 
divimare; indracare, ingigliare, impolare, inurbarsi, inventrare; rinfama- 
re, ringavagnare; sgannare, spoltrire; transumanare, ecc.) parecchie sono 
certo sue, specialmente le voci formate da possessivi, da pronomi, da 
numerali, da avverbi (immiare, intuare, inleiarsì, inluiarsi, intrearsi, 
internarsi Ider. di temo 1, incinquarsi, immillarsi, indorarsi, insemprarsi, 
insusarsiì. A proposito d 'imparadisare, il Tommaseo diceva, nel Dizio- 
nario: «È della lingua viva, e da essa l’avrà preso Dante, non essa da 
Dante»; ma in presenza di tante coniazioni di questo tipo, ci sembra 
più probabile il contrario. 

Forse di conio dantesco è anche qualche formazione suffissale: 
pennelleggiare, torreggiare. 

5. Efficacia di Dante 

Nei secoli seguenti (e non mancheremo man mano di fame ricordo) 
l’influenza di Dante si spiegherà costantemente, se pure or con 
maggiore or con minor forza. Influirà sullo stile (p. es. il Boccaccio 
risente fortemente della Vita Nuova-, gli scrittori di «visioni» della 
Divina Commedia ), sulla metrica (fortuna della terza rima), sul lessico 
(come ora vedremo con qualche esempio). 

Poiché fin dal Trecento la Commedia è assunta quasi a libro santo 
della nazione, commentato come si commentavano le sacre pagine, e 
letto nelle scuole d’alto livello, esso ha fornito e fornisce materia di 
continue citazioni, sia di versi interi, sia di locuzioni che più o meno 
dawicino alludono a episodi e figure del poema o a concetti danteschi: 
le bramose canne (di Cerbero), il fiero pasto (del conte Ugolino), il disiato 
riso (della regina Ginevra), la vendetta allegra, la mala signoria, il natio 
loco, la morta gora, il mondan romore, la volgare schiera, il velen 
dell’argomento, il sapor di forte agrume, il segnacolo in vessillo, le 
femmine da conio, e ancora risurger per li rami, raunar le fronde sparte, 
far tremar le vene e i polsi, ecc. 

Anche singole parole dantesche hanno avuto fortuna: non solo 
quelle che si riferiscono alla struttura e alle leggi dell’oltretomba 
dantesco, come bolgia e contrappasso (da contrapassum di S. Tommaso: 
«ciò che è patito a riscontro della colpa»), ma parecchie altre: lai (v. p. 
195), laico, macro, grifagno, tetragono (nel senso astratto di «incrollabil- 
mente saldo» che si ricava dal Par., XVII, v. 24), ecc. 

Ma più che le influenze singole conta l’efficacia complessiva di 
Dante, che con la Commedia, a meno di un secolo dagli inizi dell’uso 
letterario dell’italiano, instaurò un così alto monumento di poesia, 
«mostrò ciò che potea la lingua nostra». 


CAPITOLO VI 

IL TRECENTO 


1. Il Trecento 

fi Trecento è uno dei periodi più importanti nella storia della lingua 
ì^ana: non perché in quel secolo la lingua e la letteratura abbiano 
in™™? *l della perfezione, come ritennero, per motivi in parte 
diversi, il Bembo, il Salviati, il Cesari, il Giordani, ma perché in quel 
secolo vissero e operarono i tre scrittori che furono storicamente i 
principali modelh per l’unificazione linguistica nazionale. 

el quadro della civiltà comunale, Firenze mostra, insieme con la 
crudezza e le iniquità delle sue lotte di parte, una sua vitalità 
prodigiosa. Vi opera Giotto; Arnolfo vi costruisce «il più bello ed 
orrevole tempio della Toscana». I mercanti fiorentini svolgono in tutta 
nJff 8 occidentale ima mole enorme di affari: si sa che Bonifacio 
Vili trovando che erano fiorentini dodici fra gli ambasciatori inviati 
a diverse potenze per la sua incoronazione, li avrebbe c hiam ati «il 
quinto elemento del mondo». 

Rigoglio ed orgoglio si sentono nelle parole del Villani, che nel 1300 
j. imprendere a scrivere la Cronica, «considerando che la nostra 
citta di Firenze, figliuola e fattura di Roma, era nel suo montare e 
aseguire grandi cose, siccome Roma nel suo calare» (Vili, cap. 26). 
o ff 6 inconsiderazione della lingua nuova è principalmente 
frutto della civiltà comunale: il latino rischiava di essere monopolizza- 
to da un ristretto gruppo di professionisti, e sarebbero rimasti esclusi 
dalla cultura ì mercanti, cioè il nerbo più attivo della città, i nobili 
ormai aeeolti nella cittadinanza, e le donne, che di solito non andavano 
a scuola. In questo terreno culturale sono cresciuti il pensiero e la 
poesia di Dante, e il prestigio se ne è subito riverberato sul volgare. 

Dire che la civiltà comunale di Firenze è stata il terreno culturale 
adatto per il prosperare di alcuni grandi scrittori, non vuol dire che ciò 
basti a spiegare le altissime qualità di artisti grazie alle quali essi si 
sono imposti come modelli, né il fortunato concorso di circostanze per 
cui ì tre piu eccelsi sono sorti tutti da quel terreno. 

Che aspetto avrebbe avuto ed avrebbe la lingua d’Italia se Dante 
non tosse nato, e invece, poniamo, Bonvicino della Riva avesse avuto il 
cuore e 1 ingegno dell Alighieri? Ma si sa che ipotesi di questo genere 
non si debbono fare. 


182 Storia della lingua italiana 

Nell’ esaminare gli eventi storici e culturali di questo periodo che 
abbiano più stretti rapporti con la lingua, giungeremo di solito fino alla 
morte del Boccaccio, cioè fino al 1375, perché l’ultimo quarto del secolo 
megbo si ricongiunge, per l’umanesimo ormai dominante, con le 
tendenze del Quattrocento. 

2. Eventi politici 

La civiltà comunale, che a Firenze si mantiene più a lungo e più 
saldamente che altrove (ma non senza la parentesi dittatoriale del 
duca d’ Atene, e non senza che si avverta un certo predominio di 
famiglie con tendenze oligarchiche) si va invece trasformando nell’Ita- 
lia settentrionale e mediana, con l’emergere di signori locali. 

La tendenza, tuttavia, di alcune città maggiori a espandersi a un 
àmbito pressappoco regionale si manifesta sia in Toscana, dove 
Firenze riesce ad estendere il proprio dominio su Pistoia, Pisa ed 
Arezzo (ma non su Siena e non su Lucca), sia nelle altre parti dell’Italia 
settentrionale (tentativi dei Carraresi, degli Scaligeri, dei Visconti) e 
mediana. Ogni signoria politicamente importante è sede di una corte, e 
tende a promuovere la propria coinè. 

L’importanza di Roma è sempre più compromessa dall’assenza del 
Pontefice, né certo la rialza l’effimera signoria di Cola. Nel regno di 
Napoli importa molto più la capitale (in stretti contatti col resto 
d’Italia, sia al tempo di re Roberto sia in quello del siniscalco 
Acciaiuoli) che il resto dello stato, dov’è scarsissima la vita comunale. 
La Sicilia, che durante tutta l’età sveva era stata protesa verso la 
penisola, dopo Caltabellotta (1302) forma il piccolo regno autonomo di 
Trinacria, chiuso in se e solo preoccupato delle proprie fortune. In 
Sardegna, alla forte influenza pisana subentra la penetrazione catala- 
na, sotto il dominio degli Aragonesi. 

La peste nera, dopo la strage compiuta nel’48 in tutta la penisola, 
ancora negli anni successivi più volte riappare con minore virulenza: e 
incide fortemente non solo sulla compagine demografica, ma su tutta 
la vita del tempo. 

3. Vita civile e culturale 

Tra i molti aspetti della vita civile e culturale del Trecento, meritano 
ricordo quelli che hanno èsercitato una certa influenza nel costituirsi 
di una lingua comune. 

I mercanti compiono lunghi viaggi, hanno contatti con uomini di 
vari paesi, e spesso si stanziano in altre nazioni, servendo di tramite a 
vocaboli stranieri. Si diffonde in questo secolo la contabilità secondo il 
metodo veneziano. Si ricordi anche l’usanza dei mercanti di leggere in 
viaggio opere scritte in volgare, divertenti piuttosto che edificanti. 

La navigazione mette in contatto uomini di diversi paesi: gli scritti 


Il Trecento 183 


nautici (p. es. il Compasso da navigare ) o i codici di consuetudini 
marittime (come la Tavola di Amalfi) hanno sempre caratteri linguistici 
fortemente miscelati. 

Passano spesso dall’ima all’altra città i podestà, i giudici, i maestri- 
e il riso che talvolta suscitano le loro particolarità linguistiche li spinge 
a eliminarle. 

Le milizie di ventura, dapprima spesso straniere (si ricordino le 
truppe borgognone del duca di Atene), sono più tardi assoldate in 
Italia, nelle regioni più povere. 

E passano di città in città, da signore a signore, gli «uomini di corte» 
in tutte le loro varie gradazioni, dai poeti cortigiani ai giullari: talora 
sollecitati e signorilmente accolti, talora respinti per timore della loro 
petulanza professionale (si ricordino, p. es., le severe disposizioni del 
Costituto di Siena, volgarizzato nel 1309-10, contro i giullari alle feste di 
nozze). 

Desideri di guadagno, aspirazioni di gloria, ansia di bellezza sono 
spinte eterne dell’animo umano: ma in pochi tempi e in pochi luoghi 
hanno raggiunto ima così forte tensione come a Firenze e in Italia in 
questo periodo. Quello che in prima linea s’impone all’attenzione è 
1 umanesimo che, soprattutto ad opera del Petrarca e del suo bandito- 
re, il Boccaccio, s’irradia principalmente da Firenze su tutta l’Europa. 
Ma non dobbiamo dimenticare il nuovo stile che s’impone nelle arti 
figurative (Giotto, Arnolfo) e nella musica Q’Ars nova accolta e stabiliz- 
zata a Firenze). 

S aggiungono in questo secolo alle antiche università quelle di 
Perugia, di Firenze, di Siena: e importa ricordare che grazie soprattut- 
to all opera dei due insigni interpreti del diritto comune, Bartolo da 
Sassoferrato e il suo discepolo Baldo, maestro per molti armi a Perugia 
e poi in altre città, la nuova dottrina giuridica diventa comune 
patrimonio italiano, anzi europeo. 

Sui rapporti culturali che si sono venuti intessendo fra regione e 
regione si sono raccolte numerose testimonianze: vogliamo almeno 
ricordare una fra le più importanti di queste correnti, quella che portò 
nel Veneto una larga conoscenza degli uomini, delle cose e specialmen- 
te delle lettere toscane: tanto più che ne siamo largamente informati 
grazie a una buona monografia 1 . 

4. Latino e volgare 

Latino e volgare si presentano in un certo senso in rapporti di 
emulazione e quasi di antagonismo, in altro senso di strettissimo 
collegamento. La forte tendenza ad estendere l’uso del volgare per 
argomenti per cui prima si adoperava solo il latino senza dubbio 


<La coltura toscana nel Veneto durante il Medio Evo», in Atti Ist 
Ven.. LXXXII, 1923, i, pp. 83-154. 


184 Storia della lingua italiana 


Il Trecento 185 


avvantaggia la lingua nuova e in certo modo sminuisce l’altra. Ma 
dobbiamo pur ricordare che il volgare assurge ai fastigi con Dante 
preumanista e il Petrarca e il Boccaccio antesignani dell’umanesimo, 
per concludere che soltanto a uo mini che avevano maturato una nuova 
concezione della cultura, nutrendosi con la lingua e il pensiero dei 
classici, è stato possibile dare al volgare una forma altamente artistica 
e un impulso nuovo 2 . 

L’importanza del volgare rispetto al latino 3 aumenta decisamente in 
questo secolo, sia negli usi pratici che in quelli letterari. In ciò l’italia 
non rappresenta affatto un’eccezione in Europa: per citar solo un 
esempio, anche nell’uso della cancelleria imperiale, il tedesco (sporadi- 
camente adoperato già prima) acquista molto terreno sotto Lodovico il 
Bavaro. 

La corrispondenza di carattere pubblico continua in generale in 
latino: la tradizione è assai forte nelle cancellerie, e inoltre i notai che 
vi sono addetti spesso provengono da altre città 4 * * . Quando troviamo atti 
pubblici in volgare, comè la pace tra Firenze e Pisa del 1328 s o i patti 
fra il comune di Ancona e quello di Venezia stipulati nel 1345", 
probabilmente non si tratta dello strumento originale ma di traduzioni 
fatte per darne conoscenza al pubblico. Altre volte si tratta di minute 
precedenti la stesura ufficiale 7 . Ma gli ordini e le istruzioni date dai 
governanti ai propri ufficiali e rappresentanti sono spesso in volgare 8 * . 

L’uso del volgare si estende largamente in questo secolo in tutta là 
legislazione statutaria. È sempre vivo l’uso di leggere in volgare le 
deliberazioni proposte all’approvazione e, dopo, di comunicarle al 
pubblico*. Ma ciò non basta: si sente anche il bisogno che le versioni 
siano messe per iscritto. 

Nel 1302 a Bologna, i capi della compagnia dei muratori domanda- 


2 Il «padre dell’umanesimo», il Petrarca, condusse il «padre della prosa 
italiana», il Boccaccio, «a maturare particolarmente sulla prosa di Livio la 
sintassi e lo stile che egli impose all’ancora novella prosa italiana» (Billanovich, 
Giom. stor., CXXX, 1953, p. 330). 

3 Non è qui il luogo per dire che cosa fosse, prima del trionfo dell’umanesimo, 
il latino comunemente usato nei documenti e nelle scuole: spesso la struttura del 
periodo e il lessico risentono fortemente del volgare. Possono dare un’idea di 
questa latinità alcuni testi come il commento latino ai Documenti d’amore di 
Francesco da Barberino, il trattato di Antonio da Tempo, il commento di 
Benvenuto da Imola, oppure i commentari di Bartolo o di Baldo. 

4 Sulla persistenza del latino nella Cancelleria fiorentina, e sui limiti in cui si 
fa eccezione a questa regola, v. D. Marzi, Lo Cancelleria della Repubblica 
Fiorentina, Rocca S. Casciano 1911, pp. 416-421. 

s Tronci, Annali Pisani, III, p. 138. 

* Migliorini-Folena, Testi Trecento, n. 26. 

7 È questo il caso del testo dei patti proposti dal comune di Montefìore a 
quello di Fermo (1388): Migliorini-Folena, Testi Trecento, n. 58. 

8 Marzi, Cancelleria, cit., pp. 422-423. 

8 Marzi, Cancelleria, cit., p. 417; G. Fatini, Leti, maremmana delle origini, cit-, 

P 89. 


no al capitano, agli anziani e ai consoli della città che una riformazione 
contro le «novità» politiche sia fatta e «scripta e reformà volgare» 
«agò che sia publico et certo a ciaschuno de intendere» 10 . 

. , statuto dell Arte della Seta (o di Por Santa Maria) a Firenze (1335) 
e m latmo, ma la sua ultima rubrica dispone che esso sia tradotto in 
volgare, e che tutti i sindaci leggano il testo volgare 11 . 

Numerosi statuti, sia comunali, sia di singole corporazioni, sono 
volgarizzati appunto in questo secolo. A Siena si fa nel 1309-10 la 
traduzione del Costituto (ed. Lisim, Siena 1903), a Perugia si traducono 
gli statuti cittadini nel 1342 (ed. Degli Azzi, Roma 1913-16), ad Ascoli nel 
1377 (ed. Zdekauer-Sella, Roma 1910), ecc. 

A Firenze lo statuto dell’Arte dei medici, speziali e mereiai, steso in 
latino nel 1314, è volgarizzato nel 1349, ecc. 12 . Nel 1355 si decide di 
tradurre gli Statuti comunali e nel 1356 è dato ufficialmente l’incarico a 
ser Andrea Lancia di volgarizzare entro un anno tutti gli Statuti e 
ordinamenti, facendoli poi legare in un volume e mettendoli a disposi- 
zione del pubblico 13 . 


Si induede, naturalmente, ai traduttori di essere precisi: lo statuto 
dell arte della mercanzia di Siena (1338) prescrive che il testo latino e 
quello volgare «abbiano una medesima sententia, entendimento et 
concordia» (ed. Senigaglia, p. 155). Ma non è escluso che il traduttore 
possa fare qualche correzione formale «con belle e sostanziali parole 
mercantili» 14 . 


Bandi pubblici, elenchi di merci soggette a gabella s’intende che 
siano in volgare. Bartolo, forzando l’interpretazione dei testi giustinia- 
nei allarga i limiti in cui il volgare può essere ammesso nei processi e 
negli atti ls . - 

Sono spesso in volgare anche i testamenti e le petizioni alle 
autorità, a cui devono aver prestato la penna legali «che s’aggirassero 
per le cune in servizio del pubblico» 16 . Lettere e istruzioni della 
Cancelleria di Firenze sono assai spesso in volgare 17 . 

Invece, tra un paio di migliaia di referti medico-legali databili fra il 
1245 e il 1400 che si conoscono a Bologna, uno solo, del 1350 circa è in 
volgare 18 . 

Ottemperano principalmente a necessità pratiche i numerosi volga- 
rizzamenti e le poche compilazioni in volgare di opere di medicina, di 


10 Migliorini-Folena, Testi Trecento, n. 1 . 

là dell’Arte di Por Santa Maria, Firenze 1934, pp. 159-160 

, . , v - elenchi di questi volgarizzamenti in Doren, Die Florentiner Wolientu- 
chmdustne, Stoccarda 1901, II, pp. 770-786. 

13 Marzi, Cancelleria, cit., pp. 418-420, 571 - 572 . 

14 Doren, Le arti fiorentine, Firenze 1940, II, p. 336. 

15 Fiorelli, Le frangale mod., XVIII, 1950, pp. 280-281 

16 Marzi, Cancelleria, cit., p. 418.— 

Appendice di 127 di esse - dal 1311 al 135 °. in Marzi, Cancelleria, cit., 

18 Munster-Folena, in Lingua nostra, XV, 1954, pp. 8-12. 


186 


Storia della lingua italiana 


chirurgia, di agricoltura che troviamo in questo secolo: ricordiamo p. 
es. le versioni da Serapione, Pietro Spano, Guglielmo da Piacenza, Pier 
Crescenzi. 

Nell’uso letterario, il volgare acquista nuovi campi sul latino. Il 
Convivio è conscia affermazione della maturità del volgare per difficili 
trattazioni filosofiche. E quel che Dante aveva detto nel De vulgati 
eloquentia sulla mancanza di cantori delle armi sprona il Boccaccio a 
comporre la Teseida: 

Ma tu, o libro, primo a lor 1= le Musei cantare 
di Marte fai gli affanni sostenuti, 
nel volgar lazio più mai non veduti. 

Q. XII, st. 84). 

Sia il Petrarca che il Boccaccio sono dottrinalmente persuasi della 
maggior «dignità» del latino, pur facendo al volgare la parte che 
sappiamo 18 . 

Il fatto che il Petrarca postilli in latino gli autografi delle Rime Ihic 
non placet; die aliter, hoc placet quia sonantior, ecc.), o che dia titoli 
latini ai Trionfi mostra che la sua lingua scritta usuale era il latino, 
mentre il volgare era una lingua di cui in particolari condizioni ci si 
poteva servire per esperimenti di poesia. Ma è fatto tutt’altro che 
isolato: si pensi al commento latino di cui Francesco da Barberino 
munisce i suoi Documenti d’amore ; anche Graziolo dei Bambagliuoli 
scrive in versi il suo Trattato sopra le virtù morali e l’accompagna con 
un commento latino; troviamo sacre rappresentazioni con didascalie 
latine 20 , e i titoli del Saporetto del Prodenzani (Mundus placidus , ecc.) 
sono in latino. E ie intestazioni, le date, e talora anche le firme di 
lettere in volgare sono latine. 

Continuano i volgarizzamenti di opere latine, come il Boezio di 
Alberto della Piagentina, le Metamorfosi del Simintendi, YEneide 
dell’Ugurgieri, e, più importante, la versione della Terza e della Quarta 
Deca di Livio, compiuta dal Boccaccio su un testo allestito dal 
Petrarca 21 . Attraverso l’esperienza tecnica dei traduttori «si viene 
elaborando una speciale prosa che contrae molta lega di lingua latina 
(soprattutto riguardo al lessico), è schifìltosamente aliena dal volgare^ 
comune e mostra segni ben marcati di eleganza-, prosa modellata sul 
latino e destinata, perché trova un ambiente propizio, a conseguire ed 


18 Ma la tanto discussa espressione nugellae vulgares adoperata dal Petrarca 
per le sue liriche non è spregiativa, ma ima reminiscenza oraziana: egli chiama 
nugae anche le lettere latine «che non hanno dignità e aspetto di libri» (V. Rossi, 
in Dante e l'Italia, Roma 1921, p. 317 n.l. 

20 De Bartholomaeis, Laude drammatiche e rappresentazioni sacre, I e II. 
passim. 

21 V. la citata raccolta di Volgarizzamenti del Due e Trecento a cura di C. 
Segre. 


Il Trecento 


187 


educativo»^ d0minio anche P er certo suo ufficio correttivo ed 

duX n L T&r ° aUt ° ri Che scrivono una stessa opera in tutte e 

B^olomeo da San Concordio scrive De documenta 
r ? ? traduce i opera col titolo di Ammaestramenti degli 

dottrina H® Q C ^ 1S + tofor ° Gmdau traduce in latino il Libro della divina 
dottrina di S. Caterina, perche «el dicto libro era ed è per volgare e chi 
n a ' a grammatica o la scienza non legge tanto volentieri le cose che 
sono per volgare, quanto fa quelle per lettera». 

Tutto l’insegnamento si fa di regola in latino. Tuttavia i maestri 
Dame 0 Sconco ^ v ° lgare c ° m ? tramite, come sappiamo anche da 
SvioTxm 5) " e tln0 ' COn 8SS ° ^ fU mostr ‘“o.: 

npl m*! q t^L l i lSe . gnament ° elementare pratico: per esempio, a Firenze 
PP maestro s impegna a insegnare a un ragazzo «ita et taliter 
^P d r sciat ," tfgere et senbere omnes licteras et rationes et qùod... sit 
suiiiciens ad standum in apotecis artificis» 23 . 

1 ’ r<t ^ lle condizk)ni senesi della seconda metà del Trecento 

d re i Gia P' ì l in0: pochi mesi sparò il parlare franciescho et 

2 parlare latino cioè toscano, e stette alla scuola per tempo di 
da a ^” i a et l f m P arò a legiere et a scrivare merchatantescho senza 
gramaticha et poi imparò 1 albacho, cioè a ragionare» (p. 23 Maccari) 
Viiw antl ii fOSSer ° queUi che studiavano, ce lo dice per Firenze ii 
y dla “- nel ! e su ® P a & me statistiche per il 1338: «i garzoni che stavano 
ad apprendere 1 abbaco e algorismo in sei scuole, da mille in mille e 
anhne 1140 * CY ° n '’ XI ’ C&P ' 113) ’ su una Popolazione di circa ottantamila 

2^f he v V ° lta Codiavano anche le donne: Bernabò Lomellini loda 

Zmevra 01 saper meglio «leggere e scrivere e fare una 
ragione che se un mercante fosse» (Bocc., Dee., II, 9, 10). La Margherita 

n w™’ m og lie dal 1376 di Francesco Datini, nel 1396 stava imparando 
n ?fft r tr- e Q S ^ nVe ^ s T otto la guida di ser Lapo Mazzei (Mazzei, Lettere, I, 
* 15 j- G uasti). I piu conservatori non apprezzavano molto che le 

IpS. S? SSe M' 4 ? è fanciulla femina, polla a cuscire, e none a 
n/STa ’ no P lsta troppo bene a una femina sapere legiere, se già 
non la volessi fare monaca» (Paolo da Certaldo, n. 155 ). 8 

5 . Conoscenza di altre lingue 

, n *°£ V ± è la 1 conoscenza della lingua e della letteratura francese, 
speciaimente nella prima metà del secolo. Le frequenti relazioni con ì 
?r. erOS1 mercanti e cambiatori stabiliti in Francia, i contatti con la 
corte avignonese, 1 influenza della moda e dei costumi francesi alla 


22 Schiaffìni, Tradizione, pp. 191-192. 

23 Contratto citato da Debenedetti, in Studi mediev., II, 1907, p. 346. 


188 


Storia della lingua italiana 


corte di Roberto d’Angiò e ancora ai tempi di Giovanna I sono 1 fattori 

PÌ<1 L ‘S’o?e“emko del francese da parte di Italiani è vivo, ael UjltaUa 
settentrionale (Hustichello che scrive la natrazionc di Marco Polo, e 
ancora nel 1379 Raffaele Marmora inizia lAquiton de Bavière) e 
influenze di opere francesi si avvertono non di rado (p. es. 

Va ^canto e oUav?dei e iV libro della Leandreide è messo dall’autore m 

bocca al trovatore Amaut de Marueilh e scritto Affettavano 1 ie loro 
Qnplli che tornavano di Francia arricchiti e affettavano le loro 

conoscenze della lingua erano satireggiati dall’Angiolien in personali 
Neri pfiohno (son. «Quando Ner Piccolin tornò di Francia»), il quale 
Secala «Mala mescionza - possa venire a tutti i miei vicini». E 
contro Taccone, giostratore e vantatore, il Sacchetti scriveva 1 versi 
volutamente francesizzanti «la roccia imbroccia e' ncontro a Bacc o- 
ne - «scontra le roi e Ciarlon imperierei (p. 224 Chiaro. J . 

Verso la fine del secolo. Benvenuto da Imola, echeg^ando m tono 
minore le rampogne dantesche del Convivio, protestava contro ì 
gallicheggianti defSio tempo: «Unde multum miror et mdignor animo, 
auando video italicos et praecipue nobiles, qui conantur unitari 
vestigia eorum et discunt linguam gallicam, asserentes quod nulla est 
pulchrior lingua gallica; quod nesciovidere;nam ^gua^mcaest 
bastarda linguae latinae, sicut expenentia docet» ( Comentum , il, p. 

409 ìl Petrarca, inviato nel 1361 dal Visconti al re di Francia, si scusava 
di parlar latino anziché francese: «linguam gallicam nec scio nec facile 

P0S nSÌ molto noto era il tedesco. Il catalano seguiva l’influenza 
aragonese in Sicilia e in Sardegna. Federico III 
Sicma favoriva il volgare siciliano, scriveva delle » 

provenzale di colorito catalano. In Sardegnagiànel lgT si pubblica 
in catalano i decreti del governatore ( veguerì diretti ai iunzionan . 
Nel 1372 la popolazione sarda fu espulsa da Alghero e sostituita da una 

CC>1 La Ca^bria e Messina erano centri notevoli di cultura greca. Nella 
penisola, il preumanesimo e poi l’umanesimo portano con sé lo stimolo 
a una piena conoscenza del greco: è nota la parte che vi ^bero jl n 
Roberto (con i traduttori da lui favoriti), il Petrarca, il Boccaccio. Il 
prim<Tinsegnamento del greco a Firenze quello di 
fi 1360), ebbe carattere orale; solo alla fine del secolo (1397) sar 
stabilita una cattedra per fi Crisolora. 


289 t, 9 £t l. Wagner, La lingua sarda , Berna 1951, p. 13. 


Il Trecento 


189 


6. Il volgare in Toscana 

In Toscana, l’uso del volgare ai fini pratici è già dal secolo 
precedente più ampio che altrove. Ma quel che più ci preme è fi vedere 
come esso assurga ai più alti fastigi nell’uso letterario. La Vita nuova 
può essere considerata come l’inizio di quel periodo in cui Firenze 
viene a occupare ima posizione di indiscusso primato nella letteratura. 
Su un terreno molto fertile, per un’innata tendenza e una ormai lunga 
educazione al bello scrivere e a ima dizione gradevole 29 , allignano i tre 
grandi scrittori, e raggiungono un’eccellenza stilistica quale non s’era 
più vista dall’antichità in poi. La vena andrà poi a inaridirsi negli 
ultimi decenni del secolo, per fi predominare dell’umanesimo latineg- 
giante. 

Insieme con la Commedia, va ricordata la lirica, ché a questa e a 
quella anzitutto mirerà Limitazione stilistica e linguistica: ed è cosa 
risaputa che nell’unificazione linguistica italiana la poesia precede la 
prosa. 

La lirica stilnovistica, con la sua aristocratica concezione della vita 
e della poesia, scade molto presto a una meccanica ripetizione di 
luoghi comuni. Ma il Petrarca, pur ricollegandosi strettamente ad essa, 
crea nuovi temi e nuove forme. 

Scarso sforzo d’arte troviamo nei cantari storici e cavallereschi, ma 
una nobilitazione degli schemi di essi si ha nelle opere poetiche del 
Boccaccio. La poesia realistica continua la corrente già iniziata nel 
Duecento, e va cogliendo nell’uso popolare un idioma variopinto ed 
energico, talora stilizzandolo per diletto 27 . 

Voci di poeti minori si levano da tutta quanta la Toscana: da Lucca 
(Pietro Faitinelli), da Siena (Folgore da S. Gimignano, Bindo Bollichi, 
Simone Serdini, fiero nemico di Firenze e grande a mmir atore di Dante, 
e parecchi altri), da Arezzo (Cenne della Chitarra, Giovanni de’ Boni). 

Nella prosa, i testi dottrinali (p. es. Dante, Convivio-, Sacchetti, 
Esposizioni) mostrano ima forte influenza erudita nelle divisioni e nelle 
articolazioni di tipo scolastico, le quali non sono ignote ai mistici (santa 
Caterina, san Giovanni delle Celle). 

Gli storici e i narratori di viaggi in parte si ricollegano alla 
tradizione cronistica, in parte ai novellatori borghesi (si ricordi anzitut- 
to fi Sacchetti, ma anche, nelle parti narrative, fi Passavanti, i quali 
continuano fi filone del Novellino ). 


36 Si ricordino le raccomandazioni di Paolo da Certaldo a chi è mandato come 
ambasciatore: «che tu parli e dichi le tue parole con nuovi vocaboli e intendevoli 
però che molto se ne diletta la gente» (Libro , n. 275). 

27 Specialmente le frottole, che riproducono «verba rusticorum et aliarum 
personarum, nullam perfectam sententiam continentia» (Antonio da Tempo, p. 
153 Grion), mostrano in Toscana una curiosità per voci popolaresche e in qualche 
modo bizzarre (come la frottola del Sacchetti su «La lingua nova - che altrove non 
si trova»), mentre altrove le frottole s’infarciscono di parole dialettali. V. il cit. voL 
di M. Marti, Cultura e stile nei poeti giocosi del tempo di Dante, Pisa 1953. 


190 


Storia della lingua italiana 


Le esperienze tecniche compiute negli ultimi decenni del Duecento 
e nei primi del Trecento nell’arte del periodo, grazie all’opera dei 
volgarizzatori più che alle teorie dei trattatisti, hanno ormai creato imo 
strumento duttile e pronto per quell’artista che sappia valersene. Si ha 
un’idea delle sempre crescenti esigenze artistiche da quel passo in cui 
Filippo Villani dice che suo padre Matteo «usò lo stile che a lui fu 
possibile, apparecchiando materia a più dilicati ingegni d’usare più 
felice e più alto stile» (Proemio). 

7. Petrarca 

Ciò che conta del Petrarca in una storia della lingua italiana è solo 
la sua lirica; di prosa italiana non abbiamo nulla (non contano le poche 
righe di una lettera a Leonardo Beccanugi); lontana e indiretta è 
l’importanza delle sue opere latine 28 . 

L’esercizio stilistico del Petrarca muove dagli stilnovisti, special- 
mente da Cino; di Dante contano soprattutto le rime petrose; la 
Commedia influisce specialmente sui Trionfi, e più per la prepotente 
grandezza di Dante che per il consenso del riluttante e non congeniale 
Petrarca. 

Contano i trovatori; ma molto più le costanti letture di classici, con 
un canone diverso e molto più ampio di quello medievale, che 
testimonia uno spirito nuovo e più maturo. Attraversò ima lunga e 
paziente elaborazione il poeta raggiunge una squisita e decorosa 
eleganza, ima musica verb^’e temperata e canora. 

Egli definiva il lavoro ch>_ ^tava facendo nello scrivere il De remediis 
«doppio - tra lo stil de’ moderni e ’l sermon prisco» (son. 40), lo sforzo di 
contemperare lo stile degli scolastici e quello ciceroniano. Anche più 
difficile è il lavoro per la lirica italiana: base è la sua toscanità già 
composita, a cui si sovrappongono ricordi della tradizione poetica 
anteriore, dai Siciliani agli Stilnovisti, e dell’autorità latina. Così egli si 
ritiene libero di usare propio, anche in rima, e proprio, tesoro e tesauro, 
■me e -mi, -se e -si enclitici; proverai ma lassarà (28, 36); libero soprattutto 
egli si ritiene nell’usare il monottongo o il dittongo dove il fiorentino 


28 Per la lingua del Petrarca è prezioso il confronto fra gli abbozzi conservati 
nel cod. Vat. Lat. 3196 (facsimile, Roma 1941; ed. diplomatica Appel, Halle 1891; M. 
Pelaez, in Bull. Arch. Paleogr. Ital., II, 1910, pp. 163 216; A. Romanò, Il codice degli 
abbozzi (.Vat. Lat. 3196 ) di F. Petrarca, Roma 1955) e la redazione definitiva e in 
parte autografa del Cod. Vat. Lat. 3195 (facsimile, Milano 1905; ed. diplomatica 
Modigliani, Roma 1904). 

Si veda: F. Giannuzzi Savelli, «Arcaismi nelle Rime del Petrarca», in St. fil. 
rom.. Vili, 1899, pp. 89-124; F. Ewald, Die Schreibweise in der autographischen 
Handschrift des Canzoniere Petrarcas, Halle 1907; A. Schiaffimi, in It. dial., V, pp. 
140-143; Id., in Cult, neol.. Ili, pp. 149-156; Id., in Momenti di storia della lingua it., 2„ 
ed., cap. Ili; G. Contini, Saggio di un commento alle correzioni del Petrarca volgare, 
Firenze 1943; Id., pref. all’edizione Tallone, Parigi 1949; Id., «La lingua del 
Petrarca», nel volume sul Trecento della Libera Cattedra, Firenze 1953, pp. 93-120. 


Il Trecento 


191 


a e UO ‘ X , n nma S1 trova P iù spesso il monottongo; ma che 
•a J. aSC XT^ mdar u ® 0 ^ tant0 dall’orecchio si vede da casi come questi: 
abbiamo «Ne per bei baschi allegre fere e snelle» (312, 4) ma «Nè fiere 

si selvagge» (288, 13): 19 volte fera (o fere), di contro a 5 
fiera (o fiere) secondo la concordanza del McKenzie; abbiamo persino 
” ell °f* esso verso «Ché bono a buono à naturai desio» (Tr. Fama 1 

^ * mutamenti di pie’ in pe\ di dover in dever, di begli occhi in belli 
Hf^n mOStran ° lo ^ discostarsi dall’uso parlato per nobilitare la 
fonie? arcaizzando lievemente. Le forme latineggianti del tipo di 
fenestra curto, condutto (prima aveva scritto condotto), consecrare sono 

w!™ 6 i a ° ra vanno al - ^ là del lecito = se è ammissibile un 
tmpio nell interno del verso, non si può dire altrettanto di un impie (83 

8) in runa con tempie, empie, scempie (si può solo notare che è di mano 
del copista, non del P.). 

, ^® da morfologia, il Petrarca accetta i due tipi di condizionale in -ia 
ed -ei, mentre del terzo tipo (dal piucchepperfetto) ha il solo fora 
Ilarissimi ì participi senza suffisso (avrìa stanco, 218, 4). 

Nel lessico, quello che più colpisce è la voluta limitatezza: esso è 
H?u a US ? m ul L gir ?- dÌ “evitabili oggetti eterni, sottratti alla mutabilità 
d ®? a v f*i°" a * Montini, «La lingua...», cit., p. li). Non appaiono quasi mai 
vocaboh caratteristici, rari, fortemente espressivi: quei rarissimi che si 
possono citare appaiono in poesie di corrispondenza, dove il Petrarca 
schivare le rime difficili (Etiopia, inopia, sfavillo, stillo, nella 
3^. a Stramazzo da Perugia, 24), oppure in serie binomie o 
polinomie «appole e stecchi, 166, 8), in antitesi («Oh poco mel, molto aloè 
con fele», 360, 24), m imprecazioni 30 . 

Oltre alla patina latineggiante che domina l’ortografia e la scelta 
vyn^ntL sono m numero notevole (anzi crescente dalle Rime ai 
I nonfi) ì latinismi, sia lessicali (p. es. ivemale, sorore), sia sintattici (p. 
es. credere nel significato di «fidarsi» o «obbedire»,- l’accusativo alla 
greca; 1 ordine delle parole). 

I provenzalismi non vanno al di là di quelli che la tradizione poetica 
già aveva consacrati (del tipo di augello, despitto, dolzore, frale, savere 
sogiio con il significato di «solevo», ecc.); anzi il poeta evita quelle 
P^ole in -anza di cui era stato fatto tanto abuso 

Potrebbe far meraviglia il trovare nel Petrarca un francesismo non 
adoperato prima di lui, retentire Un su’l dì fanno retentir le valli 219 2) 
se il valore onomatopeico della parola non la giustificasse 31 . 

bono pochissime le parole presumibilmente coniate dal Petrarca 
stesso: disacerbare, inalbare. 


lunga serie di doppioni si può vedere nell’Ewald, o in M. Vitale Poeti 
della pnma scuola, cit., pp. 95-96. 

30 Contini, «La lingua...», cit., pp. 18-20. 

sn-and?a^fo > n a ^ li ^[ are nel senso * «liberare» («Ben venne a dilivrarmi un 
grande amico», 81, 5), esso era comune in prosa sotto la forma diliverare. 


192 Storia della lingua italiana 

Invece è ricca la serie delle espressioni figurate, che solo in parte il 
Petrarca attingeva dai suoi modelli: foco, fiamme, sole, tesoro, fenice per 
«persona amata», liquido cristallo per «acqua», rai per «occhi», 
amorosi vermi, amorose vespe per «passione amorosa» ecc.: se alcune ci 
sembrano banali, ciò è dovuto all’abuso che i petrarchisti ne hanno 
fatto nei secoli seguenti 

Contribuiscono a volta a volta all’armonia e all’eleganza dell’e- 
spressione le antitesi, i parallelismi, le accumulazioni pohsindetiche o 
asindetiche IFior, frondi, erbe, ombre, antri, onde, aure soavi, 303, 5; Non 
Tesin, Po, Varo, Amo, Adige e Tebro, ecc. 148), gli adìnati e tutti gli altri 
stilemi con cui più tardi gli imitatori credettero di fare poesia. 

8. Boccaccio 

Anche fra gli scritti del Boccaccio la posterità operò una potatura 
severa. Poco contarono nella codificazione cinquecentesca della lingua 
le opere giovanili {Filocolo, Filostrato, Ameto, Teseida, Fiammetta, 
Ninfale ), moltissimo il Decamerone. 

Quanto alle grandi compilazioni filologiche in latino, esse ebbero 
ima loro fortuna erudita nell’età umanistica, del tutto scissa dalla 
fortuna del Centonovelle. 

Nelle opere min ori in volgare troviamo già i segni assai chiari della 
sua personalità. «Lo spirito del Boccaccio fu venato di alessandrinismo 
fin dalla nascita, e l’amore del peregrino, del lussuoso, del complicato, 
del sovrabbondante si mescolava in lui in indissolubile unione col più 
puro e schietto realismo, minacciando sempre di trionfare. Sulla sua 
nuova anima borghese-mercantile di fiorentino un’altra misteriosa- 
mente se ne accendeva, di un Ovidio-Apuleio» 32 . 

Si compenetrano variamente nelle esperienze giovanili tentate per 
numerose vie, prosa e versi (terzine, ottave, ballate, sonetti), i due filoni 
dell’arte del Boccaccio: lo schietto realismo, che si manifesta nella 
narrazione rapida e qualche volta anche trascurata, e l’amore di 
ornamenti fastosi, quali potevano piacere al giovane che viveva in 
margine della brillante e voluttuosa corte angioina. 

Predominano nel Filocolo i colori attinti ad Ovidio, ad Apuleio, alla 
prosa studiosamente adorna di vezzi retorici dei volgarizzatori di 
classici, cosicché il romanzo manifesta una esuberante «oltranza 
stilistica» 33 . 

Ma dopo i nuovi esperimenti seguiti al ritorno in Firenze, viene la 
stagione del capolavoro. Lo scrittore ha esteso il proprio uditorio ideale 


32 Parodi, «La cultura e lo stile del Boccaccio», in Poeti antichi e moderni, 
Firenze 1923, p. 161. 

33 Schiaffini, Tradizione (i due ultimi capitoli). Sull’importanza del volgarizza- 
mento di Livio nel tirocinio letterario del Boccaccio, v. Billanovich, Giom. stor., 
CXXX, 1953, pp. 311-337. 


Il Trecento 


193 


SlS’/fSHSaTSl 

mondo mtSe?Srche d do^u n antìdtha ^freschi 01 ^ qSì 

l’autunno, ma che le geSzfonfS^on» t P ® Ste volgeva verso 

aperto verso l’Europf e verso h a ^ evano conosciuto 

tensione ideale li giustificarsi amfrnnf^l appaioao solo quando una 
(Vili, 2)Tc^ alla Belcolore 

dominata dall’aspirazione a un canrmo £? orn -l> la scelta è 
del tipo mógliema si trovano SlSIn hoc? n ? bUe regolarità - Costrutti 

par n leSc° re i 1 ? dizl0 che ormai SrX^plSeo^ 110 

giovaìhS* Talnrn C n ^ 5 iù deUa fastosa ricchezza delle opere 

parole della mogh^del^^Sscalc 00 ! 31 d f 1 pers °^. aggi (si pensi a]le 
«dare», giuliva, bilia eccJ- Scredi f^fè d ° nare 

prenze; i Veneziani sono chiamati due volte hV 2 VT i h/u ? 

SS va a n^ er ° m d* (VOCe * scheLTuL^^ 


aUa'sua edifln“deTSSon P r^ * De ??™ rone si divulgherà (Branca, Pref. 
passim). ’ XLVI11 ’ Id., Boccaccio medievale, Firenze 1956, 

p. iTo Per SÌng0lÌ fen ° menJ ’ U Castellani fa qualche riserva: vedi p. es. Muovi testi, 

arcaismi che if BoccaccU^sf nprm?u a . speci alissimo motivo i francesismi o gli 
dell' Ameto, il plusori della Teseida ■ ^temen ^' 1 rivaegio del Ninfale, il vengiare 

giornata: .che di bitta, <?afdjr, neUa ConcIusione della li 


194 Storia della lingua italiana 

Boccaccio narra che adopera « sapone moscoleato »; e così via. Lucertola 
verminara Gl, 10, 6) «geco» è un termine che il Boccaccio dovè 
apprendere a Napoli; ed è probabile che il meridionalismo menne 
«mammelle» («le fredde menne », «le ritonde menne». Filocolo, p. 361, 
411 Battaglia) sia dovuto piuttosto a ragioni biografiche (soggiorno a 
Napoli) che stilistiche (ricordo di poeti della scuola siciliana) (cfr. p. 197 
n.); si ricordi anche il ciancioso delibimelo. 

Più ancora che nelle scelte lessicali, il gusto boccaccesco appare 
nella sintassi, p. es. nell’uso dei participi e dei gerundi 38 o nella 
collocazione del verbo: il verbo _alla fine della proposizione (che nel 
Cinquecento diventerà uno degli ingredienti dell’imitazione boccacce- 
sca) alle volte è semplicemente un relitto di usi retorici, alle volte è 
usato dal Boccaccio, consciamente o inconsciamente, per ottenere un 
effetto sintetico: passare rapidamente sul resto per giungere all’atteso 
verbo finale. 


9. Culto delle tre corone 

Il diffondersi del poema sacro suscita un’ammirazione sconfinata, 
che subito dà origine a imitazioni. I miseri poemi che ne nascono 
meritano appena menzione nelle storie letterarie; ma nella metrica 
prende stabile piede la terza rima-, e nella lingua l’influenza dantesca è 
sensibilissima: sia perché l’ammirazione del capolavoro porta all’accet- 
tazione della lingua in cui è scritto (si pensi al verseggiatore veneziano 
Giovarmi Quirini, in cui una leggiera patina dialettale appena copre 
l’accettata toscanità), sia perché le reminiscenze di locuzioni e di 
pàrole dantesche pullulano, nei maggiori e nei minori, in poesia ed in 
prosa. Il poema si diffonde in copie numerosissime; i commenti si 
moltiplicano; se ne fanno pubbliche letture in Toscana e fuori (a Siena 
lo legge un maestro di Spoleto forse già prima del 1360; a Firenze il 
Boccaccio; a Bologna, a Ferrara, a Verona, a Milano altri maestri). Nel 
1379, a Perugia, l’opera dantesca è presa addirittura con valore 
antonomastico: «livero de Dante o simiglie» è un articolo della Gabella 
di quell’anno 39 . 

. Nel riluttante Petrarca ritroviamo «il bel paese» (146, 13); «O Padre 
nostro che nei cieli stai» IPurg ., XI, v. 1) è echeggiato da «Signor che’n 
cielo stassi» (Trionfo della Morte, I, v. 70>, «l’ombra tutta in sé romita», 
dell’episodio di Sordello riappare nel verso «con tutte sue virtuti in sé 
romito» ( Tr . della Morte, I, v. 152), ecc. Ma nelle opere del Boccaccio, 


38 V. per es., sui gerundi «indipendenti», molto largamente usati dal Boccac- 
cio, G. Herczeg, Lingua nostra, X, 1949, pp. 30-41. 

38 Migliorini-Folena, Testi Trecento, n. 49. Del resto in un inventario siciliano 
del 1367 si trova «librimi unum dictumn lu Dante, quod dicitur de Inferno», e «la 
figura retorica sta a indicare un’opera universalmente conosciuta» (G. Santange- 
lo. Lineamenti di storia della letteratura in Sicilia, Palermo 1952, p. 25). 


Il Trecento 


195 


r CUlt ° di t Dante - troviamo reminiscenze frequentissime 

allaco^SÒnp n H^f n n t0n & ° gni PÌè sos P iat °’ S ià nel’500 i Deputati 
dl • D f c 1 a ™ erone avevano osservato (Annotazione 
"frr: ^ 0lt la ?. uz . 1 °? 1 d el Centonovelle attinte alla Commedia E non 
se 01 ^ n “° Va ha f0rt ~ improntato^ 

' efla^ «selva* oscura »* si 

trovano nel Pucci (Mere. Vecchio, v. 205; Brito di Bretagna, v. 49); e così 

TV1 ^l°?° do 1x1 cui Daate adopera due volte la parola lai (lnf V Pure 
JSJf dà 1111 nuovo valore (non più «poesia per musica», ma «lamenS 
a + 6 *’ ^ commentatori e poeti l’adoperano in questo senso (eià 
^d infìni da ^!? ara ’ nel Cred ° P seud °dantesco, ha «con pianti e strida 

, i a PP en a si divulgano la conoscenza del Petrarca lirico e duella 

ri?I^f ame T e ’ la - fema associa i tre «attori nell'amSSone Sono 
diversi qua-nto mai: eppure sono accomunati dalla strenua passione 
per la forma. Finalmente il pubblico ha a sua disposizione ^ Ve 
scntton, i quali possono servire a quello stesso scopo a cm il nafceSte 
umanesuno fa servire i maggiori latini: essi diventano aJìon che 

stilistico y^Jn^aticale.^ 8 ^* 1 ’ anChe considerati c °™ modello 

n^el < ? u J t< ? P er n Petrarca e per il Boccaccio, come già in quello di 
letten ? n venetl Sono all’avanguardia: è significativo che 
gH Lo™t°i r? da 16 masse da ^ ella stessa regione in cui 

Sedevo ^io avevan ° dat ° “ ™ p» 

VeneriJlS Aranà V e UltÌmÌ anni della sua ** a Padova, a 

avevano scattato S “ 1 m H Glovanni Doad i e Francesco di Vannozzo 
Frnneec^n, b ^ * c °rrispondenza. n sonetto XXVIII di 

si SSToSwSS ™JS amente dl/osse Wasce »> »<“ ***> 

e la vermiglia gonna 
partia col bianco (in megio era oro fino) 
la palma letto e ’l bel braccio colonna. 

non L £S?o 10 e n a ? 1 !^f rCheSCa porta n verseggiatore a dire braccio e 
non arazzo, e a ipertoscanizzare mezzo in megio. 


volgarizzatori (Andrea Lancia, ecc.). ’ PP ' 6 abbondano nei 

pp. wllS**’ ,La V ° Ce lUÌ nei tGStÌ itaUan i». in Atti Acc. Se. Torino, LXXII, 1936-37, 


196 


Storia della lingua italiana 


Il Trecento 


197 


L’influenza del Boccaccio è riconoscibile nella cronaca dei padovani 
Gatari, la quale già verso il 1372 palesa la conoscenza del Decamerone 
e del Corbaccio. 

10. Preminenza di Firenze in Toscana e della Toscana in Italia 

L’aver avuto scrittori eccellenti conferisce anche all’idioma in cui 
essi hanno scritto un titolo di preminenza? È cosa che si potrebbe 
discutere, ma che da molti secoli in Italia è tacitamente accolta come 
assioma (cfr. la dantesca «gloria della lingua », che allude a gloria 
letteraria). La coscienza di una posizione preminente, dovuta alle opere 
letterarie dei suoi figli, già suscitava orgoglio in Firenze e in generale 
in Toscana 42 alla fine del Duecento e al principio del Trecento, 
provocando l’irritazione di Dante, che nel De vulgari eloquentia 
giudicava usurpata la fama di più d’uno 43 . 

Un’implicita ombra di vanto par di sentire nelle ripetute affermazio- 
ni del Boccaccio riferite a sé stesso 44 e a Dante 4S . 

Sulla misura della fiorentinità del Petrarca si può discutere (noi 
accettiamo la formula del Contini «fiorentinità trascendentale»), ma 
che egli si considerasse pertinente a Firenze, è certo: si pensi, tra 
l’altro, al sonetto in cui dice che se avesse atteso in solitudine alla sola 
poesia, Firenze avrebbe il suo poeta: 

S’io fossi stato fermo a la spelunca 
là dove Apollo diventò profeta, 

Fiorenza avria forse oggi il suo poeta 


42 I limiti della Toscana sono nettissimi dove sono segnati dal mare e 

dall’ Appennino, incerti a sud-est e a sud. Perugia è esclusa da Dante, che 
riconosce il suo dialetto come appartenente ai dialetti mediani («propter adfimta- 
tem quam cum Romanis et Spoletanis habent»; De vulg. el., I, xud; ma la Signoria 
di Firenze, dando istruzioni a un ambasciatore presso il papa, considera Perugia 
in Toscana (Marzi, Cancelleria, càt., p. 698). La «Nota di tucti li maestri, di 
gramatica che sono in Toscana», che è del 1360 (ed. O. Bacci, Castelfiorentino 
1895) include maestri di Todi, Orvieto, Amelia, Rieti. . , 

43 «Post haee veniamus ad Tuscos, qui propter amentiam suam introniti, 
titulum sibi vulgaris illustris arrogare videntur...», e tutto il cap. xni del libro I del 


trattato. , _ . , , , , 

44 «In leggier rima e nel mio fiorentino idioma» (Proemio del mostrata); «le 
presenti novellette... le quali non sono solamente in fìorentin volgare ed in prosa- 
ma ancora in istilo umilissimo, e rimesso»-. Dee., Intr. g. IV, 3 (con polemica 

modestia). . 

45 «per costui la chiarezza del fiorentino idioma è dimostrata». Vita di Dante, 
ed. Macrì- Leone, p. 11; «Movono molti., una quistione così fatta... perch é a 
comporre così grande... libro... nel fiorentino idioma si disponesse», ivi, p. 71;. cfr. 
«Fiorentino ydiomate» nella Crenologia, 1. XV, c. 6. Così dice composto il Convivio 
in «fiorentino volgare» (Vita, ed. Macrì, p. 74). Per questa ragione egli volle anche 
comporre la Vita «nel nostro fiorentino idioma» (Macrì, p. 7). Cfr. Rajna, Bull. Soc. 
Dant., XIII, p. 8. 


non pur Verona e Mantoa et Arunca. 

(son. 166) 48 . 

Coscienza delle qualità del fiorentino mostra anche il Proemio dello 
Specchio di vera penitenza del Passavanti (1354): «mi pregarono che 
quelle cose... che io per molti anni... aveva volgarmente predicato al 
popolo... le riducessi a certo ordine per iscrittura volgare, sì come nella 
nostra fiorentina lingua volgarmente l’avea predicate» (p. 6 Polidori). 

I Fiorentini sembrano particolarmente sensibili alle differenze degli 
altri dialetti: si ricordino le frasi dialettali che erano spiaciute a Dante 
e che egli ricorda nel De vulgari eloquentia, o le parole dialettali 
attribuite dal Boccaccio 47 e dal Sacchetti 48 a personaggi delle loro 
novelle. 

I biasimi dati dal Passavanti 48 con quasi uguale severità a tutti i 
volgarizzatori delle Sacre Scritture, non esclusi i Fiorentini, non vanno 
intesi come un confronto generale tra i diversi dialetti o le diverse 
pronunzie d’Italia, ma vogliono richiamare l’attenzione sui pericoli vari 
che corre la parola di Dio nelle mani degli ignoranti 50 . 

Un Toscano contemporaneo di Dante, vissuto parecchi anni fuori 
dalla regione natia, Francesco da Barberino, nel Proemio al Reggimen- 
to e costumi di donna, attribuiva la palma al suo proprio volgare, pur 
consentendo che qualche parola, purché bella e atta ad armonizzarsi 
col resto, si potesse prendere da altre parlate-, 

E parlerai sol nel volgar toscano 


46 La parola poeta vuol dire in questa età essenzialmente (ma non esclusiva- 
mente: basti ricordare Par., XXV, v. 8) «poeta in latino», e a Catullo, Virgilio e 
Lucilio allude il verso seguente-, ma come la spelunca è insieme Delfi e Vaichiusa, 
così forse poeta non è solo «poeta in latino». Lo stesso possiamo dire per le parole 
con cui il vescovo Giacomo Colonna salutava la laurea capitolina del Petrarca, 
«del novo e degno fìorentin poeta ». 

47 La Lisetta veneziana parla di «mio marido» (TV, 2), Chichibio canta a 
Brunetta «voi non l’avrì da mi (VI, 4), Jancofiore dice a Salabaetto «tu m’hai miso 
lo foco nell’arma, toscano acanino» (Vili, 10), Tingoccio e il Fortarrigo senesi 
adoperano costetto per cotesto (VII, 10; IX, 4), ecc. Del resto si ricordi la lettera in 
cui il Boccaccio nel 1339 metteva scherzosamente per iscritto il dialetto napoleta- 
no, narrando a Franceschino de’ Bardi il parto di Machinta amante di France- 
schino e le visite e i regali che ebbe (ed. F. Nicolini, in Arch. stor. ital., s. 7 a , II, 1924, 
pp. 5-102). 

48 Uno spoglio (ma non completo) ne ha dato E. Mozzati, Rend. Ist. Lomb., 
Lett., LXXXV, 1952. La vivace curiosità linguistica del Sacchetti è anche dimostra- 
ta dalla nota frottola, in cui egli accumula parole contadinesche, parole di altri 
luoghi della Toscana, diminutivi, parole espressive (cfr. F. Ageno, St. fìl. ital., X, 
1952, pp. 413 454). 

49 Lo specchio della vera penitenza. Trattato della scienza, p. 288 Polidori. 

50 II passo fu interpretato a suo modo dal Perticari nella Proposta del Monti Q, 
Milano 1817, p. 44; II, ii, Milano 1820, p. 404), ridiscusso dal Galvani (Sulla verità, 
delle dottrine perticariane, Milano 1845, pp. 299-307): v. G. Getto, I. Passavanti, 
Milano 1943, pp. 16-17. 


198 


Storia della lingua italiana 


Il Trecento 


199 




e porrai mescidare alcun volgari, 
consonanti con esso, 
di que’ paesi dov’ài più usato, 
pigliando i belli, e’ non belli lasciando... 

Il padovano Antonio da Tempo, nel 1332, concludendo la sua 
S umma artis rithimicae, proclamava il primato del toscano: «Lingua 
iusca magis apta est ad literam sive literaturam quam aliae linguae, et 
ideo magis est communis et intelligibilis» (p. 174 Grion), soggiungendo 
;uttavia: «non tamen propter hoc negatur quin et aliis linguis sive 
idiomatibus aut prolationibus uti possimus». 

Più tardi. Benvenuto da Imola, nel suo commento a Dante, afferma 
3 enza esitazione: «Nullum loqui est pulcrius aut proprius in Italia 
quam Florentinum» (.Comentum, I, p. 336 Lacaita} 51 . 

Il veronese Gidino da Sommacampagna trattando di sonetti bilin- 
gui e trilingui parla di «lingua volgara o sia toscana» (p. 51 Giuliani e di 
«versi li quali sono l’uno in lingua toscana, l’altro in lingua litterale, e 
lo terzo in lingua francescha» (p. 67). 

E ancora un po’ più tardi, heQTtalia mediana, Monaldo di San 
Casciano dei visconti di Campiglia rimproverava Simone Prodenzani 
di usare troppe voci orvietane, avvertendo.- 

che ’l vocabulo e 1 profazio 
del Patrimonio nel paese esperico 
non è accetto nel materno Lazio, 

cioè, secondo la parafrasi del Debenedetti 52 , «i vocaboli e la pronunzia 
che usano ad occidente del Patrimonio non sono di buon italiano» 53 . 


IL II volgare nell’Italia settentrionale 

Come si atteggi il volgare nel vario uso che se ne fa nelle varie 
regioni, è assai difficile dire in breve. Si desiderano ancora saggi 
monografici che, città per città o regione per regione, mostrino come il 
volgare si sostituisca al latino nelle scritture; e poi con quali criteri, 


51 D’altronde, Benvenuto apprezza specialmente quei Fiorentini che viaggian- 
do hanno imparato a eliminare i loro idiotismi: «certe, quid quid dicatur, 
Fiorentini qui hodie peregrinantur loquuntur multo pulcrius et omatius, quam illi 
qui numquam recesserunt a limi te patri ae, quia dimittunt vocabula inepta, quae 
sunt Florentiae, et assumunt alia convenientiora» IComentum, V, p. 160 Lacaita). 

82 II « Sollazzo », Torino 1922, p. 143. 

83 Questa preminenza toscana nell’uso letterario non impedisce tuttavia che 
qualche Toscano trapiantato altrove dimentichi la propria parlata e non gliene 
importi nulla: il pratese Piero Benintendi, portato fanciullo a Genova, scrive nel 
1392: «Da tuti sono cognosuto e massimamenti per genovesse proprio quanto da li 
genovexi, e così sono» {Lettere di P. B., ed. Piattoli, in Atti Soc. Lig. St. patria, LX, 
1932 p. 60). Il Benintendi scrive secondo l’uso genovese senza traccia di fiorentino. 


sotto l’influsso di quali modelli si formino le varie tradizioni locali. C’è 
da precisare, insomma, quel che si vede ancora piuttosto aU’ingrosso, 
come nel mettere per iscritto i volgari agiscano due spinte: quella verso 
la nobilitazione e quella verso la generalizzazione. Ci si avvia così a 
coinè sempre più vaste, dapprima sotto l’egida del latino, più tardi del 
toscano. 

Si vede abbastanza bene che il Piemonte e la Liguria sono piuttosto 
isolati, mentre il resto dell’Italia settentrionale, l’Italia padana, come 
potremmo chiamarla, o la Lombardia, nel senso medievale del termi- 
ne 54 , costituisce un territorio non certo unitario, ma con scambi molto 
fitti. 

È necessario poi distinguere fra la poesia e la prosa; anzi fra i vari 
generi di poesia e i vari generi di prosa. Nelle scritture in versi la lotta 
fra i modelli francesi e provenzali e quelli toscani non è ancora ben 
decisa al principio del secolo 55 , ma poi il gusto si volge decisamente ai 
Toscani. 

Un componimento in versi della metà del secolo, la canzone «Prima 
che’l ferro» di Antonio Beccali, che ci è giunta in un testo molto 
probabilmente autografo e comunque sicuro, ci permette un’analisi 
precisa dell’ibridismo portato nel linguaggio della lirica dall’imitazione 
toscana. Il Rajna, in un articolo di capitale importanza 55 , ha fatto 
vedere come sia necessario distinguere i pochi testi genuini da quelli 
passati attraverso trascrizioni più tarde, quando ormai la toscanizza- 
zione era più avanzata 57 . 

Il verseggiatore, che aveva indirizzato una sua canzone a France- 
sco Ordelaffi e Galeotto Malatesta con lo scopo di stornare un duello 
per cui già era corsa una sfida, qualche anno dopo, nel 1354, ne scrisse, 
quasi certamente di suo pugno, ima copia. Ecco la prima stanza 
secondo l’edizione diplomatica del Rajna.- 

Prima che ’l ferro arossi i bianchi pili 
Et che uergogna et danno in uu se spiecbi, 

Scopritiue i-orechi, 

Obtusi dal furore di uostri cori. 

Siti uu goueneti, o siti uechi? 


84 V. per tutti E. Levi, Francesco di Vannozzo, cit., pp. x-xi; M. Zweifel, 
Untersuchung uber die Bedeutungsentwicklung von Langobardus - Lombardus, 
Halle 192L 

88 Penso alla «canzone di Auliver», intrisa di provenzalismi e di francesismi, 
di vernacolo e di latino: caso «forse teratologico» (Contini, Paragone, aprile 1951, p. 
12), certo capriccioso («tut (gol che de li savii eu sia el men savio»). Vedi G. B. 
Pellegrini, La Canzone di Auliver, Pisa 1957. 

88 «Una canzone di Maestro Antonio da Ferrara e ribridismo del linguaggio 
nella nostra antica letteratura», in Ciom. stor. lett. it., XIII, 1889, pp. 1-36. 

87 Si ripete anche qui pressappoco quello che è accaduto per i testi della 
scuola poetica siciliana, quasi tutti alterati dai più tardi trascrittori. Con ben 
altra sicurezza potremmo giudicare della lingua dei rimatori settentrionali se 
possedessimo in abbondanza testi autografi o molto prossimi all’autografo. 


200 


Storia della lingua italiana 


Siti uu plebesciti, o uer gentili? 

Siti uu franchi, o uili? 

Siti uu in pigol grado, o uer sengnori? 

I credo pur che ga diuersi honori 
Ho receuuto in su i-uostri theatri: 

Però, miei magori patri, 

Qaschun rafreni in si l’ardita mano 
Al son de mia tronbecta! 

Ch’a le parole d’una uedouecta 
Tardoe ga de ferire el bon Traiano. 

Et se mio dir fie uano, 

El no ue mancherrà finir questa opra. 

Che danno et desenor conuen che scopra 58 . 

Alcuni tratti ci attestano la fedeltà del Beccali a tradizionali 
peculiarità dialettali e interdialettali padane: p. es. la metafoma (non 
solo in pili, che potrebbero anche essere un latinismo, ma anche in 
accisi, amisi, paisi-, però honori, segnori senza metafoma), 1 pronomi ^ 
tonici mi, si, vu, (una volta vui ), e soprattutto le seconde persone m -ati, 
-iti, che vanno considerate come una caratteristica stabile del padano 

illustre, da Guido Fava al Boiardo. f , . . 

Il latinismo appare soprattutto nella patina ortografica (obtusi 
honori, theatri, -et- per -tt- legittimo o illegittimo, ecc.), ma anche nel 

lessico {angue, audienza, ecc.). , , . , . -, 

Quanto al toscanismo, esso appare, oltre che nel lessico, sostanzial- 
mente conforme a quello dei poeti toscani del Trecento, anche in tratti 
fonetici e morfologici: la g- palatale compare {già 26 giovenecto 28) 
accanto all’affricata z (ga 9, ?o veneti 5); nella formazione del futuro e del 
condizionale della l a con., troviamo (accanto a un bastarebe 44) un 
mancherrà (18), che rivela non meno con la vocale -e- che con la -rr- 
geminata le intenzioni toscaneggianti; accanto al piu frequente suffisso 
-èro -era {mesterò, cavalero, altero-, schera, banderai appare un esempio di 

-iero (plur. destrieri, 45). „ ,, . , . , . 

La canzone dimostra con assoluta evidenza 1 orientamento dei 

rimatori dell’Italia padana alla metà del secolo-, e insieme ci fa vedere 
con quale circospezione dobbiamo valerci dei testi giuntici in copie piu 

tarde 59 . — 


58 Gli altri quattro codici danno tutti una lezione di aspetto assai più 
moderno in cui vanno perduti i tratti caratteristici della lingua del Beccan-. il pili 
del primo verso, che è confermato dalla rima (gentili, vili), è mutato m peli-,sjnechi 
rSeso e riprodotto con specchi (mentre il rimatore intendeva spieghil e cosi 

Via 's® Un critico di solito prudente, il Medin, aveva creduto di poter attribuire a 
un Toscano Zenone da Pistoia, il poemetto sulle vicende di Francesco Novello da 
Carrara fondandosi sulla veste toscanizzata in cui esso appare nell edizione del 
T-a mi (Deliciae erud., XVI); la scoperta di un altro testo piu V1C1 ™ 
portò all’attribuzione a Pavano dei Rizzoletti, famiglio di Francesco (Medin, Atti 
Ist Ven., LXXXII, i, pp. 110-111, 148). 


Il Trecento 


201 


In vario grado e misura, quel che si è detto vale per i rimatori di 
quest’età fioriti a Milano, a Verona, a Padova, a Treviso, a Ferrara, a 
Bologna, a Ravenna, sia come privati che frequentando le corti. 

Dobbiamo tener conto, in conclusione, di questi quattro fattori: 
tratti coincidenti con quelli della parlata locale; tratti illustri, interdia- 
lettali, radicati nell’uso scritto di zone più o meno vaste; tratti 
latineggianti; tratti toscani, provenienti dall’imitazione dei poeti tosca- 
ni; e i testi ci mostrano come quest’ultimo fattore acquisti importanza 
di generazione in generazione. 

Meno sensibile è l’influenza del toscano quando si passi dalla lirica 
ad altri generi di scritture in versi, laudi, cantari, serventesi, lamenti 
ecc., via via fino alle frottole, il cui capriccioso realismo porta piuttosto 
all’imitazione del linguaggio popolare nelle sue bizzarrie. Già in questo 
secolo troviamo qualche esempio di «letteratura riflessa» in dialetto-, si 
pensi al sonetto caudato in dialetto pavano indirizzato da Marsilio da 
Carrara a Francesco di Vannozzo: 

Di-me, sier Nicolò di Pregalea, 
se Dio v’aì, si-vu sì embavò, 

e alla risposta di questo 80 , alla frottola in veneziano dello stesso 
Vannozzo 61 , oppure alle frottole bolognesi di Antonio Beccali 62 . 

Passando alla prosa, dobbiamo osservare anzitutto che non trovia- 
mo testi che si possano qualificare prosa d’arte. Nei trattati morali, 
ascetici, didattici, nei romanzi epici, nelle cronache non sentiamo alcun 
afflato artistico: allo sforzo d’arte è ancora destinato il latino. Tanto 
meno potremmo aspettarci di trovarlo nei testi dichiaratamente prati- 
ci: lettere, testamenti, statuti di confraternite, bandi, statuti comunali, 
ecc. 

Riprendiamo un momento la canzone del Beccali, per guardare il 
testo in prosa («la tema») che l’accompagna. Basta un esame sommario 
per vedere che esso è molto più «padano» della canzone. Si osservi, per 
esempio, il trattamento della -t- fra vocali: il testo in prosa ha 
inguadiada, fradello, armadi (oltre a parentado e servidore ), cioè di 
regola si ha la sonora; invece la canzone ha recevuto, ardita, canuta, 
muta, togati, pentiti, date, prisato, coronato, cioè di regola si. ha la 
sorda 63 . 

Qualche osservazione analoga si può fare anche per la morfologia: 
nella prosa troviamo un gerundio siando, del consueto tipo diffuso in 
tutta Tltalia settentrionale (gerundio e participio in -andò per tutte le 


80 E. Lovarini, Antichi testi di lett. pavana, Bologna 1894, pp. 1-3; Vannozzo, ed. 
Medin, pp. 40-41. 

81 Ed. Medin, pp. 137-162. 

“ E. Levi, Maestro Antonio da Ferrara, Roma 1920, pp. 32-35. 

63 Nello spoglio dei Rajna, p. 19 si leggono solo i tre esempi con sonora tratti 
dalla prosa, e chi non scruti bene non s’accorge che lo sforzo di maestro Antonio, 
la sua «innovazione» sta nelle forme toscaneggianti, quelle con la sorda. 


202 


Storia della lingua italiana 


coniugazioni: dagando, corando, romagnando, digando, ecc.: Rohlfs, 
Hist. Gramm., § 618), nella poesia un vincendo, in cui alla principale 
spinta toscana può darsi che si unisca la spinta latineggiante. 

Alla metà del secolo, insomma, i testi in prosa sono molto più 
arretrati di quelli in versi per ciò che concerne l’accoglimento di ima 
norma comune fondata sul toscano. 

I testi dell’Italia padana di questo periodo assai difficilmente, se non 
soccorrano dati estrinseci, si possono attribuire a un preciso luogo 
d’origine, ma tutt’al più a ima certa area relativamente vasta, perché 
gli scrittori tendono a eliminare le caratteristiche più salienti del loro 
dialetto locale, e se mai mantengono di esso alcuni tratti conservativi. 

Meglio d’ogni altro ha studiato questo fenomeno il Salvioni 64 : si 
avverta tuttavia che quando, a proposito del Belcalzer, egli parla di 
«condizioni di poca sincerità linguistica di tutta la letteratura medieva- 
le alto-italiana», egli non fa altro che definire spregiativamente proprio 
quell’aspirazione alla coinè di cui stiamo indagando le tracce. 

Di generazione in generazione, il ravvicinamento si fa più sensibile. 
Si consideri un tratto fonetico molto diffuso in vaste zone dell’Italia 
settentrionale, l’apocope di -o ed -e finale non solo dopo le liquide e 
nasali, ma anche dopo altre consonanti (o gruppi di consonanti): dii, 
corp, mes, ecc. Nella scrittura si estende sempre più la tendenza a 
eliminare questo tratto, munendo le parole di vocale finale (che talora 
non è quella etimologica) 85 : si confronti, ad esempio, l’abbondanza delle 
apocopi in Vivaldo Belcalzer, che scriveva a Mantova prima del 1309 
( sot , element, serad «serrato», did «dito», old «ode», lus «luce», spess, log, 
soreg, negr, monstr, oltre a musei, mor, man ecc.) 68 , con l’abbondanza di 
vocali finali che troviamo due generazioni dopo in testi della cancelle- 
ria di Mantova (fato , tufo, falso, parte, ecc.; notevoli le false regressioni 
come lialmento «lealmente», cognossero «conoscere», voliro «volere», 
Esto «Est e») 87 . 

Questa tendenza si esercita anche sui dialetti parlati, specialmente 
nel Veneto, e ne muta sensibilmente la fisionomia 88 , contribuendo, con 
altri fenomeni che si manifestano appunto in questo secolo (dittonga- 
mento di e, o; intacco di pi, bl, cl, gli a fare dei dialetti veneti i più simili, 
nell’aspetto generale, a quelli toscani. 


M Ricordiamo l’articolo sulla lingua del Belcalzer (in Rend. Ist. Lomb., XXXV, 
1902, pp. 957-970) o quello sul Libro dei battuti di Lodi IGiom. stor., XLIV, pp. 421- 
422). 

65 La frequenza della -o finale nei testi veronesi, e non solo in quelli, si spiega 
così, meglio che per la necessità fisiologica d’una «vocale d’appoggio». 

66 Salvioni, Rend. Ist. Lomb.. s. 2 a , XXXV, 1902, p. 962 (che cita poche 
ricostruzioni, come zove « giogo»). 

87 Si vedano la lettera (1366 o 1367) e il bando (1369), riportati in Migliorini- 
Folena, Testi Trecento, nn. 39 e 40. 

98 Si pensi all’abbondanza dell’apocope in un dialetto vicinissimo al venezia- 
no, quello di Lio Mazor: dis, tu vegnis. me dies (Migliorini-Folena, Testi Trecento, 
n. 5). 


Il Trecento 


203 


hon^ì!? SOI T ia 1x1 quest< ? secol ° parecchi tratti regionali sono ancora 
rh^ ^ lo T n ^ento verso il lessico e la grammatica toscana, 
che per ì versi è già forte, non è che agli inizi per la prosa. 

12. Il volgare nell’Italia mediana 

Anche qui bisogna distinguere la poesia dalla prosa. 
r. fl nt U ? bna ha, una sempre viva fioritura di poesia religiosa, special- 
mente drammatica. Verso la metà del secolo, anche a Perugia si fa 
sentire 1 influenza letteraria e linguistica della Toscana: e i versi del 

ouem°del m °strano un colorito un po’ meno perugino di 

fi ue |h del Moscoli, di qualche anno più antichi 88 . 

sent o lto (p ' ì® 8) quali rimproveri si movessero alla 
lingua dell orvietano Simone Prodenzani. Invece, alla fine del secolo il 
lolignate Federico Prezzi scrive in una lingua in cui ormai sopravvivo- 
no pochissimi tratti umbri. Anche Francesco Stabili scrive l’Acerba in 
tratti grammaticali e lessicali ascolani, ma in cui 
-™ 1 " lo stu <h° dell odiato Dante, il «poeta che finge immaginando 
cose vane», e del toscano letterario. 

• Gi °stra dei vizi e delle virtù e il Pianto delle Marie mostrano una 
, ™ moltl latuusim > Qualche provenzalismo, sensibili tratti regio- 
^mzione fra U e fV C> ’ pp? 1 * 1 P ers - Plur. ind. pres. in -ima, ecc.). 

, umbri e marchigiani in prosa sono quasi tutti di carattere 
P^P° l e relativamente ormai non scarsi di contro a quelli la tini) - 
anch essi sono ancora fortementi dialettali, benché già si comincia 
Hm a ^/ qU ? Che D fratt ° municipale e regionale. Si pensi a regressioni del 
dal tipo quanno eTUgia ’ 16 qUa11 mostrano come si ten da a rifuggire 

HwJiS- 0 ^ d ^Ì testo 1x1 P rosa c he si possa qualificare prosa 
c ai *F e a ^ mfùon della Toscana, gli Historiae Romanae fragmenta, noti 
specialmente per 1 capitoli che costituiscono la Vita di Cola-, il dettato 
semplice eppure vigorosamente incisivo rivela un vero scrittore. Pur- 
jl ( °?P?P er la hnpia è assai difficile dire fino a che punto si scosti dalla 
parlata «naturale» di Roma, sia per la mancanza di testi a riscontro 
sia per le incertezze in cui ci lascia la tradizione manoscritta 71 . 


Ma essi sono conservati nello stesso codice, il Barb. Lat. 4036 e ci è diffìcile 
valutare fino a che punto sia intervenuto il copista 

i T lnven tanodi confraternita del 1339 (Migiiorini-Folena Testi Trec n 
se “P re nfento ah* colonna della flagellazione di Gesù, è anche ki 
aude drammatiche perugine (De Bartholomaeis, I, pp. 40 e 224 ). 

volte promessa edizione critica, bisogna adoperare 

Frugoni Fkenz^ias^Cfrc^Riri^ * ?° l ? dÌ Rienzo ' Faenze 1928 o quella di A 
rrugom, Firenze 1S57. Gfr. G. Bertoni, «La lingua della Vita di Cola di Rienzo» in 

Lingua e pensiero, Firenze 1932, pp. 73-84, F. A. Ugolini, «La prosa derii Lfoforioe 

sS,® della coslddetta Vita di Cola di Rienzo », in Arch. Soc. rom. 


204 


Storia della lingua italiana 


Accenniamo qui anche agli Abruzzi, per quanto appartenenti al 
regno di Napoli: nella zona aquilana troviamo una vita comunale e 
religiosa assai forte, che trova espressione in non pochi testi volgari. I 
versi Ge laude drammatiche, il Detto dell’Inferno, Buccio di Ranallo) 
mostrano una lingua più. dirozzata che la prosa: si pensi alla -u finale 
che nei versi è ormai spesso evitata, mentre nella prosa ancora 
predomina. E, nei versi di Buccio, troviamo sintomatiche regressioni: 
vedembo «vedemmo», abembo «avemmo», ecc. 


13. Il volgare nell’Italia meridionale e nelle isole 

Nel regno di Napoli 72 la situazione nei primi decenni del secolo è 
all’ingrosso simile a quella dell’Italia padana-, si hanno vari poemetti di 
tipo morale o didattico (come il Libro di Catone o i Bagni di Pozzuoli) in 
una coinè con parecchi caratteri meridionali. Nel Serventese del 
Maestro di tutte le arti, che è della fine del secolo (o del principio del 
secolo seguente) appaiono ormai numerosi toscanismi (so accanto a 
saccio, ecc.) 73 . 

Del tempo di re Ladislao abbiamo parecchi poeti petrarcheggianti, i 
cui versi sono contenuti nel codice Laurenziano Gadd. Rei. 198 74 : ma 
non siamo in grado di dire fino a che punto la lingua sia stata 
toscanizzata dal trascrittore. 

Quanto alla prosa, il monumento più importante, la cosiddetta 
Cronaca di Partenope, non solo è un conglomerato di quattro parti 
diverse, ma ci è giunto in tradizione varia e per lo più tarda e cattiva 73 , 
cosicché mal ci si può fondare sui testi fin qui pubblicati per lo studio 
della lingua. Ancor peggiore è lo stato della Tabula Amalfitana, che ha 
avuto varie stratificazioni, fra cui l’ultima probabilmente risale agli 
ultimi anni di Roberto d’Angiò. 

Parecchi volgarizzamenti di testi di morale e di scienza applicata 
(agricoltura, chirurgia, mascalcia) sono mal pubblicati o tuttora inediti. 

La mancanza di vita comunale nel Regno fa poi sì che manchino 
quei testi documentari locali che abbiamo più o meno copiosamente 
altrove. La Sicilia nei primi decenni del secolo è racchiusa in sé e tende 
a costituire un siciliano cancelleresco, con una fisionomia piuttosto 
stabile (il «vulgari nostro siculo», come allora fu detto). 

Nella seconda metà del secolo anche in Sicilia il toscano comincia a 
prendere autorità di lingua letteraria; si legge Dante, e Tommaso 


12 A. Altamura, «Appunti sulla diffusione della lingua nel Napoletano», in 
C onvivium, 1949, pp. 288-297; Id., Testi napol. dei secoli XIII e XIV, Napoli 1949. 
73 V. l’edizione e l’illustrazione del Rajna, Zeitschr. rom. Phil., V, 1881, pp. 1-40. 
7< F. Torraca, «Lirici napoletani del sec. XIV», in Aneddoti di storia letteraria 
napoletana. Città di Castello 1925, pp. 99-134. — 

75 G. M. Monti, «La Cronaca di Partenope (premessa all’ed. critica)», in Annali 
Semin. Giur. eco n. dell’Un, di Bari, V, 1932. 


Il Trecento 


205 



Caloiro, amico del Petrarca, gli rivolge un sonetto toscano che testimo- 
nia 1 ammirazione dei Siciliani per il poeta di Laura («Almen per lei voi 
già per nome chiama - Cicilia tutta...»). Scarse sono le testimonianze 
poeticheria Quaedam profetia o Lamento di parte siciliana, probabil- 
mente del 1354, e poco altro 76 . In prosa abbiamo documenti d’archivio e 
lettere^ 7 , costituzioni religiose 78 e poi testi morali e storici (per lo più 
traduzioni o compilazioni): il Dialagu de Sanctu Gregoriu, la Sposizione 
del Vangelo della Passione, Ylstoria di Eneas, il Valerio Massimo, ecc. 

L eccellente edizione del Dialagu data da S. Santangelo 79 ha anche 
importanza paradigmatica, perché ci mostra come fi testo, trascritto 
nella pnma metà del sec. XIV da mano siciliana (e integrato più tardi 
da copisti calabresi), fosse nel secolo seguente esemplato in due altri 
manoscritti, che ci si presentano fortemente toscanizzati. Se ci rima- 
nessero solo questi ultimi, G giudizio sulla lingua del traduttore 
sarebbe molto diverso, e inevitabilmente falsato. L’Istoria di Eneas, 
come ha mostrato nella sua edizione il Folena 80 , dipende da un testo 
toscano (un volgarizzamento compiuto da A. Lancia), che il volgarizza- 
tore non di rado fraintendeva (come quando mutava in sochira il 
scrocchia del Lancia). 

Forme toscaneggiantì come giomu e più appaiono nel volgarizza- 
mento del Vangelo di S. Marco (in caratteri greci) della seconda metà 
del Trecento. 


14. I fatti grammaticali e lessicali 

Una descrizione dei fatti grammaticali e lessicali dei Trecento, o 
meglio ancora delle varie fasi del Trecento, non si può certo dare in 
poche pagine. Né, purtroppo, si possono indicare monografìe che in 
qualche modo la sostituiscano. 

Siccome 1 italiano normale odierno per la sua maggior parte ancora 
coincide con l’italiano trecentesco, le descrizioni che sono state fatte 81 
sono di regola «differenziali» e non integrafi, cioè rendono conto 
soltanto, o quasi soltanto, di quelle peculiarità per cui l’italiano 
trecentesco differisce da quello moderno. 


™ r ' T Cl ^ iinano ’ Poesie siciliane dei sec. XIV e XV, I, Palermo 1951 
, . Goto, Vulgare nostro siculo, I, Firenze 1951; v. anche P. Palumbo, Boll 

del Centro di st. filol. e ling. siciliani, I, 1953, pp. 233-245. 

Bugole, costituzioni, confessionali e rituali a cura di F. Branciforti, Palermo 
1953. 1 .capitoli della prima compagnia di disciplina di Palermo ( 1343 ) sono redatti 
tenendo presenti quelli di analoghe compagnie di Firenze e di Genova (p. x) 
Libra de lu Dialagu de Sanctu Gregoriu translatato pir frati Ioanni Campulu 
1933 SSlna ’ m Aca Sc ‘ attere e belle arti Palermo, Suppl. agli Atti, n. 2, Palermo 

_. , “ La Morì 0 di Eneas vulgarizata per Angilu di Capua, a cura di G. Folena 
Palermo 1956. 

81 P. es. la tesi, del resto mediocre, di C. Steger, Appunti sulla lingua delle 
«Novelle, di F. Sacchetti, Duren 1930 (il titolo è in italiano, il testo in tedesco). 


206 


Storia della lingua italiana 



Dovremo far così anche noi nei paragrafi seguenti, pur rendendoci 
conto che questa prospettiva è parziale, e che invece una descrizione 
rigorosa richiederebbe di tener conto sia di ciò che è morto che di ciò 

che tuttora sopravvive. , 

Da quanto si è detto fin qui, risulterà poi chiara un altra esigenza 
metodica. La descrizione dei testi di Firenze, e del resto della Toscana 
va tenuta distinta da quella delle altre regioni; e per queste ci si dovrà 
domandare fino a che punto l’aspirazione verso una coinè sia soddi- 
sfatta per mezzo dell’eliminazione di singole peculiarità, di conguagli 
con dialetti vicini, dell’aiuto del latino, e da che punto invece si cominci 
a rivolgersi per aiuto ai modelli toscani. 

15. Grafìa 

La grafia trecentesca è senza confronto più instabile della nostra. I 
più oscillanti sono ancora i suoni velari e palatali: cane o chane (fe e in 
regresso, ma non è del tutto sparito), pace o pacie, degno o dengno, 
figlio o fìglo o filglio. Poi c’è grande esitazione nell’applicare o no la 
grafia del volgare alle parole colte: onore o honore (per lo più si scrive 
atti honesti, ma lonesto e donesto, dove noi ora usiamo 1 apostrofo), 
rapto o ratto, letizia o letitia **, teatro o theatro, ecc. _ 

Le scempie e le doppie sono spesso incerte, particolarmente dopo 
alc uni prefìssi (a-, prò ); per rappresentare il rafforzamento di q, il 
Petrarca passa da giaqque degli abbozzi a giacque del manoscritto 

definitivo (nel son. «Qual mi fec’io»). . 

L’interpunzione è nei manoscritti, specialmente m quelli volgari, 
ancora scarsissima (mentre già i trattatisti di quest età teoricamente 
distinguono molti segni) 83 . P. es. nel codice Trivulziano della Commedia 
si ha un punto alla fine di ogni terzina, e nuli altro. L uso delie 
maiuscole, almeno nei manoscritti più accurati, s’accosta a quello 
odierno (nomi propri o adoperati come tali). Si ha qualche esempio, ma 
rarissimo, di accento acuto. E nei versi è frequente, benché tutt altro 
che regolare, il punto soscritto per indicare l’espunzione 84 . 


32 Già il Salviati, Avvertimenti, I, ni, 3, 11, dà elenchi di manoscritti trecente- 
schi che preferiscono l’una o l'altra grafia. Il Battaglia, nell’ ed. (p - 

cxxrv) cita casi in cui il Boccaccio oscilla ( letizia , ma malitia, tnstitiaì. L h e 
talvolta adoperato per indicare che non c’è assibilazione della t : p. es. malathia, 
mercanthia nel Re Giannino, consenthio negli Statuti di Perugia del 1342. ecc. 

83 V. specialmente F. Novati, «Di un’Ars punctandi erroneamente attribuita a 
F. Petrarca», in Rend. Ist. Lomb., s. 2®, XL1I, 1909, pp. 83-118. 

84 In mancanza di lavori complessivi sulla grafia e sull interpunzione convie- 
ne ricorrere alle prefazioni delle migliori edizioni critiche: la Vita, Nuova del 
Barbi, i Testi fiorentini dello Schiaffini, la Teseida del Battaglia, le «ime del 
Sacchetti a cura del Chiari (cfr. anche, per il Sacchetti, F. Ageno, m St.fU.ual., Xi, 
1953 pp. 258-262), le opere del Torini a cura di I. Hijmans-Tromp, Leida 1957, pp. 
175-208. Sulla grafia del Petrarca, v. Parodi, Lingua e letter pp. 443-452 e la 
monografia dell’Ewald (cit. nella nota a pag. 205). 


Il Trecento 


207 


Le peculiarità locali e regionali non mancano, benché non sempre 
geograficamente ben delimitabili. Nella Toscana stessa, solo Lucca e 
Pisa distinguono nella scrittura la s sonora, rappresentandola con una 
z. NellTtalia padana ce, ci valgono spesso ze ozi-, a Genova c palatale è 
espressa talora con ih isihavo per sc’avo); nell’Italia meridionale è 
frequente cz, oltre che per z sorda, per cc palatale isaczo, cioè saccio) 85 ; 
in Sicilia eh è ancora costante per la c palatale ( chircari ; ma anche per 
kj: choviri, chudirìì; con l’indebolirsi dell’uso di fe e la penetrazione 
dell’uso continentale di eh con valore velare ( chi «che») nascono 
incertezze icantichi sarà da leggere con palatale o con velare?). Si noti 
il tentativo di rendere la g velare con gk (longki nella Regula di S. 
Benedittu, cap. 18, ed. Branciforti). 

16 . Suoni 

Manca un quadro sicuro come quello tracciato dal Castellani per il 
fiorentino del Duecento, sul fondamento di testi non letterari. Qui sotto 
ci accontentiamo di notare rapidamente alcuni fenomeni tipici 88 . 

Prevalgono ancora le forme dittongate nelle serie priego e pruova 
(dopo i gruppi di esplosiva seguita da r). 

La riluttanza contro il dittongo au (dovuta a reazione contro la 
tendenza a mutare altro in autro e sim.) si manifesta nell’alterazione 
dei latinismi che lo contengono: laida, altore (che tuttavia sono forme 
limitate agli strati più plebei). 

Forme sincopate come rompre, lettre (di tipo toscano occidentale) 
sono possibili anche in poesia (Petrarca). 

È probabile che proprio nel sec. XIV in Toscana la c di aceto, dieci, 
passasse da affricata (schiacciata) a spirante, conguagliandosi alla -c- 
di bacio, brucio (Castellani, Nuovi testi, pp. 29-31, 161-162). 

Gli esiti in c palatale e z oscillano non di rado: tendone (passim), 
incalciare (passim), e viceversa bonazza, brezze. 

È possibile davanti al pronome tu la caduta della finale dei verbi in 
-si e -sti e della congiunzione se-, fostù, postù, pregastù, stu, ecc. 

L’r finale dell’infinito apocopato può assimilarsi alla consonante 
successiva: troviamo in rima vedetta «vederla» (Petr.), emendallo 
(Bocc.), gittalla (Pucci), avella (Canigiani), guidagli «guidarli» (Folgore), 
credégli (Bocc.), ecc. 

Fuori della Toscana, l’imitazione delle caratteristiche toscane co- 
mincia a produrre fenomeni di iperurbanismo, cioè regressioni. Trovia- 
mo nel Settentrione il tipo gioglia, noglia. Dalla pronunzia toscana di 


85 Anche in Toscana ai trova cz, ma per zz-, v. Areczo, passim, nell’Append. Ili 
del Marzi, Cancelleria-, fermerà, Firencge negli Statuti dell'arte dei vinattieri 
(Firenze, 1339), ecc. 

86 Sottintendiamo, in questo paragrafo e nei seguenti, i rinvii alle trattazioni 
corrispondenti del Meyer-Lùbke e del Rohlfs. 


208 Storia della lingua italiana 

-aio come trittongo l’autore della LmàrMi si ^ «utorizzatoa far 

SSFaESSSffiSaajr 

crede). E così via. 


27. Forme 

g^SSr&^S ^frvSSroe^arianridel 

SS &5 K “lc^to Pr a ' SSS, ^ 

smesk^^-ssìsìb 

2S2SS3.^55Sf^?«SSSSSS 

Sal Quanto ai pronomi, troviamo già, seppure ancor Stoì 

LÌ seguito 

da !Jt?ar te sS 

££ ^Sto^T^CaSSmTla 6 SS Affuso d£ ÌZ£ 

PlU É^“cl“S antiUnnmerodne (d ne,dni,^o, 


- Ma è vivissimo negU Statuti di Perugia del 1342= campaio, plur. campai 
denaio, plur. denare, ecc. 


Zi Trecento 


209 


dua); non sono rare, sia in prosa che nel verso, le forme sincopate del 
tipo venzei, venzette. 

Quanto al verbo, si noti anzitutto che le differenze fra tema tonico e 
tema atono sono tuttora numerose: io aiuto alterna con aitare, atare; io 
manuco con manicare, ecc. Nelle terminazioni del presente tu ami è 
ormai normale, ma tu ante persiste come variante poetica. La termina- 
zione -iamo è ormai generalizzata per tutte le coniugazioni (noi 
amiamo, noi vediamo, noi finiamo), ma -amo -emo -imo ancora 
persistono a Pisa, Lucca, Arezzo-, alcune forme (specialmente avemo) 
sono tuttora adoperabili non solo nel verso (avemo, Bocc., Tes., V, 52, 
Amor. Vis., XXXIII, 18; vedemo, sapemo e anche calchemo, Tes., XII, 7), 
ma talora anche in prosa («sì come già più volte detto avemo»-. Dee., II, 
7, 39)“. 

All’imperfetto, predominano nella 2 a con. le forme in -avute lavavate, 
ardavate, diciavate ha il Boccaccio in prosa e in verso). 

La distribuzione tra passati remoti forti e deboli non sempre 
coincide con quella odierna (crese per «credette», vivette per «visse» 
ecc.); e non sempre coincidono le forme (dolfe «dolse»). Le forme 
tronche perdé, salì sono ormai normali, pur conservando accanto a sé 
quelle epitetiche perde o, salio, di tono aulico oppure plebeo. Nelle 3° 
pers. plur. dura a lungo la lotta tra varie terminazioni: nei perfetti forti 
scrissono, scrissoro, scrissero, nei perfetti deboli andaro, andarono, 
andomo, andonno™. Al futuro e al condizionale della l a con. i Fiorentini 
adoperano -ero ecc., non senza qualche eccezione (gittarà, Bocc., Dee. II, 
10, 21). La sincope è assai estesa: lavorrò, lacerranno, dimorrò, rendrà, 
guarrò, e anche dranno, srete. Le forme sincopate sono facoltative: p. 
es. il Pucci usa menerò e menrò secondo la misura del verso. Talora si 
ha anche assimilazione: sanò «salirò». Per analogia con le forme 
sincopate o metatetiche (entenà, mostenò ) sono nate numerose forme 
con -rr- non etimologica: trovenò, gridenete. 

Nei congiuntivi passati stentano a stabilizzarsi le terminazioni: io 
avesse (Sacch.), tu vedesti (Petr.), (voi) prendesti (Compagni), (voi) credessi 
(Bocc.). 

L’imperativo in -e è frequente non appena si esce da Firenze: 
consente (Bonichi), ecc. 

Numerosissimi sono i participi senza suffisso: cerco, guasto, tocco, 
véndico, visso ecc. 

Non appartiene all’uso del tempo, ma è un vivace stilema individua- 
le, quel superlativo del gerundio che troviamo in Giordano da Rivalto: 
«andronne in ninfemo? Sì bene, ritto, ritto, correndissimo» (Pred ., XXI, 
p. 119 Narducci). 


88 II pregamote del Sacchetti, nov. 169, è messo in bocca ai Perugini. 

89 Si veda su queste oscillazioni (e sulle forme scriverebbero, scriverebbono, 
scrivessero, scrivesson o) il saggio di G. Nencioni, Fra grammatica e retorica-, ottimo 
esempio di interpretazione di un fenomeno di grammatica storica alla luce della 
storia della cultura. 



210 


Stona della lingua italiana 


Avere ha ancora parecchie forme parallele: aggio, specialmente 
nella tradizione della lingua poetica; abbo, specialmente a Lucca. Dea e 
stea sono ancora le forme prevalenti per «dia» e «stia». 

L’ausiliare avere è frequente con i riflessivi di vario tipo: «quando 
non se l’avesse messo» (Passavanti, Specchio, p. 62 Poi.), «s’avea messi 
dinanzi da la fronte «(Dante, Inf., XXXIII, v. 33), «s’oveo posto in cuore 
di non lasciarla mai» (Boccaccio, Dee., Ili, 6, 49), « avendosi dato 
piacere» (Sercambi, Nov., p. 226 Renier), «ora te l’hai dimenticato» (ivi, 
300), ecc. 

Nelle parole invariabili, ricordiamo la frequenza del costrutto 
incontragli, dattomovi, addossoti, dentrovi. Mediante è ormai adopera- 
bile anche con plurali: « mediante molti avversi casi» (Bocc., Filocl 

Ai brevissimi cenni dati fin qui su peculiarità dell’uso toscano 
andrebbero aggiunte numerose trattazioni riferite alle altre zone, sia 
per registrare i fenomeni radicati localmente, sia per vedere i più o 
meno sensibili accenni di penetrazione toscana. Ci limitiamo a indicare 
mi paio di esempi. 

Già abbiamo ricordato quanto salde siano, nell’Italia padana, le 
terminazioni -ati, -eti, -iti alla 2 a pers. plurale. I testi napoletani hanno 
ima caratteristica che permarrà ancora per secoli, gli infiniti e i 
gerundi coniugati: «medici li quali saneza alchuna cantate domandano 
essereno pagati» (Cron. di Partenope, c. XXVI). 

L’espansione di -tomo negli indicativi a spese di -amo -emo -imo si 
vede bene in Umbria, dove i testi in prosa (p. es. lo Statuto perugino del 
1342) hanno sempre queste ultime forme, mentre nelle laude e sacre 
rappresentazioni umbre (De Bartholomaeis, Laude dramm. e sacre 
rappr., I) le forme in -iamo appaiono in certo numero. 


18 . Costrutti 

Anche per la sintassi ci limiteremo a ricordare alcuni costrutti 
frequenti in questo tempo e più tardi abbandonati 90 . 

Il di partitivo è larghissimamente in uso: «e domandar del pane » 
(Dante, Inf., 33, 39), «tra li uccelli à di valenti medici» (Esopo Guadagni, 
XIII), «di valentissimi vini e confetti fecer venire» (Bocc., Dee., I, 10, 14). 

Il costrutto appositivo con di si può appoggiare al sostantivo con il 
semplice articolo determinativo («il cattivel d’Andreuccio», Bocc., Dee., 
II, 5; «del cattivello di Calandrino», Dee., Vili, 7, 1-, «lo innamorato di 
Paolo», S. Caterina; cioè «quell’anima ardente d’amore che fu San 
Paolo») 91 . 


90 Qualche buon saggio abbiamo solo per costrutti singoli, e per la sintassi del 
periodo, che, studiata in autori singoli, va a identificarsi con la stilistica. 

91 A. Lombard, «Li fel d'anemis», «ce fripon de valet», in Studier i mod. spr., 
XI, 1031, pp. 1-69; S. Lyer, in Zeitschr. rom. Phil., LVIII, 1938, pp. 348-359. 


Il Trecento 


211 


Non ha bisogno di preposizione il costrutto «in casa i Frescobaldi» 
«a casa il diavolo» 02 . 

È ancora libero 1 uso dell articolo col di del complemento di materia, 
aa ? 1, se precede 1 articolo determinativo, si preferisce la preposizione 
articolata («le colonne del porfido»: Bocc.F, invece più tardi diventerà 
obbligatorio l’uso della preposizione semplice 93 . 

Si adopera l’articolo indeterminativo nei costrutti «ima sua madre» 
«una sua donna» (Bocc., Dee., Il, 6; IH, 9; IV, 3). 

Il superlativo in -issimo può avere talvolta valore di superlativo 
relativo («la Rettorica è soavissima di tutte l’altre scienze», Conv., II 
’ esso am mette accanto a sé altre parole intensive: «di si 
nobilissima virtù» (Dante, Vita nuova, II, 9: cfr. Barbi, Vita nuova, ed 
cnt. 1932, p. 10 n.), «assai picciolissima cosa» (Sercambi, Novelle, p. 200 

Gli indefiniti di quantità si possono accordare con i sostantivi 
partitivi che seguono: «Deh! com’ài poca di stabiliate» (Lapo Gianni, 
son. «Amm nova ed antica vaniate»); «quivi cresce con tanta dì 
lerezza», CD. Frescobaldi, canz. «Un sol penser»), «l’altra [chiaveTvuol 
troppa - d’arte e d’ingegno avanti che disserri» (Dante, Purg, IX, w. 124- 
125); «in poche di volte che con lui stato era (Bocc., Dee., Vili 9 io)- ma 
anche «qui si convenne usare un poco d’arte» {Purg., X, v. 10; cfr. «q’ui si 
vuole usare un poco d’arte»: Bocc., Dee., Vili, 6, 13). 

Il trapassato remoto può essere usato in proposizioni principali: «e 
^ e ^°’ a ^ za ^ a ^Quanto la lanterna, ebber veduto il cattivel 
d Andreuccio» (Bocc., Dee., II, 5); «prima che a Monaco giugnessero il 
giudice e le sue leggi le furono uscite di mente» Gvi, II, io); «prese un 
salto e fissi gittato dall’altra parte» (ivi, IV, 9); «si fece accendere un 
lume e dare una radimadia, e/uwi entrato dentro» Gvi, VII, 2); «al luogo 
del suo signore senza che essi se ne accorgessero condotti gli ebbe » Gvi 
X, 9); «Non volendomi Amor perdere ancora - ebbe un altro lacciuol fra 
lerba teso» (Petr., 271). 

Il verbo impersonale è spesso introdotto da un egli soggetto: «Egli 
trapassavano poche mattine che io, levata, non salissi...» (Boccaccio, 
riammetta, p. 50 Pemicone); «ei mi restava molte cose a dire» 
(Filostrato, parte II, p. 58 Pemicone); «Deh, che bellezza t’è egli 
cresciuta, o Biancofiore ...? » (Filocolo, p. 64 Battaglia); «desta la moglie 
et ella gli fa accredere che egli è la fantasima» (Dee., VII, l, Sommario). 

I participi e ì gerundi hanno usi più numerosi che nel Duecento e 
che nel Cinquecento, e la loro utilizzazione stilistica è talora assai 
notevole 94 . 

lì complemento agente con a è usato nel Duecento e nel Trecento 


“ Pasquali. Lingua nostra, I, pp. 8-10; Bianchi, ivi, cfr. pp. 44-45 
93 Migliorini, Saggi ling., pp. 156-174 

, * . erlj, Syntaxe du participe présent et du gérondif en vieil italien, Parigi 

1926 passim; per il Boccaccio, Herczeg, Lingua nostra, X, 1949 , pp. 30-41; per il 
Sacchetti, Segre, Arch. glott. it., XXXVII, 1952, pp. 9-17. 


212 Storia della lingua italiana 

molto più largamente che in séguito non si farà: «non ti fare pregare 
ne’ suoi bisogni a colui » (Paolo da Certaldo, n. 335); «elli (Sansone! si 
lasciò vincere a sua femina» (Bencivenni, Esposizione del Patera., p. 55); 
«O casta dea, de’ boschi lustratrice - la qual ti fai a vergini seguire» 
(Bocc., Teseida, VII, st. 79); «la fa uccidere e mangiare a’ lupi» (Dee., II, 
9); «a lui ti fa aiutare, a lui ti fa i tuoi panni recare...» (ivi. Vili, 7). 

La sequenza asindetica di due imperativi («vo togli quel canestro», 
Sacchetti, nov. 118) è frequente, e rimarrà poi viva, ma solo nell’uso 
popolare. Lo stesso si può dire del costrutto dar mangiare, dar bere. 

Notevoli gli usi modali di dovere, venire, volere-. «Pirro adunque 
cominciò ad aspettare quello che far dovesse la gentil donna» (Bocc., 
Dee., VII, 9), «gli venne veduta una giovinetta assai bella» (ivi, I, 4), «di 
così fatte femine non si vorrebbe aver misericordia» (ivi, V, 10). 

L’accusativo con l’infinito, specie con alcuni verbi, è indizio di 
tendenze classicheggianti 95 . 

Sotto rinfluenza del latino sono anche i costrutti dei verbi di timore: 
«si ch’io temetti ch’ei tenesser patto» (Dante, Inf., XXI, v. 93); «temendo 
no ’l mio dir gli fosse grave» (ivi, III, v. 80); «e temo no ’l secondo error 
sia peggio» (Petr., 55); «e temo non chiuda anzi - Morte i begli occhi» 
(id., 118); «li due fratelli, li quali dubitavan forte non ser Ciappelletto 
gl’ingannasse» (Bocc., Dee., I, 1 , 78); «la donna e ’l giovane... subito 
sospettano che non fosse quello che era» (Sacchetti, nov. 84). 

Un tipo di proposizioni concessive è retto da per che, perché: «Non 
andare mai a casa di niuna femina mondana... per ch’ella mandi per te» 
(Paolo da Certaldo, n. 86); «Tu, per ch’io m’adiri - non sbigottir ch’io 
vincerò la prova» (Dante, Inf., Vili, v. 121; cfr. XV, v. 15; XXXII, v. 100: 
Purg., XXX, v. 55; Par., XXI, v. 101); «da amare, perché io voglia, non mi 
posso partire» (Bocc., Fiamm., V); « Perch’io t’abbia guardato di menzo- 
gna - a mio podere et onorato assai» (Petr., Rime, 49, 1; cfr. 59, 1). 

Qualche problema di topologia è stato bene studiato: la norma che 
vieta l’uso delle proclitiche all’iniziale, la cosiddetta legge Tobler- 
Mussafìa («Fecemi la divina potestate», Inf, III, v. 5, ecc.) 99 , e l’ordine 
delle coppie pronominali li mi porta, mi si presenta ecc. 05 * 07 08 . 

Qualche altro è stato impostato: l’ordine del gruppo sostantivo- 
aggettivo, talvolta quasi obbligatorio, talvolta libero (la lingua latina, 
la tedesca rabbia, la cartaginese guerra) 00 , l’ordine delle parole nelle 
proposizioni principali e in quelle dipendenti, che ha così grande 
importanza nel Boccaccio e nelle vicende delle future imitazioni di 
esso 89 . 


05 U. Schwendener, Der Accusatìvus cum Infinitivo im Ital., Sàckingen 1923, 
passim; cfr. Migliorini, Lingua e cultura, pp. 41-42. 

98 V. la bibliografia data a p. 151. 

87 A. Lombard, «Le groupement des pronoms personnels atones en italien» in 
Studier i mod. spr., XII, 1934, pp. 19-76. 

98 Schiaffali, Tradizione, p. 229 (e bibl. ivi citata). 

08 Schiaffini, ivi, pp. 194-199. 


Il Trecento 


213 


Questa minima scelta di osservazioni vuol solo mostrare l’urgenza 
di un ampia sintassi dell’italiano antico. Altre molte se ne potrebbero 
fare tenendo conto anche dei testi non toscani: si pensi ad es al 
complemento oggetto di persona costruito con a in siciliano: «mandirà 
ad Eneas a lu infemu» nella Istoria di Eneas (XII, § 4 Folena). 

19 . Consistenza del lessico e suoi mutamenti 

La vivace attività spirituale e pratica del Trecento porta a un 
arncchimento notevole del lessico: sia nella lingua generale, sia con lo 
stabilirsi di sempre più precise terminologie speciali, trasferite dal 
latmo al volgare quando si passa a trattare nella nuova lingua di 
argomenti prima riservati al latino (p. es. termini di filosofia, medicina 

h w r mia V° PPU J e costltuitesi nell’uso pratico (termini di commercio’ 
darti figurative, di musica, ecc.). 

noi es . em P io alcuni termini d’arte che vengono tecnifìcati 

toctato a cf3k m ° ql “ smo agU ultlmi anni del socol ° per poter 

H’inoh^ U f reWa - ( t aCquereUo5>): * e poi aombrare le pieghe d ’aquerelle 
d inchiostro; cioè aqua quanto un guscio di noce tenessi dentro due 
gocce d inchiostro»: Cennini, cap. VII; 

aria, quale ce lo testimonia il Petrarca («umbra quaedam et quem 
pictores nostri aerem vocant, qui in vultu inque oculis maxime 

Fami1 - XXIII > 19 > 121 e lo usa il Cennini («contra natura sarà 
cne a te non venga preso di sua maniera e di suo aria», c. XXVII) il 
Petrarca anche in verso («quell’aria dolce del bel viso adorno», 122- «e 
mi contendi 1 aria del bel volto», 300); 

CLXXVl ‘ lavorare lu fresco, cioè nella calcina fresca» (Cennini, c. 

è Ìr ì Dante < “J"* . X, v. 132), e il Buti spiega con numerosi 
sinonimi, «questo vocabolo significa lo piumacciuolo, o lo capitello o lo 
scedone, o leoncello che si chiami, che sostiene qualche trave»- 
sfumare-, «1 acquerelle che vi dài su, non vi appariscono sfumanti e 
chiare» (Cennini, cap. XVII; cfr. quel che poi dirà l’Alberti, Pittura, p. 77 
Papini: «mancando il lume bianco, si perderebbe quasi in fumo») 

d’orizzonte portato dal traffico ci è testimoniato 
daH apparire della nuova parola milione-, il Farinelli (nel son. «Se si 

— e + del 13 ! 5) scrive * e «ente paladina un milione », ma 
acopo d Acqui, intorno al 1330, deve ancora spiegare il vocabolo «quod 
est idem quod divicie mille milia librarum» 190 , e così pure Giovanni 
Villani: «si trovò nel tesoro della Chiesa in Vignone in moneta d’oro 
coniata il yaìore di diciotto milioni di fiorini d’oro... che ogni milione è 
mille migliaia di fiorini doro la valuta» (Cron., XI, 20). 

Il linguaggio poetico ha ricevuto dagli Stilnovisti fortissime impron- 


108 Citato da L F. Benedetto, Il Milione, Firenze 1928, p. 246 . 


214 


Stona della lingua italiana 


Il Trecento 


215 


te-, ma già cominciando da Cino da Pistoia i termini di quel lessico, i 
disiri, i sospiri, i martìri, sono diventati convenzionali, mero repertorio. 
E alcuni addirittura ( angelo , stella, tesoro, occhi ladri, ecc.) si installe- 
ranno nel lessico comune. Il Petrarca passò poi al vaglio tutto quel 
vocabolario. 

Nei procedimenti della creazione lessicale non c’è molto da osserva- 
re. Nella derivazione prefissale si nota il passar di moda di qualche 
procedimento caro al secolo precedente: p. es. il tipo oltramirabile, 
oltrapiacente; è invece ancora molto produttivo mis- imisaweduto, 
misawentura, miscadere, ecc.). Alcuni suffissi godono particolare fortu- 
na: -esco, -evole, -ista {autopista, decretalista, tenorista, ecc.; a «Messer 
Antonio piovano - eccellente dantista » intitola un sonetto nel 1381 
Fr an co Sacchetti). Il bisogno di esprimere una nuova nozione urge su 
parecchi, e talvolta produce una serie di tentativi, una disordinata 
efflorescenza, che solo più tardi si placherà nella scelta d’un solo 
vocabolo. Come aggettivo derivato di poeta si ha poetico, ripreso dal 
latino (p. es. in Alberto della Piagentina e nel Buti), ma poi anche 
poetevole (nel volgarizzamento di Guido Giudice), poetesco (in Franco 
Sacchetta, poetale (in Zenone da Pistoia). 

Sempre numeróse sono le formazioni di deverbali senza suffisso, dei 
tipi bilancio, ploro e ruba. 

Seguono per lo più i tipi normali di coniazione le voci foggiate per 
burla, come i «ventri attopati» della novella 187 del Sacchetti (che son 
poi quelli che hanno mangiato i topistomelli offerti da Dolcibene in 
cambio della gattaconiglioì. 

In complesso, anche rimanendo in Toscana, il lessico trecentesco 
presenta un’assai scarsa compattezza. Per esprimere la nozione di 
«sorella» abbiamo, oltre a sorella, le forme suora (Dante, Villani), suore 
(Cavalca), sorore (Petr.), scrocchia (Villani, A. Lancia), sirocchia. (Boccac- 
cio), sorocchia (Sacch.>, solo per ima forma, suoro, si vede chiaramente 
ima precisa localizzazione, cioè Siena. Così accanto a lepre troviamo 
levre (Dante), lievre (Rotta di Montecatini, Ottimo, ecc.), lievore (Simin- 
tendi); abbiamo sorice, sorico, sorcio, sorco, sorgo, e così via. Persino 
dove si aspetterebbe che l’analogia della numerosa serie in -mente 
interve nis se a normalizzare, si ha, accanto ad altramente, anche 
altramenti, altrimente e altrimenti : e sarà questa la forma che prevarrà. 
Dove sono in lizza unaìorma popolare e una latineggiante, questa ha 
spesso la meglio, come vedremo nel paragrafo seguente. 


20. Latinismi 

Il lessico toscano nel Trecento ha accolto e «digerito» latinismi (e 
grecismi) con un’ampiezza di cui difficilmente ci si fa un’idea. 

Se ne possono fare elenchi per scrittori o per opere singole, e in 
qualche caso se ne possono ricavare importanti indizi per la cultura 
dell’autore, il suo atteggiamento rispetto agli antichi o rispetto a 


singoli scrittori latini, e magari con questo aiuto discutere problemi di 
autenticità o di attribuzione 101 . Ma qui ci preme solo considerare 
l’assunzione dei latinismi nelle sue linee generali, valutandone la 
penetrazione stabile nel lessico. S’intrecciano, come sempre, moventi 
obiettivi e moventi affettivi 

Anzitutto molti latinismi sono accolti per rispondere ai bisogni dei 
compilatori di opere filosofiche e scientifiche in volgare, tradotte, 
compendiate o originali. 

Si spiegano così i molti latinismi per esprimere concetti astratti: 
avverte l’autore del Fiore di virtù che «le cose spirituali non si possono 
sì propriamente esprimere per paravole volgari come si esprimono per 
latino e per gramatica, per la penuria di vocaboli volgari». Si spiega 
l’accettazione di termini anatomici e medici come congiuntiva, duode- 
no, ieiuno, poro, ulcerare, o di termini astronomici come esaltazione 
«altezza» (Iac. Alighieri), Leo, Virgo, Scorpio, Tauro, Pisce, ecc. I 
traduttori dal latino, in quanto sempre meglio avvertono la differenza 
tra le «realità» antiche e quelle moderne, sono indotti a introdurre 
vocaboli latini che indichino questa diversità di nozione: nella versione 
della terza Deca di Livio, il Boccaccio usa repubblica, militi, legione, 
ecc., e non più i travestimenti medievali ( comune , ecc.); così l’Ugurgieri, 
volgarizzando Virgilio, mantiene un termine tecnico come infula (p. 341 
Gotti); il Giamboni, nel tradurre Vegezio, usa pluteo. Fazio degli Uberti, 
descrivendo Roma, spinto dal, nome antico non meno che dalla 
sopravvivenza locale, dirà: «Vedi Termi Dioclezian si bello» {Dittamon- 
do, II xxxi v. 91) 102 . 

Molte altre volte i latinismi sono accolti perché danno eleganza, 
signorilità, decoro, perché contribuiscono ad alzare il volgare alla 
dignità del latino 103 . Talora i latinismi si adoperano perché si adattano 
bene a un dato schema: specialmente quando si ha bisogno di 
sdrucciole: «la traditrice lepore marina», cioè Pisa (Farinelli, son. «Poi 
rotti...»), «I’ sento sbadigliar la madre vetula» (Alesso Donati, madrigale 
«Ellera non s’awitola...»). Ma il fatto che queste parole non sono 


101 Si pensi alle indagini del Maggini e dello Schiaffini, che conclusero con 
l'attribuzione al Boccaccio del volgarizzamento della 3* e della 4 a deca di Livio 
(Maggini, I primi volgarizzamenti, cap. IV; Schiaffini, Tradizione, cap. VII), 
confermata poi per altra via dal Billanovich (v. qui addietro, p. 208). Il volgarizza- 
mento mostra quella smania che talora ha il Boccaccio di riprodurre Tornato 
latino nei particolari, e vi si leggono latinismi «laceranti» come preera alla 
provincia, prefece, ecc. 

102 Cfr. la st. 68 dell’/ ntelligenza: «L’ottavo loco è fermasse chiamato - secondo 
lo latin de li Romani, - e per volgare si è stufa appellato». 

103 Tutt’altro che consuete sono ormai le mescolanze come quelle che 
troviamo in un testamento veronese del 1324: «Imprima eo magistro Alberto 
instituo, ordino, dispono et fago magistro Guiduzo... meo hereso... commandarò et 
legabo » (Migliorini-Folena, Testi Trec., n. 11). Null’altro che scherzi poetici sono i 
componimenti «semiletterati» come quello di Gidino: 

Per le parole del Corvo fedele 

Phoebus iratus plenusque furore, ecc. (p. 48 Giuliari). 


216 Storia della lingua italiana 

sopravvissute mostra che rispondevano a una momentanea opportuni- 
tà artistica e non a un bisogno sociale. Altre volte non si tratta 
nemmeno di spinta artistica, ma di pigrizia o di capriccio: «e quando 
viene en etate nubilla > (nubile), (Niccolò del Rosso, son. «La femme- 
na...»). I modi di adattamento dei latinismi non sono sempre uniformi. 
Talvolta si riproduce il vocabolo latino tale e quale, talaltra si adatta 
foneticamente e morfologicamente agli schemi italiani. 

C’è la possibilità, accanto a entrare, lottare, lecito, di avere fonne 
latineggianti come intrare, lattare, licito, specie se servano per la rima. 
Ma esiste desco, ben saldo, e il Boccaccio, che avrebbe bisogno di 
esprimere la nozione del «disco» degli antichi, non ha il coraggio di 
farlo, e si attiene a desco -. «con Sarpedone al desco allor giucando» l Ics., 
XI st. 66) 104 . 

All’adattamento popolare assempro si contrappongono con crescen- 
te fortuna essemplo ed esempio. - 

Gli aggettivi latini in -undus sono di solito adattati con la anale 
•ondo, conformemente allo schema di profundus/ profondo, secundus/ 
secondo ; ma si può avere anche -unào, in prosa e in poesia (p. es. 
vagabundo, Bocc., Tes., Ili, st. 76); e così si può avere verecondia e 
verecundia («la verecundia è ima paura di disonoranza per fallo 
commesso»: Dante, Conv., IV, xxv, 10). Similmente si ha defunto (Dante) 
e defonto (Sacch.). Oscillano -amia e -ama, -ernia e -enza. 

Oppure si pensi al trattamento di j: love alterna con Giove, lusttzia 
con giustizia, deiezione e degezione, addiettivo e aggettivo, plebeo e 
plebeio, ecc. Oscillano speciale e speziale, socio e sozio, ecc. 

Morfologicamente, si adatta di solito la forma dell accusativo spo- 
gliandola della -m finale 105 . Ma nei nomi della terza declinazione, e non 
solo in quelli in -o ( Apollo , ecc.), è tutt’altro che rara l’adozione del nomi- 
nativo: aspe, ospe, satelle, vinte, e simili; oltre al tipo maiesta, podestà, 
mortalità. Felicita, Trinità e simili. Ancora nel Duecento e nella prima 
metà del Trecento l’oscillazione nei nomi propri antichi è fortissima: si 
pensi alle forme varie che ha il nome di Venere per indicare la dea o il 
pianeta- Veno (nel Fiore e nel Detto d’amore ), Venusso (nel Fiore), Venu s 
(Boccaccio, Tes.-, Sacchetti, Battaglia, ecc.). Ma il tipo francesizzante di 
adattamento 106 man mano cede a quello più moderno: Dante oscilla fra 
Cleopatràs e Cleopatra, il Petrarca ha Cleopatra. --- 

L’accento, in alcune parole più rare, e specialmente nei nomi propri, 
tende spesso a passare sulla penultima-, Amazóne (Bocc., Teso, Castóre, 
Nestóre (ivi), Ipocràte (Sacchetto, baltèo (Boccaccio), satiro (Sercambi), 
ecc. 


lM Solo molto più tardi (s. XVII) il lessico accoglierà disco. 
im Qualche titolo, che ora sogliamo tradurre, si usava citare in latino: 
«Ovidio, nel quinto di Metamorphoseos » (Dante, Conv., II, v, 14); «del re Saul si 
legge, nel libro Paralipomenon » (Passavahti, Specchio, p. 308 Pohdon); e simili. 

8 ioe n Salvini {Discorsi accadem., CX) ricorda il «vecchio Villani, che disse 
Eneas Silvius, e cento altri latinamente alla maniera francesca*. 


Il Trecento 


217 


Qualche particella, qualche locuzione è assunta dal linguaggio 
giuridico, dal linguaggio filosofico, ecc.: de plano, di nottetempore (o di 
nottetempo ), e converso e simili. 

Si attinge, come è ovvio, alla latinità circostante in tutti i suoi 
aspetti: si ricavano parole non solo dagli scrittori classici, ma più 
ancora da quelli ecclesiastici ( condegno dal condignus di S. Paolo, 
girovago dal gyrovagus della Regola di S. Benedetto) e da quelli 
medievali ( duello , bravi o; brocardo-, altimetria, planimetria ). Il Boccac- 
cio, curioso di scrittori tardi (Apuleio, ecc.) attinge vocaboli anche ad 
essi (meditullo, prosapia). E qualche volta scrittori meno dotti ricorrono 
a ima latinità di fantasia: così sono nati il plebesciti «plebei» di Antonio 
Beccali (v. sopra, p. 200), che dev’essere una confusione di plebiscitum 
con un presunto participio passato di plebescere, Yagnizia di ser Filippo 
di ser Albizzo in un sonetto al Sacchetti («Credo che l’abbi tu, se n’hai 
agnizia», LXXII a, ed. Chiari), il profazio di Monaldo di S. Casciano (v. 
sopra, p. 198), il vàpoli «maneschi» di Fazio degli Uberti (II, xv, v. 49), 
ecc. 

Lo scrittore stesso che adopera un latinismo sente talvolta la 
necessità di chiarirlo, per non riuscire oscuro a quelli fra i suoi lettori 
che ignorano il latino. Ecco qualche esempio di tali interpretamenti: 
«Di questo mese si semina la ruta ne’ luoghi aprici, cioè in lieto ed 
aperto luogo» (Volg. Palladio, Marzo, XV); «Tayda fu concubina, cioè 
bagascia di Sansone» (Pucci, Zibaldone, cit. da D’Ancona, Saggi, p. 381); 
«tu lo visiti nel tempo del diluculo, cioè la mattina per tempo»... 
« diluculo non è altro a dire, se non il dì che già luce» (Mor. S. Greg., 8, 
20); «per la erubescenza, cioè per la vergogna che è nel confessare» 
(Passavanti, Specchio, p. 151 Polidori); «sì maturo e vecchio, che ogni 
color del letame sia esalato, cioè sfumato» (Volg. P. Cresc., 4, 10, 3); 
«Nell’ultimo luogo delle virtudi è da dire d’una virtù, la quale è requie 
di tutte le altre, ed è detta eutrapelia, cioè giocondità» (Bart'ol. da S. 
Concordio, Amm. degli antichi, IX, rubr.; anche Dante adopera eutrape- 
lia: Conv., IV xvii, 6); «prese una fiscella, cioè ima nassa» (Fiorita 
d’Italia ); «Awegna che per molte condizioni di grandezze le cose si 
possono magnificare, cioè fare grandi...» (Dante, Conv., I, x, 7); «quella 
o stetrice, cioè che leva i fanciulli» (Pistola di S. Girol.) 107 ; «volen- 
do narrare ’l gioco della palestra, cioè dove i campioni si provavano» 
(Mor. S. Greg., I, 6); « proàulo è il secondo, ch’uomo appella verone» 
Unteli., st. 61). 

Glosse di questo genere provano che la parola era poco meno che 
sconosciuta. Minor valore dimostrativo hanno, naturalmente, le glosse 
dei commentatori, i quali spiegano di proposito non solo i vocaboli 
oscuri ma anche quelli un po’ meno chiari: il Boccaccio spiega (Tes., 
Vili, 94) «la marzial gente» con «guerriera»; il Buti chiosa in Dante 
cuna e larva e zona e tanti altri latinismi. 


107 Migliorini, Saggi ling., pp. 132-134. 




218 Storia della lingua italiana 


Il Trecento 219 


La tendenza a introdurre nuovi vocaboli latini fa sì che siano man 
mano respinti dall’uso vocaboli che prima erano usati esclusivamente. 
Così esercito, orazione, repubblica vengono sostituendo oste, diceria, 
comune 10S ; pittore dapprima adoperato solo come latinismo, finisce poi 
col vincere pintore e dipintore 109 . 

Va di pari passo la tendenza alla rilatinizzazione delle parole, cioè 
la sostituzione di forme alterate secondo la fonetica toscana con forme 
identiche a quelle latine. Nelle coppie cecero-cigno, diecimo-decimo, 
dificio-edificio, ettemo-etemo, fedire-ferire, giogante-gigante, guagne- 
lo/vangelo-evangeliik), ninfemo-infemo, nicistà/nicessità-necessità, orra- 
to-onorato, orrevole-onorevole, sanatore-senatore, sinestro-sinistro, e tan- 
te altre, si potrebbe studiare il lento progresso e il definitivo trionfo 
della seconda forma a spese della prima. Talora la poesia precorre la 
prosa; talora i non Toscani hanno fatto traboccare la bilancia a favore 
del latinismo e a spese della forma più «idiotica». Si veda p. es. con 
quale sicurezza e stabilità i Toscani nel Trecento adoperano, in prosa 
(Boccaccio) e in poesia (Dante, Petrarca) Cicilia, ciciliano («per la 
varietà di volgari degli abitanti è oggi da loro chiamata Sicilia, e da noi 
Italiani Cicilia »: Villani, Cron., I, 8): poi Sicilia, appoggiandosi al latino, 
finirà col prevalere definitivamente. 

Invece in un certo numero di casi, la rilatinizzazione è stata 
respinta: non basta che il Petrarca adoperi una volta in rima bibo e 
describo, o che il Boccaccio scriva limbo per lembo perché l’uso 
popolare di bevo, lembo e quello semidotto di descrivo siano intaccati. 

Il lessico finisce con raccogliere stabilmente molte e molte centi- 
naia di vocaboli: e non solo nell’uso letterario, ma nell’uso quotidiano (e 
magari ufficiale, p. es. censo, esattore ). 

Ecco un breve elenco meramente esemplificativo di latinismi entrati 
nel lessico nel Trecento (senza poter escludere che qualcuno risalga al 
secolo precedente): adunco, ambrosia, antropofago, atroce, austero, 
autentico, circonferenza, claudicare, compatriota, confabulare, consimi- 
le, discolo, energumeno, esistenza, eunuco, evaporare, faretra, frugale, 
girovago, ignavia, incolore (Cecco d’Ascoli), indigente, industrioso, 
ingurgitare, invitto, mellificare, milizia, ostare, premeditare, prolisso, 
puerile, pusillanime (-o), qualificare, rubicondo, serico, settentrione, 
siccità, sofistico, spurio, stirpe, transitorio, truculento, venereo, venusto, 
verecondo, vigile, vigilare. 

Invece numerosissime altre voci, adoperate occasionalmente da 
qualche scrittore, non arrivano ad attecchire. Ecco qualche esempio 
anche di queste: ablato «cosa portata via» (Sacch., nov. 293); Uiìalare 
«respirare» (Cecco d’Ascoli, Acerba, 1 . IV, c. 4); cano «bianco, canuto» 
(Sennuccio Del Bene, son. «Amor, tu sai ch’io son col capo cano»); ceno 


108 Maggini, Lingua nostra, III, 1941, pp. 76-79; Vili, 1947, pp. 1-3. 

1M In documenti fiorentini dei primi del Trecento, quelli in latino hanno pictor, 
quelli in volgare dipintore (Davidsohn, Firenze ai tempi di Dante, pp. 379, 416). Gli 
Statuti di Perugia del 1342 hanno l’arte dei pentore Q, p. 124 Degli Azzi). 


«fango» (Canigrani, Ristorato, cap. XL); comere «pettinare, lustrare» 
Tempo, v. 16>, complettere «abbracciare» (Canigiani, Rist., 
cap. XXXyiII)>, convizio «ingiuria» (Maestruzzo); conviziatore «ingiu- 
natore» (Bocc., lett. Pino de’ Rossi); cornice «cornacchia» (Petrarca 210> 
diversorio «albergo» (Cavalca, Specchio croce, IX); (hìebere «venir meno» 
(Petrarca, TV. Fama, I, v. 91); ecc. 

In alcuni casi la scomparsa di questi latinismi avventizi si spiega 
b .® n f: T , ora b romonimia che li pone a contrasto con altri vocaboli più 
vitali: celare «intagliare» (da caelare ) non può resistere a celare «nascon- 
dere»; contento da contemptus «disprezzo» (M. Villani; Fioretti, ecc.) e 
anche contento nel senso di «contenuto» non reggono in presenza di 
c on tento « lieto »; eretto da ereptus «rapito» (Canigiani) non resiste a 
eretto «ritto»; fitto da fictus «finto» (Passavanti) cede a fitto « conficca- 
to»; invito da invitus «che fa contro voglia» (Boccaccio) svanisce di 
contro alla famiglia di invitare, ecc. Invece il latinismo ostare «ostacola- 
re* vince il gallicizzante ostare «togliere» (da o ster, óter). Anche certi 
significati o costrutti peculiari del latino non arrivano a imporsi, 
accanto al significato più generale e più saldo nell’uso: p. es. istituire 
nel senso di «educare», offendere a e offendere in nel senso di 
«inciampare»; più lunga vita avrà nell’uso letterario discorrere nel 
senso di «girare intorno». 


21 . Gallicismi ed altri forestierismi 

Larga come s’è visto, è la conoscenza, diretta e letteraria, delle cose 
francesi. In singole persone, viventi o vissute in Francia, se ne avverte 
dirett P : . si legga per esempio, ima lettera scritta nel 
1330 da Balduccio Partim, un pistoiese residente in Beaulieu: «...Quan- 
do fili a Torso, lo balio volse piagi da me fiorini 500, che io mi 
rapresenterei dedens certana giornata a Parigi...» (rr. 29-31); «in questa 
dentiera lettera ch’à mandata...» (rr. 54-55), «no ci à valletto nè 
ciamberiera che possa durare con lui» (r. 140), ecc. 110 . 

E il fortissimo i nfl usso esercitato nel secolo precedente da modelli 
francesi e provenzali sulla lirica e sulla materia romanzesca (anche 
d argomento classico) continua a scorgersi ancora. Si veda p es la 
copia dei francesismi e provenzalismi nella canzone del Pregio di Dino 
Compagni («Ché pregio è un miro di clartà gioconda - ove valor 
s agenza e si pulisce... en guerra franco a mostrar sua valenza - e 
dnturier, quando impronta, al pagare...»). Nella versione del Libro dei 
Sette savi leggiamo accollare «abbracciare», aggio «età», astivo «fretto- 
loso», calangiare «rivendicare», coprifuoco, dipardio!, merciare «ringra- 
ziare», micieffo («il micieffo cioè il disastro», p. 70 D’Ancona) musardo 
«perdigiorno», taccia «macchia», ecc. 




italiano nella prima metà del Trecento 


una ienera mercantile del 1330 e la crisi del commercio 


in Arch. stor. ital., s. 7®, 1, 1924, pp. 229-256. 


220 Storia della lingua italiana 

Verso la metà del secolo, persistono ancora parecchi gallicismi: e 
quelli usati in poesia coincidono solo parzialmente con quelli usati in 
prosa (abbiamo p. es. dammaggio, plusori nella Teseida, civire, civanza, 
saramento, sugliardo nel Decamerone ). Dopo la scelta rigorosa operata 
dal Petrarca, i gallicismi da lui evitati nel verso (p. es. naverareì 
spariranno definitivamente. 

L’afflusso di francesismi nuovi è ormai ridotto a poco: qualche nome 
ora penetra con gli oggetti: p. es. dorè e tanè nella tariffa fiorentina dei 
tintori (1375), bombarda, nominata la' prima volta a proposito dell’asse- 
dio di Brescia del 1311 (che sembra francese per il suffisso), petito 
«misura per liquidi nell’Italia mediana». Né sempre i francesismi 
mantengono connotazione elegante, ammirativa: ciambra, zambra 
dovè in origine, nel Duecento, essere accolto come sinonimo elegante 
rispetto a camera. Ma ormai nel Trecento non è più così-, in due sonetti 
della stessa corona il Pucci adopera indifferentemente camera e 
zambra secondo la necessità del metro: «poi me n’andai in camera con 
lei», «po’ che no’ fummo nella zambra entrati»; a Siena ciambra ha 
preso (già nel volgarizzamento del del Costituto, che è del 1309-10) il 
significato di «pozzo per lo spurgo di materie fetide», e spregiativo è il 
derivato zambracca (che è già nel Corbaccio ). 

Dalla penisola iberica giungono poche parole: ricordiamo il nome 
del gioco delle carte, entrato insieme con esse, nàibi (dall’arabo) 111 , il 
nome dei mugàveri o almogàveri. Negli ultimi decenni del secolo si 
divulgano le maioliche, il cui nome appare ancora come nome proprio 
nel Cennini («belli vasi da Domasco o da Maiolica », c. CVII) 112 . 

È difficile dire se siano giunti in questo secolo, oppure già prima, 
arabismi documentati ora, come cubebe o tazza o chermisi («cremisi»). 

Poche voci penetrano dal tedesco, come il piffero (Pecorone), il gioco 
della zighinetta (Lucca 1362). Il nome di sciverta «spada» (da Schwert ) 
non attecchì Q’usa solo il Prodenzani, Sollazzo, VI, v. 73). Qualche altro 
termine, come luffomastro o luvomastro (Villani), dicco («I Fresoni 
ruppono i dicchi, ciò sono gli argini»: Villani), è solo riferito ai luoghi 
d’origine. 

Lo stesso si può dire dei termini usati da mercanti italiani in 
Inghilterra: costuma «dogana», cochetto «documento che attesta l’awe- 
nuto pagamento dei diritti doganali», fé o «stipendio», ecc. 113 , o dei nomi 
greci e orientali usati in narrazioni di viaggi: p. es. Leonardo Frescobal- 
di parla di «duecento calori », cioè caloiri, Calogeri 114 . 


1,1 V. le testimonianze di S. Debenedettì, Il « Sollazzo », pp. 161-162. 

112 Cfr. il secondo trattatello Dell’arte del vetro pubblicato dal Milanesi, cap. 
40: «Prendi el vasello di terra secco che vuoi dipingere, secondo fanno quelli di 
Maiolica-»-, e nel titolo: «scodelle di maiolica ». 

113 E. Re, Arch. stor. ital., LXXI, 1913, pp. 249-282. 

114 Anche la Frahceschina del p. Oddi, nel secolo seguente, parlerà de «li 
caloiri, li quali sonno religiosi heretici». (II, p. 262). 


Il Trecento 221 

22 . Voci non toscane 

Non intendiamo qui parlare delle parole o frasi dialettali che singoli 
scrittori toscani introducono nelle citazioni o nella narrazione per color 
locale (cfr. pp. 193-194 e 197). E tanto meno delle numerose parole 
dialettali o interdialettali che appaiono negli scrittori non toscani: 
enguana «fata delle acque», treppare «saltare», che leggiamo in sonetti 
in «italiano» del Vannozzo, còttola «sottana» nel Correggiari, ossorare 
nel Catenacci; e dei vocaboli anche più numerosi che si hanno negli 
scritti in prosa di autori non toscani, i quali restano come elementi di 
«sostrato». Intendiamo invece ricordare che già in questo secolo sono 
state accolte nel lessico numerose parole da altri dialetti. Prevalgono le 
voci settentrionali, provenienti dal Veneto {madrigale ), o da focolari 
non ben determinabili dell Italia padana ( cavezza , corazza, rugiada 
tregenda, filugello) 115 . 

Anche per qualcuna di queste voci, le oscillazioni sono fortissime: 
basti citare i van adattamenti del veneziano dòse (doxe)-. se il Giamboni 
e il Boccaccio hanno doge, il Barberino ha dugiè, il Villani dogio, il «Re 
Giannino» dugio, il Sercambi dogio o dugio. Certo le varianti sono 
dovute all’influenza del latino dux o del volgare duca, dato lo strettissi- 
mo contatto semantico (il Barberino nel Reggim., I, iv e I, v parla del 
duca di Storlich in verso e del dugie di Storlich in prosa). 

Entro la Toscana stessa, gli scambi sono forti: Firenze dà e riceve 118 ; 
e se nei testi lucchesi, pistoiesi, senesi, aretini, troviamo ancora 
fenomeni e vocaboli caratteristici, non li troviamo allo stato puro, ma 
quasi sempre, ormai, mescolati con fenomeni e vocaboli del fiorentino 
letterario: ponto, fameglìa, merolla, hanno accanto a sé punto, famiglia , 
midolla. 


_ S1 8hifica ancora, conforme all'etimo (follicellu), «bozzolo»: cosi 

filogello nel Costituto di Siena, 1309-10; «imparato a trarre seta di filugelli » nel 
Sercambi, p. 34 Renier; e anche nell’emiliano Paganino Bonafé «per vermi da 
follisela» ( Thesaurus rusticorum, v. 590 del cod. Bologn., ed. Frati). A Lucca 

significa «seta di rifiuto o di spurgo» {Statuti della Corte dei Mercanti, 
1376, Glossano). 

“® Esempi in Castellani, Nuovi testi, pp. 72-78, 104 e passim. 



CAPITOLO VII 

IL QUATTROCENTO 


1. Limiti 

Se, invece degli anni secolari, volessimo porre alla nostra trattazio- 
ne limiti meno convenzionali, potremmo prender le mosse dalla morte 
del Boccaccio, da cui s’inizia quello che, riferendosi al noto compianto 
del Sacchetti per la morte del Boccaccio, gli storici hanno chiamato il 
«secolo senza poesia» (1375-1475)'. 

Una data importante, comunque si debba giudicare dell’efficacia 
dell’evento, è quella del Certame coronario (1441); importantissima 
quella della stampa dei primi libri in volgare (1470). Le date dell’ultimo 
decennio (1492, morte di Lorenzo de’ Medici, scoperta dell’America; 
1494, spedizione di Carlo Vili) sono state tanto adoperate e tanto 
discusse come date terminali dell’Evo medio che possiamo dispensarci 
dal parlarne. 

2 . Eventi politici 

Le città-stati sono ormai tramontate e anche le piccole Signorie 
tendono a sparire, assorbite negli Stati regionali a regime principesco 
od oligarchico. Venezia estende il dominio in terraferma eliminando 
Scaligeri e Carraresi; Firenze conquista Pisa (1406) e acquista Livorno 
(1421), ecc. 

Nella prima metà del secolo, assistiamo, dopo i tentativi di espan- 
sione di Gian Galeazzo, a quelli di Filippo Maria Visconti; poi alla 
conquista della dinastia aragonese di Sicilia, la quale, vincendo la 
partita sugli Angioini, riesce a riunire il Napoletano all’isola. Lo Stato 
Pontificio risente gravemente delle conseguenze degli scismi; e solo con 
Niccolò V toma a consolidarsi e a pesare tra gli Stati italiani. Un certo 
equilibrio s’instaura negli ultimi decenni, auspice Lorenzo de’ Medici; 
ma i sentimenti di rivalità fra gli Stati sono tanto forti da non 
permettere di agire in comune quando la Francia e la Spagna, 
costituitesi in Stati nazionali, verranno con pretesti dinastici a impa- 
dronirsi di terre italiane e a dirimere nella penisola le loro contese. 


* B. Croce, Poesia popolare e poesia d'arte, Bari 1933, p. 233. 


224 


Storia della lingua italiana 


La caduta di Costantinopoli in mano dei Turchi (1453) si ripercuote 
sulla politica e sulla vita culturale italiana. E l’espansione dei Turchi 
nella Penisola Balcanica spinge all’emigrazione e all’insediamento in 
Italia di numerose colonie albanesi e serbocroate. 

La posizione degli Stati Sabaudi a cavaliere delle Alpi contribuisce 
a dare al francese una posizione importante nel Piemonte. La Sarde- 
gna è in questo periodo in mano aragonese e la nobiltà immigrata vi 
ottiene forti privilegi. La Corsica dipende politicamente da Genova, 
Malta dal regno di Napoli, la Dalmazia costiera da Venezia. 

I prìncipi dominano sulle corti, dove hanno modo di manifestarsi il 
lusso, l’ambizione e anche la cultura. Se la forza, anzi addirittura 
1’esistenza, di questi Stati come tali poggia sull’individualità dei 
principi stessi (basta pensare allo «sgonfiarsi» dello Stato milanese alla 
morte di Gian Galeazzo e più tardi di Filippo Maria), è ovvio che la loro 
influenza personale si manifesti ampiamente sia nella vita di corte, sia 
nelle cancellerie, da cui dipende l’organizzazione amministrativa degli 
stati Molto più impersonale è l’opera delle cancellerie negli stati 
oligarchici. 

Si ha un assai notevole movimento di persone, sia entro gli stati 
stessi (forti migrazioni dal contado alla città), sia fra stato e stato 
(matrimoni esilii, composizione eterogenea delle Compagnie di ven- 
tura, e successivi stanziamenti di uomini d’arme, attività di diploma- 
tici, ecc.) 2 , talora con importanti conseguenze culturali 3 e anche lin- 
guistiche 4 * . 

Con gli altri paesi europei e mediterranei si svolge un assai intenso 
traffico, sia per terra sia per mare (si pensi ai frequenti viaggi di galee tra 
Firenze e Bruges). L’espansione dei Turchi porta invece grave danno agli 
stanziamenti coloniali e agli scambi commerciali, che più facilmente si 
erano svolti sotto il più tollerante dominio degli imperatori greci. Danni 
anche più gravi porterà ai commerci italiani la nuova via delle Indie 
aperta dai Portoghesi con la circonnavigazione dell’Africa. 

3. Vita culturale 

L’entusiasmo per l’Umanesimo, diffondendosi principalmente da 
Firenze, si accende per tutta quanta l’Italia. Si mira, attraverso ima — ~ 
caccia quasi affannosa ai codici antichi, alla riscoperta, o meglio alla 
riconquista del mondo classico: e tale riconquista è insieme causa ed 
effetto di ima rinnovata fiducia delle forze umane nel costruire una 
convivenza civile, di un nuovo sentimento dell’importanza dell’uomo 


3 II Beccadelli, nato a Palermo di famiglia bolognese, vive a Siena, a Pavia, a 
Napoli; il Pontano è nativo di Cerreto di Spoleto, ecc. 

3 Vediamo p. es. che Palla Strozzi, esule a Padova, è uno dei caposaldi della 
penetrazione del Rinascimento letterario e artistico nel Veneto. 

4 In Firenze si affacciano (nella seconda metà del ’300 e ora) peculiarità 

dialettali provenienti dalla Toscana occidentale e meridionale. 


Il Quattrocento 


225 


Q T nd A La ci . ttà : terTena non è più svalutata come mera preparazio- 
e alla citta celeste, ma è vagheggiata con amorosa cura nei suoi 
elementi materiali e spirituali. 

In contrasto con la cultura medievale, che era di carattere quasi 
esclusivamente ecclesiastico, la cultura umanistica è prevalentemente 
secolare, sia per gli oggetti che la interessano sia per le persone che la 
pra icano. All indirizzo aristotelico, tuttora predominante nelle scuole 
si contrappongono correnti neoplatoniche e mistiche, che hanno una 
torte influenza negli ultimi decenni del secolo, specie a Firenze. «Se il 
pnmo umanesimo fu tutto un’esaltazione della vita civile, della libera 
costruzione umana di una città terrena, la fine del’400 è caratterizzata 
da un chiaro orientamento verso un’evasione dal mondo, verso la 
contemplazione» 3 . 

- ì’ a !ì a ì£ arSÌ de ® U studi l’antichità fa sì che uno che vi si dedichi a 
fondo debba spendervi gran parte del suo tempo - e quindi aspiri a 
ricavarne il sostentamento e magari l’agiatezza. Diventa abbastanza 
frequente m questo tempo la professione del letterato. C’è poi chi vive 
recitando ì propri versi, come Serafino Aquilano - anche se c’è chi lo 
considera un «menestrello» 8 . 

L esame spregiudicato dei testi nuovamente scoperti pone i fonda- 
menti di quella che sarà la filologia testuale. Si cominciano a dibattere 
prò emi di linguistica storica: si pensi alla famosa discussione avvenu- 
ta a Firenze nel 1435, nell’anticamera di Eugenio IV, se già nell’antica 
Ronm esistesse una differenza tra latinità colta e latinità parlata 
analoga alla differenza che c’era allora tra latino e volgare 7 , oppure 
alla pagina in cui Poggio riconosce una permanenza di lingua parlata 
romana in Spagna e e in Sarmazia 8 . 

A ! 1 a 1 I ? mirazi °P e P er gh scrittori classici consegue il proposito 
d imitarli: anziché scrivere secondo la consunta tradizione scolastica 
medievale, ciascuno viene studiosamente costruendo la propria lingua: 
chi scegliendo fior da fiore tra i vari scrittori, chi mirando a restringere 
il canone verso il solo Cicerone 9 . Giannozzo Manetti si fa interprete di 
questa coscienza degli umanisti di essere gli artefici di una lingua 
nuova quando asserisce 10 che la lingua non è dono della Natura ma 
«subtile quoddam et acutum artificium». 


3 E. Garin, L'Umanesimo italiano, Bari 1952 , p. 103 . 

1901 ° p f 2oì) SOnett ° meSS ° “ b ° CCa a SUa madre (cit - negU Scritti ~ Monaci, Roma 
senza bisugnu a fa da ministriglie 
n mezzo a Milano, Mantova et Urbinu. 

Th p 7 ^J^}%^w Ìn f U ?. n ,^ Stra ^ XW ’ 1953 ' pp - 64 69 {con Iabibl - Prec.); H. Baron, 
b n W ofthe Early Italian Renaissance, Princeton 1955, pp. 304-312 421-429 

260 261) Pera ’ BaSllea 1538, p ‘ 54 (cfr ' E ‘ Wa lser, Poggius Florentinus, Lipsia 1914, pp. 

Ìo^xt ® abbadim . Storia del ciceronianismo, Torino 1886. 

r^r.h- 1 ^ - ™? oso discorso «De dignitate et excellentia hominis» (cit. da G 
Gentile, m Giom. stor. lett. it.. LXVII, 1916, p. 67). 


226 


Storia della lingua italiana 


Coluccio Salutati non solo riforma la propria lingua, ma, q u *de 
cancelliere 0 deUa repubblica di Firenze, introduce un nuovo stile 

““ffidtecute' e talora con accanimento, sulle regole da applicare E 
anzitutto gli 'umanisti si scagliano contro il latino tradizionale delle 
scuole, e i vecchi manuali quali il Doctrinale e ìtì Grecu r 
Le arti figurative sono in lummosa ascesa: ferve lo ,. b 
liberarsi dagli schemi medievali, obbedendo a un nuovo realis o 
assimilando l’insegnamento degli antichi. Si progettano città ideali, e si 
SISonbardiTp°lni urbanisti*. i quali danno una nuova tononma 

parecchie città, conferendo loro l’aspetto c ^J^^S^ e( Sevali 
strade Der quel tempo assai larghe, senza 1 ingombro delle meaievan 

«baldresche», che Lodovico il Moro abor ^. e ^Siri e^S?^ ^ tecnici 
Nelle botteghe artigiane convergono sforzi artistici e siorzi tecnici 

di maestri cdf allievi! non v'e ancora lo «scienziato, o il .tecmco.ch 
^Leonardo puà a buon diritto P"><^lo dXSm 
assai più degna della contemplazione o scienza» (Trattato della pittura, 

§2 NeUe Z S5rti i prìncipi per lo più favoriscono gli umanisti: essi 
medesimi talvòlta sono stati allievi di maestri insigni, o affidano! ad essi 
i loro figli. Ma alcuni promuovono apertamente ed energicamente 1 u 

del A°Mfiano 12 Filippo Maria Visconti, il quale era anche in grado di 
improvvisare pereto discorso in latino, si dilettava della le trna d* 
Petrarca e del Boccaccio. EgU fece compilare (intorno al 1440) un 
Sin/smo a Guiniforte Barzizza, f^ <x>«tare .l 
Petrarca al riluttante Filelfo, fece tradurre Cesare e Curzio Riifo a Pier 
Candido Decembrio e, sia stato onoil deliberato p ®. 

volgare nella cancelleria milanese, certamente quell oso ‘ 

rer?hi decenni più tardi, se diamo ascolto a Francesco Tanzi, estere 
delle rime di Bernardo Bellincioni (1493), Lodovico Mana Sforza 
avrebbtfcbiamato alla sua corte «il faceto poeta Belmzone, a ciò che 

.. ,1 Salutati rimprovera a Beuvàtvuto da Imola a 1££° 

religiosorum more»: Epistolario, ed. No a nessiine compilazioni su cui nelle 
II p. 582) e tanti altn mveiscono contro le Pessime compiiamo Ni u nel 

scuole si studiava il latino (Billanovich, Lingua mostra 30/^pp. ^ d e con i 

ÌS 0l Ì-? S ator! e l 

risnos'ta del Barbaro alle pp. 844-863); nella sua velenosa polemica con Poggio, il 

^°^i3 V V 0 l’aocura't^saggìo^^ 8 ^^- ditale, La Ungua volgare della cancelleria 
visconteo-sforzesca nel Quattrocento, Varese-Milano 1953. 


Il Quattrocento 


227 


per l’ornato fiorentino parlare di costui e per le argute, terse et 
prompte sue rime la città nostra venesse a limare et polire il suo 
alquanto rozo parlare» (I, p. 5, della rist. Fanfani). E Lodovico il Moro 
affermava a Giambattista Ridolfi (che lo riferì a Pietro de’ Medici) che 
«la nazione fiorentina nel dire e nello scrivere volgare passa tutti gli 
altri» 14 . 

A Ferrara, dove l’insegnamento di Donato degli Albanzani, e poi 
quello dell’Aurispa e del Guarini avevano sparso fecondi semi di 
cultura umanistica, la corte estense è anche un semenzaio di cultura 
volgare 15 . Ludovico Carbone narra (Facezie, CVIII) che un podestà del 
Modenese, leggendo in una lettera del duca «capias accipitrem et mitte 
nobis ligatum in sacculo ne aufugiat», invece che mandargli un 
falcone, gli mandò, prigioniero l’arciprete - e da allora le lettere furono 
scritte non più in latino ma in volgare 19 . Alla prima propulsione di 
Niccolò III (che fece commentare a Pier Andrea Bassi la Teseida 
boccaccesca) fa seguito l’opera sempre più intensa di Leonello e di 
Borso 17 . Non meno favorì il volgare Ercole I, spinto forse anche dalla 
moglie Eleonora, che ignorava il latino 18 . 

Nella corte e nella cancelleria di Napoli, dopo la decadenza 
culturale del periodo angioino, si ha una forte ripresa con gli Arago- 
nesi. Latino e catalano predominano nella cancelleria 19 , e relativa- 
mente rare sono le lettere in napoletano illustre del tempo di Alfonso I. 
Ma quando si viene ai tempi della politica decisamente italiana, e non 
catalana, di Ferdinando I, il volgare italiano prende il sopravvento 20 , e 
il Pontano dà l’impronta del proprio stile alla corrispondenza cancelle- 
resca. 

In questo clima fervido di studi, prospera l’insegnamento, fondato 


14 Galletti, L’Eloquenza, Milano 1938, p. 574. 

15 Cian, in Studi... Rajna, Firenze 1911, pp. 263-265; G. Fatini, «Il volgare 
preariosteo a Ferrara», in Le rime di Ludovico Ariosto, Torino 1934 (Giom. stor., 
Suppl. XXV. 

16 Simile narrazione, riferita al tempo di Niccolò III, si ha in una lettera di 
Agostino Mosti pubblicata dal Solerti (Atti e mem. Dep. Storia patria Romagna, s. 
3 a , X, 1892, p. 191). 

17 Carlo di San Giorgio (o, come si faceva chiamare, il Polismagna) si rivolge 
al duca Borso perché lo scusi presso quelli che criticassero i vocaboli d’una sua 
traduzione in ferrarese illustre: «io scio che tu sei ferrarese et io ferrarese... et 
però non saperla io adriciare la lingua se non al ferrarese idioma, il quale, 
secondo . il mio parere, non ha mancho elegantia che alcuno altro italiano 
parlare». Egli era stato infatti rimproverato, forse dal duca stesso, per aver 
scritto in latino la storia della congiura dei Pio, e la riscrisse in volgare (G. 
Bertoni, La Biblioteca Estense e la cultura ferrarese, Torino 1903, p. 123; Fatini, op 
cit., pp. 16-17). 

18 Fatini, op. cit., pp. 29-41. 

18 Nella tesoreria, le cedole saranno scritte in catalano fin circa il 1480 (Croce, 
cit. da Folena, Crisi, p. 6). 

20 F. Nicolini, nella sua ed. di F. Galiani, Del dialetto napoletano, Napoli 1923, 
pp. 113-114. 



228 


Stona della lingua italiana 


in primo luogo sullo studio dei classici latini. I libri per tale studio, che 
in questo periodo si moltiplicano, hanno spesso come strumento il 
volgare: si pensi alle grammatiche 21 e ai glossari 22 in cui le frasi o i 
vocaboli latini sono interpretati in volgare. 

L’insegnamento del greco prospera anch’esso, per necessità intrin- 
seca dello sviluppo dell’umanesimo e per convergenti spinte estrinse- 
che (il concilio dì Ferrara e Firenze per l’unione della chiesa greca con 
la latina; l’emigrazione di parecchi dotti dopo la conquista turca di 
Bisanzio). Le traduzioni dal greco raramente sono dirette: per lo più 
avvengono attraverso la mediazione del latino. 

C’è anche chi affronta lo studio dell’ebraico (Giannozzo Manetti, 
Giovanni Pico) 28 . 

Neanche l’insegnamento mercantile è trascurato, come risulta da 
trattati quali la Stimma de Arithmetica, Geometria, Proportioni et 
Proportionalita (Venezia 1494) di Luca Pacioli. 

Suona nelle chiese la predicazione tradizionale, in latino, in volgare 
e talvolta in una miscela dell’uno e dell’altro. Sulle altre s’innalzano 
alcune grandi voci: san Bernardino da Siena, il beato Giovanni 
Dominici, il Savonarola. E san Bernardino insiste perché il predicatore 
parli «chiarozo chiarozo, acciò che chi ode ne vada contento e 
illuminato e non imbarbagliato» (pred. Ili, 1427, p. 77 Bargellini). 

Qualche volta i predicatori si rivolgevano al popolo anche sulle 
piazze. E un po’ per farsi meglio intendere, un po’ per attirare 
l’attenzione degli ascoltatori, non mancavano di adattare la loro 
parlata a quella del luogo in cui predicavano: sintomatica è l’afferma- 
zione di S. Bernardino: «Quando io vo predicando di terra in terra, 
quando io giongo in un paese, io mi ingegno di parlare sempre sicondo 
i vocaboli loro; io aveva imparato e so parlare a modo loro molte cose. 
El mattone viene a dire il fanciullo, e la mattona la fanciulla» (predica 
XXIII, p. 505 Bargellini). 

Ma sulle piazze s’udiva per lo più la voce dei «cantatori in panca»: 
così a Firenze sulla piazza di San Martino. E sappiamo che i Perugini 


a ‘ Lo scartafaccio grammaticale di Caselle (nel Canavese) contiene frasi in 
volgare accompagnate dalla versione latina (Terracini, in Romania, XL, 19U, p. 
435>, Filippo Beroaldo il vecchio, insegnando retorica e poesia a Bologna, si 
serviva spesso del volgare (L. Thomdike, in Rom. Review, XLI, 1950, pp. 274-275); 
ecc. 

22 Citiamo come es. il glossario di G asparino Barzizza (1370-1430), tante volte 
stampato nel Cinquecento, il glossario latino-bergamasco pubblicato dal Lorck 
lAltbergam. Sprachdenkmàler, Halle 1893, pp. 95-163), il glossario del Cantalicio 
fatto conoscere dal Baldelli {Atti e mem. Acc. tose., XVIII, 1953, pp. 367-406), 
interessante per il colorito reatino degli interpretamenti. Abbondano i materiali 
ancora inediti. 

23 Cfr. Burckhardt, La civiltà del Rinascimento, trad. Valbusa-Zippel, I, 
Firenze 1921, pp. 231-232. Gli Ebrei, naturalmente, si servono della loro lingua per 
usi liturgici e anche pratici (un testamento in ebraico letto al podestà in volgare, a 
Orvieto, 1434: Debenedetti, Sollazzo, p. 112; uno in Sicilia, in Boll. Centro St. Sic., II, 
1954, p. 376, ecc.). 


Il Quattrocento 


229 


più volte ricorsero a Firenze (o ad Arowo a „ T > 

dei buoni canterini 2 * Arezzo, a Siena, a Lucca) per avere 

mczS'S I SutarHJ ,, ?„ Z ?‘ e dal popol °- per cul ecclesiastici e laici di 

volare Q’Orfèo m dPi a pnr e dl qUeUe * ««omento classico compiste in 
Tanf i® J e l JPoWno, 1480, il Cefalo di Niccolò da Correggio 

Collènuccio MB^eSri - SS?? ^Anfitrione volgarizzato da Pandolfo 
y i c ’ . ®*, ecc -| non è che un passatempo cortigiano 
L umanesimo contribuì anche a modificare la scrittura e l’arfe dol 
copiare, e il commercio librario. I libri latini sono S pTù Aerosi di 
volgari che ano che cerchi di questi ultimi li dive 

v Che n ^tto che l’umanesimo ha fatto nascere in 

mvenz i°ne della stampa, valica le Alpi e viene a moXS 
“ tutt ° 11 mondo culturale, con conseguenze hnguisti- 
SDira^Jbìd?^ 1 » v° C ° d ° P ° V 3 prime stampe di libri latini, VindSSoda 
se SI defum oIl^H ae - 147 °’ fl c f^mere del Petrarca; è incerti 
«Deo Gratiac:, edlzl one napoletana del Decamerone detta del 

p , (^ratias ». Del 1471 sono il Decamerone veneziano del Valdarfer il 

SH>IL r01 T a M 0 r, del ^ uer > due edizioni veneziane della Bibbi! e 
*1 ^° re dl canzon ette del Giustinian. Nel 1472 appaiono 
una dii 1 ! 111 deUa Coi V'™ dia (a Foligno, a Mantova, a Iesi o a Veneria) 

p c' <■> Padova), una stampa de/ riSSS 
de’ cSitì deUa e ancora A Burchiello, Giusto 

nlha pS^ Fl T enze e Maano sono all’avanguardia 

hSg?St erva T ci S* o1o8q £ ^ Tùeufsfi £ 
t^nt^de^S^SS^S ^ 110 ” 0 P ° Chl *” ° 0ntmn - 

.. E sintomatico vedere come la priorità, sia cronologica sia quantita- 

deUa sta mpa, spetti senz’altro ai tre grandi 

leopere asceriSn^XTIIfl S °?°ù fra gli ^ounaboli in volgare, Siche 
cl, IS h é a qualche opera pratica (medicina, aritmeti- 

m n SlJSJ dUZÌOne ^ b °tteg h e librarie attrezzate a produrre numerosi 
H aa °^ nttl av eva cominciato a esercitare certi effetti linguistici 
16 pecuUari tà più rare e diffìcili nei testi frequentemen- 
te copiati. Ma insomma, finché il libro è manoscritto è desthmto aSTS 
o a pochissime persone: quando gli editori cominciano a produrr! 


25 D’Aaecina Varietà storiche e letterarie, II, Milano 1885 d 63 
imo carius vulgariter S* e Sp.Sf ° “ magm ‘ ™” 5nmt “*» 


230 


Storia della lingua italiana 


Il Quattrocento 


231 


centinaia o migliaia d’esemplari a stampa, si preoccupano di essere 
compresi dal loro pubblico, e di non urtarne il gusto. Da principio il 
tipografo non fa che affidare al compositore un manoscritto che gli 
capita fra mano; ma poi si manifesta necessaria l’opera dei correttori, e 
quest’opera assumerà tanto maggiore importanza quanto più il gusto 
generale prenderà forme precise. Il correttore di tipografia, piuttosto 
che curare che il libro a stampa riesca conforme al volere dell’autore 
(preoccupazione che solo modernamente si è affermata), pensa a 
presentarlo con un aspetto grammaticale corretto e coerente, e con 
parole largamente intelligibili. Un manoscritto può magari presentarsi 
con grafie singolari e parole un po’ strane: non così un libro che si 
voglia vendere largamente. Questa è la via per cui l’industria del libro 
promosse fortemente l’accettazione di una norma comune, sia nella 
grammatica che nel lessico. Non basterà, naturalmente, la generazione 
dell’ultimo trentennio del secolo a produrre effetti radicali; ma se 
prendiamo in considerazione lo svolgimento dell’italiano comune 
anche nelle due generazioni seguenti, fin verso la metà del secolo XVI, 
vedremo Che la stampa ha portato un contributo decisivo a una 
maggiore stabilità e uniformità della lingua 26 . 

4. La «crisi» quattrocentesca 

Se esaminiamo complessivamente lo stato della lingua italiana 
durante il Quattrocento, notiamo una differenza notevole fra la prima 
e l’ultima parte del secolo, e fra l’atteggiamento della Toscana e quello 
del resto d’Italia. 

Nei primi decenni il volgare è depresso e sminuito nell’opinione 
generale, di contro al latino esaltato dal trionfante umanesimo: esso è 
ridotto a funzioni modeste, quasi ancillari. Non manca chi scriva in 
volgare, in poesia e in prosa-, manca chi lo coltivi con cura, con amore, 
con coscienza d’arte. In questo stato di depressione, in Toscana la 
norma si fa più indulgente ed eclettica, per non dire anarchica: l’uso 
parlato fiorentino accetta largamente forme nuove, in parte provenien- 
ti dal toscano occidentale e meridionale, e l’uso scritto le accoglie 
senza scrupolo, in concorrenza con quelle tradizionali, quali le aveva 
fissate la letteratura trecentesca. Poiché chi vuoLessere elegante scrive 
in latino, l’eleganza è scarsamente curata da chi scrive in volgare 27 . 

“ Bibliofili e bibliografi sono giunti a una buona conoscenza dell’attività dei 
vari centri librari nell’età degli incunaboli; mancano invece ricerche le quali 
mostrino in quale misura le singole stamperie abbiano avuto preoccupazioni 
linguistiche e come abbiano proceduto al riguardo. 

27 Si potrebbe quasi generalizzare quel che nella Famiglia dell’ Alberti, 
Lionardo dice per le particolari condizioni dei dialoganti: «torniamo al proposito 
nostro, del quale ragioneremo quanto potremo aperto e domestico, senza alcuna 
exquisita o troppo elimata ragion di dire, perché tra noi mi pare si richiega buone 
sententie molto più che leggiadria di parlare» (II I., p. 155 Pell.-Spongano). 


Nei testi senza pretese (come ad esempio le lettere di Alessandra 
Strozzi ai figli, deliziosamente fresche e spontanee, o i ricordi domestici 
di ser Bernardo Machiavelli) la lingua fluisce schietta e senza fronzoli; 
ma se chi scrive ha la più modesta preoccupazione letteraria, sùbito 
fioccano dalla penna latinismi in copia. Feo Beicari poteva scrivere 
versi come questi: 

Prendi esercizio e non fatica nimia 

Tieni il cor lieto senza verun nubilo, 
se presto vuoi non si veggia il tuo funere-. 
questo ti chieggo spero bramo e cupio. 

Con tutte le virtù sta in festa e giubilo; 
ché d’ogni grazia e d’ogni eccelso munere 
ti troverai alfin pieno il marsupio **. 

Avvertiva nel secolo seguente il Salviati: «Chi non era da tanto, che 
dettar potesse in latino, l’appressarsi quanto potea, e usar modi, che 
del Latino avessero, gloriosa opera riputava» 29 . Lo reputava necessario 
anche il Landino, nel notissimo passo dell’orazione con cui inaugurava 
le sue letture petrarchesche: «È necessario essere Latino chi vuol 
essere buono Toscano...: volendo arricchire questa lingua bisogna ogni 
di de latini vocaboli non sforzando la natura derivare e condurre nel 
nostro idioma.» 30 . «Non sforzando la natura», aggiungeva il Landino; 
mentre troppo spesso la sforzarono prosatori e poeti semidotti 

Per tutte le condizioni che abbiamo viste (abbandono, incertezza 
nella norma grammaticale, abuso del latinismo nel lessico) si è parlato 
non a torto di «crisi» della lingua nel primo Quattrocento. 

Se per gli usi letterari il volgare è spregiato, per quelli pratici viene 
man mano acquistando vigore. Gli umanisti con il loro sforzo di 
migliorare la latinità, di sterminare la barbarie medievale mettendo in 
auge i modelli classici hanno finito con lo sminuire l’utilità pratica del 
latino. Un bando steso nella grossolana e volgareggiante latinità 
cancelleresca riusciva intelligibile a molti, sia pure pressappoco,- se il 
bando è scritto in latino ciceroniano, potrà essere compreso da poche 
persone colte, non certo dal popolo. E siccome i nuovi prìncipi hanno 
bisogno del favore del popolo, alcuni di essi favoriscono apertamente 
un più ampio uso del volgare. 

La crisi del volgare e quella del latino vanno studiate nel gioco delle 
reciproche influenze. Vediamo così che l’umanesimo, dopo aver depres- 
so il volgare per azione diretta, finisce col riabilitarlo per azione 
indiretta. Ma ora il volgare, sciatto in Toscana e mescidato alla 


28 Flamini, La lirica toscana del Rinascimento, Pisa 1891 p 371 

29 Salviati, Avvertimenti della lingua, libro II, cap. 7. 

“. L ’° r * zione è (mediocremente) pubblicata da F. Cor azzini, Miscellanea di 
cose inedite o rare, Firenze 1853. 


232 


Storia della lingua italiana 


periferia, pieno di male assorbiti latinismi, non è più in grado di 
contentare scrittori diventati più maturi e più esigenti alla scuola dei 
classici. E negli ultimi decenni del’400 il volgare risorge, approfittando 
di questa più matura esperienza: trionfa quello che è stato chiamato 
l’umanesimo volgare. Di nuovo Firenze assurge, con Lorenzo de’ 
Medici e col Poliziano, a un’alta sintesi, letteraria e linguistica. 

Nelle altre nazioni dell’Europa occidentale, la crisi umanistica, 
avvenuta più tardi che in Italia, determinerà profonde fratture: il 
francese e lo spagnolo (e anche, variatis variandis, l’inglese e il 
tedesco), scossi fino alle fondamenta dalle innovazioni lessicali e anche 
grammaticali portate dalla cultura umanistica, volteranno addirittura 
le spalle al passato e creeranno, su nuovi fondamenti, nuovi canoni 
letterari e linguistici, cosicché la fase medievale e la fase rinascimenta- 
le di ciascuna di quelle lingue si presentano nettamente diverse. In 
Italia invece si ebbe poco più che un riassestamento, ima crisi di 
crescenza, tanto salde e già preumanistiche erano le basi della 
letteratura e della lingua. 

5. Latino e volgare 

La vita culturale del Quattrocento italiano si svolge nelle due 
lingue, e, come abbiamo accennato, la dinamica delle vicende del 
volgare non si comprenderebbe senza conoscere le vicende del latino. 
Anche perciò è importante vedere in qual misura si ricorresse all’una e 
all’altra delle due lingue, e come esse venissero considerate durante il 
secolo 31 . 

Tutti i letterati sanno, più o meno, il latino. Ma mentre nel primo 
periodo dell’umanesimo troviamo qualcuno dei maggiori che scrive 
solo o quasi in latino (p. es. il Salutati), più tardi ne troviamo molti che 
esercitano con perizia le due lingue, come il Poliziano, il Sannazzaro, il 
Pontano 32 . 

Negli usi pratici, il volgare resta saldamente installato anche nel 
periodo in cui è letterariamente depresso. La signoria di Firenze scrive 
in fiorentino ai propri rappresentanti 33 , ed essi di solito tengono in 

31 Notizie confuse, ma in qualche parte utilizzabili, dà l’opuscolo di M. T. 
Ruga, Latino e volgare nella letteratura italiana dalle origini alla fine del 
Quattrocento, Pescara 1912. Eccellente il saggio di P. O. Kristeller, «L’origine e lo 
sviluppo della prosa volgare italiana», in Cultura neolatina, X, 1950, pp. 137-150 (e, 
in ingl., in Studies in Renaissance Thought and Letters, Roma 1956, pp. 473-493). 

32 n Collenuccio scrive in volgare il suo trattatello De l’educazione, pur 
dichiarando la sua preferenza per il latino-, «Ora non so se avrò satisfatto a 
tutt’uomo, per esseré stato breve; questo so bene che a me medesimo non ho 
satisfatto, si perché scrivo più volentieri in lingua latina, e la dignità de la 
materia pare che lo richieda...» (cit. da C. Varese, P. Collenuccio umanista, Pesaro 
1957, p. 55). 

33 Nel 1401 la signoria scrive in volgare ai propri ambasciatori a Bologna, e 
invece in latino a Giovanni Bentivoglio (v. la citazione dei testi, pubblicati dal 


Il Quattrocento 


233 


*.?/• ' 


volgare le loro orazioni: messer Nello di Giuliano da San Gimignano 
mandato ambasciatore a Martino V nel 1425, così si esprime: 

sar ebbe di bisogno innanzi a tanta Santità di parlare per gramatica 
che Sì I richiederebbe e di quella materia la quale a noi dalla 
Sjgn ° na è stata imposta. Ma perché e* non è di consuetudine 
degli altri oratori e ambasciadori fiorentini, e etiandio per più propiamente e più 
Proposito di quegli che ce l’anno commesso, per vulgare si poterà 
meglio soddisfare a ciascuna parte con quella facilità e brevità... 34 . 

Nel chiedere libero passaggio per il territorio della Repubblica 
fiorentina, gh ambasciatori di Carlo Vili parlano in latino, e in latino 
ricevono risposta (1494). Invece gli ambasciatori di Massimiliano (1496) 
richiedono aetrusca lingua l’alleanza di Firenze - e la risposta è fatta in 
volgare 35 . 

Anche le scritture concernenti liti commerciali dovevano, a Firenze 

f 7,°, ,gar ^ d0p0 Che la Scoria e i Consigli maggióri, il 27 

e 28 marzo 1414, ebbero accolto e trasformato in provvisione la 
petizione seguente: 

daS u a V -° Ì ’ ma ? nÌflCÌ Signori - signori Priori delle Arti e Gonfaloniere 
nf ^ f ’ ch e vi piaccia Provvedere, e pe’ Consigli del Popolo e del Comune 
«mihfrn 2 !— 6 solennemente riformare le infrascritte cose, cioè che tutte le 
^ iatl 6 s ® n * enzie che S1 faranno o fare si dovranno pe’ Sei o Uficiale 
° a!Ì! & l 0 r°“ rte ’ ° neUe corti deU e Arti della città di Firenze, o in 
«UriS- d T A ^ tl S1 debbano fare e scrivere in volgare, e non altrimenti: e se 
si facessimo non vaglino e non tengano, e non sieno d’alcun valore o 
? c ? s }® 1 debba osservare. E che il notaio e qualunque altra persona 
che facesse le dette scritture altrimenti che in volgare come è detto, caggi in 

^ ni Volt f’ ^ llre . mUle ec ■ E che la Presente leggie cominci a’ dì primo 
del mese di gennaio prossimo che viene, e non prima 36 . 

Un altra provvisione, del 15 febbraio 1451, stabiliva che i notai della 
CanceUena tenessero nota delle spese «scrivendo in volgare, acciò 
smtenda pe Ragionieri, che aranno a riscontrare coll’entrata del 
Monte» 3 ' 01 ' 6 ^ decta Camera et col Camarlingho della Cassetta del 

Nella corrispondenza, pubblica e privata, alcune volte il criterio di 
scelta fra latino e volgare è apertamente dichiarato o si può determina- 
re. La preferenza per il volgare, nella corrispondenza con altri comuni. 


a J' KnsteU ® r - Cult neoL ' x ' 195 °. P 145 n.). Nel 1454 la signoria di Firenze 
Per Certl Slcan mandati contro Poggio, scrive in volgare a Santi 

Sgato TOntiflcù^ùestY 1 lat w t Ua Si £ n ° ria * BoIo « na e a l cardinale Bessarione, 
legato pontmcio (testi ap. Walser, Poggius Florentinus, cit., pp. 389-391). 

55 ?'• ^ 544, c ' 123 a > eh- da v - Rossi, Quattrocento, 2 “ ed., p. 166. 

(^alletti, L eloquenza, cit., p. 575 . 

38 Misceli. Fiorentina, I, pp. 28-29. 

37 Marzi, La Cancelleria, cit., p. 591 . 


234 


Storia della lingua italiana 


Il Quattrocento 


235 


wm 


è esplicitamente affermata dai Fiorentini in una loro risposta al Senesi 
che avevano scritto in latino: 

E perché noi crediam che sia utilissimo a voi e a noi dichiarare bene e 
apertamente senza punto di simulazione ovvero dissimulazione qual sia la vera 
intenzione e il puro e sincero proposito di ciascuno di noi, abbiamo deliberato di 
farvi questa risposta più tosto in volgare che in latino, sì e per soddisfar meglio e 
più agli animi nostri, sì etiamdio perché la S. V. non abbia di bisogno 
nell’intendere di questo nostro così sincero proposito d’altra interpretazione che 
della nostra propria, nè in altro sentimento si possa intendere che in quello che è 
il naturale e il vero intelletto delle parole volgari 38 . 

Ma, se scorriamo le 49 lettere spedite fra il 1435 e il 1440 dal Cardinal 
legato Vitelleschi ai priori di Viterbo 38 , vediamo che sono parte in 
latino e parte in volgare, senza che se ne capisca il perché: forse 
secondo l’opportunità d’aver sottomano l’uno o l’altro segretario. 

S’intende per qual ragione sia scritta in volgare ima richiesta 
indirizzata personalmente a un principe poco latinista: così in mezzo 
“alle molte lettere latine di Biondo da Forlì spiccano le due in volgare 
indirizzate a Francesco Sforza, per raccomandargli il figlio (1459) e per 
chiedere un sussidio per la pubblicazione della quarta Decade delle 
sue storie (1463): «la quale deca nè altro più non posso scrivere senza 
alturio de chi pò et a chi tocha» 40 . 

Tra gli scritti non letterari, ci stupisce trovarne in latino qualcuno 
riferito ad argoménti molto familiari, per esempio due trattatelli di 
cucina, probabilmente provenienti dallTtalia meridionale, di età angioi- 
na 41 . 

Le traduzioni dal latino in volgare (e anche dal greco, ma spesso 
attraverso il latino) sono in questa età molto numerose-, frequente è la 
dichiarazione dei traduttori d’aver compiuto il lavoro a utilità dei men 
dotti; non meno frequente quella d’aver obbedito alla richiesta di un 
principe. Vediamo il povero Boiardo affannarsi alla richiesta del suo 
duca (Ercole I) di tradurgli in fretta un pezzo del De Architectura 
dell’Alberti fletterà del 17 settembre 1488; II, p. 572 Zottoli): s’intende 
chiaramente che, se anche il duca avesse a disposizione il libro, non 
sarebbe in grado d’interpretarlo con esattezza. 

Che le traduzioni siano più o meno buone, è sempre accaduto e 
sempre accadrà. Molto si lagna di quelle disponibili al suo tempo 
Matteo Palmieri: 

alquanti ne sono volgarizzati, che ne’ loro originali sono eleganti, sentenziosi 
e gravi, scritti in latino, ma dall’ignoranza de’ volgarizzatori in tal modo corrotti, 
dìe molti ne sono da ridersene di quelli che in latino sono degnissimi, e vie più da 


38 Kristeller, in Cult, neol., X, 1950, p. 149. 

38 Pinzi, in Arch. Soc. Rom. St. P., XXX, pp. 357-407. 

40 Biondo Flavio, Scrìtti inediti e rari, ed. B. Nogara, Roma 1927, pp. 210-212. 

41 M. Bouchon, in Arch. Lat. Medii Aevi , XXII, 1952, pp. 63-76. 


ridere sarebbe eh me, se io volessi dimostrare che Tullio, Livio, o Virgilio e più 
altri volgarizzati autori, in nessuna parte fossero s imili a’ primi, perocché non 
altrimenti gli somigliano che una figura ritratta dalla più perfetta di Giotto, per 
mano di chi mai non avesse operato stile nè pennello, s’assomigliasse all’esempio 
che avvengadio avessi naso, occhi, bocca e tutti i suoi membri, nientedimeno 
sarebbe tanto diversa, quanto ciascuno in sé stesso immaginare puote, e forse 
ritraendo con l’ali Gabriello, non lo conosceresti dall’infemale Lucifero ( Vita 
ernie, Proemio). 

Le imperfezioni della traduzione possono dipendere da molte cose. 
Anzitutto da difficoltà intrinseche del testo latino; talvolta dal non 
esistere nel volgare vocaboli corrispondenti. Il Landino, nell’introduzio- 
ne alla sua versione di Plinio, si scusa: «Non so come interpreti 
seminario et arbusto, item ablaqueare et interlucare, se non per 
circonlocutione o per il medesimo vocabolo». 

Può anche darsi che il traduttore tenda a tirar via: Battista Guarirli 
criticato dal duca Ercole per la sua versione dell 'Aulularia, scrive al 
duca (26 febbraio 1479) mandandogli il Curculio tradotto: «io mi forcio 
andare dietro ad le parole dii testo» 42 . 

Un severo giudizio, in questo periodo, può anche essere dettato da 
diverse opinioni circa la norma linguistica. Giovanni Brancati matera- 
no, bibliotecario di Ferdinando d’ Aragona, censura, in una lettera 
latina al suo re, la versione di Plinio fatta dal Landino, non solo perché 
considera il traduttore un «filosofastro», ma anche perché non gli piace 
il toscano, difficile a leggersi e a pronunziarsi 43 . 

Attraverso le numerose versioni di questo periodo nuove parole 
entrarono in circolazione. Vediamo che proprio alla versione pliniana 
del Landino da prima edizione certa è quella di Venezia, Jenson, 1467) 
attinge il Pulci nel bestiario da lui inserito nel XXV canto del Morgante-. 
di li vengono caprimulgo, ippotamo (sic), ibis, rinoceronte (nel Landino 
rhinocerotéì, oltre a qualche parola-fantasma 44 . 

Non bisogna dimenticare che si ha anche un certo numero di 
versioni dall italiano in latino: delle novelle del Boccaccio furono 
tradotte (dopo la Griselda, che il Petrarca mise in latino nell’ultima 
delle Senili) il Ciappelletto a opera di A. Loschi, Tito e Gisippo da F. 
Beroaldo, Guiscardo e Gismonda da L. Bruni, re Alfonso e messer 
Ruggieri da B. Fazio 45 . Il De Prospectiva pingendi di Piero della 
Francesca, scritto in volgare, fu, poco dopo, tradotto dal suo conterrà^ 
neo maestro Matteo. Del resto. Vespasiano da Bisticci diceva di aver 
scritto il suo libro «a fine che se alcuno si volesse affaticare a far latine 
queste vite, egli abbia innanzi il mezzo col quale egli lo possa fare» 
(Discorso dell’autore). 

Durante tutta 1 età umanistica è costante e in vario modo operante 


42 Bertoni, La Biblioteca estense, cit., p. 131. 

43 Croce, in Quaderni della Critica, marzo 1948, pp. 20-22. 

44 Merlano, in Lingua nostra, XIII, 1952, pp. 2-3. 

45 Ruga, Latino e volgare, cit., pp. 23-24. 


530 


Storia della lingua italiana 


Il Quattrocento 


237 


a simbiosi tra latino e volgare. Frequenti sono i titoli latini a opere 
taliane {Amorum libri, il canzoniere del Boiardo; De prospectiva 
ìingendi; Hypnerotomachia Poliphili, ecc.). Nelle lettere in volgare, 
nolto spesso l'intitolazione, i saluti e la firma sono in latino 48 . La lettera 
li dedica della Summa del Pacioli a Guidobaldo d’Urbino è in italiano e 
n latino 47 . 

Non è raro, nelle lettere, che frasi intere o pezzi di frasi in latino si 
mescolino a un contesto in volgare. Si legga la lettera in cui Taddea e 
Matteo Maria Boiardo si lagnano con la comunità di Reggio che sia 
stato concesso. di edificare un molino a Barnaba Capraro, «cosa ad nuy 
aon mediocrìter molesta duplici rattorte, perché il non se può negare 
:he...» detterà 14 genn. 1464). 

Oppure l’inizio di una lettera autografa di papa Sisto IV a Galeazzo 
Viaria Sforza, del 28 luglio 1474: 

Carissime fili salutem et apost. benedict. Ve habiamo scripto molti brevi per li 
juali asai ampiamente avete potuto intendere la iustitia nostra in li fati de Cita di 
fastello. E per questo si maravigemo assai e non possiam credere quillo n’e 
scripto da Fiorensa ciò che voi non solo incitati Fiorentini contro di noi, ma anco 
prometete a loro ogni subsidio centra di noi. A, fili carissime, quid tibi fecimus ? 
Non se ricordiamo averve offeso mai nec verbo neque opere ; anco per lo singulare 
amore vi portiamo tuto quello abiamo potuto fare per voi habiamo fato e faremo 
sempre. A a, numquid redditur prò bono malum? Quare foderunt foveam anime 
rtee? A, fili carissime consciderate la iustitia de le mie petitione. Considerate 
lontra quem agitar...**. 

Ovvero una protesta dei Napoletani contro messer Lupo, luogote- 
nente della Vicaria (1479): 

Imperò requerimo vui messer Lupo ex parte Regine Maiestatis et dictae 
civitatis et eo rum civium in genere et in specie sotto quella pena, la quale contene 
in nelle diete constituciune, capituli, pragmatica et ordinacione fatte et ordinate 
ut supra et per quanto haviti cara la gratta de dieta Maiestà... 49 . 

Più ovvio è che l’oratore fiorentino a Carlo Vili, Gentile Becchi, nel 
riferire a Piero de’ Medici quello che ha detto al re. in latino, intercali 
nella lettera dei passi latini 50 . 

— Eufe mis mo e solennità par di sentire in quel tratto di lettera di 
Bernardo Dovizi a ser Andrea da Foìano (21 maggio 1490) in cui parla di 
un creduto attentato a Lorenzo de’ Medici: «s’è decto che volevano e 
venivano per far impresa di grande momento, cioè interficere patronum 
nostrum»* 1 ; eufemistiche vogliono essere le parole di don Atteone (nella 


« Esempi in Migliorini-Folena, Testi Quattr., passim. 

47 Olschki, Gesch. der neuspr. wiss. Literatur, I, p. 152. 

48 Pastor, Storia dei Papi, II, p. 766. 

40 Altamura, Testi nap. del Quattrocento, Napoli 1953, p. 33. 

“ Santini, Firenze e i suoi oratori nel Quattrocento, Palermo 1923, pp. 205-206. 
51 Moncallero, Il Cardinale Bem. Dovizi, Firenze 1953, p. 48. 


lettera-novella di Sabatino degli Alienti, p. 418 Gambarin) sul «capella- 
no don Baptista, il quale laborabat in extremis ». 

Frasi e locuzioni latine si trovano frequentemente a proposito di 
argomenti religiosi, quando si citano o riassumono testi biblici o 
liturgia. 

Nelle sacre rappresentazioni, non è raro il caso di personaggi che 
adoperino frasi o addirittura strofe intere in latino. Nel Morgante 
(XXVII, st. 142) l’Arcangelo Gabriele che appare a Orlando morente gli 
ricorda le parole di Giobbe alla moglie citando i passi biblici e poi 
traducendoglieli: 

E perché pur la moglie si dolea 
E’ disse: «Donna mia, ora m’ascolta: 

Dominus dedit, lui data l’avea, 

Dominus abstulit, lui l’ha ritolta, 

Sicut Dominus placuit, in ea 
Factum est, così fatto è questa volta». 

E poi «Sif nomea Domini » ebbe detto 
«Il nome del Signor, sia benedetto». 

Anche più numerose che nel Trecento o nel tardo Cinquecento sono 
le parole e locuzioni, particolarmente avverbiali, passate dallo stile 
cancelleresco latino a quello italiano: assiduo, a utem, ecc. 

La miscela più curiosa è quella che notiamo in numerose prediche 
degli ultimi decenni del secolo. Accanto a sermoni in latino e a sermoni 
in volgare ne abbiamo molti in cui il latino e il volgare si mescolano 52 . 
Ad esempio, nel Quaresimale di p. Valeriane) da Soncino leggiamo: 

Scis quod facit vulpes quando abstulit galinam illi paupercufae feminae ? La se 
ne va in lo boscheto e se mette in la herba fresca e volta le gambe al celo e sta a 
solazar cum le mosche. Sic faciunt isti prophete, questi gabadei, questi hypocrito- 
ni, sangioni dal collo torto, quando habent plenum corpus de gaiini, caponi, 
fasani, pernise, qualie e de boni lonzi de vitello e qualche fìdegeti per aguzar lo 
apetito, e lo capo de malvasia, vernaza, vino greco, tribiani e moscatelli cum 
qualche prosuto, salziza, cerveladi, mortadelli, beroldi o vero cagasangui a la 
bresana per bevere melio. Non vedesti mai, madre mia, li meliori propheti. 

Oppure: 

Aliquis possit dicere: mundus nunquam fuit sceleratus sicut nunc. Dico quod 
non est verum-. que mundus fuit semper una gabia de matti, figurata per archam 
Noe piena de ogni bestiame 53 . 


52 Galletti, L’eloquenza, pp. 263-266; R. Garzia, «I sermoni maccheronici del 
Quattrocento», in Annali della Facoltà di Lettere dell'Univ. di Cagliari, 1, 1928; A. 
Viscardi, «Il quaresimale di Pavia di Bernardino da Feltre (1493)», in Cult, 
neolatina, II, 1942, pp. 280-291. — 

53 Manoscritto nella Bibl. Univ. di Genova, A. Ili, 18, cc. 65 e 67 (cit. Garzia, art. 
cit., pp. 23 e 18). 


238 Storia della lingua italiana 

O, nei sermoni del b. Bernardino Tomitano da Feltre raccolti da un 
confratello bresciano 54 : «Quid est illa ballarina nisi una noctua que 
ludit su l’archetto per farse remirar?» (p. 6); «Si lex prohibet et non 
servatur, ché non ne facciamo scartozi?» (p. I6>,*emisit illam infoca- 
tam orationem come una bombarda, et misit ad terrarn Paulum » (p. 275), 
ecc. 

E simili testi si possono trovare in Gabriele Bareleta, Cherubino da 
Spoleto, Giovanni dell’Aquila. 

Fino a che punto questa miscela corrispondeva a un uso effettivo? 
Se avessimo solo imo o due esempi isolati potremmo interpretarli come 
un accidente sopravvenuto nella trasmissione. Potremmo cioè ritenere 
che le prediche fossero effettivamente fatte in volgare, e poi raccolte 
per mezzo d’una specie di tachigrafia; siccome la tachigrafia insegna- 
va ima serie di compendi di parole latine, l’ascoltatore avrebbe 
mentalmente tradotto in latino le parole, e in latino sarebbero poi state 
decifrate. Ma, in presenza di testi piuttosto numerosi di questo tipo, 
l’ipotesi va scartata, e bisogna ammettere che la miscela presentataci 
dai testi corrisponda abbastanza fedelmente alla realtà. Data la 
capacità dei predicatori di servirsi correntemente delle due lingue, la 
scelta fra l’una e l’altra doveva essere dettata da varie circostanze: il 
carattere dell’uditorio, il luogo (piuttosto in latino nelle chiese, sempre 
in volgare sulle piazze), l’indole del predicatore 55 , l’argomento della 
predica 56 . Poiché anche nelle prediche in volgare i testi biblici e 
patristici si citavano in latino, l’uditorio era abituato ad ascoltare un 
discorso mescidato, considerandolo in qualche modo appartenente al 
rito ecclesiastico, e accontentandosi, dove non capiva, di abbandonarsi 
al tono e al gesto del predicatore. Di questa consuetudine alcuni 
approfittarono per inserire nelle prediche latine frasi intere o pezzi di 
frase in volgare, specialmente per raggiungere un tono più confidenzia- 
le nelle parti narrative e aneddotiche. 

Nasce alla fine del Quattrocento a Padova, con Tifi Odasi autore 
della Macaronea e Corrado autore della Tosontea , una nuova stilizza- 
zione artistica di questo ibridismo 57 , la poesia maccheronica 56 . La 


54 Sermoni del b. Bernardino da Feltre, a cura di p. Carlo da Milano, I, Milano, 

1940. — 

55 Fra Gabriele Bareleta era famoso per i suoi scherzi, tanto che si era coniato 
il motto «nescit praedicare qui nescit bar Iettare». 

56 Fra Cherubino da Spoleto avverte (serm. 38) che, dovendo parlare dell’atto 
coniugale, «tu praedicator conare honeste dicere quantum potes, et quod non 
potes honeste dicere vulgariter dice latine». 

57 Nei secoli precedenti abbiamo visto alcune poesie con alternanze di versi 
in due o più lingue (il discordo di Rambaldo di Vaqueiras, YAi faus ris attribuito a 
Dante, le alternanze di versi teorizzate da Gidino da Sommacampagna): ora 
(verso il 1485) il Cantalicio compone una saffica latina, in cui però in ciascuna 
strofa l’ultimo verso Q’adonio) è un quinario in volgare: «Surge venantum cito 
turba surge... - Chiama Allegretto». 

58 U. E. Paoli, Il latino maccheronico, Firenze 1959. 


Il Quattrocento 


239 




mescidanza è diversa da quella dei predicatori, perché nel maccheroni- 
co la grammatica, e la metrica latina sono sostanzialmente rispettate, e 
solo nel lessico si mescolano a scopo burlesco parole volgari. Nato in 
ambienti universitari e con forme umanistiche (come si vede anche 
dall uso quasi costante dell’esametro), lo stile maccheronico può aver 
preso ispirazione ó dalla lingua mescidata dei predicatori o da altre 
miscele latino-italiane, di cui anche nell’università non dovevano 
mancare esempi 5 ®. 

Ora che abbiamo visto, sia pur molto sommariamente, in quali modi 
latino e volgare si opponessero oppure convivessero, ci resta da 
accennare alle dispute fra fautori e oppositori dell’ima e dell’altra 
lingua 60 . 

Numerose testimonianze a favore del volgare portano i personaggi 
r \? ra f lso d&Sti Alberti ", ma non ci è possibile contarle come 
altrettante attestazioni singole, bensì come segno della tendenza 
favorevole dell’autore Giov anni Gherardi 82 . 

Per lo più, le discussioni non vertono sui volgare in sé, ma sull’uso 
che ne hanno Tatto i tre grandi scrittori. Nel I libro dei Dialogi ad 
Petrum Histrum (cioè a Pietro Vergerio di Capodistria) del Br uni 
leggiamo 1 asserzione del Salutati che Dante sarebbe superiore ai 
Greci e ai Latini se avesse scritto in latino 83 e la tirata del Niccoli sugli 
errori di Dante, la sua cattiva latinità e la rozzezza che ne fa un poeta 
da fornai 64 ; nel secondo libro il Niccoli ritratta la contumelie e fa le lodi 


n w ™»I^J 3, £ S J ntaZÌOne d ' un Pellegrino (cit da V. Rossi, Quattrocento, 2* ed., 
p. 302), maestro Balzagar medico dice a un compare: 

...questa arte vuol pratica: 
essere ardito e ben ciaramellare, 
e qualche volta parlare in grammatica 
in is, in ws, in as, e disputare. 

. . Proverbiali erano le storpiature del latino che facevano i cuochi, probabilmen- 
ro laici i? ei conventi^ si ricordi la Confabulano coquinaria di Ugolino Pisani 
(1435) (Rossi, Quattrocento, pp. 528 e 559) e la frase del Valla contro Poggio (1452 
arca): «numquid a tuo coquo didicisti?... culinarium vocabulum est» (Liber Poggii 
9f ,er “’, Basilea, 1540, p. 368). Sull’espressione spregiativa latin de cuisine, 
KOchenlatem stati scritti vari articoli: v. R. Pfeiffer, in Philologus, LXXXVI 1930 
pp. 455-459. * 

« Y ^j an ’ ‘Pro. e contro il volgare», in Studi... Rajna, pp. 251-297. 
c .e < 2 tano specialmente le parole di un interlocutore padovano (Marsilio di 
So ® a): «ornai chiaro veggio e conosco che l’edioma fiorentino è si rilimato e 
copioso che ogni stratta e profonda matera si puote chiarissimamente con esso 
dire, ragionare e disputare». 

. . tnGiom. stor., LX, pp. 290-291; in genere, sulla prudenza con cui 

bisogna mterpret are il Paradiso degli Alberti, v. Baron, The Crisis, cit., pp. 67-75 
... «Dantem vero, si alio genere scribendi usus esset, non eo contentus forem 

no ? trls compararem, sed et ipsis et Graecis etiam 
anteponerem» (p. 30 Kimer). 

64 «Quamobrem, Coluci, ego istum poetam tuum a concilio litteratorum 
rlìXam» (pp e 33™ “ ^ lanariis) ’ plstorìbus atc l ue eiusmodi turbae 


240 


241 


Storia della lingua italiana 


dei tre scrittori; ma insomma rimane qualche dubbio sulle sue vere 
opinioni 65 . 

Cino Rinuccini in una sua Invettiva biasima i detrattori dei tre poeti; 
Domenico da Prato, difesi Dante e il Petrarca, loda espressamente il 
volgare: «O gloria e fama della italica lingua! Certo esso volgare, nel 
quale scrisse Dante, è più autentico e degno di laude che il latino e il 
greco che essi li detrattori! hanno». 

Molto importanti nella loro ponderazione e moderatezza sono i 
pareri di Leon Battista Alberti, per l’autorità dell’uomo, versato in 
molte scienze ed arti, esperto di molteplici attività, sicuro scrittore ih 
ambedue le lingue. Nel Proemio al terzo libro Della famiglia, l’Alberti 
afferma che gli scrittori hanno sempre scritto per essere intesi: perciò 
«forse e prudenti mi loderanno s’io, scrivendo in modo che ciascuno 
m’intenda, prima cerco giovare a molti che piacere a pochi: ché sai 
quanto siano pochissimi a questi dì e litterati... 66 ; ... chi fusse più di me 
docto o tale quale molti vogliono essere riputati, costui in questa oggi 
comune tro verrebbe non meno ornamenti che in quella, quale essi 
tanto prepongono e tanto in altri desiderano... E sia quanto dicono 
quella antica apresso di tutte le genti piena d’auctorità, solo perché in 
essa molti docti scrissero, simile certo sarà la nostra, s'e docti la 
vorranno molto con suo studio et vigilie essere elimata et polita...» (pp. 
232-233 Pellegrini-Spongano). 

Si radica profondamente in questa persuasione, che il volgare sia 
capace di esprimere alti concetti purché vi sia chi degnamente lo 
coltivi, la gara promossa da Leon Battista Alberti, sovvenuta da Piero 
de’ Medici, bandita solennemente dagli Officiali dello Studio, celebrata 
il 22 ottobre 1441 nella chiesa di S. Maria del Fiore. Il nome di Certame 
coronario, formato di due latinismi, può magari spiacerci, ma corri- 
sponde appunto al fine di nobilitazione del volgare che la gara si 
proponeva; e mostra che, più che dalla conoscenza - che probabilmen- 
te l’Alberti ebbe - di analoghe feste e concorsi piccardi, tolosani, 
barcellonesi, l’ispiratore della gara fu guidato dal più o meno vago 
ricordo di feste romane 67 . 

I versi letti al Certame dagli otto concorrenti sul tèma proposto da 
vera amicizia) erano assai scialbi; e i solenni giudici che dovevano 


65 Altrove (nella Vita di Dante, scritta nel 1436) il Bruni mette il volgare, 
quanto alla poesia, allo stesso livello del latino: «lo scrivere in stile letterato o in 
volgare non ha a che fare col fatto di essere o no poeta, nè altra differenza è se 
non come scrivere in greco o in latino. Ciascuna lingua ha la sua perfezione e suo 
suono e suo parlare limato e scientifico» (Solerti, Le vite di Dante, Petrarca e Bocc., 
p. 106). Per le opinioni del Bruni sul volgare, v. Baron, The Crisis, cìt,, pp. 422-429. 

66 L’Alberti aveva già fatto una dichiarazione analoga nella sua prima opera 
d’impegno scritta in volgare, il Teogenio: «e parsemi da scrivere in modo ch’io 
fussi inteso da’ miei non litteratissimi cittadini» ( Opere volgari. III, p. 160). 

67 Si veda specialmente P. Rajna, «Le origini del Certame coronario», in 
Scritti vani... Renier, Torino 1912, pp. 1027-1056, A. Altamura, Il Certame coronario, 
Napoli 1952. 


Il Quattrocento 


prenuare il vincitore con la corona d’alloro lavorata in argento, 
decisero di non assegnarla. Una «protesta» giuntaci anonima, e che 
figura scritta da persona indotta, è probabilmente dell’Alberti stesso 08 . 

Il fallimento della gara mostra che nel 1441 la riabilitazione del 
volgare non era ancora avvenuta nella comune opinione dei dotti. I 
giudici forse ebbero il torto d’intendere la gara come una sfida al 
latino, anziché, come l’Alberti la concepiva, un mezzo per far ricono- 
scere le capacità del volgare e cooperare ad affinarle. 

Basti una menzione delle contraddittorie opinioni sostenute dal 
mutevole e venale Filelfo, che commentò il Petrarca e Dante, scrisse un 
discorso in volgare (1451) «contro i suoi emuli i quali dicevono esser 
Dante poeta da calzolai e da fornai», e poi affermò del volgare «hoc 
scrrbendi more utimur iis in rebus quorum memoriam nol um us tran- 
sferre ad posteros»; e di quelle del lodatore del passato Vespasiano da 
Bisticci, persuaso che «nello idioma volgare non si può mostrare le cose 
con quello ornamento che si fa in latino» («Vita di re Alfonso»). 

Invece Lodovico Carbone, nella sua Esortazione— al duca Borso 
(1459), difende Dante e il volgare («nientedimeno il volgare e materno 
idioma è tanto in esso limato e terso con ioconda rima e profonda 
sentenzia, che non meno lo fa degno che se in latino fussi composto») 09 

11 Landino, professore di retorica e poetica nello Studio fiorentino e 
cancelliere della Signoria, è anche commentatore di Dante e del 
Petrarca e traduttore di Piimo in volgare: nell’Orazione inaugurale già 
citata (1460) vorrebbe vedere meglio coltivate le spontanee doti del 
volgare («ciò che di magnificenza e d’eleganza in sé la fiorentina lingua 
dimostra si può piuttosto da nativa abundantia riconoscere, che a lima 
oratoria attribuire»). Più tardi, proemiando alla Sforziade di Cicco 
Simonetta da lui tradotta (1490), lodava «la Fiorentina lingua, laquale è 
comune non solo a tucte le genti Italiche, ma per la nobilità dalcuni 
scriptori di quella è sparsa et per la Gallia et per la Hispagna» (c. 3 a). 
Ma erano intanto passati trent’anni, e l’umanesimo volgare aveva fatto 
grandi passi 70 . 


6. L’umanesimo volgare 

Lo sforzo di Leon Battista Alberti per risollevare il volgare dal- 
le basse condizioni in cui era caduto, al livello delle lingue classiche, 
per mezzo dei propri scritti e del Certame coronario, può essere consi- 
derato un importante avvio all’umanesimo volgare, il quale giun- 


68 II Rajna (p. 1032) ha rilevato alcuni persuasivi riscontri tra l’uso dell’Alberti 
e quello della Protesta (imperfetto congiuntivo con valore di condizionale- «per 
quale la terra nostra molto ne fosse onestata», ecc.). 

68 II Borghini, I, 1863, p. U 4 . 

™ Vedi M. Santoro, «Cristoforo Landino e il volgare», in Giom. stor. lett it 
LXXI, 1954, pp. 501-547. 


242 Storia della lingua italiana 

gerà a maturazione con Lorenzo e col Poliziano, col Boiardo e col 
Sannazzaro. 

Il Landino (nell’Orazione inaugurale più volte citata) riconosceva 
all’Alberti questo merito: 

Ma huomo che più industria abbia messo in ampliare questa lingua che 
Batista Alberti certo credo che nessuno si trovi. Leggete prìego i libri suoi e molti 
e di varie cose composti. Attendete con quanta industria ogni eleganzia 
composizione e degnità che appresso ai Latini si trova si sia ingegnato a noi 
trasferire. 

A noi la grafia, la sintassi, il lessico dell’Alberti danno l’impressione 
di una troppo scoperta intrusione di elementi latini: ma era pur 
necessario passare per questa fase per giungere a una più matura 
fusione. 

All’altezza d’arte di Lorenzo de’ Medici e del Poliziano fa riscontro 
la sicura consapevolezza che essi avevano dei meriti della lingua. La 
raccolta di liriche mandata nel 1476 da Lorenzo a Federico, figlio di 
Ferdinando d’ Aragona (dove predomina il gusto stilnovistico) è prece- 
duta da un’epistola critica, scritta con ogni probabilità dal Poliziano, in 
cui si celebrano le lodi del toscano: 

Nè sia più nessuno che quella toscana lingua come poco ornata e copiosa 
disprezzi. Imperocché, se bene giustamente le sue ricchezze e ornamenti saranno 
estimati, non povera questa lingua, ma abbondante e politissima sarà ritenuta. 
Nessuna cosa gentile, florida, leggiadra, ornata, nessuna acuta, ingegnosa, 
sottile, nessuna ampia, copiosa, nessuna altra magnifica e sonora, nessuna altra 
finalmente ardente, animata, concitata si potrà immaginare, della quale... con 
quegli due primi, Dante e Petrarca... i chiarissimi esempi non risplendano.... 

Più meditate lodi dà Lorenzo alla «materna lingua», «comune a 
tutta Italia» nel Comento sopra alcuni de’ suoi sonetti, che dev’essere di 
poco posteriore al 1476. Egli viene «considerando quali siano quelle 
condizioni che danno degnità e perfezione a qualunque idioma e 
lingua» e le riduce a quattro: la più vera lode della lingua è quella 
d’«essere copiosa ed abbondante, ed atta ad esprimere bene il concetto 
della mente»; poi «la dolcezza e armonia»; poi l’essere scritte in quella 
lingua «cose sottili e gravi e necessarie alla vita umana» (cioè il 
possedere un’importante letteratura); infine «l’essere prezzata per 
successo prospero della fortuna» (cioè l’avere un’ampia espansione 
territoriale). Ci guarderemo bene da anacronistici confronti con i criteri 
della moderna linguistica funzionale. Importa invece vedere la sicura 
persuasione dell’alta dignità della lingua, in cui i tre grandi fiorentini 
hanno espresso «ogni senso». E più ancora si può aspettare dall’avve- 
nire: ché la lingua è appena nella sua adolescenza, «perché ognora più 
si fa elegante e gentile». 

Già i tre grandi fiorentini avevano costituito il principale argomento 
per i difensori del volgare nella prima metà del secolo-, nelle parole del 


Il Quattrocento 243 

Magnifico si ha una pagina d’esaltazione incondizionata dei tre, ai 
quali è aggiunto (né la cosa ci stupisce, conoscendo i gusti stilnovistici 
di Lorenzo) Guido Cavalcanti. 

Non è qui il luogo di tracciare la storia della fama di Dante, 
Petrarca e Boccaccio durante questo secolo 71 «di soffermarci su quel 
particolare capitolo della storia della fama che è la loro accettazione 
come modelli scolastici 72 . 

Ricordiamo solo quel verso dell’iscrizione che Bernardo Bembo 
padre di Pietro, fece apporre nel 1483 alla tomba di Dante 73 : 

N imir um Bembus Musis incensus Ethruscis: 


in essa il patrizio veneziano definisce non soltanto sé stesso, ma tutto 
l’umanesimo volgare. 

Negli ultimi decenni del secolo, insomma, il volgare accoglie in sé le 
esperienze umanistiche, e riacquista fiducia in sé affisandosi ai tre 
grandi scrittori trecenteschi. Essi avevano sempre costituito l’argomen- 
to principale per i difensori del volgare; un segno della loro fama 
crescente è la loro accettazione come modelli scolastici. 

Per i nostri firn gioverebbe avere una ricerca complessiva sulle 
influenze stilistiche, lessicali e talora grammaticali esercitate dalle tre 
corone sui vari scrittori 74 , fino a penetrare nella lingua comune. 

Strettamente connessa con la celebrità dei tre grandi è la fama di 


71 È ben noto che di «tre corone fiorentine» parla Giovanni da Prato, mentre 
nel primo dialogo del Bruni il Niccoli parla con disprezzo dei «cosiddetti 
tnunviri» («de hisce tuis, ut ita dicam, triumviris», p. 31 Kimer). 

72 Si ricordi la meraviglia di Pietro Dovizi nel trovare che a Venezia «sola 
nostrorum vatum Dantis ac Petrarche carmina infantiam imbuunt: quo fìt ut 
elocutioni tantum vacent, mox liberalibus studiis adolescant. Quare nobis obiter 
gaudendum est, quod in patriam alienam tam prospere, tam celebriter vates 
nostri extra limen proferantur» fletterà a Marsilio Ficino, 31 marzo 1496, in Della 
Torre, Storia dell'Accademia Platonica di Firenze, Firenze 1902, p. 58). 

73 Del Balzo, Poesie di mille autori, IV, Roma 1893 , p. 167 . 

"Si pensi, ad esempio, alle numerose reminiscenze dantesche che affiorano 
nel Prezzi, nel Pulci, nel Poliziano; ma ce ne sono molte anche nei lirici min ori («e 
fiere m selva con gaetta pelle»: Cino Rinuccini) e nei prosatori («la corta buffa dei 
beni sottoposti alla fortuna»: Palmieri, Vita civile, II; innumerevoli in Giovanni 
Cavalcanti). V. più oltre, p. 273 . 

Il Petrarca è imitato con intenti diversi: con «ingenua funzione di raffinamen- 
to» nell Innamorato, come elemento del bizzarro impasto espressivo nel Morgan- 
te, per trarne note malinconiche nella Giostra del Poliziano e nel l’Arcadia del 
Sannazzaro (Bigi, Dal Petrarca al Leopardi, Milano 1954, p. 74), per alimentare gli 
arzigogoli concettistici del Tebaldeo e di Serafino, o dell’autore di quella 
barzelletta a cui allude Maria Savorgnan in una lettera al Bembo (8 agosto 1500): 
«poso dir, come quela barzeleta, che d’affanni poi dentro avampa il core»; in 
genere del Petrarca trova fin d’ora ampia diffusione il linguaggio amoroso così 
largamente fondato sulla metafora. 

L’influenza del Boccaccio si sente soprattutto nella struttura del periodo dei 
novellatori (Masuccio, Sabbadino). 


244 


Storia della lingua italiana 


Firenze per la dolcezza, l’abbondanza, l’eleganza del dire: e frequenti 
sono i giudizi di questo tenore dati dai fautori del volgare. Un Siciliano, 
probabilmente l’Aurispa, versa il 1420 diceva d’aver scordato il sicilia- 
no e il greco per la dolcezza del toscano e del latino: 

Inter tam dulcis quales fert Tuscia linguas 
dedidici Graecam, dedidici Siculam 75 . 

Tra i volgari, il Filelfo giudicava «elegantissimus et optimus* il 
fiorentino e asseriva che «ex universa Italia ethrusca lingua maxime 
laudatur» 78 . Il b. Bernardino da Feltre, predicando a Firenze, si scusa: 
«non starò a dir secondo l’arte del dir che sta a Fiorenza, ma secundum 
evangelium» 77 . 

Quanto al nome della lingua, ancora si adoperano promiscuamente 
e quasi indifferentemente i termini di volgare, fiorentino, toscano, 
italiano 73 : non sono ancora nate le dispute a chiarire le differenze (o, 
piuttosto, a invelenire la questione senza chiarirle). 

Una delle caratteristiche dello spirito d’espansione dell’umanesimo 
volgare è la riconquista di «generi» che le lingue classiche avevano 
posseduti, e il volgare non ancora-, la tragedia, la commedia, l’egloga, la 
satira hanno i primi esempi in italiano proprio in questo scorcio di 
secolo. 

Naturale corollario dell’umanesimo volgare è lo sforzo di fissare 
delle regole per la lingua. 

Abbiamo notizia che l’Augurello andava cercando le regole della 
lingua nel Petrarca™. Dei primi tentativi di fissar regole, l’unico 
documento quattrocentesco che ci rimane è la grammatichetta che 
apparteneva nel 1495 alla Libreria Medicea privata col titolo di Regule 
lingue fiorentine o Regole della lingua fiorentina : l’originale è andato 
perduto, ma una copia fu fatta nel dicembre 1508, fu posseduta dal 


75 Sabbadini, in Giom. stor., Suppl. VI, p. 84. 

70 Rossi, Quattrocento, 2* ed., p. 120, rimanda a quattro lettere del Filelfo. 

77 Sermoni..., cit., I, p. xxvm. 

78 Leon Battista Alberti parla di «lingua toscana» nella Pittura (p. 13 Papinil, di 
«nostra linguai, «nostra toscana» nella Famiglia (p. 231, 233 Spong.). Il Magnifico 
parla nel Commento di «lingua volgare», «nostra materna lingua», «lingua 
nostra», «questa lingua», «nostri poeti fiorentini». Il compendio geronimiano del 
Salterio è «tradotto di lingua latina in lingua toschana» da Marsilio Ficino per 
Clarice Medici Orsini (Della Torre, Storia dell’Accademia Platonica, cit., p. 846). Il 
Landino dice ineM'explicit dell’edizione di Firenze 1490) d’aver tradotto la Sforzia- 
de del Simonetta «de sermone litterale in lingua firentina». 

Ma quando si viene al confronto con altre lingue vive, si parla piuttosto di 
italiano. Nel Piovano Arlotto, traducendo una frase vallona, si dice che «le parole 
vogliono significare questo in taliano» (nov. CXD; di un marinaio albanese si dice 
che «non sapeva parlare italiano» (motto CLXTV). Nella Farsa dell’ambasciatore 
del Soldano (Torraca, Studi di storia letteraria napol., Livorno 1884, p. 277) c’è un 
messo «che non sa il linguaggio italiano». Ecc. 

79 Flamini, Il Cinquecento, Milano 11902], p. 129. 


Il Quattrocento 


245 


Bembo, e si conserva ora nella Biblioteca Vaticana 80 . Le Regole sono 
anonime-, I identificazione dell’autore non è sicura, ma molti indizi 
fanno pensare a Leon Battista Alberti 81 . 

Appartengono al Quattrocento anche le prime raccolte lessicografi- 
che: glossarietti parte metodici parte alfabetici in cui la voce italiana 
(veneta) è interpretata in tedesco (bavarese) 82 , il Vocabolista in cui Luigi 
Pulci raccolse alcune centinaia di latinismi 83 , l’elenco di vocaboli milane- 
si fatto per curiosità da Benedetto Dei 84 , un glossarietto furbesco 83 , il 
primo vocabolario italiano-latino, quello di Nicodemo Tranchedino 88 . 


7. Il volgare in Toscana 

.1 mutamenti grammaticali che appaiono nella lingua parlata negli 
ultimi decermi del Trecento e nei primi del Quattrocento si manifesta- 
no, come sempre, più scopertamente nella prosa che nel verso. Nel 
lessico s’infiltra dappertutto il latinismo, non appena lo scrittore abbia 
la minima pretesa letteraria. 

Sia nella prosa che nel verso, gli scritti fiorentini sovrastano di gran 
lunga, per quantità e per importanza, quelli del resto della Toscana. 

In prosa, oltre alle lettere private (Alessandra StrozzD e alle lettere 
Poetiche (Rinaldo degli Albizzi), abbiamo trattati civili (Palmieri 
Alberti) e trattati ascetici (Beicari, S. Antonino), novelle e facezie (il 
pratese Giovanni Gherardi, il lucchese Sercambi, il senese Sennini, il 
Grasso legnatolo, il Piovano Arlotto ), sermoni sacri (S. Bernardino da 
Siena), memoriali e cronache (Giovanni Cavalcanti, Giovanni Morelli il 
bizzarro Bindino da Travale 87 , Benedetto Dei), biografie (V espasiano da 


80 V. il testo in appendice a Trabalza, Stona gramm. 

V. specialmente C. Trabalza, in Studi... F. Torraca, Napoli 1912 (e in 
Dipanature cntiche, Bologna 1920). P 

82 Conservati in manoscritti del 1423 e 1424, e in incunaboli del 1477 e 1479 (A 
Mussafia, «Beitrag zur Kunde der norditalien. Mundarten im XV. Jahrh.», in 
Denkschr. Afe. Wien, XMI, Ì873; O. Olivieri, «I primi vocabolari italiani», in Studi 
y 1 ’,, 19 . 42 ’ L ‘ Emer y, in Lingua nostra, Vili, 1947, pp. 35-36). 

Volpi, «/( Vocabolista di L. Pulci», in Riv. delle bibl. e degli archivi, XIX 
1908, pp. 9-15 e 21-28. Le liste di vocaboli raccolte da Leonardo (e contenute nel 
manoscritto Tnvulziano e in un foglietto del codice di Windsor) sono in piccola 
parte in ordine alfabetico, ma ciò non prova che egli avesse, come qualcuno 
pensò, 1 intenzione di compilare un vero e proprio vocabolario. Vedi A. Marinoni 
Gli appunti grammaticali e lessicali di Leonardo da Vinci, I, Milano 1944 - II’ 
Milano 1952; ivi la copiosa bibliografia precedente. 

Polena, in Studi difìlol. ital., IX, 1952, pp. 83-144. Dello stesso Dei è anche un 
elenco (inedito) di vocaboli turcheschi. 

m ^bblicato da G. Volpi, in Miscellanea Rossi-Teiss, Bergamo 1897, pp. 49-61. 

j .! repertori latino-italiani (Barzizza, Cantalicio, ecc.-. cfr. nel Maqré 
Dardeqe («Il Maestro dei fanciulli», glossario ebraico-arabo-italiano stampato a 
Napoli nel 1488) il volgare ha soltanto valore strumentale. 

Curiosa, nella cronaca di Bindino, la mescolanza di versi o di rime. 


246 Storia della lingua italiana 

Bisticci), commenti (Landino), ecc. Quasi nuovo è il campo delle scritture 
tecniche, «cosa non appartenente a’ precetti di rettorica» (Ghiberti, Com- 
mentari, p. 2 Morisani): l’Alberti, il Ghiberti, Piero della Francesca, Leo- 
nardo-, e così pure quello delle dissertazioni filosofiche (Ficino). La prosa 
del Magnifico cerca di introdurre ima nuova eleganza. 

Verseggiatori più o meno popolareschi continuano nella prima 
metà del secolo l’epica (cantari), la drammatica (sacre rappresentazio- 
ni), la poesia burlesca Qo Za, molto «contenutistico», il Burchiello, che 
spesso ricerca acutezze o dilettazioni puramente verbali: «Nominativi 
fritti e mappamondi», «Sospiri azzurri di speranze bianche»). Nella 
lirica la stanca rimeria più o meno petrarcheggiante è ravvivata dagli 
scambi con altre regioni, spesso con l’aiuto del canto e della musica 
(canzonette «siciliane», calabresi, napoletane, veneziane, strambotti, 
ecc.). 

Il filone popolaresco seguiterà anche nella seconda metà del secolo, 
e senza perder freschezza si solleverà ai fastigi dell’arte nel cenacolo di 
Lorenzo: rispetti, ballate, canti carnascialeschi sono una delle tante 
maniere di quell’uomo e di quell’ambiente così versatili. Anche il 
Morgante si attiene al tono popolaresco. La lirica colta di Lorenzo, con i 
suoi accenti neoplatonici e la ripresa dei motivi stilnovistici, si stacca 
nettamente dal petrarchismo «fiorito». 

Danno testimonianza del risollevato prestigio queste parole del 
Calmeta, scritte una decina d’anni dopo la morte di Lorenzo: 

la vulgare poesia e arte oratoria, dal Petrarca e Boccaccio in qua quasi 
adulterata, prima da Laurentio Medice e suoi coetanei, poi mediante la emulatio- 
ne di questa (Beatrice d’Estel et altre singolarissime donne di nostra etade, su la 
pristina dignitade essere ritornata se comprehende ( Vita di Serafino, nelle 
Collettanee pubblicate nel 1504, p. 11 Menghini, p. 72 Grayson). 

Nei canti carnascialeschi, la lingua popolare non è solo imitata, ma 
volutamente caricata. La Nencia inaugura il «genere» dei poemetti 
rusticali, che sono tipica letteratura dialettale riflessa. 

La curiosità per gli altri dialetti e la tendenza a satireggiarli che già 
appare in alcuni trecentisti toscani è più che mai viva nel Quattrocen- 
to: si ricordino i sonetti del Burchiello che prendono in giro Veneziani, 
Senesi, Romani; quelli di Luigi Pulci che fanno il verso ai Milanesi e ai 
Napoletani; quelli di Benedetto Dei che enumerano alla rinfusa parole 
tipiche dei Milanesi 

Anche nei novellieri troviamo più d’un esempio di imitazione 


proveniente dall’esempio dei cantari: 

e’1 mille quatrociento nove chorriva 
che re Vincilago a Siena veniva 

(cap. L, p. 38 Lusini), 

Iscì ’l castellano di Talamone e cavonne suo fornimento; 
lassowi il vino e ’l tormento... 

(cap. CLXI, p. 130). 


Il Quattrocento 247 


realistica o satirica dei dialetti: si ricordi l’oste marchigiano del 
Piovano Arlotto («Messore, non dicere chiù, che se ’n ce vene» ecc • n 50 
Folena). 

Il furbesco comincia a essere occasionalmente, adoperato; a scopo 
scherzoso da qualche scrittore (Pulci, Pistoia, Alienti, ecc.). 


8. Il volgare nell’Italia settentrionale 

Altri notevoli passi compie il volgare in confronto con il secolo 
precedente: sia con la maggior diffusione, sia con un ma ggiore 
conguagliamento interregionale, avvenuto specialmente attraverso 
* f^cettazione ^ elementi latini e di elementi toscani. I testi in prosa 
stilati senza intenzioni letterarie nelle città più importanti, dove più si 
fa sentire l’influenza di una corte e di una cancelleria, ci mostrano 
1 esistenza di altrettante varietà locali, le quali di generazione in 
generazione sempre maggiormente si scostano dai rispettivi dialetti 
parlati e si avvicinano fra loro. 

Si confronti un testo bresciano del 1412, con vistosi tratti specifici 
(«O De omnipotent sempiterno, el qual revelast la tua gloria in Yhesu 
Christ a tuti U zeng, guarda per l’ovra de la tua misericordia che la tua 
giesia sparta per tut el munt debia perseverà cum fe stabella...») 86 , con 
un testo della stessa città, steso nel 1431 da un ufficio del comune: 
«ìnfrascripta si è la spesa fata per lo Comuno de Bressa per far la festa 
de Nostra Dona del messe de avosto de l’ano suprascripto fata per 
Antonio de Vachi e pei mi Agostino de Mazii. El Comuno de Bressa de 
dare per comperar una vacheta per scrivere susso li rassó del comuno 
e de la fabbrica...» 89 . Tra l’uno e l’altro testo si collocano la. conquista 
del Carmagnola e l’annessione alla Repubblica Veneta (1430). Oppure 
si confrontino i testi veronesi di questo tempo, così scarsamente 
caratterizzati, con Quelli dell’età scaligera. 

Nei luoghi più lontani dalla circolazione della cultura abbiamo testi 
pm vicini al parlato, quindi più rozzi. Verso la fine del secolo, da una 
valle del Bergamasco, provengono testimonianze come questa: «A y è 
quey da Nes che i ne voraf tor i nos grumey» 80 : lontananza da luoghi di 
cultura e scrupoli di scrivano convergono nel darci un testo ancora 
fortemente dialettale. 

Al contrario, quanto più chi scrive ha intenzioni letterarie, tanto più 
la sua lingua è nobilitata. Si confrontino le lettere che ci restano del 
Boiardo 91 con i prologhi alle sue traduzioni 92 : non si notano solo 


88 Migliorini-Folena, Testi Quattr., n. 13. 

89 Migliorini-Folena, Testi Quattr., n. 28. 

90 Migliorini-Folena, Testi Quattr., n. 106. 

91 Per es. quella del 21 marzo 1492: «Thomaso, vede de remosscolare tuto Rezo 
per trovarmi uno strassinazo, et guarda che sia strassinazo proprio e non 
aegagna... et cossi diio a mia molgiera che ancora lei pazza cercare.:.» (Migliorini- 


48 


Stona della lingua italiana 


ifferenze di tono, ma di grammatica e di lessico. (Vero è che delle 
ìttere ci resta l’autografo, dei prologhi no; quindi non è da escludere 
he questi siano stati un po’ rimaneggiati). 

jfigrtmma. , nello stesso modo che gli umanisti vengono uno per uno. 
on lenta opera personale, fabbricando la loro latinità, disimpegnanao- 
i dagli insegnamenti medievali e accostandosi sempre più accurata- 
aente ai classici, così quelli che mirano a scrivere in .volgare con 
lualche eleganza man mano si adeguano ai modelli riconosciuti, E, 
ome già si è visto, i versi sono stati modellati sui grandi autori prima e 

>iù dawicino che la prosa 93 . . . , 

Nel Piemonte, per la sua posizione periferica, e la vicinanza al 
rancese, l’accostamento al toscano è raro e scarso. Fortemente 
lialettale (e con influssi francesi) è il poemetto sulla presa di Pancahen 
1410)* 4 un po’ meno la laude di Chieri 85 . Vuol scrivere invece m toscano 
etterario l’autore della Passione di Revello (1490), benché si scusi della 
scarsa perizia, per il poco uso che si fa della nuova lingua: 

la Passione in tal lingua è fatta 
che da noi è poco usitata 
imperò che non è da maravigliare 
se non l’abbiamo bene saputa fare 96 . 

«Proprio la poesia religiosa ci attesta la diffusione dell’italiano negli 
strati umili e borghesi del Piemonte, in un periodo in cui i documenti 
pubblici sonò scritti in latino, e quelli di corte in francese» 97 . Galeotto 
Del Carretto «è forse l’unico poeta piemontese che sul finire del sec. 
XV vivendo in Corte, poetasse alla maniera dei rimatori cortigiani del 
restante d’Italia» 98 . In prosa, si può ricordare solo qualche cronaca 

ancor molto rozza. , , .. 

In Lombardia, abbiamo già accennato che il volgare era stato 
favorito da Filippo Maria Visconti e poi dagli Sforza-, fra gh altri poeti 


F°lena >er esej ^ p . o ^ p^ogo della Ciropedia: «Havrete dunque la vita e gesti del 
primo Cyrro scripta da Xenophonte grecò, la quale è assai piu utde che 
piacevole... Quivi non si vede la incredibile grandezza di Porro... Ma le leggie con 
le quali infmo da fanciulli si faccino e populi virtuosi et obedienti ah principi... 
Come si conservino li amici e facciansi da principio...» CII, p. 717 ZottohJ. 

83 Se n’è accorto l’ignoto padovano autore d una frottola deUa prima metà del 
'400 (G. Mazzoni, «Un libello padovano in rima del sec. XV», m Atti e Mem. della 
R. Acc. di scienze, lett. ed arti di Padova, VI, 1890), w. 234-235: 

Tal è che parla in rima 
che non sa dir in pruosa... 

85 S^ior^amentòzione metrica sulla passione di N. S., Torino 1886; parzial- 
mente rist. in Wartburg, Raccolta, n. 8 . — . . _ tII „ n7 

96 De Bartholomaeis, Laude dramm. e rappresentazioni sacre, ili, P- dUY - 

87 F. Neri, Fabrilia, Torino 1930, p. 85. 

88 G. Manacorda, in Men. Acc. Torino, XLIX, 1900, p. 58. 


Il Quattrocento 


249 



cortigiani emerge Gaspare Visconti, che pur si scusa (nell’epistola 
premessa aU’edizione milanese del 1493) «del nostro non molto polito 
naturale idioma milanese». Può essere interessante ricordare come egli 
stesso glossi la parola fromba che aveva adoperata in un sonetto 
(attingendola forse alla Fiammetta o al Margarite ): « Fromba in lingua 
toschana è quello che in lingua latina dicitur /unda» 99 . 

Per la prosa, siamo abbastanza bene informati sulla lingua della 
cancelleria 100 . Interessante, e non ancora ben studiata, è la lingua della 
Patria bistorta di Bernardino Corio, che narra le vicende milanesi fino 
al 1499 (Milano 1503). 

A Bergamo, al principio del Quattrocento, frate Stefano Tiraboschi 
copiava, talvolta compendiandolo, l’antico poemetto veronese su Santa 
Caterina; e il confronto riesce molto istruttivo. Ecco alcuni versi della 
redazione veronese: 

L’imperaor Maxengo clama gi credendoli, 
gi baron de la corto et altri cavaleri, 
e dis: «Or m’entendii quel che voio dire; 
e’ v’ò clamado gae e fatovi vegnire: 
vui savi de Katerina quel k’ela m’ à fato, 
per lei non è romaso ked e’ no sia mato, 
ell’ae desorado lo nostro De del tempio... 101 . 

Ed ecco il testo in bergamasco ormai italianeggiante: 

Lo imperadore Masenzo sì giamà li soi credenderi, 
li baroni de la corte e li altri cavaleri, 
e disse: «Voy sapeti quello che Katherina me ha fatto, 
per ley non è romaso che non sia parso matto. 

Ella ha despresiado lo dio nostro del tempio... 102 . 

A Mantova la copiosa corrispondenza gonzaghesca ci mostra ima 
coinè assai progredita 103 . 

Dal Veneto si leva, nella prima metà del secolo, la voce di Leonardo 
Giustinian: benché sia quasi impossibile riconoscere le sue caratteristi- 
che precise, in mezzo al coro che essa ha suscitato intorno a sé in tanta 
parte d’Italia, alcuni forti venetismi risaltano (p. es. golta in rima con 
volta, ecc.). 

L’espansione delle «giustiniane», aiutata dalla musica, ha fatto sì 
che si accogliesse, anche fuori dell’Italia settentrionale, l’apocope in 
consonante davanti a pausa («Quel che in sogno tu me fai - fussel vero 


88 Rime, ed. A. Cutolo, Bologna 1952, p. 79. Lo spoglio dell’opera, a cura di M. 
Vitale, mette in luce il forte colorito latineggiante e settentrionale della lingua del 
Visconti. 

100 M. Vitale nel citato volume su La lingua volgare della cancelleria visconteo- 
sforzesca. 

101 Monaci-Arese, Crestomazia, p. 426. 

102 Renier, in Studi filai, rom., VII, 1894, p. 32. 

•°3 Migliorini-Folena, Testi Quattr., n. 117 (cfr. n. 121). 


250 


Storia della lingua italiana 


e poi morir...»; in ima barzelletta di Serafino «Non mi negar, signora, - 
di sporgerme la moni 104 . 

In ima redazione rimata dei Sette Savi, della metà circa del secolo, 
vediamo uno che «senza essersi impratichito, mediante lo studio, della 
lingua letteraria, pretende di scriverla» 105 . Un po’ più tardi, quando il 
veronese Giorgio Sommariva traduce Giovenale, e il padovano Cosmi- 
co, e il veronese Antonio Vinciguerra tentano la satira morale in 
terzine, essi scrivono, pur con qualche settentrionalismo, in toscano 
illustre. Si legga qualche verso della 4 a satira di Giovenale nella 
traduzione del Sommariva: 

Ecco che ’1 mi convien anchor chiamare 
Crispino in ogni parte per suo vici, 
monstro senza virtude da sprezzare, 

debile, infermo, ma forte in flagici, 
excetto in le delicie viduile, 
ma in l’altri fa mille execrandi exici. 

Che zova adunque ha ver le signorile 
case con boschi e possessione a lato 
al foro, che non son già cose vile, 

se alchun maligno esser non può beato... 106 
oppure qualche verso della sua Chronica vulgare : 

Manfredo, spurio a Federico fìlio, 
morto che fu Corrado so fratello, 
al regno di Sicilia diè di piglio; 

dominò tredece anni intruso in quello 
benché dal quarto anatematizzato, 
dico Alessandro, fusse col suo hostelo, 

per aver preso, morto e mal menato 
la gente d’arme e copie de la Chiesa... 107 

ih confronto con i versi (lasciati inediti dallo scrittore e pubblicati 
modernamente) in cui il Sommariva stilizza la parlata rustica: 

O consegieri, e ti nostro massaro, 
e tuti vu del borgo mazorenti, 
pianzì sta morte, con grandi sbraimenti, 
de Pier Zafeta, nostro pare caro... 

E1 ne schivava da tuti i sodò («soldati»), 


104 Folena, Crisi, p. 40 n. 

105 Rajna, in Romania, VII, 1878, p. 26. 

106 Treviso 1480, c. 15 b. Il dott. Franco Riva ha voluto riscontrare per me 
questo passo e i due seguenti. Sono aggiunti, s’intende, accenti e interpunzione. 

107 Venezia 1496, c. 8 b. 


Il Quattrocento 


251 


e dai sberoeri e d’aotra mala zente, 
che cerca tor le nostre povertè... 108 . 

troviamo varie tà grandissime. Marin Sanudo nei 
suoi Diari adopera un veneziano cancelleresco di solido impasto con 

ahro C eSmn^ a r en t StlChe dÌalettalÌ ben salde - Invece > per citare solo un 
wf° sem Pl°’ 1 antiquario veronese Felice Feliciano mostra nelle sue 
lettere una lingua tanto illustre (con molti latinismi e alcuni toscanismi) 

PofiDhilfs^en? 0 *!- addi ? ttura attribuire a lui YHypner otomachia 
Poliphili.Si senta 1 inizio di una sua lettera a Giov. Bellini- «Le vixere 

de la profónda terra mi da gli preciosi metalli, e’1 Tago e ’l Nvllo con le 
salse unde di Gangie le margherite, l’India Favori^ e gli olenti hgni 
bal f. ami ’ ®. gLi arbori di Sabba mi manda l’incenso, Sydonia 
le porpore, e gli picoh vermi di Siria gli sirici drapi, gli cupi e profondi 
gorghi il pescie squamoso, e le frondose silve le timide lepori et il 

el “tuo 6 cuore »® ecc^ 0 ? 11 V ° lauti ' E queUo amore che P iù è c aro ini dà 

. tipog ?\ fl ? * Venezia 110 fa di quella città una 
e d ® Ua ttiffiisione del toscano letterario: basti pensare all’im- 
portanza delle ediziom aldine del primissimo Cinquecento. 

el Friuli (passato nel 1419-20 al dominio di Venezia) si trova che il 
™nof C ° ° è tt^PP 0 rozzo, e chi scrive si attiene sempre più a modelli 
e Pontahaneggianti 111 . Prete Pietro dal Zoccolo (o Pietro Edo) di 
p°^® none ’ . m tre rappresentazioni sacre 112 e in un poemetto su Amore e 
Fortuna scrive in toscano con pochi tratti veneti; e nel pubblicare il suo 
volgarizzamento delle Costituzioni della Patria del Friuli (Udine 1484) 
s P ie f 1 a qual . e oriteno abbia seguito per scegliere tra «le lingue italiane»; 
trnnnn gan ia ® to schana» non gli è parsa conveniente «per esser 
? h P °x PUl1 - fur lam» ; ria furlana» a sua volta presentava 
vane difficolta («non è universale in tutto il Friule», e «mal se pò scrivere 
e pezo lezendo pronunciare»); perciò ha finito con l’attenersi al «trivisa- 
no» («Imagmai in tal translatione dovermi acostar piutosto a la lengua 
Tnvisana che ad altra, per esser assai expedita e chiara et intelligibile da 
tutti, come quilla che segondo il mio giudicio partecipa in moltivocabuli 


io» r?' S a ^ lr ^ s ’ ? on f M villaneschi di G. Sommariva, Udine 1907 p 14 
no S Flocc °-. m Archivio veneto-tridentino, IX, 1926, p. 193 . 

. ° n sarà mutile notare che la stampa dei primi libri in volgare a Venezia fu 
finanziata da mercanti fiorentini (E. De Roover, Bibliofilia, LV, 1953, pp ; 107 - 115 ) 

m. 0 *' ia ietera dei 1437 - isissa 

112 Nelle quali non manca qualche ipertoscanismo: 

Un terremoto forte e smesurato 
non sol mi fé rizzire li capei, 
ma sbigotir ni fece tutti sei 
e cader giù allor, e mio malgrato. 

(De Bartholomaeis, Laude dramm. e rappresentazioni sacre. III, p. 298). 


252 Stona della lingua italiana 

con tutte lingue italiane»). Ma, come si vede anche da queste poche 

righe 113 , si tratta di un veneto molto toscanizzato. 

Nell’Emilia, il centro più importante di elaborazione del volgare è 
Ferrara (cfr. pp. 227), per esperimenti letterari di vario genere. Tra 1 
molti verseggiatoti 114 emerge il Boiardo: più che i suoi scritti minori 
importa V Orlando Innamorato, in cui l’emiliano illustre decisamente 
inclina verso il toscano: accanto a forme e vocaboli dell uso regionale 
(gionto, panza, ziglio, cacciasone, fosso «fascio», ve adunati, beccaro, 
nioppa, ecc.) si hanno forme e voci toscane ( veniamo , rubesto, stordigio- 
ne, ecc.), ipertosc anismi (fraccasso. diffesa, gaglio «gaio», piaccia «piaz- 
za», stniccio «struzzo», avancia «avanza», batteggian «battezzali», 
ecc.), latinismi {strato, spato, ecc.). Il poeta approfitta volentieri delle 
varianti disponibili per la rima: p. es. si ha scudo in rima con nudo, 
scuto in rima con arguto, ecc. La miscela non era certo tale da piacere 
agli sc hizzin osi letterati del Cinquecento e alle loro norme assai piu 
rigorose. Ma la direzione in cui si muove il Boiardo è quella medesima 
in cui verrà a trovarsi, di alcuni passi più innanzi, Lodovico Anosto. 
Manca, purtroppo, un saggio che illustri degnamente la lingua del 

Boiardo nel quadro della sua cultura. in . , , 

Della prosa letteraria ferrarese ci danno un idea le Facezie dei 
Carbone; Sabadino degli Alienti nelle Porretane stilizza, con echi 
boccacceschi dovuti al «genere», il bolognese illustre. Molto più rozze 
sono le cronache, e in genere le scritture pratiche. 


9. Il volgare nell’Italia mediana 

Anche la corte urbinate ci dà alcuni testi colti. Giovarmi Santi da 
Urbino, il padre di Raffaello, nella sua pedestre Cronaca in rima vuol 
arieggiare i Trionfi del Petrarca, e ben di rado adopera forme e 
vocaboli regionali (agionto, vinti, Vinesà) o ipertoscam (cniuoao); 
Angelo Galli si tiene molto stretto ai grandi trecentisti; solo lievissime 
scabrezze dialettali mostrano le rime e le prose (incluse anche le 

lettere) del pesarese Collenuccio. . XJ _ .. 

Dall’Umbria vengono testi in versi ormai non molto dialettali come 
il Soll a zz o e il Saporetto del Prodenzani, le 37 sacre rappresentazioni 
messe insieme nel 1405 daTramo di Leonardo d’Orvieto 115 , i numerosi 
laudari di diverse città e, nella seconda metà del secolo, 1 molti 
poemetti del perugino Lorenzo Spirito. . . 

Nella prosa non letteraria, troviamo il solito sfasamento tra le 


113 O da un passo qualsiasi: «Perché l’officio del zudese è longissimo, 
ordinamo che il zudexe possa prolongar li termini de una et più cause in absentia 
de le parte overo de una d’esse...» (c. vi a). 

114 Vedi il cit. scritto del Fatini, Le «Rime* di L. Anosto, passim. 

,1S P. es. accanto alle forme dialettali deliberamo, giudicamo, mandamo, ecc. 
si hanno le forme toscaneggianti cantiamo, adoriamo, danniamo, ecc. (De 
Bartholomaeis, Laude dramm. e rappres. sacre, I, pp 339-345). 


Il Quattrocento 253 

grandi città centri di cultura, in cui la lingua s’italianizza rapidamente, 
e i luoghi meno importanti, in cui le caratteristiche locali resistono di 
più: a Perugia la -e finale per -i ancora compare qua e là nei primi 
decenni del secolo 118 , mentre poi la -i si fa generale; a Spoleto gli Annali 
dello Zambolini distinguono bene ueo finali, secondo l’uso dialettale di 
quella zona. La cronaca di Todi di I. F. degli Atti, a cavalcioni fra il sec. 
XV e il XVI, palesa la lotta fra spinte toscane e spinte romanesche 117 . 

A Roma la lingua poetica è quella ormai comune; non solo nei 
petrarchisti, come Giusto de’ Conti, ma per es. nel lamento di Paolo 
Petrone, carcerato a Viterbo nel 1420: 

Roma, dov’è Ilo tuo nobil senato? 
dov’è ’1 tuo Cesari che fo ssì altero? 118 . 

Invece, il medesimo Paolo Petrone scrivendo in prosa la sua 
Mesticanza ha un vistoso colorito romanesco ( tierra , muorto, altro, 
monno, menao, ecc.), e così pure altri cronisti (Paolo di Benedetto dello 
Mastro, Stefano Infessura) e l’estensore delle Visioni di Santa France- 
sca, Giovanni Mattiotti. Ma altri diaristi (Gaspare Pontani, Antonio da 
Vasco) adoperano una discreta lingua toscaneggiànte. 

Se ci spingiamo negli Abruzzi, troviamo che il corifeo del petrarchi- 
smo fiorito, Serafino Cimminelli, non ha quasi più tracce regionali 
(avendo del resto passato parte della vita a Roma e nelle corti 
settentrionali) 119 . Ma fortemente dialettali sono i Cantari di Braccio-, già 
più toscaneggiante la cronaca aquilana rimata di Cola di Borbona. 
Tratti dialettali e tratti dottrinali si mescolano nella poesia drammati- 
ca (specialmente nel laudario drammatico domenicano dell’Aquila). 

Abbiamo pochi esempi di prosa letteraria 120 , mentre i testi pratici 
sono fortemente dialettali 121 . 


10. Il volgare nell’Italia meridionale 

L’uso letterario e pratico del volgare, scarsissimo nell’età angioina, 
scarso nei tempi di Alfonso I 122 , diventa vivace a partire da Ferdinando 


1,8 P. es. de li gentili homene, gli diete tre frategli, in «Richiesta di cittadinan- 
za», Migliorini-Folena, Testi Quattr., n. 19. 

117 Sulla lingua di questa cronaca, vedi F. Agéno, in Studi fil. it., XIII, 1955, pp. 
167-227. 

118 Medin- Frati, Lamenti storici, II, Bologna 1888, pp. 7-12. 

118 Se mai, è più facile notare tratti settentrionali (arecordi; stati, pensati, 2- 
pers. plur.) che meridionali (saccio, cresi «credetti»), 

120 Come la redazione chietina della Fiorita di Armannino (Migliorini-Folena, 
Testi Quattr., n. 16). 

121 P. es. l’inventario della cattedrale di Teramo (Migliorini-Folena, Testi 
Quattr., n. 100): si notino regressioni come pandi «panni». 

122 Migliorini-Folena, Testi Quattr., nn. 42 e 56; v. l’annunzio al popolo della 
pace con Eugenio IV in De Tummulillis, Notabilia temporum, p. 53 Corvisieri. 


:54 


Storia della lingua italiana 


l23 . Alc uni gentiluomini napoletani, con intenti, se non con risultati, 
inaloghi a quelli della cerchia medicea, tentano una linea di tono 
>opolaresco: quindi con numerosi dialettalismi 124 . 

Ma non mancano le influenze petrarchesche; queste anzi predomi- 
ìano nel canzoniere di Pier Iacopo De Iennaro 125 , mentre nelle Sei etate 
le la vita umana egli mostra una forte influenza dantesca; in comples- 
;o si nota che nella scelta tra più forme possibili egli tende a scostarsi 
pianto può dal dialetto. Petrarchismo e classicismo coloriscono i versi 

lei Cariteo. _ ... 

Nei vigorosi sonetti dello sventurato conte di Policastro, Giannanto- 
ùo de Petruciis, forme e vocaboli plebei appaiono accanto a forme e 
vocaboli colti: così, egli adopera liberamente l’articolo tool articolo el 
lavanti a consonante: 

io sole con la luna e con li venti 

lo celo con le . stelle è sucto al Fato 

(son. I) 

el corpo degli affanni ora riposa 

(son. XLVI) 

non saccio se Io cor de me te premi 


el crudo fato credo che blastemi 

(son. LI1). 

Volutamente ricchi di dialettalismi sono anche i gliòmmeri (nome 
mpoletano di quelle che altrove si chiamano le frottole) e le farse : ecco 
3 . es. ima scena di streghe dalla farsa Lo Magico di Pietro Antonio 
Caracciolo (che fu recitata davanti a Ferdinando I): 

Una, la più valente, - in su la forca 
nde saglie et là se corca - a la bucune 
et taglia poi la fune, - et fa cascare 
Yinpisi a le y onore; - et prestamente 
chi lloro stirpa un dente, - et chi le lingue, 
et chi a llor toglie il pingue, - et chi i denochii, 
et chi llor cava l’occhii, - et chi i captili... 129 . 


123 V., oltre aLcap. IX del Quattrocento di V. Rossi, A. Altamura, L'umanesimo 
tei Mezzogiorno d’Italia, Firenze 1941; Id., «Appunti sulla diffusione della lingua 
lei Napoletano», in Conviviutn, 1949, pp. 288 303; Id-, Testi napoletani del 
Quattrocento, Napoli 1953; G. Folena, Crisi, passim; M. Corti, Rime e lettere di P. J. 

De Jennaro, Bologna 1956. ... 

i 2 < L e loro poesie sono raccolte, insieme con versi anonimi, nella silloge ai 
Siovanni Cantelmo conte di Popoli (del 1468 circa), conservata nel codice 1035 
iella Nazionale di Parigi, e stampata da M. Mandatari, Rimatori napoletani del 
‘400 Caserta 1885. Si veda anche la raccolta di poesie contenute nel cod. Vat. lat. 
10656, di tono più popolare (ed. L. Berrà, in Giom. stor., LXXXIV, 1924, pp. 241-276). 

12S Sul progressivo aderire del De Iennaro alle forme toscane v. M. Corti, m 
■Qiom. stor., CXXX1, 1954. pp. 305-351 e il voi. cit., passim. . 

129 Da un cod. di Monaco, del principio del sec. XVI: Torraca, Studi di stona 
tetter. napoletana, Livorno 1884, p. 432. 


Il Quattrocento 


255 


Un deciso avvio all’accoglimento della norma toscana si ha, sia per 
il verso che per la prosa, con l’Arcadia di Iacopo Sannazzaro; mentre 
una prima redazione, che risale al penultimo decennio del secolo 127 , ha 
ancora un forte colorito napoletano, l’edizione definitiva, preparata 
dall’autore intorno all’anno 1500 e pubblicata dal Summonte nel 1504, è 
vicinissima al toscano letterario. Il riscontro tra le due redazioni 128 
permette di esaminare a un preciso traguardo non solo l’opera dello 
scrittore, ma in genere, le tendenze del suo tempo. Le tre componenti 
principali (forme e vocaboli dialettali più o meno dirozzati; forme e 
parole toscane, attinte quasi tutte alle letture letterarie, principalmen- 
te al Petrarca e al Boccaccio; voci latine) si presentano in ambedue le 
redazioni, in misura e in combinazioni varie 128 : ma l’eliminazione delle 
forme dialettali, nella redazione definitiva, è spinta molto innanzi, 
tanto che il Varchi (Hercolano, Venezia 1570, p. 151) potè lodare l’autore 
per aver composto la sua Arcadia senz’esser mai stato in Firenze, solo 
lagnandosi di lievi trasgressioni. 

Data la forte centralizzazione, culturale e burocratica, del regno di 
Napoli, l’attività poetica delle province periferiche è molto scarsa 130 . 

Per la prosa abbiamo già accennato all’importanza del linguaggio 
della cancelleria, e all’influenza che vi esercitò il Pontano, il quale, 
umbro di nascita, passò poco più che ventenne al servigio degli 
Aragonesi 131 . Una moda letteraria è quella delle epistole, amorose e 
d’altro genere: ne incluse alcune nei suoi Notabilia temporum il De 
Tummulillis; parecchie di argomento amoroso ne scrisse Ceccarella 
Minutolo, imitando lo stile delle opere giovanili del Boccaccio 132 . Nei 
memoriali di Diomede Carafa, nel trattato De maiestate di Giuniano 
Maio, nell’Esopo di Francesco Del Tuppo 133 , e nel Novellino di Masuccio 
Guardati, Tunica opera che abbia una certa importanza artistica 134 , 


127 Ed è principalmente rappresentata dal cod. Vat. 3202, pubblicato dallo 
Scherillo. 

128 Compiuto da G. Folena nell’eccellente monografia Crisi ecc. 

128 Particolarmente saldi sono gli elementi dialettali quando trovano l’appog- 
gio di elementi latini omologhi: p. es. medulla, giugo («giogo»), cucumero. 

130 Ricordiamo El Giardino dell’agnonese Marino Ionata, e il rozzo lamento in 
terzine del cosentino Giovanni Maurello (Migliorini-Folena, Testi Quattr., n. 91). 

131 V. le Lettere inedite di I. Pontano in nome de’ reali di Napoli, ed. Gabotto, 
Bologna 1893; quelle private sono state pubblicate dal Percopo. Per ricordar solo 
un fenomeno, nella stessa lettera a Ferdinando d’ Aragona (7 maggio 1490), il 
Pontano scrive «perché Io medico che dà la medicina presuppone etiam che, dopo 
la medicina, se faccia Io cristero»... e «resignarò il sigillo» (Altamura, Testi, pp. 
107-108). 

132 Nell’epistola ristampata in Migliorini-Folena, Testi Quattr., n. 61, e in 
Altamura Testi, pp. 89-90, si legge «se Io mio penuso core» ma «tollere el sospetto», 
andaREla, ma sapeRne ecc. 

133 Sulla lingua, v. la nota del De Lollis alla sua scelta (Firenze 1886) e A. 
Mauro, Francesco Del Tuppo e il suo Esopo, Città di Castello 1926, pp. 192-196. 

134 V. il capitolo «Stile e lingua», in G. Petrocchi, Masuccio Guardati, Firenze 
1953, pp. 126168. 


256 


Storia della lingua italiana 


permane in varia misura il colorito dialettale, ma sono molti gli 
elementi latini e quelli toscani, principalmente boccacceschi 

I testi in prosa provenienti da altre province del Regno sono 
anch’essi poco numerosi: quelli più letterari (il Libro di Sidrac salenti- 
no il Quadragesimale di fra Ruberto da Lecce, l’Esposizione del Pater 
noster di Antonio De Ferrariis, pure di Terra d’Otranto) non si scostano 
molto dal tipo ora visto; anche i rari statuti in volgare (Statuto di Maria 
d’Enghien, Statuto di Molfetta, Capitoli della Bagliva di Galatma) 

mostrano un forte ibridismo 13S . . . . ,, . 

In Sicilia, gli scritti in versi d’indole religiosa hanno vistosi caratteri 
gr amma ticali siciliani, ma sintassi e lessico sono fortemente influenzati 
da testi continentali. La Istoria di la traslacioni di Sant’Agata, m ottave, 
di autore probabilmente catanese, suona così: 

dormendu Gislibertu et repusandu 
Agatha santa virginella et pura 
li apparsi in sompnu, bella si mustrandu 
quali esti in chelu avanti a Cui ipsa adura, 
cun li capilli xolti chi parìanu 
di oru perfectu, tantu straluchìanu - 1 . 

L’andamento familiare e scherzoso spiega il forte colorito dialettale 
siciliano della commediola di Caio Ponzio Calogero (o Calono o 
Caloria), un messinese che aveva studiato a Padova: eccone gli ultimi 
versi: 

La condannemu per questa in effectu 
che amar lu debia quantu amar si po, 
e per lu cor robatu, o volgia o no, 
li daga lu cor so che staga in pegnu 137 . 

Ma anche qui l’influenza del toscano letterario è notevole (pur 
prescindendo da tratti veneti come volgia, forse dovuti al copista). Piu 
forte è nello strambotto del medesimo Ponzio: 

Per la continua guerra chi a gran torto 
sustegno, piglio tanto di rispetto 
ch’il stanco corpo a poco a poco porto 
a morti, chi con gran piacili aspetto 138 , 

come in genere nei frammenti lirici che del Quattrocento ci rimangono 
nelle citazioni di Mario D’Arezzo 138 . 


'ss Sulla ling ua degli Statuti di Maria d’Enghien, v. D'Elia, in Atti II Congr. 

stor. pugliese ecc., Bari 1954. 1 h 

138 G. Cusimano, Poesie siciliane dei secoli XJV e XV , II, Palermo 1952. 

137 V. Rossi, «Caio Caloria Ponzio e la poesia volgare letteraria di Sicilia nel 
sec. XV», in Scrìtti di crìtica letter., II, Firenze 1930, pp. 4Ì7-45L 

138 Rossi, ivi. 

134 Sorrento, Diffusione, pp. 31-35. 


Il Quattrocento 


257 


Nella Sicilia del Quattrocento si aveva ima notevole conoscenza 
della triade toscana e anche della letteratura volgare religiosa toscana 
e umbra 140 . 

La prosa letteraria è più toscaneggiante che la poesia: la Leggenda 
della beata Eustochia, composta nel 1487-90, si propone di essere in 
toscano letterario, anche se i sicilianismi non manchino 141 . Di otto 
incunaboli stampati a Messina nello scorcio del secolo, sette sono in 
prosa fortemente toscanizzata, anche se trattano di argomenti locali 
Q’ottavo è la S. Agata in versi) 142 . Il progresso della toscanizzazione è 
evidente nei protocolli notarili di Messina: i bandi, che cominciavano 
con le parole Bandu et comandamentu, a partire dal 1492 s’iniziano con 
Bando et cómandamento li3 . 

Prima di chiudere questa rapida rassegna dello stato della lingua 
nelle varie regioni, accenniamo al fatto che gli Italiani che vivevano in 
paesi stranieri, messi a contatto con persone di varia provenienza, 
tendevano a forme di coinè. Il Libro mastro del Banco Borromei a 
Londra 144 è molto più italianeggiante dei documenti milanesi coevi. 

II. La norma linguistica 

L’ampiezza di oscillazione consentita agli individui è assai larga 
durante il Quattrocento; e solo alla fine del secolo si comincia a sentire 
l’influenza coagulatrice della stampa. Dapprima la scarsa tutela 
esercitata dalla lingua letteraria, più tardi, col prevalere dell’umanesi- 
mo volgare, l’abitudine umanistica di mettere insieme a proprio modo 
la lingua, come si faceva per il latino, rendono la norma molto 
scarsamente imperativa 145 . 

Insomma, molte delle consuetudini grammaticali e lessicali anziché 
essere univoche e più o meno imperative, come in altri periodi, sono 
aperte in varie direzioni; anziché adagiarsi in schemi già fatti, chi 
scrive può liberamente ricorrere al modello del latino o al modello dei 
tre grandi toscani. Il Boiardo, come s’è visto, scrive scudo secondo l’uso 
lombardo e toscano, ovvero sento alla latina, piazza o piaccia, gaio 
oppure gaglio, e così via. 


140 Sorrento, Diffusione, pp. 42-48, M. Catalano, La leggenda della beata 
Eustochia da Messina, 2* ed., Messina-Firenze 1950, p. 41. 

141 V. l’eccellente ed. cit. del Catalano, che ha ricostruito criticamente il testo 
su due codici, uno con leggiere tracce emiliane e uno con influenza umbra. 

142 Catalano, op. cit., pp. 41-42. 

143 Catalano, op. cit., p. 39. 

144 Migliorini-Folena, Testi Quattr., n. 31. 

145 Sull’abbondanza delle varianti morfologiche verbali in Firenze, v. Nencio- 
ni, Fra grammatica e retorica, passim. 


258 Storia della lingua italiana 

O, per citare un altro esempio, gli scrittori meridionali, invece che 
attenersi all’uso indigeno dell’articolo lo in tutte le posizioni, accolgono 
più o meno largamente le forme toscane el o il. 

Verso la fine del secolo, si nota un maggiore avvio alla formazione 
di un gusto collettivo; e naturalmente contano molto le spinte di quegli 
antesignani le cui opere più largamente piacciono, come il Boiardo e il 
Sannazzaro. 

Ogni trascrizione tende a eliminare le peculiarità troppo dialettali 
del testo 149 . In proporzioni molto maggiori, ciò accade con le opere a 
stampa, perché gli editori mirano allo scopo che esse siano intese da un 
pubblico molto largo. Talvolta l’editore ha la precisa intenzione di 
rimaneggiare il testo che vuol riprodurre, e nell’eliminare gli idiotismi 
per lo più toscaneggia; altre volte lascia correre gli idiotismi dell’origi- 
nale o ne introduce di propri 147 . In certi casi, anziché correggere, il 
tipografo preferisce glossare il suo testo 148 . 

La larga libertà di cui gode ciascuno scrittore fa si che l’àmbito 
della scelta stilistica sia molto più ampio in confronto con quello della 
norma stabile, sia per la grammatica sia per il lessico. Ciò non vuol dire 
che regole e tendenze non esistano, valevoli in cerehie culturali più o 
meno ampie. 

Alcune trattazioni grammaticali e spogli lessicali possono servire di 
guida per singoli autori e per il loro ambiente-, per la Toscana si potrà 
ricorrere specialmente agli Appunti sulla lingua e al Glossario del 
Piovano Arlotto (ed. Folena, Milano-Napoli 1953), agli spogli degli 
autografi di L. B. Alberti a cura del Grayson 14 ®, agli spogli del Tanaglia 
(ed. Roncaglia, Bologna 1953), alla monografìa del Ghinassi su II 
volgare letterario nel Quattrocento e le Stanze del Poliziano, Firenze 
1957; altre buone ricerche abbiamo per l’Italia settentrionale 150 e per 
quella meridionale 151 . 


145 P. es. il verso che in uno strambotto napoletano suona «non vide che se 
chiava lo tavolo? » è trascritta dal Boiardo, benché così la rima venga a mancare, 
«non vedi ch’el se apre la sepoltura?» (Berrà, in Ciom. star. , LXXXIV, 1924, p. 252 e 
272). 

147 V., per citar solo un esempio, il diverso procedere delle edizioni milanese 
(1483) -e veneziana (1484) di Masuccio Guardati rispetto a quella napoletana del 
1476, di cui purtroppo non rimangono esemplari: v. la nota di A. Mauro 
all’edizione Laterza e quella di G. Petrocchi all’ed. Sansoni. 

148 La prima edizione a stampa di un vocabolarietto italiano-tedesco (Venezia 
1477) dava, p. es., i lemmi Luganica, Boldoni, Unto sutil-, la ristampa di Bologna 
1479 dà invece Luganica o salciza, Boldoni o cervela, Unto sutile o buttero. 

149 Lingua nostra, XVI, 1955, pp. 105-110. 

150 Del Salvioni, su vari antichi testi lombardi, in gran parte del sec. XV (in 
Ardi, glott. ital. , XII, pp. 381-384); di Bayot e Groult per la S. Caterina del 
Mombrizio, pp. 13-41 della loro edizione (Gembloux 1943); del Vitale per la 
cancelleria milanese (Varese-Milano 1953) e per Gaspare Visconti (Bologna 1952). 

151 Si vedano i citati volumi del Folena sul Sannazzaro e della Corti sul De 
Iennaro. 



Il Quattrocento 


259 




12. Grafìa 

Nei manoscritti e nelle prime stampe 132 la grafia è molto instabile, 

P w r CU 5 e peculiarità: cane o chane o, sporadicamente, 
hane , degno, degmo, dengno o dengnio, ecc. 134 . La fortissima influenza 
umanistica porta a una predominanza di grafie di tipo etimologico- 
maximo, apio, epso ecc. 135 ; esse sono particolarmente frequenti neU’Ita- 

" S ^ enn0nae e men ^ ionale . ma anche in Toscana sono molto più 
largamente usate che nel Duecento e nel Trecento. Il nesso ci + vocale 

f o 1 : e ™ a , c ° n / 1 + vo< ^J e ( ° cl ° ' otio ’ froda - gratta ecc.) come nella grafia 
latma del tempo. Ch, th, ph, y, appaiono nei vocaboli greci, e non 
sempre collocati al loro posto 1S6 . 

Resistono ancora grafìe regionali consuetudinarie: nel Nord c con 
valore di z sorda lanci, solacevole, discalci plurale di discalzo ecc.) x per 
s sonora; nell Italia meridionale cz e talvolta tz per z sorda; in Sicilia ch 
si trova ancora con valore di c palatale, x con valore di se. I nessi Ih per 
otrantino) r ^ appaiono sporadicamente nel Sud (p. es. nel Sidrac 

,. w No ?- attecc ^ irà la grafia sg che si trova qualche volta in Toscana 
Unausgiare, collesgi, Luisgi in Bernardo Accolti). 

Leon Battista Alberti vuol evitare gli equivoci che nascono dal 
doppio valore, vocalico e consonantico, del segno latino u, e propone 
quella distinzione grafica tra u e v che solo alla fine del Seicento, dopo 
molte vicende, entrerà nell’uso 137 . 

Notevoli osciflazioni presentano le geminazioni consonantiche al- 
1 interno di parola, specialmente nei composti con ad- ob- sub-, nei tipi 
abbiamo, fuggire, ecc : in Toscana la pronunzia serve di guida, e tutt’al 
piu vi può essere 1 influsso della grafia latina; ma nell’Italia settentrio- 


<rrafi« rmviare . Per maggiori notizie, al mio articolo «Note sulla 

Ung . pp Sf 2 5 ) 1 RmaSClmen ’ m Studi di nioL italiana, XIII, 1955 (e in Saggi 

Sia in posizione intervocalica ila hasa) che dopo consonante (per harità )- è 

31 >* « 

•*-*>**>. 

nell’Italia f °” da “ i °’ “ lo per “• ■”“>*“ ■««<» 

p - es in “ 

n L Alberti vi accenna in un passo de De componendo cyfris (ed Meister n 

? * aVCrla fatta ‘ aIibi ’ cum de ttteris atqu^ caeteris prtocipSs 
gramm a ticae tractaremus»; individuata la v consonantica («quod medium oui- 

“ SOne l* ) ’ 1 ' Alberti ritiene che si debba scrivere con il gambo 
ilt hasta mflexa scn bendam»). La distinzione tra u e v è fatta anche nelle 
^ e ^° t i l laure 1 nzi ^ ne ’ e questo ha indotto parecchi (tra cui il Sensi e il Trabalza) a 
idenhficare le Regole con lo scritto dell’Alberti a cui allude il De componendo 


260 


Stona della lingua italiana 


Il Quattrocento 


261 


naie, dove la pronunzia dialettale ignora, all’ingrosso, le geminate, la 
grafia è su questo punto molto barcollante. 

Anche più incerta è la rappresentazione grafica dei fenomeni dovuti 
a fonetica sintattica: i rafforzamenti del tipo a nnoi, le assimilazioni del 
tipo gram bene e illei (= in leD, i fenomeni di enclisi e proclisi. Qui la 
spinta all’uniformità promossa dalla stampa ha portato a semplificare 
energicamente. Specie per i rafforzamenti, il movente funzionale per 
cui è preferibile avere ima forma unica per ogni parola (e quindi è 
meglio scrivere a lui, di lui, con lui anziché a llui, di llui, co lluiì, veniva 
a convergere con un fattore storico: l’importanza della tipografia a 
Venezia, in un territorio che ignora le gemmazioni dovute alla fonetica 
sintattica. 

Per la rappresentazione dei fenomeni di proclisi e di enclisi, la 
grafia oscilla a lungo prima di stabilizzarsi sulle posizioni poi sem- 
pre mantenute: nei manoscritti e nelle prime stampe le voci proclitiche 
sono spesso scritte unite (ilbene, Idearne ecc.l; in qualche incunabolo 
sono scritte unite o separate secondo che c’è spazio nella riga o no. 

Manca ancora l’apostrofo, e si scrive lanima, lerrore, longegno (= io 
’ngegnoì; è venuta meno la norma per cui nel Duecento e nel Trecento 
si scriveva huomo ma iuomo 158 . 

Di solito non si adoperano ancora segni per indicare la posizione 
dell’accento nelle tronche, e tanto meno altrove. Ma già qualche 
tipografo 159 stampa e/, volontà/, mitigo/. G. Ridolfi nel copiare una lista 
di parole milanesi raccolte da Benedetto Dei aggiunge gli accenti 
(acuto all’interno, grave sull’ultima, secondo l’esempio greco: zighéra, 
pinchiemò) l<so . 

Quanto all’interpunzione, la grammatica umanistica conosceva 
l’uso di tre segni diversi ( virgula sine puncto, virgula cum puncto, 
punctus planus), talora di quattro o anche di più 161 . Nei manoscritti e 
nelle prime stampe troviamo un’interpunzione scarsa e oscillante: chi 
addirittura non adopera alcun segno; chi il solo punto; chi il punto e i 
due punti; chi il punto, la virgola e i due punti. Non rara è la sbarra 
obliqua, che equivale in sostanza a una virgola (ma può anche servire, 
come or ora s’è visto, per indicare l’accento, e, in caso di composizione 
tipografica fitta, per staccare due parole l’una dall’altra). Sporadica- 
mente si trovano anche il punto in mezzo, 41 punto in alto e la sbarra 
obliqua con il punto in basso. Solo nel secolo seguente l’interpunzione 
diverrà più ricca e più regolare. 


158 II Landino, per es., fa stampare dHecuba, e nel Tanaglia è scritto Ihuomo (e 
anche l h ore con l’ aggiunta di hi. 

159 V. p. es. l’edizione della Commedia con il commento del Landino, Firenze 
1481. 

180 Folena, in Studi di filol. it., X, 1952, p. 91. Un accento si ha anche nella 
versione toscana del rituale ebraico (1484). 

161 Roncaglia, in Lingua nostra. III, 1941, pp. 6-9. 


13. Suoni 

Negli scrittori toscani, sono ancora prevalenti i dittonghi nelle serie 
triema-, pruova, truova-, ceraiuolo-, puose,rispuose. Sembrano propaggini 
del toscano meridionale forme come venardì, iarsera, documentate 
anche a Firenze. Di contro a domane, stamane dell’uso trecentesco 
appaiono domani, stamani. Abbondano le -i- protoniche della serie 
filice, piggiore, mimoria, sicondo, tinore. 

Nei testi in versi, si avverte non di rado l’influenza della tradizione 
poetica: B. Giambullari adopera core (choreì nei versi più elevati, cuore 
(quore) in quelli di tono popolaresco. Il Boiardo nel canzoniere usa 
suave, nelle ecloghe soave, nelì’Orlando Innamorato oscilla. 

L’esito fonetico normale -aio -ari ( danaio -danari, scoiaio - scolari ì 
compare ancora non di rado, quantunque indebolito dall’analogia. 

Il fenomeno forse più interessante di questo periodo è la reazione 
popolare alla copiosissima accettazione dei latinismi, specialmente per 
_ quei gruppi che non esistevano nel sistema fonologico toscano. Resta 
sempre mal digeribile il gruppo au, che si continua a sostituire con al 
( attore , Leonardo) o a semplificare in a tarara, Agazzari) 182 ; e così pure i 
gruppi di consonante seguita da 1-. clipeato «clipeato (Gherardi, 
Paradiso degli Alberti ), compressione «complessione» (Alberto, Primo, 
exempri (in una lettera del Bisticci), frutto «flutto», pepro «peplo» (nel 
Vocabolista del PulcO, fragello, oblivione (Leonardo); così è nato 
sopperire da sopplire, supplire (Morelli, ecc.) 163 . 

La vocale prostetica davanti ai gruppi con s (e a se) si ha non 
soltanto dopo consonante (per escriptura, Palmieri, Città di Vita, III, xn, 
v. 137, pere scriptum nell’ed. Rooke; per iscienzia, Piov. Arlotto; per 
ispelonche, PulcO; ma facoltativamente anche dopo vocale (una sua 
ischiava , S. Bernardino; fresco isposo, Alberti; cento iscudi, alcuna 
isperanza, Piov. Arlotto) 164 . Anche gn può avere i- prostetica: un tale 
ignocco (Pulci, Morg., XXII, v. 42), ignuno passim. 

In Toscana, progrediscono i tipi popolari stiena per schiena e 
diaccio per ghiaccio. 

Davanti alle particelle enclitiche -lo -la ecc. la r dell’infinito e la m 
delle prime persone plurali si possono assimilare: co prilla (Bisticci), 
pensalle (Pulci; ma anche trovarlo in rima con Carlo), perdonala (Piov. 
Arlotto), trovalla (Poliziano); vogliallo (Bruni), finirella (Poliziano) 16S . 
Così anche mandàgli «mandargli», Pulci). 


162 Cfr. la rima di fausta con guasta e basta nella Città di vita del Palmieri. 

163 Per reazione, si ha invece splimere per esprìmere (M. Franco), refligerìo, 
plecipitare (Leonardo); il Pulci, definendo fleto nel Vocabolista «pianto ed il 
mormorio del mare», mostra di confondere fletus con fretus. 

181 Quanto al timbro della vocale prostetica, si noti che il Sannazzaro 
corregge esperanza in isperanza (Folena, Crisi, p. 35). 

1,5 Ma nelle Stanze non si ha mai quest'assimilazione, sentita come popolare- 
sca. 


262 


Storia della lingua italiana 


Il Quattrocento 


263 


sw 


Sempre frequenti le sincopi del tipo s’tu (Pulci), vorres’tu ? (AlbertD, 
cades’tu ? (Piov. Arlotto), vedes’tu ? (PulcD e del tipo guarii «guardati» 
(Pulci, Lorenzo Med.). 

I troncamenti degli articoli, degli aggettivi indicativi, dei qualificati- 
vi sono meno frequenti delle forme intere: uno giorno (Piov. Arlotto), 
alcuno riscaldamento, quello dono, quello bello vecchio (Alberti!, vice- 
versa sono ammissibili troncamenti come buon padri, maggior bellezze 
(Alberti). 

Abbiamo già accennato (p. 249) alla nuova possibilità, introdotta dai 
rimatori settentrionali, della tronca consonantica in pausa; in prosatori 
meridionali ne abbiamo qualche raro esempio (vanno ad arrobar. 
Carata), che va interpretato come un’estensione ipertoscana dei tron- 
camenti nella sequenza del discorso 109 , forse aiutata dall’ispanismo. 

Non ci è possibile fermarci sulle peculiarità fonetiche degli scrittori 
non toscani, le quali andrebbero studiate luogo per luogo, anzi testo 
per testo. Ci accontentiamo di indicare l’estensione dei dittonghi ie, uo 
a parole che in toscano non li avrebbero avuti: spierò in una lettera 
veneziana (Migliorini-Folena, n. 10, r. 24), infìdieli nel Carbone, crudiele 
nel Boiardo, tieco nel bolognese Malpighi 167 , duono nel Sannazzaro 168 , 
buora a Trieste 189 , ecc. 

In palese regresso, come tratto dialettale che non trova riscontri in 
toscano, è la metafonia, sia negli scrittori settentrionali che in quelli 
meridionali: ambasiaduri, ma depentori in ima lettera di Francesco da 
Carrara 170 , «armata de’ genoisi», ma «scolari bolognesi » nell’ Alienti (p. 
123 e 265 Gamb.), « amorusi sospiri» ma «religiosi» (ivi, p. 208 e 362), 
ricchezze e ricchizze (sempre al plur.) nello stesso ms. di Giuniano Maio. 
Se mai, la coincidenza di forme metafoniche con forme latine in cui si 
ha i od u presta loro una maggior resistenza (profundi nel Sannazzaro). 

Le sonore intervocaliche settentrionali cedono alle sorde toscane: in 
una lettera (1440) del padovano Antonio de Rido ai Fiorentini 171 , 
abbiamo, accanto a deliberado, zurado, cognosudo, anche deliberato e 
potuto. L’Arienti, ipertoscanizzando, parla (p. 227) di «toccare il dato» 
(dado). E così via. 

Per l’accento, merita un cenno la frequenza con cui, nell’assunzione 
di vocaboli classici, dotti ed indotti trascurano la quantità latina, 
preferendo di solito la pronunzia piana a quella sdrucciola: arteria, 
aureo, funerèo, giubillo, ostico (e persino metonymìce in rima con 
allegorice e tropìce -. Mombrizio, S. Caterina, w. 730-735); Amazzóne, 


166 Folena, Crisi, p. 39. 

167 Cfr. «dormire miego », nelle parole attribuite a un ambasciatore ferrarese 
in ima facezia del Piovano Arlotto (n. 69). 

168 Non si tratta qui soltanto di una peculiarità individuale, ma la penetrazio- 
ne toscana è scesa nel dialetto: Folena, Crisi, p. 28. 

109 J. Cavalli, Commercio e vita privata di Trieste, Trieste 1910, p. 291. 

170 Migliorini-Folena, Testi Quattr., n. 9. 

171 Pastor, Storia dei Papi, I, p. 739. 


Antiòco, Borèa, Caucaso, Demostene, Driàde, Eciiba, Eschìne, Euridice, 
Gòrgóne, Iapèto, Leonida, Origene, Palàde, Persèo, Prometèo, Proserpìna, 
Sermàti («Sarmati»), Sisifo, Sosia, Tesifóne, ecc. 

14. Forme 

Nella flessione nominale, troviamo con molta abbondanza, nella 
serie in -a, plurali in -i: vaghe piami (Palmieri), le porti (Pulci), le bianche 
areni (Luca Pulci); nella serie in -ca abbiamo molti esempi latineggianti 
in - ce : domestice, pubblice (AlbertD, catolice (Boiardo), mendice (Serafino 
Aq.). Nella serie in -co, go troviamo oscillazioni tra velare e palatale: 
sindachi, traffichi (CavalcantD, tisichi (Landino), pratichi (Poliziano), 
fongi (CammellD, Licurgi (Ficino); con i nomi in -elio è frequente il 
plurale in -egli-, frategli (Macinghi, S. Bernardino, Piov. Arlotto, PulcD, 
stomegli (Pulci), agneglH Piov. Arlotto). Nella serie in -e sono frequenti i 
plurali invariati accanto a quelli in - i -. coteste febbre (Macinghi StrozzD, 
le gente, le mente (PulcD, l'ardente fiamme (Poliziano), penne debole 
(Leonardo), ecc. Ai singolari del tipo amistà, nimistà, fanno spesso 
riscontro plurali non tronchi (amistadi, nimistadi ). 

Sono di solito maschili opinione, parete, tigre. 

Un tentativo di acclimatare i comparativi latini si trova nel Ghiberti 
( densiore , suttiliore ); superlativi di forma latina si hanno nell’ Alberti 
(difficiliimo-. Famiglia, passim; ma anche difficilissimo, p. 203 Spong.l. 

Per 1 articolo sono molto frequenti le forme el, plur. e-, un po’ meno il, 
plur. i; Io, plur. li e gli, perde terreno. La parola re prende di solito come 
articolo lo m . 

Per i pronomi, si divulgano lui e lei come soggetti, malgrado le 
resistenze puristiche suggerite dal confronto col latino: «comprendia- 
mo che lui desideri sommamente l’accordo» detterà 1434 della Signoria 
di Firenze, in Capponi, Storia, II, p. 506), «ma lui mi rispondea e dicea» 
(Alberti, Famiglia, p. 226 Spong.), «Dominus dedit, lui data l’avea» 
(Pulci, Morg. XXVII, st. 142), «lei si percuote D petto e in vista piagne» 
(Poliziano, Giostra, I, v. 113) 173 . 

Incomincia in questo secolo l’uso del pronome di terza persona 
riferito a Vostra Signoria : dapprima ella, essa, questa, quella, poi anche 
lei, che firn col diventare nel secolo seguente il pronome allocutivo più 
frequentemente usato: «pregando essa V. Ill ma S. se degna fare tal 
demostrazione verso el dicto Iacopo che lo predicto Matheo et soi 
comprendano per mio amore lei lo ha trattato bene et clementemente» 


177 Maggiori particolari in Folena, Piovano Arlotto , p. 369. Il fatto che lo re 
sia. forma preferita si può spiegare oltre che per la formula messer lo re (Folena, 
ivi), per l’influenza dell’uso meridionale cioè di quello che era il Regno per anto- 
nomasia. 

173 Un commentatore, leggendo nel Sannazzaro (Are., p. 63 Scher.): «(quel 
monile) ley per mio amore gliel puse», osserva «ella dicere debuisset» (Scherillo p 
ccvm). ’ 


264 Storia della lingua italiana 

Getterà di G. Pontano per la cancelleria aragonese, 9 luglio 1478); 
«l’opera qual habia facto... M. Augustino la riferirà pienamente a 
bocha alla S. V. R ma , et lei dipoi la potrà significare ad Nostro Signore» 
flett. Galeazzo Sforza Sanseverino, 1494) 174 . 

Nei numerali, ricordiamo la grande variabilità di due-, duo (Macin- 
ghi Strozzi, Lor. Medici), duoi iduoi moderni. Michele del Giogante), 
due (di solito davanti a fe mminil e oppure in pausa, uno anno o due, Lor. 
Med.), duo. Venti, trenta, ecc. sincopano facilmente davanti ad altri 
numeri: venzei, cinquanzei (Palmieri); si ricordi anche la facezia di 
Quazzoldi beccaio («quattro-soldi») nel Piovano Arlotto (n. 43). 

Nella morfologia verbale, al presente, l a pers. plur., non sono 
interamente scomparse le forme anteriori all’espansione di -iamo-. 
«verno (Alberto, cognoscemo (P. Arlotto), «Amor qui la vedemo» (canzo- 
ne «Monti valli» attribuita al Poliziano), «verno, conoscemo (Lor. Med., 
Altercazione, IV); metaplasmi come vedimo, corrite si trovano solo nel 
verso (Palmieri, Città di vita ; Lor. Med.). Siàno, facciano, andiàno sono 
varianti popolari. 

All’imperfetto, la desinenza in -o della prima persona è un’innova- 
zione (in confronto con l’-a trecentesca), ma a Firenze è di gran lunga 
predominante (e l’unica registrata dalle Regole laurenziane); pativa, 
sapia per la 1“ persona sono arbitrai del Palmieri. La prima persona 
plurale di essere ha eravamo e savamo (o anche savano-. Palmieri); la 2 a 
pers. eravate o savate. Negli altri verbi la 2 a pers. plurale ha anche - avi 
ecc.: voi cantavi, voi dicevi (Alberti). 

Al futuro notiamo la 1* pers. plur. del tipo daréno, che è di tipo 
popolare. Frequenti sono le alterazioni dovute a combinazioni foneti- 
che varie con il tema verbale: uccidrò (Pulci), misurrai (Palmieri), 
giosterrò (PulcD, proverrò («proverò», Pulci), troverrete (Piov. ArL), ecc. 

Al passato remoto, si ha qualche forma forte diversa da quelle poi 
prevalse ibebbi, S. Bernardino; missi. Pulci; tretti, Regole laurenziane). 
Alla prima pers. plur. debole, frequentemente è scempiata la consonan- 
te (ragionamo «ragionammo»: PulcD. Alla terza plurale forte e alla 
terza plurale debole si hanno ampie oscillazioni: andaro, andarono, 
andorono, andorno; dissero, disserono, dissono, disseno 1 ™. 

Nel congiuntivo presente della 3 a coniugazione si può avere nelle 
persone deboli (specialmente nel linguaggio più andante) la vocale - i : 
prima pers. sing. ricognoschi (PulcD, 3 a pers. sing. possi, piacci, conoschi, 
3 a pers. plur. conoschino (S. Bernardino). 

Nel cong. imperfetto, alla 3 a pers. sing. si ha lavorasse e lavorassi, 


Il Quattrocento 265 


alla 3 a plur. andassero, andasseno, andassino, andassono. Col verbo 
essere, prevale fussi. 

Nel condizionale, le forme in -ei (l a pers.), -ebbe (3 a pers.) prevalgono 
m Toscana, su quelle in -io. 176 

Alcuni participi sono diversi da quelli più tardi prevalsi (dolio 
Poliziano). I participi senza suffisso sono frequenti nell’uso popolare 
(«voi mi avete guasto »: Piov. Ari., ecc.). Quanto agli ausiliari, il riflessivo 
ancora non esige essere aversi affannato (AlbertD, s’ha sgretolato (PulcD 
coperto m ho (Lor. Med.), io mi ho allevato costui (Piov. Ari.), ecc. 

Limiteremo a pochissime le osservazioni sulla morfologia dell’italia- 
no delle varie province. 

Nell Italia mediana e meridionale abbiamo notevoli residui della 5 a 
decimazione latina (fermecze «fermezza» a Roma, faze «faccia»). 

Nell italiano settentrionale il ( eli è normale davanti a s impura [il 
scudo, Boiardo, il sdegno, Tebaldeo). Nell’italiano meridionale, abbia- 
mo già accennato alla rapida penetrazione di il lei) a spese di io 177 . 

Tra i pronomi, qualche forma tonica di colorito dialettale resiste 
tenacemente: troviamo mi non soltanto in poeti padani: «Misera mi che 
ho sedeci anni» nel lamento di una fanciulla ferrarese del Quattrocento 
(Fatini, Le Rime dell’Ariosto, p. 23); «O fa l’altri morire o mi campare» 
(Boiardo, Ori. Inn., II, v, st. 23); ma anche «lassa far a mi» in ima 
barzelletta, forse di Serafino Aquilano, musicata da Josquin des Prés 
(Menghim, Serafino, pp. 36-38) e nel coro delle Baccanti alla fine 
dell Orfeo del Poliziano, nella redazione originale mantovana: 

Chi vuol bever, chi vuol bevere, 
vegna a bever, vegna qui. 

Voi imbottate come pevere. 

I’ vo’ bever ancor mi. 

Gli è del vino ancor per ti. 

Lassa bever prima a me. 

Ognun segua, Bacco, te. 

. Sappiamo che il Savonarola, quando venne a Firenze, «diceva mi e 
ii, di che gli altri frati ridevano» 178 . 

Nei verbi, notiamo per il presente indicativo la vivacità del tipo -«fi 
-eti -iti ( pensati , haveti, risponditi, finiti ) negli scrittori lombardi e 
emiliani, in prosa e in poesia 179 . 

All’imperfetto la forma di l a pers. in -a, se in Toscana è in assoluto 


174 Pastor, Storia dei Papi, Supplemento, Roma 1931, p. 499. Le varie fasi 
quattrocentesche e cinquecentesche sono esaminate in un mio articolo «Primordi 
del lei», in Lingua nostra, VII, 1946 (= Saggi ling., pp. 187-196). 

175 L’eccellente saggio del Nencioni, Fra grammatica e retorica, dedica le pp. 
50-109 a illustrare come i vari scrittori si comportino nella scelta, e mostra che la 
libertà non è capriccio. 


ocniamni, m ir. arar., V, 1929, p. 25. Il Poliziano preferisce saria in verso 
if» ^ pr ? sa * II jr Gray ? on .ha osservato che nel manoscritto V della Famiglia 
99 fl 99 Qi ertl alcune forme in - ia sono state corrette in ‘ebbe {Rinascimento, 1952 pp. 

77 Ma il Sannazzaro approfitta volentieri dell’uso promiscuo, e raramente 
corregge m senso toscano (Folena, Crisi, p. 69). 

Cambi, Storia di Firenze, ap. Capponi, Storia della rep. di Firenze, II, p. 194 . 
Le edizioni di Serafino oscillano (son. CIX) tra vivete e viviti. 



1 - Storia della lingua italiana 

presso, persiste a Nord e a Sud (io ragionava. Boiardo; me maravi- 
ava, Arienti; era, Masuccio). 

Al passato remoto, la l a pers. plur. lomb,-ven.-emihana termina m 
■simo, -essimo, -issimo (oppure -assemo ecc.): « venissemo a questa 
delusione» Qett. G. F. della Torre a Lorenzo de’ Medici, 1476); 
nfirmasemo (Venezia 1436, in Monticolo, Capitolari delle arti. III, 
26); «A cavai rimontassimo in gran fretta» (Bello, Mambriano, VII, 
57). 

Una notevole caratteristica del napoletano illustre è la presenza di 
finiti, participi presenti e gerundi coniugati al plurale, cioè con 
ggiunta della desinenza -no per la 3 a persona 180 : «pensa de quisto 
igele mun do li beni non esserono se non ombra e fummo» (Del Tuppo, 
opo); «cose spectanteno ad uso del bene commune» (G. Maio, De 
aiestatéì-, famosi, stamosi, fermamosi per «farsi, starsi, fermarsi» 
annazzaro. Arcadia, egl. Vili) 181 . 

». Costrutti 

Nei fenomeni sintattici di questo periodo avremo spesso occasione 
vedere tracce di influenze del latino. 

È ben vivo il costrutto appositivo con di appoggiato al semplice 
rticolo: «il traditor di Gano» (Pulci, Morg., II, st. 43, IV, st. 50), «1 ottimo 
ttadino di Giovanni» (Cavalcanti, Istorie, 1. Ili, c. 6). 

Nel complemento di materia, prevale ormai il costrutto non artico- 
lo (io palla d’oro), mentre nei secoli precedenti si preferiva dare al 
implemento l’articolo determinativo quando il sostantivo reggente 
veva pur esso l’articolo determinativo ila palla dell oro) 182 . 

Il superlativo può essere rafforzato da intensivi: «la più- ottima 
arte de’ mortali» (Palmieri, Vita civile, Proemio); «più ottimo tempo» 
Cavalcanti, Istorie, 1. XIV, c. 35), «(costumi) molto lodatissimi » (Alberti, 
am., p. 123 Spong.), «(luoghi) tanto alla famiglia utilissimi » (ivi, p. 119), 
assai dolcissime parole» (Masuccio, p. 225 Mauro), ecc. 

XI possessivo suo serve spesso per una ripresa di tipo popolare-. 
Della mia soprawesta il suo colore» (Pulci, Morg., II, st. 52) 183 . 

Frequentissimo è il semplice quale col valore di «che» relativo: 
Ganimede - qual di cipresso ha il biondo capo avvinto» (Poliziano, 

nostra ). ; 

Una delle caratteristiche più salienti della smtassi quattrocentesca 


180 Molto più raramente si ha -mo e -vo per la l a e la 2*. 

181 II Varchi, nell' Hercolano (Venezia 1570, p. 151) esprìmeva la sua meraviglia 
ier l’insolita terminazione: «non sò vedere in che modo egli cotale affisso si 
omponesse; e più per discrezione intendo quello, che significar voglia, che per 
egola». Sul fenomeno, v. Savj-Lopez, in Zeitschr. rom. Phil., XXIV, 1900, pp. 501- 
04. 

182 Migliorini, Saggi ling., pp. 156-174. 

Getto, Studio sul Morgante, cit., p. 138. 



Il Quattrocento 


267 


è l’ellissi di che, sia come pronome relativo non accessorio, sia come 
congiunzione dichiarativa. Probabilmente è una moda che si dirama 
dalle cancellerie 184 , ma si trova sia nella prosa che nel xerso, sia in 
Toscana che fuori: «aveva imo povero giovane istava con lui» (Piov. 
Ari., motto 141, r. 4); «per quel vedevo e udivo» (Lorenzo Med., Beoni, II); 
«voglio questa mattina facciate» (Piov. Ari., motto 2, r. 26), «Par 
di letizia ognun di loro osanni» (Palmieri, Città di vita, III, xxxii, 
v. 79), «(quel disio) - so vi consuma, mentre vi favello» (Lorenzo Med., 
Beoni, V). 

I costrutti con l’infinito si estendono largamente, per influenza 
latina, principalmente in scritture letterarie (Alberti, Lorenzo de’ 
Medici), ma anche in testi senza alcuna pretesa. 

Anche sul modo della reggenza abbiamo alcune influenze singole di 
costrutti latini: p. es. «vietono li ragi del sole entrare nel delectoso 
boschetto» (Sann., Are., I, 34 ecc.) 185 . 

Troviamo il congiuntivo per influenza latina in vari tipi di proposi- 
zioni dipendenti: «La natura dello ingegno nostro è tanto universale... 
che... in un medesimo tempo alle volte varie operazioni eserciti ...» 
(Palmieri, Vita civile ); «vedesi... che l’amicitia sia utilissima a’ poveri» 
(Alberti, Famiglia, p. 145 Spong.); «E disse: Chiarion, dimmi chi sia » 
(Pulci, Morg., XX, st. 82); «Colui che par di tanti pensier cinto - diss’io al 
duca mio, dimmi chi sio» (Lor. Med., Beoni, VI); «a me pare che sien 
quattro, delle quali ima o al più due, sieno proprie e vere lodi della 
lingua, l’altre piuttosto dipendano...* (Lor. Med., Comento). 

Nell’ Alberti troviamo anche l’imperfetto congiuntivo per il condizio- 
nale, pure per influsso latino: «Quale austero uomo non fuggisse questi 
sollazzi?» (Famiglia, p. 127 Spong.). 

Indubbiamente alla stessa spinta è dovuta la soppressione della 
doppia negazione: «che in tale casa porti seco nè scandolo nè 
vergogna» (Alberti, Famiglia, p. 50); «(i filosofi) della materia lasciano 
adrieto nulla» (ivi, p. 120). 

Per quel che concerne l’ordine delle parole, un po’ dappertutto vien 
meno l’obbligo della posizione enclitica delle particelle atone Qegge 
Tobler-Mussafìa): «Vi priego che con attenzione mi ascoltiate...» (Landi- 
no, Orazione Petr.\ •■Ci fu qui nuove...» Qett. di Piero de’ Medici, 2 genn. 
1467); •Si conveniva che nel venire gli andasse incontro...» (Vespasiano 
da Bisticci, «Don. Acciaiuoli»); •Te dico, cusina, quello ch’i’ ho veduto» 
( Passione di Revello, I, v. 5978); •Vi comandamo che...» Getterà di re 
Alfonso, 1454, ap. Migl.-Folena, Testi Quattr., n. 56); M’è parato Qettera 
del Poliziano, p. 63 Del Lungo), ecc. La tradizione, tuttavia, mantiene 
ancora discretamente la norma nei testi più letterari 188 . 

Sporadico ma sintomatico effetto del latino sull’ordine delle parole 


lM Folena, Crisi, p. 75. 

185 Folena, Crisi, p. 90. 

180 Cfr. le osservazioni di Folena, Crisi, pp. 73-74, Piov. Arlotto, p, 374. 


268 Storia della lingua italiana 

è la posizione che l’Alberti dà a adunque, anche, collocandoli come 
autem, quoque : «Le prime adunque parti del dipingere...» (Pittura, p. 59 
Papinil; «per le antiche istorie e per ricordanze de’ nostri vecchi anche » 
( Famiglia , Proemio). 

16 . Consistenza del lessico 

Abbiamo già accennato (p. 257) come la norma sia poco imperativa 
durante il Quattrocento: secondo la cultura dei singoli e la loro 
provenienza, l’impasto lessicale può essere molto diverso. I Toscani 
seguono senza scrupolo il loro uso vivo, ricorrono largamente al latino, 
e anche, quasi attingendo al patrimonio familiare, ai tre grandi 
trecentisti: com’è ovvio, il loro lessico è più o meno dottrinale, più o 
ipeno popolare secondo l’argomento di cui trattano e secondo il loro 
temperamento. 

Per gli scrittori di altre regioni, le cose si presentano diversamente: 
essi si sforzano di evitare sempre più i vocaboli del vernacolo natio, 
ricorrendo ora al latino ora ai grandi scrittori toscani. Ma se il lessico 
latino offre ima larga gamma di vocaboli, il lessico dei tre grandi 
trecentisti è lontano dal fornire tutta la serie di espressioni di cui si 
sentirebbe il bisogno. (Non si dimentichi inoltre che, per questo scopo, 
manca ancora qualsiasi specie di repertorio). 

Le spiegazioni dei lemmi latini nei glossari del Barzizza o del 
Cantalicio sono fortemente dialettali, in quanto mirano solo a far 
capire le parole latine a scolari che non sanno altro che il loro dialetto. 

I campi per cui è più diffìcile l’intercomprensione sono quelli pratici: 
per_ indicare, ad esempio, gli oggetti domestici o le piante non 
adoperate praticamente, non si hanno altri nomi che quelli locali o 
regionali. Un po’ di più circolano i nomi dei pesci, per esigenze del 
mercato; ma quelle che il Sacchetti e il Burchiello chiamano acciughe 
sono anchiovi per il Boiardo 167 . 

Istituzioni che nascono o si diffondono in quell’età, nuovi oggetti, 
nuovi modi di pensare, fanno si che si divulghino per tutta la penisola i 
rispettivi nomi. 

II catasto, istituzione veneziana, già accolta nel Trecento in altre 
città, è introdotto a Firenze nel 1427, e se ne accetta anche il nome. 

Posta, attraverso i significati di «luogo assegnato a un cavallo», 
«luogo dove si cambiano i cavalli», sta passando a quello di «trasporto 
di corrispondenza». 

Si istituiscono (anzitutto a Perugia nel 1462, in seguito alla predica- 
zione di Barnaba da Temi), i monti di pietà ( monte era comunissimo già 
da tempo nel senso di «cumulo di debiti fruttiferi»: Rezasco, s. v.). 

I cerretani, persone di Cerreto presso Spoleto, che questuavano per 


m E anciiìuhe per Benedetto Dei (fiorentino, ma vissuto a lungo fuori della 
città natia). 


Il Quattrocento 269 


gli ospedali di sant’Antonio, danno il nome a ogni specie di girovaghi 
importuni 188 . 

Nella terminologia politica, il termine di repubblica, accanto al 
significato generico di «stato», prende quello più ristretto che lo 
contrappone a regno o principato'**. Si sta sviluppando, si vede, una 
precisa terminologia diplomatica: autorità prende valore concreto; 
potenzila assume anche il valore di «stato»; si parla di credenzial 
lettera (Giovi Cavalcanti). Nella vita militare, il termine di colonnello 
per indicare all’incirca quello che oggi chiamiamo «reggimento», 
appare a Milano nel 1472 190 . Appaiono gli stradiotti, milizie greche, e i 
g(u)aluppi, addetti alle salmerie, e si cominciano a usare le partigiane. 
Di questo secolo è pure il vocabolo facchino. 

Il termine di Accademia nei primi decenni del secolo indica ancora 
propriamente, presso i dotti, quel boschetto nei dintorni di Atene in cui 
si riunivano Platone e i suoi discepoli: «quello santissimo seggio, unico 
quasi nido di tutti i philosofi, dove si nutrirono e crebbero tutte le 
buone e-sanctissime arti o discipline a bene e onestamente vivere, 
luogo chiamato Accademia » (Alberti, Fam., p. 126 Spong.). Per allusione 
a Cicerone Gl quale aveva chiamato Academia il suo Tusculano, per 
ricordo del giardino di Platone) il Bracciolini, già in una lettera del 21 
ottobre 1427, chiamava la sua villa di Terranova Academia Valdarhi- 
na 101 . Il trasferimento al significato moderno della parola, per cui non 
pensiamo a un ameno luogo suburbano di riunioni ma a un gruppo di 
persone riunito per fini di studio, comincia con la riunione di dotti 
giovani intorno all’Argiropulo: in questo senso, troviamo la prima volta 
usato il nome di «academia» in una lettera di Donato Acciaioli (1455) 192 . 
Più famosa quella che si radunava intorno al Ficino a Careggi: c’è 
ancora l’idea' di luogo («academiola Phoebo sacrata», «academiola 
Phoebea» è la villa stessa), ma l’idea predominante è ormai quella delle 
persone (Alamanno Donati è chiamato in una lettera del Ficino del 29 
ottobre 1488 «Martem Academiae», ecc.) 193 . Solo nel Cinquecento si 
svolgerà in pieno il significato moderno. 


■«a Migliorini, in Rom. Phil., VII, 1953, pp. 60-64 (= Saggi ling., pp. 272-277). 

169 Maggini, in Ling. nostra, Vili, 1947, pp. 1-3, De Mattei, ivi, IX, 1948, pp. 13-18. 

180 P. Pieri, in Arch. star. prov. nap., 1933, p. 149. 

101 «His et nonnullis signis (“statue”) quae procuro, ornare volo academiam 
meam valdaminam, quo in loco quiescere animus est»: Epist., ed. Tonelli, I, 
Firenze 1832, p. 214. 

192 A. Della Torre, Storia dell’Accademia Platonica, cit., p. 364. 

183 Nei versi del Morgante, c. XXV (uno dei canti aggiunti dal Pulci al poema 
primitivo), il vocabolo ha ancora significato prevalentemente, ma non solo, 
topografico: 

La mia academia un tempo, o mia ginnasio, 
è stato volentier ne’ miei boschetti... 

E così fuggo mille urban dispetti; 
sì ch’io non tomo a’ vostri arìopaghi, 
gente pur sempre di mal dicer vaghi. 

Il primo verso richiama il v. 18 del framm. petrarchesco del Trionfo della morte 


270 


Storia della lingua italiana 


Il Quattrocento 


271 


La moda introduce la calzabraca, le frappe, la giornea e chissà 
quanti altri termini 164 . 

Si co min cia a coltivare il carciofo, si importano il caviale, lo 
schienale, la morona, il giulebbo. 

Un’ampia illustrazione meriterebbero i termini di belle arti foggiati 
o tecniflcati o assunti dalle lingue classiche in questo periodo. Valga 
come esempio il vocabolo di medaglia, che prima indicava una moneta, 
e prende il significato moderno con il nascere della nuova arte della 
medaglistica; o quello di torso, metaforicamente trasferito dalle piante 
alle statue mutile e ai corpi umani. La terminologia architettonica è 
stata quasi interamente rinnovata da L. B. Alberti 165 . Egli accoglie 
senza riserve numerosi vocaboli antichi: «Il capitello... partirassi per 
terzo: l’una parte sera il plinto; l’altra lo echino con l’onnuio, il quale 
annulo sarà la sesta parte; l’altro terzo serà lo hipotrachelio. Lo 
astragalo...» {Alberti, I cinque ordini ). Ma altri avrà maggiori scrupoli: 
«E1 capitello è capo della colonna. Vetruvio il chiama epistilio le qui 
sbaglia, perché Vitruvio chiama così l’architrave]. Questi vocaboli 
antichi lui li usa: io non ve li voglio dire, perché sono scabrosi e non 
s’usano oggi dì...» (Filarete, Architettura, c. 56 a del cod. Magliab.l. 

Accanto a lume e ombra, bianco e nero compare la coppia asindetica 
chiaro oscuro, e «il termine acquista nell’atmosfera leonardesca parti- 
colare intensità e valore semantico nettamente coloristico e tonale» 196 . 

I nuovi termini talora attecchirono, talora furono respinti: non 
ebbero fortuna, ad esempio, due termini geometrici adoperati dall’Al- 
berti per sostituire rispettivamente circonferenza e diametro-, ghirlanda 
e linea centrica {Pittura, p. 17 Papini). 

Le invenzioni tecniche portano alla formazione di terminologie 
nuove: ricordiamo i numerosi vocaboli riferiti alla stampa: stampare, 
imprimere, informare, libri da stampo, libri in forma, componitura, 
compositore, ecc. 197 . 

Le scienze della natura, per l’esempio degli antichi e per l’intuito di 
qualche pioniere, assumono figura meglio definita, e danno luogo a 
nuove terminologie. Abbiamo già accennato all’importanza della ver- 
sione pliniana del Landino-, attraverso di essa penetrarono in italiano 


«La mia Academia un tempo e il mio Parnaso» (e l'accostamento fra accademia e 
ginnasio echeggia, forse indirettamente, Cicerone, Acad. poster., I, 4: «in Acade- 
mia, quod est alterum gymnasium»). Il passo del Pulci probabilmente intendeva 
rispondere alle critiche dei Ficiniani (Della Torre, op. cit., p. 288). La definizione 
del Vocabolista («iscuola o setta di savi») insiste sulle persone, ma è ancora 
piuttosto vaga. 

164 A Ferrara troviamo un primo adattamento del turco yelek sotto la forma di 
ghelèr, gheler o, gilereto (Bertoni, in Arch. Rom., IV, pp. U9-120). 

196 Folena, in Lingua nostra, XVIII, 1957, pp. 6-10. 

196 Folena, in Lingua nostra, XII, 1951, p. 61. 

197 Una ricerca speciale sulla terminologia della stampa sarebbe desiderabile 
e, data la ricchezza di materiali messi insieme dai bibliografi, non difficile. 


non solo alcuni nomi di singoli animali e piante, ma anche termini 
corrispondenti a nozioni scientifiche, p. es. insetto 138 . 

Le osservazioni ed esperienze di Leonardo si concretano anche in 
vocaboli tecnici: si pensi all’uso che egli fa di solo, falda, grado, nel 
senso in cui più tardi i geologi useranno strato, 1 ™ o di ghiara ricongela- 
ta, congelazione nel senso di «conglomerato, conglomerazione» 200 . 
Mentre scienze e tecniche vengono formando le loro terminologie, i 
vari gruppi sociali accolgono in varia misura i termini relativi. Una 
viva curiosità per le terminologie più varie mostra il Pulci nel 
Morgante -. vocaboli militari, marinareschi, musicali, farmaceutici, 
ecc. 201 . 

La curiosità del Pulci si manifesta anche per i termini rari, 
dialettali, esotici; e non è soltanto sua, ma di tutta una cerchia di amici, 
fra cui va ricordato particolarmente Benedetto Dei. Grazie a tale 
curiosità penetrano in questo periodo dal Levante tafferuglio 202 , ciriffo 
(«sceriffo, discendente di Maometto»), bizzeffe 283 . Si imparano a cono- 
scere in Levante quelle imposte graticolate a cui si attribuisce (per il 
sentimento che si presume abbia dato loro origine) il nome di gelosie 
(«una porta di rame alta tre passi, lavorata a gelosie »: Barbaro, ap. 
Ramusio, Navig. e viaggi, II, p. 105); se ne introduce l’uso in Italia 
(Vitale, Cancelleria, Gloss.), e si estende l’uso della parola, applicandola 
a certe maniche tagliate (Carbone, Facezie, 1470 circa) e al metodo di 
moltiplicazione «per gelosia» o «per graticola» (Pacioli, 1494). 

Pure attraverso i viaggiatori giungevano notizie e nomi dai mari 
settentrionali: per es. dello stoccafisso 2M . 

Qualche parola gergale arricchisce la lingua scherzosa-, parlare in 
gramuffa «parlare in grammatica, latineggiando». 

Tra i mutamenti semantici, alcuni fra i più notevoli sono determina- 
ti dal ravvivamento del significato antico in vocaboli di origine latina 
(virtù non più, o non soltanto, nel senso cristiano, ma nel senso di 
«valore, eroismo») o dall’inserimento nella nuova concezione del 


196 Meno fortunato fu il termine di mollicchi, riferito nella versione del 
Landino a quelli che si chiamarono più comunemente animali molli, o anche solo 
molli, finché apparve e trionfò il termine di molluschi (Óuvier, 1795). 

100 Rodolico, in Lingua nostra, II, 1940, p. 129. 

200 Cod. Leicester 8 b, ap. Fumagalli, Leonardo omo sanza lettere, Firenze 1938, 

p. 102. 

201 Getto, Studio sul Morgante, cit., pp. 146-149; cfr. anche Ageno, in Lingua 
nostra, XIV, 1953, pp. 69-76. 

202 Migliorini, Saggi ling., pp. 300-303. 

263 Una lettera del Pulci al Dei del 1481 comincia: «al mio caro Benedetto Dei, 
salamale c» (p. 162 Bongi). 

261 Dal viaggio di Pietro Querini alle Lofoten, 1432 Ustocfisi seccano al vento et 
al sole senza sale»: Messedaglia, in Atti Ist. Vera., CXI, 1952-53, pp. 1-27), dalle 
notizie che Raimondo da Soncino inviava da Londra (Migliorini-Folena, Testi 
Quattr., n. 119). 


272 


Storia della lingua italiana 


mondo degli umanisti (« piacere non vuole più dire peccato, ma senti- 
mento, condizione e molla dell’esistenza») 205 . 

Questa corrispondenza alle idee del tempo spiega la voga di cui 
godono alcune parole 200 : per es. unico, che il Petrarca applicava alla 
Vergine, e nel petrarchismo fiorito diventa un complimento («Unico 
Bernardin, l’opra è sincera», son. di Serafino Aquilano a un pittore; 
l’Unico Aretino, epiteto onorario di Bernardo Accolto. Divino già sta 
estendendosi nell’uso, e la sua fortunata carriera culminerà nel ’500. 
Pure nel ’400 è cominciata la grande fortuna di pellegrino nel senso di 
«elegante» 207 . 

Nelle metafore nate in questo periodo ora agiscono spinte perpetue 
dello spirito umano, ora spinte congruenti con lo spirito del tempo, ora 
lampi d’ingegni singoli: perla riferito a donna 208 , cicala «donna chiac- 
chierona e maldicente» 208 , «a/pie overo aringe » riferito a cavalli ma- 
gri 210 , ecc. 

Delle copiosissime locuzioni documentate per la prima volta nel ’400 
{averi,' assillo, far la civetta, far castelli in aria, ecc.) chi può accertare 
che esse siano nate allora, e non invece nate molto prima, e messe per 
iscritto solo in quel secolo? 

Negli scrittori toscani, la componente fondamentale del lessico è il 
loro uso spontaneo. Molti vocaboli senesi si hanno, per esempio, in san 
Bernardino o nel Sennini. A vocaboli di altre regioni i toscani attingono 
qualche volta, per cose di provenienza forestiera 211 o per vezzo 
stilistico 212 . Molto più difficile a precisare è quanto rimane di lessico 
«spontaneo», tradizionale, dialettale, negli scrittori di altre regioni. 
Anche quelli che più si sforzano, per rivolgersi a un più ampio uditorio, 
di ricorrere a parole latine o toscane, conservano, specialmente per le 
cose domestiche, vocaboli dialettali o regionali. 

Basti una rapidissima scorsa attraverso alcuni testi più o meno 
letterari. Troviamo nel Comazzano caravaggia «lavandaia», gradizza 
«grata», ecc.; in Gaspare Visconti capigliara «parrucca», pristinaro, 
ecc.; in Fiore dei Liberi brena, bucolero, ingualivo-, nel Carbone caleffare 
«ingannare», scorano «seggiola», ecc.; nel Boiardo gallone «fianco», 
moglio «bagnato», stanco «sinistro», streptplone «bastardo, mascalzo- 


205 Spongano, jn Giom. stor., CXXX 1953 p. 297. 

208 Vi sono poi le parole care a singoli scrittori (p. es. verde, che dà il tono a 
tante scene boiardesche, matto, strano, ghiottone, cari al Pulci del Morganté): non 
mancano le ricerche stilistiche di questo genere. 

207 Weise, in Romanistisches Jahrb., Ili, 1950, pp. 381-403. 

208 Flamini, La lirica toscana, cit., p. 411. 

200 Nella ballata del Poliziano «Donne mìe». 

210 Lettera di Bernardo Bembo, 1478 (Pintor, in Studi... Rajna, p. 800). 

211 P. es. «Secchi miglior sono e’ fichi di Marca - e nominati lì fichi pinzuti » 
(Tanaglia, I, w. 952-953). 

212 Per es.: «E non dina la festa mademane - crai e poserai e poscrilla e 
posquacchera - come spesso alla vigna le Romane» (Pulci, Morg., XXVII, st. 55): 
su questa espressione, cfr. specialmente Spitzer, Italica, XXI, 1944, pp. 154-169. 


Il Quattrocento 


273 



ne^ zambello «lite», e tante altre parole dialettali; persino per indicare 

liriche e GLXVm a ^ qual{ ? le tennine locale: troviamo nelle 

SSbra sSTS de^Sèl^H nel .^ nso * ‘ sfogo ’ conforto» (che 

L’AHentf h«^ Ì k del Verb ° arsurèr, lat. *re-ex-aurare). 

i, iTlr ’ P ,‘ es - barbano «zio», calcedro «recipiente di rame» ferletta 
«bacchetta», lambrecchia «trappola». ux rame», renetta 

Nella Franceschina dell’Oddi troviamo cerqua «quercia» Danrella. 

SESfeS nei c “ tari * B ">~ - 

In Masuccio leggiamo àstrico «terrazzo», iopparello «giubba» làza- 

àl^no T 0gUe * ca l Z °làio» PP ecc. Nefsa^azzSo, 

«mLiTT» gema «leccio», lùgigìiola «acetosella», mantarro 

«di nascosto» brandnUe Le§ Senda della, beata Eustochia, ammuchuni 
t®,™*' .ondane «cero», brugula «tumore», catoio «latrina» e 
molte altre voci (illustrate nel glossario del Catalano) 

™J3, Ual< ? e VOlta lo scrivente , che sa che in due regioni diverse la 
nozione è espressa da parole differenti, agevola il lettore con una 
coppia di smommi: Leonardo, parlando di concrezioni pietrose trovate 
nelle vene di persone vecchie, dice che «eran grosse come castali di 

fogfi r B, e a°10 l b)^. tartUfÌ ’ OVVer & l ° PPa ° maro ^ na di ferro» (De anat., 

Balese ’ an . < r h f se , non sempre individuabile nei particolari è l’in- 

solikf Ji le f SS1CO letterario dagli scrittori del Trecento. Di 

f° b ?° tratta solo dei tre grandi; ma il cenacolo mediceo tien conto 

stl { novistl - L’influenza dantesca è riconoscibile per l’appa- 

m?no d?n?emn 1 ^!^ì 0 ? 0 R r T e: ? ltre al solito io * 21s - cagnazzo, bolgia o 
no)- lurrhf b . ob ° lce ' scappellarsi, punga, sorpriso (Polizia- 

no), lurchi, rubesto (Boiardo), ecc. Per la minore appariscenza del 

lessico petrarchesco, è più diffìcile riconoscere influenze di questo tino 

S^r;i? Store ’i P ? 1Ì f an0: rìtentire ’ Boiard o), ma è modeUata SS 
SSSS^ tutta quanta la terminologia amorosa (l’Amore che colpisce o 

prescindere dagli aspettf stilSSi^ SU VOCabolÌ smgoU non può mai 

Q a £ 0 rmaz i 0n - e ^ nuovi voc aboU, si ricorre ai consueti procedi- 

ffimchienS) ai SStóara V S 1? f dSr °2° da aggettivi e Participi: furibonda re 
UlurchieUo) scusare (Pulci), sportare «aggettare» (G. RuceUai), ecc. 

Tra i prefissi, non è ancora morto caia («se mi ci cogli, non mi ci 


Folena, Crisi, pp. 169-173. 

258 n.) Cfr ’ 16 “PP 1 ® taut °l°giche nell’edizione bolognese del Vocabulista (vedi p. 

*• * - - 



274 


Storia della lingua italiana 


catacogli »: S. Bernardino, pred. XLII). Dis- piace all’ Alberti, che foggia, 

P Tr^f^i^s^^ono fertili -aie (boccale, Lorenzo Med., conale, 
Ghiberti nazionale, 1° esempio 1488, nel Rezasco, vampate, Bern. 
Giambulari; si ricordi anche il bugiale di Poggio, «mendacionim v^uti 
officina»), -ardo ( rossardo , S. Bernardino), -ecchio (grossecchio, Nencia), 
-esco (burchiellesco, Bellincioni), -ile (yerginile. Palmieri), -eggiare (setteg- 
giare «dividersi in più sètte», Bruni), ecc. . . .. . 

Non è difficile notare le inclinazioni di autori singoli verso certi tipi 
di formazione: Giovanni Cavalcanti ha numerosissimesempi^ aggef 
tivi in -esco (cerbiesco, cosimesco, volpmesco, ecc.); il Palmienn^a Città 
di vita, in cui abbondano le citazioni dantesche, toma alle fomiaziom 
parasintetiche del tipo induare ecc. (imbenarsi , mcmnore, mltóarel, 
f Alberti tenta formazioni di stampo latino («Piladee e Lette amicitie 
Fam p 142 Spong.); il Pulci si lascia spesso andare al suo estro 
capriccioso e chiama dragata un «colpo dato con un drago» d * ™ 
Binante (XIX. st 38)- in un’altra scena scherzosa, inventa il nome di un 
SSpe di Baldacco, «XV, st. 294) a < co*-- 

via. L’uso più o meno vario, più o meno ricco dei suffissi alterativi 
dipende dal gusto dei singoli scrittori: i sostantivi e aggettivi in -ozzo 
sono, com’è noto, frequentissimi in san Bernardino; il Pulci si serve 
volentieri di diminutivi, accrescitivi, peggiorativi: «un altra 
trovò strana», «Orlando è co rbacchion di campanile», «Volle menargli 
d’un suo bastonacelo», ecc. La cerchia medicea saette particolmmen- 
te di forme diminutive: oltre al largo e febee uso che ne fa il Poliziano , 

ricordiamo Lorenzo 217 e il Franco 21 ®. 

Meriterebbe una speciale indagine (certo difficile) la scomparsa 
dall’uso parlato toscano di parole vive nei secoli Precedenti. L avale 
della Nencia sembra mostrare che la paroìa era ndotta ^ uso del 
contado. Invece l’uso che il Sannazzaro fa di otta non può avere 
analogo valore (egli trovava la parola in Dante e Petrarca! Notiamo 
anche qualche ravvivamento conscio di parole poetiche disusate, p. 
il desiamo del Poliziano (Stanze, I, 37). 


zi® .vi sembrano così freschi e immediati, eppure la spinta e 1 *PP°S8do gli 
viene tatara dagli antichi, dai Greci, da Catullo» (Falena, m Approdo, apnle- 

gÌU f^°Sia 5 néu’uso poetico («con munuscoli e lettruzze», canz. 92, 

diminutivo umanistico con uno popolaresco), sia neUa riflessione critica ( Comen 

t0 ' lettera del 1485 in cui Matteo Franco descrive igrfovinetti 

S£ 0 conw umTsperctooflieto e^ttS^^ 

Medici nel 1485, ed. I. Del Lungo, Bologna 1868). 


Il Quattrocento 


275 


17. Latinismi 

Abbiamo visto a più riprese come il punto di vista umanistico ren- 
desse il volgare succubo del latino. Per i singoli autori e i singoli testi 
possiamo notare un’influenza maggiore o minore-, anzi nell’àmbito di un 
testo medesimo si possono osservare differenze secondo le diverse in- 
tenzioni stilistiche dell’autore: il Proemio e il quarto libro della Famiglia 
dell’ Alberti sono più latineggianti del resto. In certi testi l’ordito gram- 
maticale volgare regge un lessico quasi tutto latino: si legga ad esempio 
un passo dell’epistola di ser Domenico da Prato a Giovanni di Salvi: 
«molti ferocissimi apri et onagri et linci dintorno alle foltissime selve 
veggio, et poi prospicio li nuovi bubi et milvi et vespertilli et noctoraci, 
che per l’aere volano. Quici non filomene in dilettevoli gabbie sento 
cantare, ma gracidare assaissime monedole s’ode» 218 . 

Una spinta che porta ad usare parecchi latinismi è la moda 
letteraria dei versi sdruccioli, favorita da certi generi, come l’egloga 220 , 
ma non limitata a quelli (si ricordino le Pistole di Luca Pulci; o certi 
schemi metrici con sdrucciole di Serafino Aquilano). 

La curiosità erudita spinge parecchi, che si rendono conto di avere 
ancora molto da imparare, a vocabulizare 221 , cioè a tener nota di 
vocaboli rari, per lo più di origine latina o greca, che si possano 
all’occorrenza adoperare scrivendo in italiano: l’ha fatto il Pulci, nel 
suo Vocabolista 222 , e Leonardo ne ha piluccato i risultati e ha fatto 
anche lui la sua raccolta 223 . 


219 Paradiso degli Alberti, ed. Wesselofski, I, n, Bologna 1867, p. 362. 

220 Già il Sansovino osservava, a proposito della opportunità di accogliere vo- 
caboli latini che il verso sdrucciolo offriva al Sannazzaro: «gli diede anco animo il 
verso sdrucciolo, che s’usava molto in quei tempi, nel quale egli si poteva accomo- 
dare di molte voci latine, e formarne anco delle nuove» (cit. da Folena, Crisi, p. 55). 

221 La parola è registrata due volte da Leonardo nel cod. Trivulziano 
CMarinoni, Gli appunti grammaticali e lessicali di Leonardo, cit., I, p. 31; II, 
Repertorio, s. v.). 

222 II Vocabolista ci permette in qualche modo di valutare la conoscenza che 

aveva dei latinismi una persona di cultura mezzana e di curiosità grande. 
Tuttavia dobbiamo anche tener conto della possibilità d’una intenzione pedagogi- 
ca: se no, sarebbe troppo strano veder registrate parole che, già adoperate 
dall’uno o dall’altro dei tre grandi trecentisti, potremmo presumere ben conosciu- 
te-, adulto, aura, biga, borea, cloaca, cuna, egregio, fertile, frenesia, inesorabile, 
insidie, mostro, opportuno, pristino, tortura, ecc. La definizione è in qualche caso 
molto istruttiva, perché ci fa vedere con quale significato la parola sia dapprima 
penetrata nel lessico: pausa «il punto, quando si scrive tra nome e nome», teatro 
«luogo tondo dove si facevano giuochi» (anche il Boccaccio adoperava la parola 
riferendosi a teatri di tipo romano). Per qualche parola il Pulci si confessa incerto 
t simbosio «dove molti fanno una cosa a parte, come e’ credo»), è molto 
approssimativo o addirittura sbaglia: clima «una parte delle tre, o Asia o Affrica 
o Europa», esbeston «una pietra, che acesa non si può ispegnere», squalido «non 
equale», ulco «ispezie di ciccioni» (evidentemente credeva che si trattasse di un 
ulcus, *ulci anziché di ulcus, ulcerisi. — 

223 Sul modo della compilazione e sulle intenzioni di Leonardo si è discusso a 
lungo: a risultati persuasivi giunge l’opera citata del Marinoni. 


'6 


Storia della lingua italiana 


Il Quattrocento 


277 


T" 


Riguardo alla forma in cui i latinismi sono accolti in italiano, abbia- 
ci già visto che la grafìa oscilla molto. La tendenza generale è quella di 
condurre alla scrittura latina le parole di cui si riconosce l’origine: 
oto è più frequente di atto, e simili Ma mentre un toscano che usa dire 
ffrica, piggiore, cicala non scrive altrimenti, nelle altre regioni si scrive 
sesso Africa, peggiore e magari cicada. Malgrado l’appoggio unanime 
si Trecentisti, Cicilia e cicilìano sono venuti al paragone con Sicilia e 
ciliano : la Macinghi Strozzi e il Poliziano preferiscono la forma con la 
, mentre Lorenzo scrive con la s- [Corinto, v. 150; Amori Ven., w. 21, 106 
unioni) 224 . 

Di solito le desinenze dei latinismi sono adattate alle esigenze morfo- 
igiche italiane: si ha qualche raro nominativo in -o della terza (ingrati- 
ido. Pulci; Rectitudo, Del Tuppo) oltre a quelli già tradizionali (Apollo , 
upido, ecc.). Per qualche nome antico meno noto si mantiene talvolta 
i desinenza consonantica del nominativo ( Venus , Satumus, Burchiello; 
ocrates, Demostenes, ma anche Socrate, nel Libro de la vita de filosofi, 
180; Ercules, Del Tuppo-, Ceres, Poliziano). Lorenzo de’ Medici usa nume 
ppure numine. Nelle parole di tradizione liturgica la consonante finale 
pesso riceve una vocale d’appoggio-, chirieleisonne (Burchiello), «Per la 
irtù del Tetragrammatonne » (Pulci, Morg., XXV, st. 242). 

Si piegano solo a qualche lieve adottamento fonetico ( ipso facto, isso 
itto o anche esso fatto, Alessandra Strozzi) gli avverbi e le congiunzioni 
itine. Questa serie è penetrata, come s’è visto (p. 257), attraverso l’uso 
ancelleresco-. assiduo, autem, breviter, demum, etiam, ex tempore, imme- 
iate, immo, improviso, in futurum, ipso facto, maxime, nuper, praeser- 
\m, praeterea, prò viribus, quidem, quodammodo, quominus, quoniam, 
aro, solum, sponte, taliter qualiter, tanto minus, tantum, vero, ecc. 

Chi adopera latinismi talvolta, per riguardo al lettore, dà una spiega- 
ione o aggiunge un sinonimo: «certo flore che li antiqui chiamavano 
[marantho, però che non secca mai: da li nostri il veggio chiamare con 
iiversi nomi: il suo colore è d’un bello carme sino a 225 ; *testudinato owe- 
o in volta», «salotti ovvero triclinii s 228 . 

Le parole antiche vengono assunte in italiano più o meno col 
ignifìcato che avevano - in quanto il sistema lessicale italiano sia in 
.rado di assorbirle. Qualche volta non si è preso il significato che 
tvevano, ma quello che si credeva che avessero. Un esempio tipico è 
luello del verbo tradurre, che deve il significato attuale a Leonardo 
ìruni 227 : tradurre si diffonde durante il Quattrocento con quel significa- 

324 II Boiardo, che aveva scritto con c- nel II libro (XXVII, st. 1 e 40), scrive con s- 
lel III (V, st. 22). 

225 Nella relazione (1482) sulla farsa II triumpho della fama (Torraca, Studi st. 
etter. napol., cit., p. 420). 

226 Francesco di Giorgio Martini, Architettura, ed Promis (cit. da Olschki, 
Tesch. wiss. hit., I, p. 135). 

227 Sabbadini, Rend. Ist. Lomb., s. 2°, XLIX, 1916, pp. 221-224. Il Sabbadini pensa 
:he il Bruni abbia attinto quel significato a un passo di Gellio (I, 28, 1), dove 
ignifica veramente «trasportato» e non «tradotto». 


to, eliminando gli altri che prima aveva 228 , e sostituisce traslatore, 
tralatare, che anteriormente era il vocabolo più adoperato nel signifi- 
cato di «tradurre» 229 . 

Si ha anche qualche tentativo di imitazione del latino per mezzo di 
calchi: l’Alberti nella Pittura ricalca l’aggettivo latino simus dando 
all’italiano scimmio lo stesso significato-, «altri aranno le narici scimmie 
et arrovesciate aperte» (p. 88 Papini); Lorenzo adopera selva (Selve 
d’amore ) nel significato in cui il Poliziano aveva usato silvae, sylvae. 

Per dare ima sia piu pallida idea dell’enorme contributo che il 
latineggiare del ’400 ha dato al lessico italiano, ecco un elenco (solo 
esemplificativo) di latinismi che risalgono, a quel che sembra, a quel 
secolo: aggetto, amaranto, amatorio, ameno, amminicolo ( adminicolo -. 
Alberti, Fam.), anelante, applaudire, arboreo, arbusto, armigero, bisonte, 
bonificazione, cataratta (di fiume), certame, cèrulo, clava, concinnità, 
connubio, edicola (term. eccl.), emolumento, epidemia ( epidimia : Alberti, 
Luca Pulci), esangue, esilarare (exh-), esonerare (in senso concreto, 
eufemistico: «exonerare il ventre»: Arienti), facezia, fanatico, fisetere 
( fisisteri : Boiardo), frontispizio (term. arch.), ilare, incile, insetto (v. p. 297), 
lenocinlo, lepido, madido, marittimo, missiva, mutilo, obliterare, onoma- 
topea ( pia-. Landino), opulento, ottemperare, pagina, paraninfo, plettro, 
prodigioso, quintessenza (dal lat. alchimico), reboare, satellite («guardia 
del corpo»), sodalità, specioso, stria, tragelafo, tragicommedia, trofeo, 
veemente, vitreo, ecc. 

Le voci dell’elenco che precede hanno vinto la loro battaglia, e sono 
riuscite a inserirsi nell’uso dotto o addirittura nell’uso quotidiano. Ma 
innumerevoli altre, fra le troppe che nel Quattrocento si adoperarono, 
sono state meno fortunate. Ecco un altro gruppetto di esempi di questa 
ultima serie: aborrendo (Masuccio, Nov., p. 232 M.), àlere («quella virtù 
che t’ha prodotto ed aie», Lor. M., son. LXXII), alienigena Qett. 1497, in 
Migl. - Folena, Testi Quattr., n. 119), alimonia (Comazzano, Prov., I), 
amitto («veste» in gen., Tanaglia, I, v. 157), ammissura («accoppiamen- 
to» di animali, Tanaglia, passim), animante (Alberti, Fam., p. 89, 125 
Spong.), arbuscolo (Sann.), armo («spalla», Tanaglia, II, v. 136), arvale 
(Intenz. fav. Gualterio), aspicere (Arienti, Porr., p. 181 Gambi, assentato- 
re («adulatore», Alberti, Fam., passim), assentazione (Collenuccio, lett. 
1491), àtavo (Boiardo, egl. II), attitudine (ap-, «opportunità*.- Masuccio, 


228 Per es. «avevano traducta l’età sua nell’arml» (Alberti, Fam. p. 185 Spong.); 
«mercantie... tradocte da que’di casa nostra sin dalle streme provìncie» (Alberti, 
ivi, p. 200). 

228 Trafilature ha numerosi esempi trecenteschi; e ancora nel sec. XV treletato 
(Cola de Iennaro, 1479, ap. Migliorini-Folena, Testi Quatte., n. 93); « Istralatata fu la 
bella historia - nel mille quattrocento ottanta trene» (Francesco Cieco Fiorentino 
Il Persiano). Anche il francese, lo spagnolo, il portoghese accolgono dall’italiano il 
tipo rinascimentale «tradurre», mentre l’inglese si attiene al tipo medievale to 
translate. 


278 


Storia della lingua italiana 


ir _ ini. Pnntn.no in Migl.-Folena, Testi Quattr. , n. 99)> aure 

^orecchie»: G. Cavalcanti), bàccare (Avochi, JSSSjj*- 

bàculo (Alberti, Pulci, Franco, Ghiberti, Sannazzaro), ^innare (Cor 
nazzano, Nov.), calamo (Sann.1, calcalo (^assolino»: AlfcjF&m., 

Snone ) càpolo (Sann.), càsside (Refrigerio, Rim. boi. Quattr., p. 109), 
castramelnUato (P. Zambolini), cèntrico (Alberti, Pittura, passim), certare 
(Sannazzaro) cistula (Sann.), elude (Iacopo Brecciolini), cogmtore 
Sh Xletone p. 310 Gamb.), collacrimare (Sann.), coltrare 
(Alberti Fam , Proemio), commorare (Oddi, Francescana, I, p. 123), 
notare, «tare, -azioni (.combattere. .Alberti 

f Albpr+.i Pittura p 30 Pap.), conscendere (Alberti, Famiglia, p. 13bpong. , 
SSoddi Francescana, II, p. 348) corticc SanmX crotalo 
(Sann) cunicolo (Sann.), deihìiscere (Sann.), desidia (Alberti, ^am., 
passim), detestando (Masuccio, Nov. p. 246 M.), diffignere ^ 

Certami coronario], èbulo (Sann.). eccieo ««sgP"»- 
(Tanaglia, passim), elato CLor. M., I, p. _ . A ntfT n 

(Alberti Landino), elongarsi (Lod. il Moro, m Migl.-Fol , Testi Jj- 

m Servato (Alberti, Fam.. p. 54 Sp.), epuar. (.uguaghare. R ftoselb, 

• piqtyìipì T.irira n 405) èauore (Serafino, Egl., 11, 278), esizio iperu. 
Pulci) esorare (Gherardi, Paradiso Alb., passim), esii/ero («come 
Sto al sole estifero»: Boiardo, egl. VII), estruso (Tanaglia, III, v .726 , 
estuante (Sann.), esuvie (exuvie-. Alberti, Fam., 12 Sp ), evagmare J*sguai 

nare»: Alienti, Porr., p. 68 G.), exprobrare (CoU^ 
ciò Nov p. 246 M.), fenerare (Bem. Machiavelli, Ricordi, p . _ 116), Ettore 
U scultore»: Ghiberti, I), fluvio (Sann., Serafino), fulgetro ( («folgore»: «h 
SicTvulcan le sue fulgetra»: Lor. M., Selve), galliamo (Sann.), 

gen rmez?oT la^fa^^on “i 

^“‘ri^lr’.oTra Sa, o"o c^e’neUo scendere a 

strati nonolari la forma o il significato talvolta si alterino (io Papa 
Mund^mappàmondo, Giovai da Uzzano, in Pagnim, La Damma. 
IV, p. 281). 


18. Forestierismi 

Un certo numero di vocaboli forestieri entra nel lessico per ì 
freauenti contatti con gli altri paesi dell’Europa e con il Levante. 

1 più numerosi sono i vocaboli francesi. Citiamo alcuni termini 
militari come franco arciere, riferito dal pulci con forte a^^cro 1 ^ 1 ® 
tpmni di Carlo Magno 230 , o fortiere (relazione dell ambasciatore fiorenti 
no l?IS Aicuni sono fatti conoscere dalla spedizione di 

Carlo Vili: «polvereri (così li chiamano loro) cmquanta» Qettera del 


«o L’ordinanza di Montil-lès-Tours Ù448) chiamava frane l’arciere che ciascu- 
na parrocchia doveva fornire, perché esente dalla taille. 


Il Quattrocento 


279 



Boiardo, 26 agosto 1494), «te gentedarme regie» Qettera del card. F. 
Sanseverino, 19 die. 1494). Non c’è bisogno di ricordare che quella 
spedizione importò in Italia quello che fu detto il. mal francese. 

Vengono in questo secolo nomi di oggetti (pattini. Pulci), di passa- 
tempi vari (farsa. Luca Pulci; scangè, da escourgée. Piovano Arlotto), 
designazioni di persone ( ceraldo «ciarlatano», da charalt-, mignotta ), 
termini di mestiere (mazzoneria , Antonio Manetti), e anche alcuni 
termini generici come dibatto. 

I poemi cavallereschi francesi non erano dimenticati (si sa con 
quale fervore fossero letti alla corte estense): e i francesismi abbonda- 
no infatti nei poemi cavallereschi italiani: far carnaggio, franco combat- 
tante, pitetto, ecc. 

Le strette relazioni con la Savoia e con la Francia rendono ragione 
della forte influenza francese in Piemonte: la Passione di Revello, che 
secondo le intenzioni dell’autore è scritta in italiano, ha numerosissimi 
francesismi: contrea, fassone, regnarne (-o), ecc.; sintomatica è la presen- 
za della congiunzione car «poiché». 

Gli iberismi sono soprattutto frequenti nel Napoletano e in Sicilia, 
per influenza degli Aragonesi ( verdatero , Giun. Maio), ma qualcuno è 
già diffuso in tutta Italia (nel Boiardo, per es., si ha algalia «zibetto», 
giannetta «lancia», giannetta «cavallo», nel Pulci marrano, ecc.). 

I pochi germaniSmi si riferiscono a contatti militari: i lanzi già 
fanno sentire il loro goden dacché («buon giorno»). Può essere venuto 
per via militare anche l’aggettivo di colore fàlago «morello» (Pulci, 
Morgante, XV, st. 105). 

Insignificanti sono gli anglicismi: per es. gli aldrimani sono citati 
per color locale dall’Arienti (Porr., XXII). 

— Dal Levante s’importano profumi e dolci (belgiuì, bongiuì, Piov. 
Arlotto, Lorenzo Med.; giulebbo), vi s’imparano a conoscere fogge di 
vesti (albemuccio, bemuccio ; ghelèr, p. 296), e usi religiosi e civili 
( moschea , in luogo del più antico meschita-, ciriffo-, falquiero alterazione 
di faqir, Oddi; tafferuglio «festa chiassosa», poi «mischia» 231 ). Il tartaro 
urdù è adattato sotto la forma lordò «campo militare senza recinti» 132 . 
Questi imprestiti sono dovuti agli stretti rapporti delle città marinare 
col Levante; ma ci rivelano anche la viva curiosità che si aveva per le 
terre lontane (cfr. p. 271): curiosità che ebbe non piccola parte nella 
scoperta del nuovo continente. 


221 Migliorini, Atti Acc. Tose., XVII, 1952 (- Saggi ling., pp. 300-303). 
*“ Zaccaria, Raccolta, p. 18. 



CAPITOLO Vili 

IL CINQUECENTO 


1. Limiti 

Cadono poco prima dell’inizio del secolo le grandi date simbolica- 
mente prese a indicare la chiusura del Medioevo e l’inizio dell’età 
moderna: 1492, 1494. Più difficile è segnare un limite non del tutto 
convenzionale tra l’ultima generazione del Cinquecento e la prima del 
Seicento, essendo fortissime le congruenze tra loro. Un confine molto 
più evidente si potrebbe porre poco dopo la metà del secolo, al 1559, 
data del trattato di Cateau-Cambrésis, o al 1563, data della chiusura 
del concilio di Trento: tanto forte è la diversità sia sullo scacchiere 
politico che nell’atmosfera culturale tra la prima parte del secolo e la 
seconda. 

Date fondamentali, per ciò che riguarda la storia della lingua, sono 
il 1501, data della pubblicazione del Petrarca aldino, che il Bembo curò 
con particolare riguardo all’ortografìa, il 1525, in cui uscirono le Prose 
della volgar lingua, dello stesso Bembo, il 1582, data tradizionale della 
fondazione della Crusca (o il 1583, armo in cui il Salviati le diede nuovo 
impulso e indirizzo), il 1612, data della prima edizione del Vocabolario 
degli Accademici. 

2. Vicende politiche 

La Francia e la Spagna, le due grandi potenze che hanno appena 
raggiunto l’unità statale, e lTmpero, col nuovo impulso conferitogli 
dalla congiunzione con la potenza spagnola in seguito alla quadruplice 
eredità di Carlo V, conducono le loro guerre di predominio principal- 
mente in Italia, dopo che la calata di Carlo Vili ha rivelato che alla 
superiorità culturale italiana non fanno riscontro né forza militare né 
compattezza morale. I principi italiani sono presi nell’ingranaggio di 
queste potenze tanto più grandi di loro, e anche quelli che gridano 
«fuori i barbari» e si proclamano «difensori d’Italia» non possono far 
altro, per combattere gli stranieri, che appoggiarsi ad altri stranieri. 
Dopo alterne vicende, la Francia è superata dalla Spagna, e già la pace 
di Cambrai-(1529) e il congresso di Bologna (1529-30) sanzionano la 
sostanziale vittoria spagnola; dopo alcuni altri sussulti, la pace di 
Cateau-Cambrésis (1559) conferma, anzi rafforza questo predominio 


282 


Storia della lingua italiana 


Il Cinquecento 


283 


spagnolo; la Francia porterà ormai maggiore interesse verso il Reno 
che verso le Alpi e l’Italia. 

Sporadici tentativi e velleità di resistenza s minuis cono di ben poco 
il complessivo adagiamento nella «pace spagnola». Milano, soggetta ai 
viceré, ha perduto così ogni importanza politica. Invece in Piemonte 
Emanuele Filiberto riesce ad allontanare gli stranieri, e opera un 
energico riassetto, che trasforma lo stato feudale in stato assoluto. 
Genova, rimasta repubblica oligarchica per opera di Andrea Doria, ha 
per allora ricuperato la Corsica. Venezia è l’unico stato d’Italia che 
possa svolgere con prudenza ima politica antispagnola; ma la sua 
potenza sta lentamente diminuendo, per la pressione turca e per lo 
sviamento dei commerci, prodotto dalla scoperta dell’America. 

I Medici, più volte cacciati e più volte tornati a Firenze, ne spengono 
gli spiriti repubblicani; anche l’indipendenza senese è soppressa-, Co- 
simo, nominato nel 1569 granduca, riorganizza lo stato con salda mano. 
Il porto di Livorno acquista notevole importanza sotto Ferdinando I. 

Lo Stato della Chiesa, che nella prima metà del secolo ha visto 
spesso in lizza con gli altri principi d’Italia papi guerrieri e papi 
nepotisti Ci Borgia, i Medici, i Farnese) nella seconda metà del secolo si 
riorganizza saldamente (Sisto V); al riacquisto di Perugia e di Bologna 
fa séguito quello di Ferrara. Le conseguenze della riorganizzazione 
religiosa dovuta ai Papi della Riforma cattolica, da Paolo III a Sisto V, 
si fanno sentire prima e più che altrove nello Stato della Chiesa. 

Nei due vicereami di Napoli e di Sicilia gli interessi della Spagna 
prevalgono di gran lunga su quelli delle popolazioni, e se vi è 
resistenza, è più per difesa di privilegi di singoli ceti che per il bene 
comune. Ma insomma, gli scambi col resto d’Italia permangono vivi; 
invece la Sardegna, direttamente soggetta alla Spagna, ha scarsi 
contatti con la Penisola. 

Gli Ebrei, che erano già stati sfrattati dalla Sicilia, nel 1539 vengono 
allontanati dal regno di Napoli; a Venezia nel 1516, a Roma nel 1555, 
più tardi in altre città vengono obbligati a concentrarsi nei ghetti; ma a 
Livorno e in alcuni stati dell’Italia settentrionale sono protetti dai 
prìncipi. 

Dopo il periodo degli sconvolgimenti, gli stati che hanno ricuperato 
una sia pur relativa indipendenza si vanno riorganizzando, con forte 
tendenza all’accentramento nelle mani dei rispettivi sovrani la buro- 
crazia già cresce di numero e d’importanza. 

L’arte della guerra ha subito forti mutamenti per l’importanza 
assunta dalle armi da fuoco; la fanteria prevale sulla cavalleria; alcuni 
stati ormai accettano il principio su cui aveva tanto insistito il 
Machiavelli; l’arrolamento dei sudditi anziché le truppe mercenarie. 

3. Vita sociale e culturale 

Se le vicende politiche del secolo impedirono che l’Italia conseguis- 
se, in un modo o nell’altro, quell’unità politica a cui altre grandi nazioni 



già erano arrivate, il sentimento di una civiltà comune (linguistica, 
letteraria, artistica) è diventato persuasione generale; la quale è 
confermata, anziché scossa, dalle numerose polemiche. Se si discute 
quale debba essere il canone della lingua, già si sottintende che si 
debba usare una lingua unica come espressione di un’unica cultura 
nazionale. 

È vero che i protagonisti di queste dispute, come in genere quelli 
che in questo secolo tengono la penna in mano, appartengono alle 
classi culturalmente più elevate. Della vita, delle opinioni, del parlare 
della plebe appena traspare qua e là qualche scarsa notizia: anche i 
lamenti e le parole dei contadini o dei venturieri che sentiamo nelle 
commedie di Ruzzante non sono voci autentiche di contadini o di 
venturieri, ma stilizzazioni ad opera di uno scrittore colto. 

La circolazione di persone è molto intensa, per i più vari motivi: la 
milizia, le mutazioni politiche che spingono agli esilii (ricordiamo, fra i 
tanti fuorusciti fiorentini, gli Strozzi, il Nardi, il Giannotti, Bartolomeo 
Cavalcanti, l’Alamanni), i traffici, ecc. 1 . 

— Anche la Riforma spinse parecchi a emigrare, ma fuori d’Italia: 
specialmente numerosi furono gli esuli lucchesi. 

L’Italia ebbe a subire per effetto della Riforma e della Controrifor- 
ma minori sconvolgimenti materiali che altri paesi; forti invece furono 
le conseguenze nell’orientamento della vita pubblica e privata. Le 
definizioni dottrinali e le prescrizioni disciplinari del concilio di Trento 
(1545- 63) sono applicate con rigore e con zelo particolare nello Stato 
della Chiesa e nei territori spagnoli. In parecchi i nuovi orientamenti 
portano a un sincero fervore religioso: testimonianze se ne possono 
vedere nel sorgere, e nel fiorire, dopo la Riforma protestante, di nuovi 
ordini religiosi (teatini, cappuccini, barnabiti, gesuiti, somaschi, carme- 
litani, fratelli della dottrina cristiana, oratoriani) e negli inizi della 
predicazione missionaria fuori d’Europa. Molti altri invece si acconten- 
tano di lasciarsi andare alla corrente, con un inerte conformismo o con 
l’ipocrisia dell’«intus ut libet, foris ut moris». 

È dovuta al concilio di Trento l’istituzione dei registri parrocchiali 
(di battesimi, cresime, matrimoni, morti) che contribuì indubbiamente 
alla stabilizzazione dei cognomi. Il concilio regolò anche la lettura 
della Bibbia, sostanzialmente riserbandola solo a quelli che sapessero 
il latino. L’istituzione dell7ndex librorum prohibitorum portò alle 
edizioni espurgate; inoltre gli autori cominciarono a evitare parole e 
frasi poco ortodosse (o che potessero sembrar tali). 

Molto attiva è la vita di società. Il Castiglione nel suo Cortegiano ci 
dà una vivida immagine di quel che erano le corti nel primo quarto del 
secolo come centro di colta conversazione. Oltre che nelle corti 


' Per ricordar solo un esempio cospicuo, Torquato Tasso, nato a Sorrento di 
padre bergamasco e di madre napoletana oriunda pistoiese, visse in gioventù a 
Salerno, a Roma, a Urbino, a Venezia, a Padova, a Bologna, prima di trovare un 
appoggio alla corte ferrarese. 


284 


Storia della lingua italiana 


principesche, nelle case nobili e presso le «cortigiane oneste» si discute 
di problemi d’amore e di onore, o si fanno giochi di società 1 2 , si canta e 
si danza. 

Dei più vari argomenti si disserta nelle Accademie, sorte in 
moltissime città, e diventate luoghi di scambi culturali, quasi sempre in 
volgare. 

Nelle Università predomina la cultura aristotelico-scolastica, in 
latino. Numerosi sono gli stranieri che vengono da varie nazioni a 
studiare nelle università della Penisola, e che in quest’occasione 
imparano più o meno bene l’italiano. Principalmente dagli insegnamen- 
ti del Robortello all’università di Padova escono le regole letterarie 
pseudoaristoteliche, così conformi alle tendenze di quell’età. 

Prìncipi e repubbliche per il disbrigo della loro corrispondenza e per 
le loro faccende amministrative hanno bisogno di persone che sanno 
maneggiar bene la penna, e infatti parecchi letterati insigni hanno 
speso molti anni della loro vita in questo modo: l’Ariosto, il Guicciardi- 
ni, il Guidiccioni con funzioni di governo; il Machiavelli, il Bembo, il 
Bemi, il Tolomei, Bernardo Tasso, il Caro, il Muzio, il Contile e molti 
altri come segretari. 

Altra occupazione pratica che assorbe l’attività di parecchi letterati 
è l’editoria, attiva in parecchie città e specialmente a Venezia: in quella 
città furono stampati nel primo terzo del secolo forse la metà di tutti i 
libri editi in Italia, e anche dopo essa mantenne il primo posto. Ora si 
tratta di cooperazione saltuaria come quella data dal Bembo al 
Manuzio, ora di occupazione duratura: il Doni, il Dolce, il Domenichi, il 
Ruscelli, il Sansovino e parecchi altri furono per anni revisori e 
compilatori professionali. 

Cominciano a circolare manoscritti i manifesti satirici (detti a Roma 
pasquinate ) e i pubblici avvisi; lettere ed opuscoli sui fatti del giorno già 
precorrono il giornalismo moderno (ricordiamo i nomi dell’Aretino, del 
Doni, del Giovio, del Muziol. 

Mentre le polemiche politiche e quelle religiose soggiacciono, come 
è ovvio, a forti limitazioni da parte delle autorità, queste non vedevano 
affatto di malocchio le polemiche su argomenti meno scottanti, lettera- 
ri e linguistici. 

Le lettere e le arti, che nei p rimi decenni del secolo s’ispirano a un 
individualismo gioioso, che aspira a un mondo di perfezione ideale 
(Ariosto, Castiglione, Raffaello), più tardi si muovono in un’atmosfera 
dominata da severi canoni intellettuali e morali, più grave, più fastosa, 
più cupa, che tuttavia non impedisce, anzi contribuisce a far nascere 
una esuberanza fantastica (prime manifestazioni barocche nella lette- 
ratura e nelle arti figurative; nascita del melodramma). Con la sola 

1 Quali ce li descrivono I. Ringhieri ( Cento giuochi liberali et d'ingegno, 
Bologna 1551) e Girolamo e Scipione Bargagli (G. B., Dialogo de ' giuochi che nelle 

veglie sanesi si usano di fare, Siena 1571; S. B., Trattenimenti, Venezia 1587). 


Il Cinquecento 


285 


pretesa di divertire il popolo, la commedia dell’arte (cioè dei comici di 
mestiere) schematizza i suoi personaggi in maschere. 


4. Latino e volgare 

Dopo la prima fioritura duecentesca e trecentesca, dopo la levata di 
scucii degh umanisti che erano riusciti per breve tempo a ridurre entro 
ben modesti limiti 1 uso del volgare, l’italiano riesce nel Cinquecento a 
conquistare una posizione incrollabile, ed a superare il pregiudizio che 
lo metteva al di sotto del latino. 

Benché, com’è ovvio, non sia possibile separare nettamente la storia 
del progressivo espandersi dell’italiano dalle polemiche che accompa- 
gnarono questa espansione, cercheremo anzitutto di dare un’idea dei 

progressi del volgare sul latino, per poi dare un cenno sulle polemiche 
relative. — 

La stragrande maggioranza di quel che si scrive e si stampa nella 
seconda metà del Quattrocento è in latino. Nel Cinquecento l’uso del 
volgare si estende molto in tutti i campi, pur senza ancora uguagliare 
la mole di quel che si scrive e si stampa in latino. La cultura si fa più 
vasta e piu profonda, e si scrive e si stampa molto più che nell’età 
precedente: perciò se in certo senso è vero che l’espansione del volgare 
ha luogo a spese del latino, bisogna ricordare che la mole degli scritti 
sia in volgare sia in latino, è enormemente più .vasta. 

Non c’è bisogno di ricordare che il latino era stato profondamente 
mutato dal movimento umanistico. Mentre tutte le opere scritte in 
prosa latma nel Duecento e nel Trecento presentavano una gamma 
relativamente uniforme, di tipo scolastico, l’Umanesimo ha portato 
man mano a un enorme differenza fra un tipo letterario, elegante, che 
per la prosa si modella con assoluta prevalenza su Cicerone, per la 
poesia con predilezione su Virgilio, e un tipo pratico, considerato dai 
letterati assai barbaro, che persiste negli scrittori di medicina e di 
diritto, e negli usi amministrativi e giudiziari. 

La vittoria del ciceronianismo bembiano sul libero e geniale ecletti- 
smo che sullo scorcio del Quattrocento aveva avuto come insigni 
rappresentanti il Poliziano e il Pontano, rende il latino molto rigido e lo 
scosta recisamente dal volgare, senza più permettere quell’adegua- 
mento, conscio o inconscio, alla lingua viva, e quella continua creazio- 
ne di neologismi che avevano permesso al latino di sopravvivere come 
lingua culturale durante tutto il Medioevo. Così il latino letterario, 
purificato e imbalsamato, è veramente ridotto una lingua morta E in 
suo confronto, il volgare arriverà più facilmente ad imporsi. 

Altra via il latino prenderà fuori d’Italia, con il vivace eclettismo di 
un Erasmo e di un Mureto. 

Quanto agli usi pratici del latino, l’influenza esercitata su di essi dal 
purismo umanistico è lenta e scarsa: vi sono, sì, scienziati e giuristi che 


286 


Storia della lingua italiana 


entro certi limiti si accostano al modo di scrivere degli umanisti, ma 
ima enorme quantità di testi ne risente ben poco 3 . 

L’insegnamento 4 si fa in latino, salvo pochissime eccezioni: qualche 
scuola pratica per futuri commercianti, e quelle prime classi in cui 
s’impartiva l’insegnamento del latino a fanciulli che ancora non lo 
conoscevano 5 . L’insegnamento universitario era tutto quanto in latino; 
né ebbe effetto la proposta fatta nel 1518 dal rettore dei giuristi 
dell’università di Padova che le lezioni pomeridiane (cioè le meno 
importanti) dei professori di diritto fossero in italiano 8 . 

Il Gelli cita come notevole esempio quello di Francesco Verino che 
nello Studio «leggendo filosofia e veggendo talvolta venire a udirlo il 
capitano Pepe, il quale non intendeva la lingua latina, sùbito comincia- 
va a leggere in vulgare» e «poco innanzi che egli si morisse, per 
dimostrare la inestimabile bontà sua, leggendo publicamente ne lo 
Studio Fiorentino il duodecimo libro de la divina Filosofia d’ Aristotile, 
volse esporlo in vulgare, acciocché ogni qualità d’uomo lo potesse 
intendere» 7 . 

Di un insegnamento della lingua e della letteratura italiana sarebbe 
stato addirittura assurdo parlare al principio del secolo. Il Trissino 
attesta: «hoggidi, quasi a niuno se insegna Italiano, ma a tutti se 
insegna Latino, e poi lo Italiano se impara da sé» 6 . E il Varchi precisa: 
«mi ricordo io quando era giovanetto, che il primo, e più severo 
comandamento, che facevano generalmente i Padri a’ Figliuoli, e i 
maestri a’ discepoli era, che eglino nè per bene nè per male non 
leggessono come volgare (per dirlo barbaramente, come loro) e Mae- 
stro Guasparri Mariscotti da Marradi, che fu nella gramatica mio 
precettore, huomo di duri, e rozzi, ma di santissimi, e buoni costumi, 
havendo una volta inteso in non so che modo, che Schiatta di Bernardo 
Bagnesi, et io leggevamo il Petrarca di nascosto, ce ne diede una buona 
grida, e poco mancò, che non ci cacciasse dalla squola» 9 . Solo nel 1589, 
veniva istituita nell’Università di Siena la cattedra di «lettore di 
toscana favella», a cui fu nominato Diomede Borghesi. 

In altre università, parecchi studenti stranieri prendevano lezioni di 
lingua, specialmente da maestri toscani. 

Se le Università erano rocche del latino, invece per lo più le 
Accademie erano centri di diffusione del volgare. Si lagna verso il 1537 


3 II disdegno che fin dal Cinquecento si è nutrito verso queste scritture 
pratiche ha avuto per conseguenza che nessuno si sia curato di studiarle dal 
punto di vista linguistico; né ancora si è posto rimedio a questa lacuna. 

4 Manca purtroppo un’opera complessiva analoga a quella del Manacorda 
per il Medioevo. 

5 Questa è la sola eccezione all’uso del parlare latino, il quale è prescritto 
dalla Ratio studiorum (Napoli 1598) per tutte le scuole tenute dai Gesuiti. 

6 I. Facciolati, Fasti Gymnasii Patavini, Padova 1752, III, p. 3. 

7 Capricci del bottaio, p. 194 Gotti. ~ 

8 Dubbii grammaticali, Vicenza 1529, c. 3 a. 

8 tìercolano, Venezia 1570, p. 186. 


Il Cinquecento 


287 


il Florido nella sua Apologia che chi ha speso pochi giorni a studiare il 

v d Ue , Clttà toscane, ma per lo più anche in omelie 

frretricfiS n ^ le .o SÌ T legge Dante e ^trarca P si discute dTpoeticJ 
e eli retorica in volgare . In minor numero sono quelle dove l’uso del 

atino predonuna, come l’Accademia Papinianea di Torino7ondata nll 
1573, dove vige la severa prescrizione.- «Si quis in Academia temere 
allt ® r ^ u am latine sermonem habuerit, iure statini reiicito» 11 

dei ^ùonnat a ori b fus S o ’ a proib ^ ce > ^ opposizione alle richieste 

aei niormaton, luso del volgare nella liturgia 12 . Le versioni delle 

Bibbia ancora circolavano nel Quattrocento e nel primo Cinquecento 13 

modo°l??o°1a Bibbia 6 ? f Chiesa a che 1 laici leggano e SSret£o a 
moao loro la Bibbia si fa sempre piu viva- e con il mnriiin rii Tronfi „• 

amva alla proibizione. L’Indice dikolo IV (1559) stabile chiatte le 

Senza decanto 6 Uffìzio f° SSan 1 ° stampare ° leggere o tenere senza 
ncenz. a .1 baiao Uffizio; le regole approvate da Pio V nel 1564 fissano 

fatteda eretti menfr^ ^ tradazioni “ vol S are del Nuovo Testamento 
latte da eretici mentre ì vescovi possono dare il permesso di leeeere le 

aduziom eretiche dell’Antico Testamento; anche per le traduzioni 

snnn°i Vate 1 laici debbono avere un permesso scritto. Ancora più severe 

(1596)^ prescnziom deg U Indici di Sisto V (1590) e di Clemente Vili 

Negli usi amministrativi e giudiziari fi volgare si estende semnra 

quest^funto dfvS tt "dah^ lvhr^ 0 ^ GSame degli statuti cittadiiùda 
3,®"° punto df vlsta; dalle bibliografie relative non sempre è possibile 

neZ r e n o C l?,fnra eZZa 16 d&te * c °™ p d a zione e, in quafche caso! 
Ef e si sono . scritti. La maggioranza sono ancora in 

Smezzo TSSa. 6 SOn ° m latm ° anChe Statuti * città toscane 


S Brevoitll^fSori^ZtZ^l 1 1““° SÌ recita neUa immune lingua italiana»: 
Infiammati di Padova, eco antlchlsslma nobiltà ecc., Pavia 1570, c. 13 a), gli 

'2 p ° m< *ridianae sessiones, Torino 1580, p. 170. 

SgS piSSSSS 

vogare CTerrarinf ““ 0razione 
15891 Ro ""‘ 1519 “ «"»» Perugia 


288 


Storia della lingua italiana 


Ma parecchi sono in volgare: di Moffetta del 1474 e del 1519 (ed. 
Volpicella, 1875); dei mercatanti di Bologna del 1550 (ed. 1550); della 
Corte de’ mercadanti di Lucca del 1555 (ed. 1557 e 1610); di Castiglion 
del Lago e Chiugi (sic) del 1571 (ed. 1750); di Corsica del 1571 (ed. 1843, 
ritoccata nella lingua); del fondaco di Lucca del 1590 (ed. 1590); dei 
cavalieri di S. Stefano del 1590 (ed. 1620). 

Un caso interessante è quello dello statuto di Lucca, che nel 15j39 fu 
pubblicato contemporaneamente in due volumi, imo con il testo 
ufficiale latino, l’altro con la traduzione in volgare. Le ragioni sono 
esposte nel retro del frontespizio dell’edizione in volgare-. 

Dovendo essere le Leggi Norma, e Regola delle operationi di tutti li huomini, 
furono meritamente sempre da ogni Legislatore nel proprio Idioma del populo a 
chi si davano scritte. Et li Romani havendole da gli Greci nella Greca lingua 
riceute, da molti di loro, ma non da tutti intesa, a commune uso di tutto il populo, 
nella loro latina lingua tradur le fecero, la quale havendo dipoi insieme con le 
potenti arme per tutto lo Imperio loro s tesa, fu per un tempo da tutti gli suggetti 
del ditto Imperio conservata, col quale essendo dipoi declinata, e in pochi ridotta, 
Ha giudicato el Magnifico Generale Consiglio del Populo, e Commune di Lucca, 
cosa honorevole, & utile, che le sue municipali Leggi, a publico bene, dalla ditta 
latina lingua da pochi intesa, nella volgare, & nativa Toscana più commune, & 
universale tradotte siamo, accioche non siano li suoi Cittadini ignoranti della 
ragione, nella quale conversano, e dalla quale governati sono. Sperando che non 
per cavillare, ma per bene, et honestamente secondo quelle vivere, studiate siano, 
et così essorta 16 . 

La corrispondenza con prìncipi oltramontani è sempre in latino, 
mentre quella con italiani è ora in latino ora in volgare. Per citare solo 
un esempio, il papa Leone X scrive al card. Farnese in latino (20 luglio 
1513), mentre è in italiano la solenne lettera al Bembo (1 gennaio 1515) 
in cui gli comunica l’adozione nella famiglia Medici, per cui d’ora in poi 
potrà chiamarsi Pietro Bembo de Medici 17 . 


Sinigaglia 1531 (ed. 1533); Arezzo 1535 (ed. 1536); Modena 1546 (ed. 1590); dei notai di 
Modena 1548 (ed. 1549); Valtellina 1548 (ed. 1668); Urbino 1556 (ed. 1559); Castro e 
Ronciglione 1558 (ed. 1558); Montegranaro 1564 (ed. 1564); Ferrara 1566 (ed. 1567); 
Brescello 1569 (ed. 1697); Mondovì 1570 (ed. 1570); Carrara 1574 (ed. 1574); Montegior- 
gio 1577 (ed. 1730); Pistoia 1579 (ed. 1579); Roma 1580 (ed. 1580): civili di Genova 1588 
(ed. 1589); dei drappieri di Bologna 1593 (ed. 1594): Cologna Veneta 1593 (ed. 1762). 
San Marino 1599 (ed. 1834); criminali di Savona 1600 (ed. 1610). La distribuzione 
geografica è molto irregolare, perché il Mezzogiorno ha pochissimi statuti, e nelle 
città dell’Italia settentrionale e centrale gli statuti si riformavano abbastanza 
spesso, ma si ristampavano solo a lunghissimi intervalli. Debbo la maggior parte 
delle indicazioni alla competenza e alla cortesia dell’amico Piero Fiorelli. 

16 Alcune volte, si conosce o s’intravede qualche intervento personale deter- 
minante. Nel 1546, a Lucca, l’Offizio sopra le scuole redasse in latino, per 
influenza di Aonio Paleario, i nuovi Capitoli, «a differenza di quanti ne furono 
fatti prima e dopo, e sono molti, i quali sono tutti in volgare» (P. Barsanti, Il 
pubblico insegnamento in Lucca, Lucca 1905, p. 151). 

17 Pastor, Storia dei Papi, trad. ital., IV, ii, p. 638 e 641. 


Il Cinquecento 


289 


Tutto codesto non è ancora stato studiato nei particolari; ma che in 
complesso 1 uso del volgare faccia passi notevoli ci è testimoniato alla 
metà del secolo dal Gelli: nel suo Dialogo sopra la difficultà dello 
ordinare detta lingua (fiorentina) egli congettura «che ella abbia ancora 
a farsi piu ricca e molto più bella» da due cose, una delle quali è «il 
cominciare ì Principi, e gli huomini grandi e qualificati, a scrivere in 
questa lingua, le importantissime cose de’ Governi de gli stati, i 
maneggi delle Guerre, e gli altri negozij gravi delle facende, che da non 
molto m dietro si scrivevano tutti in lingua Latina» 18 . 

Quanto ai processi, le interrogazioni agli imputati e ai testimoni si 
facevano m volgare; nei verbali le domande figurano ora riportate in 

v ° lg ?; re . ora riassunte in latino, mentre per lo più le risposte sono 
riferite m volgare. 

Per un processo fatto al rappresentante napoletano dei Gioliti per 
aver tenuto libri proibiti, fu interrogato dal Sant’Uffizio a Venezia 
Gabriele Giolito, e il verbale è redatto così: 

.. Cpnshtutus jn Officio dominus Gabriel Giolitus de Ferrariis de Tridino 
Montisferrati mercator et impressor librorum Venetiis, degens iam annis XL“ 
citatus prò habenda informatione super infrascriptis, medio iuramento quod 
prestitit, respondit ut infra. H 

, Et Primo interrogatus: «Dove et in che città et terre lui ha corrispondenza et 
bottega. » respondit «Ne ho una m Napoli, et un’altra in Bologna, et un’altra in 
Ferrara, et qui m Venetia alla Insegna della Fenice appresso il ponte di Rialto» 

D sono i suoi fattori et agenti nella bottega di Napoli?» R. «Un Gio 

Batta Capello Bolognese» 


Quibus habitis non fuit ulterius interrogatus sed dimissus, animo etc 
quatenus etc. 19 

Talvolta, i compilatori dei verbali mescolano pezzi di riassunto in 
latmo e pezzi testuali in volgare: leggiamo così nel sommario del 
( P 1599 ) SS ° fatt ° ^ vescovo SquiUace a fra Tommaso Campanella 

Mauritius Rinaldus dixit de auditu à Campanella de mense Julii 1599 non 
recordatur de contestibus, che voleva far brugiare tutti li libri latini perche era un 
imbrogliar le genti che non intendono, et che voleva far esso libri volgari, subdens 
n ° n t ^ COrdan an dixerit de hbris latinis de fide tractantibus che imbrogliassero le 


Ragionamento intorno alla lingua, ap. Giambullari, De la lingua, p. 38. 

20 T A 0n ^’i An £ ah rn d X Gabriel Giolito de’ Ferrari, I, Roma, 1890, pp. cm-crv 
inno ili ™ c ,Fra I: Campanella, la sua congiura, i suoi processi ecc., Napoli 
1882, III, p. 439. Si confronti 1 attestato (1601) di un medico napoletano, nello stesso 

processo: «Per questa fò fede io Giulio Jasolino Medico in Napoli l 1. Essendo 

dunque costui persona malitiosa, come si dice, vafer, callidus, et astutus; se ha da 
"5'^® j he la P azz m sia simulata; de eo tamen nihil certi affirmare studeo: 
rei cnoi d ° me aUl custodl continoamente l’osservano» (Amabile, cit., Ili, 

p. 502*. 1 1 


290 


Storia della lingua italiana 


Se nei processi è soprattutto lo scrupolo di riprodurre testualmente 
le risposte che porta all’uso del volgare nei verbali, in altri casi si evita 
il latino per sfuggire alle difficoltà della nomenclatura. Per es. quando 
il tesoriere della chiesa di Treviso, dopo la morte dell’umanista G. 
Augurello, va nella sua casa a fare l’inventario dei beni (1524), redige il 
principio e la fine del verbale in latino, ma l’elenco dei beni in volgare 21 . 

Nel campo filosofico, si adopera quasi esclusivamente il latino 22 . 

Alessandro Piccolomini, dedicando nel 1550 a papa Giulio III la sua 
Filosofia naturale, si vantava d’aver trattato per primo tutta la filosofia 
naturale e morale in italiano. Importante è l’atteggiamento del Bruno, 
ribelle aU’aristotelismo delle università e alla precettistica umanistica, 
il quale scrive i suoi Dialoghi in volgare durante la sua residenza in 
Inghilterra, spinto dalla consapevolezza che un nuovo pensiero vuole 
una lingua nuova 23 . 

Analoghi moventi anticonformistici vediamo anche nell’uso del 
volgare fatto dal Campanella. Quanto alla presentazione che Sertorio 
Quattromani, sotto il nome di Montano Accademico Cosentino, fece 
della Filosofia di B. Telesio ristretta in brevità e scritta in lingua toscana 
(Napoli 1589, rist. G. Troilo, Bari 1914), va anche considerato che il 
Quattromani era studioso del Bembo e cultore del volgare. 

Nel vasto dominio delle matematiche 24 , l’uso del volgare è diffuso in 
quei campi che hanno importanza pratica: tra la fine del Quattrocento 
e il principio del Cinquecento Frate Luca Pacioli pubblica la Summa de 
Arithmetica, Geometria, Proportioni et Proportionalita (Venezia 1494, 2 tt 
ed. Toscolano 1533), scritta «in materna e vemacula lingua», ma con 
passi latini di tanto in tanto, e la Divina Proporzione (Venezia 1509, rist. 
Vienna 1889), anch’essa in un volgare molto incòndito. 

Nel 1547, sorge tra Girolamo Cardano (secondato dal suo allievo, il 
bolognese Lodovico Ferrari) e il matematico bresciano Niccolò Tarta- 
glia una polemica per noi assai istruttiva: il Cardano cerca di far 
pesare la sua cultura filosofico-matematica, espressa in molte opere 
latine, sul Tartaglia che è autodidatta e scrive in volgare. Alla 
pubblicazione del Tartaglia Quesiti et inventioni nuove, il Ferrari 
divulga (10 febbraio 1547) un cartello in cui l’accusa di plagio; e il 
Tartaglia replica minacciando «di lavare ottimamente el capo ad 
ambidui (il Ferrari e il Cardanol in un colpo solo, cosa che non sapria 
fare alcun barbier in Italia». La maniera plebea mosse a sdegno 1 due, e 


21 G. Pavanello, Un maestro del Quattrocento , G. A. Augurello, Venezia 1905, 
pp. 258-262. 

22 Teniamo conto, qui e più oltre, delle belle e sicure ricerche di L. Olschki 
IGesch. wiss. Lit., 1, 1919; II, 1922): l’opera meriterebbe di trovare chi la continuasse 
e l’approfondisse per le singole discipline. 

23 E forse anche dallo sviluppo che la prosa scientifica stava assumendo in 
quegli anni in Inghilterra (G. Aquilecchia, in Cult, neol., XIII, 1953, pp. 165-189). 

24 È sempre utilissima la Bibliografia matematica di P. Riccardi, Modena 1870- 
1880. 


Il Cinquecento 


291 


1 r lattoo - d * cendo <“ "«-tram nelle 

matemaUTO U e ^KnMiomo^ dMettera 1SP ° n< * eVa 121 aprUe 15471 d ' esser 

de l^AutnH^i p 0 t & ° 7 Pera ^ T® medesim °. con lo agiutto de molti vocabolisti: & 

s^s^SS^***** 

. S< r ^ scrivesse in latino - continua il Tartaglia - la risposta 
riuscirebbe forse inferiore a quella del Ferrari (se pur è del FemiriI 

*&&£&£££ EgtfSSiii E££?£!£iSX 

tOS f Ca) egLi e neces sario (non volendome servire di quegli 

ve dÌ £ Sta JiÌH^ feSS1 ° ne ’ C ° me fati forse voi) che la Prononhamta me 
e aia m nota per Bnsciano, cioè un poco grassetto di loquella... 

ei? li M TaSth« 0deSt0 Ch ?. c ’ e ? tra con !» sostanza della questione? Se 
gb fl ìw???’ i P ^ S n e larabo e volesse proporre i quesiti in arabo? 
decSo^rivpi a S e v° segue ? te maggio 1547), dice d’essersi ormai 
voi ni hngua volgar ’ dapoi che chiaramente confessate 

giamaix^EsmjrhoTn’ n ® mG ? ^ e 11 la , greca esservi fatto alcuna stima 
ffi^taharS * argomento deUa Iin g u a, la polemica prosegue ormai 

L astronomia era materia d’insegnamento universitario fondato 
principalmente sul Tractatus de sphaera del Sacrobosco (s XIII) Ma 
non mancavano traduzioni e commenti in volgare ricorffiamo la 
spiegazione della cosmografia tolemaica che Alessandro Piccolomini 
?a n ^ra P w m ^ na Laudomia (Venezia 1540) e Si uSSgTS 

ia Sfera, e de gli orti et occasi de le stelle (Venezia 1545) di Giacomo 

di Trifone, l’amico del Bembo). Ricevendo in dono il 

astrofog?St?nuto 0< S Vai1 Gabriele d’essere «non solamente eccellente 

la oSata a^oi^n)V - mSiei ? e a " cora maest ro della Toscana lingua, 
la quale a noi Vimziam non è molto agevole ad apprendere sì che ci 

settembre 15451 bene 6 regolarrnente scrivere...» Qett. da Roma, 25 

pÌr P ta Spett - Va e bi architettura ormai si scrive per lo più in volgare 

volgare 1 ?! T Al ? n ’ ° he già nel 1526 aveva pubblicafo in 
olgar eli Toscanello m musica, sente ancora il bisogno pubblicando il 

Lucidano, Venezia 1545, di giustificarsi di non avi? sce?to la ÌS^a 


25 Tant è vero che è in grado di tradurre gli elementi di Euclide (cfr. p. 320). 


292 


Stona della lingua italiana 


«più nobile e degna»: ha scelto di scriverla «nel Idioma nostro nativo», 
«per manco fatica» dei lettori. 

Nella medicina, i grandi trattatisti (Fabrizi d’ Acquapendente, Fal- 
loppio, Eustachio, Cesalpinol scrivono in latino, e solo qualche manua- 
le pratico è in volgare. 

Le farmacopee sono per lo più in latino, ma è notevole l’ampio 
Ricettario fiorentino, stampato una prima volta nel 1499 (Nuovo 
Receptario composto dal famossisimo Isicl Chollegio degli eximii doctori 
della arte et medicina della inclita cipta di Firenze ), e poi ricompilato per 
ordine di Cosimo I (El Ricettario dell’arte et Università de medici et 
spettali della città di Firenze, Firenze 1550). 

La metallurgia, disciplina prevalentemente pratica, trova un tratta- 
tista in Vannoccio Biringuccio (De la Pirotechnia, Venezia 1540, 2 a ed. 
1550; rist. del primo libro, Bari 1914). 

Le narrazioni di viaggi e scoperte al principio del secolo sono 
ancora spesso in latino; la grande collezione di G. B. Ramusio Delle 
navìgatìoni et viaggi (Venezia 1550-59) mette a disposizione del pubbli- 
co un poderoso insieme di narrazioni originali e di traduzioni in 
volgare. 

Questi pochi esempi mostrano che per ciascuna disciplina l’uso del 
volgare è ora più ora meno robusto in confronto con l’uso del latino, 
per un vario convergere di spinte: la forza della tradizione umanistica 
e della scolastica aristotelica da un lato, le esigenze pratiche e 
l’umanesimo volgare dall’altro. Nel 1589 all’Accademia della Crusca 
l’Arciconsolo Pierfrancesco Cambi propose il quesito: «Se la lingua 
toscana sia capace di ricevere in sé le scienze» e il 21 dicembre 
Francesco Marinozzi lesse un suo scritto sull’argomento: è sintomatico 
che se ne discuta, e ancora in forma dubitativa. 

Oltre che di scritti originali, si tratta anche di traduzioni. Il 
Cinquecento è forse il secolo in cui si tradusse maggior copia di opere 
scientifiche dal latino e dal greco (incluse molte opere di autori 
moderni) 28 . 

Aristotile, che era stato conosciuto durante il Medioevo per via 
indiretta (arabo-latina), e ritradotto dal greco in latino nel Quattrocen- 
to (dall’ Argiropulo), ora è tradotto direttamente in volgare. Bernardo 
Segni dedica la sua versione dell’Etica (1550) a Cosimo I, pregandolo di 
non sdegnarla perché è fatta 

in questa sua moderna, bella, et da tutti amata; nella quale quello, che forse 
appresso di pochi ella perderà, che la giudicassino scolpita in materia men’de- 
gna, senza dubbio riacquisterà ella viepiù appresso di molti, che la vedranno in 
materia da poter’essere da piu genti partecipata, et fruita 27 . 


28 Tuttora indispensabile, perché non sostituita da analoga opera più moder- 
na, è la Biblioteca degli volgarizzatori di F. Argelati, Milano 1767. 

27 L’Ethica d’ Aristotile tradotta in lingua vulgare fiorentina et comentata per 
Bernardo Segni, Firenze 1550, pp. 4-5. 


Il Cinquecento 


293 


Euclide fu tradotto piu volte (da E. Danti, da N. Tartaglia); Cosimo 
Bartoh volse dal latino, con certa eleganza accademica, la Protomathe- 

-"535) del delfinese Oronce Finé (Opere di Orontìo Fineo, Venezia 
1587J, 

T ’ìmvt/N'wl.n J i V r • I « 11. ... 


L importanza data a Vitruvio nell’architettura del Rinascimento ci 
spiega il susseguirsi delle traduzioni: C. Cesariano (Como 1521) G B 
Caporali (Perugia 1536), D. Barbaro (Venezia 1556), G. A. Rusconi 
(Venezia 1590), oltre ad altre rimaste inedite. 

) u^tporianza data alla farmacologia o «materia medi- 
ca» di Diosconde spiega le versioni che se ne fecero: quella di Fausto 
da Lontano (1542), di M. Montigiano (1547), e quella riccamente 

^°™P ientata ^ p - A - Mattioli (vers. lat., Venezia 1544; vers. it., Brescia 
1544J. 

T «....* tji « i ^ . _ 


I Mechanicorum libri di Guido Ubaldo del Monte (Pesaro 1577) 


furono tradotti da F. Pigafetta (Le mechaniche, Venezia 1581). 

Le erudite opere mineralogiche e metallurgiche del tedesco Giorgio 
Agricola furono tradotte in italiano e pubblicate pochi anni dopo le 
opinali, in latino (De la generatione de le cose ecc., Venezia 
1550; De torte de metalli, trad. da Michelangelo Fiorio, Basilea 1563). 

L importanza del volgare rispetto al latino è già molto diversa se 
passiamo a considerare la storia: la storiografia in italiano è senza 
confronto piu considerevole che quella in latino. A Firenze, i molti e 
importanti storiografi scrivono tutti in italiano: una delle pochissime 
eccezioni sono le Historiae Florentinae di Gian Michele Bruto, venezia- 
no antimediceo, che le pubblicò a Lione nel 1562. Fuori di Toscana si 
scrive nell una e nell altra lingua. L’Equicola difende il proprio assunto 
di scrivere m italiano la sua Cronica de Mantua (Mantova 1521) pur 
sperando che essa sia tradotta in latino 28 . Camillo Porzio, che aveva 
cominciato a scrivere in latino la storia della Congiura dei Baroni 
passa a scriverla in volgare per consiglio del card. Seripando. 

Di regola sono in latino gli scritti di erudizione storico-antiquaria- 
non però le eleganti dissertazioni di Vincenzio Borghini. 

Si hanno anche in questo campo numerose traduzioni (Livio 
bvetomo, Plutarco, ecc.). Va specialmente ricordata la gara col france- 
se e col latino che volle compiere Bernardo Davanzati con le sue 
versioni da Tacito, mirando soprattutto alla concisione 29 . 

Nell oratoria sacra, l’italiano ha una predominanza quasi esclusiva; 


... *^on 80 9 ua! nasuto ardisca con ragione reprenderme che nel comune 
idioma italico scriva... Io desio che questo mio compendio sia equalmente a tutti 
exposto; e, se ad extere nationi è più intelligibile la composizione latina, io poco 
curo che miei scritti passino mare o alpi, di miei cittadini lectori contento: et forse 
latino si leggerà piu tosto che altri non existima» (p. 209). 
i T- c ’ : parmi aver pareggiato Cornelio, se non di maestà, di viveza; e superato- 
foTrlii Cl ^ areZ f- e p P nt ^ : tanta è la possanza é la destreza e l’eccellenza della 
tavella fiorentina che vive, e nel mare della natura sceglie, chi punto vi bada voci 
e mamere operantissime» Qettera a Baccio Valori, 1595, premessa al volgarizza- 
mento del primo libro degli Annali, Firenze 1590 ). 


294 


Storia della lingua italiana 


nell’oratoria civile, che ha sempre più di rado la sua vera funzione di 
convincere un’assemblea pubblica e sta diventando un elegante ceri- 
monia, ambedue le lingue si adoperano secondo le circostanze-. Piero 
Angeli di Barga recitò in volgare l’orazione funebre di Enrico II di 
Francia nel duomo di Firenze (1559), e invece in latino quella per le 
esequie del granduca Cosimo nel duomo di Pisa (1574). Ma ormai il 

volgare predomina. „ „ T 

Lo stesso si può dire per l’epistolografia. Vediamo per es. Luca 
Contile che scambia con un suo condiscepolo, Federigo Orlandim, 
numerose lettere in latino; poi il Contile passa all italiano, persuaso 
che si possa esprimere in esso accomodatamente e con abbondanza 
ogni ordine d’idee, talvolta meglio che in latino detterà 12 ottobre 
1541 ) 3 °. ji Fracastoro e l’Aldrovandi pubblicano solo opere latine, ma 
nella corrispondenza privata usano un italiano semplice e realistico . 
Continua a prevalere, naturalmente, il latino quando si tratta di 
argomenti filosofici e filologici, e nella corrispondenza con stranieri. 

Le lettere si scrivono spesso non per comunicare privatamente con 
un ami co, ma per manifestare pubblicamente la propria opinione con 
eleganza di stile 32 . Anzi è questo il secolo in cui piu abbondano gli 
epistolari, dopo l’esempio chiassoso di quello dell’Aretino. 

Per gli altri campi letterari, questo bilancio comparativo tra le 
opere scritte in latino e le opere scritte in italiano non avrebbe ragione 
d’essere 33 . Possiamo sì ricordare che l’attività umanistica in latino 
continua, con egloghe, elegie, poemi sacri, didattici, epici, qualche 
commedia, qualche tragedia, e che alcune di queste opere ancora si 
celebrano per insigne valore artistico. E possiamo osservare che un 
forte sostrato classicistico appare in tutti gli scrittori m italiano. Ma 
ormai un senso d’emulazione trionfante anima gli scrittori in volgare. 
La Rosmunda del Rucellai e la Sofonisba del Trissino sono scritte 
intorno al 1516 per rinnovare la tragedia classica; L Italia liberata dai 
Goti dello stesso Trissino avrebbe voluto essere il poema eroico 
moderno; il Tolomei dice di aver scritto l’Orazione della Pace (aprile 
1529) «per mostrare al mondo come questa nostra lingua Toscana era 
atta ad esprimere altamente e in orazioni tutti i grandi concetti, la, qual 
cosa in quei tempi da certi letterati di debile stomaco non era creduta» 

(Leti., c. 61 a). , , 

Abbiamo già accennato quale importanza abbiano anche nei 

campo delle lettere le traduzioni dalle lingue classiche, molto numero- 


30 L. Contile, Lettere, Pavia 1569, I, c. 45. 

31 Olschki, Gesch. wiss. hit., II, P- 328. 

33 Lo Speroni protesta contro la pubblicazione di lettere poco eleganti ( Lettere 

volgari, Venezia 1553, I, p- 112). ,. 

33 Oppure avrebbe un carattere esclusivamente aneddotico: si dice per es. 
che Ercole Strozzi sia passato dall’elegia latina, in cui eccelleva, ai soletti 
petrarchistici per amore di Barbara Torelli, alla quale piacevano i versi rimati (v. 
i versi di Daniel Fini citati dal Carducci, Opere, XIII, p. 340J. 


Il Cinquecento 


295 


se in questo secolo. I traduttori sono animati dal desiderio (disinteres- 
sato o no) di far conoscere i classici a quelli che non sarebbero in grado 
di leggerli nell’originale; qualche volta dall’intenzione di aprire alla 
lingua moderna territori in cui ancora non era stata sperimentata; 
qualche volta dal proposito di cimentarla nel confronto con le lingue 
antiche 34 . 

La stretta simbiosi che ancora in questo secolo vige fra latino e 
volgare dà luogo a contatti e miscele varie. Alle lettere in volgare di 
Maria Savorgnan il Bembo appone in fine qualche postilla, per lo più in 
latino, concernente le circostanze di tempo in cui aveva avuto le 
lettere. Nella corrispondenza epistolare indirizzi, intestazioni e talora 
firme perdurano a lungo in latino. E qualche volta, in contesti volgari, 
s’insinuano passi latini. Ecco per es. il poscritto di una lettera di 
Scipione Forteguerri (Carteromaco) a Aldo Manuzio: 

Io sono ito dal Cardinale Hadriano, et mostroli quella parte della lettera 
vostra, il che li fu assai grato. Ragionammo molto di lettere, oc mul* a etiam de te. 
Aspetto lo esemplare corretto per darglielo, nec alia occurrunt. Vale iterum, et 
scrivete spesso, si potes, et dirizzate le lettere al Secretano dell’ Ambasciatore 
veneto. Romae die 19 decembris 1505. Tuus S. Cart. 35 . 

O una lettera del card. Rorario al Sadoleto (14 febbr. 1525): 

...havendo Sua Santità deliberato gerere se tamquam patrem omnibus commu- 
nem et servare la neutralità, el re di Franza... inviò un esercito per lo stato della 
Chiesa od temptandum regnum neapolitanum : donde S. S. fu costretta aut sumere 
arma, quibus nec poterat nec volebat uti, aut dare fidem regi neutralitatis... 

Oppure il passo di una lettera del nunzio Stella al Cervini, 
dell’ottobre 1548: 

lei Qa duchessa Renata! è quasi doventata riffuggio di s imili Qiereticil, et s’ode 
da digne persone che alioquin essa signora ha buona mente, ma arbitratur se 
obsequium prestare De o per le persuasioni di costoro 30 . 

Persiste largamente l’uso di singoli avverbi e particelle latine, 
specie in testi senza pretese. 

Alle molte miscele che si presentavano nella vita e nella letteratura 
(italiano intercalato nel latino, latino intercalato nell’italiano) s’ispira- 
no due stilizzazioni utilizzate a fini artistici, il maccheronico e il 
pedantesco-fidenziano. 

Non c’è bisogno di ricordare che nella latinità maccheronica il 


34 Si ricordi la lettera del Caro sulla sua traduzione d eli’ Eneide «cominciata 
per ischerzo» e continuata «fra l’esortazioni degli altri e un certo diletto che ho 
trovato in far pruova di questi lingua con la latina, » Getterà 14 settembre 15651, e 
la premessa già citata del Pavanzati (1595) alla sua versione degli Annali. 

33 Lettere di scrittori ital. del s. XVI, ed. G. Campori, Bologna 1877, p. 17L 
30 G. Spini, Tra Rinasciménto e Riforma: A. Brucioli, Firenze 1940, p. 107. 


296 


Storia della lingua italiana 


sapore comico è dato dalla intrusione di parole dialettali in un contesto 
correttamente latino 37 ; e invece nel pedantesco s’intercalano in un 
contesto italiano latinismi in abbondanza. 

Il maccheronico, cominciato già nel Quattrocento, dà ora la sua 
massima prova col Folengo. Nato in ambienti universitari, continua a 
riferirsi alla barbara latinità che i filosofi universitari adoperano: 

Dum Pomponazzus lègit ergo Perettus, et omnes 
voltat Aristotelis magnos sottosora librazzos, 
carmina Merlinus secum macaronica pensat 
et giurat nihil hac festivius arte trovali 

IBaldus, 1. XXII, w. 129-132). 

Il pedantesco e il fidenziano satireggiano i dotti che non s’acconten- 
tano del volgare e vogliono o parlar latino o intercalare nel loro 
discorso italiano parole latine, intatte ovvero munite di desinenze 
italiane. : - 

Il Castiglione, nemico di ogni affettazione, biasimava quelli che 
«scrivendo o parlando a donne usano sempre parole di Polifilo» 
I Corteg ., Ili, lxx). Si crea così un personaggio di commedia, il pedante 
(Francesco Belo, Il Pedante, 1529; Pietro Aretino, Il Marescalco, 1533; 
Giordano Bruno, Il Candelaio, 1583; e in tante altre commedie), con 
discorsi come questi: 

Omnia vincit Amor, et nos cedamus Amori. Certamente pare al giuditio de i 
periti, che totiens quotiens un uomo esce dalli anni adolescentuli, verbi gratta un 
par nostro, non deceat sibi l'amare queste puellule tenere (Belo, Il pedante, I, se. 4). 

Un altro pedante dice nel Marescalco dell’Aretino CV, se. 10): 

La parsimonia del sobrio prandio non mi incita ad espurgarmi, e però 
cominceremo latine, perché Cicerone ne le paradoxe non vuole che si parli in 
volgare del sacrosanto matrimonio. 

e il conte risponde: 

Parlateci più a la carlona che voi potete, che il vostro in bus et in bas è troppo 
stitico ad intenderlo. 

C’è spesso, in queste commedie contro il pedante, qualche perso- 
naggio che ne sottolinea la ridicolaggine, difendendo la generale 


37 «Il latino maccheronico... presuppone ima conoscenza perfetta del lessico, 
dello stile poetico, della prosodia e della metrica latina. Le deviazioni dalle forme 
regolari sono volontarie, e appunto perciò distribuite, graduate, adattate con 
finissimo senso d'arte» (U. E. Paoli, Il « Baldus », Firenze 1941, p. 59). Una più 
minuta analisi nel cit. volumetto dello stesso autore, Il latino maccheronico. 


Il Cinquecento 


297 



diffiJJm 1 o U !? à ? el / a ? are38 ovvero Agendo di non capire le parole 

Dòreh to „°^5° ndend ° CO E U u e con scr °f ule ^ o storpiando ipocrita in 
porcnita, ambiguo m anghibuo e s imili 39 

da un^Piefrn di . quest ? linguaggio pedantesco s’intitola 

aa un Pietro Giunteo Fidenzio, pedante di Montagnana che esistè 

vJ?^ ir*™* 1 Cm Scroffa attribuì una serie di sonetti composti 

verso il 1550 e pubblicati nel 1562 e forse anche prima. Eccone uno: 


Le tumidule gemile, i nigerrimi 
occhi, il viso peramplo e candidissimo 
1 exigua bocca, il naso decentissimo, 
il mento che mi dà dolori acerrimi; 

Il lacteo collo, i crinuli, i dexterrimi 
membri, il bel corpo symmetriatissimo 
del mio Camillo, il lepor venustissimo, 
i costumi modesti ed integerrimi; 

D’hora in hora mi fan sì Camilliphilo, 
ch’io non ho altro ben, altre letitie, 
che la soave lor reminiscentia. 

Non fu nel nostro lepido Poliphilo 
di Polia sua tanta concupiscentia, 
quanta in me di sì rare alte divitie. 


, 0“* s .i satireggiano non le desinenze latine più o meno fittizie ma i 

IfSSFT lessicab usatl dai pedanti, come già nel Vocabulario del Luna 
0536) le paroìe eh un gentiluomo ai suoi staffieri: «O famuli famuli 
abreviatimi questi sustentacoli, che son troppo prolissi! » 40 . 

frpmfJTtf™o bl f ma - deIla scelta fra latino e volgare si poneva ancora 
^ u* if 1 r quecentls ti, è ovvio che i più notevoli fautori 
loro Abboni bngUa abblano cercato di far propaganda per le 

deU f P J° se deìla v ?M ar lingua bembesche, Ercole Strozzi 
difende la lingua latina come più «degna e onorata» contro la volgare 
«vile e povera», ma 1 autore fa che rispondano vittoriosamente ai suoi 


Il parlare «in bus e in bas » è deriso anche nelle Satire del Nelli ai, xx): 
Usavan quel ch’hoggi usano i pedanti, 
parlare in bus e in bas... 

1? d£/e f“ de la lingua volgare del Citolini (Venezia 1540) Il Gelli nei 
la°c^uTàtm r 195 G ° t t ti) ’ ci p , arla di 1111 tì P° bizzarro, soprannoiato 

„ ... storpiatura delle parole, specialmente di quelle dotte è la nrincìnalp 

carat enstma della lingua detta «grazianesca»: vedinequalcheesemilnjf 
inedlt \ Commedia dell'arte, Firenze 1890, p. l cxxin e in V 

yST e cWrtto * » “'*>«-• -iiTi, 1 ."- ; 

40 Qualche altra variante in Migliorini, Lingua e cultura, p. 27. 



298 


Storia della lingua italiana 


argomenti gli altri tre interlocutori, Carlo Bembo, Giuliano de’ Medici e 
Federigo Fregoso. 

Nel novembre del 1529, inaugurandosi solennemente l’anno accade- 
mico nell’Archiginnasio di Bologna, l’umanista udinese Romolo Ama- 
seo pronunziò due orazioni De Linguae Latinae usu retinendo (pubblica- 
te in Orationum volumen, Bologna 1563-64), che suscitarono larga eco 
di discussioni per la solenne difesa che in esse si fa del latino. Nella 
prima orazione l’Amaseo sostiene che il volgare non è che una 
corruzione del latino: perché dunque sforzarsi a imparare due lingue, 
di cui una buona e l’altra corrotta? Nella seconda orazione l’Amaseo 
confuta l’opinione che il volgare sia utile, allegando gli immensi tesori 
di sapienza pratica deposti dagli antichi nelle loro opere. Inoltre, non è 
vero che l’italiano costi meno fatica del latino; non solo perché il 
maggiore sforzo speso per imparare la lingua antica è compensato 
dalla diffusione universale del latino, ma anche perché in Italia stessa 
si disputa se la lingua debba esser toscana o cortigiana. 

La presenza in Bologna dei sommi rappresentanti della Chiesa e 
dell’Impero dava occasione all’Amaseo di celebrare insieme la restau- 
razione del Sacro Romano Impero e della lingua di tutto il mondo 
civile. Ma si sa quanto v’era ormai di anacronistico in questa doppia 
celebrazione. 

In quegli stessi anni, nel De disciplinis (1531), Lodovico Vives 
prediceva la fine del latino, pur dolendosi che ciò avrebbe prodotto un 
grande straniarsi fra gli uomini. 

Le orazioni dell’Amaseo suscitarono larga eco. D Bembo rispondeva 
a monsignor Soranzo, che l’aveva informato su di esse, con un 
argomento ad hominem-. 

Ho veduto quanto V. Sig. mi scrive della infamia data alla lingua volgare, e 
veggo che la poverella sarà molto male per lo innanzi, in quella guisa vituperata 
da così grande uomo. Ma io vorrei da lui sapere, per qual cagione egli medesimo, 
che così la biasima, leggeva pochi mesi sono ed isponeva a suo figliuolo, ed a 
non so quale altro fanciullo, le regole di questa medesima lingua da me scritte, e 
perché egli molto prima le ha diligentemente apprese a sua utilità, come 
egli dicea. Ma lasciamo il parlare di ciò, che è soverchio più che assai ( Lettere , II, 
vili, 24). 

Replica all’Amaseo il Muzio con tre libri Per la difesa della volgar 
lingua (composti verso il 1533, e inclusi poi nelle postume Battaglie ). 

Ma sono anche riattizzati gli ardori dei latinisti: in una lettera di 
quegli anni Francesco Bellafìni manifesta, rivolgendosi all’amico Mar- 
cantonio Michiel, il suo dolore 

quippe qui maiestatem Romani eloquii inepto quodam vemaculae linguae 
ardore contaminali et perditum iri cerno. 

C’è gente che perde tempo a interpretare Pape SatanAleppe invece che 
a leggere i classici: 


Il Cinquecento 


299 



. q . ua< r. plebis est, plebi linque, linque institoribus, nugivendis, 

rarcidatonbus, lanus, fartonbus, ambubaiarum et id genus collegiis, historiae 
^P tam ; oratori mconcinnam, philosopho omnino repugnantem, quibu- 
sdam tantum fabellis et apologis, amatoriisque cantionibus gratam.... 

Rincarava la dose Francesco Florido nella sua in L. Aedi Plauti 
alwrumque Latinae linguae scriptorum calumniatores Apologia (1537 
circa), severo contro tutti quelli che avevano scritto in volgare, e solo 
con qualche indulgenza per il Petrarca, il quale aveva scritto tutte le 
sue cose sene m latino e solo quelle frivole in volgare... 

Nel Dialogo delle lingue di Sperone Speroni Qa cui azione si finge in 
Bologna nel 1530, e la cui composizione è di qualche anno posteriore) si 
allude al clamoroso episodio dell’Amaseo. L’autore fa che Lazzaro 
Bonamico difenda il latino e oppugni il volgare; mentre un cortigiano 
sostiene ì menti della lingua parlata e il Bembo quelli dell’italiano 
trecentesco. Dentro il dialogo è inserito un secondo dialogo, che 
lautore immagina sia avvenuto anni prima fra Giovanni Lascari e 
Pietro Pomponazzi, dovei© stesso problema è discusso rispetto «.Un 
filosofia, e il Pomponazzi sostiene 41 che l’essenziale è ragionar bene 
anche se si ragioni in dialetto 42 . 

Risponde con buone argomentazioni ai fautori del latino Alessan- 
dro Citohni di Serravalle (Treviso) nella Lettera in difesa della lingua 
volgare, Venezia 1540 43 . ® 

Fanatico difensore della lingua antica è invece Celio Caleagnini 
B ' Giraldi (Cinzio) (Aliquot opuscula, 1544) esprime 
? he 1 italiano e tutte le opere scritte in questa lingua siano 
dimenticate, come espressione di «foedissima barbaries». 

Con equilibrio più degno di uno storico, Carlo Sigonio, in una 
prolusione veneziana De Latinae linguae usu retinendo (1566) difende il 
latino senza vilipendere il volgare («detur utrique quod utrique debe- 
tur»). Altri confrontano i meriti rispettivi dell’italiano e delle due lingue 
classiche, celebrandole tutte e tre 44 . 

Una discussione assai ampia e interessante per ricchezza d’argo- 
mentazioni e concretezza di esempi è quella contenuta nel dialogo 
latino di Uberto Foglietta genovese (De linguae Latinae usu et prae- 
stantta libri tres, Roma 1547): il secondo libro è tutto dedicato a rispon- 


, *' A 110 * 16 nel Dialogo della istoria lo Speroni attesta che il Pomponazzi « aveva 

ÌS3. 8 S£ l ” S *' lombardo alla maniera della sua patria, eenra 

L® 00 delTanaìoga disputa che s’era svolta nel Quattrocento a 

fi r lo ^ fl ciceroniani (Ermolao Barbaro) e filosofi «barbari* 
(G. Pico della Mirandola). Cfr. p. 228 . 

oli ” NeUa firude appaiono per la prima volta nettamente opposte le lingue vive 
alie lingue morte (Faithfull, in Modem Lang. Review, XLVIII, 1953 , pp. 278-292) 
Casa ' * Frammento d'un trattato delle tre lingue», in Opere III 
, 172 ?: PP- 381-384; V. Borghini, nella novella allegorica di Elias, Lazia é 
Tyrsine, in Lingua nostra. I, 1939, pp. 38-40. 


300 


Storia della lingua italiana 


dere al problema se il latino sia adatto ad esprimere i concetti moderni, 
e fino a che pianto si possa ampliare a tale scopo il vocabolario classico. 

Man mano che si procedeva nel Cinquecento, nei riguardi della 
lingua letteraria il problema si risolveva con i fatti; e la superiorità del 
volgare s’imponeva 45 . 

5 . Contatti con altre lingue moderne 

Le spedizioni armate di stranieri, purtroppo così frequenti nella 
prima parte del secolo, fanno venire gran parte degli Italiani in 
contatto, per lo più rude, con persone di altre lingue: Spagnoli, 
Francesi, Tedeschi. E ancor più forte è l’influenza esercitata quando le 
armi e le leggi danno tutto il potere in mano dell’uno o dell’altro degli 
stranieri occupanti. Vi soggiacciono non solo i loro fautori, ma anche 
gli altri. 

D’altra parte anche molti Italiani viaggiano o si stabiliscono 
all’estero, o per proprio conto, o come rappresentanti di una potenza 
italiana, o ad servizio di una potenza straniera. C’è chi muta addirittura 
di lingua 46 , altri accolgono vocaboli o costrutti stranieri in misura e con 
intenzioni assai varie-, il caso più comune è quello di vocaboli stranieri 
accolti in scritti concernenti quei paesi. 

La lingua straniera di gran lunga predominante nell’Italia cinque- 
centesca è lo spagnolo, per l’intensa simbiosi stabilita tra dominanti e 
dominati 47 . 

Il Galateo, il Bembo, il Castiglione, il Valdés alludono alle conoscen- 
ze che gli Italiani avevano o affettavano dello spagnolo-, e più tardi il 
Tansillo, continuo del viceré Toledo e compagno di armi del figlio di lui, 
confessa che 

il viver con spagnuoli, il gir in volta 
con spagnuoli, m’han fatto uom quasi novo 
e m’ hanno quasi la mìa lingua tolta. 


45 Sugli argomenti rispettivamente -addotti dai «latinisti» e dai «volgaristi» 
Q'àmbito delle due lingue in confronto tra loro; gli intrinseci pregi dell’una e 
dell’altra; la dipendenza della lingua moderna dall'antica o viceversa la sua 
autonomia; 1’esistenza di regole per il volgare) si vedano i miei cenni in Problemi e 
orientamenti. III, pp. 6-9. 

49 Così, per citare il più insigne fra gli esempi, Cristoforo Colombo: ma alcuni 
italianismi Ce parecchi lusitanismi, dovuti al fatto che egli cominciò a scrivere in 
spagnolo durante la sua residenza in Portogallo) furono rivelati nei suoi scritti 
dall’acuta analisi del Menéndez Pidal, Bull. Hispanique, XLII, 1940, pp. 5-28 (rist. in 
volumetto a sé. La lengua de C. C., Buenos Aires 1942). 

47 B. Croce, che già aveva tracciato un lucido quadro della conoscenza dello 
spagnolo e dell’influenza da esso esercitata nel saggio La lingua spagnuola in 
Italia, Roma 1895, riprese più brevemente questo argomento, ma inserendolo nel 
più ampio quadro delle relazioni italo-spagnole, nel volume La Spagna nella vita 
italiana durante la Rinascenza, Bari 1915 Ce successive edizioni). 


Il Cinquecento 


301 




«, Mas»»?- 

S e cS"di e ,i P S° dal X enezia “ “ Carena rSèloTel 

“ nte desiderava, X & conclone ’ 1 ccSf SSgUoTon ptt 
spagnoleggi ariti appaiono non di rado nSìe coSZ® 0 

Beokxffa n ° n Uet ® es P erie nze di scorrerie soldatesche: il 

P un suo personaggio (e burlescamente spiegare ad 


« £° Ce ’ ® pa ^ a . Cit., p. 156. 

Campane/to, S Toitao r f940, p° mi^n.™?) 16 ' ***' L ‘ FÌrP °' Bibliogr dè 8 u scritti di T. 

“ Lettere familiari, II, Venezia 1587, pp. 163-64 
d-/io,f Tod > » ÓM1. Biografia esp.ny o,a 

* <VtcoUun, uriteimo di 

rendersi conto di quel che fosse- doì b^rengena, probabilmente senza 

diede notizia nell 1 * avviso a? b* ^ C £ e 81 trattava di melanzane, ne 
XCIV, 1951-52, p 1291 t0r6> Messedaglia, in Ann. Acc. Agric. Torino, 

presenza d'ctemente^Vn e^Cadò V*7 a , Bologna in 

personaggio che parla spagnolo P bbcata a Venezia nel 1533, ha un 

d«. C LS f H\ S Xst n cto Pr .°ÌT tt i )" a 5X?" zlone ‘“bustino (KOS), rivolgen- 
barbares, tant en moeurs qu’en lanvave A , re P ut . olent ) ad is les Franqais 

ment les uns les autres et s'aHarUmu w'n P res ent s entrentendent sans truche- 

obeissance que plusieurs autres aux habille^enii tt t nt Ce ^ K sont soubs votre 
Et par continuation sera Si toStìS? 1 ™” t * maniere de yivre de France. 
d Astisane et de tout le Piemont » «li ca Sm u fa ?°n ainsi que 1 on voit de ceux 
francese parecchie canzoni e nelle sue 1 astigiano Alione compose in 

francese ' 6 neUe sue commedie vi sono personaggi che parlano 


302 


Storia della lingua italiana 


un altro) le frasi che si dovevano sentire: «Càncaro, gi è superbitisi 
quando i dise: ‘Vilà cuchìn pagiaro, per lo San Diu a te magnarè la 
gola’» 55 . 

Fra i numerosi esempi di influenze colte ricordiamo quelle esercita- 
te alla corte di Ferrara da Renata di Francia, figlia di Luigi XII, la quale 
ebbe Marot come segretario e ospitò Calvino. 

Emanuele Filiberto volontariamente favorì l’uso dell’italiano, ma 
dall’oratore veneto F. Morosini (1570) apprendiamo quali fossero le sue 
conoscenze: «a me ha detto più volte, che se gli occorresse dover fare 
un lungo ragionamento di cose serie, non lo sapria far meglio in alcuna 
lingua, che nella spagnola. Parla anco eccellentemente il francese, 
essendo si può dir quella la sua lingua naturale, poiché tutti li duchi 
passati parlavano sempre francese, così come parla ora sua eccellenza 
quasi di continuo italiano» 5 ®. 

Molto meno noto era il tedesco, anche per la molto maggiore 
diversità strutturale. I rapporti diplomatici con l’Impero si svolgevano, 
naturalmente, in latino. Ma le parole dei soldati tedeschi e svizzeri 
colpivano per la loro rudezza, e briciole di parole e di frasi tedesche si 
trovano in canti carnascialeschi attribuiti a lanzi venturieri: «Noi 
trincare un fiasche piene - per le sante anime fostre », « Trinche gote 
malvasie - mi non biver oter vin», ecc. 57 . 

Ai confini d’Italia, la pressione è più forte: specialmente in quella 
parte della Lombardia che è venuta in mano degli Svizzeri, e nei 
territori nord-orientali che dipendono dall’Impero 58 . 

I Veneziani sentono, in Levante o a Venezia stessa, varie parlate 
esotiche, slave, greche, turche, arabe, zingaresche; e in alcune comme- 
die ne troviamo imitazioni più o meno precise, dovute a quella stessa 
spinta espressiva per cui s’introducono nelle commedie i personaggi 
dialettali 59 . Ma la satira degli stranieri in commedia finì presto col 
diventare un espediente comico assai scipito 60 . 


55 Parlamento de Ruzante..., in R. Viola, Due saggi di lett. pavana, Padova 1949, 

p. 86. 

58 Albèrì, Rei. degli Ambasciatori ven., II, i, p. 158. 

57 Singleton, Canti carnascialeschi, Bari 1930: Id., Nuovi canti carnascialeschi, 
Modena 1940, passim; cfr. Chiappelli, Lingua nostra, XIII, 1952, pp. 44-45. 

58 Nel 1523 i Triestini scrivono ai Camiolini, a proposito di una causa da 
discutersi nel consiglio dellTmpero, che intendono rispondere in latino e non in 
tedesco; nel 1581 i Tolminesi chiedono che gli atti per l’esazione di certe tasse 
siano fatti in tedesco, e i Goriziani rispondono che è loro diritto e dovere di 
redigere gli atti «in lingua Italiana overo Latina» (F. Pasini, Idioma e parola, 
Torino 1948, p. 83 e 139). 

50 E. Teza, «Voci greche ed arabe nelle commedie del Giancarli», in Rend. Acc. 
Lincei, 5 a s.. Vili, 1899, pp. 135-145; G. Sala, «La lingua degli stradiotti nelle 
commedie e nelle poesie dial. del sec. XVI», in Atti Ist. Ven., CX, 1951-52, pp. 141-188, 
291-343. 

60 E il Lasca, nel Prologo della Spiritata (1561), assicurava che nella sua 
commedia non «ci si udiranno né Tedeschi, né Spagnoli, né Franciosi, cinguettare 
in lingua pappagallesca, odiosa, e da voi (spettatori! non intesa». 


Il Cinquecento 


303 


italiana SSS'Sio più 0^1™ a "' eSter ° della a da « a 


6. La lingua letteraria 

QufttrofSTo dS SfiTdS g?* anoh , e d,arta *«U ultimi anni del 

tacile dire da quale rSe movtenT^S 0 ' °‘ è 61 soUto ^bastanza 

Cinquecento il cosa fLXXSvote ?” ta i? nadel 
denti era un’attività individualmente wflimESÌ h? • . nei , s . eco11 Prece- 
regionali diversi, diventa nel n n m,nn U f pa a , dai singoli su sostrati 
correnti di gusto collettivo in cent .°. 1111 attività dominata da 

nonne 

bell? 5 S>. accanto alle arti 

stazioni sciitteTS “«Sto Par ° Ia i 16 ? 6 sue 
insonuna, e parte notale "defSs^nelS ^ “ ,8tt8ratara - 

tra te p S em“l® tr^^naS^ T® SCIlt,a sl sta 

Bandi, carteggi inSMJfr ■ parlata Sl è accora molto indietro®*, 
alle contingenze pratiche <?e nr m genere ^ 1 testi fortemente legati 
trione o dS MezSomo dalle cancellerie del Setten- 

smi. Gli scritti tecnici e scientifici mw 8 f ° rtem ® nte ùitrisi di regionali- 
metallurgia, ecc.) hanno qua e là^mlrvS a ^ chltettura . ^ farmacia, di 
con numerosi termini tecnici dei ^ reglonale ’ insieme 

Le commedie, Xe ch^simnir^? dlVulga la con oscenza. 
linguistico: con un accentuato n^f C {2 ì ' Spe *?° puiltano sul Pimento 
personaggi dialettali e stranieri r°nn™r^ atl f° “ Toscana, e con 

“teiST 1 schematiz P zaM 0 te 0 m f SS?r COmmedla 

già la pubbU^Snfa nS^nSS' ^ j»*** »» 

medesimi mostra che la lettera è colsiderma^^er^e.teS 


natroni d’Itaha, come... hS^tto^di^pera^ che habb d T f0rma S ° la per tutte le 
fra non molto nelle persone non volgari to non ^ da ® ssere co1 fav °r di Dio 
e contraria al decoro che in narW ° lodo - anzl ten g° P er cosa difforme 
Lombardo, ò un Calabrese vSess^n^rinr ^" 0 tr * loro - dunque sia, un 
riso da ciascheduno. Onde si ved<F ch^ r ^ SC&n ^’ che cosl si farebbe degno di 
Senato Veneto quando ornilo ò mtSoL m ° lta Pudenda in questo grato 
perfettamente & perfetti S SS7r SOn ,? dottissime, & che sanno 
tuttavia di non uscir dal parlar loro ordinnrin ° na ^ ng } la 71 1 ostra - si guardano 
tutte quelle sorti d’ornamenti che il der-n^f * n -?’ m quanto abe voci, usando poi 
(G. Ruscelli. De’ commentarti, Venezfa i 58 i & p 543 )^ tQ della COSa può ricever e» 


304 


Storia della lingua italiana 


altrui, ma vogliono costruire qualche cosa di durevole, di «monumenta- 
le». Il culto del «bello stile», la ricerca dell’eleganza, che sono tratti 
perenni della lingua e della letteratura italiana, ora predominano 
talmente da diventare una «maniera»: per questo periodo possiamo 
parlare anche noi, come gli storici dell’arte, di «manierismo». 

Chi, come il Bembo, mira a una gradevole armonia con la rigorosa 
scelta e con la collocazione delle parole; chi si fonda piuttosto, come il 
Castiglione, su un equilibrio tra i vari membri della frase. Le esigenze 
logiche e quelle artistiche variamente si contemperano nel Machiavelli 
e nel Guicciardini. I contemporanei non trovarono abbastanza elegan- 
te né la prosa del primo, incline a forme popolaresche ormai in declino 
già al tempo suo, e molto dipendente nel lessico dagli usi cancellere- 
schi; né quella del secondo, anch’essa sovrabbondante di latinismi. Pur 
nella loro diversità, ambedue miravano alle cose molto più che alle 
parole. 

Nella poesia, quel tipo di petrarchismo platoneggiante a cui apre la 
strada il Bembo signoreggia quasi incontrastato - salvo la reazione 
antiaccademica e a suo modo popolaresca del Bemi e del Lasca. 
L’Alamanni tenta di raggiungere imo stile elevato per altra via, con le 
sue liriche pindariche. L’Ariosto maneggia con fresca genialità l’ottava 
cavalleresca, la terzina, gli sdruccioli sciolti: quando rivede i propri 
scritti si piega, sia pure con quella scarsa regolarità che il suo estroso 
temperamento gli consente, alle nuove prescrizioni grammaticali. Il 
Tasso, nel modulare con melodia or molle ed ora solenne i versi del suo 
poema preannunzia già il barocco nel fasto e, qua e là, negli arzigogoli, 
mentre i versi canori dell' Aminta preannunziano l’opera musicale. 

Gli atteggiamenti stilistici infinitamente vari dei singoli autori, le 
loro poetiche solo in parte conformi tra loro, e quel che in ciascuno di 
essi dipende dal luogo e dall’ambiente da cui traggono origine, in parte 
condizionano anche l’uso grammaticale e lessicale di ciascuno: e ciò si 
nota più fortemente nei primi decenni del secolo, quando ancora 
l’àmbito d’oscillazione è maggiore e si ammette che i singoli possono 
attingere a fonti assai più varie. 

H principio d’imitazione spinge a ricorrere ampiamente agli «auto- 
ri», cioè agli scrittori che hanno toccato il culmine nell’arte dello 
scrivere 62 . E opinione concorde che si possa attingere liberamente ai 
modelli latini; più o meno quasi tutti gli scrittori lo fanno, e ciò ha lievi 
conseguenze per la morfologia, forti per la sintassi, fortissime per il 
lessico. Quanto agli scrittori italiani, le cose non sono altrettanto ovvie. 
In genere, si leggono e si ammirano i tre grandi trecentisti 83 . Ma in qual 


® G. Santangelo, Il Bembo critico e il principio d'imitazione, Firenze 1950. 

83 II senese Sinolfo Saracini, ambasciatore toscano in Francia, dichiarava a 
Enrico Stefano che il francese non poteva, nonché esser superiore all’italiano, 
nemmeno esser confrontato con questo, perché la Francia non aveva autori di 
fama se non il Ronsard allora vìvente, mentre l’Italia aveva i tre famosi e altri 
ancora (S. Bargagli II Turamino, Siena 1602 , pp. 35-36). 


Il Cinquecento 


305 


^Sitto S1 df S,‘ U Ì‘° ra TOU * ‘S me modeU1 - e «*>« Più » quale meno, 
e oggetto di forti discussioni. Il Bembo, «balio» della lineila imitn 

fthh^ C r«^ Pe , tr arca e il Boccaccio e ritiene che nel Trecentoil volgare 
abbia raggiunto la perfezione; ma (benché nel 1502 avesse nuhhlirafn 
fe “ S 6 " 8 Commed ‘“ 1 il suo culto per l'astSSone e per il S 

con oso Eri 31a molto ,enero per Dante . Posi concreto e talora 
S so - Pf 1 . 1 conosce e apprezza anche altri trecentisti- ed è sua 

(1525) del duecentesco Novellino uscita col nome del Gualteruzzi 

P«tSjì a C ° n q Y ale larghezza sia stato accolto l’insegnamento del 
Petrarca non solo con l’imitazione di movenze di stile e di ritmo ma 
nnY 1 accettazione di molti vocaboli scelti e leggiadri del suo lessico- 

anclf^ ne^l^ Drosa, a Nmi Yr - altrì gene ? m P° esi a (si pensi all’Ariosto), e 
ancne nella prosa. Non ci meraviglia che Maria Savorenan scriva 

al SUO Bem ho («Aspetto vostre letere per hora 

Xm° e »°lett 7n a frrT vtìa A *’ 1 ® tt „ 34; * seria troncato il filo dii mio 
40, ecc.); ma se Aomo Paleario può scrivere nella lettera 
indirizzata alla moglie, alla vigilia dell’estremo supplizio (3 luglio 1570)- 
«attendete i alla famigliola sbigottita che resterà», vuol dire che per lui 

Kme n„ dS arc ■ *■ T™ e f "«“<> 0 Cfmmurn, 

Eppure fin dai primi decenni del secolo c’è chi protesta contro 

Firenzuola S ° n ° anzitutto 1 Toscani, come il 

irenzuoia, 1 Aretino (nel Marescalco e nei Ragionamenti • ma nelle rime 

petrarcheggia anche lui), il Bemi, il Doni, il GrazzS mTanche^n 

T P^te Se me - ?° rnelÌO Ca staldi e più tardi Giordano Bruno. 
rn jJ°t este si levano anche qua e là da parte del Firenzuola del 

bocc£ce?cà del LenZom ’ del NeUi ecc - con tro la stucchevole imitazione 

_■ d ^ alviat i’. V 1 tutta la sua opera risoluto fautore del «buon secolo» 
ricercatore di testi trecenteschi, e soprattutto ammiratore e studioso 
del Boccaccio, trova che un solo scrittore contemporaneo è So a 

Sa c 5 ^neTGaiSeo am 3 nte Y eUe P arole e nello stile treceiSesco, il 
oSrìtr? nhJ ” 1 Gal f eo ’ * d finale, oltreché non ha voce, ò maniera di 

le^modf ^^h^a^ena^ar^acmdei^ quStefch^F^uitore 

propno, e vero stile dettarlo di quel buon secolo»- ’ 

Ma la principale pietra di paragone è l’atteggiamento degli scrittori 




306 Stona della lingua italiana 

rispetto alle parlate moderne. H Bembo accettando la norma trecente- 
sca, escludeva un contemperamento: nelle Prose (libro D fa dire a suo 
fratello Carlo che «l’essere a questi tempi nato fiorentino, a ben volere 
fiorentino scrivere, non sia di grande vantaggio»; e a Ercole Strozzi, 
che suggerisce di mescolare la lingua toscana antica e quella nuova, 
Carlo Bembo risponde che «il pane del grano non si fa miglior pane per 
mescolarvi la saggina» (conclusione del I libro). 

Il Bembo, e con lui molti non toscani, preferiscono nel plasmare la 
loro lingua letteraria cercare un solido fondamento nei libri, anziché 
nelle parlate italiane così diverse e fuggevoli, ovvero nell’uso toscano o 
cortigiano, anch’essi più o meno labili. 

Invece i Toscani, che si trovano ad avere a disposizione, già per 
natura, ima grammatica e un lessico in gran parte conformi alla norma 
già accolta, non hanno da far altro che servirsene, tutt’al più accettan- 
do anch’essi qualche suggerimento dai grandi trecentisti. Nel valersi a 
scopi letterari dei mezzi espressivi di cui già dispongono, si accorgono 
che volendo attingere all’uso dei nobili, della borghesia e del popolo 
possono mietere e spigolare locuzioni vivacemente espressive per 
inserirle nei loro scritti. Lo fanno ampiamente il Firenzuola, l’Aretino, 
il Doni, il Varchi, il Cecchi, il Davanzati e tanti altri: è molto difficile 
dire (e si può fare solo uno per imo, perché i loro atteggiamenti sono 
vari) in che misura si tratta di «retorica popolaresca» 85 , di sforzatura 
manieristica. _ . t 

Pochi sono i non Toscani che si sforzano di adeguarsi alluso 
parlato fiorentino. Il più notevole è il Caro, marchigiano, che nel 
Commento di Ser Agresto asseriva di non voler usare «nè la boccacce- 
vole, nè la petrarchevole, ma solamente la pura e pretta toscana 
d’oggidì, e della comune quella parte, che ancora da essi Toscani è 
ricevuta»; mentre stava scrivendo gli Straccioni chiedeva agli amici 
fiorentini di fornirgli modi di dire 68 , e nella polemica col Castelvetro 
sosteneva «essere di più vantaggio che non pensate, l’haver havuto 
mona Sandra per balia, maestro Pippo per pedante, la loggia per 
iscuola, Fiesole per villa, haver girato più volte il coro di Santa 
Riparata, seduto molte sere sotto il tetto de’ Pisani, praticato molto 
tempo, per Dio, fino in Guaifonda per saper la natura d’essa [lingua]» 67 . 

Altri che pur valutano altamente l’importanza della lingua parlata, 
e non vogliono riconoscere a Firenze e alla Toscana altra priorità che 
quella già conclusa con l’attività dei grandi trecentisti, puntano 
sull’importanza della lingua che si parla in altri luoghi di Italia. 
Anzitutto nelle corti, e in primo luogo in quella di Roma, che è il centro 
intemazionale del cattolicesimo e uno dei principali luoghi d’incontro 


65 A. Momigliano, Studi di poesia, Bari 1948, p. 72. 

68 «Io vi ricordo, che voi faceste già. ricolta di molti proverbi toscani; se me gli 
poteste mandare, mi tornerebbero forse in qualche luogo a proposito» detterà a 
Luca Martini, giugno 1543: Lettere fornii., I, p. 278 Greco). 

67 A. Caro, Apologia de gli Academici di Banchi, Parma 1553, p. 168. 


Il Cinquecento 307 

della vita politica e culturale italiana; e inoltre in corti come quelle di 
Mantova, di Ferrara, di Urbino. 

I tratti comuni che queste varietà di «lingue di corte» possedevano 
(molti elementi uguali dovuti all’accoglimento dei modelli letterari 
trecenteschi, un numero notevole di latinismi del tipo populo, commu- 
ne, anatomia contrapposti alle forme toscane popolo, comune, notomia, 
ecc.) non costituivano una vera e propria lingua sufficientemente 
compatta, ma erano tuttavia abbastanza numerosi da offrire argomen- 
ti a quegli scrittori che intendevano accogliere forme e parole in uso 
nelle corti, e non ritenevano né di doversi limitare all’uso trecentesco 
né di piegarsi all’uso toscano. Vedremo nel § 8 quali argomenti 
vengono addotti, nei primi decenni del Cinquecento, per difendere e 
per oppugnare questo punto di vista. 

La libertà di scelta è proclamata da quelli che parlano di lingua 
italiana, comune, universale; e c’è chi ritiene che la lingua debba 
essere «mista» 68 . 

Altri fa professione d’adoperare la lingua della propria città: 
«Zoan» Gonzaga dichiara scritto «in lingua mantuana» un suo libretto 
sul principe 69 ; G. Filoteo Achillini ritiene «ch’el fa mal chi die’ dir 
quando si slingua», e perciò mantiene il «dir felsineo» suo 70 ; Baldassar- 
re Olimpo da Sassoferrato dichiara: «La compositione mia... è secondo 
la mia dolce e cara patria dove so’ inteso e non curo andare altrove, e 
perché ivi, in quel freddo, nudo et asperrimo Sasso nacque chi me 
costrenge a far tal cose...» 71 ; Antonino Venuti dice di scrivere «in siculo 
idioma constructo per esser in queste nostre parti con più facilità di 
tucti inteso, nobilitato anchor dalcuni vocaboli da quella ecelsa et 
principale lengua toscana» 72 . Questi ed altri autori che fanno analoghe 
dichiarazioni, non si scostano tuttavia quanto si potrebbe credere dal 
tipo d’italiano letterario che si sta generalizzando 73 . 


68 Don Anseimo Tanzi, milanese, nella sua prefazione alla versione da Boezio 
(1520) dice di essersi servito «d’un volgar piano, chiaro et intelligibile, non in sola 
lingua Napolitana, ne Tosca ne Lombarda, ma mista, et in comune, et dimestico 
parlare...» (cit. da Argelati, Biblioteca d. volgarizzatori, I, p. 164). 

89 Cian, Studi... Rajna, p. 292. 

^-Fedele, 1. II, c. xvm (ap. Del Balzo, Poesie di mille autori, IV, p. 544). 

71 Ed. 1539 (cit. in Arch. rom., IV, 1920, p. 90). 

72 De agricultura opusculum, Napoli 1516 (cit. da L. Natoli, Studi su la 
letteratura sicil. del s. XVI, I, Palermo 1896, p. 17). 

73 Se ne scosta parecchio, invece, il siciliano illustre teorizzato dal siracusano 
Mario d’ Arezzo, nelle Osservantii dila Lingua siciliana et Canzoni in lo proprio 
idioma, Messina 1543; p. es.: «disputando si la lingua siciliana, la quali hogi noi 
tentato, per havir tutti soi vocabuli distisi, & interi, non mezi & mutilati, et per 
potirsi schietta scriviri, et per tutta Italia intendiri, appari tanto bona, corno di 
tutti altri contrati chiusi di l'Appi, & di l’uno, & l’altro mari» (c. 10 a.- ho sott’occhio 
la ristampa a cura di G. B. Grassi, Palermo 1912): è un esperimento «autonomista» 
curioso, ma non molto significante. Cfr. il cap. IV del saggio di L. Sorrento, 
Diffusione. Nemmeno riuscì il tentativo di Girolamo Araolla di dare alla 
Sardegna una lingua letteraria (fondata sul logudorese settentrionale, con 


308 Storia della lingua italiana 

Nella seconda metà del secolo, divulgatisi numerosi testi in verso e 
in prosa di scrittori contemporanei, placatesi le dispute sulla lingua, 
consolidatesi le norme in trattati grammaticali e repertori lessicali, è 
ormai raro trovare negli scrittori dichiarazioni di scelte indipendenti: 
anche se il canone non è uniforme, si tende piuttosto a conciliare le 
diversità che a esasperarle. Non manca tuttavia chi, come il Bruno, 
mantiene una sua estrosa indipendenza 74 . 

7 . L’uso letterario dei vernacoli 

La consapevolezza che ormai c’è una lingua letteraria comune 
valida per tutta l’Italia (consapevolezza a cui si giunge durante la 
prima metà del secolo) dà la spinta al fiorire della letteratura dialettale 
riflessa 75 . Gli scritti in dialetto anteriori a questa età miravano, salvo 
poche eccezioni 78 , a una lingua il più possibile dirozzata, pronta a 
risolversi in coinè; gli scritti in vernacolo che ora cominciano ad 
apparire sono stilizzati in forme realistiche, volutamente fedeli alla 
rozzezza dei singoli vernacoli, in quanto questi venivano ormai 
contrapposti alla lingua generalmente accolta. 

Il «genere» che meglio si presta a questa contrapposizione, attra- 
verso il gioco scenico dei vari personaggi, è la commedia: troviamo un 
villano che parla faentino in una Commedia nuova di Pier Francesco 
da Faenza (non datata, ma probabilmente dei primi anni del Cinque- 
cento); nelle farse dell’Alionè agli interlocutori astigiani si mescolano 
dei francesi, un milanese, un «lombardo»; nella Venexiana , allo scorre- 
vole veneziano delle due gentildonne si contrappone l’italiano un po’ 
stentato e affettato del giovane e il bergamasco di un facchino; nella 


italianismi e spagnolismi nei casi in cui mancasse la voce sarda): v. la ristampa 
delle Rimas spirituales a cura del Wagner, Dresda 1915, e dello stesso, La lingua 
sarda, cit., pp. 49-51. 

74 E, di tanto in tanto, qualcuno ancora protesta contro il toscanismo 
arcaizzante: così il milanese Lomazzi ( Grotteschi , Milano 1587, p. 290) o il perugino 
Caporali ( Viaggio di Parnaso, parte II, Il pedante ). 

75 «Il fare libri nel dialetto proprio agli autori non toscani cominciò tardi e fu 
per gioco...», osservava già G. Capponi, Nuova Antol., XI, 1869, p. 676. Si veda B. 
Croce «La letteratura dialettale riflessa, la sua origine e il suo ufficio storico», in 
Critica, XXIV, 1926 (rist. in Uomini e cose della vecchia Italia, I); L. Sorrento, «La 
poesia dialettale e il Parnaso siciliano», in Rassegna, XXXV, 1927, pp. 105-122; Id., 
«Per la storia della poesia dial. in Italia», in Atti I Congr. tradiz. popol., Firenze 
1930; B. Migliorini, «Dialetto e lingua nazionale a Roma», in Capitolium, luglio 
1932 (rist. in Lingua e cultura, pp. 109-123)-, M. Sansone, «Relazioni fra la letteratura 
italiana e le letterature dialettali», in Problemi e orientamenti, JV, -pp. 261-327. 
Anche J. Gilliéron distingueva nella storia del francese l’ère des dialectes dall’ère 
des patois. 

78 Abbiamo trovato delle eccezioni specialmente nel Veneto-, abbiamo ricor- 
dato Francesco di Vannozzo e Antonio Beccari nel '300 (pp. 188189); ma citando il 
quattrocentista veronese Giorgio Sommariva abbiamo anche osservato che i suoi 
sonetti rusticali non furono pubblicati che molto più tardi (p. 250). 


Il Cinquecento 


309 


prima commedia di Ruzzante, la Pastorale, due contadini pavani hanno 
a clie lare con un medico bergamasco e il suo servo 77 . La presenza di 
imo o piu personaggi che parlano nel loro dialetto finisce col diventare 
un espediente comico usuale nella commedia della seconda metà del 
Cinquecento e del Seicento 78 ; e la caratterizzazione delle maschere 
avviene anche per mezzo del dialetto attribuito a ciascuna di esse. 

Anche m alcune commedie toscane entrano in scena personaggi 
rustici, con dialettalismi spiccati 79 . ^ 

S’intende bene che, abituatosi il pubblico al pimento dialettale vi 
possono anche essere commedie in cui tutti i personaggi sono plebei e 
parlano m dialetto: resta sempre presente la virtuale contrapposizione 
alla lingua usuale. 

Non mancano scritti dialettali di altri generi, specie nella seconda 
metà del secolo e nell’Italia settentrionale: le rime e le lettere di A. 
Calmo m veneziano, le liriche veneziane di Maffeo Venier; un poemetto 
eroico con reminiscenze ariostesche, l’anonimo Pulon matt di Cesena, e 
qualche altra lirica (ricordiamo G. B. Maganza «pavano», B. Cavassico 
bellunese. Paolo Foglietta genovese). 

Diverso è l’atteggiamento dei Siciliani, che tentano un dialetto con 
molti elementi locali, ma culturalmente raffinato 80 . 

Anche del gergo furbesco si ebbero nel Cinquecento alcune stilizza- 
zioni letterarie - o quasi 81 . 

8. La questione della lingua 

Tutto il Cinquecento è pieno di polemiche letterarie, e a guardar 
bene si potrebbe cavare qualche frutto linguistico da ciascuna di esse: 


- , DalIe , vaUl bergamasche provenivano numerosi a Venezia i servi e i 
6 la ] r ozzezza del l0I l 0 dialetto rese proverbiale Bergamo come sede del 
v , ec ! a J? 0 l e numerose testimonianze allegate dal Cian a 
fn S-!!. deUa ^ a ui! d ® 1 Castiglione («non vi ristringendo voi a dichiarir qual sia 
Potrebbe 1 omo attaccarsi alla bergamasca come alla fiorentina»: 
Uorteg., 1. 1, cap. xxx). Il Davanzati postillando la sua traduzione degli Annali QV 

7 (!nnfrr- Che una «goffissima lingua bergamasca o norcina» era adoperata «dà 
Z anni o Ciccantom » per far ridere. 

™Jl NeUa C ° mmedia La ve dovo di G. B. Cini (1569) vi sono personaggi che 

nnn^fHo^f e H ian< iV berg t* masco ’ slciliano - napoletano. I testi di questo genere 
non ci dtinno di solito molte garanzie di autenticità; ma per il pavano è preziosa 

Che 06 dà 11 Beolco > e P er B romanesco della fase antica la 
filasi ^ raffl ^ ata da C - Castelletti nelle 

specialmente a quelle dei Rozzi di Siena; ma anche in alcune 
commedie del Cecchi v è qualche personaggio che parla il fiorentino plebeo. 

xvr ?. NaS ol ll, j U ?. a S£W : ra ra PPresentazione siciliana del sec. 

X a*' -F 1 VI (rist. m Studi di antica letteratura sicil., Catania 1935 ). 

italiano • tU w-’ C ^ enm sull'uso dell'antico gergo furbesco nella letteratura 
pp L 30 )*’ Mlscellanea Gra f’ Bergamo 1908 (rist. in Svaghi critici, Bari 1910, 



310 


Storia della lingua italiana 


le dispute su Petrarca e il petrarchismo, sul Boccaccio, su Dante; la 
diatriba fra il Caro e il Castelvetro; le discussioni suscitate dal Tasso. 

Ma la polemica più importante è quella cui fu dato il nome di 
«questione della lingua» 82 . Essa è il prodotto delle riflessioni nate 
dall’incertezza della norma linguistica nei primi decenni del seco- 
lo e dal desiderio di porvi rimedio. Intervengono nella discussione 
alcuni fra i più autorevoli rappresentanti del gusto letterario e lingui- 
stico, a difendere quel tipo di lingua verso cui si erano orientati come 
scrittori. 

Nella prima metà del secolo si distinguono bene tre correnti: quella 
arcaizzante che fa capo al Bembo, quella che inclina verso una lingua 
di tipo eclettico, più o meno ispirata alla coinè delle corti, e infine la 
corrente toscana, che ritiene che la lingua debba prendere per modello 
il fiorentino o più genericamente il toscano moderno. 

Cominciamo a vedere le opinioni del Bembo. Il dotto veneziano 
sostanzialmente trasferisce nell’umanesimo volgare le teorie sull’imita- 
zione dei classici che egli professa quale scrittore latino. Nel febbraio 
1512 egli ha già pronto il primo libro delle Prose della volgar lingua, e il 
1° aprile dello stesso anno invia il secondo libro a Trifone Gabriele e ad 
altri amici per riceverne consigli, e ancora nel 1522 attende all’opera, 
benché nel pubblicarla (nel 1525 ) egli la presenti come definitivamente 
conclusa prima del marzo 1516 (certo per rivendicare la priorità sul 
Fortunio). 

Le Prose figurano come un dialogo che sarebbe avvenuto a Venezia 
nei giorni 10 , 11 , 12 dicembre 1502 tra Giuliano de’ Medici (poi duca di 
Nemours), Federigo Fregoso, Ercole Strozzi e Cario Bembo (portavoce 
delle idee del fratello). 

Nel primo libro (dopo la discussione, a cui abbiamo qui addietro 
accennato, sui pregi del volgare e del latino) si parla delle origini della 
letteratura in volgare e dell’influenza esercitata dai Provenzali. Poi si 
viene a trattare delle diversità del volgare in Italia, e delle opinioni del 
Calmeta sulla lingua cortigiana, nel suo libro (ora perduto) sulla poesia 
volgare. Ma la lingua cortigiana non è una vera lingua: è vero che essa 
si parla alla corte pontificia, «ma - dice Giuliano de’ Medici - questo 
favellare tuttavia non è lingua, perciò che non si può dire che sia 
veramente lingua alcuna favella che non ha scrittore» (affermazione 
assai discutibile, ma tipica, e atta a spiegare l’impostazione letteraria 
sempre mantenuta in Italia dalla questione della lingua). Per mostrare 
che il fiorentino è la lingua più regolata, Giuliano allega i suoi «due 
Toschi», «il Boccaccio e il Petrarca senza più». Carlo Bembo spiega 
come il fratello abbia dettato gli Asolani «in fiorentina lingua», nello 


82 Un ampio resoconto del dibattito è nel mio articolo pubblicato in Problemi e 
orientamenti. III, pp. 14-42. Dei molti scritti intorno alla questione, basti citare V. 
Vivaldi, Storia delle controversie (farraginosa ma utile), Th. Labande Jeanroy, La 
question de la langue, B. T. Sozzi, Aspetti e momenti (che sottolinea soprattutto gli 
aspetti sociali della questione), M. Vitale, La questione della lingua, Palermo 1960. 


Il Cinquecento 


311 


stesso modo che i Greci preferivano la lingua attica perché «più vaga e 
più gentile». La lingua fiorentina delle regolate scritture, ben s’intende 
che quando si vedono i fiorentini seguire l’andazzo dei tempi, si dubita 
«che 1 essere a questi tempi nato fiorentino, a ben volere fiorentino 
scrivere, non sia di molto vantaggio». Giuliano difende i suoi concitta- 
dini, affermando che «le scritture, sì come ancor le veste e le armi 
accostare si debbono e adagiare con l’uso de’ tempi, ne’ quali si scrive»’ 

Bemb 1 ° ns P° nde che « la lingua dalle scritture non deve a 
quella del popolo accostarsi, se non in quanto, accostandovisi, non 
perde gravità, non perde grandezza». E se si contemperasse l’antico e 
il moderno, suggerisce lo Strozzi. No, no, risponde Carlo: «il pane del 
grano non si fa miglior pane per mescolarvi la saggina». 

Nel secondo libro si passa a parlare della scelta e della disposizione 
delle voci Bisogna scegliere «le più pure, le più monde, le più chiare.. 
le piu belle e grate voci». Perciò è meglio lasciar da parte Dante, che 
talvolta adopera voci «rozze e disonorate». Un opportuno contempera- 
mento di grazia e di piacevolezza fa bella ogni scrittura, e per ottenere 
queste occorre badare al «suono», al «numero» (cioè al ritmo), e alla 
«variazione». Si passa quindi a discorrere della distribuzione delle 
rune nei versi, della posizione degli accenti (nei vocaboli e per ottenere 
il ntmoJ, e infine delle voci arcaiche. 

Il terzo libro è un’esposizione dei punti più importanti della 
grammatica italiana, fatta da Giuliano. L’abbondante esemplificazione 
è tratta in grande prevalenza dal Decamerone e dal Petrarca, ma non 
mancano citazioni da Dante, dalle opere minori del Boccaccio e da 
poeti duecenteschi. 

L impostazione del Bembo è, come s’è visto, eminentemente retori- 
ca: egli si rivolge agli scrittori, e li spinge a cercare una lingua elegante 
attraverso 1 imitazione dei migliori trecentisti toscani. Egli usa promi- 
scuamente i termini «fiorentino, toscano, volgare»: la disputa su quei 
vocaboli non era ancora nata, e più tardi il Bembo evitò Centrarvi 83 . 


Il Bembo è anche mtrodotto come protagonista nel Dialogo delle lingue 
P° co d °P° 11 1530, da Sperone Speroni padovano. Nel dialogo, oltre lillà 
disputa sulla preminenza del latino o del volgare (v. p. 299), si dibatte fra il 
ìgiano e il Bembo 1 argomento già esposto nelle Prose. «Dunque se io vorrò 
VOlgarmen te - dice il Cortigiano - converrammi tornare a nls^r 
ner ^wZàf* NaSCer "V ns P on d e « Bembo - ma studiar Toscano; ch’egli è meglio 
offLriTTt^o nas ? er Lora , l ? ardo ’ < ? he Fiorentino; perocché l’uso del parlar Tosco 
oggidì è tanto contrano alle regole della buona lingua Toscana, che più nuoce 

n& H 0 * queUa Provincia che non gli giova» (p. 59 De Robertis). Lo 

ouale no^hff a ^?® ntuandol f- l’opposizione, bembesca al toscano vivo, il 
h alcun difensore nel dialogo, giacché il Bembo sostiene la sua tesi 
ouettmtLoc 11 Cortigiano quella dell’uso delle corti de poche parole che 
qq ) ® s ‘ ultuno sembra spendere a favore del fiorentino moderno - p. 60 - servono 
®°J°P® r Provocare la confutazione del Bembo). Lo Speroni tessè anche le lodi del 

D£?o«o^X 0 S5«‘ to ' Sbre ^ 8 t0m6 “W“ nel tordo 


312 


Stona della lingua italiana 


Vediamo ora le opinioni dei fautori delle tesi eclettiche moderne 
(lingua cortigiana, lingua comune italiana). 

H primo nome in cui ci imbattiamo è quello di Vincenzo Colli, detto 
(dal nome d’un «pastor solennissimo» nel Filocolo del Boccaccio) il 
Calmeta 84 . Nato di famig lia «insubre» a Chio nel 1460, morto nel 1508, 
fu mediocre poeta. Aveva scritto un trattato Della vulgar poesia, in 
nove libri, che è andato perduto, e che solo conosciamo attraverso 
quello che ne dicono il Bembo (nelle Prose ) e il Castelvetro (nella 
Correttione d' alcune cose nel Dialogo delle lingue di B. Varchi, et una 
Giunta al primo libro delle Prose di M. Pietro Bembo , Basilea, 15721 . Il 
Calmeta a quelli che volevano scrivere in versi «commenda oltre a 
tutte le altre lingue d’Italia» la fiorentina, consiglia lo studio di 
Petrarca e del Boccaccio, e per affinare e arricchire la lingua che così si 
saranno procurata raccomanda di attenersi al modello della corte m 
Roma: di qui il nome di lingua cortigiana di cui si serve il Calmeta . 

Altri fautori della lingua cortigiana sono Mario Equicola, Angelo 
Colocci e Giovanni Filoteo Achillino, i cui nomi troviamo, insieme con 
quello del Calmeta, nelle Collettanee Grece Latine e Vulgan che furono 
pubblicate nel 1504 per onorare la memoria di Serafino Aquilano. 

Mario Equicola, nato ad Alvito (fra Sora e Cassino) nel 1470, iu 
segretario dei Cantelmo di Sora, e poi alla corte di Mantova, ff suo 
libro De natura de amore, che egli aveva composto in latino in età 
giovanile, fu poi da lui stesso tradotto (benché egli pensasse di 
attribuire la traduzione a suo nipote Francesco Prudenzio); la prefazio- 
ne contiene un’apologià della lingua cortigiana e un invettiva contro la 

toscana^recchi pagsi del Ubro rEquico i a s j sofferma sulla scelta tra il 
parlar fiorentino e il parlar cortigiano, praticamente inclinando verso il 
secondo. Egli loda Giovanni Iacovo Calandra mantovano perché nella 
sua Aura «non con vocaboli dal latino fastidiosamente tratti ha sua 
inventione vestita ma di parole con indefessa diligenza dalla corte 
elette» (c. 38 b dell’ed. 1531). Più oltre dà consigli a chi frequenta le corti 
sul modo di parlare-, è bene evitare le forme plebee del proprio naturale 


84 Tutto quello che ci rimane del Calmeta è stato pubblicato da C. Grayson, 

B ° ’VLe testimonianze non coincidono del tutto, probabilmente perché il Bembo, 
che aveva conosciuto il Calmeta e aveva discusso con lui a Urbino, si riferisce 
alle idee del Calmeta quali le ricordava, mentre il Castelvetro s attiene più da 

'ao p Rajna «La lingua cortigiana», in Miscellanea linguistica... C. I. Ascoli, 
Torino 1901, pp.' 295-314; F. Neri, «Nota sulla letteratura cortigiana del Rmasamen- 
to» in Bulletin italien, VI, 1906 Crist. in Letteratura e leggende, Tonno 195L PP- 1-9)- 
87 Nel testo stampato del Libro de natura de amore, Venezia 1525, 1 Equicola 
espone molto più in breve le sue idee (nella dedica a patella dEstel 
Si veda il testo della prefazione ap. Remer, Giom. stor. iett. ital., XIV, 1889, p. 227, 
per l’attribuzione della traduzione e per le pagine introduttive v. ora G. Castagno, 
Lingua nostra, XXIII, 1962, pp. 74-77. 


Il Cinquecento 


313 


dialetto, attenersi al fiorentino solo se si è sicuri di proferirlo bene, cosa 
difficilissima, dilettarsi delle parole che non siano aliene o remote dal 
comune uso (cc. 161-162 dell’ed. cit.). 

Angelo Colocci di Iesi, dal 1497 stabilito a Roma con importanti 
uffici presso la Curia, oltre che lo studio delle lingue classiche, coltivò 
quello delle lingue neolatine. Nell’Apologià di Serafino (nelle Colletta- 
nee già cit.) difende il Ciminelli per non essersi reso familiare il toscano: 

pongasi da un lato l’auctorità de’ Toscani, dicamo ch’egli habbi usato el suo 
materno ydioma, che ben era iusto che in tante carte da lui vergate & scripte 
qualche segno della sua propria ve rimanesse. Et lassamo star che Dante, 
secondo che lui dice, con ogni industria sforzavasi ampliar la sua vemacula 
lingua, & pur nell’alta Comedia più tosto dicer volse la nostra pica che la sua 
ghiandaia & altri nostri vocabuli infiniti, in ciò scusandolo se alle volte non è 
stato verecundo della novità delle vocabuli. Benché nisuno edicto ne prohibisce 
proferir quelle parole (sì sono ingenue) che la nostra nutrice con le canzon de la 
cuna & con l'arte n’ha insegnato; senza che essendo el Sleraphinol subdito & 
propinquo al Regno di Napoli, non è fuor d’honestà ch’a Sicilia, matre delle rime, 
se sia alle volte conformato (p. 31 della rist. Menghini). 

Dagli appunti del Colocci (conservati nel manoscritto Vat. 4817) 
possiamo conoscere le sue opinioni intorno alla lingua, le quali si 
distaccano sia da quelle del Calmeta, sia da quelle del Trissino: «La 
lingua è comune. Ma quando ben in Italia non sia una lingua comune, 
certo quella che Petrarca di tante lingue ha facto per imitazione, è 
comune» (c. 1 a). L’inconveniente maggiore nasce dagli idiotismi, di cui 
il fiorentino abbonda («le metaphore che da lingua a lingua sono 
diverse, e’n questa fanno ornato e difficultà alli peregrini»); cita come 
esempi cilecca, schembo, ribotoli, chente e il dantesco s’insala ; «la 
fiorentina è la più pericolosa di queste metafore, che è quasi tra loro 
una cifra» (c. 54 a). Egli vorrebbe ricollegare la sua «lingua comune» 
alle lingue preromane d’Italia: «È mia opinion che sempre fu el 
Vulgare. Altra cosa era la lingua latina, altra la picena (citata prima 
fra le altre dall’autore iesinol, osca e tosca et sabina. Nui che 
componemo nella comune lingua de Italia, non la latina, ma la comune 
cerchiamo imitare» (c. 115 a) 88 . 

Abbiamo citato tra quelli che parteciparono alle Collettanee anche 
Giovanni Filoteo Achillino, che ne fu, anzi, l’editore. Troviamo l’espres- 
sione delle sue idee nelle più tarde Annotazioni della volgar lingua 
(Bologna 1536), in forma di dialogo, nelle quali è satireggiata la lingua 
toscana e difesa la «comune». Egli vorrebbe scrivere cognosco e non 
conosco, Gieronimo e non Girolamo, Olempo e non Olimpo, epistola e 
non pistola, e così via. Alcuni vocaboli di Dante, di Petrarca e del 
Boccaccio, che l’Achillino trova strani, sono severamente biasimati. 


“ G. Salvadori, «Lingua comune e lingua cortigiana negli appunti di A. 
Colocci», in Fanfulla della domenica, 16 maggio 1909. 


314 


Storia della lingua italiana 


Il Cinquecento 


315 




A colloqui sulla lingua tenuti alla corte di Urbino si ricollegano 
anche le pagine del Cortegiano di Baldassarre Castiglione. Benché, per 
il titolo del famoso suo libro, egli sia stato ritenuto fautore della «lingua 
cortigiana» (come tale lo fa intervenire il Tolomei nel dialogo II Cesano), 
egli non adopera mai questo termine 89 . 

Nei capitoli 28-39 del I libro del Cortegiano il Castiglione immagina 
di riferire certi ragionamenti tenuti alla corte di Urbino, nel 1507: si è 
stabilito per gioco di «formare con parole un perfetto Cortegiano», e fra 
le altre qualità sociali che il cortigiano deve avere, c’è quella della 
lingua. I principali interlocutori sono il conte Ludovico di Canossa, che 
interpreta le opinioni del Castiglione, e Federigo Fregoso, che sostiene 
idee molto affini a quelle del Bembo. Meno importanti sono gli 
interventi di altri, come il magnifico Giuliano de’ Medici (che già 
conosciamo dalle Prose del Bembo), il card. Bibbiena e altri ancora. 

Anche per ciò che concerne la lingua il canone essenziale è un 
canone di buon gusto sociale: evitare l’affettazione. Dunque, sostiene il 
Canossa, bisogna anzitutto evitare gli arcaismi. Non però scrivendo, 
controbatte il Fregoso. E il Canossa si sofferma sui rapporti fra lingua 
parlata e lingua scritta: «è ragionevole che in questa si metta maggior 
diligenzia, per farla più culta e castigata; non però di modo, che le 
parole scritte siano dissimili dalle dette, ma che nello scrivere si 
eleggano le più belle che s’usano nel parlare». 

Il Fregoso sostiene piuttosto che nella scrittura sia bello usar parole 
«non dirò di difficultà, ma d’acutezza recondita». Meglio di tutto, anche 
per evitare le difficoltà che nascono dalle diverse consuetudini delle 
città nobili d’Italia, è attenrsi all’uso del Petrarca e del Boccaccio. 
L’ideale del Canossa è invece eclettico: non è nemico del toscano, ma è 
tutt’altro che incline a limitare ad esso la scelta: vuole che si usino 
«scrivendo e parlando quelle Iparolel che oggidì sono in consuetudine 
in Toscana e negli altri loci della Italia, che hanno qualche grazia nella 
pronuncia». Saranno da evitare gli arcaismi, ma non quei francesismi e 
quegli spagnolismi «che già sono dalla consuetudine nostra accettati». 
Insomma il suo ideale è una lingua che «se ella non fosse pura toscana 
antica, sarebbe italiana, commune, copiosa e varia». 

Nella lettera dedicatoria (premessa all’edizione del 1527, cioè di 
parecchi anni posteriore" alle discussioni provocate dal Bembo e dal 
Trissino), il Castiglione risponde, piuttosto che ai dissensi suscitati dai 
ragionamenti del Cortegiano in quelli che intanto l’avevano letto, alle 
censure mosse alla sua lingua; e conferma di non essersi voluto 
obbligare a seguire la consuetudine del toscano modernamente parla- 
to, e tanto meno quella degli scrittori toscani antichi. Se in Toscana si 
usano «molti vocaboli chiaramente corrotti dal latino, li quali nella 
Lombardia e nell’ altre parti d’Italia son rimasti integri e senza 


88 Probabilmente, come ha pensato il Rajna, per non confondersi con i 
partigiani della tesi del Calmeta. 


mutazione», perché attenersi alle forme toscane? Il Castiglione insiste 
qui sugli argomenti che già aveva svolti nel dialogo, a proposito di 
coppie come popolo - populo, orrevole - onorevole e s imili fin cui tuttavia 
egli non si rende conto che le forme che considera rimaste integre sono 
invece latinismi). Non «credo - conclude il Castiglione - che mi si 
debba imputare per errore lo aver eletto di farmi piuttosto conoscere 
per lombardo parlando lombardo, che per non toscano parlando 
troppo toscano» (secondo il noto aneddoto di Teofrasto, il quale fu 
riconosciuto come non ateniese perché parlava troppo ateniese). 

Risulta chiaro che le discussioni sulla lingua erano frequenti nelle 
cor ^\„ s ®^ ;en ^ 0 ? a ^ (specialmente Urbino e Mantova) e alla corte 
pontifìcia nei primi lustri del secolo, e si inclinava in esse alla soluzione 
«cortigiana». 

Giangiorgio Trissino, gentiluomo vicentino, portò a rincalzo dei 
partigiani di quella tesi l’autorità di Dante o almeno di ciò che egli 
credette di vedere nel De vulgati eloquentia quando fu venuto in 
possesso di una copia del trattatello dantesco (e cioè dell’esemplare 
che poi passò alla Biblioteca Trivulziana). Il Trissino fece conoscere il 
contenuto dell opera (e forse ne fece vedere il manoscritto) a quel 
gruppo di letterati che si radunava negli Orti Oricellari, in uno dei suoi 
soggiorni a Firenze, probabilmente in quello del 1514; e continuò a 
parlarne nelle sue permanenze a Roma (1514-18, 1524, 1526). ®°. 

Il Trissino verso la metà del novembre 1524 pubblicava la sua 
Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua italiana, in cui 
giustificava la nuova grafìa, con gli e e gli w, applicata nella sua 
edizione della Sophonisba nel settembre dello stesso anno. 

Nella lettera il dotto vicentino parlava, fin dal titolo, di «lingua 
italiana», e distingueva nettamente, specie per la pronunzia, tra un uso 
toscano (o tosco, o fiorentino ), e un uso cortigiano e commune. La nuova 
ortografia, a suo credere, avrebbe aiutato «mirabilmente ad asseguire 
la pronunzia Toscana, e la Cortigiana, le quali senza dubbio sono le più 
belle d’Italia». Nella Sophonisba, egli dice, «tanto ho imitato il Toscano 
quanto eh io mi pensava dal resto d’Italia poter esser facilmente inteso; 
ma dove fi Tosco mi pareva far difficultà, l’abbandonava; e mi riduceva 
al Cortigiano, e commune». Qualche volta egli si è «troppo al Fiorenti- 
no accostato», come nella pronunzia aperta dei dittonghi ie e uo, 
«perciò che giudico manco riprensibile peccato 1’accostarsi troppo al 
Toscano, che ’l discostarsi troppo da esso» 91 . 

L’Epistola sollevò un coro di proteste, principalmente fra i Toscani: 
Lodovico Martelli, Angelo Firenzuola, Claudio Tolomei (sotto il nome di 
Adriano Franci) impugnarono le proposte ortografiche del Trissino; e 


. . *? Nacque dai colloqui fiorentini un’operetta vivacemente polemica del 
Machiavelli, di cui parleremo più sotto (p. 320). 

, ^^uesto passo figura molto accorciato nella seconda edizione dell’Epistola, 
pubblicata nel 1529. Lo cito dall’edizione originale, tuttavia abbandonando le 
peculiarità grafiche trissiniane. 


316 


Storia della lingua italiana 


ad essi si unì anche un veneto, Nicolò Liburmo. Insieme 
argomenti più propriamente ortografici, gli avversari del Tnssmo 
discussero il nome di «italiana» dato alla lingua dal dotto vicentin : 
specialmente il Martelli sosteneva la fiorentinità della lingua ed 
impugnava l’autenticità del De vulgati eloquentia. 

Il Trissino rispose nel dialogo II Castellano, composto nel 1528 e 
pubblicato nel 1529. L’azione del dialogo è coUocata poro dopoda 
pubblicazione dell'Epistola: vi prendono parte Giovarmi RuceUai Gnomi 
Sato da Clemente VII castellano di Caste 1 Sant Angelo e imorto nel 
1525, il quale presenta le opinioni del Trissino, suo fraterno ami , 
Filippo Strozzi Gl quale spesso cita letteralmente ì passi del Martellìi, 

Iacopo Sannazzaro, Antonio Lelio e Arrigo Dona: J^^ribiSce 

fratello di quel Giovanni Battista Dona a cui il Tnssmo _ tnouisce, 
nell’edizione di quello stesso anno 1529, la traduzione del De vulgari 
eloquentia. I due principali interlocutori Gl Rucellai e lo Strozzi) sono, si 

noti, ambedue fiorentini. , . 

Da principio il Trissino sta sulla difensiva. Gli avversari lo rimpro- 
verami di aver «spogliato la Toscana del nome della sua lingua»; 
niente affatto: egli ha solo parlato di «lingua 

considera che la lingua toscana è italiana, e una fra le Più ^i^i tra le 
lingue italiane. Poi egli passa (sempre per bocca del Castellano) 
all’offensiva: non è vero che i più antichi scrittori abbiano adoperato 
toscano: i più antichi poeti sono stati i Siciliani, «alle cui canzoni e 
sonetti troverà essere più simili le rime di Dante e del Petrarca, chenon 
sono a quelle di coloro che hanno scritto m fiorentino P^o ^ome il 
Burchiello, Battista Alberti, Matteo Franco, Luigi Pulci e altri» (p. 21 
dell’ed. Daelli). Infatti fi Petrarca ha evitato di scrivere vocaboh «propri 
fiorentini» come testé, costì, costinci, cotesto, guata, allotta, suto. Lo 
Strozzi obietta, riportando le parole del Martelli: si provi a prendere gh 
scritti di Dante, del Petrarca, del Boccaccio, o magari quelli del Tnssmo 
stesso, e si provi a farli leggere nel contado di Ferrara, o di ^enzaodi 
Genova, e poi invece in quello di Firenze: si vedrà che : solo 
naturalmente intesi saranno». Alcune pagine piu in là Ipp. 37-38 Daelli) 
il Castellano dirà rispondendo: 

vi dirò che ’l Petrarca meglio s’intende in Lombardia che in Fiorenza;... che 1 
Petrarca sia naturalmente inteso altrove che in Toscana si può non solamente 
SnoTcere per gli uomini, ma ancora per le donne, in cui più nmane la puntèdel 

parlare delle loro regioni, che negli uomini, perciò che ^J^^^^amentt 
hanno così pratica di forestieri come loro. Quelle di Lombardia certamente 
meelio intendono il Petrarca, che le nostre di Toscana; e questo avviene perché 
neU’etrarca è molto del parlare comune, e poco del particular nostro fiorentino. 

Per intendere questa strana asserzione, dobbiamo evidentemente 
riferirci alle gentildonne che il Trissino frequentava, e non alle donne 
di auegli strati popolari a cui invece si riferiva il Martelli. 

Le argomentazioni intorno al nome da darsi affa som- 

condotte con definizioni e classificazioni di tipo scolastico: vi si discute 


Il Cinquecento 


317 


di generi e specie, di sostanze e accidenti, senza approdare a nulla. Si 
cerca di chiarire la questione del nome della lingua per mezzo d’un 
paragone con una persona (Filippo Strozzi che può esser chiamato 
Filippo Strozzi come individuo, oppure uomo come specie, o anche 
animale come genere): è un paragone che tornerà spesso nella disputa, 
malgrado la sua fallacia d’individualità storica di una lingua è molto 
diversa da quella di una persona, perché più multiforme e diuturna). 

Le dottrine dantesche che il Trissino ha ricavate dal De vulgati 
eloquentia sono continuamente presenti, anche se il trattato viene 
citato solo verso la fine. Ma il Trissino interpreta a modo suo il trattato 
di Dante: anzitutto identificando senz’altro il volgare illustre cercato 
da Dante con la lingua italiana; poi allegando la Commedia a riprova 
del modo con cui la lingua si deve mettere insieme: 

la Commedia istessa il manifesta, sendo piena di vocaboli, e di modi di dire di 
tutta i’Italia, i quali per nessun modo si possono dir fiorentini. 

Il criterio dantesco della discretio, che è principalmente «eliminazio- 
ne», è inteso dal Trissino come «mescolanza»: 

per meglio conoscere poi la lingua di Dante e del Petrarca, pigliamo i loro scritti 
in mano, e veggiamo se i vocaboli di quelli sono tutti fiorentini, o no; e 
chiaramente vedremo, che non saranno tutti fiorentini: perciò che ed aggio e 
foraggio, e dissero e scrissero, e molti simili, che sono formazioni siciliane; e poria, 
e diria, e molti simili, che sono lombarde, e guidardone, alma, salma, despitto, 
respitto, strale, coraggio, menzonare, scempiare, dolzore, folla, cria, scaltro, quadrel- 
lo, mo, adesso, sovente, e moltissimi altri vi si leggono, che non sono fiorentini. 
Adunque non essendo i loro vocaboli tutti fiorentini, nè toscani, non si può la loro 
lingua con verità nominare fiorentina, nè toscana... (pp. 45-46). 

Infine, va osservato che, nell’appoggiare la propria tesi al De vulgati 
eloquentia, il Trissino non distingue minim amente le condizioni dell’età 
di Dante da quelle del suo tempo. 

Con ogni probabilità di poco posteriore all’Epistola del Trissino, e 
cioè del 1524 (benché l’azione del dialogo sia posta al tempo di Leone 
X), è il Dialogo della volgar lingua dell’umanista bellunese Giovanni 
Pierio Valeriano, ossia Giovan Pietro Bolzani 82 . Abbiamo, propriamen- 
te, un dialogo inserito in un altro (come nell’operetta dello Speroni): il 
Valeriano immagina che Angelo Colocci riferisca ad Angelo Marostica 
e a Lelio Massimi (fautori come lui della lingua cortigiana, e spregiatori 
dell’andazzo toscaneggiante venuto di moda ai tempi di Papa Leone) 
un dialogo a cui l’ecclesiastico iesino avrebbe assistito presso il 
cardinale Giulio de’ Medici (il futuro Clemente VII): vi partecipano, 


92 II dialogo fu pubblicato a Venezia nel 1620, e poi ristampato a Belluno nel 
1813, e a Milano nel 1829 e nel 1842. Sull’atteggiamento del Valeriano, v. Croce, 
nella Critica, XLII, 1944, pp. 113-120. 


318 


Stona della lingua italiana 


dopo alcune parole del cardinale stesso che si dichiara neutrale, il 
Trissino, Alessandro de’ Pazzi, Claudio Tolomei, Antonio Tebaldeo. 

Parte della conversazione verte sulle origini remote dell’italiano, 
cioè sui rapporti di esso con il latino, il greco, l’etrusco; e su questo 
punto possiamo sorvolare. L’autore evidentemente parteggiava per le 
idee sostenute con garbo e moderazione dal Trissino (e, con maggiore 
decisione e asprezza, dal Tebaldeo): ma non tanto da non lasciar 
esporre con ima certa efficacia dal Tolomei e dal Pazzi la tesi toscana. 

Poche volte si viene all’esemplificazione concreta, e quasi sempre 
nel campo lessicale: il Trissino nega che parole come corpo, regno, vasi, 
fiumi si possano dire toscane, perché tutta ITtalia le possiede; mentre 
considera come voci propriamente toscane cinguettare, cavalcioni, 
civanza, tuttatré... arrubinargli... gnaffe...-, sono i vocaboli che si leggeva- 
no nel Boccaccio, ma non erano entrati nell’uso comune. Quando passa 
a considerare qualche particolarità fonetica toscana, il Valeriano 
punta sui plebeismi: da un laudando del Petrarca egli trae, per bocca 
del Trissino, ima doppia argomentazione: contro i fiorentini moderni 
che pronunziano laldando (vizio che egli attribuisce anche alle persone 
colte, tant’è vero che egli fa che cosi legga anche il Pazzi); e a favore del 
largo uso dei latinismi ( laudare in luogo di lodare ), uso che è caratteri- 
stico della lingua cortigiana, mentre il toscano preferisce le forme 
proprie, che dal latino si sono discostate (ciò che per il Tolomei era un 
vanto, e per il Trissino un demerito). 

Man mano che si va innanzi nel secolo, le menzioni della lingua 
cortigiana si vengono facendo sempre più rare ed incerte 93 . 

Difende il nome e il concetto di lingua italiana anche Girolamo 
Muzio (anzi Hieronimo Mutio, per attenerci alla sua volontà). Il volume 
postumo intitolato Battaglie in diffesa dell’italica lingua (Venezia 1582) 
comprende scritti concepiti e composti in periodi diversi, dal 1530 al 
1573: dalla risposta ai due famosi discorsi dell’Amaseo alla Varchina, 
diretta contro YHercolano del Varchi. In tutto il libro, più o meno 
severamente secondo i tratti, il Muzio nega un qùalsiasi primato del 
fiorentino: il Bembo con qualche riguardo aveva detto che non era di 
molto vantaggio il nascer fiorentino; egli ritiene addirittura che sia uno 
svantaggio. Mira sempre alla lingua degli scrittori «che universalmen- 
te per tutta Italia viene intesa» (c. 31 b della cit. ed. del 1582). Gli 
stranieri che vengono in Italia potranno facilmente imparare l’italiano, 
ma non il fiorentino che è così pieno d’idiotismi (c. 79 a). 

È necessario a chi vuole che gli scritti suoi con laude siano ricevuti da tutte le 
regioni d’Italia, studiare et dar opera a’ buoni libri, et conversar anche fra noi 
altri Italiani (a’ Thoscani parlo) per tinger anche de’ colori della nostra tintura. 


83 Ancora Paolo Giovio al principio del Dialogo delle imprese, composto nel 
1550 circa, professava di non volersi obbligare «alla severità delle leggi di questo 
scelto toscano; perché io voglio in tutti i modi esser libero di parlare alla 
cortigiana». 


Il Cinquecento 


319 


differenza farà da chi con la lingua appresa dalle balie et dal popolo 
3 . n ^rl ere ’ a ^ Ual !. haverà data opera a £ U ornamenti ch’io dico; tante dico 
SttSSS ? lo WL* de gU ^ a « ueUi de a ^. ^ante dalla Eneida 

Da’ libri bisogna imparare a scrivere, ributtando la opinione di coloro che 
hanno per sofficienti maestri di buona lingua le balie, & il popolo (c. 116 b). 

Biasimato una volta a Firenze, in casa di Tullia d’Aragona di non 
® ape f. benG s 1 CI } vere fiorentino, perché forestiero, rispose con un 
proclamaI e0Plat0negglante * TuUÌa (c ’ 35 a) ’ la cui ^ima terzina 

Et si vedrà che non i fi umi Thoschi, 
ma 1 del, l’arte, lo studio, e 7 santo amore 
dan spirto e vita a i nomi et a le carte 94 . 

si vede, più ancora che i fautori della lingua cortigiana, che 
s appellano a un modello sociale, sia pure difficilmente afferrabile il 
Muzio insiste sulla necessità per i singoli d’un raffinamento letterario 
eclettico per raggiungere un linguaggio ideale. 

deUa lingua, «comune», «cortigiana», «italiana», si appun- 
tano principalmente contro le forme troppo idiomatiche del fiorentino e 
in genere del toscano, mirando insieme alla nobiltà dell’espressione e 

i7cc,vtr a ux V versaU ! :à - i Essi preferiscono nelle peculiarità fonetico- 
lessiCAh conformarsi al latino piuttosto che al toscano (febre, obedire 
patrone, populo, Capitoli o, dicere, facere, honorevole e non horrevole 
palazzo e non palagio), accolgono forme analogicamente regolari (dei 
tipo legger leggiuto), rifiutano i toscanismi che si oppongono alla 
1 ® tt ®. rai ? a &ià invalsa (messi , detti, per misi, diedi). Certo è 
ben valida 1 obiezione che fanno i Toscani, che non si tratta di una 
«lmgua» completa, ma solo di particolarità singole, sulle quali anzi non 
w è a fi C ° rd ° tra 1 y an Antitoscani: questa pretesa lingua, obietta il 
pare < ?£ e chiainar Cortigiano si deggia, quanto il 
odorifero delle sagrifìcate vittime, sagrificata carne chiamar si 
deve» (Risposta alla Epistola del TYissino, c. 5 a). 

I tratti che accomunano queste teorie sono l’aspirazione a una 
lingua comune svincolata dalla dipendenza dal toscano e fondata sulla 
letteratura; ciascuno scrittore avrebbe potuto e dovuto formarsela a 
proprio modo, con una libera scelta della propria elocuzione. 

A queste tesi variamente eclettiche si opponevano i Toscani, e in 


94 Similmente nell’Arte poetica (c. 70): 

Siccome a’ Greci, e siccome a’ Latini 
nascer assai non fu greci o latini, 
cosi non basta il nascimento tosco. 

La beltà, la nettezza della lingua ~ 
si conserva tra i libri, © da* scrittori 
scriver s impara, e non da volgo errante. 


320 


Stona della lingua italiana 


particolar modo i Fiorentini, su cui ci dobbiamo ora soffermare. Le 
discussioni sulla lingua, che certo si erano fatte a Firenze anche nel 
Trecento e nel Quattrocento, furono rinfocolate dalla scoperta trissi- 
niana del De vulgati eloquentia : il ricordo delle conversazioni tenute 
negli Orti Oricellari a proposito del trattatello rimase vivo per decenni 
e fu raccolto dal Gelli e dal Varchi. 

Fu allora (probabilmente nell’autunno del 15 14)® 5 che il Machiavelli 
dovette prender la penna e scrivere quel suo Discorso ovvero dialogo in 
cui si esamina se la lingua in cui scrissero Dante, il Boccaccio e il 
Petrarca si debba chiamare italiana o fiorentina. Egli viene discutendo a 
favore della fiorentinità della lingua contro quelli «meno inonesti» che 
vogliono che sia toscana e quelli «inonestissimi» che la chiamano 
italiana. Bisogna confrontare, egli dice, la lingua di Dante, di Petrarca 
e del Boccaccio con quella di tutti i luoghi d’Italia; per semplicità si 
potrà tener conto solo delle «provincie», cioè Lombardia, Romagna, 
Toscana, terra di Roma e regno di Napoli. Se si tien conto, come è 
necessario, anche della «pronunzia», delle «circumstanze», delle paro- 
le, e si confrontano gli scritti delle tre corone con «qualche scrittura 
mera fiorentina o lombarda o d’altra provincia d’Italia, dove non sia 
arte, ma natura» (per Firenze il Machiavelli prende il Pulci), si vedrà 
che hanno scritto in fiorentino. Qui s’innesta il dialogo in cui Niccolò 
prende a tu per tu Dante, e con buoni argomenti misti a cavilli 
avvocateschi fa che il poeta riconosca d’aver torto. 

Non v’è lingua, continua il Machiavelli, che sia semplice, tutte sono 
miste-, ciò che più conta è la capacità di poter assorbire bene le parole 
forestiere: 

— quella lingua si chiama d’una patria, la quale convertisce i vocaboli ch’ella ha 
accattati da altri, nell’uso suo, ed è sì potente, che i vocaboli accattati non la 
disordinano, ma ella disordina loro; perché quello ch’ella reca da altri, lo tira a sé 
in modo che par suo. 

Quindi anche un certo numero di parole prese da altre fonti non 
impediscono che si continui a dare lo stesso nome a una lingua, purché 
rimangano intatte le caratteristiche fonetiche e morfologiche: 

tu [Dante!, che hai messo ne’ tuoi scritti venti legioni di vocaboli fiorentini, ed usi i 
casi, i tempi e i modi e le desinenze fiorentine, vuoi che li vocaboli awentizii 
facciano mutar la lingua? 

Se si considera poi il parlare delle varie corti, si vedrà che è molto 
vario e mutevole. Il Machiavelli nota che gran parte della comunanza 
di lingua che a suo tempo già esisteva fra gli Italiani colti era dovuta al 
fatto che nelle varie regioni si era diffuso il culto dei tre grandi 
trecentisti, e «molti vocaboli nostri sono stati imparati da molti 


85 P. Rajna, «La data del Dialogo intorno alla lingua di N. Machiavelli», in 
Rend. Acc. Lincei, s. 5 a , II, 1893, pp. 203-222. 


Il Cinquecento 


321 



ed osservati ^ loro, talché di propri nostri son diventati 

P ?- L n ° n T ? x scani affrontino generi letterari in cui manchi- 
no modelli antichi, com è specialmente la commedia, debbono ricorrere 
al toscano se non vogliono fare troppo sgradevoli miscele come 

dafia nrim°« lta h su . ccess ? all’Ariosto nei Supposta 01 Machiavèlli cita 
dalla prima redazione, m prosa). Se si vedono ora «assai Ferraresi 

7c entim e Veneziani che scrivono bene» (Fautore alludè 
al Sannazzaro al Tnssmo, al Bembo), ciò si deve al fatto 
che Dante, il Petrarca e il Boccaccio hanno scritto prima di loro e così 
nelle vane regioni si è dimenticata la «naturale barbaria». 

Se lasciamo da parte le argomentazioni contro Dante, vivaci ma 
cavillose, lo scritto del Machiavelli è ricco di spunti notevoli: special- 
mente la rivendicazione dell’importanza dei tratti fonetici e morfologi- 

, affennazione della capacità delle lingue di riplasmare 
strutturalmente le parole avventizie. 

. , Un’altra energica difesa della tesi fiorentina è quella di Lodovico 

<^? e - 1Ca Ì a ,! a prima parte (cc - 2 a • 8 W della Risposta 
(ola del Trissino delle lettere nuovamente aggionte alla lingua 

volgar fiorentina (pubblicata a Firenze alla fine del 1525 ). Il Martelli 

£re a - quel f- he 41106 U Trissino n eda sua lettera, quando parla di «tre 
delle Italiane lingue... ciò è Toscana, Fiorentina et Cortigiana». Sicco- 
me «ogni lingua nasce dall’uso di chi parla» (c. 2 b), provi il Trissino a 

* D ,? nte 6 del Petrarca ’ 6 veda se «per il FeSSese 
ri V nt T’ Ò Genovese od altri simili... cotali scritti sono dalli 
volgari huomim di quelli luoghi intesi» (c. 3 a); invece nei «contadi 
T 6so f^ et Pertieolarmente di Fiorenza... tutti naturalmente intesi 
seranno»: perché pa.tna. cfi una lingua è propriamente quella dove «da 

dubita che sSaDanfe QUaM ° <J ° e ™ lgaH il Marteili 

n Machiavelli che il Martelli impugnano principalmente la tesi 
italiana, mentre considerano insieme fiorentino e toscano 
« Fiorentino, delle Toscane pronontie ha fatto ima elettione, et è in 

niese^ Nlartem 1 ^^ ia ) lstessa ’ guanto al pregio, che in Grecia l’Athe- 

„l come abbiamo già accennato, il Trissino rispondeva 

m ® tter } dom bocca di Filippo Strozzi, debitamente virgolati, 
parecchi passi del Martelli. 6 ’ 

Altro autorevole partecipante alla discussione è Claudio Tolomei il 
bufiti 1 SUQ1 s1 ^. dl iC 1 pa ^ e Perduti, o rimastici in compendio) vide o 
ì^7»fri^L P f reCChie * d « quelle ve P tà che poi la linguistica ottocentesca 
scopri per suo conto . Senese, il Tolomei fiancheggia i Fiorentini nel 


, . ** h Tolomei scrisse parecchio sulla lingua, ma forse per l’intenzione che ehhe 

S C “ e 'T vasta °P e ™ complessiva nèn diede fuori nemmeno ^o s^tto 
linguistico con il suo nome: il Polito fu edito sotto altro nome, ”o“ua 


322 


Storia della lingua italiana 


combattere la tesi arcaizzante e quella cortigiano-italiana, ma quando 
si tratta di scegliere tra la formulazione «fiorentina» e quella «tosca- 
na», sta per la seconda. 

Nel Polito, scritto dal Tolomei e pubblicato nel 1525 sotto il nome di 
Adriano Franci, si tratta delle nuove lettere trissiniane, e non si discute 
del tipo della lingua né del suo nome: vi si parla però spesso di 
«Toscana lingua», «Toscane parole», «Toscana eloquentia». 

Invece la questione è affrontata in pieno nel dialogo II Cesano, 
scritto nella seconda metà del 1527 oppure nel 1528, e pubblicato nel 
1555 97 . Il Tolomei finge di riferire un dialogo tenuto alla mensa del 
cardinale Ippolito de’ Medici, fra l’aprile e il settembre del 1525 (infatti 
vi si sollecita la pubblicazione delle Prose del Bembo). Veramente, più 
che un dialogo, lo scritto è una serie di cinque discorsi successivamente 
tenuti dal Bembo, dal Trissino, da Baldassarre Castiglione, da Alessan- 
dro de’ Pazzi e da Gabriele Cesano (amico e portavoce del Tolomei). Il 
Bembo difende il nome di volgare. Il Trissino, meravigliandosi che 
questa difesa sia fatta proprio da lui («chi fu mai tra’ nobili spiriti, che 
cercasse tanto dal volgo allontanarsi, quanto il Bembo?»), sostiene che 
si debba parlare d 'italiano o di lingua di sì. Il Castiglione è. fatto 
portavoce del nome di lingua cortigiana, richiamandosi a Dante. 
Alessandro de’ Pazzi fa appello al riscontro con la lingua parlata, 
perché la lingua letteraria fuori della Toscana è avventizia, e in 
Toscana stessa ha principal sede a Firenze («ella in Fiorenza è nata, ivi 
ha fatto il nido suo, ivi è nutrita, ivi cresciuta, ivi si parla, ivi s’usa 
perfettamente »). 

Il Tolomei tratta poi, per bocca del Cesano, della natura del 
linguaggio, della funzione dell’uso, della formazione «della toscana 
nostra» che ritiene «assai» del latino, «un poco» dell’etrusco, e «parte» 
delle lingue dei barbari invasori 98 . In queste pagine, il Tolomei risponde 
a coloro che ritengono il toscano null’altro che la latina lingua corrotta, 
e come egli faccia merito al toscano di alcune peculiarità, quale 
l’articolo. Detto della natura del toscano, si viene a parlare della sua 
«escellenza». Poi il Cesano toma alla discussione sul nome, risponden- 
do agli argomenti di ciascuno dei predecessori. La parte più interessan- 
te della discussione è quella rivolta ad Alessandro de’ Pazzi. Il Cesano 
(che è di Pisa e parla per il Tolomei senese) vuole che tutti i Toscani 
amorevolmente godano con i Fiorentini la gloria e il pregio della 


saputa. Dei materiali rimasti inediti alla sua morte si valse largamente (anzi 
troppo largamente) Celso Cittadini. 

97 Cfr. Rajna, «Quando fu composto il Cesano?», in Rassegna, XXV, 1917, pp. 
107-137. 

98 Probabilmente, il lungo escorso intorno alla lingua in generale e ai pregi 
del toscano risulta da un’inserzione nel dialogo di materiali tolti dal primo libro 
di un'opera De l'escellenz a de la lingua toscana, che il Tolomei aveva cominciata, 
di cui perdette il secondo libro durante il sacco di Roma, e che a più riprese ebbe 
l’intenzione di completare. 


Il Cinquecento 


323 


lingua. Riconosce si, parlando della lingua del Boccaccio, che 

fSSSSSS 

assunto e C ° n -° d l certe Piccole differenze come tra 

ggiunto e aggionto, bramarei o bramerei -. tanto più che se no <:i 

anche ” volgari fiorentino, “oS?i SJSJ 
t vo dargnene buona parte, sta sera, eco. Del resto anche Dante e il 

coSl^^ì.5^ SS 1 *' 0 parote tosc '*‘ , e * Unsua toscana - 

secato ^P^ante, Perché l’autore (che nel suo 

^ 14 fra le conoscenze linguistiche le quali solo con 

1 Ottocento dovevano affermarsi) tien conto che una lingua esiste 

poscia li siritSri d che? lgenZe letterari 1 e («Prima certo sono le parole, 

’ h ' B ® magnano quelle con destrezza ed eleganza 

riconosca eh?!?' non fi»™’- V° 4 ? aeUi) ’ benché - naturalmente, 
ZSmn Lr fia mai. ch’una lingua abbia splendore, se ella 

(pp^63 DaeUit d qU6St ° CtUar ° ® quasi eterno sole deUe scritture» 

La tesi «fiorentina» è sostenuta con ardore, verso la metà del se- 
V^ S^PP®** 0 di studiosi, Giovan Battista Gelli, Pierfrance- 
f« n G ^ bldlan : Ca ri° Lenzoni, Benedetto Varchi 99 : quelli ai quah nel 
^^tSa Fl ° rentina aveva dato l’incarico q di scrivere i£a 

• ..Francesco Giambullari (autore di un’opera dedicata al Gelli e 

per ^ ld Il ~ Gell °' 1546 > dov e espone la sua bizzarra idea deila 
discendenza dei fiorentino dall’etrusco e di questo dall’arameo) nel 

CosiiSo il suo^r a S C ^f t0 n don Francesco de’ Medici, primogenito di 
cosuno, il suo trattatello De la lingua che si parla e scrive in Firenze 

H™ó , f 51 B Stil r ftor ' , ' che è la &■»» sSSL’ScaTS 

a utore toscano dopo le Regole quattrocentesche. 
tn w “ a4tateUo è accompagnato da un Ragionamento sopra le difflcol- 
foZt Tri? F g °^ la .^ tr , a lin Z ua ’ scritto da Giovan Battista Celli 
^ * GeUÌ SteSS ° 6 Cosimo Bartoli > e dedicato al 

a sono differenze tra una città e l’altra di Toscana e susciterebbe 
grande invidia cavar le regole solo da Firenze «non ci èssendo cùtaSe 


195e” pp F mS£.‘ P ' GiambuUari e la riforma dell’alfabeto», in St. filai, ital., XIV, 


324 


Storia della lingua italiana 


Il Cinquecento 


325 




alcuna che signoreggi tutta Toscana», e peggio ancora «fare un 
composito di tutte quante». I «forestieri» non contano, e male han fatto 
quei Toscani che hanno accettato alcune parole abusivamente intro- 
dotte da quelli, e che hanno consentito a chiamarla lingua italiana. 

Bisognerebbe considerar la lingua nel suo culmine, e mentre alcuni, 
specialmente non Toscani, ritengono a torto che essa abbia toccato il 
suo massimo nel Trecento, il Gelli e il Bartoli sono d’accordo nel 
pensare che «è molto più bella universalmente, che ella non era nei 
tempi loro», giacché «e la è viva e va all’insù». Se un’accademia è bene 
che non s’incarichi ufficialmente dello spinoso lavoro del fissare le 
regole, può farlo benissimo un privato, come appunto il Giambullari 100 . 

Carlo Lenzoni compose ima Difesa della lingua fiorentina (pubblica- 
ta postuma nel 1556 da Cosimo Bartoli, dopo che il Giambullari se ne 
era preso l’incarico, ed anche lui era morto). 

Nella Prima giornata dell’opera, partecipano al dialogo il Lenzoni, il 
Giambullari, il Gelli, Cosimo Bartoli e un gentiluomo forestiero che 
^desidera consigli, e la discussione si svolge principalmente fra il Celli e 

10 straniero, il signor Licenziado; le idee sostenute sono infatti vicinissi- 
me a quelle esposte dal Gelli nei suoi scritti. 

Echi dei colloqui tenuti intorno al 1550 in Firenze, con argomenta- 
zioni ed esempi simili a quelli del Gelli e dei suoi amici, troviamo anche 
nei Marmi del Doni (1553): curiose le tre lettere scritte una «in toscano», 
una «in lingua volgare», una «in lingua italiana», lette da uno dei 
dialoganti (libro I, ragion. 8, disc. 4): quella in toscano è simile per 
lingua e per tono allo scrivere consueto del Doni, quella «italiana» 
è mescolata di dialettalismi (altrove nei Marmi egli disapprova que- 
sto «italiano» che consiste nell’usare «una parola orvietana, l’altra pu- 
gliese, l’altra calabrese»), quella «volgare» è in stile ricercato e boc- 
caccevole. 

Fautore della tesi fiorentina, ma con significativi accostamenti 
«tattici» alla tesi del Bembo, è YHercolano del Varchi, terminato nel 
1564 e pubblicato postumo (nel 1570). Il dialogo si riferisce principal- 
mente alla questione della lingua, e di scorcio alla disputa fra il Caro e 

11 Castelvetro a proposito della canzone «Venite all’ombra de’ gran 
gigli d’oro» (disputa che solo in piccola parte riguarda la lingua, e su 
cui perciò non ci soffermeremo). 

Insieme con la tesi della fiorentinità, il Varchi vi discute parecchi 
argomenti di filosofia del linguaggio (tutta una prima serie di quesiti è 
dedicata agli argomenti affacciati da Dante nel De vulgati eloquentia ), 
e l’esposizione è piuttosto farraginosa e pesante. Il Varchi definisce la 

100 Le idee del Gelli sono ribadite altrove nei suoi scritti: così nella lettera del 
15 novembre 1551 a Bartolomeo Tolomei (Opere, Firenze 1855, pp. 445-446) e nei 
Capricci del Bottaio, dove il Gelli afferma che solo i Fiorentini scrivono con 
bellezza e con grazia: il Martelli ha dimostrato molto bene che la lingua è 
«fiorentina propria», e che «chi non è nato ed allevato in Firenze, non la impara 
perfettamente» (ivi, pp. 200-201). 


lingua: «un favellare d uno o più popoli, il quale o i quali usano, nello 
sprimere ì loro concetti, i medesimi vocaboli nelle medesime significa- 
zioni, e co medesimi accidenti» (p. 87 dell’ed. Venezia, Giunti, 1570), e 
giustamente dà parecchia importanza alle particolarità fonologiche e 
morfologiche («accidenti»). Essenziale per le lingue è che esse siano 
parlate: 

lo scrivere non è della sostanza delle lingue, ma cosa accidentale perché la 
propria, e vera natura delle lingue è, che si favellino, e non che si scrivano, e 
qualunque lingua che si favellasse, ancora che non si scrivesse, sarebbe lingua a 
ogni modo (p. 91). 

Quindi «ima favella la quale non habbia scrittori, si può, anzi si dee, 
solo che sia in uso, chiamar lingua» (p. 101): prova ne sia il basco («là 
favella biscaina»); è vero tuttavia che non sarà «lingua nobile». 

Venendo a cercare in Firenze il modello della lingua, egli distingue 
quattro strati: i letterati, i non idioti (che possono essere anche nobili e 
ricchi, ma non hanno studi di greco e di latino), gli idioti, e infine 
«1 infima plebe e la feccia del popolazzo», e ritiene «vero, e buono uso 
principalmente quello de’ letterati, e secondariamente quello de’ non 
180). Egli non ritiene possibile che uno possa, scrivere 
perfettamente una lingua viva senza averla imparata da coloro che 
1 hanno ricevuta per natura - almeno fino a tanto che in quella ling ua 
non si sia scritto di tutti gli argomenti (p. 182). Quanto all’«oppinione di 
coloro, ì quali tengono, che così si debba scrivere a punto come si 
favella», è «manifestamente falsissima» (p. 186). 

. 1uòS° capitolo è destinato ai pregi che si possono attribuire alle 
lingue (ricchezza, bellezza, dolcezza, nobiltà, gravità, onestà), e al 
confronto del toscano con il latino e il greco. 

A coronamento dell’opera, si viene a discutere l’argomento che fin 
dal principio (p. 21) il Varchi aveva annunziato (dicendo però che 
conveniva chiarire prima «molte e diverse cose intorno alle lingue»), e 
cioè «se la lingua volgare, cioè quella con la quale favellarono e nella 
quale scrissero Dante, il Petrarca e il Boccaccio si debba chiamare 
Italiana, o Toscana, o Fiorentina». Il ragionamento è del solito tipo 
scolastico, e non manca il tradizionale confronto con il nome delle 
persone: «chi la chiama Fiorentina, la chiama Cesare, chi Toscana 
huomo, chi Italiana animale: il primo la considera come individuo, il 
secondo come spezie, e il terzo come genere» (p. 258): quindi, secondo il 
Varchi, ha ragione il primo. Il De Vulgati eloquentia è respinto come 
probabilmente spurio, e al Trissino è opposto con lodi il Martelli. 

* Qua e là per tutto il libro il Varchi coglie le occasioni per elencare 
numerose serie di sinonimi e modi di dire fiorentini: per es. le pp. 39-86 
sono dedicate alla sinonimia dei vocaboli che si riferiscono al parlare. 
Lo scopo che egli si prefigge è di mostrare la ricchezza della lingua e 
specialmente del fiorentino parlato. Ma benché il Varchi si debba 
collocare tra i fiorentimsti, la sua posizione è notevolmente diversa da 


326 Storia della lingua italiana 

quella del Machiavelli e del Martelli. E la ragione sta principalmente in 
questo: che nei quarant’anni trascorsi tra il Bembo e il Varchi 1 ietterati 
fiorentini hanno largamente accolto la codificazione bembesca, hann 
accettato fi principio che entro l’uso fiorentino così ampio e variato è 
necessario operare una scelta, secondo i modelli scritti del Trecento e 
la schematizzazione che i grammatici ne hanno fatta e ne stanno 

faC Basta vedere le calde lodi che il Varchi fa del Bembo come scrittore 
e come storico; persino a proposito di quella frase che aveva desta o 
tanto scandalo tra i fautori del fiorentino moderno, che non era cioè di 
giovamento l’esser nato fiorentino, il Varchi si sforza di scagionare d 
Bembo: non, s’intende, accettando il giudizio, ma riferendolo alle 

condizioni di quarant’anni prima. , q1 

Anche la divisione dei Fiorentini in quattro strati, abbozzata dal 
Varchi è in servigio del compromesso che si sta . dehneando: 1 
Fiorentini colti sono quelli che sanno di latino e di greco, e che hanno 
accettato la codificazione grammaticale. E il Varchi mette bega, in 
chiaro che non chiede affatto che si scriva come si parla: vuol soio che 
si serbino i contatti con i «non idioti», con la lingua parlata dalla 

b ° r Ipha^n > tutta la vita sociale italiana aria di conformismo, politico, 
religioso, culturale: e non meno che altrove a Firenze, sotto Cosimo I, 
Francesco I, Ferdinando I. Abbondano gli storici, gli eruditi, 1 gramma- 
tici, mancano gli scrittori di primo piano. Tutto questocontnbuiscea 
spiegare come i Fiorentini cólti sostanzialmente s accostino alla formu- 
lazione bembesca. Parlando di fiorentino o di toscano s intende ormai 
principalmente la lingua dei grandi trecentisti, e solo m via accessona 

il fiorentino o il toscano parlato 101 . . , 

Contribuirono specialmente al prevalere del fiorentino arcaizzante 

Leonardo Salviati e l’Accademia della Crusca. . 

Il Salviati già nel 1564 aveva scritto un 'Orazione in lode della 
fiorentina lingua, in cui sono grandi lodi per la lingua del Boccaccio e 
biasimi per quelli che «maremmanamente parlando* pretendono che 
la lingua del Boccaccio sia «così loro come nostra». Egli ntiene che ^per 
«la dolcezza incomparabile» del fiorentino e la «dilettazione* che tu 
l’Italia ne prende, in breve esso si divulgherà anche senza che vi 
contribuisca l’«imperio». 


101 Si ricordi che intanto, con l’annessione di Siena ^ 555 ), lo Stato fiorentino è 
divenuti Stato toscano, e Cosimo 1 ha ottenuto nel 1569 il titolo di Granduca di 
Toscana- quindi i motivi politici favoriscono la divulgazione del termine toscano, 
che salva meglio l’amor proprio dei Toscani non fiorentini (secondo 1 argomenta- 
zfoneiel Tolomei), mentire i Fiorentini tendono a interpretarlo come«ilbnguag- 
«rio narlato in tutto lo Stato, di cui il fiorentino è la varietà migliore». Il Granduca, 
scrivendo al Consolo dell’ Accademia Fiorentina il 2 gennaio 1572, parìa di«regoie 
deil^Ungua toscana» e di «parlar fiorentino ». Nel 1589, Diomede Borghesi è 
nominatola 1 copnre nello studio di Siena una cattedra di lingua toscana. 


Il Cinquecento 


327 


Molto studio dedicò il Salviati al testo e alla lingua del Decamerone, 
in occasione della famigerata «rassettatura». Nel 1573 i «Deputati» 
avevano preparato un’edizione dell’opera del Boccaccio, espurgata per 
ciò che concerneva la morale e la religione; né si erano potuti evitare 
troppo energici tagli. Alla cattiva accoglienza fatta all’edizione, il 
Granduca cercò di rimediare, con il consenso di Sisto V, incaricando il 
Salviati di medicare le ferite troppo profonde inferte all’opera; e la 
nuova edizione uscì nel 1582. 

Gli studi filologici e le osservazioni grammaticali del Salviati sono 
esposti nei due volumi Degli Avvertimenti della lingua sopra ’l Decame- 
rone CVenezia 1584; Firenze 1586; il terzo volume, che doveva completar 
l’opera, non fu mai scritto). Il Salviati discute, principalmente nel 
secondo libro del primo volume, i criteri dell’uso e la necessità dellq, 
grammatica. L’ideale del Salviati è la lingua del Trecento, «il buon 
secolo»: essa da allora è decaduta, specialmente per il troppo latineg- 
giare; la lingua scritta ha ricominciato a migliorare dacché il Bembo e 
il Casa si sono affisati nei classici, mentre «piccol racquisto» s’è fatto 
«nell’opera del favellar domestico». Chi vuole scrivere per le età che 
verranno, deve proporsi di imitare la pura e dolce e leggiadra lingua 
del Trecento, e malissimo fanno quei segretari che si attengono allo 
sconcio uso corrente. 

Il Salviati annunziava negli Avvertimenti (I, p. 129) il suo proposito 
di compilare un vocabolario-, nel 1589 egli morì senza lasciare quest’o- 
pera, ma presto si accinse a darla l’Accademia della Crusca. 

Un po’ diversa era la posizione di Bernardo Davanzati, che, 
osservando la differenza tra la lingua fiorentina viva e «quella comune 
italiana che non si favella, ma s’impara come le lingue morte in tre 
scrittóri fiorentini, che non han potuto dire ogni cosa» Getterà a B. 
Valori, 20 maggio 1599) 102 e riconoscendo che «in quella italiana molti 
grandi hanno scritto mirabilmente», trovava tuttavia che «avrebber 
superato sé stessi, se avessero scritto in questa fiorentina come quei 
tre», e rivendicava a sé il diritto di scrivere in fiorentino «senza tagliare 
i nerbi alla lingua, che sono le proprietà», cioè le locuzioni vivacemente 
espressive. In ima lettera al senese Belisario Bulgarini, egli professa 
«ch’ogni patria debba scrivere come ella favella, e favellare come 
usano i nobili, quantunque forse men bene che un’altra» (27 luglio 
1602) 103 . 

I filologi senesi, dietro l’insigne esempio del loro maggior rappresen- 
tante, il Tolomei, professavano in genere la tesi della lingua toscana: 
così Diomede Borghesi e Celso Cittadini, l’uno dopo l’altro lettori di 
lingua toscana nello Studio senese. Orazio Lombardelli bilanciava i 
meriti delle due città, e concludeva che «a voler dir lingua Toscana 
perfetta, si dee dir, come si dice in Fiorenza per proverbio, Lingua 


102 Opere, Firenze 1853, I, pp. lxxiv-lxxv. 

103 II, p. 546 dell’ed. citata. 



328 


Storia della lingua italiana 


Fiorentina in bocca Sanese» 104 . Un guizzo di vivace campanilismo si ha 
invece in Scipione Bargagli (Il Turammo, Siena 1602), secondato da 
Adriano Politi e Belisario Bulgarini: ma avremo occasione di parlarne 
nel cap. IX. 

Nei frontispizi di molte opere (specialmente delle traduzioni, dove è 
necessario dire in che lingua si traduce) troviamo spesso indicata la 
lingua con un nome che in qualche modo manifesta le opinioni 
dell’autore e dell’editore. Il nome più frequente è quello di volgare, 
lingua volgare, volgar lingua, non di rado accompagnato da epiteti 
complementari (nostra vulgare, lìngua volgare toscana, lingua vulgare 
fiorentina) o laudativi (buona lingua volgare, vulgare elegantissimo ). 
Alcuni altri preferiscono questa lingua o lingua materna. Parecchi 
parlano di toscano, lingua toscana, lingua fosca, thosco idioma . e si 
tratta sia di Toscani sia di non Toscani fautori della lingua trecentesca 
(per es. il Libumio). Rara è l’affermazione di lingua fiorentina e di 
lingua senese-, e anche piuttosto raro lingua italiana, lingua regolata 
italiana 105 . 

9. Grammatici e lessicografi 

D fiorire dell’umanesimo volgare faceva sentire la necessità di poter 
disporre anche per il volgare di regole precise 100 . Le Regole della lingua 
fiorentina rimasero manoscritte fino ai nostri giorni e quindi ebbero 
un’influenza insignificante. I p rimi grammatici furono veneti: mentre 
Pietro Bembo indugiava a presentare al pubblico le sue Prose della 
volgar lingua (che uscirono solo nel 1525), Gian Francesco Fortunio (un 
uomo di legge di origine dalmata, vissuto a lungo a Pordenone) 
chiedeva nel 1509 un privilegio al Senato di Venezia per pubblicare un 
libretto di «regule grammaticale di la tersa vulgar lingua, cum le sue 
ellegantie et hortografia», e nel 1516 pubblicava ad Ancona le Regole 
grammaticali della volgar lingua, molte volte poi ristampate negli anni 
successivi. L’operetta consta di due libri soltanto, che considerano «il 
variar delle voci» (morfologia) e «l’orthographia»: l’autore non pubblicò 
mai gli altri tre libri che prometteva, e che dovevano trattare «delli più 
riposti vocaboli, della construttione varia delli verbi, della volgar arte 
metrica». Il Fortunio si attiene al modello dei grammatici latini, 
specialmente di Piisciano, anche per la terminologia, e fonda l’esempli- 
ficazione sui tre grandi trecentisti. Le pagine sull’ortografia curano 


1M I Fonti toscani, Firenze 1598, p. 29. 

105 Ma si vede che questa espressione guadagna terreno: mentre don Pietro 
da Lucca delle proprie Regole della vita spirituale aveva detto 0538) che erano «in 
lingua materna, e toscana», l’editore di Venezia 1592 affermava che erano in 
«lingua italiana» flM. Regali!, Dialogo del Fosso di Lucca e del Serchio, Lucca 1710, 
p. 56). 

108 Le sommarie indicazioni di questo paragrafo si potranno approfondire per 
mezzo di Trabalza, Storia gramm. e di Kukenheim, Contributions. 


Il Cinquecento 


329 



particolarmente di istruire il lettore sulla scrittura semplice o geminata 

m0lt0 Senttta dal «tlOtBl 

Nelle Prose della volgar lingua del Bembo (1525) la Darte niù 
propriamente grammaticale è contenuta nel terzo libro; ed è Sempre S 
01 U ^ la reto ? ca e * una Poetica fondate sull’imitazione Come 

vSJlh? 1 in S ^I ere ele ? a . ntam f. nte latino imita Cicerone in prosa e 
Virgilio in poesia, cosi m italiano si dovranno seguire soprattutto il 

Boccaccio in prosa e il Petrarca in poesia. Ma l’esemplificarione non è 
limitata a questi due scrittori: spesso è citato Dante, anche se non 
sempre con lode; non di rado Guittone e altri duecentisti I tenSS 
grammaticali, conforme al tono discorsivo che il dialogo porta con sé 

meTo 1 tSc/l -™ 1 r^’ 6 Spesso sostltuit i da indicazioni! di apparenza 
iMmSiriSf 1 CU ? m . t °’ per esem P io < è chiamato voce senza termine 
^ pendente tem P°- Del verbo il Bembo ammette quattro 
maniere, cioè «coniugazioni», come in latino. 

L effetto prodotto gialle Prose del Bembo, come abbiamo già accen- 
nato, fu grandissimo: molti letterati si posero a seguirne le norme e 

rn 0n ^ armUatlC1 a r° mpiiare manuali conformi ai suoi principi! Tali 
, per esempio. Le Tre Fontane di Nicolò Libumio (1526) che 
contengono elenchi di voci ricavate dai tre grandi fiorentini mescolate 
con osservazioni grammaticali e retoriche ' mescolate 

«ricini 29 i i^ rissil \? (che S* 0, nel 1524 > entrando in lizza per la riforma 
ortografica, diceva di avere da «molti anni» pronta una grammatica) 

la Gr ^mmatichetta, che (salvo l’applicazione dei principii 
£5S£Ì? defi’autore) è sostanzialmente descrittiva e fondate S 
NeU medesim ° il Trissino pubblicava i Dubbiigram- 
mancali, dove si tratta principalmente di questioni ortografici 

n P pp«S°’ com ?.~ sl vede - era all’avanguardia nel manifestare la 
necessità duna codificazione grammaticale della lingua, e nel provve- 

vS^r^lVAth^en^Sf^ “ e f idi ? nale usciva nel 1533 la Grammatica 
^tl^^^Antomo Ateneo Carlino), contenente solo il 

h * Del Nome * : a fondamento del suo canone stanno 

il petrarca, il Sannazzaro e gli Asolani del Bembo 107 

Alla metà del secolo i trattati si moltiplicano (Jacomo Gabriele 
Regole grammaticali, Venezia 1545; Rinaldo Corso Fondamenti del 

fire^a*Vene°’ Xt*n? a 15 , 49; Lodovico Dolc e, Osservàtioni nella volgar 
lingua, Venezia 15501, e solo allora troviamo la prima grammatica d’un 

frattato de?r^Slu De a v,J, ngUa Che si parla e scrive in Firenze. Nel 
trattato del Giambullan, pubbhcato, come s’è detto (p. 323) nel 1551-52 

troviamo parecchie innovazioni terminologiche. Anche il Giambullari 

chiama pendente l’imperfetto; dimostrativo l’indicativo ecc • egli conia 

tutta una serie di numi nuovi per sostituire i nomi SecTdeUe %Se 


sa^.’s £■£ •iàsr"*" laMni sui 




330 Storia della lingua italiana 

grammaticali (non ancora, al tempo suo, entrati nell’uso): aggiugnin- 
nanzi (prostesi), aggiugninmezo (epentesi), lev’innanzi (aferesi), ecc. Fra 
i numerosi trattati della seconda metà del secolo va ricordata l’ampia e 
farraginosa compilazione grammaticale-retorica di G. Ruscelli, De’ 
commentarli della lingua italiana libri sette, Venezia 1581. 

Il problema più grave di fronte a cui i grammatici si trovano è la 
difficoltà di formulare in regole brevi, chiare, facilmente accessibili, un 
uso molto oscillante, siaper l’intrinseco carattere della lingua, sia per il 
mancato consflnsn nel riconoscere una norma unica. In molti casi i 
grammatici finiscono con lo scegliere l’una o l’altra delle forme in lotta, 
restringendo così la gamma delle opzioni: e la scelta cade per lo più 
sulle forme arcaizzanti. Ma specialmente quando si tratta di gramma- 
tici non toscani, non mancano di suscitare il malcontento di quelli che 
si ritengono i soli legittimi depositari del buon uso 108 . Tuttavia agisce 
fortemente la spinta «per ridur con le ragioni e con l’autorità gli 
studiosi à seguire il meglio, e così parimente la lingua ad unione» 109 . 

In alcuni studiosi, l’interesse per i problemi grammaticali s’inserisce 
in più vasti e ricchi interessi filologici. Già conosciamo l’ampiezza 
d’orizzonte di Claudio Tolomei 110 . Anche gli scritti del Castelvetro 
(Giunta fatta al ragionamento degli articoli et de verbi di M. Pietro 
Bembo, Modena 1563; Correttione d‘ alcune cose nel Dialogo di B. Varchi, 
et una giunta ecc., Basilea 1572), malgrado le sottigliezze e i cavilli, 
mostrano acume e vastità d’inieressi. 

In occasione della revisione ecclesiastica del Boccaccio, parecchi 
studiosi fiorentini avevano approfondito filologicamente le ricerche 
intorno alla lingua trecentesca. Importanti osservazioni sono contenu- 
te nelle Annotationi et discorsi sopra alcuni luoghi del Decameron fatte 
dalli... Deputati sopra la correttione (Firenze 1574), dovute alla penna di 
Vincenzio Borghini, il «priore degli Innocenti», che le poche opere 
pubblicate e i copiosi appunti inediti ci fanno conoscere come studioso 
competentissimo della lingua trecentesca 111 . Non meno importanti sono 

108 p er c itar solo qualche esempio fra molti, N. Granucci nel suo Specchio di 
virtù (Lucca 1556) si lagna «delle regole e osservazioni, uscite allora intorno alla 
lingua quasi che fosse non più lingua dal nativo terreno data alla provincia-, ma 
una scienza fatta con arte dagli huomini»; il Borghini rimprovera ai grammatici 
non toscani di appigliarsi all’analogia quando non conoscono abbastanza l’uso 
dei grandi scrittori e dei parlanti odierni: «analogia... è una cotal regola che va 
dietro al simile e vuol essere il riparo di chi è straniero in una lingua, o sa poco 
della propria natura» L Annotazioni dei Deputati, p. 45 Fanf.); «molto e’ [il Ruscellil 
s’appicca all’analogia, che gli è gioco forza, perché e’ non ha l'uso» (Ruscelleide , I, 
p. 23), ecc. Nelle Argute e facete lettere (Brescia 1562, p. 165) C. Rao asserisce che «i 
Bergamaschi hanno scritto certe regole Toscane e l’hanno mandate ai Fiorentini, 
acciò fossero da quegli osservate». 

109 Ruscelli, Commentarli, p. 375. 

110 II Tolomei si raccomandava agli amici perché gli facessero conoscere testi 
antichi, (v. la lettera al Paganelli, 1546, in Lettere, Venezia-1547, c. 206 b). 

111 È sua l’edizione del Novellino del 1575, condotta in parte sul codice 
Panciatichiano. 


Il Cinquecento 331 

i già citati Avvertimenti della lingua sopra il Decamerone a opera di L. 
Salviati (1584-86), che contribuirono all’orientamento arcaizzante della 
nascente Accademia della Crusca. 

A Siena, l'insegnamento del Tolomei ha qualche eco in D. Borghesi 
(Lettere familiari, 1578-1603), O. Lombardelli (con molte opere, fra cui la 
più importante è l’Arte del puntar gli scritti, Siena 1585), C. Cittadini. 

A questi interessi filologici (e ad analoghi studi e discussioni 
francesi) si ricollegano le prime e ancora barcollanti ricerche etimologi- 
che: lasciando stare le bizzarrie per cui andò famoso il nome del 
Carafulla 112 e le aberrazioni del Gello del Giambullari, ricordiamo fi 
Varchi 113 e Ascanio Persio, nel suo Discorso intorno alla conformità 
della lingua Italiana con le più nobili antiche lingue, e principalmente 
con la Greca, Venezia 1592. 

Le stesse aspirazioni che diedero la spinta alla compilazione delle 
grammatiche condussero anche a redigere i primi lessici italiani. 

Prescindendo dai repertori latino-italiani, i p rimi vocabolari veri e 
propri nascono solo dopo le Prose del Bembo. Abbiamo anzitutto dei 
glossari: Le tre fontane (1526) del Liburnio, già ricordate, constano 
principalmente di spogli lessicali; un Vocabulario è premesso da 
Lucilio (o Lucio) Minerbi alla sua edizione del Decamerone (1535). 

Il primo repertorio complessivo è il Vocabulario di cinque mila 
vocabuli Toschi, pubblicato a Napoli nel 1536 da un bizzarro letterato, 
Fabricio Luna. Vi si leggono errori stranissimi, come quando il Luna! 
avendo letto nell’Anosto che i Francesi bevono volentieri vino, rima- 
nendo come la lasca all esca (cioè presi come pesci all’amo), non capisce 
(perché non conosce quel pesce che si chiama lasca), e tira a indovinare 
spiegando «favilla del foco». Così egli scambia l’estro con l’ostro e Deio 
con Delfo, e scrive limosina e luterano con l’apostrofo. Ma queste 
ultime almeno sono probabilmente sviste del suo tipografo, «Giovanni 
Sultzbach alimanno». 

Nella seconda metà del Cinquecento si susseguono diverse opere 
sempre meglio corrispondenti alle esigenze lessicografiche: quelle di A 
Acarisio ( Vocabolario , grammatica, et orthographia della lingua volga- 
re, Cento 1543), di F. Alunno (Le osservazioni sopra il Petrarca, Venezia 
1538, Le ricchezze della lingua volgare sopra il Boccaccio, Venezia 1543 
La Fabbrica del mondo, Venezia 1546-48), di ArCitolini (La Tipocosmia, 
Venezia 1561), di G. Mannello (La copia delle parole, in due parti, 
Venezia 1562), di G. S. da Montemerlo (Delle Phrasi Toscane, Venezia 
1566); più fortunato di tutti, il Memoriale della lingua volgare di G. 
Pergamini (Venezia 1601), che si continuò a ristampare anche dopo che 
la Crusca ebbe pubblicato il suo vocabolario 114 . 


112 F. Ageno, in Lingua nostra, XX, 1959, pp. 1 - 3 . 

m h ^?, rrent °' Varchi e gh etimologisti francesi del suo secolo, Milano 1921. 
O. Olivieri, «I primi vocabolari italiani», in Studi di filologia italiana VI 
1942 pp 64-192, Id„ in Cultura neolatina. III, 1942, pp. 268-275, C. Messi, in Atti Ist. 
veneto, CU, 1942-43, pp. 589-620. ’ 


332 Storia della lingua italiana 

Nel terzo decennio del secolo cominciano ad apparire anche i primi 
rimari, quello di Pellegrino Moreto o Morato, mantovano, Rimano di 
tutte le cadentie di Dante e Petrarca (Venezia 1528), seguito da quelli di 
Giovanni Maria Lanfranco (Brescia 1531), di Benedetto Di Falco (Napoli 
1535) e poi da quello di Girolamo Ruscelli, il quale occupa gran parte 
del suo trattato Del modo di comporre in versi nella lingua italiana 
(Venezia 1559) e fu ristampato numerosissime volte nel Cinquecento e 
nei secoli seguenti 115 . 

L’interesse per i proverbi (che già nei secoli precedenti aveva dato 
luogo alla compilazione di serie proverbiali e a illustrazioni di tipo 
novellistico, come quella del Comazzano) fa nascere alcune raccolte, 
come quella assai ampia del Serdonati, tuttora in gran parte inedita, e 
quella del Pescetti (Venezia 1598, più volte ristampata e rifatta). 

10. Interventi di autorità. Opera di accademie 

L’ordinanza di Villers-Cotteret del 1539, che ebbe tanta importanza 
nel promuovere in Francia l’uso del francese in luogo del latino, trovò 
per alcuni anni applicazione anche nella Savoia e nelle parti del 
Piemonte occupate dai Francesi 11 ®. 

Nel 1560 Emanuele Filiberto emana un analogo editto, prescrivendo 
che negli affari giuridici e amministrativi non si adoperi più il latino, 
ma la lingua volgare, ogni provincia la sua (cioè l’italiano e il francese 
secondo le reciproche posizioni) 117 . 

Nel 1561 egli precisa con un altro editto che nel ducato di Aosta si 
deve usare il francese 118 , e rifiuta di aderire alle richieste di restaurare 
l’uso del latino 118 . 

I tentativi di influire per una soluzione unitaria della questione 
della lingua attraverso interventi consensuali o autoritari restano pii 
desideri. Un «concilio della lingua» tentato nel 1525 a Roma dal 
Tolomei e dal Firenzuola non potè aver luogo; e nemmeno un secondo 
tentativo, fatto nel novembre 1529 dallo stesso Tolomei 120 , in occasione 
della presenza a Bologna del Bembo e di ima «selva di gentili ingegni». 

Né potevano avere miglior esito le speranze espresse dal Di Falco 
nel suo Rimario (Napoli 1535): «Piacesse al cielo... che alcuna romana 
segnoria, qual che oggi è la Venetiana, con la consulta de’ dotti 


115 O. Olivieri, «I primi rimari italiani», in Lingua nostra. III, 1941, pp. 97-102. 
1,8 II Gelli (Ragionamento , cit., p. 22) conosceva l’ordinanza, e lodava Enrico II 
di farla osservare. 

117 C. Duboin, Raccolta per ordine di materia delle leggi, editti ecc. della Reai 
Casa di Savoia, III, i, p. 318. 

118 Duboin, cit., V, pp. 844-845 (cfr. Fiorelli, Arch Alto Adige, XLII, 1948, pp. 370- 

371). 

Fiorelli, ivi, p. 370. 

120 Si veda la lettera al Firenzuola, erroneamente datata 8 novembre 1531 
nell’edizione 1547 delle Lettere, c. 77 GFlajna, La Rassegna, XXIV, 1916, pp. 1-13). 


Il Cinquecento 


333 


riformasse 1 idioma italiano, e che fosse una sola lingua comune a tutti 
e c e generalmente si potesse usare senza biasimo, come n’era una 
latma m tutto 1 mondo...». 

Vanno qui ricordati i tenaci tentativi di Cosimo I per promuovere lo 
studi 0 della lingua e per regolarizzarla. H Davanzati, nell’orazione in 
morte del granduca, ne riassume così l’opera: «creò l’Accademia 
fiorentina, ottenne da Roma il Boccaccio 121 , chiedeva il Machiavello 122 - 
voleva regolar la volgar lingua fiorentina» (II, p. 469 Bindi). 

In questa «politica della lingua» Cosimo pensò dunque di valersi 
anzitutto di un accademia. 

L opera delle Accademie a prò degli studi volgari non va sottovalu- 
tata: un indagine minuta mostrerebbe che esse sono state, in molte 
città centri importanti di diffusione della letteratura in volgare e 
quindi della lingua. 6 ’ 

v * Sì 1 **"* Ori cellari si erano fatte discussioni sulla lingua, e già 

1 Accademia Senese, auspice il Tolomei, aveva avuto l’idea di una 
monna dell ortografia. Ora Cosimo pensa di servirsi di una privata 
adunanza di dotti ùl Seggio degli Umidi, intorno al Padre Stradino) e di 
trasformarla in un organo del suo regime. Con decreto del 23 febbraio 
Ì541-42 egli conferisce all’Accademia Fiorentina «autorità onore e 
privilegi, gradi salario ed emolumenti» del rettore dello Studio di 
(con un suo tribunale e giurisdizione su librai, scolari, ecc.), 
alhnché gli Accademici seguitassero «i dotti loro esercizi, interpetran- 
o, componendo, e da ogni altra lingua in questa nostra riducen- 
T 5 ;;-* - Cosimo voleva che l’Accademia fissasse per iscritto le «regole 
della lingua»; il 3 dicembre 1550 essa dà a cinque suoi membri (il 
Giambullan, il Gelli, il Lenzoni, il Varchi, il Torelli) l'incarico di 
redigerle; il Lasca punzecchiava i riformatori rendendo nota l’aspetta- 
tiva del pubblico: F 

Sono aspettate con gran sicumera 
queste regole vostre dalla gente, 
però che in breve tempo ognuno spera 
scrivere e favellar correttamente; 

e ancora nel 1564 il Salviati, nell 'Orazione in lode della fiorentina 
/avelia, le promette («Di qui gli scrittori usciranno, questa Accademia 
arà le regole della lingua»); avendo di nuovo il granduca espresso 
1 intenzione di far redigere le regole, da leggersi nelle scuole, il Borghini 
m una lettera a B. Baldini (28 die. 1571) diede alcuni consigli 124 in 
seguito ai quali Cosimo, il 2 gennaio 1572, scrisse al consolo dell’Acca- 


m °Ì te ^ n ?» Ì1 ?? nse , 1 ì?° aUa nuova revisione del Decamerone. 
uà • - e 11 Machiavelli fosse tolto dall’Indice. 

Firen ' 1 5^ 1 ’ ^ ,to J 7l ° a & li “omini illustri dell’Accademia Fiorentina, 

F R 17 ?°’ P; XXI; E - Bmdi, prefazione alle Opere del Davanzati, I, p. xvm. 

124 Barbi, Propugnatore, n. s., II, 1889, t. n p 37 * 


334 


Stona della lingua italiana 


Il Cinquecento 


335 


demia di «far intendere» a B. Barbadori, B. Davanzati e G. B. Cini di 
compilare le «regole della lingua toscana», man mano conferendo con 
V. Borghini e G. B. Adriani, «perciocché pare che la purità del 
linguaggio fiorentino sia oggi assai corrotta, e che si vada giornalmen- 
te corrompendo, il che non pare sia con onore della città» ,2S . Ma 
neanche questa volta il desiderio del granduca fu esaudito. 

Grande importanza per la lingua ebbe invece l’Accademia della 
Crusca 18 ® Sorta da conversazioni amichevoli, meno compassate di 
quelle dell’Accademia Fiorentina, tra le varie occupazioni filologiche 
assunse quella che doveva poi diventare la sua principale, la compila- 
zione di un grande vocabolario della lingua. Ci sfuggono le date delle 
prime riunioni amichevoli della brigata dei Cruscotti, in cui si tenevano 
cruscate (termine che, come i sinonimi pappolata, pastocchiata, favata, 
voleva dire «discorsi senza capo né coda»); la data della fondazione è 
posta dai frammenti di diario del Trito (Piero de’ Bardi) al 1582; ma 
importa molto di più la trasformazione avvenuta quando il Salviati 
(ammesso nell’ottobre 1583 fra i Crusconi), disse, secondo il citato 
diario: «Non più crusconi ci facciamo chiamare, ma Accademici della 
Crusca ». 

Fu lo stesso Salviati che interpretò in altro senso il nome di crusca-. 
«quasi per dire che l’Accademia doveva procedere a una scelta fra il 
buono e il cattivo». I primi anni sono dominati dall’attività dell’Infari- 
nato (il Salviati): basti ricordare quanto rumore fece la polemica 
tassesca da lui condotta. Egli trasfuse nell’Accademia non solo le sue 
opinioni sulla lingua (priorità del fiorentino trecentesco), ma anche 
l’idea di un’opera alla quale egli si era personalmente accinto e che 
non potè condurre a termine, per la morte che lo colse nel 1589: un 
vocabolario in cui contava di raccogliere e dichiarare «tutti i vocaboli, 
e modi di favellare, i quali abbiam trovati nelle buone scritture, che 
fatte furono innanzi all’ anno del 1400» 127 . Il 6 marzo 1591 si discusse 
all’Accademia «del modo di fare un vocabolario» e si assegnarono agli 
accademici i primi spogli da fare. 

Nel 1592 si erano messe insieme circa 1300 voci per la lettera A. Nel 
1597 si dibattevano ancora numerosi quesiti tecnici («Se nelle parole 
dell’uso si debba citare l’autorità de’ moderni», ecc.); intanto si era 
diffusa l’aspettativa per il vocabolario (Lombardelli, I Fonti toscani, p. 
61). L’opera uscì in pubblico, come è noto, nel 1612, e avremo occasione 
di riparlarne nel cap. IX. 


125 R. Galluzzi, Storia del granducato di Toscana, rist. Capolago 1841, III, p. 135. 
120 G. B. Zannoni, Storia dell'Accademia della Crusca, Firenze 1845; C. Marcon- 
cini, L’Accademia della Crusca dalle origini alla prima edizione del Vocabolario, 
Pisa 1910, e l'opuscolo L’Accademia della Crusca, Firenze 1952. 

127 Avvertimenti, 1. II. cap. xii. 


il. Tentativi di riforme ortografiche 

Dei mutamenti dell ortografia, e di qualche singolo perfezionamen- 
to penetrato nell uso durante il secolo (ad esempio l’apostrofo e il punto 
e virgola) ci occuperemo più oltre (v. § 14). Invece fallirono alcuni 
tentativi più massicci d’introdurre segni nuovi per rendere l’alfabeto 
latino più adatto alle necessità fonologiche dell’italiano. 

Giangiorgio Trissino si accinse con fervore all’impresa, mirando a 
perfezionare 1 ortografia italiana in tre punti: la distinzione tra le 
vocali e ed o aperte e quelle chiuse; la distinzione tra i ed u con valore 
di vocale e con valore di consonante 128 ; la distinzione tra z sorda e 
quella sonora. Per la prima differenza ricorreva alle lettere greche e ed 
w; per le altre alle varianti già esistenti nella scrittura (/, v, gì. 
Rinunziava invece, per il momento, a distinguere la s sorda da quella 
sonora 129 . 

Con queste innovazioni il Trissino fece stampare tra il maggio e il 
luglio 1524 la, Canzone a Clemente VII, e la Sophonisba-, e poi nel 
novembre l’Epistola de le lettere nuovamente aggiunte ne la lingua 
italiana, che è il manifesto dell’ortografia riformata. 

Negli altri punti, l’ortografia del Trissino è in complesso piuttosto 
conservatrice. Egh mantiene la h etimologica, pur essendo persuaso 
della sua inutilità funzionale, mantiene la x e parecchi gruppi conso- 
nantici nei latinismi ancor riconoscibili come tali, e anche y th ph nei 
grecismi. Conserva anche, in questa edizione, la ti etimologica e scrive 
pronuntia, innovatione, ecc. Del doppio suono, velare e palatale, di c e g 
non si preoccupa, e continua a scrivere eia ce ci ciò ciu, ca che chi co cu, 
e similmente per la g. Anche per gl, gn, se non ci sono proposte di 
innovazione. 

Già della riforma trissiniana si era cominciato a discutere fin dalla 
primavera di quell’anno 130 ; ma la bufera si scatenò subito dopo la 
pubblicazione dell’Epistola, con il Discacciamento delle nuove lettere del 
Firenzuola (1524), con la Risposta alla Epistola del Trissino del Martelli 
(1524) e col Polito del Tolomei, uscito (1525) sotto il nome di un 
giovanetto senese, Adriano Franci 131 . Contro la riforma trissiniana 
moveva l’anno dopo (1526) anche Nicolò Libumio, in un breve dialogo 
in fine a Le tre fontane. 

Unico sostenitore della dottrina del Trissino, e non molto valido né 
per forza di argomenti né per nitore di stile, fu il perugino Vincenzo 


128 Come abbiamo visto nel cap. VII, già L. B. Alberti aveva distinto la v dalla 
u proponendo, nel De cifra, di scriverla hasta inflexa, e il Nebrija nella Gramatica 
de la lengua castellana (1492) aveva applicato anche praticamente la distinzione 

128 Rajna, La Rassegna, XXIV, 1916, pp. 257-262, Migliorini, Lingua nostra, XI ' 
1950, pp. 77-81. 

130 V. la lettera di Alessandro de’ Pazzi a F. Vettori, riportata nei due articoli 
citati. 

131 Rajna, La Rassegna, XXIV, 1916, pp. 350-361. 


336 Storia della lingua italiana 

Oreadini, in una lettera latina diretta al suo concittadino Tommaso 

Severo degli Alfani (Perugia 1525) 132 . .. 

Il Trissino non fu minim amente scosso dall eco sfavorevole suscita- 
ta tanto che negli ultimi mesi del 1528 e nei primi del 1529 ricominciò a 
pubblicare i propri scritti, per i tipi di Tolomeo Gianicolo (un bresciano 
stabilito a Vicenza), con alcune ulteriori innovazioni. 

Solo l’Epistola fu ristampata dal Gianicolo con ì caratten della 
prima foggia 133 ; nel Castellano, composto e stampato poco prima del 
gennaio 1529, nella traduzione del De vulgan eioqumti^ nei Doto w 
grammaticali, nella Poetica, nella Sophomsba, nella Gram,Tn.tóc?re«a., 
nel rarissimo Alfabeto, tutti man mano stampati nei mesi seguenti, 
sono adoperati i caratteri della seconda foggia. In essa: 

e continua a valere e aperta; - __ lo „ 

co designa non più la o aperta come nella prima foggia, ma la 

chiusa; 

/ è applicata per indicare la s intervocalica sonora; 
q designa la z sonora; 

j serve per la consonante; 

v serve per la consonante; 

li indica la linguale palatale Idolja, Iji); 

ki vale chi, seguito o no da vocale (ki, kiamo, feiodo, genocki). 

Anche per le maiuscole si hanno caratteri speciali. È confermato 1 uso 
di x, y, h, th, ph, per le voci greche e latine. Nessuna innovazione per eh, 

^ Malgr ado la pertinacia del Trissino, nessuno accolse, né allora né 
poi, le sue inn ovazioni per le due vocali e ed o ai ; la ; e la v entrarono; 
nell’uso, ma molto più tardi, e solo la v per runane ^ 1 meontrastata; la J 
fu accolta come segno ortofonico in qualche vocabolario moderno (ma 
in parallelo con la 3 , ciò che mostra che l’innovazione dipende piuttosto 
dal Tolomei o dal GiambuHari che dal Trissino). . 

Il più notevole fra gli scritti cui diede la spinta l’Epistola .del Irissmo 
fu il Polito di Claudio Tolomei, da cui è necessario prender le mosse per 
conoscere il sistema di riforma ortografica del dotto laHno 

Il Tolomei era altrettanto convinto del Trissino che 1 alfabeto latino 
s’adattasse imperfettamente alla lingua italiana; anzi egh rivendica a 
sé e ai suoi sodali dell’ Accademia Senese 1 averne disputato «giàdodici 
anni o più sono» (Polito, c. 18 a). Si ordinò un intero aJfabe o al^m lo 
ador>erarono e il Trissino potè averne notizia; «se quei giovem 
nobilissimi questa cosa punto apprezassero costringerebbono costili a 


.32 Gli opuscoli della polemica sono tutti ristampati neU’edizione delle Opere 
del Trissino curata da Scipione Maffei (Verona m 9 ): ma negli scotti del dotto 
vicentino non sono adoperate le lettere speciali, e negli scotti degli alto la grafi 

6 edizione, il Trissino adopera nei latinismi zi e non ti -, 

pronunzto^njm e^one ^ repertorio anne sso alle Regole del Gigli (v. p. 460). 


Il Cinquecento 337 

spogliarsi quelle penne di che s’era vestito per parer Pavone» {Polito, c. 
44 a). 

Un privato non può arbitrarsi di introdurre così grandi innovazioni 
come a suo tempo non aveva osato l’Accademia: potrebbe portare 
all’auspicata riforma solo consenso di dotti e autorità di prìncipi. 

Il Tolomei rileva difetti ed errori del Trissino (il non essersi accorto 
che le vocali atone sono chiuse, l’aver rivelato con le sue trascrizioni 
l’imperfetta conoscenza della pronunzia di alcune parole); non gli 
piacciono le lettere greche, ecc. L’atteggiamento incerto e contradditto- 
rio del trattatello nasce dal contrasto fra il sostanziale consenso sulla 
desiderabilità della riforma ortografica, e il risentimento perché il 
Trissino aveva fatto la prima mossa; v’era inoltre un certo numero di 
dissensi tecnici. 

Da lettere del Tolomei posteriori di parecchi anni risulta che egli 
aveva compilati due alfabeti diversi: «l’uno per tenerlo segreto e 
godermelo solamente con qualche caro amico, l’altro per allargarlo e 
lassarli correr la sua fortuna» (lettera a F. Figliucci, in Lettere, c. 224 b). 
Il primo era «del tutto nuovo... con bei misterii e sottili avvertimenti» 
Qettera ad A. Citolini, ivi, c. 121 b), con lettere tracciate in modo che si 
riconosceva subito se si trattava di vocale o di consonante, di muta, di 
liquida, ecc. (lettera di F. Benvoglienti a M. Celsi, 15 sett. 1547, ivi, c. 234 
a), e non ebbe, anche per volere del Tolomei, applicazione pratica. Nel 
secondo non vi sono forme nuove di lettere, ma solo varianti scelte in 
modo da non disturbare chi non vuol saperne di questi problemi, e da 
aiutare invece chi si preoccupa di distinguere le due o, le due e, le due s, 
le due z, e qualche peculiarità, «tal che ogniuno starà a rischio di 
guadagnare, e non perdere» (ivi, c. 234 a). L’alfabeto fu applicato (salvo 
poche sviste) dal Benvoglienti nell’edizione giolitina delle Lettere (Vene- 
zia 1547); e lo illustra in pieno la chiave fornita dal Benvoglienti stesso 
all’inizio della Tavola. L’inopportuna inclusione nell’epistolario di 
alcune lettere politiche procurò gravi fastidi al Tolomei e al Benvo- 
glienti, e li costrinse a giustificarsi faticosamente presso le autorità 
senesi 135 ; nelle successive edizioni delle lettere non si ha più traccia 
delle peculiarità ortografiche introdotte nell’edizione del 1547. 

Nel 1544 erano intanto uscite due opere con indicazioni ortofoniche. 
Un trattatello di Marsilio Ficino sull’amor platonico (scritto in latino da 
Marsilio e poi da lui stesso tradotto in volgare) intitolato Marsilio 
Ficino sopra lo Amore o ver’ Convito di Platone, fu pubblicato a Firenze 
nel 1544: l’editore, sotto il nome di Neri Dortelata, in una lunga lettera 
agli «Amatori della lingua fiorentina» spiega perché si sia sforzato di 
fare «intelligibile la Pronunzia Fiorentina... senza avere alterato la 
scrittura in modo, ch’ogn’altro uomo non se ne possa valere come 
prima». Ma probabilmente un individuo col nome di Dortelata non è 
mai esistito, e la grafia del volumetto è dovuta a Pierfrancesco 


135 L. Sbaragli, C. Tolomei, Siena 1939, p. 93. 


338 


Storia della lingua italiana 


Giambullari e a Cosimo Bartoli (il quale apre il volume con ima breve 
dedica al duca Cosimo, con un’esortazione a seguitare a «dare animo a 
gli studiosi di questa lingua»). 

Le indicazioni ortofoniche riguardano anzitutto l’accento, che è 
segnato su tutti i polisillabi in forma di acuto; sulle parole tronche e sui 
monosillabi tonici si ha il circonflesso. La e aperta è indicata con un 
piccolo uncino in alto a destra, la o aperta con un carattere più largo. 
La u vocale è distinta dalla v consonante. La i senza punto è adoperata 
per la i semiconsonante o semplicemente diacritica {bianco , piace, 
piaggia). La s corta indica la sorda, la s lunga la sonora; e s imilm ente la 
z corta, indica la sorda 136 e la z caudata la sonora. Il metodo, insomma, 
è intermedio fra quello del Trissino e quello del Tolomei, che in qualche 
modo poteva già esser giunto a cognizione del Giambullari e del 
Bartoli 137 . Pure sotto il nome di Neri Dortelata fu pubblicata nello 
stesso anno e con il medesimo alfabeto anche l’opera del Giambullari, 
De’l Sito, Fórma & Misùre dello Infèrno di Dànte 138 . 

Parecchi discussero il nuovo metodo, ben pochi vi si attennero. 

Risalgono al metodo del Tolomei gli espedienti ortofonici adottati 
dal Citolini nella sua grammatica, tuttora in gran parte inedita, 
dedicata verso il 1565 a lord Hatton, ma probabilmente composta assai 
prima 139 , e quello applicato da Giovanni Fiorio nelle sue opere per 
l’insegnamento dell’italiano agli Inglesi 110 . 

Anche il Ruscelli aveva preparato il manoscritto dei suoi Commen- 
tala con indicazioni ortofoniche del tipo di quelle del Tolomei, ma 
l’opera fu pubblicata dopo la sua morte senza quelle indicazioni 

G. A. Gilio, nei suoi Due dialogi (Camerino 1564, cc. 32-33) proponeva 
di adoperare per le e ed o aperte i segni delle maiuscole UiuOmo, pOrto, 
lascerEbbe, farEbbe ). 

V. Buonanni, probabilmente svolgendo uno spunto del Dortelata 
(«alcuni de’ nostri antichi... posero un t davanti al zeta, & scrissero 


,3 ® Essa vale sia per le parole del tipo amicizia che per quelle del tipo 
distruzione, per cui l’autore della prefazione dichiara di non essersi «voluto 
risolvere a raddoppiarla» (p. 25). 

117 II Tolomei, ringraziando il Lenzoni di avergli mandato il volumetto del 
Dortelata, constatava le somiglianze, astenendosi da un giudizio, ma non da 
un’insinuazione: basta ch’io non so s’egli è stato furto o imitazione, o simiglianza 
di spirito. Queste sono cose state trattate, disputate, e risolute in una nostra 
Academia, e comunicate con molti» (Lettere , cit., c. 80 b). 

136 II Giambullari applicò parzialmente nel proprio autografo delle Regole 
della lingua fiorentina (cod. Magliab. IV, 59) e in altri manoscritti la 6tessa 
scrittura ortofonica (Fiorelli, in Studi filol. it., XIV, 1956, pp. 193-198). 

138 L. Fessia, «Alessandro Citolini esule italiano in Inghilterra», in Rend. Ist. 
Lomb., LXXIII, Lettere, 1939-40, pp. 213-243. 

. 140 Ma se egli distingue le e e le o aperte da quelle chiuse (e uncinata, o 
normale per le vocali aperte di contro a e normale, o corsiva per le chiuse), 
applica poi (p. es. nel New World of Words, Londra 1611) il segno della vocale 
aperta anche a quelle parole derivate in cui le e e le o vengono a trovarsi in 
posizione atona, ignorando la regola già messa in luce dal Tolomei nel Polito. 


Il Cinquecento 


339 


belletza, patzo, matza, & spetzo», p. 25), stampò un Discorso sopra la 
prima cantica del divinissimo theologo Dante d’Alighieri... (Firenze 1572) 
m cui la sola peculiarità è l’uso del digramma tz per z (gratzia 
accortetza, altzare, metzo ecc.) 141 . 

L’elenco di 29 lettere che troviamo in un manoscritto del Varchi (ms. 
Rinucc., filza 9, inserto 23), l’inventario delle 32 «pronunzie» dato dal 
Salviati negli Avvertimenti Q. Ili, cap. i, pari. 3), l'elenco dei 35 «caratteri 
degù elementi de la favella Toscana» dato da Giorgio Bartoli nel 
trattato Degli Elementi del parlar toscano, Firenze 1584 142 , non rappre- 
sentano tentativi di introdurre nell’uso generale nuovi segni ma 
inventari dei fonemi italiani. 

. Per ^ di circostanze, ma essenzialmente per il carattere 

fortemente conservatore dell’ambiente letterario, i tentativi di riforma 
dell ortografia usuale fallirono. 

12. L’accettazione della norma 

Si è visto come la norma grammaticale e lessicale tende a un rigore 
crescente. Alcuni antesignani fissano i precetti, la grande maggioranza 
si sforza, con risultati or più or meno felici, di seguirli; solo una mino- 
ranza non obbedisce alla tendenza generale o addirittura reagisce. 

. importanza acquistata dall’editoria contribuisce in modo decisivo 
all instaurazione sempre più rigorosa della norma: le opere degli autori 
vivi e ancor più quelle degli autori morti sono sottoposte a revisioni 
linguistiche talora assai forti. Agli inizi del secolo, gli interventi sono 
ancora saltuari, ma qualcuno è insigne e ricco di conseguenze (penso 
all opera congiunta del Bembo e del Manuzio con le edizioni del 
Canzoniere, 1501 e della Commedia, 1502). Più tardi l’attività dei letterati 
di tipografia, editori essi stessi o stipendiati dagli editori, diventa una 
vera professione: il Dolce, il Domenichi, il Ruscelli, il Porcacchi, il 
Sansovino preparano per le stampe numerosi volumi, più o meno 
ritoccandoli secondo il loro gusto e secondo le loro opinioni grammati- 

Non va dimenticato che anche i tre classici maggiori esercitano il 
loro influsso non in una veste genuinamente trecentesca, ma con 
un ortografia in parte più umanistica. Per citar solo un esempio ecco 
come si presenta un verso del primo sonetto del canzoniere petrarche- 
sco nell’autografo del Petrarca: 

Quàdera I parte altruom da Q1 chi sono 


141 II tentativo fu giudicato severamente dal Salviati, Avvertimenti, I, in i 
part. 14. * • 

ìr I i operetta fh pubblicata postuma da un altro Cosimo Bartoli (omonimo di 
quello nn qui studiato), ed è di notevole importanza linguistica (E Teza «Un 
maestro di fonetica italiana nel Cinquecento», in Studi filol. rom., VI, 1893, pp. 449 - 


340 


Stona della lingua italiana 


Il Cinquecento 


341 


ed ecco come si leggeva nell’edizione aldina del 1501 curata dal Bembo 
e in quella del 1521 curata dal Vellutello: 

Quand’era in parte altr’ huom da quel, ch’i sono. 

Gli editori mirano in generale a rendere più regolare l’ortografia, 
più ricca e razionale l’interpunzione; ma gli arcaismi, i dialettalismi, i 
latinismi troppo spinti sono talvolta sostituiti 143 , con un metodo che a 
noi pare intollerabilmente arbitrario - benché talvolta sia coonestato 
dall’asserzione gratuita che gli autori stessi avrebbero corretto cosi le 

loro opere 144 . A . , . . 

Non poche revisioni di testi sono dovute agli autori medesimi, e 
spesso si arriva a discemere quali correzioni sono dovute a un 
mutamento di concezione, quali invece all’adeguamento a un nuovo 
gusto stilistico, quali all’accettazione di norme grammaticali prescritte 
come tassative. 

Ritoccano i loro testi alcuni scrittori meridionali, come il bannazza- 
ro e il Cariteo-, tra quelli settentrionali le revisioni più note sono quelle 
del Castiglione e dell’ Ariosto. 

La laboriosa formazione linguistica del Castiglione è stata ricostrui- 
ta dal Cian con lo studio dei numerosi manoscritti castiglioneschi 
pervenutici, fra i quali è particolarmente importante il manoscritto 
Laurenziano del Cortigiano (che è un apografo del 1524, con correzioni 
autografe del Castiglione e del Bembo) 145 . 

Ma l’esempio più insigne di passaggio da un volgare illustre di tipo 
«padano» al toscano letterario è quello di Lodovico Ariosto, passaggio 
sulle cui fasi siamo abbastanza largamente informati. Ci rimane 
dell’ Ariosto un ricco carteggio, e conosciamo parecchie delle modifica- 
zioni da lui apportate alle commedie e alle satire; ma soprattutto 
possiamo confrontare le tre edizioni déìl’Orlando Furioso compiute dai 
tipografi sotto la sua vigilanza (ma senza che egli fosse soddisfatto) nel 
1516, nel 1521, nel 1532 146 . 


143 Nel son. 219 del Petrarca, «Il cantar novo e ’l pianger de li augelli - in su ’l 
di fanno retentir le valli...» si legge, dall’Aldina in poi, risentir. 

144 Si veda per es. la prefazione al Laberinto d'amore di Bernardo Giunta 
(Firenze 1516): «ci ho usato tanta diligenza in emendarle, che io ardirò dire che il 
Boccaccio stesso altrimenti non le harebbe racconce che elle si siano». 

145 V. Cian, La lingua di Baldassarre Castiglione, Firenze 1942 (v. specialmente 
i capitoli III e IV «Le prime redazioni del Cortegiano » e «La lingua del Cortegiano 

nel testo definitivo»). . 

146 II Debenedetti ha dimostrato che un certo numero di correzioni lurono 
introdotte mentre i singoli fogli si stavano tirando. Dei nuovi episodi entrati a far 
parte della terza edizione, oltre che di alcune stanze rifiutate, abbiamo frammen- 
ti autografi. Per studiare le varianti si può ricorrere alla ristampa letterale di f . 
Ermini (Roma 1909-1913); per la 3“ edizione bisogna tener presente 1 ottima stampa 
laterziana curata dal Debenedetti o quella ricciardiana del Caretti (che si 
avvantaggia anche di schede lasciate dal Debenedetti). Dello stesso autore si 
veda l’edizione dei Frammenti autografi dell'Orlando Fur ., Torino 1937 ^Importanti 
anche per la lingua gli «Studi sui Cinque Canti» di C. Segre, m St. difil. i tal.. All, 


Il testo del 1516 risente ancora molto del padano illustre (benché sia 
molto più toscano ded' Orlando Innamorato o del Mambrìano). Nel 
consonantismo si oscilla molto nell’uso delle doppie; nell’uso di c e z 
davanti a eoi (roncino è più frequente di ronzino ); nell’uso di se; comuni 
sono i tipi giaccio, gioito e iusto, love. Abbondano i latinismi lessicali: 
cicada, crebro, dicare, difensione, mal dolato, ecc. Qualche pentimento 
si manifesta nell’errata-corrige: l’Ariosto rifà due passi in cui aveva 
usato mano al plurale (un terzo gli sfugge, e lo correggerà nella 
seconda edizione). 

I ritocchi per l’edizione del 1521 sono relativamente pochi: per es. 
volgo mutato in vulgo, ciucca in zucca, perse in perdette, ecc.; ma più 
interessanti che le correzioni introdotte nel testo sono le intenzioni 
espresse nell’errata-corrige: egli vorrebbe aver scritto non summo ma 
sommo, non reverire ma riverire, non devere ma dovere, non vo lontieri 
ma volentieri, non parangone ma paragone-, vorrebbe di e del e non più 
de e dii, ecc. 

Le correzioni dei frammenti autografi, quelle dei Cinque Canti e 
dell’edizione del 1532 sono fatte secondo questa medesima linea 
direttiva, ma con molto maggiore ampiezza e fermezza dopo la 
pubblicazione delle Prose del Bembo (1525). Per alcune peculiarità 
l’Ariosto procede con deliberata decisione, per altre con maggiore 
esitazione, tanto che qualche volta toma indietro. Tutta l’opera di 
correzione è dominata dall’adesione al gusto e alla grammatica del 
Bembo: ma quest’adesione non è né pedissequa né consequenziaria, 
perché l’Ariosto non è un grammatico ma un poeta (e i poeti spesso 
sono distratti!). 

Egli introduce molte volte i dittonghi uo e ie [ruota, scuola, figliuolo, 
truova, e viene, priego, tiepide ). Dreto è sempre mutato in dietro-, 
viceversa egli corregge schiena in schena. 

I raddoppiamenti sono molto più vicini che nelle due prime edizioni 
all’uso toscano (tuttavia mutò anche comodità in commodità, uccellator 
in ucellator, verone in vetrone, ecc.). 

È per lo più abbandonata la x ( esperimento , esempio-, nei frammenti 
autografi, exempio od essempio ). 

Persiste anche nell’edizione del ’32 la serie gianda, giotto. Predomi- 
na il tipo giumenta, giusto, Giove (fuorché in alcuni prenomi: Iocondo, 
Iulioì. 

L’uso dell’articolo è quasi sempre conformato alle regole e alla 
prassi del Bembo 147 : el è abbandonato per il, e al plurale e per i; davanti 


1954, pp. 23-76. Possono esser tuttora utili il saggio di M. Diaz, Le correzioni 
all'Orlando Furioso, Napoli 1900 e gli articoli ed edizioni comparative parziali di 
G. Lisio; il mio articolo «Sulla lingua dell’ Ariosto», in Italica, XXIII, 1946 (rist. in 
Saggi ling., pp. 178-186) cerca di cogliere i tratti essenziali; ma una monografia che 
considerasse tutti i materiali disponibili sarebbe molto opportuna. 

147 II Dolce [Modi affigurati, cc. 300 b - 301 a) faceva osservare che il Bembo, 
dopo avere scritto «Una sol voce in allettando il spirto, » aveva corretto il verso in 


342 


Storia della lingua italiana 


a s impura è introdotto io-, i gruppi in lo, in la, in V sono sostituiti da nel 
ne lo, ne la (o altrimenti, se il verso non lo consente). 

Anche le particelle pronominali sono portate all’uso ancor oggi 
vigente. 

Nel presente indicativo le forme in -amo -emo -imo sono di regola 
mutate in -iamo. Gli imperfetti di prima persona in -o (ero, andavo, 
potevo ) sono abbandonati per quelli in -a, contrariamente all’uso del 
fiorentino parlato, ma conformemente alle prescrizioni del Bembo 148 . 
Ad esse è anche dovuto il mutamento di presto in tosto 149 . 

Di questa deferenza dell’ Ariosto per il maestro insigne ci restano 
anche testimonianze dirette: la lettera indirizzatagli il 23 febbraio 1531 
(«io son per finir di riveder il mio Furioso-, poi verrò a Padova per 
conferire con V. S., e imparare da lei quello che per me non son atto a 
conoscere»), e i versi in onore di lui aggiunti nell’edizione del ’32: 

là veggo Pietro 

Bembo che il puro e dolce idioma nostro, 

levato fuor del volgar uso tetro 150 , 

qual esser dee, ci ha col suo esempio mostro 

(XLVI, st. 15). 

Se, terminata la revisione, nel poema è rimasto ancora qualche 
tratto padano o latineggiante, in complesso la fisionomia della terza 
edizione déìl’Orlando è diventata conforme al tipo del toscano lettera- 
rio. Uno scrittore maledico come il Lasca celebra dell’ Ariosto anche la 
lingua: 

Ma dove, dove l’Ariosto resta 
che ben che non sia nato fiorentino 
sì fiorentinamente l’asta arresta 
che si può dir che sia tuo paladino? 151 . 

Accanto alle revisioni compiute dagli stessi autori (fra cui il più 
insigne esempio è quello che or ora abbiamo visto), sono numerosissi- 
me le revisioni di opere antecedenti compiute per adattarle alle nuove 


«una sol voce in allettar lo spirto », e altrove «Et odo dir in l’herba » in «Et odo du- 
ne l’herba ». 

us Debenedetti, St. rom., XX, 1930, pp. 223-225. Nei frammenti autografi si ha 
ancora potevo. 

149 Debenedettì, ivi, pp. 217-222. 

150 II «volgar uso tetro» è quello dei poeti cortigiani dell’ultimo Quattrocento, 
come Serafino e il Tebaldeo; e certo ormai l’Ariosto includeva fra i poeti partecipi 
di quella tetraggine anche il suo insigne predecessore, il Boiardo. 

151 Solo più tardi, nell’acredine delle dispute fra i fautori del Tasso e quelli 
dell’ Ariosto, Benedetto Fioretti censurerà con pedanteria le forme e le parole non 
toscane del Furioso. 


Il Cinquecento 343 

esigenze stilistiche e grammaticali: ora con certa delicatezza ora con 
pesante arbitrio 152 . 

Manca, purtroppo,, una larga esplorazione delle edizioni cinquecen- 
tesche con 1 occhio rivolto a questi ritocchi: i pochi esempi che qui 
daremo mostrano quale interesse potrebbe avere la ricerca. 

Non è ancora definitivamente assodato se la lezione in cui l’imolese 
Girolamo Chiaruzzi (0 Claricio) presentò nella sua edizione del 1521 
1 Amorosa Visione del Boccaccio sia fondata su una seconda redazione 
di cui si sono perdute altre tracce 153 , oppure se si tratti di un 
rifacimento dovuto al Claricio 154 : quel che è certo è che, anche nella 
prima ipotesi, numerosi mutamenti grammaticali, metrici e stilistici 
sono stati introdotti dall’Imolese 155 . 

Un ignoto nel 1526 introdusse nei manoscritto autografo della Fenice 
e del canzoniere di Lorenzo Spirito, tuttora conservato a Perugia, nrm. 
serie di correzioni grammaticali e lessicali, dirette principalmente a 
eliminare i peruginismi e i latinismi live, ogge corretti in ivi, oggi; longo 
m lungo ± satisfare in sodisfare, ecc.), e inoltre altre modificazioni 
suggerite da un gusto più raffinatamente petrarchesco 158 . 

il testo delle Istorie del Regno di Napoli di P. Coìlenuccio fu 
pubblicato dal Ruscelli nel 1552 con molte modificazioni «trovandolo 
pieno di scorrezioni et errori nella lingua et in altre parti»: si ha così 
non più exprobrare, eversioni, instrutti, ma rimproverare, rovine infor- 
mati, ecc. 157 . 

n *5 testo ancora fortemente tinto di milanese e pieno di la tinismi della 
Patria Histona di Bernardino Corio (Milano 1503) fu rimodernato con 
poco rispetto dal Porcacchi (Venezia 1554 ). 

La Spiritata del Lasca può costituire un esempio delle correzioni che 
ì tipografi usavano eseguire: nel 1561 i Giunti pubblicavano a Firenze la 
commedia, e subito dopo la ristampò a Venezia il Rampazetto, 
mutando uffizio, benefizio in ufficio, beneficio, qualunche in qualunque 
doppo m dopo, sopperire in sopplire, ecc. 158 . 

Della Chronica de Mantua di Mario Equicola (s. 1., 1521) aveva 
mtrapreso la correzione nel 1574 F. Sansovino; un testo «riformato 


«Chi diavol riparerebbe a certe sorte di stampature? Ché un correttore 
corregge m un modo e quell’altro a un altro, chi lieva, chi pone, certi scorticano e 
certi albi intaccano la pelle» (Doni, I Marmi, I, p. 94 Chiorboli). Per impedire tali 
sconci, Federigo Badoaro aveva proposto che l’Accademia della Fama vigilasse 
SU1 ,9?^; ettor ? (Maylender, Storia delle Accademie, V, Bologna 1930, p. 4381. 

iE 4 n m ? so ® t ® nuto il Branca, nella sua dotta edizione critica, Firenze 1944. 
®rni cone ’ Belfagor, 1, 1946, pp. 474-486; Raimondi, Convivium, 1948, pp. 108- 
134; 258-311; 438-459. 

155 Contini, Giom. stor., CXXIII, 1946, pp. 75-83. 

.. , ‘ M t J; Baldelli, «Correzioni cinquecentesche ai versi di L. Spirito», in St. filol 
ital., IX, 1951, pp. 39-122. 

157 v - la nota del Saviotti all’ed. Laterza, I, pp. 330-331, e C. Varese P 
Coìlenuccio umanista, Pesaro 1957, pp. 130-133. 

158 A. Grazzini, Teatro, ed. G. Grazzini, Bari 1953, p. 591 . 


344 Storia della lingua italiana 

secondo l’uso moderno di scrivere istorie» fu pubblicato a Mantova da 
B. Osanna nel 1607 (e poi di nuovo nel 1608 e nel 1610). 

Molto al di là dei ritocchi grammaticali e lessicali vanno i rabbercia- 
toli del Boiardo: accanto al più famoso rifacimento, quello del Bemi 
(compiuto nel 1531 e pubblicato nel 1541) che ebbe tre secoli di fortuna, 
va ricordato quello del Domenichi (1545) 159 . 

In altri casi, constatando che la lingua di testi antichi riesce difficile, 
l’editore vi unisce dei glossari. 

Il desiderio di conformare la lingua alle regole grammaticali che si 
stanno sempre più rigorosamente prescrivendo fa sì che qualche 
scrittore sottoponga un proprio scritto a un competente: il Cellini 
richiese la revisione del Varchi, il Vasari quella del Caro, ma ambedue 
gli interpellati si limitarono a qualche consiglio. Il Guarini chiese sul 
Pastor fido il parere del Salviati, e mentre tenne scarso conto delle 
osservazioni concernenti l'azione, accettò quasi tutti i suggerimenti 
linguistici 1 ™. 

Se l’adeguamento alla norma grammaticale è una tendenza assai 
largamente sentita in tutta l’Italia periferica, non altrettanto entusiasti 
ne sono per lo più i Toscani: se c’è il Guicciardini che, come s’è visto, si 
preoccupa delle regole bembesche, molti riluttano: per es. l'Aretino 
protesta «per le notomie che ogni pedante fa su la favella toscana» 181 , il 
Grazzini, nel Principio della Strega, si lagna che «la poesia italiana, 
toscana, volgare, o fiorentina che ella si sia, è venuta nelle mani di 
pedanti» (Teatro, p. 186 Grazzini). 

13. L’italiano fuori d’Italia __ 

Nella seconda metà del Quattrocento e per tutto il Cinquecento, 
raggiungendo forse l’acme in quella prima metà del secolo, quando 
eserciti francesi, spagnoli, svizzeri, imperiali calpestano la penisola, la 
cultura italiana in tutti i suoi aspetti (non solo l’arte e la letteratura, ma 


139 Mentre gli aspetti stilistico-lette rari dei rifacimenti sono stati discreta- 
mente studiati CM. Beisani, in Studi di letteratura italiana, IV, 1902; V, 1903; P. 
Micheli, Saggi critici. Città di Castello 1906, ecc.), una precisa analisi linguistica 
comparativa non è stata ancora fatta. Si può notare che mentre la grande 
maggioranza delle correzioni del Bemi è conforme alle tendenze generali del 
tempo, in qualche caso egli toma, per così dire, indietro, come quando corregge 
giacere in lacere. 

100 V. Rossi, B. Guarini e il Pastor fido, Torino 1886, pp. 212-213, 304. 

1,1 Lettera del 1531 (I, p. 31 Nicolini). Cfr. quel che dice di lui il Montemerlo: 
«uscito il primo liberamente fuori di alcuni legami di superstitione, non si è 
ritenuto più lungamente dentro a’ carceri di quelle regole, che ad alcune voci e 
testure quotidianissime, et più che necessarie, freno ponevano, o interdicevano al 
tutto il farsi vedere: come sarebbe di non porre la voce lui nel caso primo: di non 
soggiungere l’articolo il dopo la particella per: non rifiutando per buona la voce 
adesso et altre cose facendo di simigliante maniera» (Montemerlo, Delle phrasi 
toscane.... Lettera ai lettori). 


Il Cinquecento 


345 


a-ncrie le scienze, la moda, i giochD esercita un’enorme influenza su 
tutta 1 Europa. 

Gli scambi si esercitano per innumerevoli vie oltre alle due più 
importanti delle guerre e dei commerci: sono Italiani che emigrano 
mettendo le loro capacità a servizio di sovrani stranieri (Colombo, 
Vespucci, Caboto; Leonardo, il Cellini), sono principesse che vanno 
spose in corti straniere (Caterina de’ Medici in Francia, Bona Sforza in 
Polonia), sono ecclesiastici e laici che emigrano abiurando il cattolicesi- 
mo (Ochmo Vergerio, la Morata, i Socini, i Burlamacchi, Alberico 
Gentile il Citoluu, Michelangelo Fiorio); sono Spagnoli o Francesi cui 
sono allietate funzioni di governo, che vengono a studiare nelle nostre 
università piu famose, che viaggiano per istruzione, per cura, per 
diporto nella penisola, che esercitano le loro arti in Italia (come il belga 
Orlando di Lasso, maestro di cappella al Laterano). A Lione, a Londra 
altrove, si stampano parecchi libri in italiano. 

La letteratura italiana è riconosciuta come una delle grandi lettera- 
ture classiche, allo stesso livello della latina e della greca, ed esercita 
un influenza grandissima sulle letterature rigenerate dal soffio del 
Rinascimento. Si pensi, per la Francia, alla scuola lionese o a Marghe- 
rita qi Navarra, per la Spagna a Boscàn e Herrera, per l’Inghilterra a 
Wyatt, a Sidney, a Spenser. 

Dappertutto si petrarcheggia, e appaiono nuove forme metriche 
modellate su quelle italiane (sonetto, terza rima). Le traduzioni di libri 
italiani si moltiplicano: Castiglione, Bandello, Leone Ebreo, Machiavel- 
li e tanti altri autori si possono leggere nelle principali lingue europee 
anche da chi non conosce l’italiano. 

Ma, nelle classi più elevate, conoscere l’italiano è un segno di 
distinzione, di raffinatezza. Carlo V lo parla, e legge in italiano i libri 
Sf- ~* 10 ,^ 10 ’ £ r ancesco I conversa in italiano con Benvenuto Cellini 
Elisabetta d Inghilterra è entusiasta della nostra lingua ed è in gradò 
di scriver delle lettere in essa; Montaigne scrive il suo giornale di 
viaggio in italiano, a cominciare dal suo soggiorno a Bagni di Lucca 
Imo al Moncenisio. 

La moda dell’italiano giunge in alcuni sino all’infatuazione, e trova 
naturalmente degli impugnatori. Questi tuttavia non trascurano di 
valersi, in difesa delle loro proprie lingue e letterature, di quello che 
avevano imparato dai trattatisti italiani: nella rivendicazione dello 
spagnolo di Luis de León si sente l’eco del Bembo, nella Deffence et 
lllustration de la langue frangoyse di Joachim du Bellay si ritrovano i 
ragionamenti del Dialogo delle lingue di Sperone Speroni. 

In servizio degli studiosi d’italiano si cominciano a pubblicare 
grammatiche: Jean Pierre de Mesmes pubblica una Grammaire italien- 
ne composee en frangois (Parigi 1548), modellata sul Bembo; W. Thomas 
P r * ,nc * , P a l Rules of thè Italian Grammer , with a Dictionarie for 
aT unders f an dyng of Boccace, Petrarch and Dante, Londra 1550; 

G. M. Alessandri traccia II Paragon della lingua toscana e castigliana 
Napoli 1560. ® 


340 


Storia della lingua italiana 


Il Cinquecento 


347 



Poiché spesso la lingua più familiare agli stranieri quando scendo- 
no in Italia è il latino, il napoletano Scipione Lentulo (1567) e il 
fiorentino Eufrosino Lapini ( 1574 ) scrivono grammatiche latine ad uso 
dei forestieri; e il gallese John David Fthys (Rhoesus), vissuto alcuni 
anni in Italia, pubblica un De Italica Pronunciatione et Orthographia 
libellus (Padova 1569) 162 . 

Giovanni Florio (figlio di Michelangelo Fiorio, emigrato per motivi di 
religione e autore di una grammatica intitolata Regole de la lingua 
thoscana ) 163 compose dei trattateli! per l’insegnamento dell’italiano, i 
First Fruites (1578), i Second Fruites (1591), e un dizionario italiano-inglese 
intitolato A Worlde of Wordes (1598) 164 . 

Già precedentemente erano usciti il primo vocabolario italiano- 
spagnolo e spagnolo-italiano, quello di Cristóbal de las Casas, Vocabu- 
lario de las dos Lenguas toscana y castellana, Siviglia 1570 (più volte 
ristampato), e il primo italiano-francese e francese-italiano, di Giovanni 
Antonio Fenice (Phénice, Félis), Dictionnaire frangois et italien e 
viceversa, Morges e Parigi 1584 (altre edizioni, da quella di Ginevra 1598 
in poi, portano il nome del revisore P. Canal). 

Vanno anche ricordate le edizioni poliglotte del Calepino, e le 
raccolte di colloqui in più lingue 185 . 

A queste importanti posizioni dell’italiano sul continente europeo 
fanno riscontro quelle nel Mediterraneo. Anzitutto vi sono i possessi 
diretti di Venezia, specialmente nell’Adriatico 166 : ma anche più impor- 
tante è il prestigio. Mentre nelle corti dei paesi continentali, osserva il 
Muzio, ci si può far intendere in italiano, e in alcune anche in latino, in 
Levante il latino non si conosce, e l’italiano predomina: «Andate alla 
Corte del Signor de’ Turchi, ritrovate chi sappia Latino: ritrovatene 
appresso il Re di Tunisi, nel regno del Garbo, di Algier, & in altri luoghi; 
la nostra lingua ritrovarete voi per tutto» 167 . Nei paesi di diretto 
dominio, poi, i sudditi devono imparare il veneziano (o l’italiano tinto di 
veneziano) «per la necessità di comparire dinanzi a’ tribunali de’ 
magistrati in ragione» 168 . 

Nelle relazioni con i Turchi, l’italiano è di uso abbastanza comune: 
la cancelleria fiorentina, che aveva scritto in greco al Gran Turco nel 


162 Sul Rhys e sul Thomas, vedi T. G. Griffth, Avventure linguistiche del '500, 
Firenze 1961. 

163 Cfr. G. Pellegrini, Studi di filol. ital., XII, 1954, pp. 77-204. 

181 F. A Yates, John Fiorio, Cambridge 1934. 

165 La prima edizione dei Colloquia del Berlaimont che contiene anche 
l’italiano, è quella di Anversa 1558 (Emery, in Lingua nostra. Vili, 1947, pp. 36-38). 

165 Sulle coste dalmate, gli uomini sanno per lo più «parlar francamente», cioè 
farsi capire in italiano (N. Vianello, Lingua nostra, XVI, 1955, pp. 67-69). A Ragusa 
nasce in questo secolo una letteratura in lingua croata, plasmata su modelli 
italiani. 

167 Battaglie, c. 192 b. 

198 Castelvetro, Correttione, p. 224. Vedi, per le condizioni di Corfù, M. 
Cortelazzo, in Lingua nostra. Vili, 1947, p. 45. 


1501, gli scrive in italiano nel 1508, nel 1528 168 : si hanno testi italiani 
anche per la corrispondenza e i trattati con altri paesi 170 . 

Date queste circostanze, la penetrazione di vocaboli italiani sia 
nelle lingue dell Europa continentale che in quelle del Mediterraneo fu 
in questo periodo assai forte. 


14. Grafia 

Passeremo ora a esaminare rapidamente la principali caratteristi- 
che grammaticali e lessicali di questa età, con particolare riguardo a 
ciò che appare di nuovo in confronto con i secoli precedenti. E 
incominciamo con la grafìa (e l’interp unzione) 171 . 

Al principio del secolo, trent’anni dopo la stampa dei p rimi incuna- 
boli, la situazione della grafia, sia negli scrittori che nei libri, è ancora 
assai caotica. Predomina decisamente la grafia che l’influenza umani- 
stica ha imposto al volgare, cioè la grafìa etimologica: h dove l’ha il 
latino, ti per zi, digrammi (eh, th, ph) nelle parole greche, gruppi 
consonantici (et, pt, x, ps, ecc.) latini non assimilati, qualche esempio 
sporadico di ae, oe. Ma, principalmente per l’intervento di un grande 
editore e di un grande scrittore e filologo, le condizioni stavano per 
mutare. Nel 1501 escono presso Aldo Manuzio il Vecchio 172 Le cose 
volgari di Messer Francesco Petrarca-, l’originale su cui fu condotta 
l’edizione ancora ci rimane, ed è il manoscritto Vat. 3197, curato da 
Pietro Bembo. In confronto con l’autografo del Petrarca, il Vat. 3195 173 , 
l’Aldina è parte più latineggiante, parte meno. Il Bembo accolse dalla 
grafia umanistica l’hjho; autogr. o), il ti (spatio, gratta come nell’auto- 
gr., ma anche topati-, autogr. topagiì, i digrammi greci (cethera «cetra», 
autogr. ceteraì, ma invece rappresentò decisamente l’assimilazione dei 
gruppi consonantici (tt, non et, pt)-. peculiarità che è, se si vuole, un 
ritorno a quella che era la grafìa prevalente nel Petrarca, ma segna un 


160 G. Mailer, Documenti delle relazioni delle città toscane... coi Turchi, Firenze 
1879; Marzi, La Cancellerìa, cit., p. 413 . 

170 V. per es. E. de la Charrière, Négociations de la France dans le Levant, I, pp. 
122-129, pp. 285-294. Ma di rado rimangono gli atti originali, e è diffìcile 
distinguere, senza particolari indagini, quale è la lingua in cui i documenti furono 
dapprima stilati. 

171 Ho compiuto un esame più serrato delle varie peculiarità della grafìa nel 
mio articolo «Note sulla grafia italiana nel Rinascimento», in Studi di filol ital 
XIII, 1955 (rist. in Saggi ling., pp. 197-225). 

Jf®® era uscita dalla stessa tipografia relegantissima Hypnerotoma- 
crua Poliphili, latineggiante anche nella grafia (persino con ae, oe), nel 1500 le 
Epistole devotissime de Sancta Catharina da Siena, anch’esse con la solita grafia e 
punteggiatura. 

173 Che in quell occasione probabilmente il Bembo adoperò solo per un 
riscontro, e molto più tardi acquistò; cfr. G. Salvo Cozzo, Il cod. vaticano 3195 e 
l edizione aldina del 1501, Roma 1893, G. Mestica, in Giom. stàr., XXI, 1893 dd 300- 

* Z't'- 



348 


Stona della lingua italiana 


deciso distacco dalla grafia dominante in quegli anni Ritroviamo 
questo metodo applicato dal Bembo anche negli Asolarti (1505); e il 
metodo guadagnò man mano, sia pur lentamente, terreno, in modo che 
alla metà del secolo possiamo considerarlo in notevole prevalenza. 
Anche la x è quasi del tutto abbandonata in questo periodo, sostituita 
da ss: l’unico punto che dà luogo a divergenze notevoli è la serie di voci 
che avevano in latino ex- e che dapprima si trascrivono anch’esse con 
-ss- (essempio, ecc.), mentre poi, attraverso oscillazioni che durano tutto 
il secolo, si passa a -s-. 

Invece le altre peculiarità, la h, il gruppo ti, i digrammi greci, 
specialmente nei nomi propri, si mantengono pressoché stabili nella 
prima metà del secolo, fuorché nei riformatori più radicali 01 Trissino e 
il Tolomei tendono a e limin arli, pur con diversi metodi e con qualche 
contemperamento con l’uso; le stampe di Neri Dortelata seguono una 
grafìa coerentemente fonetica-, la h e i digrammi sono aboliti e si passa 
a zi 1. Ma, nella seconda metà del secolo, i Toscani man mano vengono 
abbandonando tutte queste peculiarità làtmeggianti; invece il Setten- 
trione e il Mezzogiorno sono molto più restii ad abbandonare le grafie 
tradizionali, che offrono agli scriventi il vantaggio di appoggiarsi al 
latino. Per la h, già l’Ariosto, secondo la testimonianza del Giraldi 174 , 
aveva detto che «chi leva la H aH’huomo non si conosce uomo e chi la 
leva aWhonore non è degno di onore. E s'Hercole la si vedesse levata 
dal suo nome, ne farebbe vendetta contro chi levata gliela avesse, col 
pestargli la testa colla mazza...». Il Bruno attribuisce a un pedante 
toscanofilo (De la causa, I, p. 167 Gentile) il proposito di sopprimere la h, 
e lo mette in cattiva luce. Per la z, sia nelle voci dotte che avevano in 
latino ti (come gratta = grazia ), sia in quelle che avevano ti preceduto 
da consonante come dettone (= azzione = azione), si discute acremente 
negli ultimi anni del secolo fra Toscani fautori della z e non Toscani, in 
generale avversari 175 . 

In conseguenza dell’abbandono delle peculiarità grafiche latineg- 
gianti, vengono a prodursi o piuttosto a rivelarsi parecchie omonimie. 
Certe distinzioni che erano mantenute, almeno per l’occhio, dalla 
grafia, spariscono, e di conseguenza o sussistono nella lingua due 
parole (omofone e omografe) con significati diversi (per es. otto da acto 
e atto da opto) ovvero gli inconvenienti dell’omonimia spingono a 
eliminare la meno usata delle due voci (spariscono orto da ortus, esterno 
da hestemus, correzione, direzione da correptio, direptio, mentre soprav- 
vivono orto da hortus, esterno da extemus, correzione, direzione da 
correctio, directio. 

Le oscillazioni sono piuttosto frequenti nell’uso delle doppie, spe- 
cialmente dove il toscano non concorda col latino. Non si dimentichi 
che nell’Italia settentrionale le doppie sono quasi sconosciute alla 


174 Dei Romanzi , negli Scritti estetici, rist. Daelli, I, pp. 141-142. 

175 V. specialmente O. Lombardelli, La difesa del zeta, Firenze 1586. 


Il Cinquecento 


349 


Fortmiio^rì pdi>n per . questo * grammatici, a cominciare dal 
alcuna distinzione per tuttofi So SStra^Srse fiSoS £ 

“Doliate 6 ’ benChé “ dlVCrSe d ‘ re2ioni - dal 
La separazione delle parole è ancora incerta al principio del secolo 
quando si tratta di proclitiche U libri o ilibri ). 

doliw^w^ con 4 trib 1 u *° aUa chiarezza ortografica è l’introduzione 

l^eS del’^n Bemb ,°. e al Manuzio, n segno, accolto secondo 
del . greco nella scrittura del volgare, per indicar l’elisione 
appare la prima volta nel Petrarca aldino dei 1501 e penetra assai 
entamente nell’uso; alla metà del secolo è accolto generalmente e solo 
restano oscillazioni fra l’ambito dell’elisione e quello del troncamento 
e per qualche minore peculiarità Isu’l, ecc.). 

Anche gli accenti grafici sono esemplati sull’uso greco come si vede 
daUa preferenza data all’acuto nell’interno di parola foriSri calfS 
6 r al ^ ^ Dopo calche spora£crcompam? nS 

SSi AsllSni fwoSi ri 0 } vf SS ° è i ? trodotto dal Bembo e dal Manuzio 175 
afSecì m i nrS 5 ’ cbe b annoai CU ne volte il grave sulla finale (menò, 

aU’Sémo (S). ° ’ CaSMa ’ 6CC ) 6 qualche rara volta Accento 

scarsissima nei manoscritti e scarsa e 1 
ricca e r^ni n . Stan ? Pe * principio del secolo, diviene man mano più 
alVodfe^f 1 bo t m c ° mpl !f° ah» ^e del secolo è ormai molto simile 
a11 K^fi rna ’ tr ?,Y ato dei trattatisti che la regolano minutamente 177 
Nella scrittura, 1 mteipunzione rimane più a lungo scarsa e confusa 
c< ? nos 1 ce B punto <ehe serve anche datola e da pirnS e 
go a), la virgola e il punto doppio (che si equivalgono) l’interroirati- 
^hi a j arentesi> l aC ? ento e ^apostrofo; ma non li f doperà quSi mai 
nello scrivere consueto» 178 . Il Guicciardini conosce solo la virgola (nella 

fn^fw/V due punb (applicati anche per il punto e virgola e per il punto 

WmnMf^ P ° S1Z1 r ne ]' d punto fe rmo (solo in fine di periodo), il punto 
interrogativo, ma li adopera molto parcamente 17 ® 

soint^, 1 5SFE? P - Ù autore y° U che anche in quésto caso danno una 
spinta a una maggiore regolarità e uniformità: lo avvertono trià i 
trattatisti come il Dolce e il Lombardelli avvertono già i 

Accanto ai testi con interpunzione sommaria (con soli punti e 
virgole; oppure con punti, due punti e virgole) trSriL^o testi con 
interpunzione elaborata. Nel Petrarca aldino appare, sembra, per la 


m a Pe ! Tarca e ù Dante aldini avevano solo il verbo è con l’accento Brave 

.'!! f • Debenedetti, I Frammenti autografi dell’Orl. Furioso cit n xwvn 
170 Spongano, neU’ed. dei Ricordi, pp iixix-uoo: ’ ’ P ‘ xxxvn ’ 


350 


Stona della lingua italiana 


prima volta 180 il punto e virgola, per indicare ima pausa intermedia tra 
la virgola e i due punti. Il Bembo l’adopera (e l’adopererà nelle opere 
successive) in molti casi in cui oggi useremmo la semplice virgola, 
particolarmente davanti a proposizioni relative 181 . 

Nell’edizione aldina dei carmi latini dell’Augurello (1505) il punto e 
virgola è adoperato con una funzione diversa: esso appare alla fine di 
ogni lirica come pausa assoluta. 

Si badi che il punto serviva a segnare due pause diverse: quella alla 
fine di una proposizione seguita immediatamente da un’altra (nel qual 
caso è chiamato «punto minore» o «punto mobile», e dopo di esso si 
può trovare la minuscola), e quella più lunga alla fine del periodo 
(«punto fermo»). 

Il punto esclamativo («affettuoso») arriva molto lentamente a distin- 
guersi dall’interrogativo e a imporsi nell’uso. Lo descriveva chiaramente 
Aldo Manuzio 182 , ma senza adoperarlo nelle proprie edizioni. 

Dedicano alcune pagine all’interpunzione il Giambullari, il Dolce, il 
Ruscelli, il Salviati; con ampiezza e minuzia talvolta pedantesca ne 
tratta Orazio Lombardelli 183 . 


15. Suoni 

Anche per ciò che concerne le peculiarità fonetiche le divergenze 
sono assai forti al principio del secolo, mentre si vanno in buona parte 
conguagliando man mano che una norma grammaticale s’impone. 
Differiscono i Toscani dai settentrionali e dai meridionali, i prosatori 
dai poeti; ma anche se confrontiamo l’uso di due Fiorentini di cui ci 
restano autografi, il Cellini e il Guicciardini 184 , vi scorgiamo differenze 
sensibili. 


180 Come segno tipografico, esso già compariva negli incunaboli di alcune 
tipografìe nell’abbreviazione dell’enclitica latina que (<?;) e anche in italiano in 
dunq ; e simili. 

161 Abbiamo, per es., nel Petrarca aldino, c. 9 a-. 

Sé l’honorata fronde; che prescriue 
L’ira del ciel, quando 1 gran Gioue tona; 

Non m’hauesse disdetta la corona... 

O, nell’edizione principe delle Prose della volgar lingua (1525), c. m a: «Era per 
aventura quel di il giorno del natal suo; che a dieci di di Dicembre veniva; ne ad 
esso doveva ritornar piu-, se non in quanto infermo e con poca vita...». 

182 «puncto scilicet ad imam litteram, supra posita linea, si interrogatio fuerit, 
retorta, si affectus recta»: Institutionum grammaticarum, p. 181 dell’ed. giuntura 
del 1516. 

183 Dapprima più brevemente nel trattatello De ' punti e de gli accenti che ai 
nostri tempi sono in uso..., Firenze 1566, poi nel volumetto su L'arte del puntar gli 
scritti 1585. V. anche G. Vittorij, Modo di puntare le scritture vulgati, et latine. 
Perugia 1598. 

184 V. i buoni spogli di C. Hoppeler, Cellini, di R. Spongano, nella cit. ed. dei 
Ricordi ; v. anche quelli di E. Raimondi, nella sua ed. dei Dialoghi del Tasso (voi. I). 


Il Cinquecento 


351 


Prevale ancora il dittongo nel tipo truova, pruova (anzi abbiamo un 
Uova corretto mtruova nel Guicciardini: Spóng. lxxxiii); brieve è nel 
Machiavelli e nel Cellini, ma nel Guicciardini predomina breve . 
Laiternanza tra forme dittongate alla tonica e monottongate 
atona è abbastanza rispettata dai Toscani: hanno osservato la 
regola e la prescrivono il Varchi Percolano, p. 143) e il Salviati (Awert., 

l’alternanza 188 InV6Ce fuori ^ Toscana l’analogia fa spesso violare 

L’esito di -er- da -ar- è normale a Firenze e nei dintorni, mentre già a 
Siena e ad Arezzo -ar- persiste 187 . Nella serie dei futuri e dei condiziona- 
li te torme m -erò, -erei s’impongono, conforme alle prescrizioni dei 
grammatici 188 . 

Qualche scrittore settentrionale o meridionale ancora si attiene alle 
forme in -arò, -arei (come il Giovio nelle lettere, ecc.); ma avendo il 
yergeno adoperato invocarò, pendarò, trovarete, il Muzio lo rimprovera 
della trasgressione {Battaglie, c. 51 a): gli sfuggiva, evidentemente, che i 
xutun m -erò erano dLorigine fiorentina. 

?. e * a serie si imponeva per il suo valore morfologico, invece 
negli altri casi (per es. nei tipi -eria, -eretto ecc.) le forme in -er- avevano 
un cammino meno facile. I grammatici stessi non vi si raccapezzavano 
bene: per es. il Salviati (Avvertimenti , l. Ili c. n, part. il), pur trovando 
nel Boccaccio ambedue le forme, preferisce Barberia a Barbaria in 
quanto gli sembra che la seconda «abbia dello straniero». Il Castiglio- 
ne scrive vecchiarella, il Valeriano parla dei giovanotti dottarelli, 

1 Ariosto nell ed. del 32 usa pescarecci e vecchiarei, ma Bulgheria, il 


185 Ma leggiamo un huomaccio nel Cellini (Hoppeler p 7 ) 

Vedo Bembo inhispagnuolita (Prose , Venezia 1525, c. xin). truovare nel 
Sansovmo, vuolere e persino buontà nell’ Agostini ecc 

J 1 Tol « m | i distogue nel Polito fra -arà dei verbi in -are e -erà dei verbi in -ere. 
ajppiamo da Fabio Benvoglienti che il Tolomei volontariamente si atteneva ad 
? ^ ne Particolarità grammaticali, come amarò per amerò, legge imperativo per 
Per , V f° n ° (Tolornei ’ Lettere - Venezia 1547, c. 234 b), probabilmente 
f 1 u f0m ì e sen , esi storicamente più giustificate di quelle fiorentine. 
AnO tt: alt ^°T C ,^o mC ^ e ad a PP rovare altri senesismi, come risulta dalla 
lettera al Cmuzzi, del 1543: «Quanto a la grammatica, parmi che vi siate lassato 

noteO^r da ruso del parlar Senese, la qual cosa se ben si 

potesse difendere, dicendo che voi scrivete ne la lingua Toscana de la città 
vostra, come han fatto molti poeti, e prosatori Grechi ne la lingua de la lor patria- 
f gh è megho fuggir sempre ogni scoglio, benché piccolo, che urtarli; 
^. non y? S1 rom Pa. E certo ne nostri tempi son cresciuti certi 
(Lettenl cft * c^o* b)* ^ tr ° ppa debilezz a di stomaco non sopportano». 

rìnnp 8 nece ssità eziandio, che, in tutti i verbi della prima maniera, la o si 

ponesse nella penultima sillaba... Ma l’usanza della lingua ha portato che vi si 
E°P®. la e m ij uePa vece ’ ® dipesi amerò, porterò » (Bembo, Prose, p. 131 Dionisotti). Il 
Gra ™P}? tlc hetta dà solo honorerò, honorerei, ecc. Il Salviati 
(Avvertimenti, II, c. 16) biasima le forme porterò, portarei, «che alcuni scrittori a i 
nostri tempi hanno voluto introdurre, 01 Nencioni pensa che alludesse al Varchi 
eclettico nell’uso dei due tipi). • 


352 


Storia della lingua italiana 


senese Piccolomini vestarella, Pietro Aretino petrarchescaria, mentre il 
Muzio conia il termine di fiorentinaria. 

Un punto in cui si ha ancora forte oscillazione è l’adattamento dei 
latinismi con u breve: vulgo / volgo, congiugazione / congiogazione, 
traduzione / tradozzione (Contile), suggetto / soggetto, sustanza / 
sostanza, facultà / facoltà, capitulo / capitolo, ecc. 

Nei latinismi che contenevano ou s’era diffusa una pronunzia al 
(laldare, aldace ) che il Castiglione, il Valeriano, il Muzio, il Lombardelli 
considerano un vezzo fiorentino da non imitare. 

La iod iniziale di parola nei latinismi ora è conservata, ora è resa 
con g palatale Giocondo / giocondo, Iulio / Giulio ecc.) 18 ®. 

Le alternanze nell’uso delle palatali sibilanti (bacio / bascio) sono 
ormai rare 190 ; non mancano esitazioni tra sorda e sonora (brugiare per 
es. nel Caro-, straginare nel Vasari); fuori di Toscana la g palatale 
scempia è spesso sostituita dalla doppia (malvaggio, raggione nella 
lettera di Raffaello e Baldassar Castiglione sulle antichità di Roma, 
caggionare in G. Bruno, ecc.). 

Si hanno oscillazioni fra il tipo cingere e il tipo cignere (aggiugnere, 
dipigne: Guicciardini; istignere : Cellini; cignerò: Cecchi, ecc.), in cui i 
grammatici mal si raccapezzavano 1 ”. 

Il tipo mugliare, ragliare. Figline vince in questo secolo mugghiare, 
ragghiare, Figghine, come reazione alla pronunzia contadinesca del 
tipo migghia per miglia 192 . 

Lotta tra forme plebee e forme civili si ha in Toscana anche nelle 
serie schiavo / stiavo, ghiaccio / diaccio (stiavo : Mach.; stiaccia, mastio : 
Cellini; diacere, diacitura : passim; diaccido-, Soderini, ecc ); e qualche 
traccia ne permane (mastio come termine di fortificazione, diaccio, 
ecc.). 

Invece l’alterazione che a Firenze aveva cominciato a manifestarsi 
nei gruppi di l + cons. (altro) 193 non lasciò tracce. 

Dei fenomeni di fonetica sintattica alcuni sono un po’ obliterati 
dalla stabilizzazione ortografica dovuta alla stampa (a loro, il re, anche 
se la pronunzia toscana è alloro, irré). 


188 Talvolta anche dove l’i era vocale: il Muzio rimprovera al Varchi d’aver 
scritto gionica perché l’i era vocale (Battaglie, c. UO) - e vuol’esser chiamato 
Hieronimo. Il Dortelata stampa invece san Ghieronimo e cosi pure interghiezione-, 
conghiettura si trova dal Trecento al Cinquecento. 

190 Ma il Norchiati nella nota lettera al Varchi (1540) attesta che alcuni 
pronunziavano rucello in luogo di ruscello, e- non più bascio e camiscia (Prose 
fiorentine, p. IV, voi. I, lett. 52). 

l “ Il Sansovino (Ortogr., s. v.) afferma che «dipignere dicono i poeti», ma poi 
dice anche che «cingere è del verso». 

*“ Castellani, in Lingua nostra, XV, 1954, pp. 66-70. 

183 II Muzio (Battaglie, c. 38 b) asserisce che «il Varchi maestro della lingua... 
pronontiava ascoita et una aitra volta». Ma si doveva trattare solo di una 
alterazione embrionale: il Salviati assicura che il suono «pare un i... a coloro a cui 
l’idioma è straniero» (Avvertimenti, voi. I, III, in, part. 6). 


Il Cinquecento 


353 


T and £ Una m . veng& a Covarsi alla finale, di 
ecf ^ CoTlt ShihS™ i - ® - n0 ? Sia davanti a labiale): possian dire, 

praticai per ferrnaUo CAxmst^Cb^lYir 6 

Mandragola* vedello 

possa ° si debba troncare in prosa e in verso è 

regole I^ll^ 0 Ì t rnS SCUSSl t 0m, i dat ° che è Pressoché impossibile fissar 
regole. Nella prosa, mentre le spontanee consuetu dini toscane sono 

Se CC /nùfr “S u StÌ di tdno familiare 190 , negli scrittori non toscani si 
sente talora 1 influenza dei moduli boccacceschi: per es «quella 

Sia * neUa l^ra dedicatoria del Cortegiano. Il 
fsmelbJ ^ d dir f e cSÌgnore e simili senza troncamento 

wntarii, p.^ 55 ? 6t C ° me proprio del Parlar’ abbruzzese» (Com- 

dfiirAHnJn rSÌ n SÌ ^ Sputa sulla legittimità di troncamenti come quelli 
, V u- S £ nor ’ ° 1 tìran te S ue l castello», « Mifabil voci e 
io c qUe w Uo del Tasso neUa Gerusalemme liberata 
U P l f rdon "’ Perdona» (infelicemente mutato nella 
Conquistata m «Amico hai vinto; e perdono io, perdona»), 

16 . Forme 

eiteiinazione di varianti morfologiche è in complesso piuttosto 
forte e dovuta m gran parte ai grammatici. 

naradimn^h^mafo A ® 1 no “ e \ n ° tiamo d tardo stabilizzarsi del 
d Jfr ArùSfn ■ te m ? m: la forma etimologica le mano, usata 

pnma red f zl one, è successivamente eliminata; la 
forma analogica la mana / le mane è usata dal Cellini 188 

ti dei SOStant ivi m -ca e -ga, e degli aggettivi corrisponden- 

ti, 1 oscillazione per influenza latina, è fortissima, e troviamo numerosi 
esempi contrari agli schemi che poi si consolideranno: prcSZe S osto* 


rerZ^ÀT 0 di P arti <*nci (canto carnascialesco «Quanto è dura ») 

KdSl^ eg^beStao^segTendo 


354 


Storia della lingua italiana 


famelice (Ariosto), diabolice, filosofìce, grece (Doni), Filippice (Speroni), 
ecc. 

Pure assai forte è l’oscillazione per i nomi e aggettivi in -co e -go: 
equivochi (Tolomei), sindachi (Nardi), distichi (Baldi), dittongi, trìttongi 
(passim), dialogi (Contile); pratichi (Salviate), ecc. 199 . 

Per l’articolo, nella prima metà del secolo si ha qualche esempio di 
el anche nei fiorentini: Cosimo firma spesso el duca di Fiorenza. Ma poi 
finisce con l’imporsi l’uso di il, che è la forma consigliata dai 
grammatici 200 . La distribuzione di il e lo quale è codificata dal Bembo 
(Prose, p. 91) comprende anche i tipi da ’l e lo’ nganno-, davanti a s 
implicata i grammatici (Bembo, Varchi, Muzio, Salviati) raccomandano 
lo, ma di fatto troviamo numerose eccezioni. Davanti a z, si usa il. Il 
Bembo {Prose, p. 92) prescrive lo dopo per e messer; ma la norma è lungi 
dal trovare il consenso generale {per il passato, per il futuro, Gelli; per il 
passato, Lenzoni; perilche, Giambullari-, per il contrario, Guicciardini; 
per il fango accanto a per lo suo buon verso nelle Annotazioni dei 
Deputati, ecc.; in altro nesso postconsonantico far lo satrapo, Caro); al 
Ruscelli {Comm., p.-5l6) già per lo papa suona provinciale («abruzzese»); 
il Montemerlo loda l’Aretino d’esser sfuggito alla «superstizione» 
d’usare lo dopo per, mentre il Salviati QI, n, xxn) ammette pel «favorito 
dalla voce del nostro popolo, che altramente non dice mai» e biasima 
per il «del moderno stil cortigiano». In la, combattuto dal Bembo {Prose , 
p. 155), perde molto terreno: e spesso l’Ariosto lo eliminò nella sua 
revisione. 

Per il plurale, la distribuzione è analoga al singolare: e è in forte 
regresso, ecc. Riguardo all’oscillazione fra li e gli il Salviati (II, n, xxii) 
contesta che il Bembo abbia ragione di preferire per li a per gli ; il 
Ruscelli {Comm., pp. 511-512) raccomanda di non usare gli quando sia 
vicino un altro gli. 

Per i numerali, si hanno ancora numerose forme per indicare il 2: 
duo, dui, doi, duoi, due, du\ dua. I vari autori usano per lo più due o tre 
forme ora promiscuamente, ora secondo il genere del nome che segue, 
secondo la collocazione del numerale (prima del sost. o dopo) e, qualche 
volta, secondo il suono iniziale del vocabolo seguente (da’ davanti a 
vocale). Vi è ima certa tendenza nei poeti a distinguere duo per il 
maschile e due per il femminile, secondo la regola latina e frequenti 
esempi del Petrarca (duo amanti, 115, 1; due rose fresche, 245, 1): è questa 
la regola seguita dall’ Ariosto (non senza eccezioni, e con raggiunta che 
i plurali in -a per lo più vogliono duo.- dua dita, dua cornai e dal Tassò. 
In prosa duo abbonda nei fiorentini (Machiavelli, Gelli, Guicciardini) e 
ad essi è rimproverato (cfr. Salviati, Avvertimenti, I, II, 19); anche duoi è 


180 Cfr. anche domestichissimo (Castiglione), ecc. 

200 II Bembo (Prose, p. 91 Dion.) registra solo il, e così il Trissino; l’Acarisio (p. 1) 
conosce el solo «in compositione» (per e ii); il Ruscelli {Comm., p. 517) considera el 
(e il plurale e) «non solamente vitio, ma orrendo & spaventoso mostro nella lingua 
nostra». 


Il Cinquecento 


355 


piuttosto del fiorentino parlato. La Crusca, abbandonando ogni distin- 
zione di genere, raccomanderà due in prosa e duo in verso, 
j Un Pun to s . u .grammatici non arrivano a imporsi è l’ostracismo 
da essi dato a Im e lei come soggetti. Anche l’ostilità con cui parecchi di 
essi impugnano il nuovo valore allocutivo di Ella e Lei non arriva a 
opporsi all ondata dell allocuzione in terza persona. Si possono distin- 
^ ^espansione 201 : nella prima fase (che si svolge principal- 
mente nel Quattrocento) si generalizza l’uso dei pronomi quella, ella, 
if ’ rif e rim ento ad allocuzioni astratte come Vostra 

Signoria, Vostra Magnificenza, ecc. (allocuzioni che trionfano nell’uso 
cortigiano mentre i letterati si sforzano di tener vivo, promiscuamente 
con esse, il voi); nella seconda fase (primi decenni del ’500) divulgatosi 
per influenza spagnola l’uso di dar del signore a tutti (v. p. 359), e quindi 
generalizzatosi il trattamento di Signoria, spariscono le altre forme 
pronominali, Quella, Essa, ecc., lasciando posto a ima sola, Ella - Lei 
(con Ella come soggetto e Lei per i complementi con preposizione- ma 
anche con Lei come soggetto); nell’ultima fase (metà del Cinquecènto) 

1 allocuzione prende ima fisionomia propria, intermedia tra il Voi e il 
Vostra Signoria completo 202 . 

Gli per «a lei», frequente nell’uso, è biasimato dal Ruscelli, dallo 
Varchi 202 ^ Salviatl ’ gli per * a loro> * Pure frequente, è biasimato dal 

Gliele come forma per tutti i generi e numeri, è raccomandato dal 
P- 110 Dl ° n) e si trova spesso (anche sotto la forma più 
popolare gliene o gnene); ma alla fine del secolo lo Strozzi raccomanda 
di evitarla ( Osservazioni , pubblicate in appendice al Buonmattei). 
mo ZÌ. i e J ltra neU ’ u ^> in questo secolo, specialmente nell’Italia 
me Ti t j° na ^ e p ® r es - m G- Bruno) ed è uno spagnolismo 204 . 
i 3 j dimostrativo cotesto è dai non Toscani male adoperato: per es il 
Randello parlando dei propri scritti, parla di «co testo sorte di novelle» 
Proemio I parte), oppure evitato (v. la testimonianza del Ruscelli 
Commentarli, p. 132). ’ 

Il possessivo enclitico del tipo frateimo, màtrema, che ormai nell’uso 
toscano è limitato a pochi esemplari e agli strati infimi della popolazio- 
ne, compare solo in qualche testo di tono popolare (in commedie del 
Machiavelli e del Cecchi, in modi di dire citati dal Doni); i grammatici, 


pp 187^96^ 0rm1, ‘ Priinordi del lei “’ in Lingua nostra, VII, 1946 (rist. in Saggi ling., 

casHeUanl'rit^ M ‘ A1 . essandri - nel Paragone della lingua toscana e 

castigliana, rat., c. 64: «Un altro mal uso regna oggi, ch'è di alcuni signori i quali- 

parlando o sraivendo ad alcun che lor paia disonorarlo col Vaie dì tronno 
dargU deU 5 Sl Sn°na gli parlano e scrivono in terza persona eguali 
Senno» ’ SU6 ’ 6d ^ Che m ° lte Volte non se ne P uò «avar sentimento 

ima^oha ^Hercotono.^ 11 ^ ' (Question ' * 185) - si ^a almeno 

204 D’Ovidio, Varietà filologiche, pp. 294-301. 


350 


Storia della lingua italiana 


che trovano qualche esempio in Dante e nel Boccaccio, spiegano le 
forme, ma le sconsigliano («bassissima voce»: Bembo; «per lo piu 
parlare di volgo»: Varchi; «voci plebee»: Citolini); anche nell’uso 
toscano plebeo ben presto esse spariranno. 

Quanto al verbo, alcune delle forme emerse nel 400 e che ancora al 
principio del secolo hanno una certa voga, sono man mano eliminate. 
Vengono ricacciate così le forme di 3 a persona plurale del presente di l a 
coniugazione in -ono (pensono, s'ingannono: Mach.; prestono, somiglio- 

no : Gelli ecc.) 205 . ■ . . 

Gli imperfetti in -o (-avo, -evo, -ivo, ero 1 sono adoperati esclusivamen- 
te dagli scrittori fiorentini più spontanei (Celimi); altri scrittori oscilla- 
no fra -o ed -a, e i non Toscani volentieri obbediscono ai grammatici 
(Bembo, Trissino) che ammettono solo -o: fu così che l’ Ariosto passò, 
nell’ultima revisione del Furioso, alle forme in -a. Alla 2 a persona 
plurale, la forma in -avi, -evi, -ivi, che è largamente attestata per 1 uso 
vivo (voi davi. Celimi; voi potevi, Gelli; voi havevi. Doni; voi gli volevi 
dare. Bramante), è condannata dal Salviati. 

Le forme di 3 a pers. del cong. imperfetto in -assi, -essi, -issi (mancassi , 
volessi. Machiavelli) sono aborrite dai grammatici (Tizzone Gaetano ne 
fa strage nella sua edizione del Poliziano). 

Nel condizionale, le forme in -ia sono ormai limitate alla poesia, 
salvo pochi esempi in prosa (nel Cellini, nel Vasari: forse per aretini- 

Sm Le forme dei perfetti forti in -o no (scrissono ) cedono nella seconda 
metà del ’500 alle forme in -ero, a cui il Bembo e altri grammatici 

avevano dato vigore 208 . . , „ 

I paradigmi sono molto meno stabili che quelli odierni, e le forme 
aberranti abbondano (perfetti deboli come vivette. Varchi; morette. 
Dav anz ali; participi come fondato, Cellini, ecc.). E anche maggiore è la 
oscillazione negli scrittori periferici: per es. nel passato remoto e nel 
condizionale affiorano presso i settentrionali, malgrado il monito del 
Bembo, forme in -assimo, -essimo, -issimo (noi andassimo «andammo», 
noi potressimo «potremmo»); presso gli scrittori meridionali si trovano 
ancora infiniti, participi e gerundi con affissi di plurale («per essemo 
essi usciti in campo a spasso»; Bruno, De la causa, I, p. 150 Gentile; 
«a vendono quelli a-sue male spese imparato»: Bruno, Cena delle ceneri, 
I, p. 25 Gentile, ecc.). 

II costrutto tranquilla e pacificamente, che l’italiano antico aveva 
posseduto, ma che non era stato accolto dai maggiori scrittori trecente- 
schi, ricompare ora nell’uso, specialmente cancelleresco: il Varchi 
scrive nel 1. V della sua Storia fiorentina «molto lunga e particolarmen- 


505 Tizzone Gaetano sconciava il Poliziano pur di eliminare le forme in -ono-. 
dopo aver mutato erono in erano, per salvare la rima doveva anche mutare posa 
ferono confine imperano , e così via (v. l’Introduzione dell’ecL Permcone, p. xxxixJ; 
il Ruscelli e il Salviati danno pure l’ostracismo alle forme in -ono. 

206 Nencioni, Fra grammatica e retorica, passim. 


Il Cinquecento 


357 


te (per usare ima volta ancor noi questo nuovo modo di favellare)», e 
questa nuova introduzione nell’uso ci rende certi che si tratta di un 
ispanismo 207 . 

17. Costrutti 

È ancora molto usato nel Cinquecento nell’apposizione col di, 
accanto al tipo col dimostrativo (« quella cicala della Brigida»; Gelli), il 
tipo col semplice articolo («ZZ semplice dello istrice»: Firenzuola; «il 
beccone del marito»; «ZZ fastidioso di suo cognato»: Bandello) 200 . 

L’uso dell’articolo con ellissi del sostantivo, quale può essere 
esemplificato da un passo della dedica dell’Orazìa dell’Aretino a Paolo 
III (1547): «la vita di Gesù Cristo e Za di Maria Vergine, eia di Tommaso 
d’ Aquino» o da ima lettera del Parabosco («Questa mattina ho avuto la 
di V. S....»: Lettere, Venezia 1546, e. 19 a), è certo uno spagnolismo. 

Tutti può essere seguito dal sostantivo senza articolo: tutti mali, 
tutti corpi (Tasso). 

I comparativi e i superlativi si presentano talvolta ancora con 
avverbi intensivi: «quella che più è migliore » (Bembo, Prose, p. 42 Dion.), 
«beono sempre i più pessimi vini» (Aretino, Cortig., Ili se. 6). 

L’ènclisi pronominale all’inizio di proposizione è ancora predomi- 
nante, specialmente negli scrittori arcaizzanti (per es. nel Bembo), ma 
ormai gli esempi negativi alternano con quelli positivi (si può, ti 
ringrazio, ma dirotti nella stessa scena della Pinzochera del Grazzini, I, 
se. 6). 

Nelle coppie pronominali, il tipo se gli (se li), se le 200 è più frequente di 
gli si, le si-, il tipo lo mi, la mi ecc. è più raro di me lo, me la, ecc. 210 : 
esempi tuttavia non ne mancano 211 . 

Nelle costruzioni participiali assolute, il participio spesso rimane al 
maschile singolare: «fatto Pasqua» (Bembo, lettera del 1503), «straccia- 
to la scritta e licenziato Nicodemo» (Grazzini, Spiritata, I, se. 3), 
«restato la femmina contenta» (Doni, nov. XIII), «gli operai, vistosi in 
vergogna» (Vasari), «conchiuso le proposizioni a rovescio» (Davanzati), 
ecc. 


207 Migliorini, Saggi ling., pp. 148-155. 

208 La spiegazione del Salviati che vede nel primo membro una sostantivazio- 
ne astratta («dove l’addiettivo infelice per lo sustantivo infelicità è posto senza 
alcun fallo»; Avvertimenti, II, ii, cap. 101 non è accettabile: basti pensare a 
femminili come «la trista della volpe» (Firenzuola). 

209 Cioè il tipo V della classificazione del Lombard, in Studier mod. spr., XII, 
1934, pp. 19-76. 

210 Tipo III del Lombard. Il Bembo, opponendo un uso «italiano» a un uso 
«toscano» (Prose , p. 106 Dion.), si rende conto che questo secondo sta perdendo 
terreno (ma per suo conto preferisce attenersi all’uso arcaico). 

211 Molti nel Bembo; «perché la le diè Astolfo» (Ariosto, Ori., XXXII, st. 48); 
«cercando pur di tortomi davanti», (ib., XXIV, st. 39); «la ti chero» (Giraldi, 
Hercole, Vili); «diteiemi» (Tenzoni, Difesa, p. 20 ), ecc. 


158 


Storia della lingua italiana 


La tendenza a un periodare sostenuto, e perciò a una subordinazio- 
ie complessa, è cosa troppo nota perché ne dobbiamo parlar qui Ctan 
dìù che P un esame analitico richiederebbe troppo lungo ^corsoi Fo 
progressi fa là costruzione dell’accusativo con 1 infinito . L azione 
•'onscia dei gr amma tici, con gli scrupoli di chiarezza che introduce, 
regredire fortemente le ellissi dei che relativi e dichiarativi; tuttavia se 
ae hanno ancora esempi («di quello vi sia di buono»; Machiavelli; « 
hmrfimpnto aveva fatto al suo signore»; V ettorlr . 

Nelle proposizioni concessive, sebbene si usa quasi sempre con 
l’indicativo, benché col congiuntivo: «le quali cose se bene pi^evano 
allo universale» (Guicciardini, Ricordi, C 21 s pongano), «IGmdol non 
poteva, sebbene gli dispiaceva, tenere le nsa» (Vasan, Vita di Buffai 

macco) 214 . 

18. Consistenza del lessico 

In questo paragrafo e nei successivi, potremo toccare solo. come è 
ovvio di alcuni fenomeni più generali, senza poterci soffermare .sull 
peculiare fisionomia che assume il lessico dei singoli secondo il timbro 

del La 1 cono P sce S nza a denessico durante il Cinquecento si allarga notevol- 
me^e °"a per la quantità del vocaboli donnnat daUe persone di 
aualche cultura, sia per il numero crescente di tah persone. 

I Toscani hanno il vantaggio di potersi appog^areallorolessico 
patrimoniale, e parecchi di loro vanno cercando con cmiosità vocaboh 
e locuzioni colorite (che in parte riescono poco ìntelligibih ai non 
Toscani, e sono accolte da questi solo limitatamente). Settentoion^ie 
meridionali indulgono in misura sempre rnmore ai loro dialettahsmr 
Per restare sul saldo terreno della tradizione scritta, essi inclinano 
molto più che gli scrittori toscani ad accogliere latinismi. 

Le dichiarazioni programmatiche sono lungi 
l’uso effettivo: il «lombardo» Castighone ha, in complesso pochi 
lombardismi e l’arcaizzante Bembo ha, come rilevava già d Caro, 
moltissime voci che non erano state adoperate dal Boccaccio. 

La lingua del Cinquecento conserva molti vocaboli che ’J^jJcati 
dal punto di vista di oggi, sembrano arcaici, ma che allora erano ben 
vivi e sono stati sostituiti solo nei secoli seguenti: si i pensi a 
stufa «bagno pubblico» o come fornire per «finire». Altre parole mvece 


21^ U. Schwendener, Der Accusativus cura Inf. im Italienischen, Sàckingen 

213 II Salariati a proposito del passo boccaccesco «io credo, se 
perseverato il mio duro proponimento si sarebbe piegato» all, nov - ■ 
ch”SdarJ “esso il che è usanza del Boccaccio e graziosa proprietà della 

Spongami, ed. cit. dei Bicordi, p. cxxxvn, Scoti-Bertinelli, G. 
Vasari scrittore, Pisa 1905, p. 200. 


Il Cinquecento 


359 


già erano in decadenza, e rimanevano in uso soltanto nella lingua dei 
ceti inferiori. 

Gli scambi tra regione e regione, assicurati da un’attiva civiltà 
letteraria, si mantengono sempre vivaci e contribuiscono a conguaglia- 
re le divergenze. Tuttavia i letterati tendono a staccarsi dalla vita, a 
fare quasi una casta a sé L’ambiente diventa man mano sempre più 
chiuso, pesante, conformista: si ricerca il grave, l’eroico, il pomposo. 
Latinismi e spagnolismi spesseggiano. 

L’importanza data ai modelli trecenteschi ha consolidato un notevo- 
le numero di doppioni, che i grammatici in qualche modo giustificano 
attribuendo a ciascuno una porzione dell’uso: quelle distinzioni tra 
forme popolari e forme più o meno letterarie per cui i grandi scrittori 
del passato si erano regolati secondo il loro gusto, ora diventano 
oggetto di prescrizioni più o meno rigorose. Non solo si distingue tra 
parole adatte alla prosa e parole adatte alla poesia, ma fra parole più o 
meno convenienti a dati generi letterari. 

L'apparizione di nuove cose, la conoscenza che se ne acquista, la 
elaborazione di nuovi concetti, il mutamento dell’angolo visuale fanno 
sì che molti nuovi vocaboli compaiano e parecchi altri mutino di 
significato. 

Per quel che concerne la vita civile e sociale, ecco alcuni esempi. 
Stato, che, riferito alla politica, aveva ancora nel Trecento il significato 
di «regime», dalla fine del Quattrocento in poi si riferisce sempre più al 
«territorio» su cui si esercita una signoria, e il Machiavelli contribuisce 
a precisare questo significato della parola, il quale diventa comune in 
Europa nel Cinquecento. 

Di questo secolo è anche la diffusione di ragion di stato, ricalcata 
sulla locuzione classica ratio reipublicae 2ls . 

Appare il termine di democrazia, contrapposto, nei primi esempi in 
cui appare (F. Baldelli, ecc.), a quelli di monarchia e aristocrazia, 
secondo la nota tripartizione aristotelica. 

Signore, il titolo che prima si dava solo a quella o quelle persone che 
esercitavano il potere (la signoria ), si estende molto largamente, per 
influenza spagnola: l’Ariosto si lagnava nella satira indirizzata a suo 
fratello Galasso (1519) che dessero questo titolo perfino agli stranieri e 
alle cortigiane: 

«Signor», dirò - non s'usa più «fratello» 
poiché la vile adulazion spagnuola 
messe la signoria fin in bordello! - 
«Signor» (se fosse ben mozzo di spuola) 
dirò... 

{vv. 76-80). 

E signora potè nel Cinquecento significare, senz’altro epiteto. 


215 De Mattei, in Lingua nostra. Il, 1940 pp. 97-100 


360 


Storia della lingua italiana 


«cortigiana». Del resto, il termine stesso di cortigiana prende significa- 
to spregiativo proprio per l’uso eufemistico che se ne fece m que 

SeC L’aegettivo galante Centrato in italiano nel ’400, dal francese, ma 

non sfnza concomitanti influenze spagnole) esprime le moltephci 

qualità dell’uomo di mondo, alla cortesia si unisc ® * ^XJverso 
raffinatezza, la probità, la gentilezza ora cerimoniosa oraardita verso 
le donne; il galantuomo è tipo di perfezione sociale (e fra le qualità 

finisce poi col prevalere quella di probità). 

In contadino la nozione di «lavoratore» predomina ormai su quella 

di «abitante del contado» 219 . , . aUa _ oll „ 7ione 

Lo scadimento della vita monastica che ha portato "illaxione 
delle rendite di parecchie abbazie come benefici ecclesiastici fasiche 
abate si riduca a un semplice titolo-, «è qui un gentiluomo il quale ha un 

fieri io di dieci anni abate » (Casa, Prose, II, p. 35). 

L’aggettivo bravo sostantivato viene a indicare un «uomo manesco» 

(Giannotti), con «la coltella a cintola» (Doni): 

vita di questo tempo, spesso rappresentata nelle scritture , sono ai 
auest’età anche bravare, bravata, bravura™. __ . „„„„ 

Le capacità che più si apprezzano, in questa raffinata civiltà s 
considerate come altrettante virtù-, di qui il nuovo sigmficato di virtuoso 
nato nelle corti e applicato agli artisti, ai letterati, ai canton . 

L’instaurarsi di stabili usi teatrali porta al concretarsi di una 
precisa terminologia: nel Negromante dell' Ariosto 1 versi terminah de a 
redazione del 1520 sono sostituiti, otto anni dopo, da altri in cui la 
forma è più spedita e la terminologia rinnovata: 

Or fateci 

con lieto plauso, o spettatori, intendere 
che non vi sia spiaciuta questa favola 220 . 


«...la voce contadino è tutfaltra cosa, se benda P^j^f^^corsf lì"? 
parte de’ nostri abusandola, la pigliano per “lavoratore » (Borghuu, Discorsi, il. p. 

518 \.v p N i C olini. «I bravi nella letteratura del Cinque e del Seicento», in Nuova 
Ant ° l * ’NeirìtaUa^ettentrionale. accanto al nome di bravo figura qualTparfa 

Esterne - E nkS?U Calmela ““ S*-. p. 70 Gwaonl - 

vertuoso. 

220 Folena. Crisi, pp. 154-155. 


Il Cinquecento 


361 


Spettatori figura anche come termine ormai affermato, nel rifaci- 
mento del Bemi, che è di quegli anni. 

Peripezia, riferito dapprima alle vicende dell’intreccio teatrale in 
discussioni aristoteliche (Speroni, ecc.), viene poi applicato alle vicende 
della vita (Sassetti); probabilmente anche catastrofe risale alla Poetica 
di Aristotile. 

Si concretano nel Cinquecento anche le figure ed i nomi di 
parecchie maschere teatrali-. Zanni, che è la personificazione del 
contadino bergamasco avvenuta a Venezia, il Magnifico, personifica- 
zione del vecchio veneziano (cui poco dopo si attribuisce il nome di 
Pantalone ), il dottor Graziano, con i tratti del dottore bolognese, il 
Capitano ICap. Spavento, Gap. Fracassa, Cap. Matamoros) per lo più 
napoletano o spagnolo, ecc. Nella maschera di Arlecchino un comico 
dell’arte italiano che si trovava a Parigi verso il 1570-80 (forse il 
bergamasco Alberto Ganassa) fuse le caratteristiche della figura 
tradizionale degli Herlequinis (buffonesca degenerazione della mesnie 
Hellequin, processione di dannati, nota fin dal sec. XI) 221 con le 
caratteristiche degli Zanni. 

Sorge in questo secolo il costume e il vocabolo deU’improwisare (nel 
Varchi anche prowisare). 

Si fissa al principio del'500, sembra, il significato musicale di 
concerto. 

Molti nuovi nomi si danno a nuovi balli: ricordiamo la moresca e la 
pavana (v. p. 388). 

Nascono a Roma le pasquinate, satire affisse al torso di Pasquino, e 
a Venezia i primi avvisi e le prime gazzette manoscritte (così chiamate 
dal nome della moneta che bastava per pagarne una copia). 

Il ducato nuovo di zecca prende a Venezia il nome di zecchino (1543). 

Il nome di umanista, destinato a prendere poi tanti significati, 
appare (in latino alla fine del Quattrocento, in volgare ai primi del 
Cinquecento) come termine scolastico per designare chi insegna le 
humanae litterae. 

Rinascita prenderà solo nell’Ottocento il suo moderno significato 
periodicizzante: ma già il Vasari si propone di scrivere le sue Vite 
distinguendole in tre età, «da la rinascita di queste arti sino al secolo 
che noi viviamo» (prefazione II parte: II, p. 95 Milanesi). 

Gotico, tratto dal nome dei Goti, considerati come i principali 
eversori della civiltà romana, viene applicato dagli umanisti all’archi- 
tettura ogivale, da essi ritenuta «barbarica». 

Pedante, foggiato come nome decoroso del ripetitore che accompa- 
gna gli scolari, può ancora avere valore obiettivo («Pierfrancesco 
pratese, stato pedante del duca»: B. Segni), ma i dileggi dell’Aretino, del 
Caro, del Grazzini finiscono col dargli una connotazione spregiativa; e 

221 Dalla quale anche derivano V Alichino dantesco e IVUchino ariostesco (Ori. 
fur., VII, st. 50). 


362 


Storia della lingua italiana 


spregiativi sono tutti quanti i derivati Ipedantuzz o, -eria, -aggine, -esco, 
-are). 

Il termine di gusto, buon gusto, trasferito in Spagna dalle sensazioni 
corporee ai sentimenti estetici, e accolto anche in Italia in questo 
significato («l’aver avuto in poesia buon gusto » nel noto verso dell’ Ario- 
sto, Ori. fur., XXXV, st. 26). 

Mentre Accademia prende ora stabilmente, come abbiamo accenna- 
to, il significato moderno, Liceo e Museo muovono i primi passi dalle 
antiche carte alla realtà: si chiama Liceo una riunione di eruditi in 
Roma in casa di Claudio Tolomei 222 , Paolo Giovio chiama Museo la 
propria villa di Como, con una raccolta di ritratti 223 . 

I sommovimenti portati dalla Riforma e poi la restaurazione 
cattolica hanno numerosi echi. Si foggiano nomi come luterano (dappri- 
ma anche luteriano), ugonotto, protestante (scelto come più obiettivo, 
meno «odioso» di quello di luterano) 22 *-, si designano nuove istituzioni 
cattoliche (per es. cappuccino, gesuita). 

II nome ghetto passa ora da Venezia ad altre città, man mano che si 
obbligano gli Ebrei a risiedere in un quartiere isolato. 

Chi è poco osservante in fatto di religione è facilmente accusato di 
ateismo. 

Il nuovo rigore instaurato dalla Controriforma porta a espurgare 
molti libri-, i nomi di destino, fato, fortuna e simili sono talvolta eliminati 
o sostituiti da Provvidenza; divino, che era stato adoperato negli ultimi 
decenni del’400 e nei primi del ’500 con incredibile abbondanza 225 , 
regredisce rapidamente quando si fa sentire la Controriforma 226 ; 
locuzioni come per Dio, per la tua fede, e persino vatti con Dio sono 
evitate per timore di fastidi; certi nomi odiosi vengono sostituiti da 
perifrasi (non si parla più del Machiavelli, ma del Segretario Fiorentino); 
in occasione della «rassettatura» del Decameron, i revisori romani 
volevano che si togliessero espressioni come bellezze eterne e non potere 


222 Contile, Lettere, Pavia 1564, 1. c. 19 b. 

223 Lettera all’Aretino del 1538 CI, p. 207 Ferrerò) e altre lettere, passim. Un 
altro Museo fu poco dopo istituito da Alberto Lollio. 

221 Viceversa quello di riformatore suscitava scrupoli cattolici (Speroni, 
Orationi. p. 67). 

225 Per es. «questi signori hanno formato un Cortigiano tanto eccellente, e con 
tante divine condizioni» (Castiglione, Cort., Il, § 98). Lo stesso Ariosto accredita 
l'epiteto dato all' Aretino-, «il flagello - de’ principi, il divin Pietro Aretino» (Ori. 
fur., XLVI, st. 14) e a sua volta riceve il medesimo titolo {neH’edizione principe 
dell’Erbolato, ecc.). Ben legittimamente l’epiteto di divino, che era stato più volte 
riferito a Dante e al suo poema fin dal tempo del Boccaccio, prende definitiva 
consistenza nel titolo della Divina Commedia, a partire dal frontispizio dell’edi- 
zione giolitina curata dal Dolce nel 1555 (O. Zenatti, La « divina » commedia e il 
« divino » poeta, Bologna 1895). 

228 La dedica dei Madrigali del Cassola, fatta ancora nel 1544 al divinissimo 
Signor Pietro Aretino, è mutata l’anno seguente in una dedica all'eccellentissimo 
Signore. (Cosi, nella commedia Aquilana di Torres Naharro, «aquella divina 
mano», giorn. I, v. 58, è sostituito, in ediz. censurate, da bendila o admirable ). 


Il Cinquecento 


363 


Sm,S V ^ negaSSe i! , I ;, bero arbitrio). Ma non mancano tracce 
rnn^* he i dl reazione a11 1 P°cnsia dilagante, come la coniazione di 
collo torto o la connotazione spregiativa data a chietino 

Stat1 ’ ^ organizzazione degli uffici assume aspetti moderni: 
ma penche dascuno stato e autonomo, le istituzioni, anche analoghe 
2 ^Tc Cre T e ' hanno spesso nomi diversi. Le congrega- 
rono rnSi- da SlS i° v P ,? r a governo dell ° Stato della Chiesa non 
diver i e da qu , elh che in altri stati si chiamavano consigli 
b ® 1 e . cc ’ : Emanuele Filiberto istituisce un senato a Torino e uno 
a Chambery (corrispondenti ai «parlamenti» francesi) 

„ bes , tenders ^ dell’organizzazione burocratica fa sì che si coniino 
trachzi?iX C tP 2 ° 1 6 COStFUttÌ nuovi: e stile e lessico urtano i letterati 

Anche 1 abbondanza dei termini tecnici non piace ai letterati, i quali 
Ll eri | SC f 0n ° i C1 ° che e tradizionale e ciò che è generico: invece gli 
r^ llS1 ’ D Che ne s f ntono la necessità, non mancano di difenderli 
Avendo il Ramusio fatte certe osservazioni a un dialogo (latino) del 

rJm^f St0r ° ? 54 ? * quest | sl Palesa contrario ad accoglierne alcune: gli 
sembra contro la verosimiglianza «dar’ alla persona del Navagero, la 
sua eloquentia, e non usare alcune distintioni dialettice & scolastice, le 
quali gli usati negli studii humani non ponno sentire, ma qui è da 

es?e S rne r pIeno e X » Dial ° go le patisse - o nò, però ch’io vedo Platone 

S a . c °u clus ion e del Trattato dell’arte de la pittura 
^ laa ° 1584 > P’. 680 >.si difende dall’accusa di aver adoperato termini 
ìci, magari semidialettali: «Quanto alle parole meno approvate 

annresso TniEnr?’ "V* 1 quest ’ arte e per consequenza così significanti 
a P,P e8so 1 Potori, che non si potevano in alcun modo tralasciare 

nnS? esser r mte ?° : pOÌ che con un’altra parola sola non era 
possibile significare il medesimo e volendo circonscriverla con molte si 
veniy a anzi ad intricar le cose che ad esplicarle» 

cnn^PrfnHn‘1? 6 P ° ter P. resentare alcune di queste terminologie, 
Qh» X • ? i? incr f mentl e 1 riassestamenti subiti durante il secolo- 
• traUass ® dl art i figurative o di musica, di artiglieria o dì 
metallurgia, i risultati sarebbero importanti 229 . 

Mi accontenterò di dare un breve cenno sulla terminologia gram- 
^ ra . ovvl ° che S1 trasportassero alla grammatica italiana i 
ocaboli che già si usavano per la grammatica latina: così troviamo nel 


dpi cap , i . to1 ? dedicato dal Salviati (Avvertimenti, I, n, v) alla lingua 

inclinTafie voS «"dP a n' ° n° m f ° ggi Si dice lor °' Segretari di corte», troppo 

Borghesi nelle LetVl d^ofltve ^ CenSUTe rivolge a sin S ole vo « D. 

sm di uo rnini illustri, Venezia 1560, p. 724. 

li Firenze W 52 P nassùrùpo ment i e xf m 2 Stra ^ <Studi sul Un 8uaggio del Machiavel 
sèrie ri? vorphnift i k - 1 Machiavelli dia precisione terminologica a una 

sene di vocaboli politici concernenti la biologia degli stati 


364 


Storia della lingua italiana 


Bembo vocale e consonante, sillaba, nome, verbo, genere, numero, 
condizionale passato, passivo, ma molti altri termini che pur figurano in 
gra mma tici contemporanei ( apocope , sincope, transitivo, avverbio, ecc.) 
si cercherebbero invano nelle Prose. Invece è palese un certo sforzo di 
ricorrere a vocaboli della lingua comune per sostituire termini che 
dovevano sembrare troppo tecnici [genere del maschio e non maschile-, 
participante voce per participio-, pendente tempo per imperfetto -, proponi- 
mento o segno di caso per preposizione, ecc.) (cfr. p. 329). 

Anche il Giambullari accetta parecchi dei termini tradizionali 
(nome, verbo, pronome, soggiuntivo, participio, ecc.), ma per altri è 
restio: non parla di modo indicativo, ma di dimostrativo o pronunziati- 
vo, e conia tutta una serie di vocaboli nuovi per le figure grammaticali 
e retoriche ( aggiugninnanzi , aggiugninmezo, aggiugninfine per proste- 
si, epentesi, paragoge, rompiparole per tmesi, ecc.) (cfr. p. 329-330). 

Per quei capitoli della grammatica per i quali non esisteva una 
salda terminologia latina, vi sono molte incertezze: mentre il Dolce e il 
Salviati chiamano coma la virgola (e il Toscanella comma), il Giambul- 
lari e il Lombardelli chiamano corno i due punti. Il Salviati indica col 
termine di mezzo punto i nostri due punti, mentre il Lombardelli 
chiama mezzo punto il punto e virgola, ecc. 

Invece quei termini che hanno l’appoggio dei corrispondenti voca- 
boli latini o greci guadagnano man mano terreno sulle innovazioni 
proposte, «perciocché il dir pronome, participio, congiunzione, meglio 
s’intende dalla più parte, che se tu dica vicenome, partefìce, giuntura, e 
sì fatti» (Salviati, Avvertimenti, I parte. Proemio del 3 libro). 

Nella coniazione dei termini nuovi, si attinge alle fonti consuete. Si 
hanno alcune nuove onomatopee: il gioco del tric trac ricordato dal 
Machiavelli, e «un tric trac di pianellette» nel Piccolomini; bronfìare 
nell’Aretino, barbandrocco in un sonetto del Caro, ecc. 

Dei suffissi sono sempre fertili -ezza (rarezza. Caro), -ita (medesimita , 
Borghini; petrarcalità. Caro-, sororità, .Corbinelli), -mento (il Muzio, 
Battaglie, c. 54 a, si lagna dei troppi astratti in -mento del Castelvetro), 
-erta (petrarcherie e bemberie. Lasca), -ale ( invernale ), -ario (bancario ) 
-esco ( concubinesco , Davanzati), -ile (fratile, Nelli), ecc. ... 

Imitando il Boccaccio, il Bembo aveva foggiato numerosissimi 
aggettivi in -evole (difendevole, diportevole, notevole, sirocchievole, ecc.); 
il suffisso è molto frequente anche nel Giovio (cartellevole, salamandre- 
vole, ecc.)-, e appunto per satireggiare l’imitazione del Boccaccio si 
foggiò boccaccevole (Tasso, Cecchi, Salviati). 

Tra i prefissi sono molto fertili in- (indifeso), anti- ( antisatira ), ecc. 
Pseud o- tende già a diventare prefissoide: pseudogazza, pseudolaude 

(Giovio). , , T . 

Non mancano le formazioni parasintetiche ( àttoscaneggiare , loio- 
mei; impamasare, spoetarsi. Caro; svescovato, Muzio) e quelle dirette 
(complimentare, statuare. Celimi; ghiribizzare, Vasari; concerto tratto da 
concertare qcc ). 

Tra i composti, accanto alle molte formazioni del solito tipo 


Il Cinquecento 


365 


imperativale («quei minuzzapetrarchi, lambiccaboccacci e altri stracca- 
lettori »-. Firenzuola), abbiamo parecchie formazioni latineggianti (piovi- 
fero. Alamanni; moltifronte. Caro-, metallificare, Biringuccio; univalve, 
Citolini, ecc.). Anche elementi greci cominciano a essere adoperati sia 
da soli, sia in combinazione con elementi latini, per formare neologi- 
smi: specialmente ma non esclusivamente 230 per nuove dottrine (la 
filografia di Leone Ebreo, l’ornitologia di Ulisse AldroVandi, ecc.) e per 
nuovi strumenti scientifici (grafometro , olometro, planisferio, ecc.) 231 . La 
formazione dotta di questi nomi facilita la loro circolazione intemazio- 
nale: e infatti qualcuno dei termini citati è stato foggiato fuori d’Italia e 
accolto fra noi 232 . 

Numerosissime sono anche le innovazioni lessicali cinquecentesche 
dovute a mutamenti semantici: scapolo, che passa dal significato di 
«libero» a quello di «celibe», cotto per «ubbriaco», balaustro trasporta- 
to dal bocciolo del melograno alla colonnina che ne imita la forma, ecc. 
Le lingue speciali forniscono molte metafore: contrattempo attinto alla 
equitazione o alla scherma, dar nelle scartate preso dai giochi di carte, 
ecc. Le più difficili a interpretare sono le locuzioni riferite a persone o 
luoghi di cui si sia perduto notizia: è un caso se sappiamo che parere il 
secento per «pavoneggiarsi» trae origine dal soprannome di un cavallo 
che era stato pagato seicento fiorini dalla famiglia Benci. Ma chi sarà 
stato (anzi, sarà esistito davvero) quel Buraffa a cui si allude nella 
locuzione più dotto che il can di Buraffa? 233 . 

19. Latinismi 

Nel secolo precedente, latinismi e grecismi erano affluiti senza 
misura nel lessico; ora l’afflusso è più regolato, per il maggior rispetto 
che si ha per il volgare; ma i nuovi rami delle lettere e delle scienze che 
si cominciano a trattare in italiano anziché in latino esigono numero- 
sissimi termini nuovi, e la via più semplice, ove gli antichi avessero già 
elaborato quelle nozioni, non è di coniare termini nuovi, ma di 
attingerli alle due lingue antiche. 

Così, dalle traduzioni di Euclide fluiscono nel lessico numerosi 
termini che s’installeranno stabilmente nel lessico italiano: cateto, 
lemma, ecc. Anche più importanti sono le traduzioni di Vitruvio 234 , da 


230 Ho ricordato altrove (Lingua e cultura p. 241) il greco àiMa rifatto in 
ateismo. 

231 Ricordiamo, dopo il Poliphilo, il Philolauro (commedia, Bologna 1520) e i 
nomi delle Accademie dei Filarmonici, Verona 1543, dei Filomati, Siena 1571, ecc. 

232 Descrittione et uso dell'Holometro per saper misurare tutte le cose... per Abel 

Fullone valletto di camera del Re di Francia, Venezia 1564. 

233 Cfr. F. Ageno, «Nomignoli e personaggi immaginari, aneddotici, proverbia- 
li» in Lingua nostra, XIX, 1958, pp. 73-78. 

234 Già nel secolo precedente, del resto, avevano accolto termini di Vitruvio L. 
B. Alberti, Francesco di Giorgio Martini e l'autore del Poliphilo. 


366 


Storia della lingua italiana 


Il Cinquecento 


367 


:-?»£ke=£ 


cui molti termini penetreranno anche nella pratica: scenografia (nel 
senso di «prospettiva»), stria, vestibolo, voluta, euritmia, simmetria, ecc.; 
le traduzioni da Dioscoride per la terminologia botanica, quelle da 
Tolomeo per le voci geografiche, ecc. 

Qualche traduttore si rende ben conto del proprio compito rispetto 
alla lingua. Filippo Pigafetta, traducendo col titolo di Le Mechaniche il 
trattato di Guido Ubaldo del Monte (Venezia 1581), si giustifica d’aver 
conservato un certo numero di latinismi, promettendo di spiegarli man 
mano. Qualcuno attecchì poi definitivamente, come equilibrio 23S , qual- 
che altro sparì, come trutina 238 . 

Una miglior conoscenza del passato e un maggior rispetto per le 
sue istituzioni fanno sì che gli storici si adoperino ad evitare gli 
anacronismi. Nell’Arte della guerra, per es., il Machiavelli mette in 
rilievo alcuni termini antichi: «il deletto di essi (uominil, ché così lo 
chiamavano gli antichi; il che noi diremmo scelta, ma per chiamarlo per 
nome più onorato, io voglio gli serviamo il nome del deletto »; «l’ufficio 
del tergiduttore, che così chiamavano gli antichi quello che era 
preposto alle spalle dell’esercito». E si senta quello che il Borghini 
osserva in vari suoi scritti: «Io ho detto equite e equestre, e non cavaliere 
e cavalleria, perché... ci rappresenterebbe cosa assai diversa dall’uso e 
proprietà romana», «vi rinchiusero dentro, per usar le loro voci, la 
palestra, il ginnasio», «il vestimento di Cesare (che propriamente 
nell’espedizione dicevano paludamento )», «una deliberazione del sena- 
to pubblico, che si direbbe alla romana senatoconsulto », «quegli altri 
(Consolil Suffetti (che noi diremmo per avventura o sostituiti, o 
surrogati)», ecc. 

Numerosi sono anche i vocaboli come collaudare, erogare, firmare, 
omologare, che passano dalla latinità giuridica all’uso burocratico 237 . 

Anziché da opportunità tecniche (e anche gli scrupoli storici del 
Machiavelli o del Borghini rappresentano una forma particolare di 
tecnicismo) l’impiego di latinismi può dipendere da un desiderio di 
eleganza o di solennità. Così si spiegano molti dei latinismi usati dal 
Tasso 238 ; e siccome un simile gusto era largamente diffuso al suo tempo, 


235 «Dove si legge questo vocabolo latino equilibrio intendasi per eguale 
contrapeso, cioè che pesa tanto da una banda quanto dall’altra in pari lance, ò 
libra, ò bilancia che si dica» (c. 29 a). 

238 «Trutina è quella cosa, che sostiene tutta la bilancia, laquale Trutina 
piglia il Perno, ovvero l’Assetto, & nomasi in questi paesi Gioa, altrove Giovola, 
overo l’orecchie della Bilancia, & in altre contrade Scocca, tal che non si trova sin 
hora vocabolo, che in Italia communemente vi si confaccia, ne alcuno di questi 
sarebbe inteso per tutto. Onde io ho scritto cosi la Trutina, sperando, che si 
habbia a fare tendine, & parola generale a tutte le nationi d’Italia» (c. 2 a-2 b). 

237 Talvolta si tratta di voci di conio assai discutibile (per es. interinare, 
importato nel Piemonte e nella Lombardia al tempo di Luigi' XII dal latino 
giuridico francese). 

236 Rimando ai due ricchi articoli di R. M. Ruggieri, in Lingua nostra, VI, 1944- 
45, 44-51; VII, 1946, pp. 7634. 


parecdu hanno saldamente attecchito. Si pensi all’aggettivo precoce, 
che il Tasso considerava una licenza stilistica: «con frutti di cortesia (se 
è lecito d usare una parola latina) precoci» Getterà al march. Boncom- 
pagni, 1580, in Lettere, II, p. 87 Guasti), e che poi entrò nell’uso corrente. 

Nell adoperare singole parole spesso gli autori non attingono a un 
generico uso latino o greco, ma ricorrono (e talvolta alludono) a un 
passo preciso. Adoperando offa negli Asolani («al corpo quello che è 
bastevole si dà, quasi un’offa a Cerbero, perché non latri»), il. Bembo 
a uj 8, V 11 notissìmo passò dell’Eneide (VI, v. 4201, Giordano Bruno 
nella dedica del Candelaio parla di vitello saginato riferendosi alla 
parabola del fìgliuol prodigo (Luca, XV, v. 23), e similmente in numero- 
sissimi casi. Qualche volta si riadoperano latinismi o grecismi di Dante 
°. ~ e J. Petrarca > come quando il Davanzati in un sonetto chiama 
«infelice entòma » il baco da seta, o si usano aspe per «aspide», cornice 
per «cornacchia», pavé per «teme», serpe per «serpeggia», ecc. per 
ricordo petrarchesco. 

Persistono gli avverbi, le locuzioni avverbiali, le congiunzioni, che 
già abbiamo visto largamente accolti come briciole di la tini tà curiale 
nell uso quattrocentesco ( autem , continuo, etcetera, solum e così via): 
ma l’abusarne è considerato pedanteria 238 . 

Invece, salvo qualche caso di citazione o allusione, i nomi, gli 
aggettivi, i verbi 240 sono adattati agli schemi della flessione italiana 
Quanto alla grafia, abbiamo già visto il contrasto fra le varie tendenze 
su alcuni punti importanti: gruppi consonantici (absente / assente ), h, ti, 
lettere greche. A molti vocaboli d’impronta popolare vengono a 
contrapporsi le corrispondenti forme latine. In altri casi (singolare / 
singultire, volgo / vulgo, ecc.) si tratta di adattamenti più o meno 
radicali delle stesse voci dotte. Ecco alcuni esempi di queste coppie 
nelle quali di solito finì col trionfare l’una o l’altra forma: adonco / 
adunco-, ancella P anelila-, angosto / angusto; oriento / argento 2 * 1 ; 
aumento / augumento-, Campidoglio / Capitolio-, carena / carina- 
celabro / cerebro-, cerusico / chirurgo-, cicala / cicada-, Chimenti ì 
Clemente-, coltura / cultura; conchiudere / concludere-, contempio / 


T Per ,« s ' neUa Cortigiana dell’Aretino Alvigia dice al Rosso, «al tandem ella 
verrà», e il Rosso replica: «Dillo in volgare, ché il tuo tamen, il tuo verbi gratta e il 
tuo al tandem non lo intenderebbe il maestro delle cifere» dV, se. 19; cfr. le battute 
seguenti. A scherzi di questo tipo si devono espressioni come conquibus («Col 
conquibus, disse il Gonnella»: Aretino, Ragion., p. I., g. Ili, p. 128 ), fare il 
coramvobis-.ctr. gli avverbi in -aliter, -iliter che troviamo intercalati nella prosa 
volgare di lommaso di Silvestro (corruscaliter, processionaliter) o del Giovio 
(caldarostaliter, campaniliter). 

, . . 440 L’ariostesco «Di quelle che non fan per te intelligitur » (Lena, III, s.c. 2) è un 
latinismo isolato, dovuto allo sforzo per finire il verso con ima sdrucciola. 

«L Ariosto ancora ©gli, nella prima impressione del suo Furioso, pose 
sempre anento. Ma dapoi considerando, che la voce argento è più piena, oltre ch’è 
di nulla alterata dal Latino, lo levò, e vi ripose pure argento » (Dolce, Modi 
affiguratt, cit., p. 227). 


368 


Storia della lingua italiana 


Il Cinquecento 


369 


contemplo ; detto / ditto-, degno / digno-, Giorgio / Georgio ; Girolamo / 
Hieronimo-, ingegnoso / ingenioso-, lettere / littere -, liolnfante / elefante-, 
laico / logico ; maestrato / magistrato-, òmero / ùmero-, openione, 
oppenione / opinione-, oriuolo / orologio-, ortolano / (hìortulano ; padre / 
patre ; padrone / patrone-, partefice / partecipe-, particolare / particulare-, 
pontefice / pontifice-, premessa / premissa ; prencipe / principe ; propio / 
proprio-, quaresima / quadragesima-, sagro / sacro-, seno / sino-, soave / 
suave-, soggetto / suggetto-, squittindìo / scrutinio-, volgo / vulgo, ecc. 

Appunto su tali parole verteva principalmente la disputa tra fautori 
della lingua cortigiana o italiana e fautori della lingua fiorentina o 
toscana: i primi consigliavano di attenersi alle forme latineggianti 242 , i 
secondi difendevano le forme della tradizione popolare toscana" 3 . 

Del diritto d’attingere più o meno largamente al lessico latino (e 
greco) si disputa da molti, sia genericamente, sia riferendosi a singoli 
vocaboli per difenderli o per oppugnarli. 

I grammatici e i lessicografi dei primi decenni del secolo sono di 
solito piuttosto favorevoli: il De Falco loda i latinismi dell’Ariosto e di B. 
Martirano, l’Acarisio approva quelli del Boccaccio, ecc. Ma più tardi 
sopravviene una forte reazione, e non solo nei Toscani come il 
Borghini 244 , il Salviati 245 , il Borghesi, il Lombardelli 248 , ma anche nei non 
Toscani: il Castelvetro rimprovera al Caro alcuni latinismi della 
famosa canzone, e il Muzio (Battaglie, cc. 46-49) viene elencando molti 
lat inismi del Machiavelli e del Guicciardini, considerandoli un loro 
grave difetto. 

Sono un indizio di questo mutato atteggiamento i latinismi sostituiti 
in riedizioni o rifacimenti: ne elimina l’Ariosto 247 , ne muta il Bemi (che 
scrive, per es., stabilito in luogo del boiardesco statuito), ne toglie il 
Ruscelli (per es. compilare, eversione, vilipendio) nel pubblicare le 
Historie del Collenuccio; il Tasso, dopo varie oscillazioni, si disse 
disposto a togliere dalla Gerusalemme alcuni dei latinismi che gli 
rimproveravano. 


242 Fra le molte affermazioni in questo senso (Equicola, Castiglione, Achillini, 
Castelvetro), citiamo questa molto esplicita del Trissino: «Quando le parole sono 
in dui o più diversi usi, secondo le diverse lingue d’Italia, quello uso a me pare, 
che sia da elegere, e da stimare più Illustre e Cortigiano, il quale più al latino 
s’accosta»: perciò è da preferire nudrire a nodrire, sopra a sovra, ecc. (Dubbii 
grammmaticali, c. U b). 

243 Avendo il Ruscelli nel Rimario raccomandato: « Scrutinio bellissima voce, 
se ben non so per qual fato di questa favella sia chi gode di dire squitinio*, il 
Borghini nella Ruscelleide Q, p. 70 replicava che «la lingua nostra ha più care le 
sue voci che quelle d’altre», e trovava pedantesco scrutinio. 

214 II Borghini se la prende contro il Ruscelli, non solo nel passo ora citato, ma 
spesso altrove, per es. a proposito della voce lance (Ruscelleide , II, p. 50). 

M Negli Avvertimenti, I, ii, cap. 7-, li, cap. 3, e passim. 

248 Il Lombardelli rimprovera al p. Cornelio Musso i troppi latinismi delle sue 
prediche. 

247 II Dolce (Modi affigurati, p. 366) cita l’esempio d’una voce «troppo Latina» 
sostituita (tuta). 


, H n ?|, s ^ or ^ circostanziata dei latinismi dovrebbe tener conto, oltre 
che dell introduzione e dell espansione delle parole singole, anche delle 
ripugnanze e dei biasimi dei grammatici 248 e del regresso nell’uso. 

Gli autori che adoperano una parola latina o greca non ancora 
penetrata nella consuetudine, talvolta credono opportuno spiegare 
perché sarebbe opportuno accoglierla, ovvero aggiungono qualche 
chianmento: s’é già visto l’atteggiamento del Pigafetta a proposito di 
equilibrio e del Tasso a proposito di precoce, e molti passi analoghi si 
potrebbero aggiungere 249 . 

I vocaboli greci qualche volta si presentano in forma non adattata 
scritti m caratteri greci 258 ovvero latini 251 , e con qualche traccia di 
flessione greca 252 . Si notino anche alcune tracce della pronunzia 
cinquecentesca del greco: rj proferito i (rittorici , Libumio; rìtorico, 
Castelvetro; tecmirio o temmirio da xexjxripiov, Caro; sisamo, Serdonati- 
ecc.), ot pronunziato pure i (sinalife, Tolomei), ecc. 

, ,. U . n 1 ? r f ve elenco, solo esemplificativo, potrà dare un’idea dei 
latinismi (e grecismi) che si cominciano a usare nel Cinquecento 
(beninteso con la solita riserva della possibilità di retrodatazioni)- 
abolire (Guicciardini), aliquoto (Firenzuola), anfibologia (Tolomei), argu- 
zia («questi presso gli antichi ancor si chiamavano detti; adesso alcuni 
le chiamano arguzie »: Castigl., Cori., II, cap. 43), assioma (Varchi), 
attinente (Caro, Guicc.), canoro (Ariosto), circonflesso (Firenzuola), circo- 
spezione (Guicc.), clinica (clinice nella versione di Vitruvio del Caporali) 
comparabile (Ariosto, Guicc.), congenito (Gelli), congerie (Zuccolo), conti- 
nente (Giacomini), crisalide (Domenichi). decoro, decore sost. (Caro, 
Vasari) 253 , dialetto (Salviati), ecatombe (Bem. Martirano, cit. in Lingua 


«Affettare... non si trovando in libro niuno, ne usandosi per niuno, se non 
per persone ignoranti, che parlano latino in vulgare, come sono notai & maestri 
da scuola, che insegnano le prime lettere a fanciulli, & simili» (Castelvetro, 
Lorremone, p. 58); «il verbo Espurgare è stato fin qui meritamente sbandito, e si 
dee sbandir per innanzi d’ogm leggiadra, e nobile scrittura toscana» (Borghesi 
Lettere, p. 345); e numerosi passi similL 

249 Augusto «pregava li Iddii che concedessero tanto a lui, quanto a tutti i suoi 
simili eutanasia... che vuol dire buona morte» (Del Rosso, nella traduzione di 
bvetomo, 1554, p. 114); «Sono alcune voci Latine, che non si possono spiegar 
volgarmente.- come peraventura è equità, che vai giustitia, ma pure v’è non so che 
di differenza fra luna e l’altra» (Dolce, Modi affigurati, p. 240). 

258 «A dir Apjtvta sarebbe cosa molto xaxoqxotxà (lettera di G. G. Trissino 1507 
ap. Morsohn. Giangiorgio Trissino, cit., p. 384); «alcune cose... che i Greci hanno 
chiamato x<x jrpoXefóiieva (Segni, Ethica, Firenze 1550, c. U>, «gli chiamano 
avaxóXouda» (Borghini, Annotazioni dei Deputati, Ann. XIV); (il Bembo! «xopucatoc 
et invero degnio di esser da tutti lodato» (Borghini, ms. Magliab., II, X. 80, c.5), ecc. 

«quel segno con che si dimostrano alcune trapposizioni. Grecamente 
chiamato Parentesis-, voce, che si pronuntia con l’acuto nell’antepenultima» 
aJolce.Osservotioru, p 171 deUed 1566); il Pantheon (Serlio, passim). 

Rimanendo all’esempio di jcpoXe-rópevoc, il Gelli (Espos. di Dante lez I) 
salve: «1 hanno chiamate alla greca prolegomena*-, il Varchi (nelle Lezioni II) 
ada “ a ., la P arola ' chiamavano da loro grecamente Prolegomeni ». 

Il concetto di «decoro» tratto dalla Retorica di Aristotele, è diventato un 


370 


Storia della lingua italiana 


nostra, III, p. 99), eccentrico, eccentricità, elocuzione (Muzio), entusiasmo 
(G. Camilla, Enthosiasmo de misterii, Venezia 1564), esagerare (nel 
significato moderno, Davanzati), etra (Ariosto), gimnico (Segni), illibera- 
le (Caviceo), industre (o industrio) (Ariosto), minatorio (Guicciardini), 
mirteto (B. Martirano), munifico, munificenza (Caro), nenia (Firenzuola), 
obeso (Salviati, Soderini), omonimo (Caro), ottica (Della Porta), parafrasi 
(Firenzuola), parossismo (Sanudo), penisola (Giambullari; peninsola. 
Caro), peripezia (Speroni), plastico agg. (Garzoni), plastica (Lomazzo), 
preferire (Firenzuola), pugile (Caro), questuare (Guicciardini), rapsodia 
(Giraldi), scenografia (Barbaro), somministrare (Firenzuola), stolido (Da- 
vanzati), tirocinio (D. Guidalotti, Tyrocinio de le cose vulgari, Bologna 
1504), trilingue (Caro), tripode (Caro), utero (Ariosto), villoso (Caro), ecc. 

Altre parole, che nei secoli precedenti avevano fatto qualche 
sporadica apparizione, ora entrano nell’uso corrente: educare, elegante, 
frivolo, peculiare, ecc. 

Naturalmente bisogna anche tener conto di particolari accezioni 
latineggianti-, per es. numero nel senso di «ritmo». Forcipe è ancora 
usato al femminile e preso nel senso latino di «tenaglia» (G. Rucellai), 
non in quello specificamente ostetrico. Interpellare ha ancora il signifi- 
cato d’« interrompere» nel Calmeta (quello giuridico è nel Varchi). Il lat. 
seminarium «vivaio» è trasferito all’uso di «scuola per futuri ecclesia- 
stici» dalle disposizioni del Concilio di Trento, mentre a Genova 
seminario indica (dal 1576) quei 120 cittadini dai quali si dovevano 
estrarre a sorte i magistrati (Rezasco, s v ) Eccentrico, eteroclito già 
figuratamente designano persone ° cose «strane». 

Richiedono un cenno a sé numerosi calchi sul latino e sul greco. 
Cito qualcuno di quelli che in definitiva non hanno attecchito: aia nel 
senso in cui invece prevarrà il latinismo area 254 . errante per pianeta 
(rcXavriTTii;) 255 ecc. 25 ". 

Un elenco di latinismi e grecismi che in definitiva non attecchirono 
riuscirebbe estremamente lungo, per la forza con cui agivano i motivi 
che abbiamo illustrati 257 . Ne daremo un brevissimo saggio: aligero 
(Ariosto), allicere (Bembo, Tasso), amurca, amorca (Alamanni), apro 


luogo comune in tutti i critici del Rinascimento (Spingarn. La critica letteraria nel 
Rinascimento, Bari 1905, p. 87). 

252 «Casa nuova si stima ancora che sia sull’aia della vecchia formata» 
(Tolomei. Cesano, p. 65 Daelli); «chiunque ha il diametro di qualsivoglia tondo, sa 
ancora l'aia, cioè il suo pieno» (Varchi, Lezioni su Dante). 

255 Stella errante è usato spesso; il Tasso adopera la parola sostantivata al 
maschile; «i sette erranti » {Mondo creato, g IV). 

256 Abbiamo già visto tutta una serie di calchi nei termini grammaticali e 
rettorici foggiati dal Giambullari con l'intenzione di sostituire i termini greci 
corrispondenti. 

257 L’abbandono di alcune particolarità grafiche latine che porta non solo 
all'omofonia ma anche alla omografia (orto da ortus e orto da hortus, direzione da 
directio e direzione da direptio, ecc.: v. p. 348); il costituirsi d’un gusto classico, che 
vede malvolentieri i troppi latinismi cancellereschi (v. p. 368). ecc. 


Il Cinquecento 


371 


rr^° ? b ( 1 c ° rsa *’ Tansillo), àtavo (Firenzuola, Speroni), bibliopòla 

Alamanni), calato (Molza), clade (Ariosto), clivoso (Bruno) 
coahre (Sodenm), compedi (Machiavelli), contennendo (Machiavelli)’ 

(Caro), demolcere, demulcere (Calmeta! 
AchiHuu), direptione (Mach., Gùicc.), discrime (Bruno), displicenza (Paru- 
ta), efflcere (Cesanano), efflagrare (Canteo), elego («verso elegiaco»-. 
Ariosto, Firenzuola), erugine (Giovio), ecc. 

20. Voci dialettali e regionali 

Se scorriamo un’antologia di testi letterari cinquecenteschi vi 
troviamo pochissime peculiarità di carattere dialettale: ma ne trove- 
remmo molte di più, specialmente nella prima metà del secolo, se 
sfogliassimo testi di carattere pratico. Non sarebbe diffìcile continuare 

(«n»i^ 1550 6 n nCh K ^ P ° ° ltre una raccolta ^ «testi non toscani» 

’onn Che COn un glovane collega ho messo insieme per il 

ouu e per il 400). 

rr,„^r biam ° gl . a visto , (nel § 7) coi ne la persuasione che si sia ormai 
g nti a una lingua letteraria comune abbia portato a una netta 
decantazione fra lo scrivere in italiano e lo scrivere in dialetto: sorge in 
meati luoghi una letteratura dialettale riflessa, e per converso si cerca 
sempre piu di far sparire dalle scritture in italiano le tracce locali. 

quelle che ancora possiamo trovare vanno considerate secondo il 
vano ambiente culturale di ciascun autore, cioè anzitutto secondo il 
luogo, poi anche secondo il tempo (tenendo conto cioè dell’abbandono 
sempre piu rapido delle peculiarità locali), e infine secondo l’argomen- 
to: se nella lirica o, poniamo, nella prosa filosofica non c’è da aspettarsi 
di trovar tracce dialettali 258 , più se ne troveranno nella poesia satirica e 
giocosa e, in prosa, nei bandi, negli inventari, nei diari, nelle lettere 
ecc.: tanto piu appariscenti e numerosi quanto più ci si accosta alle 
contingenze della vita pratica, che trova ancora la sua espressione in 
vocaboli spesso diversi secondo i luoghi. 

, u In T ° scana stessa < è possibile scorgere qualche differenza lessicale 
(oltre che grammaticale) negli scrittori senesi, come il Tolomei il 
Binngucci il Mattioli. Ma per parecchi scrittori toscani, specialmente 

(Berni ’ 1 9°™- Varchi, Cecchi, Davanzati), bisogna anche tener 
conto di una particolare ricerca di idiotismi lessicali (metafore, locuzio- 
ni colorite): quasi un’ostentazione di una peculiare ricchezza del 
liorentino. 

Citiamo Q ua lche esempio di particolarità dialettali in scrittori del 
primo Cinquecento. L Equicola ha qualche vocabolo meridionale (come 


patrio loCeS STSiSS” "" d?rWere ,C °"‘ e " "■ SC ■>“'* C ‘““° 

Fa che tu sippa. Padre santo, in mare, 
el Turco deroccando e tartusando... 


372 


Storia della lingua italiana 


roscio «rosso») e termini padani (scarana «seggiola», zenzala «zanza- 
ra»). Il Castiglione ha numerose voci specificamente mantovane o 
genericamente padane: angonia, cerasa, fodra, sentare, varola 2 * 9 . Il 
Trissino scrive e stampa, per es., acciale, cappa «bica», faglia «covone», 
di sbrisso «di scancio», ecc.; il suo concittadino Antonio Pigafetta scrive 
armellino «albicocca», braghessa, garbo «acido, aspro», guchiarollo 
«agoraio», occafo «papero», ecc. 280 . Il Bembo ha parecchie voci venezia- 
ne, soprattutto nelle lettere: calmo (di vite) «innesto», coppo «tegola», 
frezzoloso, frisetto, zenzala, ecc. L’ Ariosto, che ha qualche vocabolo 
ferrarese nelle commedie (per es bigonzoni - rimproveratogli dal 
Machiavelli - nei Suppositi, bambola di specchio nel Negromante ), nel 
Furioso adopera pochi dialettalismi lessicali. Il Giovio, nelle estrose sue 
lettere, non solo è attaccato ai propri settentrionalismi (ponteghe 
vecchie, lett. 262 Ferrerò), ma va cercando volentieri espressioni 
dialettali colorite («maturare presto questo bugno, come dicono li 
Bolognesi», lett. 262). Pietro Nelli, senese, vissuto a lungo a Venezia, ha 
nelle sue Satire alla carlona molti venezianismi ( cazza «mestola», 
galozza «zoccolo», gàttolo «fogna», morbino «ruzzo», santolo «padri- 
no», ecc.) e indulge volentieri a peculiarità fonetiche veneziane che 
coincidono con quelle senesi ionto «unto», nomi in -aria). 

Giovanni Mauro, di Arcano (Udine), passò invece gran parte della 
sua vita a Roma e nei Capitoli adopera dei romaneschismi: 

Tal che fu già pizzicaruolo od oste 
or è gentile; e tal che già poc’anni 
gridava calde alesse e calde arroste... 

Nel diario autobiografico (1535-41) dell’architetto militare G. B. 
Belluzzi, detto il Sammarino, troviamo vocaboli locali come carabina 
«puledra», lasta «striscia», mercatale «luogo di mercato», ecc. 

Un po’ diverso è il carattere delle voci regionali che troviamo in 
Annibai Caro, perché è dovuto a un preciso disegno stilistico. Gli piace 
d’inserire nei suoi testi per dar loro vivacità non solo termini dell'Italia 
mediana, specie marchigiani (catollo «grosso pezzo», scomberello «reci- 
piente», ecc.) ma anche vocaboli del fiorentino parlato (colleppolarsi, 
incapperucciare «farsi frate», ecc.). 

Nella seconda metà del secolo, benché la screziatura dialettale sia 
minore, troviamo lombardismi nel Lomazzo (anta, civiera «attrezzo 
agricolo», scosso «grembo», sferlo «ramoscello», zibra «pantofola»), 
venetismi nel Palladio ( arpice «gancio», goma «gronda»), umbrismi nel 
Caporali ( biocca «chioccia», cerqua «quercia», chiòchena «chiavica», 
pigna «pentola», vettina «recipiente»), napoletanismi nel Bruno (balice 

259 V. il paragrafo sui «dialettalismi» in V. Cian, La lingua di B. Castiglione, 
Firenze 1942, pp. 80-86. 

280 Sulle peculiarità del Pigafetta, v. D. Sanvisenti. in Rend. Ist. Lomb., LXXV. 
1941-42. pp. 469-504, LXXVI, 1942-43, pp. 3-33. 


Il Cinquecento 


373 


«valigia», iùtumo «giuggiola», lesela, streppare, ventaglio, ecc)- per lo 
piu in testi di carattere realistico o tecnico. P 

orni- si ” go . li ha ™° bisogno di mantenersi a contatto con il loro 
n^ b ^?r te v, a clrcolazio 1 ne fra città e città, fra regione e regione, aperta 
P „ che concerne le nozioni più elevate, per le quali del resto il 

vita pr-atic? consolldato ' e lnvece scarsissima per molti campi della 

, 0 H? PnS / deria r ^ Ue casi es tremi. Come potrebbe il Bembo nelle sue 
lettere toccando di istituzioni veneziane, dire altrimenti che data 
pieggena, podestaressa, pregadi, procurane ? E si capisce bene che tale’ 
necessita rimarrà ancora viva nei secoli seguenti. 

C.j iceve ™ vediam ° £ > uell ° che acca de per i nomi dei giorni della 
settimana. Il tipo senza -dì è ancora prevalente nell’italiano settentrio- 
nale nei primi decenni del secolo (il Bembo, il Pigafetta, il Castiglione 
ancora adoperano luni, marti, mèrcore, giove o giobia, vènere ) Ma la 
comspondenzfi di questi nomi con quelli di tipo toscano con -dì era 

!f ! mgUa sc J ltta non poteva far altro che accettare una norma 
unica , e ben presto 1 nomi in -dì si generalizzarono 

“ u ™® rosi . c asi. intermedi fra questi due, si fece qualche passo 
so 1 unificazione, ma solo qualche breve passo, tant’è vero che 
ancor oggi sono numerose le coppie o le terne di parole equivalenti ma 
con diversa base territoriale («geosinonimi»): cacio / formaggio ■ filugel- 
lo / baco da seta-, merletto / trina / pizzo, ecc. 

_^ ccanto ad aran cto ( a) si ha ancora narancio ( a) (Ariosto, Tasso 

cW ’ “ CJi mela 2 rancia <Grazzini), poma 

più , comune zanzara si ha zenzara (Tasso), zenzala 
acquicola, Nelli ecc.), zampana (nei Viaggi in Moscovia del viterbese R 
Barberino, 1565). 

Il desiderio di farsi capire ampiamente (e talvolta un certo gusto di 
sfoggiare vaste conoscenze) fa sì che alcuni scrittori elenchino più 
norm di uno stesso oggetto 282 . Assai frequenti sono tali equazioni 
onomasiologiche nelle trattazioni naturalistiche 263 e nei vocabolari 


£ e r a ’ Ci £ è - ! a possibilità di adibire le due forme diverse a due diverse 
S ^ UI 2 s? tUre ^ ? l ® nl ^ ca to, come in altri casi fu fatto. 

P r utte ' . ch , e . voi chiamate ghiandaie » (Firenzuola, Disc. 
amm.l, «e intanto fece fare le bisciaccole a due suoi cittoletti- quello che noi 

DrinSfi^n?o Fir r? Ze 1 aU ? le P’ a ; e a pisa anciscocolo- a Colle il pendio- a Roma la 
prendendola- a Genova lo balsico-, a Napoli la salimpendola e a Milano lidoca 

gli altri* H m ® g ° * nte , ndiate ’ ® oni ' La seconda Libraria, lett. I); «un legnatolo che 
r ^ legname, ò marangone » (Varchi, Hercolano. p. 48) ; «quegli 
che son d ® Ul vermicelli, o bacchi (sic), o cavalieri, o bigatti o brache o 

ptafzaulTvTalì ffig’ ° SeC ° nd ° 1 luo * hi d ' ltalia ^si» Garzoni, 

Dioscoridellchlàm N ^ ttioli a commento della Materia Medicinale di 

OUvetta aUrib^X d Li e ustro - Guistrico, altri lo chiamano 

uiivetta, altri divella, et altri Ghambrossene», 1. I, cap. 105, «Chiamano 



374 Stona della lingua italiana 

I vocabolari, i quali mirano a far comprendere al lettore un 
vocabolo che non capisce piuttosto che a suggerirgli come deve 
scrivere, sono in genere molto aperti a registrare vocaboli regionali. I 
vocabolari del Valla e dello Scobar sono pieni di sicilianismi, quello 
dello Scoppa di napoletanismi, ecc. 

Gli autori di vocabolari latino-italiani, più o meno adattando il 
Calepino, aggiungono voci dialettali in veste italianeggiante: per es. nel 
Calepino del 1592 troviamo alla voce stilla tutta questa serie di varianti: 
goccia, ghiozza, goccio, ghiozzo, gozza, gocciola. I compilatori di 
vocabolari italiano-latini, oltre che servirsi dei vocaboli che usano 
spontaneamente, attingono a questi materiali ibridi, cosicché troviamo 
per es. nei lemmi del Dittionario (italiano-latino) del Minerbi (1554) 
numerosi vocaboli regionali, specialmente veneti ed emiliani, e parec- 
chie equazioni di questo tipo- «Buttiro vai smalzo, burro et onto sottil. 
Buthyrum, ri ». 

II Sansovino, nella sua Ortografia... o vero Dittionario volgare et 
latino (1568), dopo aver tradotto Refe con filum, aggiunge «Voc. 
fiorentino, accia dicono a Venetia»; traduce Ritorte con vincula e 
aggiunge altri sinonimi: « legami, vincigli, disse il Bocc., stroppe, a 
Padova». 

Anche i primi vocabolari esplicativi, sempre a scopi pratici, adope- 
rano, sia nei lemmi che nelle interpretazioni, molte voci dialettali 264 e 
equivalenze sinonimiche' 565 . 

A questo criterio si attengono spesso anche i compilatori di manuali 
per l’insegnamento dell’italiano agli stranieri o di lingue estere agli 
italiani. Valga per tutti l’esempio delle opere di Giovanni Fiorio, che già 
nei First Fruites aveva incluso molti vocaboli regionalLtdmeda, nezza, 
soppiare, ecc.), e nel Worlde of Wordes (1598) fece esplicita professione di 
includere quante più parole potesse, non solo dei linguaggi tecnici ma 
anche dei dialetti 266 . 

Per completare il quadro degli scambi interregionali bisogna anche 
tener conto dei vocaboli dialettali accolti nell’uso generale o nell’uso 
tecnico per la divulgazione delle «cose» corrispondenti. Citiamo il 
carosello napoletano, che in origine era un gioco in cui cavalieri vestiti 
alla moresca lanciavano agli avversari palle di creta piene di cenere. Il 
gioco fu importato a Napoli dagli Spagnoli, ma il nome è di origine 
dialettale ( carosiello «salvadanaio», ricalcato sullo spagnolo alcancia 
«id.»), e presto si divulgò in tutta 1'Italia (il Tasso nel dialogo II Romeo 


volgarmente il Periclimeno chi Matriselva, chi Vincibosco e chi Caprifoglio», 1. IV, 
cap. 14-, e passim), o nei trattati agricoli del Soderini («l’appio è quella pianta 
d’erba che dai volgari si chiama seiino , e dai più idioti sedano»). 

264 Olivieri, in Studi fiL it., VI, passim. 

285 Per es. « Taccola proferito breve, come fiaccola, in Lombardia è quell'uccel- 
lo, che noi domandiam mulacchia, e in molti luoghi chiamano pota .. » (Porcacchi, 
Vocabolario nuovo in appendice alla Fabrica dell'Alunno). 

286 Spampanato. Sulla soglia del Seicento. Milano 1926, pp. 93-120. 


Il Cinquecento 


375 


dice che «giuoco è quel delle canne e de’ caroselli «J 287 Così s’imnarò a 

E 81 -e &SKZ 

C0 ^wi°b ìa llU costnuto dal Palazzo degli Uffizi a Palazzo Vecchio 268 

2L Voci antiquate 

scrittori trecenteschi e 11 culto votato ah acci q fl i i At ,_ i , 

pratTi ì' tt laS | at ° ^dere^dilmoto parole toeleutSchi ? fino a eh? 
lS,i4e tt n 1 3ia S sto«r , T CÌtÌ a farle rivivere - Molte centinaia erano 

paSsSSSSS 

°y ale (Cocchi), cotta 286 , dónora (Firenzuola, Cecchi) fmare 

^acati^otì^Srì> a f\ maÌn ì', ° Ua ferialmente nelle locuzioni 
’ ° tta ^ VKJ endo), ecc. Molte altre, sparite dall’uso parlato 

zsz neiruM ,e “ 

ri m Lf (ìaZZO dell’imitazione trecentesca sulle orme del Bembo tende a 

mC Ì te Untate rancide S^^no 
V 1 sraihl, e non finiremmo più se volessimo elencare le 

toscane antiche^rfù n TU* f e ^operando a “roSHoc! 

co^ glt .sfmni^alavl^^° del Valerlan0 “ Marosttaa protesta 

vmte eMUno uo^n P* 3 ™ 881 * 110 per p *none usando so- 

vente, eglino, uopo, cliente, e biasimando gli altri per «accenti o vocaboli 


262 Dialoghi, III, p. si3 Raimondi 

~ *» Scott-Bertinelii, Va «w. p, ,37. 



r 


376 Storia della lingua italiana 

o figure di dire che non sono toscane» (cioè di classici toscani). Il Citolini, 
nella sua Lettera in difesa della lingua volgare (V enezia 1540) protesta 
contro quelli «i quali non si stimano poter 'esser e tenuti buoni scrittori, 
se le lor carte non puzzano di uopo, testé, hotta, altresì, guarì, costinci, 
sezzai, e se non ficcano unquanco in un sonettuzzo». Il Gelli ( Caprìcci , 
rag. V) protesta contro l’uso di guarì, altresì, sovente, adagiare, soverchio ; 
il Lenzoni (Difesa, p. 22) contro guarì, altresì, i participi accorciati (gonfio, 
pago, scaltro ), amar meglio, ecc.; il Marcellino (Diamerone, Venezia 1565, 
pp. 29-30) non vuole alpostuto, peritoso, mora, meslea, burbanza, atare, e 
meno che mai altresì. Anche un fautore del '300, mons. Della Casa, che il 
Salviati loda per essersi fedelmente attenuto ai trecentisti, biasima 
(Galateo, xx) epa, spaldo, uopo, primato, sezzaio. 

La satira, così ampiamente diffusa, del toscaneggiare arcaico, dà 
origine all’espressione di favellare per quinci e quindi 270 . 

Va ricordato l’atteggiamento particolare del Davanzati, che miran- 
do al popolaresco e al caratteristico, tende soprattutto a salvare quegli 
idiotismi che sono sul punto di sparire, del tipo di quelli citati più su: 
atanto, finare, gina. In complesso, la tendenza a rimettere in circolazio- 
ne i toscanismi arcaici non ebbe effetti molto vistosi: tuttavia un certo 
numero di vocaboli, come altresì, guarì, autorevole, sovente, soverchio, 
testé, uopo e qualche altro, rientrano in questo periodo nell’uso 
letterario, e alcuni addirittura torneranno per questa via a radicarsi 
nell’uso quotidiano. 

22 . Gerarchie di parole 

Per vie diverse, sono venute ad affluire nel lessico letterario un gran 
numero di forme plurime: varianti fonetiche e morfologiche e doppioni 
lessicali, dovuti a diversa origine territoriale, all’affluenza dei latinismi, 
al ravvivamento di peculiarità e di vocaboli arcaici per imitazione 
letteraria. 

Ricordiamo come esempio di oscillazioni tra forme provenienti da 
vari luoghi, burro e butirro 27 '; ciliegia, ciriegia e ciregia-, fatica e fatiga 272 , 
freccia e frezza; la terna già citata legnaiuolo, falegname e marango- 
ne 272 , ecc. Grammatici e lessicografi si ritengono spesso in obbligo di 
ammonire contro l’uso di forme da considerarsi dialettali 274 . 


270 Quinci è citato fra le parole arcaizzanti in un capitolo del perugino Alfano 
Alfani, del 1545 circa (ed. da A. Fiossi, Perugia 1887). 

271 « Burro per butirro pur di Dante - osservava il Ruscelli - ma da lasciarlo 
rancire per non lo metter mai nelle vivande di scritti buoni»: e il Borghini lo 
compassionava: «O poveretto, i' ti vo' dire, che tu sei arrivato bene: come se 
queste voci si usassino mai altrimenti in Toscana nostra! » IRuscelleide , II, p. 23). 

272 Fatiga è frequente nei Senesi (A. Piccolomini, ecc.). 

273 Tutte e tre queste voci sono registrate dal vocabolario del Bevilacqua. 

274 «Usarono i Thoscani poppa... e non poppe : come noi Vinitiani diciamo...» 
(Dolce, Modi affigurati, c. 225 b). Una parola che dà luogo a molte, discussioni è 
adesso-, 1’accolgono il Tolomei e l’Aretino, ma altri la considerano abusiva. 


Il Cinquecento 377 

La tendenza ai latinismi, viva particolarmente, come s’è visto, fuori 
di Toscana, oppone per es. cerebro a celabro, chirurgo e chirurgia a 
cerusico e cinigia, officio a ufficio, ecc. 

L’autorità degli antichi oppone diede a dette, renduto a reso, feruta a 
ferita, ecc. 

I singoli autori, posti di fronte a una quantità di scelte stilistiche 
forse maggiore che in qualunque altro periodo della storia della lingua, 
tenderebbero ad attenersi alle abitudini culturali del loro ambiente; ma 
non di rado si lasciano dominare dal prestigio di riconosciuti maestri di 
stile e di lingua-, così vediamo il Castiglione e l’Ariosto seguire le 
prescrizioni del Bembo 275 . 

Non di rado i consigli che davano i grammatici, fondati su criteri 
diversi, erano discordi: basta sfogliare i Tre discorsi del Ruscelli contro 
il Dolce, o i libri del Castelvetro, o le Lettere discorsive del Borghesi, per 
immaginare l’imbarazzo in cui dovevano trovarsi i lettori, che ansiosi 
di affidarsi a una norma si trovavano invece in presenza di affermazio- 
ni e consigli contraddittorii. 

Poiché la norma che tendeva a predominare era l’imitazione dei 
trecentisti, e i trecentisti presentavano forme diverse, è ovvio che le 
difficoltà di giungere a forme uniche erano insuperabilmente grandi. 

Se i modelli erano letterari, letterari erano anche i criteri di scelta: 
grammatici e retori consigliano di attenersi alle parole «belle», «genti- 
li», «oneste», «vaghe», «illustri», e di evitare quelle «brutte», «vili», 
«disoneste», ecc. 

Nell’impossibilità di decidere tra due o più varianti, appoggiate ad 
autori diversi ma tutti autorevoli, i grammatici e i lessicografi tendono 
in molti casi ad attribuire a ciascuna una sua propria sfera, riconoscen- 
do una specie di gerarchia tra le forme e le voci da riserbare alla prosa 
e quelle da adoperare nei versi. 

I critici più sensati additano gli esempi, e lasciano all’arbitrio degli 
scrittori il seguirli più o meno rigorosamente 276 ; ma c’è una distinzione 
che spesso si fa con precise intenzioni normative, quella fra parole 
prosastiche e parole poetiche. Si distinguono così, non senza arbitrio, 
anche (prosa) da anco (verso), gastigare (p.) da castigare (v.), fraude (p.) 
da frode (v.), maraviglia (p.) da meraviglia (v.), menomo (p.) da minimo 
(v.), mutolo (p.) da muto (v.), spirito (p.) da spirto (v.), veduto (p.) dà visto 
(v.), ecc. 277 . 


275 II primo muta, per es., palagio in palazzo (Cian, La lingua di B. Castiglione, 
cit., p. 63), il secondo presto in tosto (v. p. 376). 

278 V. per es. le pagine del Mintumo, nell'Arte poetica, Venezia 1563, pp. 301- 
304, 321-322. 

277 E ancora: «Dopo si doppia da Prosatori; ma nel verso non si pone 
altrimenti, che con sola P» (Dolce, Osservationi, ed 1566, p. 145); «Buio, voce 
popolaresca, e non da versi leggiadri, se ben molto Toscana» (Ruscelli, Del modo 
di comporre in versi, s. v.) ; « soffre è de’ Poeti, e non de’ Prosatori» (Borghesi, Lettere 
disc., p. 197), e similmente in molti autori, moltissime volte. 


i 


378 Storia della lingua italiana 

Frequenti sono poi le discussioni sul grado delle parole, sulla loro 
convenienza alle circostanze, e per lo più i grammatici tentano 
d’imporre il loro parere. Il Gelli fu censurato per aver intitolato una sua 
commedia la Sporta, nome «troppo vulgare e basso» (v. la dedica della 
commedia), il Varchi usò la parola ciurma nel discorso in cui rendeva il 
consolato dell’Accademia e fu biasimato; e piene di tali censure a 
singole parole e costrutti sono le polemiche sul Caro, sul Tasso, 
suU’Ariosto. 

Quelle differenze che nel Poliziano o in Lorenzo de’ Medici erano 
gradazioni liberamente scelte dall’autore in una gamma tonale sono 
ormai sottoposte a norme estrinseche: ciò che i grandi scrittori del 
passato avevano scritto diventa non più un luminoso esempio, ma un 
limite e una rèmora. 

Non diversamente nascono ora, da una miope interpretazione di 
Aristotile, le regole delle unità teatrali. È la tendenza di quest’età, in 
tutte le sue manifestazioni. 

In questo modo un certo numero di parole ricevono la qualifica di 
parole «poetiche» (e alcune peculiarità grammaticali si ritengono 
ammissibili solo nei versi), e per oltre tre secoli domineranno nell’alta 
poesia. 

Che poi questo lessico speciale e quest’«alta poesia» venissero così 
a essere straniati dalla vita quotidiana, è la dolorosa conseguenza 
della limitatezza di questa civiltà letteraria cinquecentesca, la quale 
anziché inserirsi in una unità sociale e pratica conseguita da tutti gli 
Italiani, è solo il frutto raggiunto da una cerchia relativamente 
ristretta di letterati, in nome d’ùn ideale di bellezza considerato 
accessibile a pochi eletti. 


23. Forestierismi 

Le lingue che influiscono più fortemente sul lessico italiano in 
questo periodo sono il francese e lo spagnolo; ma per la grande 
apertura d’orizzonte dovuta alle scoperte geografiche dobbiamo tener 
conto di numerose altre fonti. 

I contatti bellici e culturali con la Francia fanno si che un numero 
non trascurabile di francesismi entri in questo periodo in italiano. 

Naturalmente, gli scrittori che parlano di cose francesi ne adopera- 
no molti di più di quanti sono poi effettivamente entrati nell’Uso: e tale 
impiego è ovvio quando si tratti di titoli, di istituzioni, di peculiarità 
francesi. 

II Machiavelli, per es., nel Ritratto delle cose di Francia (scritto nel 
1510, dopo tre missioni a Luigi XII) parla di «/auto d’argento», del 
« preposto dello ostello», dei Ungi «cioè tovaglie e tovagliuoli», ecc. 
L’Equicola in una lettera da Blois (1505) parla di «tucte le gendarme ». E. 
occupandosi più tardi nel Libro de natura d’amore di poeti nelle due 
lingue di Francia, parla di trovadori e giocolari che componevano 


Il Cinquecento 


379 


H^nZ S H^u enVante f (SÌC) cou P eletz et lettres et ballades d' amour (c 181 a 

(c Ì b) Fpd e fi H“ r ? a ^ P ° et ? Che canta ‘ in laude d e ^a maestressa» 
le. 185 b) Federigo Fregoso, che viveva in un’abbazia presso Divinnp 

donde si mosse nel 1526 con la speranza di riprende^f autorità Tn 
Genova sotto 1 egida francese, scrive al Montmorency con qualche 

Invece che non Presserò tenuto pe? così sotto»)-, 

invece che dire «re di Francia» si dice spesso Roy 2n 

istituzionTdfS^toiin/^^^ dann ,° fre( l uenti notizie di cose e 
istituzioni di la. Giuliano Sodermi parla del re di Francia che riceve 

1 ambasciatore imperiale «in una grande sala o galleria bene ornata di 

Saf e Z nf!?r H IO ?/^ Ì n araZZU: lettera 1528 - in Sanudo, Diarii, XLVII c(J 
^ 1 C ^ lini narra co me il re volesse mettere il Giove «nella 

sua bella galleria. Questo si era, come noi diremmo in Toscana una 
loggia, o si veramente un androne...» (Vita, II, cap xli)- si tratta di un 
uso caro a Francesco I, e il fatto che ci sia bisogno di sp egare la paroto 
mostra che essa non era ancora nota in Italia. Gli oratori vene£ n 
Francia parlano dei lacche del sovrano (M. Soriano, 1562), del gabinetto 
S Rflr!-i^p eVe 1 p ? u ® tr . ettl consiglieri (G. Michiel, 1572), della notte di 

Luccicone™ Sn Heìr/ U att °- com ®. dicono i francesi, il massacro, cioè 
i uccisione» (ìb.) della «porzione di beni» del principe ereditario «o 

(come dicono in Francia) del suo appannaggio » (G Michiel 1578) 280 dei 

ritenta Ch essl dicono (P Duodo. iSs^’vocf ancor 

riferite a cose francesi, mentre più tardi le troveremo adoperate anche 
con riferimento a usanze penetrate in Italia 282 . 

Ludovico Guicciardini, nella Descrittione di tutti i Paesi Bassi ( 1567 ) 
spiega che cos e la Borsa, termine originario di Bruges 283 che cosa sono 

S SaTedóvr d6ll ° S,at °“ ChC C ° S ' è 11 *5-* <** 

P !,n im Porta vedere come alcuni vocaboli francesi siano già penetra- 

o convoli? Sl haano P are cchi termini militari.- batteria, con voto 
o convoglio, foriere o funere™, marciare, petardo, picca trincea o 
nncera, ecc. Il Machiavelli, nei Discorsi sopra le deche, osserva che al 


tre «.'.“r?™ 'tilSneln f iSn ° r (arde? Sorno andò a* torte con dui o 

y 2s 0 1 Navarre» (Speroni, in Orationi, Venezia 1596, p 40) 

2(a M ol e I lsp f llv e relazioni nella raccolta deH Albèri. 

(Diate** sS Emendi! 1 ““osT'*'" 0 r, ' er “° * M-e 

“ Henry, in Lingua nostra, XIV, 1953 p 19 
ni neuSrSSKX™' Ch ' "* S ‘ a '° lmpor,ato dai No ™“ 
IZnc”afc^S°„” e 'p“ C 8 !̰ P ““ den, « d ‘ am fasciatori fiorentini in Francia 


380 


Storia della lingua italiana 


termine di fatti d’arme si sta sostituendo il » vocabolo francioso 
giornate » (p. 162 Mazzoni-Casella). In rollo (più tardi ruolo) e in tropo, 
(più tardi truppa ) convergono e lottano influenze spagnole e francesi . 
C’è Qualche termine di marineria, come equipaggio 
Per l’abbigliamento, citiamo il nome di un drappo, il grograno. Il 
termine di dorura non è, come si potrebbe credere, un francesismo 
individuale del Celimi («gioie e dorure francese», nella 
comune a Firenze nel tardo Cinquecento (v. gli esempi del Tommaseo- 

Bel per cibi e bevande ricordiamo il potaggio ipotagio nel Tansillo) e il 
gigotto bigotto nello Scappi), il claretto e la birra Ibira nel Sanudo). 

88 Qualche francesismo importato in questa età (come busta «borsa, 
guaina», pacchetto «plico di lettere») si riferisce alle comunicazioni. E 
aDDaiono anche termini generali come regretto, risorsa. 

Porremmo arricchire di molto questa esemplificazione se v includes- 
simo anche voci regionali, specialmente piemontesi (per es. desbauciar- 
si^andar appresso a follità» nel Promptuanum del Vopisco-, basa nel 

Roterò — e nel Giovio — ; ecc.). . , 

Siche più numerosi dei francesismi sono in questo periodo gli 

Ìb6 Sfsi riferiscono alla vita sociale: baciamano , complimenta > e » U 
relativo complire (cioè «complimentare»), creanza («parola nuova tratta 
di Spagnai Lenzoni, Difesa , p. 135) e anche creare nel senso di 
«allevare educare» e creato «famiglio», privanza «familiarità», impe 
gno e disimpegno, sforzo «ardire, bravura» e sforzato «energicamente 
oneroso» disinvoltura , sussiego, sfarzo -, anche il nuovo significato di 
flemma ù calma, lentezza») è di provenienza spagno a 
senso dell’onore si riferiscono disdoro e puntiglio (il «piccolo punto 
donore) Tra le persone che aiutavano i signori, ol re a creato 
ricordiamo aio e mozzo «che l’Ariosto offre italianizzato, ma ancor 
caldo della sua provenienza straniera: se fosse ben mozzo da spuola»^ 
Non mancano, come accade spesso, termini d insulto: marrano 
fanfarone, vigliacco , agli Spagnoli, per il loro frequente intercalare, 

da sSdiffondono largamente, secondo l’esempio spagnolo ì titoli di 
signore (cfr p 395) e di don («quel don sì caro allo Spagnuol ventoso»: 
Caporali). Marchese fa al femminile marchesa per influenza spagnola. 

lM ST fi S lìngua spagnola in itali* B°m» »«■_«.» 

sotti 

Zaccaria, L'elemento iberico nella lingua italiana, Bologna 19 . 

Croce. La Spagna, cit., p. 156. 


Il Cinquecento 


381 


Si apprezza il titolo di grande di Spagna, si accoglie anche in Italia 
l’istituto del maiorasco o maggiorasco. 

Per quel che concerne la casa, penetra in Italia il termine di 
appartamento («copia di stanze o, come oggi li chiamano, appartamen- 
ti »: Borghini). Si hanno nomi di stoffe Maniglia «tela fine»), di guarnizio- 
ni ican{n)utiglia), di vesti ( faldiglia , zamarra o zimarra, monderà «specie 
di berretta»), di ornamenti ( maniglia «braccialetto»; ma anche «mani- 
cò» e «manetta»), di profumi ( ambracane ), ecc. 

Giungono poi nomi di cibi: il bianco mangiare, il mirausto o miragu- 
sto, la sopressata (spagn. sobreasada), il torrone (fatto con mandorle tosta- 
te), la marmellata (dal portoghese marmelada «cotognata»). 

Parecchi vocaboli si riferiscono alla vita militare: continuo «guardia 
del viceré», bisogno «soldato nuovo» 289 , guerriglia, casco, morione, 
zaino, parata, quadriglia «schiera di quattro uomini», ecc. Ricordiamo 
anche i molti termini riferiti ai cavalli.- alazano «sauro» (Giovio), 
rabicano, ro(vkmo, ubèro, pariglia «coppia di cavalli», ecc. 

Molti sono pure i termini di marina: almirante, flotta, rotta, baia, 
cala, tolda, babordo, arpone, ecc.-, e molti più se contiamo anche le voci 
imparate nelle imprese marittime compiute sotto gli auspici della 
Spagna e del Portogallo (v. qui sotto). Anche i nomi dei punti cardinali, 
nord, est, ecc., pur essendo, come è noto, di remota provenienza 
anglosassone, giungono ora in italiano per tramite spagnolo 290 . 

Alcuni termini si riferiscono all’amministrazione: azienda, dispaccio 
e dispacciare, ecc. 

Ricordiamo anche alcune misure ( quintale , tonln)ellata) e oggetti 
vari ( astuccio , dal catal. estoig, cartiglio, ecc ). 

Ci si rende conto della forza di penetrazione esercitata dagli 
iberismi sul nostro lessico anche attraverso le molte parole generali 
che allora vi penetrarono: accudire, buscare, render la pariglia, ecc., 
grandioso, lindo, ecc. In qualche caso lo spagnolismo incide addirittura 


289 Lo Zaccaria registra bisogno fra gli iberismi; mentre il Terlingen (Los 
italianismos en espanol, Amsterdam 1943 s. v.) lo considera un italianismo: si 
tratterà di un vocabolo nato In Italia dal contatto fra truppe spagnole e 
popolazione italiana secondo la spiegazione che ne dava nella Comedia soldade- 
sca Bartolomé de Torres Naharro, che trascorse a Napoli e a Roma la seconda 
metà della vita, al principio del Cinquecento: 
l Y por qué causa o razón 
los llamàis bisonos todos? 


Porque si quieren pedir 
de corner a una persona 
no sabràn sino decir: 

«Daca el bisono, madona» 

(II, w. 46-47, 51-54; cfr. la ricca nota del Gillet, alla sua ed. della Propalladia, III, 
pp. 418-420). 

290 Sono dapprima più frequenti le forme ispanizzanti aorte, oeste, ecc., poi 
sopraffatte dalle forme preferite in Francia. 


382 


Storia della lingua italiana 


sull» grammatica: abbiamo già ricordato l’uso di lo che, particolarmen- 
te vivo negli scritt ori mendion '• „ Kami si potrebbero citare in 

SssSsSSa^SSssissBS! 

Ha origine nei paesi tedescto 1 uso dei brmn si ^ ch e 

-iSSlSti W— la locuzione 

^.rssssr*. ha * ssate 

^^«“Slirco^togno Utupfersteinì, mergolo, forse 

copparosa. istituzioni si conoscono come propri dei paesi 

g er£S= SS. bSEEKi borgomastri* (Machiavelli), nel Tool» 


» Spariranno 1 più tra 1 termini ài “X> 

«malgrado» (Giovici, operadi.OTca» (Sassetol.^ecc^ tedesc ^ corae si vede 
d^^“fS°pSe q à^rSi1SLimanni IKmrmoppl a ài UmMchP^cH 

“"^féSiGtnateo. XXE«.»»r^“ SESSf’ràf^S.'ìS^S- 

st^WiSiisres^ - - 

formazione spagnola. . . .,- 

»« lìngua nostra, XIII, 1952, pp. 44-45. 


Il Cinquecento 


383 


si paga la steura (Sanudo, Diarii, XXXIX, col. 15), ecc. L’autorità di Uri e 
di Svitto nel Ticino è esercitata dai lanfogti. 

Gli stretti rapporti commerciali con i Paesi Bassi danno luogo 
all’importazione di droga, termine che sarà molto adoperato nei 
commerci d’oltremare, e alla conoscenza di vocaboli come caramessa 
(«fiera», kermesse ), stapula «deposito». Si ha notizia anche delle dune e 
dei dicchi «dighe» («che dentro i dicchi della bassa Olanda»: Chiabrera) 
e della turba o torba. 

Gli anglicismi sono scarsi, e quasi tutti riferiti a cose dell’isola di cui 
trasmettono la conoscenza quelli che vi sono stati (gli ambasciatori, gli 
esuli rifugiati in Inghilterra, come il Bruno e il Fiorio). Citiamo, per es., 
ala «specie di birra», smalto «malto». C’è spesso, nell’adattamento di 
voci inglesi, oscillazione, come si vede per es. dal nome dell’ordine della 
Giarrettiera: l’ordine «del Gartier » (Castiglione, Cortegiano, III, n), 
«della Giarrettiera... ima cinta delle gambe, addomandata in lingua 
inglese garter » (Giacomo Soranzo, ap. Alberi, Vili, p. 56), «della 
Gartiera » (Sansovino, De(ia origine de Cavalieri, Venezia 1570), «il 
Nobile Ordine de la Garatjèra » (Fiorio, dedica dei First Fruites, 1578), 
«Niccolò Careo, cavalier gerrettiero» (Davanzati, Scisma, in Opere, II, p. 
378 Bindi), ecc. 

Quanto all’Europa centro-orientale, le parole slave e ungheresi che 
ne provengono passano spesso attraverso il tramite tedesco ( cocchio , 
pistola, trabanti, usseri ). Ma qualcuna vien direttamente dal croato: 
sciabola («quelle che i Corvatti chiamano sabglìe »: Sansovino) 295 , 
stravizzo «invito a bere» 298 , forse tacchino, oltre a vocaboli di color 
locale come bario, ecc. 

Dai Greci viene la moda dei mustacchi™ 7 . Voci arabe, turche, 
persiane penetrano attraverso i fitti contatti con il prossimo Oriente: 
sofà, divano (che nel Levante significa «luogo d’udienze» e «tettuccio»; 
naturalmente il primo significato si ha solo nelle descrizioni di color 
locale, metre il secondo viaggia con l’oggetto stesso). Chiosco e 
serraglio sono noti come palazzi del Sultano. Tra le vesti orientali 
tornano frequenti il nome del dolimano e quello del turbante™. Giunge 
notizia dei sorbetti (sotto la forma di tzerbet, scerbet, presto trasformata 
per raccostamento a sorbire ) e del caffè, col nome arabo di buna (P. A. 
Michiel) e con quello turco di cave ( cavee nella relazione di G. F. 
Morosini, 1585). Ricordiamo anche un nome di colore preso dal turco, 
quello di mavì. 

L’influenza araba si fa ancora sentire in alcune scienze: abbiamo 
per es. alcohol «solfuro di antimonio» (per influenza di Paracelso, il 


295 Zaccaria, Raccolta, p. 330. 

“* Vidossi, in Lingua nostra, XIII, 1952, p. 108 . 

287 Reichenkron, Zeitschr. franz. Spr., LVIII, 1934, pp. 48-55. 

288 E si sa che tulipano non è che una trasposizione metaforica del nome del 
turbante (Migliorini, Lingua e cultura, p. 286). 



384 


Storia della lingua italiana 


termine assumerà poi anche il significato oggi usuale), toc «sostanza 
medicinale semifluida», rob «sugo di frutta concentrato», ecc. 

L'aprirsi dell’era delle grandi scoperte ha conseguenze importanti 
per la lingua: anzitutto per l’importazione, o almeno per la conoscenza 
di animali e di piante prima ignoti, che fa entrare nel lessico nuovi 
nomi, o attinti alle lingue indigene, o coniati nelle lingue dei popoli 
esploratori, o foggiati in Italia. 

Le novità più importanti vengono dall’America 2 “, per tramite 
spagnolo o portoghese, più di rado francese 3 ". Ecco alcuni nomi di 
animali come caimano, condor, iguana, vigogna (parole indigene) e 
cocciniglia (parola spagnola), ecc. Si hanno nomi di piante e frutti, 
come ananas, batata e patata, cacao, mais, tornate, coca, guaiaco, ecc. 
Ma talvolta invece della parola esotica, o accanto ad essa, si conia una 
parola o una locuzione nuova: accanto a mais si ha granturco (nel 
senso di «grano di provenienza esotica»), accanto a tornate, si conia 
pomodoro, accanto a guaiaco si ha legno santo, accanto a tabacco si ha 
in Toscana erba tomabuona (da mons. Niccolò Tornabuoni che importò 
la pianta sotto Francesco I dei Medici), ecc. 

Ricordiamo poi nomi di oggetti vari come la canoa e la piragua (più 
tardi piroga ), l’amaca e la ciccherà (più tardi chicchera, «recipiente fatto 
col guscio d’un frutto», poi «tazza»). 

Nelle navigazioni s’incontra il salgazo o sargazo (più tardi mutato 
per influenza francese in sargasso); attirano l’attenzione certe forma- 
zioni geografiche, come le zavane (più tardi savane ) e i vulcani (il cui 
nome, tratto ovviamente da quello mitologico, e localizzato dapprima 
nella più meridionale delle isole Eolie, si divulga in Europa a proposito 
dei vulcani dell’America centrale) e fenomeni atmosferici (gli uragani, 
tipici nel golfo del Messico, che gli indigeni chiamavano col nome del 
dio delle tempeste Hurakan, «quello con una sola gamba»). 

L’errore cosmografico di Colombo dà all’antico nome di India, 
indiano un’estensione abnorme. Il nome etnico dei Caribi si divulga, 
sotto la forma di cannibali, con il valore di «antropofagi» («earum 
terrarum incolae Canibales esse affirmant, sive Caribes, humanarum 
camium edaces»: Pietro Martire d’Anghiera, dee. Vili, cap. 6). 


2 “ Molti passi di scrittori, e discussioni sull’origine dei vocaboli singoli si 
troveranno in G. Friederici, Amerikanistisch.es Wòrterbuch, Hamburg 1947; per le 
prime attestazioni italiane si ricorrerà principalmente a E. Zaccaria (Raccolta e 
Elemento iberico). Una ricca serie di articoli di L. Messedaglia ha portato preziosi 

ChÌS £ Gli Spagnoli attinsero una prima serie di parole dall'aruak delle Grandi 
Antille (ed essi stessi diffusero per tutto il continente alcune di queste voci, per es 
canoa); altre ne presero nel Messico dall'azteco, altre nell’America meridionale 
dal quechua. I Portoghesi attinsero nel Brasile numerosi termini dal tupi e dal 
guarani; i Francesi nell’America Settentrionale dall’algonchino e daH'urone. E 
accaduto non di rado che voci penetrate in questo periodo in Italia sotto forma 
spagnoleggiante siano state più tardi sostituite da doppioni di forma francese o 
inglese (v. cap. X). 


Il Cinquecento 


385 


Anche le spedizioni nell’India propriamente detta e nell’Estremo 
Oriente portano nuove conoscenze e nuove parole 301 : si tratta anche 
qui ora di vocaboli indigeni fortemente deformati (il nome del tè, che 
appare sotto la forma di qua nel Sassetti e di chia nel Maffei tradotto 
dal Serdonati, pagodo «idolo», bonzo, monsoni, tifone, ecc.), ora di 
vocaboli portoghesi con nuovi significati, talvolta presi tali e quali 
(casta, cocco), talvolta ricalcati (.venti generali «venti periodici»). Anche 
zebra, adoperato dai portoghesi per un animale da essi scoperto nel 
Congo, non è voce indigena ma ibero romanza 302 . Banana proviene 
dall’Africa equatoriale. 


24. Italianismi accolti in altre lingue 

Già nei secoli precedenti, l’importanza dell’italiano, specialmente 
nel campo marittimo e nel campo commerciale, aveva avuto come 
conseguenza una notevole penetrazione d’italianismi in varie lingue 
europee; ora che tutti i paesi occidentali vedono nell’Italia un modello 
di più alta civiltà, l’afflusso nei loro lessici si fa molto più copioso, e ci 
permette di vedere questo ideale di superiore civiltà incarnato in ima 
serie di nozioni i cui nomi si attingono all’italiano. 

Nella vita sociale assistiamo all’espandersi del termine di cortigiano 
(accolto in spagnolo nel 1490, in francese nel 1539, in inglese nel 1587); 
anche più largamente è accolto il femminile cortigiana, col significato 
spregiativo che ben presto ha assunto (il femm. si ha anche in tedesco 
nel 1566). 

Fra i nomi di vesti si possono ricordare il cappuccio (fr. capuchon, 
sp. capucho, ted. Kapuze, ecc.). Tra i cibi, indichiamo i maccheroni 
(frane, macarons, 1552, più tardi macaroni-, sp. macarrones-, ted. Macaro- . 
nen; ingl. macaroni, 1599P 03 ; la cervellata (fr. cervelat, 1552, poi cervelas ), 
la mortadella (fr. mortadelle, 1505); tra le piante da orto, citiamo il 
carciofo (it. settentr. articiocco, da cui fr. artichaut, 1530, ingl. artichoke, 
1531, ted. Artischocke, 1556). Tra gli accessori dell’eleganza, citiamo il 
profumo (rifatto in francese in parfum, e dal francese diramato all’ingl. 
e al ted.) e la pomata (fr. pommade, 1540, ecc.). 

Dei termini riferiti ai trasporti ricordiamo facchino 30 * (fr. faquin. 


301 Si consulteranno con frutto (oltre agli spogli dello Zaccaria): H. Yule-A. C. 
Bumell, Hobson-Jobson, Londra 1903, R. Dalgado, Glossario Luso-asiatico, Coim- 
bra 1919-21. 

302 L'etimo è probabilmente equifer. 

303 I maccheroni potevano ancora essere di forma sferica, una specie di 
gnocchi (Paoli, in Lingua nostra, IV, 1942, pp. 97-99), tant’è vero che dal medesimo 
termine italiano nasce anche il nome degli «amaretti», che degli antichi 
«maccheroni» hanno la forma (fr. macarons, ingl. macaroons, ted. Makronen). 

304 Troviamo la parola anche con significato spregiativo, come in italiano, non 
solo in francese e spagnolo, ma pure in polacco, dove si ha fakin e facin anche per 
«garzone di pasticceria» e per «buono a nulla». 


386 


Storia della lingua italiana 


1534-, sp. faquinì. Molti vocaboli riferiti al commercio e alla circolazione 
del denaro {banco, bancarotta, ecc.) già si erano diffusi prima del 
Cinquecento: ora si divulgano bilanciò - bilancia, tariffa, numero, e 
anche zero, che passa al francese, allo spagnolo, all’inglese (mentre il 
tedesco nel significato di «zero» ricorre all’italiano nulla : Nulle, più 
tardi Nulli. 

Parecchi termini riferiti alla vita militare sono stati largamente 
accolti all’estero: soldato (fr. soldat, 1548; sp. soldado-, ted. Soldat, 1522, 
ecc.), caporale (fr. caporal, 1552; sp. caporal, 1537; rifatto in ted. in 
Corporal, 1608), colonnello (fr. coronel, 1542, e poi colonel; sp. coronel, 1511; 
ingl. colonel, 1548), sentinella (fr. sentinelle, 1546; sp. centinela, 1525) e così 
via. Non meno numerosi sono quelli riferiti all’architettura militare: 
casamatta (fr. casemate 1539; sp. casamata, 1536; ingl. casemate, 1575), 
bastione, parapetto, terrapieno, ecc. 

Anche per la navigazione già parecchi termini si erano diffusi nei 
secoli precedenti; ora altri ne seguono. Piloto già si trova in francese 
sotto la forma pilot nel sec. XIV, e in spagnolo era entrato nei primi 
decenni del sec. XV, ma ancora in una lettera del 1502 Cristoforo 
Colombo ha bisogno di spiegare la parola {Scritti, II, p. 162, ap. 
Terlingen, p. 241); portolano dà al fr. portulan, 1578, e allo spagn. 
portulano, 1512; bussola dà allo spagnolo la forma, alterata dall’etimolo- 
gia popolare, brùxula, 1492 (mod. brùjula ) e al fr. boussole, 1564; il nome 
della calamita si presenta nel fr. caiamite, 1512, e nello sp. calamita, 
1520; tramontana (nel senso di «vento del nord») appare nello spagn. 
tramontana, 1502, nel fr. tramontane, 1549, nell’ingl. tramontane, 1615. 

I termini concernenti cose religiose dipendono più spesso da 
vocaboli latini della Curia (fr. nonce, caudataire, ecc.) che da vocaboli 
italiani: ecco tuttavia cappuccino (fr. capucin, sp. capuchino, ted. 
Kapuziner, ecc.). 

II contingente più ricco e importante di italianismi nelle lingue 
europee è quello che concerne le lettere e le arti. Le forme italiane di 
poesia che penetrano in questa età nelle altre letterature portano con 
sé i loro nomi: il sonetto (sp. soneto, s. XV ; fr. sonnet, 1525; ingl. sonnet, 
1589), il madrigale (fr. madrigai, 1542, ingl. 1588, ted. 1596, spagn. 1615), la 
poesia maccheronica (fr. macaronique, 1546; sp: macarrónico-, ingl. 
macaronic, 1611), ecc. 

C’è anche qualche termine musicale, come fuga (sp. fuga, 1553; fr. 
fugue, 1598; per tramite francese, ingl. fugue, 1597; ted. Fuge, 1619). 

Si divulgano parecchi nomi di maschere: zanni (fr. zani, 1550, ingl. 
zany, 1588) e Pantalone (fr. pantalonnade, 1597, ingl. pantaloon, 1590); s’è 
già visto (p. 361) che arlecchino è di origine italo-francese. 

Fra i termini di belle arti, assai numerosi, citiamo facciata (fr. 
faqade-, sp. fachada), piedestallo (fr. piédestal, 1545, sp. pedestal, 1539; 
ingl. pedestal, 1563), balcone (fr. balcon-, sp. balcón, 1591, ingl. balcony, 
1618), cartone (fr. corion, 1570; sp. cartóni, ecc. 

Bastano questi pochi esempi fra i molti che si potrebbero citare per 


il Cinquecento 


387 


dare un idea dell’ampia penetrazione culturale dell’italiano nelle lin- 
gue occidentali. 

Con la scorta delle ricerche fin qui compiute 305 si vede che l’influen- 
za in Francia e in Spagna si è svolta principalmente attraverso le classi 
colte, ma non senza una notevole partecipazione popolare; in Inghilter- 
ra la mediazione compiuta dagli «italianati» colti, principalmente 
urante 1 età elisabettiana, si limita ai ceti più alti; nei paesi di lingua 
tedesca e olandese l’azione è molteplice, ma discontinua; in Polonia il 
principale contingente è dovuto alla corte della regina Bona. 

Quanto ai paesi scandinavi, gli italianismi vi arriveranno più tardi 
quasi sempre per mediazione francese o tedesca. 

, P® 1 tutto diverso è il quadro che traspare dagli italianismi accolti 
nei Levante in prima linea in greco, e poi, per lo più per tramite greco 
in turco: si tratta nella grande maggioranza di vocaboli concernenti la 
vita materiale Abbiamo parole attinenti alla casa (àXxàva, xavxtva, 
aofixa), il mobilio (PaCo.XaPexat, (i-Ppóxa), le vesti (f3Éaxa, xàXxaa, òuBpéXa 
’ la cacma , e i cibi (xouCtva, Tuvtàxoc, aapSéXa, cppoòxa). Altre concernono 
, guei T a (ap^XXapia, P-ouaxexo) e la marineria (xpocuovxàva, «rafia). Ma 
ui queste voci sono penetrate nel neoellenico dopo il sec. XVI 306 
e abbiamo creduto opportuno di farne cenno solo per delineare ii 
diverso carattere dell’espansione degli italianismi in Levante 

Quanto alle voci italiane accolte nelle lingue occidentali, numerosi 
probiemi che le concernono meriterebbero d’esser studiati dawicino. 
bi dovrebbe esaminare da quali centri esse si diramano, e si vedrebbe 


forJa ^ e ^L P ^° ran i ÌC ) Ì , su , "espansione degli italianismi danno B. E. Vidos. La 
f di espansione della lingua italiana, Nimega Utrecht 1932 e C Battisti 
pp^agTlf “aliane nel vocabolario europeo», in Italiani nel mondo. Firenze 1942,' 

*?. singole lingue, oltre ai vocabolari storici ed etimologici e ai repertori di 

ralfc i n r / Sml ’ S1 pu ° rlcorrere a queste monografie: per il francese B. H. Wind Les 
mots itahens mtroduits en frangais au XVI ' siede. Deventer 1928, B E Vidos 

p “ roi f. marinaresche italiane passate in francese, Firenze 1939; per lo 
spagnolo, J. Terlingen, Los itahanismos en espahol, Amsterdam 1943- per il 
A h ® sco non esiste una monografia, ma abbiamo ricche notizie negli articoli di E 
Ohmann, negli Annales Ac. Scient. Fennicae, B, LI 2 e B LII1 2 e nelle Neunhilnì 

tSSSTZ : a- ™,* 8g 8 nell ° 8tudi ° « M- Wli. ni Mfcì 2 toSlS 

Vìnnnlv A ' ,„ VI1 - 1955 ' per l’ ol andese, E. Óhmann, in Verslagen en Med K 

Orrf , n Ac h a f emie . 1955. pp. 131-152: per le lingue scandinave, K. Nyrop. Italienske 

SJ monam k k C Sandfdd e r ^ P , Hòybye - ‘ N °g ,e norditalienske laaneord». in In 
memonam K. Sandfeld, Copenaghen 1943. pp. 94 100; per l'ungherese F Karinthv 
OlaszJovevenyszavamk, Budapest 1947; per il neogreco, G. Meyer Neugr. Studien 

rom U XXn Ur JfS e nn^ Ph his ‘ K1 • CXXXII. 1895; H. kahane, in Arch. 

rom., XXII, 1939, pp. 120-135; per il turco, H. e R. Kahane e A. Tietze The Lingua 

cenm Ca hihlio^-Ìrf Vant ' 1958; per altre lin Kue basterà rimandare ai miei 

Battisti*, 1 art. 8 cu! Ì pp m 4iT15. Cl,l ^ Uantenn * 0 * R ° SSÌ ’ pp 25 26 e a puelli del 

in CTa^arte S da fnnH fi H-ì1’ ® iaper . il cara , ttere stesso di questi vocaboli, attestati 
‘ d foptl dia!ettah , sia per le condizioni della lessicografia greca 
dire con sicurezza da Quando datano. 


388 


Storia della lingua italiana 


l’importanza di Roma (da cui parte per es. corridore in luogo di 
corridoio) e dell’Italia settentrionale (abbiamo già ricordato articiocco 
per carciofo); può anche accadere che diversi prestiti risalgano a 
varianti territoriali della stessa parola: il ted. Pomeranze, 3. XV, il 
polacco pomarahcza provengono da pomarancia, il greco vapàvroa, 
l’ungherese naranch (1481), mod. narancs, riproducono il veneziano 
naranza. Ma non possiamo qui addentrarci nei particolari 307 come 
potrebbe fare un’auspicabile monografìa sugli italianismi europei, con 
un ampio glossario in cui l’espansione dei vocaboli italiani dovrebbe 
esser considerata non lingua per lingua, ma nel suo complesso. Si 
vedrebbe così, ad es., che pavana, nome di un ballo italiano rustico del 
contado di Padova 308 , giunto in Spagna, prese colà carattere aristocra- 
tico, e la Spagna diventò, qualche decennio dopo, un nuovo centro 
d’espansione del vocabolo (come può mostrare la forma pavaniglia, che 
è certo un ispanismo). 

Del resto si potrebbero citare numerosi altri esempi di vocaboli che, 
nati in un paese ed emigrati in un altro, trovano in questo un nuovo 
centro di espansione: fregata è greco ma è dall’Italia che giunge in 
francese, ecc.; schizzo dà origine all’ingl. sketch non direttamente ma 
per il tramite dell’oland. schets, ecc. 

Il complicato intreccio di scambi tra le varie lingue d’Europa va di 
volta in volta dipanato considerando la concordia discors con cui le 
varie nazioni hanno per secoli operato. 


307 Non si dimentichi inoltre, che la maggiore o minore accoglienza fatta a 
certe parole dipende in parte dalla struttura delle lingue accipienti: lo spagnolo, 
per es., accoglie con facilità parole sdrucciole t àndito , esdrùjulo ) che al francese 
riescono ostiche e, se accolte, vengono deformate (per es. boussole). 

308 A. Messedaglia, in Atti Acc. Agric., Scienze e Lettere di Verona, s. 5*. XXI, 
1942-1943, pp. 91-103. Il primo esempio fin qui indicato è del 1508: J. A. Dalza, 
Pavana alla venetiana cioè danza padovana scritta secondo il sistema dei 
musicisti di Venetia. 


CAPITOLO IX 

IL SEICENTO 


1. Limiti 

_ Termini più ragionevoli che anni secolari potrebbero essere per 
1 nuzio quelh che sono stati indicati delimitando il Cinquecento (1503 
ch ! usura ^el Concilio di Trento; 1582-83, fondazione e 
, Sal ™ tesca de ^ Accademia della Crusca), per la fine quella 
SterariL che Se *? a 1111 mutamento nella filosofia, nella 

ìorfdl? ’d st ® s . se mode 1 ; sintomatica è anche la data della 

fondazione dell Arcadia (1690). 

2 . Eventi politici 

La carta politica dell’Italia rimane pressoché immutata, in confron- 
to <ì° n 1 lineamenti fissati dal trattato di Cateau Cambrésis. Qualche 
cambiamento si ha solo nell’Italia settentrionale, in seguito alle due 
frrfw, < M«^i CeS f̰ ne ? Mantova e Monferrato. Dopo Ferrara (1598), 
ll631) entr a a far parte integrante dello Stato Pontificio. La 
Valtellina, dopo aver suscitato contesa, rimane per questo secolo e il 
seguente in possesso dei Grigioni. 

Le lotte tra Francia e Spagna toccano la penisola solo episodica- 
, Qo stat .° c ^ e P lù ne risente è il Piemonte, spesso coinvolto nella 
guerra!, ma le ripercussioni sono continue e fortissime: i territori 
soggetti alla Spagna devono sempre fornire contingenti di uomini e di 
«vr!> < n 0: ne ? h Stat 1 1 indipendenti il dilemma se appoggiarsi all’ima o 
all altra potenza domina la politica e la diplomazia 

Il trattato dei Pirenei (1659) segna la fine della Spagna come grande 
potenza europea; Luigi XIV a moltissimo aspira e parecchio consegue. 

Venezia è soprattutto impegnata nelle guerre del Levante; perde 
ma conquista il Peloponneso. La sua resistenza all’espansione 
turca verso Occidente non è meno importante delle lotte che si 
sostengono allo stesso scopo sul continente (vano assedio dei Turchi a 
Vienna, 1683; liberazione di Buda, 1686 ). 

La divisione d’Italia in staterelli ostacola, ma non impedisce, una 


' Croce, Storia dell'età barocca, Bari 1929 , p. 2U. 


390 


Storio della lingua italiana 


l„ r£ m circolazione di uomini e di libri. Il sentimento di appartenere a 
SSSL è diffuso, ma non tantoché, specialmente alla 

Pe 1S«Sa Se ^n^ e éTav"almen.e nelle progne» 
soggette alla Spagna. 

3 . Vita sociale e culturale 

All’età baldanzosa delle scoperte umanistiche, al maturo e sereno 
eauilibrio del Rinascimento segue un’età di ristagno: è nnn civdtà 
cnnmmmatura che vive delle rendite accumulate nelle età precedente 
rSnT^Usòciale dominano le questioni di forma, per cui si rivolge 
una attenzione grandissima alle precedenze, ai titoli, al cerimoniale. Al 
SSo eSo Sanità l’ostentatone. E alla pressione pohhca e 

forte nel primi decenni del 

secolo tó «Sia eccleslastloa è di solito piuttosto severa* 

Il gusto mondano coinvolge fortemente la vita ecclesiastica, bast 
ridato la Sensualità di tante pitture e statue , sago, e le rutto 
pratiche conformi al gusto del secolojpuò anche «parche « senta 
Cantar cu la ciaccona il miserere» (Rosa, batire , i, v. zv*). 

TSstenLa di numerosi stati e di altrettante capitali fa progredire il 

conguaglio ^ambitodeOe ^^^^^01000010 è 

scbìaSatadàl peso della laminazione spagnola. Venezia e <ueno™ 
mantengono la loro indipendenza con fermezza iquestione de te 
a Venezia) anche se non sempre con fortuna (resistenza 
Genova a Luigi XIV). Firenze non ha più una posizione di prunat 


^^S’nffptoSra. * ag» 

seguenti: «Chiunque avrà Sorte Fatale Destinare e si fatti vocaboli, 

intenderà per Fato, Fortuna. Destoo, Sorte, Fat^uesumu ^ Paradiso. 

le seconde cagioni ministre della somm Ad ^ ^0 che luogo delizioso. 

Dea. Idolo, Divino, Beato, Santo Sacro e Morare.noii cosa onesta , cosa 

donna bella, oggetto amato, R?. 3»’narte Venezia 1625); «Pregoti poi 

glorio» o cra 1 «SSTS 5£”St*E: FO^Si S Deità, Afrori, 

ijasr™. i22&re%ggg~ aj-ssKSjssssss 

praìinr» rISS» Mg»* «eòa su o Ploo co^ ch e Jo .^ py^dol g£S 
Romolo Paradiso sostituiva con tre stelle Fiorentino per 

'SS rS • *£Sgr* "* 

l’outor della Giunta anziché nominare 1 eretico Casteivetro. 


Il Seicento 


391 


letterario né artistico, ma la sua tradizione di pacata compostezza 
costituisce ima remora all’ondata barocca che muove da Napoli e da 
Roma-, Galileo e i suoi discepoli ne fanno un importantissimo centro 
scientifico. 

Roma, centro politico e diplomàtico del mondo cattolico, e centro 
della nuova attività delle mis sioni (istituzione della Congregazione De 
propaganda fide, 1622) è anche centro di notizie, «ricovero di tutti gli 
avisi del mondo»'*, e centro linguistico di grande importanza, in quanto 
i cortigiani si spogliano delle loro 'peculiarità linguistiche locali acco- 
standosi ai Toscani, e lo stesso fanno a Roma i Toscani medesimi 5 . 

Le arti figurative (Bernini, Borromini, Caravaggio) hanno caratteri 
facilmente paragonabili con quelli della letteratura, fatta sempre 
ragione della diversa «materia» e della diversa tecnica: tant’è vero che 
dalle belle arti si è modernamente trasportato alla letteratura l’epiteto 
di barocco. 

Il predominio che nel gusto barocco i suoni hanno preso sui concetti 
fa sorgere un nuovo tipo di spettacolo, il dramma musicale: nei libretti 
di O. Rinuccini (Dafne , 1594; Euridice, 1600; Arianna, 1608), e negli 
innumerevoli che seguono, la parola è al servizio della musica. L’opera 
in musica prende radici così salde che si fondano teatri appositi, in cui 
una spettacolosa scenografia contribuisce al diletto del pubblico. 

L’osservazione e il raziocinio si vanno applicando non più soltanto 
a catalogare i fatti, ma a chiarire l’andamento della Natura. L’esigen- 
za, di cui è antesignano il Galilei, di arrivare a formulare leggi 
obiettivamente constatabili, porterà a un nuovo abito scientifico 
radicalmente diverso da quello dei peripatetici, filosofi in libris. 
Prospereranno scienze come l’ottica e la meccanica, feconde di risultati 
teorici e pratici, e sara nn o invece definitivamente screditate pseudo- 
scienze come Fastrologia e l’alchimia. Il nuovo spirito d’osservazione 
porterà a nuovo rigoglio anche le scienze biologiche. 

La vecchia erudizione e le nuove scienze s’incontrano e talora si 
scontrano nelle Accademie, che si moltiplicano in questo secolo come 
non mal Sono, per lo più, salotti che si allargano ad accogliere le 
persone «letterate» delle città, le quali vi dissertano secondo regola- 
menti più o meno rigorosi. 

Hanno segnato tracce durature l’Accademia della Crusca, della cui 
opera diremo più oltre, quella dei Lincei, antesignana della ricerca 
scientifica, quella del Cimento, utilmente operosa nella sua breve vita. 

Per tutta l’Italia si diramarono subito dopo la fondazione dell’Arca- 
dia (16901 le sue «colonie»: più che i vantaggi e i danni portati dal gusto 
arcadico, c’interessa questa larga diffusione livellatrice. 

Gli eruditi non solo vengono accumulando nei loro repertori vaste 


4 M. Bisaccioni L’Albergo, Venezia 1637 (cit. da Croce, Storia dell’età barocca, 
p. 99). 

s L’osservazione è di A. Politi, in fine all’introduzione (datata 1613) al 
Dittionario toscano, Roma 1614. 



392 


Storia della lingua italiana 


raccolte di notizie sulle età passate, ma accumulano libri; alcuni dei 
più ricchi depositi librari italiani (l’Angelica, la Casanatense, la Maglia- 
bechiana, ecc.) risalgono a questo secolo. 

Oltre alla sempre fitta corrispondenza politica e diplomatica, 
s’intrecciano ora carteggi fra dotti di tutta la «repubblica letteraria», i 
quali si scambiano le ultime notizie in fatto di libri, di scoperte, ecc. 

È questo anche il secolo in cui gli «avvisi», che prima correvano 
manoscritti, si cominciano a stampare periodicamente, con notizie di 
avvenimenti politici e di fatti di cronaca. Cominciano anche rassegne 
erudite come il Giornale dei Letterati (Roma 1668 segg.) o la Galleria di 
Minerva (Venezia 1695 segg.). 

4. Latino e italiano 

Il latino ha ancora una posizione di privilegio in molti campi. 
L’insegnamento universitario è impartito esclusivamente in latino, e 
solo le lezioni private 8 e certi compendi paragonabili alle nostre 
dispense sono in italiano. Quanto all’insegnamento meno elevato, 
ricordiamo che ancora la Ratio studiorum della Compagnia di Gesù nel 
1661 non considera affatto la lingua materna. 

Le trattazioni filosofiche e scientifiche sono nella loro assoluta 
maggioranza in latino. Nel 73° Ragguaglio della I centuria del Boccali- 
ni, i «virtuosi d’Italia» chiedono ad Apollo di «abilitare la bellissima 
lingua italiana a trattare cose di filosofia»; ma Apollo rifiuta, consen- 
zienti le scienze, che «in modo alcuno non volevano ridursi alla 
vergogna di esser trattate con le insipide circonlocuzioni italiane, ma 
che volevano esser disputate co’ loro ordinari termini latini». Il Fioretti 
è biasimato da «persone di gran letteratura» di aver scritto in toscano 
anziché in latino i suoi Proginnasmi ; e se ne difende Q, prog. 14). 

Di capitale importanza a questo riguardo è la presa di posizione del 
Galilei. Ancora nel 1610, egli aveva pubblicato in latino il Sidereus 
nuncius per rivendicare i propri diritti di priorità davanti a tutti i dotti; 
dopo essersi trasferito a Firenze, comincia a scrivere di preferenza in 
italiano: del 1611 è la lettera a mons. Dini sui pianeti medicei, del 1612 il 
Discorso intorno alle cose che stanno sull’acqua e le tre lettere al Welser 
sulle macchie solari; e in italiano saranno poi tutte le sue opere 
maggiori. È suo dichiarato disegno 7 allontanarsi dalla lingua della 
scuola, chiusa e senza contatti con la vita, e parlare a uomini vivi e 
veri, uomini d’arme, politici e tecnici. E questo pur rendendosi conto del 
pericolo di affievolire i contatti con i dotti d’altri paesi-, non gli 


8 Abbiamo notizia che Gustavo Adolfo volle da Galileo «nell’istessa casa di 
lui (con l’interesse di esercitarsi insieme nelle vaghezze della lingua toscana) 

sentire l’esplicazione della sfera, le fortificazioni, la prospettiva» (Opere, ed. 

nazionale, XIX, p. 629). 

7 V. specialmente la lettera a Paolo Gualdo (16 giugno 1612 ) e gli altri passi 
citati nel mio volume Lingua e cultura, pp. 137-144. 


Il Seicento 


393 


n ^s 16 raccusa 81 

traduzioni in latino dei suoi scritti continueranno a chiedere 

ind JSSSSSffiK a,"™ 51alS?^ e oH ter r? su * u 

ss * 

Castelli, il Torricelli il Vivianf^hb SU °Ì dlr 1 ettl discepoli, come il 

pubblic;ziom ? SScei À SiS S not f ole efficacia ’ Mentre * 

di naturali evertente TttaW “ ^ ' SaSgÌ 

lattao ab”am“,Se e s cX n to iSf ^"^ante Produzione in 
Marcello Malpighi e così Dure latino soao le opere di 

anatomici del Bellini (che furono nnhhr' Lorenzo Bellini; i Discorsi 
seguente da A^ComM hanno m ono^/r’* 1 ’ ì 1 noti ’ sol ° nel ««calo 
mostro qui... Guardateci quanti muscoli ^rùiTen^JI^r h^ 011 ? ( * VÌ 

mandati da città del doSmo venetJe da ^ri 0 ^ 11 (16 ,° 6) Vari oratori - 
ma l’oratore del duca di Unntnvo 6 i . n s ^ atl - parlano in volgare, 

Pietro DuSSzol dog? Salmi ? SL laUn ° 1 la «>“& « 

con poesie italiane e poeSe n iathie 1 . 620) SÌ StamPa ™ VOlume onorario - 


' ttera 3 1640, in Opere, ed. naz. XVIII n 939 

“ tradU1Tà ^ latÌno 

sin» • 


394 


Storia della lingua italiana 


Dal pulpito i predicatori parlavano per lo più in volgare, ma ce 
n’erano che preferivano il latino, tant’è vero che, per es., i capitoli della 
Congrega dei Cento di Empoli, a cui partecipava il Buonmattei, 
stabilivano l’obbligo di far la predica in volgare e non in latino 11 . 

Anche alcune recite teatrali si facevano in latino, principalmente a 
scopo di esercitazione scolastica. Ma se, in occasione di uria recita di 
una tragedia del p. Stefonio al Collegio Romano, gli uditori 12 si misero a 
gridare contro i malvagi «Dagli! Dagli!», il Fagiuoli narra di aver 
sentito da fanciullo un San Genesio in latino, e che i più se ne andarono 
senza aver capito nulla. 

5 . Scrìtti letterari e scrìtti pratici 

A chi consideri nell’insieme come si scriveva nel Seicento, sùbito si 
presenta il vistoso fenomeno della letteratura barocca, accompagnato 
dalle resistenze attive e passive che essa suscitò. 

La moda stilistica instaurata dagli scrittori barocchi trovò seguaci e 
ammiratori 13 , ma non durò~molto a lungo. Le sue innovazioni ebbero 
(per intrinseca necessità della poetica della «meraviglia», che esigeva 
continue esplosioni di novità) carattere occasionale: metafore ardite, 
collocazioni vistose per parallelismo o contrapposizione, ecc. Di conse- 
guenza, non appena la moda barocca venne a noia, essa non lasciò 
nell’uso linguistico stabile quasi alcun sedimento. 

Se gli architetti barocchi rimaneggiano senza scrupolo le chiese 
romaniche e gotiche sovrapponendovi i loro svolazzi, l’atteggiamento 
dei letterati loro contemporanei è altrettanto irrispettoso verso la 
tradizione letteraria italiana, che è misconosciuta e in complesso 
disprezzata. Essi sono entusiasti di sé e fermamente convinti che le 
loro opere sono molto migliori di quelle dei secoli precedenti, e che la 
loro lingua è molto più elegante 14 . 


11 Nel 1640 non avendo il predicatore designato voluto riscrivere in volgare 
una predica latina già pronta, oppure scriverne una nuova, il Buonmattei lo dovè 
sostituire (Diario della Congrega, tenuto dal Buonmattei, ms. Magi. VI, 161, c. 210). 

12 Anzi «il popolo di buon senno» dice S. Pallavicino, che narra l’episodio 
(Croce, Nuovi saggi sulla lett. del Seicento, 2 • ed., Bari 1949, p. 150). 

13 II Marino si appellava allVuniversal gusto del mondo, il quale è ormai stufo 
delle cantilene secche» Qett. allo Stigliami e il Minozzi (Impazienze d'amore, 
Firenze, 1633, p. 122, cit. da Croce, Storia dell’età bar., p. 176), asseriva che «le rose 
d'un puro stile, che oggidì si chiama semplice e goffo, non piacciono se non sono 
attorniate dalle frizzanti spine di sottilissime arguzie, d’ingegnosi lambiccamenti 
dell’intelletto...». 

14 H Tassoni, posto il quesito «Se trecento anni sono meglio si scrivesse in 
volgare o nell’età presente» (Pensieri , L IX, quisito 15), confronta il proemio del 
Villani con quello del Guicciardini, e conclude raccomandando di evitare gli 
arcaismi; il Beni fin dal sottotitolo della sua Anticrusca o Paragone dell’italiana 
lingua si propone di «mostrar chiaramente che l’Antica sia incolta e rozza, e la 
Moderna regolata e gentile»; il Pallavicino (Considerazioni sopra l’arte dello stile, 
Roma 1646, p. 353) ritiene i moderni superiori ai trecentisti; il Tesauro, nel 


Il Seicento 


395 


differei?z°a a - distin S uere uno «stile nobile», ma a 

«"* corpT^ 

9? 1 carattere enciclopedico che prende in molti lu ovili 
J - lenChÌ * C ° f Se ’ tutt ’ al più Selliti con qualche epiteto 

lh£i 5 6Vlta termini m osofici o scientifici 13 . 
v> sono b 11 , 01 ? he adoperano senza scrupolo ter mini come atomo 

SS'totocSf w‘ Per ' , - te ’, eCa '’ : ” Lubr “°- to ™ sonetto taS 
dolla tesaitura latlmMm e locuzioni perifrastiche con termini tecnici 

Trasforma il cibo in stame; e torce e spreme 
da le viscere sue globo lucente- 
fatto subbio del sen, spola del dente 
ordisce in trame le salive estreme 18 . 

concettì°^?vmf e Ìfl?^ 0P b° deUe 1 ? magini ’ la ricerc a artificiosa di 
f rgutl . «^assembra una coda di pavone spiegata in faccia al 
Sole: tanto vana ne’ colori, quanto incostante» 13 ; quei «senri soM osf» 
SOTO «rnù tobm a pizzicare il cervello che a muovere il cuore »- e vh 
if bamJSf 1 * concettls fi non Potevano non rendersene conto 21 ’ 

1 atteggiamento sobrio e razionale - quello stesso chi fe"otì!o siSSppo 


ss sftsssìss*x p ™‘ , ’^ coio i 

hamccu pp aSe asserzioni analoghe cita il Croce, Storio All’età 

nel l\rst eS ^t^stm CCem 1161 ^ VI> St ‘ 26 ' 38 ’ ° gU elenchi 

lastìvò^aS im S lvlL e n 0 eTla e L^^ V0 ' < ^®L cul * de languendo occhio 
molto grosse» (XV st 77 ^ 1 -ormi , 1 - a passo dritto - Due parallele andar non 

» (S mS,; » <“ Chiromanzw eco. 

18 Ivi, p. 410. 

m Cartoli Deli ’huomo di lettere, Firenze 1645, p. 175 . 

AVI, p, 178. 

I, p. 226 Borzeffi-Nicolini) pr6mere più neUe dottn ne che nelle frasche» (Epistol., 


396 Stona della lingua italiana 

in Firenze del metodo galileiano - era poco sensibile al turgore 
barocco. 

Scarso valore artistico e scarsa importanza linguistica ebbe la lirica 
tradizionalista. Più importa la melica, svoltasi nella voluttuosa atmo- 
sfera musicale dell’ultimo Cinquecento, con il fraseggio più studiato 
d’un Chiabrera o quello più andante delle villanelle. Il Chiabrera tenta 
vari accorgimenti metrici e ritmici: versi brevi fortemente ritmati, versi 
sciolti, sdrucciole non rimanti fra loro, versi tronchi in consonante 22 ; dei 
«ditirambi» diremo fra un momento. 

Un’altra moda secentesca fù quella della poesia eroicomica e 
giocosa: anch’essa fondata sulla poetica della meraviglia (ottenuta in 
questo caso per mezzo di accostamenti incongrui), anch’essa tutta 
artificiosa, ma confessatamente tale. La Secchia rapita del Tassoni, lo 
Scherno degli Dei del Bracciolini, V Eneide travestita del Lalli, l’Asino del 
Dottori, il Malmantile del lippi, la Presa di Saminiato del Neri, il 
Torracchione desolato del Corsini hanno maggiore interesse stilistico e 
linguistico che le decine di poemi epici scritti nel Seicento. L’accentua- 
ta espressività nasce per lo più da raccostamenti inaspettati di antico e 
moderno, di solenne e di triviale, di italiano e dialettale: è aperta quindi 
la strada a una grande varietà lessicale. 

I Toscani (e più degli altri il Lippi) ne approfittano per spargere a 
piene mani nei loro versi parole e locuzioni popolari, che non essendo 
state adoperate dai classici non avevano ancora trovato posto nei 
vocabolari. 

Questa preoccupazione estranea, di portare dei contributi a un 
ideale Museo della lingua toscana, non conferisce certo alla spontanei- 
tà e sincerità di questi poemi. Ma se il loro valore artistico è scarso, la 
documentazione raccolta per questa via indiretta non è senza interes- 
se, e non rimase senza effetto sull’ulteriore svolgimento della lingua, in 
quanto attraverso la lettura di questi testi e dei commenti che se ne 
fecero 23 e attraverso gli esempi che ne furono tratti per la Crusca e per 
gli altri vocabolari, ima larga serie di parole e locuzioni toscane 
finirono col penetrare nell’uso generale. 

I legami di questa letteratura ribobolaia con la Crusca sono palesi 
nella persona di Michelangelo Buonarroti il giovane, che lavorò alla l a 
e alla 2 a edizione del Vocabolario e compose, oltre a un poema giocoso, 
l’Aione, due commedie, la Fiera e la Tancia M . La Fiera (1618) rappresen- 
ta, in cinque giornate di cinque atti ciascuna, una moltitudine di 
scenette, spesso vivaci, che l’autore immagina accadute durante una 


33 Talvolta l’influenza delle Odelettes di Ronsard si combina con quella delle 
villanelle: si ricordi quel che s’è già detto nel cap. VII a proposito delle 
giustiniane. 

33 II Malmantile ebbe un ampio commento di Paolo Minucci, amico dell’auto- 
re, e nel secolo seguente altre erudite postille di A. M. Biscioni (Firenze 1731). 

34 Anche la Fiera e la Tancia ebbero un ampio commento a cura di A. M. 
Salvini (Firenze 1726). 


Il Seicento 397 

fiera; viceversa altre scene allegoriche sono freddissime. La Tancia è 
una commedia rusticale: il «rusticale» è la varietà toscana del «dialet- 
tale», ed è noto che la letteratura riflessa in dialetto ha avuto nel 
Seicento uno sviluppo amplissimo (v. qui sotto, § 7). 

La poesia fìdenziana, che anch’essa si presentava ormai come un 
esercizio giocoso piuttosto che come una satira dell’eccessivo latini- 
smo, ebbe numerosi cultori. 

Altra forma capricciosa, cara al Seicento per la sua caricata 
espressività, è il ditirambo. I primi che composero ditirambi in italiano 
furono il Chiabrera e il Fioretti IPolifemo briaco, 1627); il più felicemente 
riuscito, o piuttosto il solo che meriti d’essere ricordato dal punto di 
vista artistico, è il Bacco in Toscana del Redi; ma dal punto di vista 
linguistico pure i minori c’interessano perché contribuirono a divulgare 
un nuovo tipo di parole composte lebrifestoso, ecc.) (v. p. 439). 

Anche la satira ebbe una notevole vitalità, e merita d’esser 
ricordata perché i satirici, nei loro frequenti tratti realistici, adoperano 
volentieri parole plebee o dialettali: ciò che del resto è a mm esso per 
tutta la poesia faceta 25 . 

I danni portati alla poesia barocca dalla poetica della meraviglia 
spinta alle estreme conseguenze inficiano più o meno anche ima 
notevole parte della prosa. Nell’oratoria sacra furoreggiano i «concetti 
predicabili» giunti dalla Spagna attraverso Napoli 28 . Si tratta, com’è 
noto, di prediche che da cima a fondo svolgono una metafora principa- 
le attraverso tutte le sue possibili diramazioni. 

Ben altra intrinseca serietà hanno le prediche del Segneri, la cui 
«sveltezza potente» piaceva al Tommaseo. 

Nella prosa descrittiva eccelle Daniello Bartoli, importante oltre 
che per l’interesse stilistico e per il valore d’esempio che ebbe presso i 
neoclassici 01 Giordani lo giudicava «terribile, stupendo, unico, singola- 
re»), per la sua ricchezza terminologica 27 . 

Nei più insigni rappresentanti della prosa scientifica ancora non è 


25 II Menzini codifica questa norma nell’Arte poetica: «Tu che delTumil stil 
contento sei - gl’idiotismi, et i proverbi, e i motti - pur della Plebe in mente aver 
tu dei» Q. Ili, w. 280-282). 

26 «Quei Pensieri de’ Sacri Oratori, che volgarmente chiamar si sogliono 
Concetti Predicabili: con tanto favore; & con tanta ammiration ricevuti dal Sacro 
Teatro, che la Divina parola pare hoggimai scipida, & digiuna, s’ella non è 
confettata con tai dolcezze» (Tesauro, Cannocchiale aristotelico, p. 43 dell’ed. 
Bologna 1675). Più oltre, egli dedica ima buona metà del cap. IX a un «Trattato de' 
concetti predicabili»: egli dice come «alcuni Ingegni Spagnuoli naturaimente 
arguti; e nelle Scolastiche Dottrine perspicacissimi, trovarono or non è gran 
tempo, questa novella maniera d’insegnar dilettando, e dilettare insegnando, per 
mezzo di questi argomenti ingegnosi; detti volgarmente Concetti Predicabili » (ivi, 
p. 333); «debbesi dunque a gli Spagnuoli la gloria di quelle novelle merci; le quali 
per cagion dell’Hispano commercio per terra e per mare, di colà parimente 
sbarcarono a Napoli; onde in Italia, che non ancor le conosceva, fur chiamate 
Concetti Napolitani » (ivi). 

37 Cfr. G. Gamba, in Arch. glott. it„ XLII, 1957, pp. 1-23. 


398 


Storia della lingua italiana 


avvenuto quel divorzio che nei secoli venturi separerà radicalmente le 
scienze dalle lettere-, si pensi al Galilei, che pur facendo qua e là 
qualche concessione al gusto del tempo, conduce dimostrazioni scienti- 
fiche in cui il «discorso» è chiaro e sobrio senza esser arido e 
impersonale. Il proposito di Galileo di tenere un tono accessibile aUe 
persone colte, anche se non spécialiste, ha per corollario il metodo che 
egli segue quando ha bisogno di ter mini tecnici: anziché ricorrere al 
greco o al latino per trame vocaboli nuovi, preferisce ricorrere a parole 
us uali, stabilmente adibendole a una nozione specifica 28 . La via scelta 
da Galileo è ancor oggi, in complesso, quella preferita dai fisici: e una 
sua influenza in questo campo ci sembra certa. Altri scienziati in altri 
campi preferirono la strada opposta: si pensi, per avere dei punti di 
confronto, alla proporzione enorme che gli elementi greci e latini 
hanno in terminologie come quella medica. 

Quelli che s’ispirarono a Galileo come maestro di metodo ne 
risentono anche l’efficacia stilistica: la «chiarezza», l’«evidenza»-a cui 
aspira il Redi sono aspirazioni galileiane prima che cartesiane. 

Al desiderio di chiarezza il Magalotti unisce un vivo gusto per il 
sapore delle parole; la severità contro i forestierismi che vediamo nei 
suoi scritti giovanili è vinta più tardi da un misurato cosmopolitismo. 

Se, in tutte le edizioni secentesche del Vocabolario, la Crusca fu 
sempre molto aliena dall’accogliere i termini scientifici e tecnici, 
promosse tuttavia (con quei modesti effetti che un intervento estrinse- 
co può produrre) ima letteratura scientifica di tono tradizionale: 
attesta Orazio Rucellai in una lettera del 1665 2 *: «Ila Cruscai perché in 
nostra lingua non ci abbiamo scrittori di materie scientifiche, ha dato 
la cura al Sig. Carlo Dati, al Sig. March. Vincenzio Capponi, al Sig. 
Lorenzo Magalotti, e a me, che c’induchiamo di provarci» 20 . 

Gli scritti legali in volgare, come si è accennato, ormai non 
mancano, e spesseggiano di termini tecnici trasportati dal latino 

curiale. „ . ,.. 

I termini dottrinali abbondano anche nelle compilazioni erudite 
(come i Proginnasmi del Fioretti o le Stuore del Menochio), in cui si 
ostentano larghe cognizioni antiquarie. . _ . 

Sciatta e pur pretenziosa è, salvo rare eccezioni, la prosa dei 
romanzi, scritti «con locuzione monca e stoipiata», come lamentava lo 

Stigliarli 31 . , „ 

Negli scrittori storici e politici la necessaria aderenza ai fatti e alle 


as v. gli esempi che ne ho dati nelle pp. 145-152 del mio saggio su «Galileo e la 
lingua italiana», in Lingua e cultura. 

» Saggio di lettere di O. Rucellai, Firenze 1826, p. 5. . , „ . . 

» e a Panciatichi derideva lo sfoggio di terminologia scientifica fatto dal 
Rucellai: «Vuoi con dotta ambizione esser tenuto per un altro Bartolim (-..del 
not omis ta favello), pasteggiando a tutt’andare co' gli esofagi, mesenteri e perito- 
nei...» («Contràccicalata», in Scritti vari, Firenze 1856, p. 97). 

31 Lettera del 4 marzo 1636, in Marino, Epistolario, II, p. 345. 


Il Seicento 


399 


istituzioni molteplici fa sì che abbondino di vocaboli finora estranei 
alla lingua letteraria. 

Ciò si nota tanto più nelle scritture di argomento pratico, ammini- 
strative e simili, stese dai segretari. Sappiamo quanto il Salviati 
disprezzasse quel modo di scrivere; invece il Politi, nella prefazione 
alla sua traduzione di Tacito, scritta sotto il nome di Orazio Giannetti 
(1603), trova che i loro contributi al lessico sono stati utili, «dovendosi 
dare un equilibrato incremento ai vocaboli, a cui molto impulso hanno 
pur dato i segretari de’ nobili e de’ prelati». Coniatori di neologismi 
amministrativi, i segretari si dilettavano anche d’usare parole «illustri» 
e qualche volta arcaismi 

Quanto più gli scritti pratici scendono di livello per tenersi a 
contatto col popolino, dobbiamo aspettarci di trovarvi tracce di 
vernacolo. Riportiamo, fra gli innumerevoli esempi che si potrebbero 
citare, due frammenti di scritti burocratici pieni di termini dialettali. 
Ecco un passo di una relazione scritta a Napoli nei primi anni del 
secolo: «... tutte le taverne che faranno cocina e teneranno tavola de 
comodità da mangniare, pagaranno un tanto pemiascheduna taverna, 
accausa che per li soverchi forestieri... faranno soverchio guadangnio-, 
tutti li potecarì de l’arte lorda, come sono quelli che vendono lardo, 
coscio, presotta, salcicioni, ovvero altra robba salata che si conviene a 
lo loro mistiero, pagaranno un tanto per ciascheduna poteca...» 32 . Un 
bando pubblicato dal capitano di Palazzolo (Siracusa) nel 1613 prescri- 
ve: «A lettere di S. E. date in Palermo a 31 gennaio p. p. tutti i maestri 
corvisierì di questa terra non presumano vendere l’opera di co jro a più 
preczo, v. d. scalpi di cordovano alla francesa a dui soli, a tari 5.10, li 
calzerotti di agnilotto a tari 5. IO...» 33 . 

Anche certe trattazioni di arti strettamente connesse con nomi e 
usanze locali abbondano di vocaboli dialettali: per es. il traduttore 
veneto di un trattato sull’Arte di tagliar gli alberi di Monsù della 
Quintinyè (cioè Jean de la Quintinie) 34 , distinguendo le varie specie di 
innesti, ci dice che « Ylncalmo a Subiotto serve per i Maroni, Castagne e 
Figheri », ecc. 

6. Artifici del concettismo 

Tutti gli scrittori, anzi tutti gli uomini si sono sempre serviti del 
parlar figurato; ma negli scrittori concettisti le figure non rampollano 
spontanee: essi le vanno a cercare, le ostentano, le accumulano, le 
prolungano. 

Il principale teorizzatore del parlare ingegnoso, il Tesauro, dà 
questa definizione della metafora: «parola pellegrina, velocemente 


32 Spampanato, Sulla soglia del Secento, cit., p. 312. 

33 Boll Centro St. Fil. Sic., II, 1954, p. 405. 

34 Nella Galleria di Minerva, II, 1696, p. 345 


400 


Stona della lingua italiana 


Il Seicento 


401 


significante un obietto per mezzo di un altro» 35 , e poi la divide in otto 
specie (metafora di proporzione, di attribuzione, di equivoco, d’ipotipo- 
si, d’iperbole, di laconismo, di opposizione, di decezione) con dovizia, 
d’esempi latini e italiani e con applicazioni pratiche. «Se tu chiami 
l’Amore un fuoco : volendolo tu esagerare, puoi tu per semplice hiperbo- 
le chiamarlo una. Fornace portatile, una Face di Megera, e non d’ Amore, 
un Fulmine di Cupidine..., una Bomba animata, un Mongibello del petto, 
una Zona torrida... Et così puoi andar discorrendo tutto l’Indice delle 
Sostanze Naturali, ò Artefatte, Vere o Fabulose; trahendone altresì gli 
Epitetti, i Verbi, gli Avverbi, i Superlativi...». Per fabbricar poi «Proposi- 
tione Hiperboliche», si può ricorrere all’indice delle categorie, e 
attingere alla quantità (per es. Il Vesuvio è una piccola favilla di quella 
fiamma), alle relazioni di somiglianza e contrarietà (A paragon di quel 
fuoco, ogni altro fuoco è neve), ecc. 

Le metafore già petrarchesche ( fiamma per «amore» e per «persona 
amata») e quelle foggiate dai corifei del barocco costituiscono una serie 
di equivalenze quasi stabili: l’« occhio» è una stella o un sole, i «capelli» 
sono dei ruscelli, una pioggia o una selva, le «lacrime» sono perle, 
l’«acqua» è un cristallo, le «bianche membra nude» sono nevi o avori o 
alabastri, ecc. Per la natura stessa della lingua, la costante ripetizione 
tende a far perdere a queste immagini ogni valore espressivo (come per 
es quando il Marino dice di un guercio che era «del destro sole orbo 
rimaso»: Adone, XIV, st. 123), e ciò spinge gli scrittori barocchi a 
cercare metafore sempre nuove. «Sol mundi mensor dictum est peranti- 
quum. Ingeniosius iam videatur - ironizza Famiano Strada nelle sue 
Prolusiones Academicae (Roma 1617, p. 346) - si plusculum audeas, 
eumque appelles coeli tabellarium, pistoremque lucis, umbrarum cami- 
ficem, arvorum coelestium aratorem» 39 . E Salvator Rosa può lamentarsi 
(Sai., II) che «le metafore il sole han consumato». 

Se una metafora sola non sembra abbastanza espressiva, se ne 
accumulano parecchie: «Questa picciola dimostrazione della mia 
devota osservanza... è scintilla della fornace, stilla dell’oceano, scarsis- 
sima ricognizione degl’infiniti obblighi miei» (Marino, Epistolario, I, p. 
170) 

Altro modo per riattizzare la vivacità d’una metafora già un po 
consunta è il prolungarla, deducendone una serie di metafore collate- 
rali. «Se tu chiami la Rosa Reina de' Fiori - insegna il Tesauro 
C Cannocchiale , p. 321) - puoi tu raffrontar tutte le Circostanze della 
Rosa con quelle d’trna Reina: facendo da quella sola Metafora di 
proportione, come da feconda radice coltivata con ingegno, pullular 
mille rampolli di pellegrini Traslati per ciascuna Categoria: 


36 Cannocchiale, p. 203 dell'ed. cit. Cfr. E. Raimondi, nr Lingua nostra, XIX, 
1958, pp. 34-39 e II Verri, agosto 1958, pp. 53-75. 

36 Cit. da Belloni, Giom. stor., XXXI, 1898, p. 380. 


Rosa 

Pianta eminente 
Rossor delle foglie 
Odori 


Reina 
Dignità sublime 
Porpora del manto 
Prof umi 


(Substantia) 

(Quantitas) 

(Qualitas) 


Così si costruivano i «concetti predicabili» già ricordati: per es. 
l’azione della penitenza come lavacro salutifero è minutamente con- 
frontata con le operazioni della lavandaia, descritte ima per una, in 
una nota predica del p. Emmanuele Orchi, «Penitenza differita alla 
morte» 37 . 

Grande importanza ha per i concettisti la scelta degli epiteti, per 
completare, rinforzare, correggere gli effetti ottenuti con i sostantivi 3 ®. 
Uno schema largamente adoperato dai barocchi è il rovesciamento del 
rapporto fra sostantivo e aggettivo, per cui invece di uccello canoro si 
parla di canto volante, o di violino alato, con innumerevoli altre 
variazioni 3 ®. Una «fitta foresta» è per il Marino (Adone , Vili, st. 23) un 
horror frondoso-, le «lepri» in un sonetto del p. Lubrano 40 diventano 
animati tremori, ecc. 

L’antica metafora «cristallo» = «ghiaccio» prende nuovo aspetto in 
un sonetto dell’ Aitale 41 , per cui gli occhiali sono nevi addensate («Non 
per temprar l’altrui crescente sudore - sugli occhi usa costei nevi 
addensate»). 

In un caso come questo la piacevole meraviglia che l’autore vuol 
dare al lettore è simile al piacere di chi risolve un enigma: e del resto la 
moda degli enigmi nasce e fiorisce proprio nel Seicento. Si ricordino le 
perifrasi con cui il Testi (canzone «Con artifìci egregi») parla del papiro 
e della pergamena adoperati come materie scrittorie: 


Dall'egizia palude 

con bel furto involò frondi straniere 
e di fosco color note vi pinse; 
lanosa greggia estinse 
e con penna sagace in varie guise 
segnò le spoglie dell’agnelle ancise... 


Un altro fra gli espedienti che producono meraviglia è il contrasto 
di due espressioni vicine: contrasto che può assumere forme diversissi- 
me. Le tre ottave in cui il Marino dà ima serie di definizioni dell’Amore 
(VI, st. 172-174) sono quasi tutte formate di antitesi: 


37 Prediche quaresimali, Venezia 1850 (cfr. p. Giovanni [Pozzi! da Locamo, 
Saggio sullo stile dell’oratoria sacra del Seicento esemplificata sul P. Emmanuele 
Orchi, Roma 1954). 

38 Un apposito repertorio, quello di G. B. Spada, Giardino degli epiteti, ebbe 
due edizioni (Bologna 1648 e 1665). 

“ J. Rousset, La littérature de l’àge baroque en France, Parigi 1954, pp. 184-189 

40 Getto, Marinisti, p. 413. 

41 Getto, Marinisti, p. 403. 


402 


Storia della lingua italiana 


lupo vorace in abito d'agnello... 
lince privo di lume, Argo bendato, 
vecchio lattante e pargoletto antico... 

Altre volte gli autori puntano sul contrasto fra concreto ed astratto: 
per es. Valeriano Castiglione [Statista regnante, c. XLV) parla di Carlo 
Emanuele I, che «co’ cumuli del formento nelle sue Città, conseguisce... 
cumuli di eterna lode». 

La molla principale della poesia eroicomica e in genere giocosa 
consiste nel contrasto fra il solenne e il triviale, come p. es. nella st. 54 
del I canto della Secchia rapita del Tassoni-, 

gli Anziani appo lui col lucco in dosso 
seguivano a cavallo in lunga schiera 
sopra certe lor mule afflitte e grame, 
che pareano il ritratto della fame. 

I due ultimi versi chiudono burlescamente un’ottava che pareva 
solenne. Inattesa, anche se non sempre contrastante, scoppia spesso la 
chiusa nei sonetti del Marino e dei marinisti: ecco per es. in un sonetto 
caudato (Murtoleide , fischiata 36) il Marino che enumera, con la gioia di 
un pittore di «nature morte», una congerie di vegetali: 

Onor de l’insalata inclito, erbette 
rose, borace, cavoli fronzuti 

e così va in diciotto versi: poi i due ultimi scoccano ima frecciata contro 
l’avversario, e ne vien fuori un quadro secondo la maniera dell’Arcim- 
boldi.- 

tessete voi la laurea trionfale 
onde si faccia il Murtola immortale. 

Contano sulla meraviglia prodotta dalle rime difficili non solo il 
Marino e i suoi seguaci - 

Ma se nato di quercia aspra e villana 
fossi là tra’ Rifei, tra gli Arimaspì, 

— e se bevuto dell’estrema Tana 

Tonde gelate avessi o i ghiacci Caspi, 
se te di sangue e di velen l’Ircana 
tigre e’n grembo nutrito avessi gli aspi... 

[Adone, XII, st. 247) 

- ma anche un antimarinista come Salvator Rosa [Anassimandrì : 
Alessandri: Licandri, sat. II, v. 905 ss.; iride : Busiride-. Osiride, sat. Ili, v. 
41, e passim). 

Dove più i secentisti sfoggiano, è nelle paronomasie o bisticci: 
parole uguali o parzialmente s imili collocate di proposito in posizioni 
vicine-. 


Il Seicento 


403 


I pria sì grati e poi sì gravi affanni 

„ , t „ , (Marino, Adone. I, st. 4) 

De la bella rubella in voce amara 

flV, st. 34) 

Fa de le proprie infamie oscena scena 
_ (VII, st. 184) 

O mia dorata, et adorata Dea 

. (XV, st. 99) 

Corsi a le labra, e, quant 'ardente ardito 
con grata allor non grave 
violenza soave 

( Poesie varie, ed. Croce, 47) 

e così via. Talvolta le due parole sono della medesima famiglia e 
abbiamo la «figura etimologica»: li cani di Atteonel «al lor re sconosciu- 
ti m ostrar sconoscenti » [La Sampogna, «Atteone», w. 199-200) 

à 'fnf 1 H?t parola ^ origine latina nel suo significato etimologico 
è un altro artificio non raro: 

Di smeraldi cader vezzo serpente 
si lascia al sen con negligenza accorta 

(Adone , Vili, st. 33) 

Qonda lucente! 

che ’n sì ricco canal mentre s’aggira 
le sue delizie ambiziosa ammira 

(Adone, Vili, st. 51). 

A^«™ flgUr ® n °? rar ^ anche nei secoli precedenti, ma che ora si 
singolare frequenza, è l’antonomasia: «gli Homeri moder- 
rLhur ^ a y ranno 1© tenebre dell’antichità a mendicar gli AchiUi, 
(AcfoUm 1 , lettera a Luigi XIII, 1629), «l ’ Achille degli argomenti» è «il più 

ffi^cllìni le »^w® ttere V' J ann ° Ar 8hi gl’intelletti ciechi» 

j^uagù cent. I, rag. 89), «Chi fa dell’opre sue virtù 

1^*’ A r hl la hbertà ha P er Arturo» (Salv. Rosa, Sat., I, v. 501- V, v 
fa m an °, a ,\ dX ì B felici amanti - c °n torte braccia i Briarei 
del Sfi? 7 & h alber \ deUa . Cresta: Adone, VII, st. 107), «tu del ciel, non 
noL^f (SÌ ^Galileo.- Adone, X, st. 45), «il Zoilo della 
poesia» (cioè lo Stigliarti: Hemco; L Occhiale appannato, p. 51), ecc 
Altre antonomasie sono tratte da nomi di luogo: «Un Caucaso di nevi 
w 1 * cbl ° me> kon. di G. Battista, in Croce, Lirici marinisti, p. 432), «il 

S r è ^JT~;' u 61 n ? to so ? etto m Giuseppe Artale sulla Maddale- 
na i« ijradir Cristo ben dee...»). 

smoderatezza barocca si vede nelle enumerazioni: «Son que’ 
Zerbinotti , quegh Adoni, que’ Ganimedi, che han per nobil vanto...» 


“ Migliorini, Dal nome proprio, p. 139 . 

C ° me ai sa ’ vle ? e da 1111 nome Proprio, Io Zerbino dell’Ariosto 
abgUormi’ Dal nome proprio, p. 183), ma ormai nel Seicento la parola è divenuta 


404 


Storia della lingua italiana 


(Brignole Sale, Il Satirico innocente, Genova 1648, p. 263), magari 
combinate con giochi verbali «La Medea, la Medusa e la Megera - che ne 
l’alba al mio dì portò la sera» (Adone, XTV, st. 237). 

I titoli dei libri danno ricchissimi esempi di metafore vistose 44 . Le 
raccolte erudite s’intitolano Giardino, Tesoro, Teatro ", Galleria, Scena 
(D. Calvi, Scena letteraria degli scrittori bergamaschi, Bergamo 1614), 
Cornucopia, Officina, Miniera e via dicendo. Opere più specifiche 
indicano il loro contenuto con metafore più o meno pertinenti: la Pietra 
del paragone politico del Boccalini si propone di saggiare l’oro e 
l’orpello della politica dei principi, l’Astrolabio di stato del Della Torre 
(Genova 1647) vuol «raccoglier le vere dimensioni dei sentimenti di 
Cornelio Tacito»; la Visiera alzata dell’Aprosio (Parma 1689) indica gli 
autori di numerose opere pseudonime; la Chiave della Toscana Pronun- 
zia dell’Ambrogi (Firenze 1674; la l a ed. s’intitolava Lucidoro ; cfr. p. 459) 
serve «al chiudere ed aprire delle vocali E, ed O» e così via. L’iperbole 
tien poco conto della modestia: si pensi all'Oracolo della lingua d’Italia 
del Franzoni (Bologna 1645). 

Spesso si ha irradiazione sinonimica, cioè una metafora dà origine 
ad altre analoghe: la Bilancia va con la Stadera e con la Libra (e anche 
il galileiano Saggiatore volutamente si rifà al titolo della Libra del p. 
Sarsi: «E tanto è più esquisita una bilancia da saggiatori, ch’una 
stadera filosofica!»). 

Nel titolo stesso, oppure nelle divisioni in capitoli, si ha qualche 
volta una continuazione della metafora iniziale: G. B. Racani scrisse 
una Navicella grammaticale, nella quale chiunque s’imbarcherà con 
corso felice, e breve, arriverà al bramato Porto di quest’ Arte (Venezia- 
Macerata 1686), la Bottega dei Ghiribizzi di C. Giudici (Milano 1625) si 
divide in «scatole», le Ghirlande vaghissime di canzonette musicali di G. 
Lirinda (Pavia 1659) si dividono in «intrecci», la Biblioteca volante di G. 
Cinelli (1677 segg.) consta di più «scansie», il Cane di Diogene di F. F. 
Frugoni (Venezia 1687 segg.) si fa sentire in sette «latrati» (cioè 
altrettanti volumi), e così via. Anche qui abbondano i nomi mitologici e 
storici presi per alludere all’argomento dell’opera: ricordiamo l 'Euterpe, 
raccolta di canzonette di D. Brugnetti bolognese (1606), la Flora overo 
cultura di fiori di G. M. Ferrari (stampata prima in latino, 1633, e poi in 
traduzione italiana, 1638), il Mercurio, storia dei correnti tempi, pubblica- 
to per molti anni (dal 1635) da V. Siri 48 , e così via 47 . 


44 Già nel tardo Cinquecento se ne avevano esempi, anche se non così 
numerosi e ostentati. T. Garzoni aveva dato, per es., alle sue opere una serie di 
titoli metaforici bizzarri: Il Teatro dei veri e diversi cervelli mondani (Venezia 1583), 
la Piazza universale (Venezia 1585), la Sinagoga degli ignoranti (Venezia 1589), 
YHospidale dei pazzi incurabili (Venezia, 1589), ecc. 

46 Numerosi esempi in Calcaterra, Parnaso in rivolta, Milano 1940, pp. 167-168. 

48 II primo esempio fin qui citato di applicazione del nome di «Mercurio» a 
raccolte di notizie è il Mercurius gallo-belgicus di M. van Iselt, Colonia 1592. 
Mercurio divenne anche nome generico per indicare un «periodico» (Dal nome 


Il Seicento 


405 


Un altro campo in cui ebbe libero gioco l’ingegnosità fu la scelta dei 
nomi accademici: di solito essi «debbono aver riguardo al concetto 
generale significato dall impresa dell’Accademia» 48 : così, per es alla 
Crusca gli accademici si scelsero (dal 1590 in poi) nomi che avessero 
nierunento al grano, alla crusca, al pane, al forno e concetti affini: 
1 Inferigno, il Lievitato, il Macinato, ecc.; gli Apatisti ricorsero invece 
sj^sr&mmi ( Ostilio Contalgeni, nome accademico di Agostino 
Coltellini, ecc.); gli Arcadi a un nome greco o finto greco di pastore, 
accompagnato da un etnico pure greco (Alfesibeo Cario, nome accade- 
mico del Crescimbeni), e così via. 

L’amore di novità dei secentisti li rende piuttosto favorevoli alla 
coniazione .di parole nuove: ma di questo accenneremo più oltre. 
Piuttosto, diremo qui di un modo particolare di usare scherzosamente 
le parole che fu per qualche tempo di moda, la cosiddetta lingua 
lonadattica 4 . Si tratta della sostituzione di molte parole con altre che 
cominciano con le stesse lettere: invece di fagioli si diceva fagiani 
- mvece di gote rosse, gomita rotte, e per dire a uno vi riverisco di tutto 
cuore si poteva dire vi rivesto di tutto cuoio. Su questo «scioperatissimo 
idioma» (come lo chiamava lo stesso Panciatichi) fecero alla Crusca 
una cicalata e una contraccicalata, nel 1662, Orazio RuceUai e Lorenzo 
Panciatichi : esso non fa che esagerare fino alla mostruosità quelle 
mascheratine di parole che troviamo diffuse nell’uso popolare e qua e 
là affiorano nella letteratura fin dai primi secoli 51 . Queste mascheratu- 
re per lo più si facevano con nomi propri di persona e di luogo e così 
era ancora nel primo Seicento 52 . ’ 


propno pp 145-146), ed è tuttora adoperato e adoperabile come titolo 

Altri titoli invece, anche di opere non scientifiche, si ammantan o di parole 
dotte, specialmente greche: ricordiamo la Partenodoxa di C. Cittadini (Siena 1604 ) 
? e < ? el l a . c f nz . one del Petrarca alla Vergine, i Proginnasmi di B. 

^ c Ghirardelli (Bologna 1630), la Cronoprostasi 
felsinea del Montalbam (Bologna 1653), ecc. (cfr. p. 487 ). 

48 B Buonmattei, cit. nella Vita di lui scritta da G. B Casotti 

migliori- esser questa favella della lingua Ionica, e sì 
dell Attica fedelissimo ritratto» (cicalata di O. Rucellai) 

F i rLfZtZ''T^‘ Ì 1723 - pa " e 1,1 1 pp “- 1611 L - va* 

f S1 nel l®;t e n zo ne con Orlanduccio il rimatore duecentesco Pallamides- 

se (cod. Vat., n. 699) ha venire al Batastero per «venire a battaglia»; Dante nella 

Burchiello^* nef Pulci, ecc. ^ 6 ™ VÌa nel Sacchetti, nel 

PunoI^c^tH^ti 1 ^ 61 ^ 8, de o Pupol ° aUa Pupola e la risposta della Pupola al 
Pupolo scritti dal Manno: «Signora, io son sì fattamente nel labirinto d’ Amore 

2 Persio, né per uscirne so ritrovare il Varchi, se la vostra cortesia non 

(Epistol., II, pp. 93-96). Ne danno esempi (quasi sempre con 
J?? 1 ? r ° p . Monosmi, Flos Linguae Italicae , Venezia 1604 , pp. 423-428 e N. 

Svernamento dell’Accademico Aideano sopra la poesia giocosa, Venezia 
1634 p. 80 (anima Petrarca «di pietra», leggere il Mattioli «essere un po’ matto» 

sen^a°far°nulSl ai ecc baSt0nare> ’ S *° re ° Bellos 8uardo «star a guardare gli altri 


406 


Storia della lingua italiana 


Il Seicento 


407 




Anche da questo esempio vediamo che non c’è, si può dire, un solo 
tipo di artificio secentesco che non sia stato adoperato in altre età: solo 
che in questa se ne è fatto uso senza discrezione, É poco o nulla è 
riuscito a sopravvivere. 

7. Uso effettivo e uso riflesso dei dialetti 

I dialetti ancora vigoreggiano: dobbiamo presumere che, aU’infuori 
della Toscana e di Roma, il toscano letterario fosse scarsamente 
divulgato nell’uso parlato quotidiano, e che in ciascun luogo predomi- 
nasse il rispettivo dialetto, fin che si parlava fra concittadini. Qualche 
sforzo lo facevano solo le persone più elevate 53 . Ma scrivendo è di 
regola usare l’italiano, anche se qua e là rimanga qualche traccia 
dialettale. Sappiamo dai suoi biografi che Salvator Rosa, il quale 
scrivendo in versi e in prosa adoperò solo l’itahano (pur rendendosi 
conto di incespicare ogni tanto: «il tosco mio guasto idioma», egli dice), 
anche a Roma e a Firenze parlando continuò a servirsi del proprio 
dialetto, e le sue satire agli amici le commentava con frasi napoletane 
USiente chisso vè, auza gli uoccM. 

I molti scritti dialettali che troviamo nel Seicento vanno considerati 
quasi tutti non come stesi da popolani per il popolo, ma come opera 
conscia di persone colte, che utilizzano il dialetto quale pimento 
espressivo, quale colore letterariamente inconsueto 54 : qualche cosa di 
simile a un ballo mascherato con costumi di popolani 55 . 

Abbiamo numerosi poemi giocosi, spesso con scene di vita locale 
(per es. il Maggio romanesco del Peresio), traduzioni in vari dialetti di 
poemi classici e moderni (fra cui parecchie versioni intere o parziali 
della Gerusalemme liberata), novelle e dialoghi in prosa (meritamente 
famoso è il Cunto de li cunti del napoletano Basile) 56 , commedie con 
personaggi dialettali 57 . 


53 II Testi scriveva nel 1641 a Francesco I d’Este: «Loderei bensì, che colla 
lettura de’ più scelti autori toscani o coll’assidua conversazione di persone o 
fiorentine o senesi o lucchesi, il signor Principe s’impossessasse esattamente 
della nostra lingua o volgare o italiana o toscana, che vogliano chiamarla, non 
tanto per lo scrivere, quanto per quella politezza del parlare ordinario, che sta 
così bene nella bocca de’ personaggi grandi». 

54 Abbiamo qualche sacra rappresentazione con scene in italiano di colorito 
regionale e scene in dialetto, opera di persona colta o semicolta per il popolo: 
risale al Seicento la composizione del Gelindo piemontese, sacra rappresentazio- 
ne pastorale (v. il testo datone da R. Renier, Torino 1896), e così pure il poemetto in 
versi siciliani con molti elementi semidotti, intitolato Historia siciliana supra lu 
riccu Epuloni cu Lazzaro, di Vito Di Renda, Messina 1668. 

55 Su questa letteratura, v., oltre all'articolo fondamentale di B. Croce, «La 
letteratura dialettale riflessa», in Critica, XXTV, 1926 (rist. in Uomini e cose della 
vecchia Italia, Bari 1927, I, pp. 222-234), la bibliografia cit. a p. 308. 

68 Oltre a ciò che ne ha detto il Croce, v. L. Hàge, «Lo cunto de li Cunti » di G. 
Basile: eine Stilstudie, tesi, Tubinga 1933. 

57 Fu anche esumato qualche testo dialettale più antico: la Vita di Cola venne 
pubblicata la prima volta a Bracciano nel 1624. 


Non di rado nei poemi giocosi in italiano appaiono passi in dialetto 
messi in bocca a singoli personaggi. 

Testi di questa letteratura dialettale riflessa si hanno in quasi tutte 
le grandi città, centri di vita intellettuale. In Toscana invece essa 
Pre. nde aspetto leggermente diverso: il linguaggio che il poeta 
stilizza è la parlata «rusticale». Anche qui non mancavano i precursori, 
dalla Nencia in poi: ma ora i testi si moltiplicano Qa Tancia del 
Buonarroti, il Cecco da Varlungo del Baldovini, ecc.). 

Mentre i componimenti rusticali accentuano la caricatura del 
villano attribuendogli una gran quantità di parole storpiate, gli scritti 
dialettali non di rado attenuano il colorito dialettale accostandosi ora 
piu ora meno all’italiano usuale. Esempio tipico è il Maggio romanesco 
del Peresio, che nell’edizione a stampa (Ferrara 1688) è sensibilmente 
meno dialettale che in una precedente redazione 58 , Il Jacaccio overo il 
Palio conquistato : 1 autore ha temuto (o l’editore gli ha messo la paura) 
di sembrare troppo plebeo. 

In qualche caso l’uso conscio del dialetto, oltre che dalla ricerca di 
color locale, nasce dall attaccamento alla patria regionale: come 
quando il Boschim nella sua Carta del navegar pittoresco (Venezia 1660) 
dichiara: «Mi che son venezian in Venezia, e che parlo de pitori 
veneziani, ho da andarme a stravestir?». Una captatio benevolentiae 
rondata sul valore patriottico del dialetto voleva essere quella di Carlo 
Emanuele I, quando, dopo la morte di Enrico IV, scriveva in veneziano 
ai Veneziani per sollecitarne l’alleanza: 

Havemo el sangue zentil e no villan, 
credemo in Dio, et si semo cristiani 
ma sopra tutto boni Italiani... 

Semo insieme ligai et si ben stretti 
come conviene a nostra libertae... 

Amor di campanile e antitoscanesimo convergono nelle lodi che 
Milanesi 59 , Bolognesi, Napoletani, Siciliani fanno dei loro dialetti come 
piu antichi e importanti del toscano 80 . 


8. Il vocabolario della -Crusca 

Tra le varie esercitazioni letterarie e filologiche a cui si dedicò 
1 Accademia della Crusca nei primi decenni della sua vita (v. p. 334 ), 


(Roma 1939) — — ’ i*™****^«»m» vu oui meuiusuiiiiu aa r. Ugolini 

” 11 p ròsian de Milan de la pamonzia milanesa (nel Varon Milanes Milano 
1606) vanta il parlar milanese come «el più bel che sia al Mond»: quanto a «la 
lengua Fiorentenna», «l’è nassù da la nosta, ma lor ai l’an lecà insci on pochin» 
GCC. lp. 57). 


00 Trabalza, Storia gramm., p. 344. 


408 Storia della lingua italiana 

fattività lessicografica venne emergendo sempre più. Il 31 maggio 1606 
il vocabolario era quasi pronto, e l’attesa, degli Accademici e di molti 
letterati italiani, era ormai grande. Il titolo, con cui l’Accademia 
pensava di riaffermare la sua posizione nella questione della lingua, fu 
a lungo discusso: nel 1608 si pensò d’intitolare l’opera Vocabolario della 
lingua toscana degli Accademici della Crusca-, nel 1610 si decise d’ag- 
giungere un inciso importante: Vocabolario della lingua toscana cavato 
dagli scrittori e dall’uso della città di Firenze dagli Accademici della 
Crusca ; nel 1611, alla vigilia della pubblicazione, si preferì ima dicitura 
meno compromettente: Vocabolario degli Accademici della Crusca-, e 
con questo titolo il volume uscì il 20 gennaio 1612 presso il tipografo G. 
Alberti a Venezia, dove Bastiano de’ Rossi era andato a vigilare la 
stampa. 

La prefazione e il modo con cui l’opera è condotta permettono di 
vedere la stretta aderenza al criterio del fiorentinismo arcaizzante. 
L’opera mira soprattutto a «conservare la lingua», appoggiandosi 
all’uso scritto, specie a quello del Trecento. Gli accademici professano 
di attenersi al canone preconizzato dal Bembo: «Nel compilare il 
presente Vocabolario (col parere dellTllustrissimo Cardinal Bembo, de’ 
Deputati alla correzion del Boccaccio dell’anno 1573 e ultimamente del 
Cavalier Lionardo Salviati) abbiamo stimato necessario ricorrere 
all’autorità di quegli scrittori, che vissero, quando questo idioma 
principalmente fiorì», cioè nel Trecento. Per l’elenco degli scrittori gli 
Accademici si riferiscono pure al Bembo, al Borghìni e principalmente 
al Salviati. In prima linea si citano Dante e il Petrarca, il Boccaccio e il 
Villani, e comunque scrittori fiorentini o che hanno voluto scriver 
fiorentino: dei non fiorentini si citano solo le parole «belle, significative, 
e dell’uso nostro». 

Le voci di minore autorità (tratte da cinquecentisti o dalla lingua 
parlata) sono citate in coda alle voci più autorevoli: così calappio o 
galappio sotto accalappiare-, carota e carotaio alla voce cacciare, sotto 
la quale è citata la frase cacciar carote; cifera e gergo sono ricordati alla 
voce enigma, ecc. 

Vengono registrate numerose varianti di parole ( avolterio - adulte- 
rio, notomia - anatomia, cecero - cigno, spelda - spelta, ecc.), ciò che si 
spiega dati i criteri di spoglio, ma dà molto imbarazzo a chi ricorre al 
vocabolario per averne consiglio in caso di dubbio. 

Per ciascun significato si citano, ove sia possibile, esempi di poesia 
e di prosa. I modi di dire e i proverbi sono registrati con una certa 
larghezza, anche se non documentati negli autori. 

Il Vocabolario rappresentava un notevole progresso sulle opere dei 
predecessori, per il maggior numero di vocaboli, la ricchezza di 
suddivisioni, lo sforzo di definire anziché spiegare per mezzo di 
sinonimi. L’impostazione salviatesca gli dava un aspetto complessivo 
piuttosto arcaizzante: ne furono delusi quelli che si aspettavano di 
trovarvi una codificazione del miglior linguaggio contemporaneo; ma 
la notorietà dell’ Accademia e i meriti intrinseci diedero al vocabolario 


Il Seicento 


409 


una posizione di preminenza che gli procurò (come meglio vedremo nel 
paragrafo seguente) adepti fedeli e avversari accaniti. 

1]C ^ oche son P T le modificazioni introdotte nella seconda edizione 

SS\a?^de^R? n T a - fi® 1 1623, presso Iacopo Sar zina (sempre a cura di 
Si i Ros fì vl fuLro ?° agemmti alcuni vocaboli dimenticati sia 
della tradizione letteraria (come eroe), sia dell’uso. 

attbdtf^i^n?^ 1611 * 1 - rAccade ™ a ebbe 1111 Periodo di scarsissima 
’ unaenererica «Presa si ebbe quando entrò fra gli Accademici 
ne . Evenne segretario Benedetto Buonmattei. Il lavoro per il 
Vocabolario fu ripreso nel 1641; rallentatasi un’altra volta Sera ebbe 
nuovo impulso nel 1663, quando fu eletto segretario Carlo Dati. Il 
p ™‘; lpe Leopoldo, protettore dell’Accademia 81 , fece raccogliere per 
questa edizioni voci scientifiche, voci nautiche, voci d’arti e mestieri 82 

m Perché U parere d’escludere i Su di 

professioni e d arti prevalse sempre. 

Nel 1664 il Vocabolario si cominciava a copiare per la stamna- ma 

Se! r la m ° rte del Dati 1 lavori rafcmSrSy e 

nel W77 col nuovo segretario Alessandro Segni. Uno dei più dotti e 

il g R H CCa i demÌCÌ ’o Magalotti ’ es P 0 se ad alcuni colleghi a’ab. 
Strozzi il Redi il can. Bassetti) certi criteri che, se fossero stati 

applicati, avrebbero molto giovato al Vocabolario 83 . Gli stranieri si 
Vofabn/a^H^V^ trovarsi ingannati delle dieci volte le otto dal 

7 nov 1677 Ì Pe if C , hé . mclude ^PPi arcaismi» Qett. al Redi, 

™ Pi 5 perch f 11 Vocabolario non serve solamente per i toscani 
™, a p ? r } romani, ì milanesi, i napoletani, i ffanzesi, gli svizzeri e 
gl rndiam ancora, come sapranno questi che si può dire datemi ' lo 
specchio, e non si dee dire datemi lo speglio, quando troveranno che 

re e se°sf è tutt ’mio?».Egli vorrebbe dunque che per distingue- 

re se si tratta di voci arcaiche, poetiche, plebee, «si aggiungessero 
diversi contrassegni, come si fa alle città nelle carte geografiche che 
afiepiscopah si mette un pastorale sul campanile» efc Va bene 

da? m«r. le i T 0 ! C ° n larghezza - ma P er non meritare il rimprovero di 
dar «mescolata la crusca, o più tosto le reste e la paglia istessa con la 
arma» bisogna che siano date, a Italiani e a stranieri tutte le debite 

nL« t rtenZ f Q - ett al can ’ Bassetti ’ ciU Ma era troppo tardiper applicare 
questi criteri senza sconvolgere il lavoro già fatto, e troppo presto 

P ? be _ a sl Potesse sperare di vincere la forza della tradizione P 
La 3 edizione uscì nel 1691, m tre volumi, pubblicata dalla «Stampe- 


«£ r ££?£?£££ “ seio1 * de8 “ Accad “ tei ru *° 

dell edizione Cambiasi a una lettera del Redi (Lettere famiUatt ' I, Firen^Tp. 
rrw, pp S 63-70 Ia lettera al Can ' Bassetti * m Magalotti, Lettere familiari, II, Firenze 


410 


Storia della lingua italiana 

ria dell’Accademia della Crusca». Erano stati spogliati, in più delle 
edizioni precedenti, una cinquantina di autori antichi e altrettanti 
moderni: s’era finalmente incluso il Tasso e anche il Pallavicino 64 . Si 
andarono cercando, per arricchire il numero dei lemmi, esempi di 
astratti verbali, si aggiunsero come voci a sé molti diminutivi, accresci- 
tivi, superlativi 65 . 

Nessun’altra lingua moderna aveva, alla fine del Seicento, un 
vocabolario che potesse degnamente competere con quello della 
Crusca 


9. Discussioni sulla norma linguistica 

«Si vedon hoggi - scriveva nel 1629 da Messina Scipione Herrico a 
Gaspare Trissino 68 - più opinioni contrarie, & diverse intorno questa 
grammatica, & ortografia, che non sono quelle che nelle scuole si 
sentono: & è più facile apprendere le regole d’ogni altra più forestera 
lingua, che non di questa, nella quale communemente si parla...». Che 
si fossero fatti molti passi verso ima relativa unità della lingua 
letteraria, non c’è dubbio: ma permanevano ancora forti dissensi sui 
criteri fondamentali. 

Naturalmente, le discussioni si facevano solo tra persone colte, nei 
ceti più alti 67 . Le opinioni erano polarizzate principalmente prò o 
contro la Crusca, fattasi antesignana di ima toscanità di colorito 
arcaico. Già prima dell’uscita del Vocabolario, G. B. Pinelli nel 
volgarizzamento dei Salmi di san Bonaventura (1606) dice di rimettersi 
quanto alla lingua al giudizio della Crusca, di cui era stato nominato 
accademico. Quando il Vocabolario fu pubblicato, trovò dei seguaci 
che si ritennero in dovere di seguirlo arcaizzando. «Conosco io di 
quelli, che le vanno cercando He voci antiche!, come suol dirsi, col 
fuscellino, per adornarne, come essi credono (e bene, se con giudizio lo 
fanno), i loro componimenti. E non hà guari, che io una orazione vidi 
d’un valent’huomo, nella quale ve n’erano incastrate al numero di 
quindici, ò venti». Così ci attesta il Pescetti, che nella Risposta 


M Ma ciò parve soverchio ardimento ai compilatori della quarta edizione, che 
ne espunsero gli esempi. 

06 Fu anzi questa ricerca di voci da aggiungere che diede a Francesco Redi, 
compilatore di numerose schede per questa edizione, la tentazione di foggiare 
alcuni esempi fittizi, attribuiti ad autori di cui il Redi stesso asseriva di possedere 
codici. La storia di queste falsificazioni fu tracciata da G. Volpi, in Atti della R. 
Accademia della Crusca , anno 1915-16, pp. 33-136. 

86 Herrico, L’Occhiale appannato, Napoli 1629, p. 84. 

87 «Hoggidì tutta la Nobiltà d’Italia si è assuefatta a parlar, e scriver assai 
Toscanamente. Dico la Nobiltà: che per altro ben sì sa che ogni Città ritiene i suoi 
Idiotismi della gente popolare, e plebea»: così affermava, verso la fine del secolo, 
il marchigiano L. Mattei, Teorica del verso volgare e prattica di retta pronunzia. 
Venezia 1695. 


Il Seicento 411 

&W Anticrusca si era mosso a difendere l’accademia dalle accuse del 
Beni 68 . 

Il Beni, professore a Padova 89 , contrario all’impostazione arcaistica 
del Vocabolario e offeso per gli scarsi riguardi che Bastiano de’ Rossi 
aveva avuti per i letterati veneti 78 , l’anno stesso della pubblicazione 
diede in luce L’ Anticrusca o vero il Paragone dell’italiana lingua : nel 
qual si mostra chiaramente che l’Antica sia inculta e rozza: e la Moderna 
regolata e gentile, Padova 1612. Il Beni sostiene la superiorità dei 
cinquecentisti sui trecentisti; difende strenuamente il Tasso, e invece 
combatte il Boccaccio, biasimandone forme e costrutti (e per esperi- 
mento riscrive in stile cinquecentesco il principio della novella dei tre 
anelli). Contesta la superiorità del fiorentino («o perche fia meglio dir 
mandorlo e mandorla, che mandolo e mandola, o pur, amandolo e 
amandola come costuma quasi il restante d’Italia?», p. 13), e soprattut- 
to si lagna che i Cruscanti, «intanto che lo stile e de’ Cari e de’ Tassi lor 
pute», abbiano esumato «le Tavole rìtonde, i Giacoponi, i Morganti » e 
persino i «Quaderni de’ conti» (p. 81). 

La Crusca rimase incerta se difendersi o no; poi si decise per il no: 
non solo non venne pubblicata la risposta già abbozzata col titolo di 
Antiminosse, ma Bastiano de’ Rossi indusse il Fioretti a sopprimere il 
Frullone dell' Anticrusca che aveva preparato. Intervenne invece perso- 
nalmente Orlando Pescetti, di Marradi, con la sua Risposta all' Anticru- 
sca (Verona 1613), in cui difende il Boccaccio e il nome di «lingua 
fiorentina». Il Beni replicò con un altro volumetto II Cavalcanti overo la 
Difesa dell’ Anticrusca, scritto sotto il nome di Michelangelo Fonte e 
dedicato ad arte al granduca Cosimo (Padova 1614): ribadendo i propri 
argomenti, accusa il Salviati di avere vantato l’assoluta superiorità 
della lingua e degli autori fiorentini; a favore dei moderni, allega i 
Pensieri del Tassoni recentemente pubblicati; contesta poi gli argomen- 
ti che contro di lui aveva adoperati il Pescetti. 

Alessandro Tassoni, che era stato nominato accademico della 
Crusca, e ad essa aveva dedicato nel 1608 la prima parte dei suoi 
Pensieri diversi, quando fu pubblicato il Vocabolario fu deluso: troppe 
le anticaglie, troppe le voci moderne mancanti. Qualche anno dopo il 
1612, mandò all’Accademia un fascicolo intitolato Incognito da Modena 
contro alcune voci del vocabolario della Crusca, e si adirò molto quando, 
all uscita della seconda edizione, vide che non ne avevano tenuto 
conto. D fascicolo mandato alla Crusca è andato perduto, ma il 
Muratori aveva visto e citato una copia della minuta; inoltre tre 

68 Più di mezzo secolo dopo il card. De Luca ( Difesa della lingua italiana, p. 34) 
afferma di non pretendere di professare «la favella Italiana culta» o di «essere 
uno degli assistenti ò magnati dell’Accademia della crusca (frenesia oggidì resa 
tanto comune a molti)». 

" U. Cosmo, in Giom. stor., XLII, 1903, pp. 132-137; A Belloni, «Un professore 
anticruscante all’università di Padova», in Arch. veneto-trid., I, 1922, pp. 245-269 

70 II Cavalcanti, p. 44. 


412 


Storia della lingua italiana 


redazioni di postille fatte dal Tassoni alla seconda edizione ci permet- 
tono di conoscere bene il suo atteggiamento, che traspare anche da 
alcune delle note apposte alla Secchia rapita col nome di Gaspare 

biasima gli idiotismi fiorentini, come abituro, agghiadare, 
contradio, guari, testé, e domanda: «perché moccichino, 
tutt’Italia dice fazzoletto, melone?*. Biasimale voci arcaiche e pedante- 
sche come abbagliare, abbassagione, abitaggio, accalappiare, ecc., nota 
SpMtooggi è un rancidume*, e al titolo del Vocabolario aggiunge 
«delle voci arcaiche». Avverte la mancanza di molte voci come accanto, 
amaranto, anemone, azzardare, circospezione, cumulo, davvero, decoro, 
delitto equestre, lusso, nazionale, orrendo, plurale, regalare, scena, 
vigliacco, e tante altre* Trova a ridire sulle definizioni per ,es_a 
proposito di secchia «vaso cupo di rame, o di ferro, col quale s attigne 

l’acqua»: annota «perché no di legno?». , .. 

Una nota alla Secchia a proposito della voce pitale sottolinea 
l’importanza che il Tassoni dà all’uso colto romano: «egli ebbe opinione 
che la favella della corte romana fosse così buona, come la fiorentina, e 

meglio intesa per tutto». . , „ - 

Un’altra serie di Annotazioni alla prona edizione della Crusca, 
benché sia stata pubblicata dal Fontanini sotto il nome del Tassom 
(Venezia 16981, è invece opera di G. Ottonelli. 

Un altro focolare di opposizione alla norma fiorentina si ebbe ai 
principio del secolo a Siena. Il Tolomei, il Borghesi, il Cittadini, il 
Lombardelli nel Cinquecento si erano sforzati di mantenere Siena allo 
stesso livello di Firenze, ma senza troppo insistere suiie peculiarità 
differenziali: invece Scipione Bargagli Ul Turammo, ovvero del pariaree 
dello scriver sanese, Siena 1602) sottolinea molto le divergenze anche 
quelle che ormai erano obliterate o si stavano obliterando: contrappo- 
ne alle forme e alle voci di Firenze quelle corrispondenti di Siena-. 
povaro, dipegnare, longo, lassare, bacoca, citta, rantaca.re, sfare a gallo, 
ecc • e insiste perché «da’ Cittadini di Siena si metta in carta tuttavia 
(non pur si parli e si ragioni), neUa pura forma e nella schietta 
maniera, ch’a quelli porge, & insegna la pr 0 pna Natura» (p. ll5)_ 
Uscito il Vocabolario della Crusca, il senese Adriano Politi (1542 
1625), che non ne era affatto entusiasta, pensò tuttavia di valersene, 
riassumendone lemmi e definizioni e ponendo acanto Ji t 
spiccatamente fiorentine il loro equivalente senese (cfr pp. 479-4801 U 
volume del Politi fu vistosamente intitolato, non sappiamo se per volere 
dell’autore o dell’editore, Dittionarìo toscano, Compendio del Vocabola- 
rio della Crusca (Roma 1614), ma l’Accademia protestò vivacemente, e 


7 i T casini «Il Tassom e la Crusca», ìnRiv. crit. lett. ital., II, 1885, coll. 93-94; U. 
Renda cT^sonl e U Vocabolario della Crusca» in Miscellanea Tassomana, 
Modena 1008, pp. 277-324. 


71 Seicento 


413 


nelle .successive ristampe (che dal 1615 seguitarono fino al 1691) l’opera 
portò solamente il titolo di Dittionario toscano 72 . 

Parole e firasi in toscano arcaizzante sono fatte oggetto di satire da 
parte di scrittori non toscani 73 . 

Altri s’accontentano di esprimere il loro dissenso esponendo i criteri 
a cui vogliono attenersi: così Pietro della Valle, nel pubblicare le lettere 
intorno ai suoi viaggi: «Non devo lasciar di dirti, curioso lettore, che 
queste lettere io non ebbi mai presunzione di scriverle in un linguaggio 
toscano puro, scelto ed elegante, che potesse servire altrui di esempio o 
fare autorità nella lingua, di quella fatta che ad un oratore o a buoni 
istorici senza dubbio sarebbe stato dicevole; ma che solo mi bastò di 
dettarle secondo il materno mio dialetto romano, senza errore, con 
parlar tuttavia ordinario e corrente, senza neanche affettazione alcuna 
di squisitezza, quale appunto in lettere familiari si vuole usare e si 
ricerca». 

Marc’Antonio Savelli, nella Pratica universale (cit. a p. 434) si scusa 
di non aver «osservato le regole della Crusca, e bel parlare Toscano», 
parendogli «la materia, e fine non comportare siffatta ostentazione». 

Dei grammatici faremo cenno più oltre. In genere, essi accolgono il 
canone toscano e attingono largamente i loro esempi agli scrittori 
trecenteschi: lo fa anche il p. Daniello Bartoli, che, accettando il nome e 
il concetto di «buon secolo», biasima tuttavia l’affettazione d’arcai- 
smo 74 e rivendica il diritto di usar parole e modi di dire al di fuori 
dell’italiano trecentesco Ul Torto e il Diritto del Non si può, Roma 1655, 
cap. lxxx). 

Abbiamo visto che anche qualche accademico di mente aperta, 
come il Magalotti, si rendeva ben conto delle due distinte funzioni che 
adempiva la Crusca: la registrazione delle voci arcaiche, plebee ecc., e 
il sigàio di autenticità che conferiva al «più bel fiore» delle voci 
classiche. 

Persisteva, nell’insegnamento retorico, la divisione tradizionale dei 
vocaboli in «tre schiere». Così ne traccia la distinzione, per es., il 
Pallavicino ( Considerazioni sopra l’arte dello stile, e del dialogo, Roma 
1666, cap. xxi>. «La prima è de’ vocaboli consueti ascoltarsi da noi nelle 
bocche, e nelle scritture di persone risguardevoli... La seconda schiera 
è di quelle parole, che hanno ritenuto egualmente commercio colla 


72 C. Neri, «Il Dittionario toscano di A. Politi», in Lingua nostra, XII, 1951, pp. 
5-10. 

73 Per es. nella Secchia rapita del Tassoni (X, st. 6) nei Ragguagli del Boccalini 
CHI, ragg. 82), nel Viaggio di Parnaso di G. Cesare Cortese (Venezia 1621, V, pp. 21- 
29), nelle Rivolte di Parnaso di S. Herrico (Venezia 1626, II, v), nella commedia II 
Servo finto di G. C. Monti (Viterbo 1634), nelle Satire di Salvator Rosa di, w. 487- 
495), ecc. 

74 Per satireggiarlo, egli inventa una frase: «Chi non fa le piacimenta della 
divina volontà, uopo è che vadia alle luogora dello scuro nabisso del Ninfemo», 
ecc. 



414 Storia della lingua italiana 

nobiltà, e col popolo... La terza finalmente è di quelle voci, le quali si 
sono tanto avvilite nella domestichezza colla sola plebe degli huomini, 
e de’ concetti, che contaminerebbon le penne, e i pensieri più signorili». 

Una delle censure che più spesso lo Stigliarli rivolge al Marino, 
conformemente ai principii retorici, è quella di aver adoperato «voci 
basse»: per es. accattare, asticciuola, guercio, scarmigliato. Il Fioretti 
(Nisieli) nel compilare il suo Rimario (Venezia 1044) si propose di 
raccogliere solamente parole «confacenti allo stile sublime». Il Menzi- 
ni, dopo aver adoperato, nel terzo libro dell’Arte poetica, la voce muso, 
annota: «Parola bassa, e del volgo. Ma qui si serba il carattere delle 
Poesie familiari, e facete», e dopo aver citato Dante e l’ Ariosto delle 
Satire, aggiunge: «Ai poeti satirici le parole tolte di mezzo alla Plebe 
vagliono altrettanto, che le nobili agh Eroici» (Opere, II, p. 208). 

Ma, nella difficoltà di stabilire una volta per sempre le diverse 
«schiere» di parole, i trattatisti (per fortuna!) si rimettevano al «gusto», 
al «giudicio» dei parlanti e degli scriventi. 

Tornando al filo principale del nostro discorso, ricordiamo che 
verso il 1680 Lionardo di Capua, medico e naturalista, antiaristotelico e 
antimarinista, iniziava a Napoli ima scuola filotoscana e arcaizzante, 
che fu chiamata dei «capuisti» ed ebbe fra i suoi seguaci il Vico 75 . 

Si può dire, inso mma, che per tutto il secolo la Crusca sia stata la 
pietra di paragone nelle numerose discussioni sulla norma linguistica. 

Quanto al nome della lingua, benché le designazioni di «fiorentino», 
«toscano», «italiano» appaiano tutte e tre, la seconda è di gran lunga 
predominante, adoperata qualche volta anche da chi non accetta la 
disciplina della Crusca 78 . Primo, che io sappia, Loreto Mattei parla 
della «nostra national favella» 77 . 

10. Grammatici e lessicografi 

Ci basterà accennare alle trattazioni grammaticali più importan- 
ti: chi desideri maggiori particolari potrà ricorrere all’opera del Tra- 
balza 78 . 

fi Trattato della lingua di Giacomo Pergamini di Fossombrone u* 
ed., Venezia 1013) ha una impostazione chiara e abbastanza adatta 
all’insegnamento. Più ricco di interessi generali e di finezza nell’analisi 
dei fenomeni grammaticali è il trattato Della lingua toscana di B. 
Buonmattei (Firenze 1043; edizioni parziali erano state prima pubblica- 


78 F. Nicolini, La giovinezza di G. B. Vico, Beai 1932, passim. 

78 II bizzarro Lepòreo professa di adoperare vocaboli «Etruschi sì ma non già 
Cruschi identici» (Raccolta di ingegnose, vaghe e varie composizioni, Roma 1698, p. 
73). 

77 Teorica del verso volgare, cit., p. 127. 

78 Storia gramm., capitoli IX-XI. Si veda anche jl paragrafo dedicato agh studi 
di lingua nel sec. XVII, nelle Ricerche letterarie di F. Foffano, Iivomo 1897, pp. 288- 
312. 


Il Seicento 415 

te col titolo Delle cagioni della lingua italiana, Venezia 1023; Introduzio- 
ne alla lingua italiana, Venezia 1826). Il Buonmattei non accetta la 
riduzione delle parti del discorso a 7, come aveva fatto il p. Sanchez, 
ma le porta a 12, considerando anche le interiezioni. 

Importanti sono anche le Osservazioni della lingua italiana del p. 
Marcantonio Mambelli detto il Cinonio, che trattano delle Particelle 
(cioè l’articolo, il pronome, l’avverbio, la preposizione, la congiunzione, 
l’interiezione) (Ferrara 1644) e del Verbo (Forlì 1685). Benedetto Menzini 
discusse con finezza i rapporti fra grammatica e stile nel trattato Della 
costruzione irregolare della lingua toscana (Firenze 1679). 

Il Torto e il Diritto del Non si può pubblicato dal p. Daniello Bartoli 
sotto il nome di Ferrante Longobardi (Roma 1655, con 150 osservazioni, 
portate a 270 nell’ed. Roma 1668) si oppone alle censure troppo 
sollecitamente pronunziate in nome dei principii della Crusca: non 
vanno considerati come criterio esclusivo «le decisioni de’ grammatici, 
non l’uso o sia del popolo o de’ più eletti, non le prerogative del tempo», 
ma «un buon gusto proveniente da un buon giudizio». 

Una serie di Avvertimenti grammaticali per chi scrive in lingua 
italiana furono pubblicati dal card. Sforza Pallavicino sotto il nome di 
Francesco Rainaldi (Roma 1661). 

Vanno anche ricordati alcuni trattateli! dedicati a singoli campi 
della grammatica, specialmente a quelli di maggiore interesse pratico: 
l’ortografia, l’interpunzione, la pronunzia 78 . 

Le numerose edizioni che si fecero di parecchi di questi scritti 
mostrano quant’era vivo l’interesse per la lingua e quant’era sentito il 
bisogno di aver delle regole. 

Più volte ristampato, anche dopo la pubblicazione del Vocabolario 
della Crusca, fu il Memoriale della lingua volgare di G. Pergamini 
(Venezia 1601), con discreti spogli d’autori, e notazioni come «nob.», 
«pop.», «di verso», «di prosa». Della Crusca abbiamo già detto, e anche 
del Dittionario toscano del Politi 80 . 

A. Monosini, nei farraginosi Floris Linguae Italicae libri IX, Venezia 
1604, dà una larga raccolta di proverbi e modi di dire. 


70 Lo scritto del p. Bartoli, Dell'ortografia italiana (Roma 1670) è eclettico come 
Il Torto e il Diritto. La Prosodia italiana del p. Placido Spadafora (Palermo 1682, 
più volte ristampata) dà un lessico delle parole di accento dubbio, e regole di 
pronunzia. G. M. Ambrogi nel dialogo Lucidoro (Roma 1634; poi B. Ambrogi, 
Chiave della toscana pronunzia, Firenze 1674) e L. Mattei, Teorica del verso volgare 
e prattica di retta pronunzia, cit., danno regole per la pronunzia delle parole con 
le vocali e ed o. (Insieme con osservazioni ragionevoli, troviamo nel Mattei 
freddure come questa: «E così tetto, chi può indovinare perché vada proferito 
chiuso? forse chi fù il primo a proferirlo, temeva non gli piovesse dentro la casa, 
se il tetto non era ben chiuso»: op. cit., p. 101). 

80 Scarsa diffusione ebbe invece il repertorio «delle men note, e più importan- 
ti voci», opera postuma del p. Pio Rossi, pubblicata sotto il titolo di Osservazioni 
sopra la lingua volgare perché conteneva anche due trattatelli grammaticali 
(Piacenza 1677). 


416 


Storia della lingua italiana 


Il Seicento 


417 


Sono andati perduti i materiali che G. B. Doni aveva raccolti per un 
grande Onomastico, i cui venti libri dovevano comprendere tutti i 
vocaboli delle scienze, delle arti, degli usi domestici”. Ci rimane, 
invece, un importante dizionario speciale, il Vocabolario toscano 
dell’arte del disegno del Baldinucci, Firenze 1681. 

Cominciano anche ad apparire i primi vocabolari etimologici. Carlo 
Dati aveva iniziato, in collaborazione con altri accademici della 
Crusca, un Etimologico toscano, ma Egidio Menagio (Gilles Ménage) 
prevenne i colleghi fiorentini con le sue Origini della lingua italiana 
(Parigi 1669; II* ed., Ginevra 1685) 82 . Vi sono parecchie etimologie 
assurde; ma molte sono giuste: dalla erudizione si sta lentamente 
enucleando la filologia 83 . 

IL Rapporti con altre lingue 

La lingua straniera di gran lunga più nota in Italia nella prima 
metà del secolo era quella dei dominatori, la spagnola, e sappiamo di 
autori italiani che scrissero in spagnolo (per es. Pier Salvetti), di 
compagnie teatrali che recitavano a Napoli in spagnolo, ecc .® 4 H 
francese dapprima era poco noto 86 : vediamo che solo man mano i 
commediografi che mettono in scena il personaggio di Claudio o 
Claudione o Raguetto o Raguetta, che rappresenta il francese , 88 si 
fidano a fargli adoperare parole di quella lingua 87 . 


81 I. B. Doni, Lyra Barberina, Firenze 1763, I, pp. 184-185. 

82 J. Zehnder, Les « Origini della lingua italiana » de Gilles Ménage, Parigi 1939; 
F. Branciforti, «Carlo Dati... e i suoi appunti di Origini », in Siculorum Gymnasium, 
n.s. Ili, pp. 126-143. 

83 Di gran lunga inferiori le Origines linguae Italicae di O. Ferrari, Padova 
1676. 

M In Sardegna la vita culturale si svolgeva quasi esclusivamente in spagnolo: 
sintomatico il fatto che i drammi sacri scritti in campidanese dal cappuccino 
Antonio Maria di Esterzili avessero le didascalie in spagnolo (cfr. R. M. Urciolo, 
nella sua edizione della Comedia de la Passion, Cagliari 1959). 

85 La lettera scherzosa a don Lorenzo Scoto con cui il Marino esprime la 
meraviglia su quel che ha visto arrivando a Parigi (1615), fa vedere che il suo 
interlocutore conosce poco o nulla il francese-. «Infino il parlar è pieno di 
stravaganze. L’oro s’appella argento, n far colazione di dice digiunare. Le città 
son dette ville. I medici, medicini. I vescovi, vecchi. Le puttane, garze. I ruffiani, 
maccheroni, n brodo, un buglione-, come se fussero della schiatta di Goffredo...» 
(Epistolario, ed. Borzelli-Nicolini, I, p. 201). Carlo Umberto di Savoia (1626) 
ricevendo una comunicazione di un ufficiale in francese, rispondeva di non saper 
scrivere in quella lingua (Calcaterra, Il nostro imminente risorgimento, Torino 
1936, p. 486). Il p. Segneri, in una lettera a Cosimo III, diceva di non conoscere il 
francese (Viani, Diz. di pretesi francesismi, I, p. xlv). 

88 Croce, Nuovi saggi sulla lett. it. del Seicento, 2 a ed., pp. 217-224. 

87 V. Verucci, nella commedia Li diversi linguaggi (1609), ricorre quasi soltanto 
alla storpiatura delle parole italiane per mezzo di una e finale; F. Richelli, nella 
Serva astuta (1632) fa dire per es. a Monsù delle Scarpette: «Che diable è possibile, 
che non le posse tener dantre la masone queste pultrone». 




Più tardi il fulgore del Re Sole si riverbera in prestigio culturale e 
conoscenza della lingua. Salvatore Rosa chiude una lettera a un amico 
(1654) con la formula «con queste e con molte altre belle sciose» (ed. De 
Rinaldi, p. 70); il Redi nel Bacco in Toscana fa che Bacco, lodato il 
«Regio Senato» della Crusca, dica al segretario Segni di scriverne gli 
atti «e spediscane courier - A monsieur l’abbé Regnier », e che continui 
dicendo della malvasia: «È buona per mia fé - e molto a gré mi va». I 
segni di una larga divulgazione del francese non mancano: e il Menzini 
nelle Satire se ne lagna. 

Vedremo più oltre (§ 19) un saggio delle serie piuttosto numerose di 
spagnolismi e di francesismi penetrati allora in Italia. 

Quanto alla conoscenza dell’italiano fuori d’Italia, essa è ancora 
notevole. Molti stranieri vengono a studiare nelle università più 
famose della penisola, e v’imparano l’italiano 88 . Per la corrispondenza 
scientifica i dotti stranieri adoperano più spesso il latino, ma talvolta 
anche 1’italiano 89 . 

Nella Francia di Luigi XIII e Luigi XTV vi sono molti che conoscono 
bene l'italiano e apprezzano le commedie recitate dai nostri attori e le 
opere di maestri italiani (si ricordi come il Lulli s’ambienta a Parigi). Il 
Baldinucci nella biografia del Lippi 90 narra che quando Lorenzo 
Panciatichi andò a ossequiare Luigi XIV, questi «lo ricevè con queste 
formali parole: “ Signore Abate, io stavo leggendo il vostro grazioso 
Malmantile" ». Conoscevano egregiamente l’italiano il Ménage, lo Cha- 
pelain", il Régnier 92 ; e così pure alcune gentildonne 93 . 

Fiero avversario della nostra lingua fu invecé il p. Bouhours (autore 
degli Entretiens d' Ariste et d'Eugène, Parigi 1671 e della Manière de bien 
penser sur les ouvrages de l’ esprit, Parigi 1687), il quale trovava l’italiano 
sdolcinato con tutti i suoi diminutivi (cfr. p. 437 n. 163): «si l’Espagnol est 
propre a représenter le caractère des matamores, l’Italien semble fait 
pour exprimer celui des charlatans». 

A. Oudin e il ginevrino N. Duez avevano compilato discreti vocabo- 
lari (Parigi 1639-40; Leida 1641); e i dotti padri di Port-Royal, Lancelot e 


88 V. quello che dicono per Siena il Bargagli (Turammo, p. 68) e il Politi 
( Lettere , p. 397). 

88 M. Welser (di Augusta, già scolaro a Padova) scriveva in italiano non solo a 
Galileo, ma anche ad altri dotti tedeschi residenti in Roma, come il p. Clavio e 
Giovanni Faber. 

90 Notizie de’ professori di disegno, t. XVIII, Firenze 1773, p. 14. 

91 Fu sottoposta alla Crusca la disputa fra i due sull’interpretazione del verso 
del Petrarca «Forse (o che spero) il mio parlar le duole»; e fu decisa (nel 1654) a 
favore del secondò. 

“ Il Régnier, secondo il Panciatichi, parlava «troppo bene» la lingua toscana, 
con complimenti alla boccaccevole e frasi del Petrarca stemperate in prosa 
Getterà al Magalotti, 2 gennaio 1671, p. 266 Guasti). 

83 Lo stesso Panciatichi dice che la duchessa di Vitry parlò con lui «nella 
nostra lingua meglio di quello che scrive in essa il Prior Rucellai» Qett. 24 ottobre 
1670, p. 260). 


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Storia della lingua italiana 


Amauld, redassero una Nouvelle Méthode pour apprendre facilement et 
en peu de temps la langue itaiienne (Parigi 1660). 

Nei paesi di lingua tedesca la conoscenza dell’italiano era relativa- 
mente abbastanza diffusa nel ceto più elevato. Abbiamo già ricordato 
Marco Welser, di cui il Guarini diceva «che le sue lettere gli paiono 
dettate da huomo nato, & allevato in Firenze» 84 . A Vienna, scriveva il 
Magalotti nel 1675, «non c’è chi abbia viso e panni da galantuomo, che 
non parli correntemente e perfettamente l’italiano». L’imperatore 
Ferdinando III lodava Antonio Abati, autore delle Frascherie, «con un 
madrigale acrostico, il cui italiano tien qualche cosa d’imperiale sapor 
tedesco» 95 ; e suo figlio, l’arciduca Leopoldo, fondava un’Accademia 
italiana 89 . 

L’italiano si studiava con manuali di conversazione, grammatiche, 
vocabolari, in latino o in tedesco”. 

In Inghilterra, l’interesse per le cose italiane accesosi nel Rinasci- 
mento è tuttora vivo 98 . Si può ricordare che Shakespeare adoperava i 
manuali e i vocabolari di Giovanni Fiorio, e che Milton compose alcuni 
sonetti in italiano. Un diplomatico inglese, che aveva soggiornato - 
qualche tempo a Zurigo, dopo tornato in Inghilterra tenne (nel 1649 e 
anni seguenti) con il capo della chiesa di Zurigo un carteggio italiano 89 . 

Il vocabolario del Fiorio, pubblicato la prima volta nel 1598, apparve 
di nuovo ampliato dall’autore nel 16U, e rimaneggiato da G. Torriano, 
nel 1659 e nel 1687-88 100 . 


12. I fatti grammaticali e lessicali 

Le accanite discussioni sulla norma grammaticale ci mostrano che 
si è ben lontani da un uso compatto o almeno relativamente uniforme 
della lingua. 

Il Torto e il Diritto del Non si può del p. Bartoli, che appunto si 
sofferma a discutere dei problemi grammaticali più controversi, dà 
un’idea delle oscillazioni nell’uso; anzi dobbiamo ritenere che fossero 
anche più ampie nell’uso effettivo, se teniamo conto di ombreggiature 
dialettali che un grammatico poteva ritenersi dispensato dal registra- 
re, come manifestamente erronee. 


84 Pascetti, Risposta all'Anticrusca, p. 16. 

96 Carducci, Opere, VI, p. 247. 

98 De Gubematis, in Atti Acc. Crusca, 1905-06, pp. 35-37, Santoli, in Problemi e 
orientamenti, IV, p. 233. 

87 V. la serie d’articoli di L. Emery, «Vecchi manuali italo-tedeschi» in Lingua 
nostra, VIII-IX-X. 

98 Informazioni, specialmente sui testi per l’apprendimento della lingua, dà R. 
C. Simonini jr„ Italian Scholarship in Renaissance England, Chapel Hill 1952. 

99 Calgari, in Lingua nostra, XVI, 1955, pp. 69-73. 

100 Simonini, op. cit., pp. 55-68 e 74-80, A. L Messeri, in Lingua nostra, XVII, 
1956, pp. 108-111. 


Il Seicento 


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Anche nel lessico troviamo varianti in numero fissai notevole: e la 
Crusca, anziché spingere a sopprimerle, con i suoi larghi spogli da 
scrittori antichi contribuì piuttosto ad aumentarle. 

, v,?* osc ^ a ancora fra dopo, dopò e doppo, si discute se truppa si 
debba scrivere o no con due p; accanto alla forma toscana crogiuolo v’è 
chi scrive crocciuolo (Marino) o cruciolo (Vannozzi). Prencipe si legge 
frequentemente accanto a principe. C’è chi scrive butirro (Buonarroti), 
chi butiro (Redi), chi biturro (Tassoni). I Senesi preferiscono ancora 
fadiga a fatica, a Roma si scrive spesso abbrugiare, defonto, lograre 
® così Y 18 " n tipografo romano che stava per stampare il trattato 
di Galileo sulle Macchie solari aveva composto intiero-, il Galilei vuole 
che stampi intero (Opere, V, p. 18). 

Talvolta l’una variante è caratterizzata rispetto all’altra con nota- 
zioni ambientali: forma plebea, voce poetica, ecc. Specialmente ampia 
è la sene di forme e di vocaboli qualificati come «poetici»; usciti 
dall uso parlato, hanno esempi nel Petrarca, nel Tasso, ecc., e sono 
perciò tuttora ammissibili nel verso 101 . 

Chi desideri studiare nei particolari questi fenomeni non può 
dispensarsi dal ricorrere direttamente ai manoscritti e ai testi a 
stampa, perché le grammatiche e i vocabolari contemporanei sono 
tutti, più o meno, redatti con intenzioni normative, e quindi presentano 
un tipo di lingua molto meno variegato di quanto fosse in realtà; e gli 
spogli moderni, per la scarsa considerazione in cui è stata tenuta la 
fiorentini^ barocca ’ com P ren dono ben poco di più che gli scrittori 

13. Grafia 

I casi più importanti di oscillazione nella grafia secentesca sono 
quattro: in tre fl uso della h, 1 uso di fi o zi, la s scempia o doppia da ex-) 
vediamo la resistenza fatta alla periferia cedere man mano alla grafia 
della Crusca; nel quarto Qa distinzione tra u vocale e v consonante) il 
suggerimento trissiniaho è accolto da qualcuno qua e là, e trionfa solo 
dopo che si è generalizzato presso gli stampatori d’oltralpe. 

La h etimologica nella prima e nella seconda edizione del Vocabola- 
rio della Crusca figura solamente in ho, hai, ha, huomo e derivati; per 
nuopo, huosa, huovo, huovolo si rimanda alle voci senza h. Nella terza 
edizione persistono solamente ho, hai, ha, hanno, mentre per huomo e 
derivati non c’è che un rinvio a uomo. 

.. I T7 ? ra ““ natici ® gM stampatori toscani seguono per lo più la Crusca, 
e il Fioretti dice d essere stato per ciò «lacerato da molti Aristarchi». Il 
Magalotti vorrebbe andare anche più in là: egli è fautore di ò, ò in 
luogo di ho, ha, che a loro favore non hanno altro motivo che la 


- -J 01 es ;. il Marino ha ancora havièno «avevano» (e M. Zito, La bilancia 
critica, Napoli 1685, pp. 30-33, difende il Tasso che ha usato uscienó). 


420 


Storia della lingua italiana 


Il Seicento 


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4 


consuetudine 102 . Anche il bolognese Lampugnani è «disdevoto dell’H», 
e il romano Pallavicino la conserva solo in tutta la coniugazione di 
bavere e in huomo. Ma la difendono D. Franzoni, Domenico d’ Aquino; 
non ne parla, ma continua a adoperarla il Bartoli. E in complesso, i 
tipografi non toscani la preferiscono ancora 103 . 

L’uso di h nei digrammi greci è quasi scomparso: ma il Marino 
scrive ancora theatro, thesoro, christallo m ; e qualche volta salta fuori 
qualche h inattesa 106 . 

Anche per la z (in grazia, ecc.) l’esempio del Salviati e della Crusca è 
accolto dai Toscani, e solo man mano da altri. Ricordiamo che con il 
problema della sostituzione di ti con zi se ne intreccia un altro, quello 
della scempia o della doppia: i conservatori in genere scrivono ti dove 
in latino c’era ti, ma tti, dove c’era cti o pti ; gli innovatori si dividono in 
due schiere: chi distingue zi da zzi, chi scrive come la Crusca sempre zi. 

Nella polemica fra il Beni e il Pescetti, vediamo che il Beni 
anticruscante scrive ti e tti (gratta , construttione ), il Pescetti sempre zi 
(locuzione, dizionario ). Galileo fa stampare nel 1606 le Operazioni del 
compasso-, ma nel rileggere ima sua lettera al Nozzolini dove l’ama- 
nuense aveva scritto affetìone sovrappone zz-, e negli autografi trovia- 
mo per lo più zz anche dove s’aspetterebbe z (confutazzioni, dimostraz- 
zioni, ecc.). 

Il De Luca accetta la grafia con z, ma distingue la z scempia 
(alterazione) da quella doppia (erezzione, adozzione ): non sappiamo se 
anche nella pronunzia. 

I grammatici toscani e pochi altri stanno per la z: il Buonmattei 
raccomanda la sola z (grazio), escludendo sia gratta che grazzia. Al 
Lampugnani rimproverano la sua zettazione; invece il Franzoni difende 
la grafia con fi, e il Bartoli, pur lasciando libera la scelta (conforme alla 
linea consueta del suo Torto e diritto), parteggia per fi e vi si attiene nei 
suoi scritti ( osservatione , ma scorrettioné). A favore della fi si pronunzia 
anche il Menagio, che, rispondendo nel 1657 alle censure della Crusca 
sulle sue osservazioni all’Aminfa, si difende allegando il Muzio 108 . 

Quanto alla distinzione fra z scempia e z doppia tra vocali per 
distinguere z sonora e z sorda (gaza , rozo di contro a asprezza, bellezza) 
v’è ancora qualcuno che l’osserva (per es. il Marino; vi aveva rinunzia- 
to la Crusca scrivendo, per es., azzimo, gazza, rozzo come asprezza, 
bellezza, polizza, ecc. 107 . Non aveva alcuna probabilità di attecchire la 


102 Lettera a O. Falconieri (1094), in Lettere fornii., cit., I., p. 88. 

103 Non senza qualche abuso: per es. «a mense abho minan de e crude» 
(Graziarli, Conquisto di Granata, c. XXII). 

•« La Partenodoxa del Cittadini (Siena 1004) porta questa grafia nel frontispi- 
zio, ma i titoli correnti hanno Parthenodoxa. 

105 II Mattei, che nella Teorica del verso volgare pur scrive teorica, ortografia, 
ditirambo, scrive poi etherogeneo ed etheroclito. 

1<K > Mescolanze, Venezia 1730, p. 108. 

107 L’Ottonelli nelle Annotazioni (che però nel titolo corrente sono sempre 
chiamate Annotationi) difende la grafia poliza. 


proposta dell’ignoto autore di una Neagrammalogia di ricorrere, come 
aveva già fatto il Trissino, alla p 106 . 

Nelle parole con es- o ess- iniziale da ex-, l’uso ha ancora qualche 
oscillazione al principio del secolo: Galileo scrive nei due modi 
essempio o esempio, ecc.; il Marino di regola essaltare, essangue, 
essercizio, essule, ecc. La Crusca adopera nel Vocabolario soltanto es-, e 
il Bartoli (Ortografia, c. IX, § 5) pur allegando numerosi esempi antichi 
con ess-, si dice fautore della grafia e della pronunzia con es-, lo 
Spadafora nella sua Prosodia 108 rinvia da essala, essarcato, essodo, 
essotico a esala, esarcato, esodo, esotico (non così per essagono). 

Quanto alla distinzione tra la u vocale e la v consonante, essa 
s’impone assai tardi: nella prima metà del secolo la grafia quasi 
costante è v (o V) all’iniziale, u all’interno di parola, sia con valore 
vocalico che consonantico. Poi comincia ad apparire qualche sporadico 
esempio di spartizione: per es. il p. Aprosio in un suo opuscolo (C. 
Galistoni, Il Buratto, Venezia 1642) distingue modernamente u e v. 
L’esempio viene principalmente dall’estero: parecchie edizioni italiane 
degli Elzeviri (Il Nipotismo di Roma del Leti, Amsterdam 1667, Il Pastor 
fido, 1678, Il Goffredo, 1678) distinguono la vocale dalla consonante 110 . 

Mentre l’edizione del Quaresimale del Segneri di Venezia (1685) 
segue il vecchio metodo, il Cristiano istruito di Firenze (1685) segue 
quello nuovo 01 ; nel 1695 il Mattei 02 nota come ormai la distinzione «si 
osservi nelle Stampe più corrette, nel modo anco che rigorosamente 
l’osservano tutte le Stampe Oltramontane» 03 . 

Nella terza edizione della Crusca, le u e le v sono distinte secondo 
l’uso moderno nel testo, ma sono ancora considerate come un’unica 
lettera nei lemmi in maiuscoletto e nell’ordine alfabetico (Avaro, 
Avdace, Avello...) 04 . 

La j serve principalmente come variante della i dopo un’altra i : 
principalmente in fine di parola ( incendi j), ma anche all’interno (propri - 
jssimo, pronuntijno). Guadagna terreno l’uso di considerare la j finale 
come compendio di i + j, purché la i sia atona e il gruppo conti come 
una sola sillaba: nell’Arte poetica del Menzini (ed. 1688) troviamo 
incendi, precipizi, ma «ne’ Pierij campi» (di quattro sillabe). 


106 V. la discussione del Mattei, Teorica del verso volgare, cit., pp. 223-240. 

108 Lo Spadafora ci dà anche la curiosa testimonianza d’una pronunzia discit 
per dixit «di certi vecchi, che talora si fa sentire, non senza riso, e scherno»: è 
certo ima pronunzia siciliana dovuta al valore che anticamente si attribuiva alla 
x in spagnolo. 

110 Ma nel volume galileiano Discorsi e dimostrazioni matematiche, 1638, vi è 
ancora nuoue scienze, centro di grauità. 

111 G. Hartmann, in Rom. Forsch., XX, 1905, p. 213. 

111 Teorica del verso, pp. 230-231. 

1,3 Per la doppia v, troviamo qualche volta la grafia uv (per es. auviene, 
auvilite, ecc., nello stesso libro del Mattei). 

114 Anche il Bacco in Toscana del Redi (Firenze 1085) ha solo V nelle maiuscole, 
mentre distingue u e v modernamente nell’interno delle parole. 



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Storia della lingua italiana 


Si sostituisce sempre più frequentemente nella scrittura alla et 
latina, rappresentata dal compendio &, l’una o 1 altra delle forme 
italiane e o ed: ma c’è chi insiste per mantenere il segno latino . 

L’accento è segnato molto di rado all interno delle parole: c è cm 
indica così qualche parola inconsueta, adoperando di regoia 1 acuto 
(per es. lucere, intrèpido, giue nel Mondo nuovo dello Stigliam, Roma 
1628 Quadrupedi, malèdici. Decòro, asilo nella Vergine trionfante del 
Tesàuro, Torino 1673, ecc.), ma qualche volta anche il grave ( ancóra , 
sèguito, metròpoli nel Turammo del Bargagli, Siena 1602). 

Piuttosto abbondante è l’accentazione dei monosillabi, benché il 
Buonmattei ne abbia rilevata l’inutilità, e la riservi esclusivamente a 
distinguere i monosillabi omofoni (e - è, di - di, la - la, si - 

Nell’interp unzi one, notiamo l’uso quasi costante della virgola da- 

VaJ La tronfiezza secentesca trova espressione nell’abbondanza delle 
maiuscole, invano combattuta nel Marino dallo Stigliami Esempi ad 
apertura di libro; «Tanto corrotta è la Histona m questo Secolo, che 
appresso a molti horamai di Arte Oberale, è divenuta Mecamca; 
deposta la Tromba, suona dell’Arpa» (E. Tesarne > Apologia contro, la 
esamina del dottor Capriata, Torino 1673, p. 1); «L Humana loquela è 
proprietà sì naturale della Ragionevol Creatura, che meglio dell esser 
Risibile distingue l’Huomo da’ bruti, che perciò muti ammali si dicono» 
(L. Mattei, Teorica del verso volgare, cit., p. 87) U7 . 


14. Suoni 

Le varianti fonetiche che notiamo in alcune serie sono dovute in 
parte a oscillazioni antiche non eliminate nella codificazione dell «alia- 
no letterario, in parte all’affioramento di peculiarità locali, m parte al 
vario modo tenuto nell’assimilare i latinismi. 

L’esito fiorentino -er- da -or- nei futuri e condizionali è di gran lunga 
predominante, anche nei non Toscani (piuttosto rare le forme come 
soverchiarebbe, Salvator Rosa-, spiegarà, L. MatteiT. Piu frequenti sono 
le eccezioni fuor del sistema verbale: per es. sonnarello, Manno-, 


115 M A Severino, La querela dell'A accorciata, Napoli 1644. 

in c Scrive di più Giardino colla prima maiuscola, e Nume, e Garzone, e 
Vecchio, e Giovane, e sì fatti altri nomi appellativi, che deono ordinariamente 

andar tutti con minuscola...» (Occhiale, p. 503). 

117 E tutti ricordano il profluvio di maiuscole, nel passo attribuito alla 
goffaggine ambiziosa deh’ anonimo secentista nell’Introduzione ai Promessi Sposi 
manzoniani- imitazione molto felice, salvo forse un a meno, che mi pare un 
francesismo entrato in Italia un po’ più tardi, quando il barocco spagnoleggiante 
cede il campo al francesismo 6 primi esempi sono nel Magalotti). 

118 II Gagliaro ammette una forma peccareste «benché sanese» per evitare il 
susseguirsi di troppe e, lasciando prevalere il criterio retorico dell eufonia su 
quello grammaticale (Trabalza, Storia gramm., p. 317). 


Il Seicento 


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zàccare, S. Rosa; ballarina, G. L. Sempronio, ecc.; l’uso cancelleresco 
romano ha Cancellarla, Dataria, ecc. 

B dittongo no in posizione libera si mantiene bene a Firenze, mentre 
a Roma si ha una spiccata tendenza a monottongare: nel glossarietto 
pubblicato dal Baldelli 119 si oppone l’uso fiorentino di cuori, camiciuola, 
lenzuola a quello romano di cori, camiciola, lenzola. 

La regola del dittongo mobile è spesso male osservata, come si vede 
dai molti esempi contrari 120 , e dal modo stesso con cui parlano i 
difensori della regola (Pallavicmo, Mattei). 

L’aferesi dell’i iniziale Uo 'avocare e sim.) è applicata dalla Crusca, 
ma trova freddissima accoglienza 121 . 

L’apocope nella sequenza del discorso è soggetta molto più al gusto 
che alle regole: la libertà allora concessa non solo nel verso 122 ma 
anche in prosa, era maggiore di quella che non si abbia ora-, «uomini da 
bene e buon Cristiani» Qett. N. Lorini, 1615, in Galileo, Opere, XXIV b, p. 
297), «que* buon Padri» Qett. Redi al p. Kircher), ecc. 

L’apocope in fin di verso è propria della melica. 

Nel consonantismo è forte l’oscillazione tra scempie e doppie; e il 
caso più difficile è quello in cui l’uso fiorentino, vivo o codificato sui 
classici, si scosta dall’uso latino, sia per aver scempiato sia per aver 
rafforzato. I grammatici in questi casi sono tolleranti: «in alcune voci 
(nota il p. S. Pallavicino, Avvertimenti gramm., p. 46) la pronunzia 
fiorentina è diversa da quella del rimanente della Toscana e dell’Italia; 
come in dire Abate, Ufizio, Roba, con le consonanti semplici: Immagine, 
Innalzare, Owidio, con le raddoppiate. In questi e simili casi non sarà 
degno di riprensione chi seguirà l’una o l’altra maniera». Lo stesso 
Pallavicino adopera, per es., immitare, immitazione, scommunica. 

Le lettere per cui si ha maggiore incertezza sono b e g palatale 
(specie per la tendenza meridionale a proferirle rafforzate): greggia 
(Herrico), palaggì, Pariggi, naufraggio (Rosa) e viceversa sogetto (Rosa), 
esagerare, generalizzatosi di contro a esaggerare (cfr. pp. 428-429), ecc. 
Ma si oscilla anche per altre consonanti: abbiamo zuffolo, e invece 
pifero (Marino): c’è un sonetto della Murtoleide (xxxvi) in cui 0 Marino 
parla di popponi, carciofi, carotte, tartuffi e spinacci -, tutte parole per 
cui non esisteva, si può dire, ima tradizione letteraria. 

Si discuteva sui casi in cui si dovesse rafforzare nelTunire un’encliti- 
ca a una parola tronca: avendo lo Stigliarli adoperato votti «ti voglio» 
(nel verso «Roldano, con mia man punir non votti*), la Crusca ebbe a 
censurarlo, ed egli si difese abbastanza bene Qett. 1619, in Marino, 
Epistolario, II, pp. 276-288). 


119 Lingua nostra, XIII, 1952, p. 38. 

130 Nel Malmantile del Lippì si ha per es. giuocando a, st. 42). 
m II Politi nell’Introduzione al Dittionario trova l'invocare «maniera non 
solamente più sicura, ma più naturale, e più ordinaria di questa lingua». 

m Al Tasso fu rimproverato il troncamento di qualche plurale (« Espugnar di 
Sion le nobil mura»): lo Zito, Bilancia critica, Napoli 1685, p. 9, lo difende. 


424 


Stona della lingua italiana 


Il Seicento 


425 


wrrr- 


Oscillazioni si hanno anche nel rafforzamento dopo prefissi: sopra- 
naturale (Galileo), traffiggere (Marino), ecc. 

I due esiti popolari toscani sti- per schi- e di- per ghi- figurano in 
qualche parola messa in circolazione da scrittori toscani: oltre a mastio 
già usato dal Celimi, che appare ora in significati tecnici, si ha per es. 
mastio, stidione (Buonarroti il giov.>, diaccio, diacciare non destano 
scrupoli, mentre diacere è sentito come solo popolaresco. 

La prostesi vocalica davanti a s impura ( non istare, per isposaì è 
bene osservata nell’uso popolare, mentre qualche volta si sgarra nella 
scrittura. 

Nei nomi poco frequenti l’accento non sempre è conforme alla 
quantità latina: frammèa «framea» (Rosa), Pegàso (Marino, Herrico-, lo 
Spadafora l’ammette come licenza), Archilòco, Gorgia (Rosa), Inarìme 
(Marino), ecc. Accanto a dissenterìa, si sentiva a Firenze dissentèria 
(Menzini-, cfr. Spadafora, s. v.). 

15. Forme 

Per l’articolo, davanti a z si usa di regola il, mentre al plurale 
prevale gli. Si trovano esempi di li davanti a consonante, specialmente 
fiiori di Toscana; ammette ancora la variante il Buonmattei, mentre Pio 
Rossi la condanna recisamente. Insieme con la preposizione per i 
grammatici più rigorosi richiedono l’articolo lo (per lo, plurale per li), 
ma il Politi, il Bartoli, il Mambelli, il Menagio dichiarano ammissibile 
anche per il. 

Nella morfologia del nome, è sempre molto incerto il trattamento 
dei nomi in -co e -go, che a parere del Buonmattei (tratt. Vili, c. xxrv) 
«non si può ridurre a regola»: in molti casi l’uso è diverso da quello poi 
prevalso: aprici, bifolci; fantastichi, reciprochi, stitichi, teologichi K3 , 
dialogi, ecc. Analoghe oscillazioni troviamo nei superlativi (cattolichis- 
simo, laconichissimo, diabolichissimo F 4 . 

I plurali in -ei da -elio (bambinei, ruscei ) sono ormai confinati all’uso 
poetico, il quale ammette anche alcuni plurali in -a ormai non accetti in 
prosa (le poma). 

Nei numerali, due prevale decisamente (ma ancora si hanno esempi 
di dua, non raro nel Galilei, di duo, di doi ). 

Lui, lei, loro come soggetti sono frequenti nell’uso, ma quasi tutti i 
grammatici li combattono: non solo il Buonmattei, ma anche il Bartoli 
(Torto, c. xxxxii) 125 . 


123 II Beni, Anticrusca, p. 117, biasimando il filosofichi del Boccaccio e 
affermando che «ora si amerebbe filosofici » sembra accennare al prevalere di -ci 
negli aggettivi dotti. 

E anche in alcuni derivati, come cattolicismo (Panciatichi) o cattolichismo 
(De Luca, Baldinuccì). 

125 II Politi, nell’Apologià premessa al suo volgarizzamento di Tacito, avverte 
che a Siena sono preferiti. 


Lei ha preso ormai fisionomia a sé come trattamento allocutivo 
staccato da Signoria Vostra (cfr. p. 39O) 120 . Ma sia Lei che Signorìa 
Vostra stentano a penetrare nell’uso popolare 127 . 

Cotesto stenta ad essere accolto fuori di Toscana, e spesso è inteso a 
sproposito (Buonmattei, Della lingua toscana, tr. XI, cap. x; P. Rossi, 
Osservazioni, p. 243). 

Gli è adoperato spesso sia per «a lei» che per «a loro» («la natura- 
mai non trascendente i termini delle leggi impostegli»; Galileo, lettera 
alla grand. Cristina: Opere, V, p. 316; «alli padri Gesuiti... gli potrà dar la 
copia della lettera»; Opere, V, p. 295), malgrado l’opposizione dei 
grammatici (Buonmattei, ed anche Bartoli). La forma gnene per gliene 
affiora anche in qualche scrittura non plebea («io gnene darò un tocco 
martedì prossimo»: lettera di F. Redi, 5 genn. 1681-82). Troviamo ancora 
qualche esempio dell’ordine accusativo + dativo nelle sequenze di 
pronomi atoni («non si può dubitare, nè se gli può contradire»: Galileo, 
Nuove scienze, in Opere, Vili, p. 130, e passim). 

Abbiamo ancora qualche esempio di mia come plurale di mio («mia 
affezionati padroni»: Galileo, lett. 19 nov. 1629; «E io cheto, e vo a fare i 
fatti mia*-. P. Salvetti). 

Nelle coppie avverbiali, si perde non di rado, secondo l’esempio 
spagnolo, il primo dei due - mente : «favellando poetica, ed amatoria- 
mente risponde il poeta a Laura...» (Tassoni), ecc. 

Venendo a dare qualche cenno sulle peculiarità secentesche della 
morfologia verbale, troviamo al presente indicativo della l a coniugazio- 
ne che la desinenza in -e della 2 a pers. sussiste solo in poesia ( apprezze , 
ti vante ); la desinenza in -ono della 3 a plur. (trovono) è ancora viva, ma 
biasimata dai grammatici. ~ 

Quanto alle forme in -isc- della 3 a coniugazione, se ne ha qualche 
esempio anche nelle voci arizotoniche ( rapischiamo , Neri, al cong.); il 
Buonmattei ammette senza -isc- soltanto la 2 tt persona plur. ind. nutrite, 
ma vorrebbe evitare la prima pers. plur. dell’indicativo e la prima e 
seconda persona plurale del congiuntivo di questi verbi, considerandoli 
tutti difettivi: «non si dirà mai non solo ambischiamo nè colpischiamo, 
ecc. ma nè anche ambiamo, nè colpiamo, nè ambiate, nè colpiate », e 
suggerisce di: sostituirli con sinonimi (siamo ambiziosi e simili): «solo 
finiamo par che alcuna volta si lasci sentire, almeno dalle bocche del 
popolo, e in particolare in quell’affisso finianla, o finiamola...* (tratt. 
XII, cap. xxxxii). 


126 Se ne lagna il Vannozzi, Suppellettile degli Avvertimenti politici, ecc., Ili, 
Bologna 1613 , pp. 300-301: «Usano alcuni parlare in terza persona con quelle 
persone, alle quali non voglion dare, ò dell’Illustrissimo, ò dell’Eccellenza, e pare 
ad essi, che ciò sia un gran rimedio, e molto acconcio, per sbrigarsi d’un grande 
intrigo-, ma io non l’hò mai tenuto, ne per bello ne per buon rimedio». 

127 La Tancia (II, se. 5) mette in caricatura una curiosa giustapposizione di 
Signorìa Vostra al voi contadinesco. Cecco comincia impacciatamente un discor- 
so: «Se voi voleste la signoria vostra...». 


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Storia della lingua italiana 


Il Seicento 


427 


W'- 


Notiamo anche, alla l a persona plur. Gtnd. e cong.l, le forme 
tenghiamo, venghiamo, ponghiamo, salghiamo, esclusive o di gran 
lunga prevalenti 

All’imperfetto, la forma in -a per la l a persona è di regola nello stile 
più solenne; altrove accanto ad essa si trova frequentemente, specie 
negli scrittori toscani, la forma in -o (per es. nel Saggiatore del Galilei si 
ha solevo, dicevo, ma aveva). Tra i grammatici, il Buonmattei ammette 
le due forme, mentre il p. Bartoli, di solito tollerante, considera 
arbitraria la -o. Il tipo avea è ammissibile non solo nel verso ma anche 
in prosa. Alla 2 a persona plurale, è frequente il tipo eri, meritavi, 
desideravi (Galilei); ma il Buonmattei lo giudica «volgare». 

Al futuro, accanto alle forme in -ero per la la coniugazione appare 
qualche esempio in -arò nei Senesi o nei non Toscani (cfr. p. 467); ma i 
grammatici li rifiutano recisamente 128 . Qualche volta si ha la -rr- del 
fiorentino parlato (tr everremo, Galilei). Avrò prevale su arò, che pure ha 
qualche esempio (Galilei). 

Nel passato remoto abbiamo un certo numero di forme forti in 
luogo delle deboli o viceversa ( veddi , Galilei; creddi; volsi, ecc.), forme 
ignote ai grammatici o da essi sconsigliate (il Bartoli sconsiglia anche 
persi e raccomanda perdei ). 

Alla l a persona plurale i settentrionali, e qualche volta anche i 
meridionali, continuano a adoperare le desinenze in -assimo, -essimo, 
-issimo applicate al tema debole ( vedessimo «vedemmo», S. Rosa), e 
anche -imo applicato al tema forte ( discorsimo , S. Rosa). Alla 3 a persona 
plur. le desinenze in -omo e -orono stanno sparendo ipensomo, si 
fermoron, Galilei). 

Al presente congiuntivo della 2 a e 3 a coniugazione, le desinenze in - i 
per la 3 a sing. e -ino per la 3 a plurale sono ancora adoperate {possi, 
debbi, vadino, eschino, intendine, Galilei; aggiunghino, Politi; ferischi- 
no, N. Villani), ma i grammatici le condannano. 

Non mancano formazioni anomale, diverse da quelle poi prevalse: 
vadia «vada» (Galilei), vaglia «valga», togga (Galilei), sagga, sagghiate 
«salga, saliate» (Magalotti), ecc. 

All’imperfetto congiuntivo, oscilla specialmente la 2 a persona plur.: 
se voi l’avesse, se voi mi dicesse (Galilei); dialettale è vorrei che mi 
spiegassivo (S. Rosa). 

Al condizionale, il tipo in -ia è frequente nèTverso: ma si trova usato 
in prosa, anche familiare («mi bisogneria liberarmi di alcuni obblighi»: 
lett. del Galilei, 18 giugno 1610; «per fame quel capitale che si dovrebbe, 
si richiederia ...»: lett. del Panciatichi, agosto 1674). Come per il futuro, 
abbiamo qualche -rr- fiorentina {crederrei, Galilei). Alla l a pers. plur., 


Il Buonmattei dichiara: «non si dice che amarò non sia voce toscana; 
giacch’ella si usa da persone erudite, e da popoli numerosi della Toscana; ma 
ch’ella non è di quella Lingua, della quale qui si ragiona», e ricorre alle norme 
date dal Bembo e dall'Acarisio, i quali, come non toscani, non possono sembrare 
parziali (Delia lingua tose., tratt. XII, cap. 37). 


troviamo anche una forma con -ebb- nella desinenza llauderebbamo, 
Galileo), oltre alle solite forme settentrionali in -aressimo, -eressimo, 
-iressimo (considerate dal Bartoli «peccato mortale di lingua»), 

16 . Costrutti 

Ci limiteremo anche qui a pochi casi salienti. 

L’accusativo con l’infinito è in regresso: il Beni, dopo aver citato 
parecchi esempi boccacceschi, avverte che «tal maniera di ragionare, 
come quella che hora vien’assai meno usata, non può non offender 
l’orecchie» {Anticrusca, p. 37). 

Sono frequenti i costrutti di in (senza articolo) con l’infinito (in 
dipigner: Dati; «/n sentirvi lodar le nostre donne»; Rosa) e con il 
gerundio («Siccome i fiumi in ricevendo i rivi»: Corsini; «in sentendole 
leggere a me»: lett. del Redi). 

In un secolo incline all’enfasi troviamo abbondanza di forme e 
costrutti elativi. Abbiamo superlativi di sostantivi: padronissimo (Alle- 
gri; Fagiuoli), elefantissimo (Galilei), «questa mia spadissima » (un 
capitano smargiasso, in D. Cini, Desiderio e Speranza ), mulissima 
(Marino), bricconissimo (Bellini); superlativi relativi e assoluti di aggetti- 
vi che hanno già valore elativo: «le fortezze più principali » (Bentivo- 
glio), « ottimissime sono state le tre mutazioni» (Redi), « arciscioperato - 
naccissimo » (Redi); superlativi di locuzioni avverbiali: «Dante a propo- 
sitissimo» (Fioretti). Entra ora nell’uso anche stessissimo, foggiato, a 
quel che dichiara il Fioretti (introduzione al Polifemo briaco ) su modello 
greco. 

Tipico è il rafforzamento dell’aggettivo e del sostantivo per mezzo 
della ripetizione della stessa parola munita di un affìsso elativo: «vera 
arcinegghientissima negghienza» Qett. Redi 1656); «affetti casti, castis- 
simi» (Magalotti, lett. al Redi 1679); «chiara, evidente, evidentissima, 
arcievidentissima» (Redi, lett. al Magalotti, 1683); «è dovere arcidovere 
consolarlo» (Redi, lett. ad A. Segni, 1680): «è ima frottola frottola 
frottolissima» (Redi, lett. al Segneri, 1682); «ima scodella scodellissima 
tonda» (Magalotti, lett. sui buccheri, 1695); «quell’acqua di fior d’aran- 
ci... si è poi trovato che era di ginestra ginestrissima» (Magalotti, 
Lettere scient., ed. 1721, p. 95), «un vero taglio taglissimo» (Bellini, Disc., 
XI)' 29 . 

Altro tipo elativo frequentemente usato è quello di origine biblica 
«re dei re»: troviamo nel Marino, oltre a «la reina de’ regi» (IV, st. 15) e 
«reina... de le reine» (XI, st. 95), «il bel del bello in breve spazio accolto» 


129 II Redi inventò l’esempio di luissimo , incluso per sua testimonianza nel 
vocabolario della Crusca (« Si accorse esser lui luissimo»), attribuendolo a 
Giordano da Rivalto, il quale aveva adoperato un curioso superlativo del 
gerundio: «Andronne in ninferno ? Sì bene, ritto, ritto, correndissimo» (Volpi, Atti 
Acc. Crusca, 1915-16, p. 49). 


428 


Storia della lingua italiana 


Il Seicento 


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QII, st. 196); «quel piacer de’ piacer ch’ai mondo è solo» CVIII, st. 40), ecc. 
E ricordiamo il titolo dell’opera del Basile, Lo Cunto de li cunti. 

È probabile che sia giunto dalla Spagna, e che abbia attecchito 
anzitutto nell’italiano settentrionale, il costrutto esclamativo formato 
da che davanti all’aggettivo isolato: «Che bello!», costrutto ancor oggi 
male accetto in Toscana. Lo troviamo, per es. neU’Orchi: «che beato 
l’orecchio...» 130 . 

17. Consistenza del lessico 

Il lessico ereditario subisce parecchi mutamenti e riceve da varie 
parti aggiunte numerose, per soddisfare alle varie esigenze del tempo: 
di una società formalistica e dissimulatrice, di una letteratura enfatica 
e cercatrice di novità, di una erudizione saccente, e anche dei mirabili 
passi fatti dalle scienze sperimentali. 

Dove più forte pulsa la vita di quell’età notiamo parole prima rare 
che diventano consuete e talora prendono significati nuovi; parole di 
nuovo conio; parole assunte da lingue classiche e straniere. 

Effimera è, in complesso, l’influenza del concettismo, perché lo 
sforzo s tilis tico che porta a impiegare una parola in un significato 
nuovo e sorprendente è sentito come momentaneo; non si perde la 
coscienza di un uso normale, stabile, al di sotto e al di là della brillante 
sforzatura; e la continua ricerca di produr nuove meraviglie impedisce 
a queste accezioni momentanee di prender salda consistenza. 

In questo secolo dev’esser nato l’uso di foriero, foriere nel senso di 
«chi, che precede e annunzia» («l’aprile - vago forier d’un odorato 
maggio»: Achillini; «Fin che col terzo di l’Alba foriera - da l’onde uscì: 
Ghelfucci, Rosario, XXV, 4) per metafora dai procacciatori di foraggi 
che precedevano gli eserciti. 

Dalle riflessioni e dalle polemiche sul modo di parlare e di scrivere 
nascono numerosi significati o vocaboli nuovi: concetto passa dal 
significato filosofico a quello di «argutezza», e sene traggono, oltre che 
alterati come concettuzzo (Rosa) e concettino (Magalotti), i verbi 
concettare (Pallavicino) e concettizzare (Tesauro). Brillante si applica a 
chi sa ben concettizzare e alle sue capacità (persona «di spiriti vivaci e 
brillanti »: Redi), mentre freddura prende il senso di «argutezza mal 
riuscita» («le medesime voci, che col discreto uso paiono scintille, con 
l’abuso saran freddure»; Tesauro, Cannocchiale, p. 170). È facile che imo 
sia ritenuto manierato o ricercato o lambiccato 131 . Travestire per «paro- 
diare» prende le mosse dall’ Eneide travestita del Lalli (1634). Esagerare 132 


130 P. Giovanni da Locamo Saggio, cit, p. 111. 

131 Lambiccare, porre in lambicco nasce ora, probabilmente per irradiazione 
sinonimica dalla locuzione già antica distillarsi il cervello. 

132 Secondo l’etimo latino ( exaggerare , da agger), si ha per lo più nel Seicento 
esaggerare, ridotto in Toscana per falsa regressione a esagerare (questa è la grafia 
data dalla Crusca fin dalla 3* edizione): cfr. p. 423. 


era un termine di retorica che voleva dire «amplificare»: la parola ora 
si adopera nelle più varie circostanze: TAchillini con l’intenzione di 
«celebrare» l’altezza dell’Appennino intitola un sonetto «Altezza esag- 
gerata del Monte Appennino»; di eserciti che hanno conseguita la 
vittoria si dice che debbono «pubblicarla, esagerarla, proseguirla, 
incalzar le reliquie dell’esercito battuto» (Montecuccoli); i -comici 
dell’arte esagerano quando sfogano rumorosamente sulla scena i 
propri sentimenti («Valerio mentre esagera lascia il figlio in disparte»...; 
«Valerio dopo l’esagerazione dice al figlio Vien ecc.») 133 . 

In questo secolo in cui si dà tanta importanza alle formalità 
esteriori, si trasporta cerimoniale, dal precedente significato di «libro 
che elenca le cerimonie prescritte», a «insieme di cerimonie» e 
«sovrabbondanza di cerimonie»; si attinge allo spagnolo il termine di 
etichetta' 3 *. 

Penetrano nell’uso anche formalizzarsi e formalista. Omaggio non 
ha ormai più che il senso estensivo di «manifestazione di ossequio». 

L’aspirazione a sempre nuovi e sempre più alti titoli dà luogo a 
numerosi interventi di autorità (per es., Urbano Vili nel 1630 dà il titolo 
di Eminenza ai cardinali, ecc.); ma l’officiosità continuamente estende i 
titoli oltre i limiti legittimi («è venuta a tal segno questa vanità, che s’è 
cominciato a chiamare qualcuno Marchese per adulazione, e molti se lo 
lasciano dare senza replicare niente»: così i ricordi di T. Rinuccini a 
proposito di Firenze per gli anni intorno al 1670). 

Nella vita religiosa si moltiplicano le missioni interne ed esterne e i 
missionanti (poi missionari ). Ma è anche il secolo in cui l’antica piaga 
del nepotismo risorge, e già la coniazione del nuovo nome suona 
condanna. Lubrico, che secondo l’esempio latino significava solo 
«sdrucciolevole», prende il nuovo significato di «impudico»; e si foggia 
ima parola che serva come aggettivo accanto a peccato, cioè peccami- 
noso. La meditazione sulla morte si fissa con insistenza sul punto ; il 
Chiabrera dichiara nella sua autobiografia che non cessò di «pensare 
al punto della sua vita», e il Bartoli considera L’Huomo al punto, cioè 
l’huomo in punto di morte (Roma 1667). Gli uomini religiosi condanna- 
no i libertini (nel doppio senso, intellettuale e morale); ma viceversa c’è 
chi deride l’esagerata devozione coniando i nomi di bacchettone e ba- 
ciapile. 

Fra i termini d’arte ricordiamo la pittura di genere (cioè, originaria- 


133 A. Bartoli, Scenari inediti della Commedia dell’arte, Firenze 1890, p. 38 e 
passim. 

134 II francese étiquette «cartellino», giunto alla corte spagnola per il tramite 
della casa di Borgogna, aveva preso la forma di etiqueta e il significato di 
«protocollo scritto in cui è fissato il cerimoniale di corte», e poi in genere di 
«costume, stile». Il Magalotti narra come, giunto nel 1668 in Spagna, cominciò ad 
adoperare lui stesso la parola; e così fecero altri in quegli anni, cosicché «quattro 
giovanotti tornati di Spagna furono buoni, si può dire, a far la fortuna d’una 
voce» ILett. scient., ed. 1721, pp. 238-239). 


430 


Storia della lingua italiana 


Il Seicento 


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mente, quella che si limita a un solo genere di cose) 135 , la bambocciata, 
pittura realistico-burlesca sul tipo di quelle del Bamboccio (P. van 
Laer), e la caricatura, a cui probabilmente il nome fu dato da Annibaie 
Carracci 138 . 

Sui teatri trionfa l’opera, che era, propriamente, uno spettacolo 
in cui cooperavano la recitazione, la musica e varie macchine sceni- 
che 137 : per chi attende a queste macchine si conia il nome di macchi- 
nista™. 

Gli scenari della commedia dell’arte descrivono quello che gli attori 
devono fare, compresi i lazzi. E alle vecchie maschere se ne aggiungo- 
no di nuove, come Meneghino e Pulcinella. 

Entrano in circolazione nuovi mezzi di trasporto: le portantine 
(introdotte a Genova nel 1645) 139 , i calessi o sedie rullanti giunti dalla 
Francia 140 . Le poltroncine vennero pure dalla Francia nel 1672, secondo 
la testimonianza di T. Einuccini, ma ebbero nome italiano (propr. 
«carrozze adatte per chi vuol essere trasportato con comodo», con 
riabilitazione semantica del vocabolo poltrone ). 

Non potremmo certo enumerare tutte le innovazioni della moda: 
ma vanno anzitutto ricordati i termini di moda e di modante, e qualche 
nome come marsina, pastrano (poi pastrano ), ciamberga, tutti e tre, 
sembra, dai nomi dei personaggi che ne iniziarono l’uso. 

Tra i colori, piace a un certo punto V amaranto 1 * 1 . La moda dei 
profumi imperversa: di qui il nome dei bùccheri «recipienti di argilla 
profumata»; quello di moscardino («pastiglia profumata di muschio», 
da cui «zerbinotto») e tutti quelli ben noti alla setta degli odoristi 
(Magalott i). 

Alcune bevande di cui si era avuto nel secolo precedente notizia 
come di cose esotiche entrano ora nell’uso familiare, e se ne divulgano i 
nomi: il cioccolato 1 * 2 , il caffè, il tè'* 3 . 

L’uso del tabacco porta alTintroduzione della pipa. 

Nelle operazioni militari si comincia a parlare di reggimenti, e di sin- 
goli corpi ( fucilieri , granatieri)-, le partite sono invece «corpi irregolari». 


135 Croce, Nuovi saggi, 2 a ed., pp. 336-337; Id., La Critica, XXVI, 1928, pp. 385- 

390. 

138 Lo afferma G. A. Mosini, nella prefazione a Diverse figure... disegnate... da 
A. Carracci, Roma 1646. 

137 Calcaterra, Poesia e canto, Bologna 1951, pp. 238-240. 

138 La parola è usata, per es., nella Prefazione alla tragedia musicale Irene di 
G. Frigimelica, Venezia 1695. 

139 Bianchini, nota alle Satire del Soldani, Firenze 1751, p. 111. 

140 Panciatichi, Scritti, p. lxxi e 177-178. 

141 «‘Dichiaratela amaranto, e sarà alla moda’, disse pochi armi sono il 
Connestabile al Principe di Belvedere, che non si risolveva a comprare una 
carrozza di velluto rosino pel figliuolo sposo» (Magalotti, Lett. scient., ed. 1721, p. 
109). 

142 Migliorini, Lingua e cultura, pp. 245-251. 

143 Dei due nomi dà e tè (che risalgono a due diversi dialetti cinesi) prevale 
ora il secondo (anche per influenza francese). 


La curiosità per i monumenti antichi e i luoghi celebri fa sorgere i 
ciceroni 1 **. 

Quanto alle singole discipline, in molte di esse le singole terminolo- 
gie si precisano e si ampliano; e parecchi termini tendono a penetrare 
nella lingua quotidiana. 

L impiego sempre più frequènte dell’italiano a usi giuridici fa si che 
gran parte della vasta terminologia dei vari rami del diritto riceva ora 
una traduzione, che è per lo più un semplice adattamento: molti 
termini giuridici hanno come prima testimonianza italiana quella 
vasta compilazione che è II Dottor volgare del card. De Luca (1673). 

Tuttavia la lingua letteraria non accoglie volentieri i termini 
spiccatamente giuridici. Avendo il Politi adoperato nella sua traduzio- 
ne di Tacito la voce patrocinio, un critico gli disse che era da lasciare 
«a procuratori e agli avvocati», ed egli rispose: «Ha forse ragione di 
non volere ammettere l’uso di questa voce Q’adopera anche il Malavol- 
ta e il Guicciardini), perché come egli dice essendo voce di dottori non 
conviene agli idioti» 145 . Carlo de’ Dottori fu rimproverato per aver usato 
neU’Aròfodemo le voci curialesche competente e incompetente 148 Altret- 
tanta era l’ostilità per i termini filosofici: lo avverte esplicitamente il 
Pallavicino: «addomesticandosi i termini sopradetti nelle più scelte 
scritture, potrebbono a poco a poco deporre quella viltà, la quale ora 
nel concetto degli huomini, più che i termini d’ogn’arte meccanica, 
hanno quelli della filosofia; per essere stati ricevuti meno che tutti gli 
altri nella familiarità della dicitura elegante» 147 . 

Nel diritto si trattava essenzialmente di attingere a un lessico già 
saldamente concresciuto sulle fonti antiche e medievali. Invece nelle 
scienze fisiche_e naturali, è tutto un fervore di novità: gli oggetti 
dell osservazione, le spiegazioni che se ne danno, gli apparecchi 
scientifici che si escogitano spingono a coniare nuovi nomi. E, malgra- 
do^ lo sforzo compiuto dal Galilei e dalla sua scuola per dar vigore 
all uso del volgare nel campo delle scienze, permane vivissima la 
necessità di intensi scambi con gli scienziati che si occupano degli 
stessi argomenti in altri paesi, e che continuano a servirsi del latino. 

Per designare nuove nozioni e nuovi oggetti, Galileo preferisce 
parole di stampo popolare: momento, candore, ancora, bilancètta, 
pendolo, ecc. Questa preferenza, che già risulta chiara dagli esempi,“è 
esplicitamente professata nel carteggio con Federico Cesi: quando i 


144 Migliorini, Dal nome proprio, pp. 141-142. 

145 Apologia, nell'edizione 1604 della sua versione di Tacito. La Crusca include 
patrocinare ma non patrocinio nella prima ed. del Vocabolario (invece nella 3 a 
appare anche patrocinio !, nel Dittìonario il Politi include patrocinare e patrocinio 
con brevi spiegazioni. Gfr. p. 489. 

148 N. Busetto, Carlo de’ Dottori, Città di Castello 1902 , p. 320. 

147 Considerazioni sopra l’arte dello stile, p. 398. Cfr. quello che dice il Politi 
contro anagogia e derivati: «Anagogia, anagogicamente e anagogico sono termini 
teologici, e non di questa lingua» {Dittìonario, s. v.). 


432 


Storia della lingua italiana 


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designarla già esista J°' iat Ub d ®g U Agghiacciamenti, e il nome 


i« Migliorini, Lingua e cultura, pp. 146-148. 

'« Ronchi, in Lingua nostra, V, 1943, PP;. /. : ornoa Giove da lui detti stelle 
SZ£J a S* £££* « ÓSK comincio . chiamarli satellite* (par metafora 

a - p— « - 

to “^“°^S°“cS. P lSS?.™ d »ie^ flsicha: s . 5- XXV. i«. pp. 30-37. 


Il Seicento 


433 


saprei, che cosa me le dire. Un nome generale, che comprenda e 
specifichi il tutto, non panni che in nostra lingua vi sia; ed il comporre 
di voci greche una parola lunga un mezzo miglio, mi parrebbe una 
pedanteria» Qett. 31 gennaio 1685-86, in Lettere, ed. 1779, I, p. 132). 

Lo stesso Redi pubblica (sotto il nome di G. Cosimo Bonomo) le 
Osservazioni intorno a’ pellicelli del corpo umano . sono quelli che nel 
secolo seguente gli scienziati chiameranno piuttosto con il nome greco 
di acari. 

Nei consulti e nelle lettere del Redi troviamo spesso, come è ovvio, 
le voci usate dai medici e dalle farmacopee del tempo; ma non senza 
qualche protesta contro «i termini reconditi e misteriosi, che usa l’arte 
medicinale» e contro i «suoi greci, e arabici, e barbari nomi da fare 
spiritare i cani » ( Consulti , p. 41 dell’ed. Marmi), «con quelle Iere, con 
quelle benedette lassative, con que’ Diacattoliconi, con quei Diafinico- 
ni, Diatriontonpipereoni, ed altri nomi da fare spiritare i cani » (lett. 12 
giugno 1688: I, p. 186, ed. 1779). 

La lingua scritta non è disposta ad accogliere l’afflusso di vocaboli 
di lingua parlata se non con molte cautele, e limitatamente ad alcuni 
«generi». Piacevano i poemi eroicomici, piaceva a Firenze (ma non 
altrettanto altrove) la letteratura ribobolaia (la Fiera del Buonarroti, il 
Malmantile del Lippi). Molti vocaboli popolari furono accolti nel 
Vocabolario della Crusca per questa via; per il fatto stesso d’esser 
registrate, parole come ammazzasette, lestofante acquistavano maggio- 
ri possibilità di entrare nell’uso letterario e poi nell’uso generale. 

Ciò accadeva anche se molti si ribellavano all’egemonia fiorentina 
sulla lingua, come abbiamo già visto. Del resto, se il Fioretti asseriva 
che soltanto i Fiorentini avessero «dispensa ampliativa», il Magalotti 
si rendeva ben conto di non poter adoperare senza spiegarlo un 
vocabolo come sotto, e infatti aggiungeva tra parentesi (nei Saggi di 
naturali esperienze, p. Ili) «così diciamo a Firenze della neve quando 
ella fiocca, e avanti dell’agghiacciare». Quando Ottavio Falconieri (a 
cui il Magalotti mandava a rivedere i fogli dei Saggi prima della 
stampa) criticò come toscanismo affettato la voce asolare per «rigirare 
intorno a un luogo frequentemente», il Magalotti la difese come parola 
viva nell’uso toscano-, «Credo, che qualche parola non sarà intesa da’ 
non Toscani: ma se questo dovesse attendersi, servirebbe a poco il 
nascere in Toscana, e apprender la più perfetta favella d’Italia, se in 
occasione di scrivere si dovesse uno astenere dalle sue maggiori 
bellezze, per farsi intendere a quelli che parlano una lingua inferiore». 
Tuttavia il Magalotti non si rifiutava di venire a un compromesso: 
«Sappiate però, che tutte quelle maniere nostre, che, senza scapito di 
chiarezza a noi Toscani, posso levare, le levo» Getterà 5 agosto 1664: 1, 
pp. 89-90 dell’ed. 1769). In un altro punto dei Saggi , si legge cenquaran- 
zeesima: ma l’avevano voluto gli Accademici, renitente il Magalotti (ivi, 
p. 92). 

Alcune testimonianze, che contrappongono l’uso senese e quello 
romano all’uso fiorentino, ci permettono di conoscere parecchie delle 



434 


Storia della lingua italiana 


Il Seicento 


435 



differenze che davano nell’occhio. Per Siena abbiamo le notazioni del 
Dittionario del Politi, del tipo delle seguenti: 
camperello. Sen. campiello, dim. di campo. 
camporeccio. Fior, per selvaggio. 
grattugia. Sen. anco grattacacia. 
malato. Fior, per ammalato. 
marchio. Fior, per marco, contrassegno. 

moscio. Sen. dicesi d’erbe, di frutto o d’altro, che s’appassisca, e si 
faccia languido. 

nullo. Fior, per niuno. 
pimaccio. Sen. capezzale. 

Nel giudicare di queste notazioni, si ricordi tuttavia che spesso 
l’indicazione di «fiorentino» non si riferisce al fiorentino vivo, ma al 
fiorentino trecentesco registrato dalla Crusca. 

Più genuina, anche se più sommaria, è la raccoltina di un anonimo, 
conservata a Roma nella Biblioteca Angelica, e pubblicata da I. 
Baldelli 153 . Si tratta di notazioni tratte dalla vita quotidiana, che 
prescindono in complesso dall’uso scritto e si riferiscono all’uso parlato 
di Firenze e di Roma. Esse concernono per la maggior parte varianti 
fonetiche: CF.) camiciuola - (R.) camiciola; cuori - cori-, lenzuola - lenzola-, 
abate - abbate-, gabella - gabbella-, moscadello - moscatello ; cucchiaio - 
cucchiaro-, guantaio - guantaro, ecc.; altrove si tratta di varianti 
lessicali: beccaio - macellaro-, burro - butirro-, ciottoli - selci; galletto - 
pollastro; giubba - giustacore-, grembiule - zinale-, guanciale - cuscino-, 
legnatolo - fallegname-, magnano - chiavaro-, orìuolo - orologio; pesche - 
perziche-, pesciaiuolo - pescivendolo-, pezzuola - fazzoletto; pizzicagnolo - 
pizzicarolo-, popone - melone-, sarto - sartore ecc. 

Si osserverà che in alcuni casi le due varianti ancora sussistono; 
per lo più è prevalsa la forma fiorentina, più raramente quella romana. 

L’incertezza della nomenclatura costringe qualche volta gli scritto- 
ri, anche toscani, a tener conto delle sinonimie territoriali: «quel male 
che a Firenze si chiama Vaiuolo e a Roma dicesi Morviglioni» scrive il 
Redi in un consulto 155 . 

Notizie e indizi vari ci permettono di renderci conto della provenien- 
za di vocàboli e locuzioni oggi comunemente accettate. Dallo Stigliarli 
sappiamo che alzarsi usato assolutamente per «levarsi di letto» è un 
napoletanismo; dalla testimonianza del Redi (Voci aretine le dall’uso 
del Malmantile (« folla di gente») sappiamo che folla voleva dire ancora 
a. Firenze soltanto «calca, moltitudine», mentre ad Arezzo e a Roma 
folla già voleva dire «calca di gente». 

Varianti dialettali (non crudamente vernacole ma riportate a ima 
veste fonetica italianeggiante) affiorano con particolare abbondanza 


153 Lingua nostra, XIII, 1952, pp. 37-39 

154 Sartore è osservato come del «parlar romano» anche nella Fiera del 
Buonarroti, II, IV, se. 13. 

155 Consulti, in Opere, t. VI, Firenze 1726, p. 6. 


nei testi pratici Qettere, verbali, inventari, statuti): a Bologna abbiamo 
per es. gli Statuti dell'Honoranda Compagnia de’ Gargiolari... (1667) 158 , a 
Roma gli Statuti dell’antica e nobile arte de’ Ferrari (1690), ecc. Nelle 
lettere di Vincenzo Gonzaga 157 si parla indifferentemente di césani 158 o 
di cigni. 

Salvator Rosa adopera parecchi dialettalismi nelle lettere, e qualcu- 
no anche nelle Satire-, per es. lo spregiativo faldone nella lettera del 23 
febbraio 1653 («Comedie non ne ho voluto sentir nessuna, attesoché 
sono troppo faldone...», p. 105 Limentani) e nella Satira III, v. 236 «talun 
che col permei trascorse - a dipinger falcioni e guitterie» 159 . 

Anche il Marino è piuttosto largo nell’accogliere, non solo nella 
corrispondenza ma anche nei versi, varianti fonetiche (librazzo, poe- 
mazzo, Scaramuzza, seguso, trutta «trota») e voci regionali (alare 
«anelare», letturino «leggio», ecc.). Eppure i teorici che ammettevano 
nello «stile umile» (per es. nella satira) parole familiari, non le 
consentivano nell’epica e nella lirica. 

L’accoglimento di vocaboli regionali che non fossero già sanzionati 
dall’uso letterari© è molto più scarso in questo secolo che nei secoli 
precedenti. Ma se l’affiorare dei dialettalismi «di sostrato» è represso, 
vi sono scrittori che si compiacciono di colorire l’espressione ricorren- 
do a dialettalismi di altre regioni, come quando Salvator Rosa adopera 
in una lettera il venetismo spegazzo «sgorbio» («semplice spegazzo del 
pensiero», lettera del 1663, p. 130 Limentani) o il Magalotti ricorre in ima 
cicalata al napoletanismo smaferare. 

Una via per cui un certo numero di dialettalismi emergono e 
tendono a diffondersi nell’uso è il divulgarsi della conoscenza di 
peculiarità locali, fenomeni naturali, modi di vita, cibi, procedimenti 
usati in dati luoghi. Il fiorentino A. Neri nel descrivere la tecnica della 
lavorazione del vetro (L’Arte vetraria, Firenze 1612) si serve di alcuni 
termini veneziani ( pùliga «bollicina», riàvolo «rastrello del vetraio»), 
che si spiegano col prosperare dell’arte vetraria a Venezia. Quando 
Geminiano Montanari descrive le isolette di canne che si staccano dal 
fondo delle lagime e galleggiano alla superficie, le chiama 160 col nome 
veneto di quore (cuora, femm., dal lat. coria). Il Boccone (Osservazioni 
naturali, Bologna 1684, p. 368) conosce «la Sciara, o quella massa 
ferruginea prodotta dalla materia ignivoma, che vomitò il Monte 
Etna». Il Magalotti (Lettere , I, p. 9) parla della « Zolfatara di Pozzuoli». E 
così via. 


158 È il bolognese garzul&r «canapaio». 

157 Nell’ed. Laterza dei Ragguagli di Parnaso del Boccalini, pp. 348 e 352-354. 

168 Cfr. le forme dialettali citate nel REW, n. 2435, s. v. eyenos, cycinus. 

15B Sulle voci napoletane di S. Rosa abbiamo un articoletto di E. Rocco, nel 
periodico Giambattista Basile, VII, pp. 75-76. Il Baldinucci (Notizie dei professori..., 
XIX, p. 7l parla degli «spassosi trattenimenti» di Salvator Rosa, e inclino a vederci 
un napoletanismo introdotto dal Rosa stesso fra gli amici fiorentini. 

160 II Mare Adriatico, in Raccolta di autori italiani che trattano del moto 
dell'acqua, IV, Bologna 1822, p. 467. 


436 


Stona della lingua italiana 


Il Seicento 


437 


«rr-r 


Quanto ai vocabolari, se quello della Crusca professa di registrare 
solo voci di buona fiorentinità, quelli compilati a scopi pratici abbonda- 
no, sia nei lemmi sia nelle spiegazioni, di termini non toscani: G. Vittori 
(Victor) nel Tesoro de las tres lenguas [francese, italiana e spagnola! 
Ginevra 1609, per tradurre voci francesi o spagnole adopera parole 
come fioppa «pioppo», lasina «ascella», regabio «rigogolo», e così altri 
compilatori forestieri di vocabolari poliglotti. Anche il p. Spadafora, nel 
registrare nella sua Prosodia Italiana voci il cui accento può lasciar 
dubbi, abbonda nell’accogliere lemmi dialettali: bonìgolo, cótica, gran- 
cévola, mammana, pirone, ràgano, ecc., talvolta aggiungendo che si 
tratta di voci «lombarde» o dicendo da che scrittore le attinge. 

Quanto agli arcaismi, bisogna distinguere tra quelle numerose 
parole che, scomparse da tempo dalla lingua parlata, costituivano 
invece parte integrale della lingua poetica; e l’esumazione di voci del 
Duecento o del Trecento. Mentre l’uso delle voci della prima serie non 
destava scrupoli nei poeti, solo pochi scrittori (e in verso piuttosto che 
in prosa) ardiscono ricorrere a voci veramente arcaiche. Qualcuno vi è 
indotto (iall’ammirazione per quei secoli e quegli scrittori a cui la 
Crusca dava la palma: come quando il Dati scrive [Dell’ obbligo di ben 
parlare ) «le diffalte della plebe ignorante»; qualche altro per virtuosi- 
smo linguistico o opportunità di rima: anche il Marino nell’Adone 
adopera feruta, mate male, visaggio (e anche, per erronea reminiscenza, 
ammiraglio nel senso di «specchio», Vili, st. 29). Ma quando il Fioretti 
adopera nel suo ditirambo Poiifemo briaco voci come approccia, 
allegranza, foraggio (e non manca di segnalarlo, nel «Documento» che 
illustra il Poiifemo, Proginn., Ili, lo fa principalmente per la loro 
stranezza. 

Il Lepòreo, pur professando in un sonetto di cercare «parole nuove», 
di fatto si attiene piuttosto a voci antiche ravvivate: 

Vo a caccia, e in traccia di parole, e pescole, 
dal Rio del Cupo Oblio le purgo, e inciscole 


da ferrugine e rugine rinfrescole 
e da la muffa, e ruffa antica spriscole ... 161 

I più sono contrari agli arcaismi: il Tassoni (Pens. diversi, IX, quisito 
15) dichiara che vanno usati estremamente di rado, e nella Secchia (X, 
st.7) mette in burla il conte di Culagna che esalta così la sua donna: 

- O, diceva, bellor dell’universo 
ben meritata ho vostra beninanza. 

Gli stessi cruscanti trovano che molte voci boccaccesche sono 
ormai morte: O. Rucellai dice (Lettere, pp. 5-6 Moreni) che nei propri 


scritti filosofici non si troveranno «molte affettazioni toscane alla 
foggia del Boccaccio», «nè cliente, nè neghienza, nè tracotanza o 
somiglianti». 

Il desiderio di nobilitare il linguaggio, oltre che con parole illustri 
e sonore, con parole antiquate, tentava anche i non letterati: Panfi- 
lo Persico (Del Segretario, Venezia 1620, p. 88) ammette che > voci 
«dal co mmun uso del parlare... intermesse, ritornino quasi dall anti- 
chità a fargli grafia, ornamento, quali sariano malore, retaggio, arroge, 
trapelare ». 

In complesso, l’enorme maggioranza dei vocaboli ricordati come 
arcaici rimasero tali: ina qualcuno riuscì a riprender vigore, come 
malore o tracotanza o trapelare. 

La formazione di vocaboli nuovi, specie come vezzo stilistico, è m 
questo secolo assai abbondante, anche se quelli che attecchiranno non 
siano particolarmente numerosi. 

Si ha qualche voce onomatopeica, come cicisbeo. Si hanno sposta- 
menti di categoria semantica, come pendolo agg. preso da Galileo 
come sostantivo 162 , formazioni immediate (senza suffisso) di sostantivi 
(il gonfia, una deroga ), di aggettivi (concia frangipana , tela sangalla ), di 
verbi (romanzare, velocitare; accipitrare, cespugliare, mongibellare: Te- 

sauro). . . 

La formazione dei femminili si estende a nuovi nomi, anche di 
animali (augello, corsiero. Marino e di cose (vocesso, spreg., Tassoni). 

Frequentissimi gli alterati, che ben si adattavano a trasformare le 
parole pur mantenendo i legami con la tradizione-, si pensi a un triplice 
alterato come lo scrupolettucciaccio del Redi 183 . 

Nella formazione suffissale di nuovi sostantivi, si hanno numerosi 
nomi di agente (missionante ; fuciliere, ecc.) fra cui molte formazioni in 
-ista (Ariostista, Fioretti; bombista; caffeista. Redi; casista; fattista, De 
Luca; galenista. Redi; galileista; marinista, Stigliarli; o dorista, Magalot- 
ti; quietista, e innum erevoli altri). Per gli astratti, se ne hanno parecchi 
in -ismo (eroismo, nepotismo, quietismo, ecc.), in -aggine (sanesaggine, 
Bargagli), in -eria (franceseria , romanzeria, Tassoni). 

Anche per gli aggettivi, accanto alle molte formazioni di carattere 
intellettuale (calamitico, Galileo; geografico, Galileo-, o Igebraico; cicloide 
agg. e sost.; ecc.) ne abbiamo innumerevoli di carattere affettivo 


162 Lingua e cultura, pp. 146-147 (per un riscontro con alcuni usi popolari 
toscani della parola, v. Lingua nostra, VII, 1946, p. 19). 

163 Nelle note al Bacco in Toscana, il Redi, a proposito dei versi «O di quel che 
vermigliuzzo - brillantuzzo - fa superbo l’Aretino» avverte: «Un gentilissimo e 
pulitissimo Scrittore esalta la moderna lingua Franzese, perché non ammette i 
Diminutivi; biasima l’antica, perché gli costumava-, non loda la Italiana, perché 
ne ha dovizia. Io per me sarei di contrario avviso, e crederei, che i Diminutivi 
fossero da annoverarsi tra le ricchezze delle lingue, e particolarmente, se con 
finezza di giudizio, e a luogo, e tempo sieno posti in uso. La Lingua Italiana si 
serve non solamente de’ Diminutivi; ma usa altresì i diminutivi de i diminutivi, e 
fino in terza, e quarta generazione» (p. 53 dell’ed. Firenze 1685). 


181 Raccolta, cit., p. 24. 


438 Storia della lingua italiana 


Il Seicento 439 


( moscareccio , Lalli, metaforuto, di cui lo Stigliarli attribuisce la forma- 
zione al Marino, ecc.l. 

Tra le formazioni prefissali, abbondano per la tendenza all’iperbole 
gli arci- ( arcasino , Vannozzi; arcimusa, ironico, Stigliarli; « arcirtasarca 
di tutti i nasi», Marino; arcifreddissimo, arcilunghissimo. Redi), gli 
altra-, i sovra- fio Stigliarli biasimava oltrabello, oltramortale, sovramor- 
tale usati dal Marino; abbondano gli ariti- (A. Guarirli, Anticupido, 
Ferrara 1610; P. Beni, Anticrusca, Padova 1612) e i vice- (Vicefebo-, il papa è 
chiamato Vicedio nella canzone del Testi a Innocenzo X, mentre il 
Bartoli chiama Vicedio Mosè). Sono, anche numerose le formazioni 
negative con dis- e in- ( disartifizio , Fioretti; disamabile, Chiabrera; 
disappassionato, Redi; impassibile, inconspicuo, indispensabile, infran- 
gibile, usato da Galileo nei Massimi sistemi, e sentito come nuovo 
da G. Paganino, secondo egli dichiarava in una lettera del 1633 al 
Buonmattei). 

Tra i nuovi verbi formati con suffissi, se ne hanno alcuni in -izzare, 
{concettizzare, famigliarizzarsi, fraternizzare ) 184 e innumerevoli in -eggia- 
re : qualcuno nato per opportunità terminologiche {anticheggiare. Fioret- 
ti; fraseggiare, Menzini; ritmeggiare, G. B. Doni), molti foggiati occasio- 
nalmente ( ametisteggiare , augelleggiare, asineggiare, colombeggiare, co- 
ralleggiare, cristalleggiare, cuccioleggiare, edereggiare, gondoleggiare, 
i soleggiare , labbreggiare, usignoleggiare...: «ve ne sono le miniere 
inesauste» avvertiva L. Mattei, Teorica del verso, p. 102) per esprimere 
apparenze cangianti («aver colore di ametista») o azioni momentanee 
metaforiche («baciarsi come le colombe»). Si vede come questo filone 
neologico ben convenga al secolo che ama le cangianti apparenze: ma 
poche erano, come è ovvio, le probabilità che simili coniazioni momen- 
tanee attecchissero stabilmente. 

Numerose sono anche le formazioni parasintetiche: qualcuna nomi- 
nale {correligionario, Magalotti), molte verbali Idisanellare, discifrare, 
disviscerare... immedesimare, imporporare, inarenare, inartigliare, infie- 
lare, ingarzonire, instellare...; sfilosofarsi, sgemmare. Al Fioretti 
queste parole piacevano molto: «se in nostro idioma componessimo 
interribilire, per la sua ruvidezza sarebbe magnifico, e attonato al 


164 Inoltre, verbi in -izzare già antichi si divulgano: organizzare, che esisteva 
nella lingua fin dai tempi di Dante, prende ora il significato estensivo di 
«ordinare, disporre»; cristallizzarsi entra nell’uso come termine di fisica (il Nuovo 
Testamento aveva xpuaxaXXi^iv nel senso di «esser trasparente come cristallo»; e 
forse il cristallizzarsi è formazione moderna e indipendente). 

155 Lo Stigliarli, in un sonetto in cui satireggia lo stile allora di moda, abbonda 
in versi di questo tipo: 

il baldo nibbio.... scorre indi e boemi 

e l’arrostita zona e T annevata; 

poi giù piombando ove il terren s’imprata 


(Croce, Lirici marinisti, p. 19) 


subbietto; per la sua novità, avrebbe del pellegrino» IProginnasmi, IV, 

Molto fertile è la composizione, la quale soddisfa bene la duplice 
esigenza sentita in tutti i tempi e più che mai in questo: la «necessità» 
delle scienze e la «leggiadria» o «piacevolezza» dei poeti (Fioretti 
Progmnasmi, III, prog. 164). 

In complesso sono più in auge i procedimenti dotti che quelli 
popolari. Si ha qualche composto imperativo come scalzacane, scalza- 
gatto, sputaincroce «ateo», facibene, facimale, facidanno : il Chiabrera 
che nel dialogo II Bamberini trova «senza leggiadria» il procedimento 
e cita come esempio «il reo tagliaborse », nel suo ditirambo adopera 
tuttavia cacciaffanni, spezzantenne. 

Le giustapposizioni di due sostantivi sono spesso sfruttate a scopo 
scherzoso: pesciuomo (Stigliami, donnadragone (Tesauro>. anche più 
artificioso 1 ctsinibbio {asino + nibbio ) del Peresio. 

a .^ u ?? eros Ì 1 , < ? >m P ost i. artificio si sor £ono con la poesia ditirambica. 
Aristotile nell Arte Poetica aveva detto che «i nomi composti maggior i q- 
mente convengono ai ditirambi», e quando in una scena della Fiera del 
Buonarroti (1618) uno studente parla del carro perlismaltato di Teti, un 
altro lo interrompe dicendo «Or così: fammi un po’ del ditirambico - 
com oggi è più che mai stil de’ poeti» (Giom. Ili, atto II, se. 13). 

Il Chiabrera nell’autobiografìa si fa un merito d’aver introdotto 
nella Poesia ditirambica l’uso di parole composte come oricrinita fenice 
crocaddobbata aurora. Il suo «Ditirambo all’uso dei Greci» è probabil- 
mente anteriore al Polifemo briaco (1627) del Fioretti 1 "; sovraccarichi di 
compostisono i ditirambi di F. M. Gualterotti, di C. Marucelli (1628) di 
N. Villani (1634); più misurato, e più fortunato, fu quello del Redi (1673 
finito nel 1685). 

Troviamo in questi ditirambi diversissimi tipi di composti e di 
giustapposti. Abbiamo un certo numero di sostantivi di formazione 
verbale («Bacco cacciaffanni», Chiabrera; una struggicuori, Gualterot- 
“V* 9. 1111 prtmo elemento è coordinato al secondo ( liricetra 

Gualterotti) o retto dal secondo ( ventipreda , Gualterotti). Abbiamo verbi 
copulativi ( cantipiange «canta e piange», Gualterotti) o formati con un 
complemento, il quale può essere diretto (sonniprendere, Gualterotti) o 
anche nfenrsi al verbo in modo più vago Uinfemifoca il mio core», 
KediJ. La maggioranza dei composti ditirambici è costituita da aggetti- 
vi: coppie di aggettivi coordinati ilietofestoso, leggiadribelluccia, Redi)- 
coppie con riduzione di suffisso {musimagico «musico + magico», 
Gualterotti, homicavallico, Marucelli), composti in cui il primo elemen- 
to ha valore di avverbio, come nei composti latini del tipo altitonans 
{dolcipungente, Gualterotti), ecc. 


“* p,ù vocl to dMone - “ m ' è 


440 Storio della lingua italiana 

Questo allargamento arbitrario delle possibilità compositive della 
lingua ‘"conduce spesso a risultati mostruosi, e va considerato come un 
breve capriccio stilistico dei poeti ditirambici e in minor misura, di 
quelli eroicomici, non come un effettivo arricchimento del lessico. 

Ma anche la lingua filosofica, quella giuridica, quella scientifica 
hanno crescente bisogno di parole composte, le quali attecchiranno se 
si tratta di necessità permanenti. Ricordiamo solo qualcuno dei 
numerosi elementi compositivi che già avevano questo valore in latino 
ma che ora danno largamente origine a parole nuove: tra i nomi 
formati con -cida appaiono e scompaiono co ridda (Fioretto e fioricida 
(Marucelli), sparirà anche amanticida (Neri), mentre resterà ussoricida 
(Allegri), in quanto legato a un concetto giuridico; moschicida, foggiato 
per gioco dal Lalli, tornerà a servire quando si metteranno in commer- 
cio dei prodotti moschicidi. 

Analoghe considerazioni potremmo fare per vocaboli coniati in 
questo secolo i quali hanno il primo elemento latino: i molti con semi- 
(termini ecclesiastici come semidigiuno, semiluterano, semipelagiano, 
«concistoro semipubblico », o voci scherzose come semidottore, Tesauro; 
semifilosofo, Buonarroti; semigigante, Mascardi; semilibro, Galilei, ecc.), 
quelli citati (p. 484) con vice-, quelli con orini- ( onnivoro , Oudin; 
onnifecondo, Bellini) e con uni- lunisillabo o unisillabico. Fioretti), ecc. 

Ma, come è noto, in latino la composizione era limitata a poche 
serie; invece il greco aveva possibilità illimitate. Nella coniazione di 
terminologie scientifiche si ricorre spesso al greco per foggiare nomi di 
scienze, nomi di strumenti, titoli di libri: anzitutto in latino ( omitholo - 
già, Aldrovandi, 1599, giologia «geologia», Aldrovandi, 1603; phytoiatria, 
nelle Tabulae phytosophicae dei Lincei-, kosmologia, O. Boldoni, 1641; 
telescopium, thermometrum, ecc.), poi anche in volgare (si pensi per es. 
all ’Etopedia del Menzini o alla Ginipedia ovvero avvertimenti civili per 
donna nobile di V. Nolfi, Bologna 1662; cfr. p. 447). 

Non si contano i ter mini con proto- e con ipìseudo- foggiati ora. Ma 
più importante è l’installarsi in italiano dei composti del tipo tosca- 
no-romano, melico-comico, heroico-satirico, cefalo-faringeo, la cui vocale 
copulativa, che è -o- secondo l’esempio dei composti greci, rimane di 
regola invariabile nella flessione: p. es. C. C. Scaletti, Scuola mecani- 
co-speculativo-pratica, Bologna 1611, M. Kramer, Ragionamenti Tede- 
sco-Italiani secondo la favella Toscano-Romana, Norimberga 1679 
Meno frequente è il metodo di considerare i due aggettivi come 
meramente giustapposti, anche se uniti con un trattino: G. Tornano, 
Della lingua Toscana-Romana, Londra 1657, Dimostratione Histori- 
ca-Astronomica (Tesauro, La Vergine Trionfante p. 97)‘“. 


107 Non mancano, nei poeti ditirambici, forti arbitrii nella derivazione: per es. 
il Gualterotti (Morte di Orfeo, v. 121) foggiò altissimevolmente, su cui poi fu 
modellato precipitevolissimevolmente (Moneti, La Cortona convertita. III, st. 65): v. 
Natali e Migliorini, in Lingua nostra, XVIII, 1957, p. 55. 

,aa Si veda, oltre al mio cenno in Saggi sulla lingua del Novecento, pp. 26-27, la 


Il Seicento 441 

Ma non mancano esempi di composti, anche non burleschi, con la 
vocale copulativa -i- ( amante stoltisavio, Stigliarli, traduzione prosipoe- 
tica. Fioretti); gli aggettivi in -e restano semplicemente giustapposti 
( favola morale-politica, 1617). 

18 . Latinismi 

È sempre largamente spalancato al lessico italiano il serbatoio 
della latinità (e, in limiti un po’ più ristretti, quello della grecità), per 
attingervi vocaboli nuovi 16 ®. Scienziati e letterati ricorrono alla latinità 
classica, a quella cristiana e a quella scolastica, e inoltre a quella che 
le scienze di recente costituzione si vengono foggiando. 

I latinismi sono accolti nel lessico italiano anzitutto per servire 
come termini dottrinali per le discipline più varie (specialmente quelle 
che prima si trattavano in latino, come i vari rami del diritto). 

Mentre non v’è remora, si può dire, all’assunzione di termini tecnici 
finché si rimanga nell’ambito delle singole discipline, per i vocaboli più 
generali v’è una certa resistenza, e quelli che adoperano latinismi 
nuovi sentono di dover mettere le mani avanti: Buonarroti il giovane 
nel proemio àR'Aione parla delle «ore che un buon pedante chiamereb- 
be sussecive»-, il Villani, nel Ragionamento sulla poesia giocosa, p. 101, 
parla delle lodi che il Lalli sta per acquistarsi risultando « Olimpionice , 
per così dire, nello stadio della poesia» 170 ; intransitivo è ancora nuovo 
quando se ne serve il Segneri nella Manna dell'anima : «in senso, come 
dicono, intransitivo »; ecc. 

La resistenza è variamente testimoniata. Uno dei biasimi che 
frequentemente muove lo Stigliarli al Marino è di adoperare nello stile 
«nobile» parole latine, che hanno un tono troppo tecnico: per es. 
biblioteca, cute, disco. Quando l’epiteto che Benedetto Fioretti si era 
scelto, apatista, fu col suo consenso applicato da Agostino Coltellini 
all’Accademia degli Apatisti, qualcuno non ne voleva sapere, dicendo 
«ch’ei la poteva chiamare degli Spassionati, nome più intelligibile, & a 
noi più naturale, che quello di Apatisti» 171 . 

Specialisti che si rivolgono a non specialisti qualche volta si 
soffermano a spiegare i loro termini: «luna giovinettal dotata di un 
abito di corpo carnoso, e che da’ Medici con vocabolo greco vien 
chiamato pletorico » (Redi, Consulti, I, p. 6). 

Un breve elenco di termini scientifici entrati nel lessico italiano in 


solida monografìa di A. G. Hatcher, Modem English Word-Formation and Neo- 
Latin, Baltimore 1951, dove l’origine di questa -o- dal greco per il tramite del latino 
scientifico è molto ben documentata. 

168 «Ognuno può cavarne (dal latinol quel che gli fa bisogno, salvo il suo 
dovere al giudizio e all’uso» (Bartoli, Il Torto e il Dir., oss. ccxm). 

170 II p. Spadafora, nella Prosodia, dà Olimpionice come parola piana. 

171 IF. Cionacci), «Vita di B. Fioretti», premessa alle Osservazioni di creanze, 
Udeno Nisieli autore, Firenze 1675, p. XXIII. 


442 


Storia della lingua italiana 


questo secolo (salvo retrodatazioni, sempre possibili) varrà a dare 
un’idea dell’importanza di questo afflusso, anche se l’elenco sia 
meramente esemplificativo: anfratto, antenna, antictoni, apogeo, bub- 
bone, bulbo (dei peli), caruncula, cellula, coerente, condensare, conoide, 
crostaceo (crustaceo, Redi), cuticola, deferente (anat.), digressione 
(astron.), estrudere, fecola, ignicolo, iniezione, iperbole (mat.), molecola 
(dalla filosofia di Gassendi), obbiettivo (ott.), oculare (ott.), ovidutto, 
papilla, patologia, placenta (anat.; da placenta uterina ), pleura, pleuriti- 
de, podice, precessione, prisma (cristall.), proietto, pube, rarefazione, 
scheletro, scroto, sfacelo (« cancrena»), stratificare, vortice, ecc. 

Accanto a questi, vanno ricordati numerosi altri latinismi che, 
adoperati dall’uno o dall’altro scienziato nel tentativo di fame termini 
tecnici, non hanno avuto fortuna, essendo state preferite altre parole.- 
distrarre e distraibile nel senso di «dilatare, dilatabile», eiaculazione 
come termine elettrico, incalescere (med.), labefattare («labefattata la 
virtù conco ttrice del medesimo stomaco», dice senz’ironia il Redi, 
Consulti, I, p. 194), lozione, lubricare, perspicuità (ott.), stertore, titubazio- 
ne, ecc. 

Un’altra serie notevole è quella dei termini giuridici che ora 
cominciano a penetrare in italiano-, aggressione, agnazione, censire, 
condominio, consulente, dirimere, grassatore, patrocinio (cfr. p. 431), 
premorienza, prescindere, subornare, società (commerciale), tergiversare, 
usucapione, ecc. 172 . 

Dalle più varie discipline ricevono l’aire innumerevoli altri latini- 
smi: acrostico, allidere, analfabeta, ascitizio, assurdità, convellere, cospi- 
cuo, cromatica tmus.), elaborare, elogio, emanazione (teol.), incongruo, 
incongruenza, incutere, indagare, indagine, letale, monotono, -ia, notu- 
la, onomastico, oriundo, panegirico, parodia, posticipare, sintassi, sintesi 
(gramm.), taumaturgo, tesi, ecc.; oltre a innumerevoli altri che hanno 
attecchito poco o nulla: amie, esardere, esoleto, espiscare, fasce, ferrugi- 
ne, novercale, parergo, sinoride, ecc. 

Alcuni latinismi, già sporadicamente adoperati nei secoli preceden- 
ti, ora si diffondono parecchio: per es. atomo, entusiasmo, escandescen- 
za, ecc. 

Poiché questo attingere ai latinismi è un fenomeno comune a tutta 


172 Vogliono deridere l’abuso dei termini legali questi versi del Malmantile del 
Lippi (VI, st. 87-88): 

ed io sarei stimato anc’un Marforio 
a acconsentire a un atto perentorio. 

Perché sempre de jure pria si cita 
l’altra parte a dedur la sua ragione; 
poi s’ella è in mora viensi a un’inibita 
e, non giovando, alla comminazione, 
che in pena caschi delle forche a vita: 
e se la parte innova lesione, 
allor può condennarsi, avendo osato 
di far, causa pendente, un attentato... 


Il Seicento 


443 


1 Europa colta, accade ormai spesso, e sempre più accadrà nei secoli 
seguenti, che ì vocaboli siano attinti non direttamente alla lingua 
antica, ma ad una lingua moderna che a sua volta è ricorsa al latino: 
cosa che si ncava ora da diretta testimonianza, ora da qualche 
?Aoi^ a j? tà ° * significato. Per es. lo Stigliarli (Arte del verso, p. 

162) ci dice che il termine assonante (nel senso metrico moderno per 
indicare un tipo di rima imperfetta) è stato attinto allo spagnolo 
(«chiamasi da gh Spagnuoli Rima assonante, cioè di suono 8 non 
medesimo ma vicino»), E che un altro latinismo, pòcolo, sia di 
provenienza spagnola si vede dalla semantica («bevanda» anziché 
«tazza»), I numerosi latinismi (e grecismi) scientifici coniati come 
abbiamo accennato, nei vari paesi dell’Europa colta, circolano libera- 
mente-. Galileo non avrebbe parlato di selinografia m se già Bacone non 
avesse adoperato il termine (sotto la forma selenographia ). 

La pressione delle voci latine si esercita anche sulla forma di 
parecchie voci italiane, specialmente scientifiche.- anatomia guadagna 
terreno su notomia (anche perché l'agg. è soltanto anatomico ), chirurgo 
è preferito a cerusico e cirugico, clistere vince cristeo o cristero, emorroidi 
e pretento a moroide o morice, ecc. La forma proprio, che corrisponde 
sentori™ latm ° che prop ‘°- si le ese ormai nella maggioranza degli 

Una certa preferenza per le forme latineggianti si scorge nei non 
Toscani: il Manno scrive, per es., ebeno e Africa-, fra oriuolo e orologio i 
Romani preferiscono orologio (v. il glossario citato a p. 434) ecc. 

I grecismi vengono di solito adattati attraverso le forme latine con 
poche eccezioni eh scrittori più eruditi («qualche àvéxSoxa di Pri- 
s ciano»: [Villani], Considerazioni di Messer Fagiano, p. 257; «questa 
ligxu-a da Greci è chiamata roxpo>8ia» : Redi, Annotazioni al Ditirambo 

p. OoJ. * 

19 . Forestierismi 

„ i? 1 T P eriodo di soggezione politica e di scarsa indipendenza 
culturale è ovvio che i forestierismi abbondino nella vita comune 
Alcum scntton li accolgono senza tanti scrupoli, e talvolta lo dichiara- 
si!’ fa COr ^ 6 ran0 ’ 1 conservatori Più rigorosi protestano contro que- 


173 Lingua e cultura, p. 151. 

ira L Oracolo della lingua d'Italia, cit., pp. uo-lll. 

mente *^ e ^H^ SSer;niÌ valuto ^ moIte vocl straniere: ma non già inaveduta- 
i h i? 1 SOn ° parse esser P iù significanti dell’altre, e di maggior 
forza ad esplicar i Concetti delle materie, che io tratto » (G Frachetta/Z 
seminano dei governi, Venezia, 1613, Introduzione). 

n . . Buonarroti il giovane in una cicalata (Prose fior.. Ili, i, p. 28) fa che i 

3£*d™h AccademfH der tf° ? ntmr ? ^ ^ COrte ° masc herato, siano tenuti a 
senno dagli Accademici «che rigorosi, siccome voi sapete, veggon per la loro 


444 


Stona della lingua italiana 


Nella prima parte del secolo continua quell’afflusso di spagnolismi 
che già si era aperto la strada nel ’500 177 . 

Abbiamo, anzitutto, voci concernenti la vita sociale: entra allora, 
nel primo quarto del Seicento, la voce bri o-, abbiamo già ricordato (p. 
474) etichetta-, aggiungiamo paraguanto nel senso di «mancia». 

Citiamo, fra i termini di moda, il guardinfante, introdotto a Napoli 
nel 1631 e cantato da F. Frugoni nel poemetto La Guardinfanteide 
(Perugia 1643) 178 , la marsina, la pastrana, la ciamberga già ricordate, la 
mantiglia, la pistagna, eòe. 

Fra gli oggetti domestici, ecco la posata (nel senso di «posto a 
mensa» e di «strumenti da tavola»), i recipienti di bucchero (o buccheri ), 
allora tanto in uso, lo scarabattolo, il baule, eco. 

Tra i cibi, ricordiamo Yogliapodrida-, si divulga il nome di baccalà, 
prima usato solo in traduzioni dallo spagnolo 179 . 

Si accolgono il cioccolato e le pastiglie. 

Il nome di scorzonera (che sembra a prima vista un composto 
italiano) viene dallo spagnolo escorzonera, catal. escurgonera, perché la 
radice della pianta era considerata un antidoto contro gli animali 
velenosi. 

Numerosi sono anche in questo secolo gli ispanismi riferiti alla vita 
militare: recluta (che lo Spadafora considera parola piana e definisce 
«riempimento, o rifornimento d’una squadra»), borgognotta; ai volteggi 
del cavallo in pace e in guerra si riferiscono caracollo (sp. caraeoi 
«chiocciola»; fig. «volteggio ») 180 e caracollare (caracolear). 

Piuttosto numerosi sono i termini di marina come nostromo (dallo 
spagn. nuestramoì o risacca. 

Fra i nomi di giochi e di passatempi abbiamo la pilotta o pillotta 
(spagn. pelota), la ciaccona e la sarabanda, il gioco dell’omòre ihombre, 
un gioco di carte). 

Lazzarone si diffuse a Napoli al tempo della rivoluzione di Masa- 
niello 181 e divenne ben presto noto al resto d’Italia (mentre guappo ebbe 
più scarsa diffusione). 

Anche termini generali come floscio giungono a imporsi. 

Molti degli iberismi che pine in questo periodo avevano raggiunto 


introduzione andar la lingua per la malora, ed hanno una stizza con queste 
nuove parole regali, viglietti, stipi, gabinetti, bauli...». E il Dati (nel discorso 
Dell’obbligo...)-. «Vada per alcuni moderni che tratto tratto senza bisogno e senza 
grazia infilzano ne' loro componimenti voci prette Latine, Spagnuole, Franzesi, 
Romanesche e Lombarde». 

177 Ricorriamo principalmente ai citati scritti dei Croce e dello Zaccaria lElem. 
iberico ). 

178 Croce, Storia dell’età barocca, pp. 389-390; Nuovi saggi... Seicento, 2* ed., pp. 
247-248. 

178 Zaccaria, Elem. iberico, pp. 39-40 e 429-430. 

180 Già C. Corte, Il cavallerizzo, 1573, ha: «insegnare il caragolo, over lumaca». 

181 Croce, in Arch. trad. popol., XIV, pp. 187-201 (rist. in Aneddoti di varia letter.. 
Ili, pp. 198-211). 


Il Seicento 


445 


una certa circolazione, nei secoli successivi scomparvero. Qualche 
volta si tratta di parole legate a usanze o oggetti poi spariti: per es. 
candiero «bevanda di uova, latte e zucchero» (dallo spagn. candiel ) 
polviglio «droga in polvere», sciotta «polvere che si versava sulla 
cioccolata» (da achiote) (Magalotti), ecc. Altre volte si tratta di vocaboli 
usati per lusso, per eleganza, per scherzo, come amariglio «giallo» 
iManno), ammucciarsi «coprirsi col manto», mogno «crocchia di capel- 
li», lastima «dispiacere», cotorera «pettegola» 182 , corazzane («Forato 
aVe £^7 ,. petto e 1 corazzane»: Lalli, Eneide trav., IV, st. 2), ecc. 

Molti dei termini burocratici erano anch’essi destinati a sparire: per 
es. aiuto di costa «soprassoldo» o stimar preciso, usato nei Gridari 
milanesi nel senso di «ritenere necessario». 

Altre parole si riferivano a persone e cose di Spagna: per parecchio 
tempo tutti conobbero il tipico «mendicante briccone» reso celebre dal 
romanzo (h Mateo Alemàn, Vida del picaro Guzmàn de Alfarache (trad 
ìt. di B. Barezzi, 1615): piccaro, piccaresco, piccariglio. 

La penetrazione degli spagnolismi fu notevole nel dialetto lombardo 
e ancor più forte nel napoletano. In qualche caso, le parole soprawivo- 
no m qualche dialetto: per es. ammuinare, che ha parecchi esempi di 
scrittori secenteschi in lingua, vive tuttora nel napoletano. L’aggettivo 
comparativo masgalano, sostantivato in locuzioni come combattere il 
masgalano, portare il masgalano, e simili, indica tuttora imo dei premi 
del palio di Siena. E deve risalire a quest’età anche papello, papiello 
voce scherzosa per «documento», benché non se ne abbiano esempi 
antichi. 

Qualche voce tedesca o fiamminga penetra in Italia per via 
spagnola (per es. bellicone «specie di bicchiere», attraverso lo spagn 
velicomen). E, per tramite spagnolo o, molto più di rado, portoghese' 
continuano a giungere nel lessico italiano voci americane ( chinachina 
sassafrasso, ecc.) e orientali {mandarino «alto funzionario cinese» ' 
Carletti). 

_ Passando ora a dare un cenno sui gallicismi, notiamo anzitutto il 
tatto che in molti casi l’influenza spagnola e quella francese convergo- 
no.- per es. il significato astratto di carriera o il nome del bompresso (fi- 
beaupre .catal. bauprès, spagn. bauprés ) sono dovuti alla spinta conco- 
mitante delle due lingue. Viglietto, che appare ora accanto a biglietto, 
sembra dovuto alla pronunzia spagnola del vocabolo. Caserma viene 
dalla Francia nella prima metà del secolo, e a Milano troviamo 
parallelamente la forma italiana case berme e quella spagnola casas 
yerrnas, con raccostamento di caseme all’aggettivo ermo {yermo) m . 

L influenza francese, che nei primi decenni del secolo si sentiva 
ancora debolmente, al tempo di Luigi XIV diventa predominante e 
sopravanza di gran lunga quella spagnola, che è in forte regresso. 


182 Lingua nostra, XIII, 1952, p. 56. 

183 Prati, Voc. etim., s. v. ; in Spagna caserma appare solo più tardi (Corominas 
uicc. etim. critico , s. v.). 


440 


Storia della lingua italiana 


Citeremo qualcuno dei principali termini penetrati in italiano in 
questo periodo. Alcuni vocaboli che precedentemente si adoperavano 
solo in riferimento a cose francesi entrano anche nell’uso comune: per 
es. lacchè e gabinetto. 

Per la vita sociale ricordiamo la semantica di obbligante e di 
suscettibile; libertino e libertinaggio nel senso di «libertà di spirito» 18 *. 

Per la moda citiamo anzitutto il termine medesimo di moda, e poi le 
chincaglie, la coccarda, i galloni, l& lingeria, il giustacuore, e aggettivi di 
colore come dorè, gridelino [gridelin, gris de lini, ponsò. 

Dalla Francia si diffonde in Italia l’uso della parrucca, portando a 
un cambiamento di significato del vocabolo, che nei secoli precedenti 
significava in Italia «capigliatura naturale», e passato in Francia vi 
aveva preso il nuovo significato 185 di «capigliatura posticcia». 

Tra i mobili appaiono il buffetto e il canapè; nelle città si hanno le 
barriere. 

Nel campo dei trasporti entrano i termini di convoio ( convoglio ), di 
treno, e di equipaggio (che già nel secolo precedente si era diffuso come 
termine di marina); appaiono, insieme con le cose, i nomi di calesse e di 
sedia rullante o rollante. 

Fra i termini militari citiamo plotone, reggimento, distaccamento, 
blocco, bivacco, tappa, ramparo 188 , decampare, bandoliera. Reparti di 
gendarmi furono istituiti in Piemonte nel 1676. 

Piattaforma compare come termine militare e marittimo-, ricordiamo 
anche l’altro termine marittimo di brulotto. 

Entra il nome di parrocchetto, applicato sia al pappagallo sia a un 
tipo di vela. 

Tra i balli ebbe voga la burè-, nei giochi si cominciano a adoperare i 
gettoni. 

Numerose sono le parole generali: azzardo, contraccolpo, dettaglio 
(Magalotti), rango, rimarchevole, salvaguardia-, se per queste vi è chi fa 
sentire obiezioni, più facilmente attecchiscono i latinismi esemplati sul 
francese, come agire, installare, progettare-, e così pure i calchi di 
locuzioni figurate, come fare il diavolo a quattro (Redi), valer la pena 


184 II Frugoni, Del cane di Diogene, Venezia 1687 segg.. Ili, p. 363, VII, p. 309 
biasima la cosa; il Magalotti, in una lettera del 1690, difende la parola. 

105 Nel 1615 il Marino notava la cosa a Parigi come una costumanza bizzarra: 
«tengono un’altra testa posticcia con capelli contraffatti, e si chiama parrucca » 
( Epist ., I, p. 198). 

Nel 1681 il Redi, scrivendo a Carlo de' Dottori (Opere, IV, Firenze 1731, pp. 112- 
113) dà come normali a Firenze il significato di «zazzera posticcia» e le forme di 
parrucca e parruca-. «Egli è bensì vero, che vi sono alcuni giovanotti leziosi, i quali 
dicono permea per più avvicinarsi all’originale franzese.- imperocché fa loro 
nausea qualsisia cosa che non venga dalla Francia, e che non odori di franzese». 
Ma i timori che questa forma avesse a prevalere risultarono poi infondati. 

188 Ramparo «terrapieno» è accolto da molti, ma respinto da altri (il Redi 
scrive al Magalotti: «Ma perché vuol ella lin una canzone) dire rampari, essendoci 
la voce ripari"?*, lett. 1 marzo 1682-83), e in definitiva non attecchì. 


Il Seicento 


447 


(Magalotti), mettere sul tappeto 187 , ecc., e così anche a meno che, presso a 
poco» 

Ancora si preferisce, di regola, «addomesticare» (Fioretti, Proginn 
IV, prog. 37) i francesismi, cioè adattarli alla fonetica italiana- ma 
cominciano ad apparire con una certa larghezza le parole scritte e 
pronunziate alla francese: il Marino adatta parterre in perterra («vaghi 
.f °* te 0 s . che erbose»: Adone, XI, st. 21) 188 , il Neri [Presa di 
bamimato, V st. 8) parla di fare il rendevosse; ma il Magalotti scrive 
parterre e rendez-vous, e altrove resource, calzoni aux bas roulés, pigliar 
le contrepied, guardare de haut en bas, ecc. 

Molti dei francesismi insinuatisi in questo periodo furono più tardi 
eliminati: alea nel senso di «viale» (Marino) 189 , allianza per «matrimo- 

S5agSotìS n ecc a5rimani (LÌppÌ) ’ buona mina (Magalotti), menageria 

Più ricettivo in confronto delle altre regioni è sempre il Piemonte 

ftftQft * roviam ° già per es. nell’uso burocratico il termine di intendente 
(1896: legge citata dal Rezasco, s. v.). 

Senza confronto meno numerosi e meno importanti sono i forestieri- 

nwvLS™? m Ì t< ^ a J da altre fonti: per es - Patrona e provianda 
(Montecuccoli) dal tedesco, renna dallo scandinavo, musulmano dal 
persiano (già musliman, 1623, in Pietro della Valle), ecc. 

Si conoscono prodotti orientali, come il cacciti, capòc, il ginsèng e 
giunge notizia di alcune costumanze di quei paesi, con i relativi nomi 
per es. palanchino. 

20. Italianismi diffusi in altre lingue 

o P grande prestigio di cui godeva l’Italia del Rinascimento è 
affievokto ma non estmto negli altri paesi d’Europa: continua soprat- 
tutto 1 ammirazione per le opere d’arte antiche e moderne; e aumenta il 
fascino esercitato dalla musica italiana. 

Vediamo, così, numerosi termini d’arte entrati in francese e in altre 
lmgue: attitude «atteggiamento (plastico)» (fr. 1653, ingl. 1668), calquer 
costume («un pemtre qui ignore ce qu’on nomme il costume. »• Fénelon)’ 
coupole (fr. 1666; Fingi, ha cupola già nel 1549), filigrane (fr. 1673; ingl’ 


‘Vorrei ancora che non fossimo tanto dispettosi di non voler ammettere 
CSpr f, SS1 ° t V. oobili cava te dalle lingue straniere, le quali tutti quelli che 
ssmno quelle tali lingue, veggo che vien loro fatto il tradurle nella nostra 
l0F foi 3 a ’ 0 nobiltà - Mi sovviene adesso: mettere un negozio sui 
l^, Ì .’, h Ji Fra u Z ®f 1 11100110 dal tappeto della tavola del consiglio mi pare un 
E 223 ) n ° blle ’ Che 11 n ° Str ° mettere in tavola» (Magalotti, lettera 1677 al RedhI, 

nnJZ/^ adattamenti del Marino sono molto più arbitrari: fusetta per fusée 
5 , Pavé - ohe u Baldelli vede nei francesismi «la novità più 

fort f a9 ^? llessi0 ? de11 Adone» (Atti 2° congr. Studi ital., Firenze 1958, pp. 148-iSl) 
Che troviamo tuttavia ancor vivo nel piem. la lea. 


448 Stona della lingua italiana 

1668- ted. 1688), fresque (1669; Tingi, ha fresco già nel 1548; ted. a fresco 
malen nel 1697), fronton (fr. 1653; ingl. 1698), miniature (fr. 1653; per 1 mgl. 

è registrato un es. fin dal 1586), ecc. . _ . - 

Fra i termini di teatro ricordiamo lo pera (che m Francia tu 
introdotta dal card. Mazzarino verso il 1646; ingl. 1644; ted. 1680); in 
francese entrano anche comparse e virtuose (ingl. virtuoso virtuosa). 11 
tedesco e lo svedese accolgono violiti (che in inglese era entrato già nel 
secolo precedente); l’inglese adagio, grave, largo come termini musicali 

^Tra ’i nomi di maschere che ebbero fortuna all’estero ricordiamo 
Pulcinella (fr. Polichinel, poi Polichinelle-, ingl. Polichinello e Punchmel- 
lo, da cui l’abbreviato Punch). Anche lo Scapin di Molière risale alla 
maschera di Scappino (derivato di scappare). _ .. T 

Comincia a diffondersi il mito del dolce far niente degli Italiani 
(«personne n’est plus touchée que moi du famiente des Italiens»: lettera 
di Madame de Sévigné, 1676). La conoscenza delle feste italiane fa che 
si accolgano il nome della girandola (fr. girandole 1642, ingl. girandolo 
1644) e della regata (ingl. regatta, 1642, fr. régate, 1679). 

Fra i cibi ricordiamo il nome dei sedani, che emigra sotto la torma 
romana di s'elleri (fr. cèleri, 1680; ingl. celery- ted. Sellerie), e quello dei 
vermicelli (fr. vermicelle, 1675, ingl. vermicelli 1669). 

Passano ad altre lingue anche alcuni termini commerciali, come 
agio (fr 1679, ted. 1695), fattura (ted. Factura, 1662; il fr. ha facture m 
questo senso fin dal 1611, e sarà forse da considerare anch esso come 

italianismo), franco (ted. 1695). , . , . . .... . 

Nei paesi tedeschi si diffondono anche alcuni termmi militari 
( Granate , 1616; Kaserm, Kasarm, ancora mantenuto in dialetti bavaresi e 
svevi, mentre altrove prevalse il francesismo Kaseme) e voci riferite ai 
trasporti (Carotze, poi sostituito da Karrossé). 

In lingue più periferiche giungono soltanto ora italianismi già prima 
diffusisi nelle lingue limitrofe: per es. nello svedese entrano nel 600, 
oltre a violin già citato, bandit, altan, gondol, lasarett, bastant. Tuttavia 
molto in questo campo resta ancora da esplorare. 


CAPITOLO X 

IL SETTECENTO 


1. Limiti 

Per Settecento, intendiamo col Croce «culturalmente, a un dipresso 
il secolo che va dall’ultimo quarto del decimosettimo alla fine del terzo 
del decimottavo» 1 Data caratteristica - e che potrebbe essere conside- 
rata come iniziale - è quella della fondazione dell’Arcadia (1690), 
mentre alla fine vanno sottolineate la data della soppressione della 
Crusca per decreto di Pietro Leopoldo (1783) e, capitale, quella dell’inva- 
sione francese (1796). 

A mezzo il secolo, segna un’importante demarcazione Tanno della 
pace di Aquisgrana (1748): da allora la penisola persegue più attiva- 
mente la ricerca d’una migliore vita civile; finché non la getteranno di 
nuovo nel turbine le conseguenze della Rivoluzione francese. 


2 . Eventi politici 

Nei primi decenni del secolo l’Italia è coinvolta in numerose vicende 
belliche, mentre dal trattato di Aquisgrana all’invasione francese si ha 
un lungo periodo di pace. I territori della casa di Savoia si allargano 
fino al Ticino; importante è l’annessione della Sardegna (1718), perché 
la vita amministrativa e culturale dell’isola, che prima si svolgeva in 
spagnolo, si viene orientando, seppur molto lentamente, verso la lingua 
italiana. 

Si estinguono in questo secolo le dinastie dei Gonzaga, dei Farnesi, 
dei Medici, dei Cybo, degli Estensi, con spostamenti dell’assetto 
politico-territoriale. 

Il ducato di Milano e quello di Mantova passano in mano degli 
Austriaci (mentre la Valtellina è tuttora in possesso dei Grigioni). A 
Parma (1731) e a Napoli (1734) si installano due dinastie borboniche. In 
Toscana diventa granduca (1737) Francesco Stefano di Lorena, ma 
l’influenza linguistica francese dei suoi cortigiani lorenesi ha breve 
durata: predomina presto in Toscana l’orientamento politico austriaco, 


1 La letteratura italiana del Settecento, Bari 1949, Avvertenza. 


450 


Storia della lingua italiana 


dovuto al legame matrimoniale fra il Lorenese e 1 asburgica Maria 
Teresa 

Mentre la Lombardia, la Toscana, il Napoletano più o meno 
celermente si mettono sulla via deUe riforme, i vecchi stati non 
dinastici Qo Stato della Chiesa, Genova, Lucca, Venezia) non possono o 
non vogliono accedervi. Genova, impotente a domare 1 ennesima 
insurrezione della Corsica, più pericolosa perché condotta da un uomo 
di forte tempra, Pasquale Paoli, cede l’isola ai Francesi (1768); ma forse ì 
Corsi non avrebbero voltato le spalle alla cultura e alla lingua italiana, 
fino allora esclusivamente predominanti, se non fosse nato m Corsica 
colui che doveva cambiare il volto all’Europa in nome deUa Francia 

Gran parte dellTstria, parte della Dalmazia e dell Albania, le Isole 
Ionie sono ancora in mano della repubblica di Venezia. 

Si risente ormai sui mari italiani il peso dellTnghilterra, diventata 
potenza mediterranea. La guerra d’indipendenza americana (1776-1783) 
suscita echi notevoli; e ben più forti la 

sconquasso comincia con la campagna d Italia di Bonaparte (1796) e 
tutte le sue conseguenze. 

3. Vita sociale e culturale 

Il cosmopolitismo di cui tanti si fanno un vanto vuol dire, in 
sostanza, un riconoscimento che l’Italia ha perduto fi primato culturale 
in Europa e che è necessario mettersi al passo con gli altri paesi 
europei, e soprattutto con la Francia, accogliendone le opinioni e le 
usanze. Ma questa corrente generale tocca direttamente soltanto le 
persone più colte, e in modo tutt’altro che uniforme: agh strati mfenon 
della società ne giunge solo ciò che filtra attraverso le classi colte. 

Il confronto con la situazione della Francia e dell Inghilterra fa 
sentire la scarsa coesione degli Italiani, la mancanza di una capitale, di 

un centro a cui tutti facciano capo 2 . . ■ . .. 

Le divisioni fra stato e stato ostacolano la circolazione delle 
persone e delle idee. Se l’Alfieri vuole «spiemontizzarsi», cioè piena- 


* «La vera accademia è ima capitale, dove i comodi della vita i piaceri la 

fortuna vi chiamino da ogni provincia il fiore di una gran un^arte^deltó 

novecentomila persone si elettrizzino insieme... Ci sarà aUoraun £ lingua 
conversazione- si scriveranno lettere con disinvoltura e con grazia, la lingua 
diverrà ricca senza affettazione»: Algarotti, lettera a Voltaire 6740, ^ Opere, IX. 
on 85-86)* «In Italia ogni provincia ha un Parnaso, uno stile, un gusto, e secondo il 
gk£ dei clima uri plrtito, una lega, un giudizio separato daU’altre.. Mi pareva 
ben dilettevole andar cambiando nazione e costumi cambiando ì cavalli da posta 
e trovare deUa no^tà, ch’è il premio d’un viaggiatore, ad ogni passo. Ma nn 
noiava eziandio il non saper mai dove fosse l’Italia, e dove prenderne giusta 
idea A dire il vero io penso, che se in fatti l’Italia avesse un centro, un punto 
d’unione, sarebbe più ricca d’assai nettarti, nelle lettere e forse nelle : s “ el Sf T ’ 
non qualunque altra nazione...»: Bettinelli, Lettere inglesi , Il (Opere. 1 ed., XII, PP 

157-159). 


Il Settecento 


451 


mente italianizzarsi, nella commedia piemontese II conte Pioletto 
«affiora il senso della lontananza, del distacco e del contrasto verso gli 
abitanti delle altre parti d’Italia. Il Cont Piolett dà un sobbalzo nel 
veder Pippo che fa un gesto come se metta mano alla spada: “Alla 
larga! D’ volte sti italian a pòrto d’ stilet...”» 3 . 

Il razionalismo in vari aspetti (cartesianismo, illuminismo, sensi- 
smo) è la corrente di gran lunga predominante, non solo nei pensatori, 
ma in quelli che li ripetono e li rimasticano. Il metodo sperimentale ha 
il sopravvento sugli attardati peripatetici, e la concezione del mondo è 
prevalentemente naturalistica e razionalistica. 

I miti che dominano il secolo sono quelli della Ragione, della 
Natura, del Genere umano. Viene ora elaborata e penetra nel pensiero 
e nel parlar quotidiano l’opposizione fra ragione e sentimento. 

Alcuni gruppi, fra cui va ricordato specialmente quello del Caffè, 
sono all’avanguardia nel promuovere una cultura fondata sulle «cose» 
e non sulle «parole», che diffonda i «lumi» e faccia sparire gli abusi e i 
pregiudizi. I filantropi intendono il miglioramento sociale soprattutto 
come avviamento al benessere materiale. 

II cattolicesimo subisce attacchi da varie parti: dai razionalisti, dai 
giansenisti, dai giurisdizionalisti-, e un fiero scacco è la soppressione 
dell’ordine dei Gesuiti, a cui il papa deve consentire. Penetra in Italia la 
massoneria, dapprima con prevalenza di fini umanitari, all’inglese; più 
tardi invece con intenti giacobini e attività decisamente filofrancese. 

Le riforme richieste dagli illuministi trovano eco in alto, nei prìncipi 
riformatori: si aboliscono istituzioni e costumanze ormai sorpassate, 
con notevoli progressi nella vita civile, specialmente in Lombardia e in 
Toscana. Mentre per lo più i nobili riluttano, e le plebi assistono 
passive, la borghesia è in ascesa. C’è un accentuato ritorno alla terra, 
con numerose opere di bonifica (Val di Chiana, ecc.) e miglioramenti 
nelle colture. 

Nella vita culturale le Accademie locali continuano a esercitare una 
certa influenza. Ma accanto ad esse è sorta l’Arcadia, che con le sue 
«colonie» adempie per prima il compito di accademia nazionale, 
propagando nelle varie città il suo insegnamento stilistico e il suo 
garbato edonismo. Nella seconda metà del secolo si moltiplicano le 
accademie che mirano all’utilità sociale con studi agrari, economici, 
civili (ricordiamo almeno i Georgofìli, Firenze 1753, e quell’accademia 
di nuovo stile che era la Società dei Pugni, Milano 1761). 

La vita sociale si manifesta vivace nelle «conversazioni» tenute nei 
salotti della nobiltà e della borghesia. Alla divulgazione della cultura 
provvedono numerosi saggi, talvolta in forma di dialogo. E acquista 
sempre maggiore importanza l’opera dei giornali e delle gazzette (nasce 
a Venezia il primo quotidiano, la Gazzetta di Venezia ). 

Con la moda delle raccolte (in occasione di nozze, di monacazioni, 


3 Croce, La letteratura ital. del Settecento, cit., p. 129. 


452 


Storia della lingua italiana 


16 a a aSd?«n tenore LlSSnzenaturaU e sperimentali, in atame 

con^risultari^mpicn^tGal^n, sabbinomeli- 

SS’S'S’S'TSl gli scambi diventano molto 

SSSE*=m 

bovine^. esper im enti aeronautici destano grande curiosità. 

Lkjtt^stranieri 1 viaggiano in Italia, molti Italiam viaggiano e ■ sog- 
• Molt \ Q nwpro Alla curiosità per le cose francesi e inglesi (che in 
gKf^tTp^ s'aggiunge la curiosità per i 

paesi esotici (Cina, ecc.). 

4 La lingua parlata 

colorita: 

Dove la città, la corte, il Inetto in TvjSffie SS3f u£S2 

mediocre correttezza, bno, vanet ® . o a paggio di Calabria, v’ha un 

terra nostra, dalla Novalesa appiè deUAlp sia ^ an d e , sia piccolo, sia 

dialetto particolare, <h cm °g™ ^ P & . costante rnente uso nel suo quotidiano 
nobile, sia plebeo, sia dotto, n . quando accade che qualcuno 

conversare sì nella propria faimfha che ™ s J e ^Xs’ha egU ricorso? Aimè, 
voglia appartarsi dagli altri favellando J1 S P grossa bene! E non s’avendo 
ch’egli toscaneggia quel suo dmlettoana^ossaa p: scrittori, 

fregata di buonora to™*™*** 1 o^ch! senza prototìpo^na lingua tanto 
tapma tmSSTvSL A nelle voi, sì nelle frasi, sì nella pronuncia, che fa 


Il Settecento 


453 


pur d’uopo, sentendola, ciascuno si raccapricci, o abbrividi, o frema, se possiede il 
minimo tantino di quella cosa, che già dissi, chiamata “gusto di lingua” 4 . 

A Roma, basta sentire la «linguacciaccia» che parlano tra loro gli 
Arcadi nel Bosco Parrasio (e poi il discorso devia sulla «lingua oggidì 
parlata e scritta in Roma»), Nelle altre grandi città chi vuol «parlare un 
po’ meno plebeamente del solito» fa un suo «toscaneggiamento di ca’ 
del diavolo». In Francia, anche nei «più bassi individui» «il cianciar 
familiare va molto di rado senza la sua sufficiente porzione di 
proprietà e di eleganza» (p. 335); non così in Italia; dove per di più «chi - 
fa sforzo fuor di Firenze di parlar toscano, come ogn’uom dabbene 
dovrebbe fare... viene considerato dai più un affettato, un tuttesalle, 
uno sputacuiussi» (ivi). In Toscana stessa il popolo, non numeroso e 
non «grande», poco dedito alle letture, è decaduto, e con esso la lingua 
«in guisa tale che il conversar comune di Firenze mi riesce al dì d’oggi 
di ima snervatezza, d’un dolciato, d’un floscio tanto miserabile, da 
vergognarsene un popolo d’eunuchi, se ve n’avesse uno» (p. 337). Ma il 
giudizio che il Baretti dà di questa «linguerella» (p. 338) è evidentemen- 
te ormai un giudizio stilistico-letterario, non linguistico. 

Altre testimonianze sull’italiano parlato ci rimangono, purtroppo 
meno numerose di quanto vorremmo 5 . 

Per la Toscana, il Salvini si lagna della pronunzia bène, tèmpo con 
vocale chiusa, di «alcuni affettatuzzi» fiorentini (nota alla Tancia, I, se. 

4), deplora che magnare tenda a sostituire mangiare (ivi) 6 e che 
fazzoletto, uffiziolo, saccoccia tendano a soppiantare pezzuola, libricci- 
no della Madonna, tasca (nota alla Fiera, III, iv, se. 11). 

Nel famoso scritto che suscitò tante polemiche, il padre Onofrio 
Branda esalta la pronunzia dei Toscani: 

nè mi saziava di pascere... l’orecchio di quel parlare, che in bocca ancora de’ 
famigli degli osti, e de' lettighieri, che ci conducevano, sembravami di tanto 
vincere in dolcezza, in leggiadria e in ogni grazia quel linguaggio pedantesco, che 
sentiva da noi chiamarsi Toscano, quanto più grato e soave il suono d’armoniosa 
cetra, che lo strepito di scordati tamburi 7 . 

A Pisa, l’Algarotti coglieva espressioni del toscano parlato che gli 


4 Scelta delle Lettere familiari. Parte II, 20, p. 332 Piccioni. 

* n Parini, negli «Appunti per il Vespro e per la Notte», nota che ai forestieri 
«le milanesi... rispondono con lingua e pronunzia milanese»; mentre il marito 
d'una dama «ancor fa sonar la pronunzia de’ monti onde scese» {Poesie , ed. 
Bellorini, I, pp. 269, 271). 

Una moda franceseggiante di pronunziare la r con l’ugola e la u come ù è 
biasimata da Carlo Gozzi (cfr. § 13). 

5 II Regali, Dialogo del Fosso di Lucca e del Serchio, Lucca 1710, p. 42, raccosta 
magnare all’oscillazione fra giungere e giugnere-, ma la provenienza di magnare è 
certamente romanesca. 

7 Della lingua toscana. Milano 1759, p. 6. 


454 


Stona della lingua italiana 


sembravano «vive e prette»: cima, (di cavolo), cesto d, insalata, raspìo , 
tramenìo, schioppettìo, ecc. flett. ad A. Nicolim, gennaio 1763) 8 , e 
dell’ Alfieri sappiamo quanto ammirasse e si sforzasse di imitare il 
fiorentino e il senese parlato®. Ma quasi sempre le lodi o i biasimi al 
toscano parlato vanno collegati all’uso che se ne può fare nella lingua 
scritta, e a lodi o a biasimi dati al fiorentino trecentesco, al fiorentino di 
Crusca 10 

Nelle città e nelle campagne del Settentrione e del Mezzogiorno, si 
parla di regola in dialetto 11 : e non soltanto i popolani (Balilla - seppure 
esistè - gridò in genovese e non in italiano la sua frase di incitamento), 
ma anche i borghesi e i nobili: solo eccezionalmente fin presenza, ad 
es di forestieri) la lingua della conversazione è l’italiano venato di 
dialetto 12 -, nelle occasioni più solenni (orazioni, prediche, arringhe e 
simili) predomina l’italiano quale si scriverebbe 13 . 

Non man ca tuttavia qualche notevole eccezione: nei tribunali 
veristi le arringhe si fanno in Un veneto illustre, intermedio tra la 
lingua e il dialetto 14 . 


8 In Lettere filologiche, Venezia 1826, pp. 180-182. 

9 Si pensi, oltre che al sonetto in cui dichiara che «al vago dir che 1 alma Flora 
inonda, - e labro e penna ed anima volgea» (son. «Uom, che barbaro...», II, xxxixJ, 
all’altro notissimo, a proposito del verbo ragnare, su madonna Nera («Che chavol 
fate voi...», II, liv), oppure aUa testimonianza del suo segretario Francesco lassi: 
«Aveva l’ Alfièri ottima pronunzia, parlava fiorentino volentieri... Quando 1 abate 
Caluso veniva in Firenze, 1* Alfieri discorreva con lui talvolta in piemontese, ma 
più spesso e volentieri in fiorentino, e molto si studiava di parerlo quanto alla 
parlata» (G. Barbera, Memorie, p. 87). Il 5 ottobre 1786 egli scriveva all amico 
Mario Bianchi per chiedergli segretario, cameriere e servitore senesi, per non 
trovarsi attorno «altro che pezzi di vocabolario vivi» (Lettere, ed. 1903, cxxii). 

10 Così per es. nel Salvini, passim. 

11 E c’è già chi si rende conto del valore intrinseco di quest uso spontaneo: il 
Parini in polemica con il p. Branda (Prose, I, p. 55 Bellorini) si lagna che 
l’antagonista derida il dialetto (cfr. più oltre, § 9). 

12 Cfr. più oltre il cenno sui dialettalismi (§19). _ 

13 Le prime lezioni universitarie, tenute volontariamente e regolarmente in 
italiano, quelle del Genovesi (1764), erano lette (v. § 8 ). 

14 L’Avvocato veneziano del Goldoni professa di voler arringare col suo 
«veneto stil, secondo la pratica del nostro foro, che vai a dir col nostro nativo 
idioma, che equival nella forza dei termini e dell’espressione ai piu colti e ai piu 
puliti del mondo». E le Tre azioni criminali a difesa, di M. Barbaro, Venezia 1786, 
ci danno una chiara idea di questo «veneto stil»-. « Correo , Compartecipe. 
Provocatori ste parole che per parte del Fisco contesta principalmente elponto in 
auestion, ste parole che ha formà el soggetto della disputa dellEccell. Sior 
Avosador le me permetta, che le analizemo, che cerchemo cossa che le 
significa...» (pp. 41-42). Vedi N. Vianello, in Lingua nostra, XVIII, 1957, pp. 68-73. Il 
Galiani si lamentava che le condizioni a Napoli fossero diverse, e sperava che 
potessero mutare: «Chi sa che un giorno il nostro dialetto non abbia a malzarsi 
alla più inaspettata fortuna: difendersi in esso le cause, pronunciarvisi ì decreti, 
promulgarvisi le leggi, scriversi gli annali e farsi infine tutto > quello che al 
patriotico zelo de’ veneziani sul loro niente più armonioso dialetto è riuscito tu 
fare?» (Del dialetto napoletano, p. 7 Nicolini). 


Il Settecento 


455 


E anche i predicatori, se vogliono farsi intendere dai fedeli, debbono 
tenersi fra la lingua e il dialetto 15 . 

5. Scritti in versi e scritti in prosa 

Si mantiene, in pratica e in teoria, una distinzione assai netta fra gli 
scritti in versi e gli scritti in prosa, attraverso parecchie peculiarità 
grammaticali, lessicali, stilistiche, ammissibili solo nell’ima o nell’altra 
categoria: e i trattatisti considerano che questa distinzione sia una 
dote cospicua dell’italiano, in confronto col francese che non ne ha 
quasi traccia 18 . 

I primi decenni sono dominati dall’Arcadia, la quale ha grande 
importanza per i principii che essa propugnò: la reazione al secentismo 
e quindi all’abuso dei traslati, il ritorno al canone dell’imitazione (dei 
classici e del Petrarca), il culto della perizia formale; ma ancora più per 
l’aver diffuso questo programma fra i letterati di tutta Italia introdu- 
cendo la poesia nel costume sociale. Se non ne nacquero capolavori, ne 
nacque un operare ben concertato, che giovò a ridurre le tendenze 
particolaristiche. 

Fiorisce ora la canzonetta, poesia di ben lieve consistenza, che però 
con l’aiuto della musica può giungere fino al popolo. Nobilitata da 
poeti di maggior respiro, la canzonetta si muterà in ode (e i versi 
sdruccioli favoriranno l’adozione di latinismi). 

Dopo il «rimbombo» del Frugoni e dei suoi seguaci, la poesia 
diventa sempre più largamente «neoclassica», decorosa e ricca di 
allusioni al mondo greco-romano (Savioli, Parini, poi Monti). 

La reazione all’Arcadia scredita nel gusto generale alcuni fra i 
moduli del suo armamentario poetico: certi luoghi comuni mitologici, 
come le caste suore, il biondo Apollo, ecc. 17 , l’abuso di languidi 
diminutivi 18 , e in genere tutte le pastorellerie 19 . 


15 «Già secondo voi, o Becelli, i predicatori non deono in sì perfetta lingua 
italiana favellare per non essere fraintesi dagli uditori...»: così uno degli 
interlocutori del 3 a dialogo di G. C. Becelli (Se oggidì scrivendo si debba usare la 
lingua Italiana del buon secolo, Verona 1737, p. 58) rinviando al 6 a libro della 
Retorica dello stesso Becelli. 

18 Valga per tutti il Parini: «ciò che chiamasi linguaggio poetico, per il quale la 
lingua italiana si distingue cosi notabilmente dalle lingue moderne, e si aggua- 
glia colle antiche greca e latina»: Corso di belle lettere, II, vi (in Prose, I, p. 299 
Bellorini). 

17 Baretti, Frusta, n. XIII: I, p. 351 Piccioni. 

18 «È sciocca e ridicolosa... la presunzione di chi tutto il vezzo di vaga e 
graziosa Poesia in altro consister non crede che nel mentovare... l'erbetta e 
Yagnelletta, le quadretta e la pastorella» (G. B. Casti, col nome arcadico di Niceste 
Abideno, nella prefazione a I tre giulj, Roma 1762, p. xn); «Oltre alle pecorelle che 
pascono l’erbe tenerelle, voi venite via con le rugiadose stille, coi teneri agnellini» 
ecc. (Baretti, Frusta, n. XXTV: II, p. 227 Piccioni). 

19 La parola, com’è noto, è del Baretti di, p. 382 Piccioni). 


450 


Storia della lingua italiana 


I verseggiatori descrittivi e didascalici oscillano fra un certo 
realismo e il gusto delle perifrasi. Nella lirica politica qualche tocco 
realistico si contempera con travestimenti classici 2 ®. E non di rado vi 
appaiono, talora con desinenze italiane, ma per lo più nella forma 

originaria, nomi stranieri 21 . . _ . 

Le traduzioni in versi hanno un’importante funzione mediatrice-, più 
ancora che quelle dalle lingue classiche 22 , quelle dalle lingue straniere. 
Il Cesarotti ricorda quali sforzi dovette compiere per tradurre 1 canti di 
Ossian: 


senza un esempio che mi servisse di scorta, con una lingua feconda sì. ma 
isterilita Anlla tirannide grammaticale, dovetti ricorrere ad imo schermo partico- 
lare ed inventare scorci ed atteggiamenti di nuova specie 23 . 


Il linguaggio teatrale del Maffei IMerope, 1714) presenta un lessico 
poetico sostenuto eppur semplice. Questa semplificazione è massima 
nei melodrammi del Metastasio: il vocabolario poetico è quello tradi- 
zionale ma, allo scopo di riuscire intelligibile a un più vasto pubblico, il 
poeta evita i vocaboli rari ed arcaici; le parole ancora hanno la loro 
importanza, e non sono ridotte, come più tardi avverrà, a semplice 
sostegno per la musica. Non dobbiamo dimenticare 1 immensa fortuna 
che i melodrammi metastasiani ebbero per molto tempo-, ancor oggi 
alcuni lacerti di strofette metastasiane rimangono nell uso comune . 


ao dà del Codano ser f a del golfo di Finlandia) tocco le sponde 


di velivoli abeti ecco le ingombra 
il non pieghevol Mosco, orror del Trace, 
ma, benché stampi il mar di minor ombra 
non è lo Sveco di timor capace. 

(C. C. Rezzonico, «Musa, le spiagge artoe...» 

« «Nella succinta ed elegante stanza oraziana del Fan toni le dissonanze di 
nomi francesi e inglesi - specie inglesi - crudamente allegati, stannoadattestare 
con evidente civetteria, i diritti imprescindibili della realtà unmediataqualeci 
viene da un mondo anticlassico per eccellenza, in seno a una poesia che ha 
gravità d’intenti e classica intonazione. Al Fantoni servi la nomenclatura storica, 
come ad altri Arcadi, Rezzonico della Torre e compagni, servì la peregrm 
nomenclatura scientifica; come ai tanti autori, in quel tempo, di poemi didascali- 
ci servì lo stretto tecnicismo di questa o quell arte; come al Panni, preoccupat 
d'intenti civili e sociali, ma anche come principalissimo tra essi, della restaurarlo- 
M SSSI.ura, serri, tari dogtì affettazione. aue 

Carducci stesso ha in parte già documentato»-. De Lollis, Saggi forma poet., pp. 

105 a Parecchie ne compiè il Salvini, indulgendo alla coniazione di innumerevoli 

Par « E°n “DiSonario di Ossian (Opere, V, tomo IVI raccoglieva alcune lc^uzioni 
più difficili, per lo più perifrastiche: le tempeste dell acciaro per «battaglie», le 
figlie dell'arco per «cacciatrici» ecc. 

« È la fede degli amanti 
come l’Araba fenice: 


Il Settecento 


457 


Agli antipodi del linguaggio armonioso e qualche volta vacuo dei 
melodrammi del Metastasio è quello delle tragedie dell’Alfieri, denso, 
scabro, spiccatamente individuale. 

Nella prosa, avvertiamo anzitutto la minore importanza che hanno 
in questo secolo le opere che aspirano alla bellezza formale in 
confronto con le opere storiche, politiche, economiche, giuridiche, 
naturalistiche: quelle insomma che mirano all’utilità sociale 25 : e si badi 
che anche gli autori di queste opere si chiamano letterati. 

Questa attività si svolge in tutta l’Italia-, ma con particolare 
intensità nell’Italia settentrionale e a Napoli. 

Il vacuo scintillare della prosa secentesca è abbandonato, ma c’è 
chi mira al Trecento (come molti Napoletani, fra cui il Vico), chi al 
Cinquecento (come il Muratori). Il Baretti, sempre estroso nella scelta e 
nella coniazione delle parole, serba un sentore delle sue giovanili 
esercitazioni bernesche. 

In tutti si fa sentire, man mano che ci si inoltra nel ' secolo, 
l’influenza francese; anche quelli che se ne vorrebbero difendere 
riescono magari a evitare i francesismi lessicali, ma accolgono i periodi 
brevi e la costruzione diretta. 

Sintomatico è il caso dell’Algarotti, sensibilissimo alla spinta delle 
mode: attraverso le sue stesse dichiarazioni e attraverso le tre stesure 
del Newtonianismo vediamo le varie fasi attraverso cui passò: allievo 
dapprima dei cinquecentisti, poi sedotto «dalla disinvoltura oltramon- 
tana e dal fantastico degli oltremarini» 26 , più tardi diventato «sollecito 
della proprietà» studiando i trecentisti (ivi), ma insomma sempre 
fautore del principio che «chi dice... delle cose utili e buone alla civile 
società, può fare senza le belle parole» 27 . 

Alla fine del secolo predominano ormai i colori preromantici. 

La storiografìa va diventando opera di erudizione anziché esercizio 
oratorio: basti ricordare il nome del Muratori. E abbondano le opere 
antiquarie, e in genere, di erudizione. 

La lingua forense è di solito assai barbara, per abbondanza di 

dove sia nessun lo sa. 

( Demetrio , II, se. 3) 

Passò quel tempo, Enea, 
che Dido a te pensò. 

(Didone abbandonata, II, se. 4) 

Se a ciascun l’interno affanno 
si leggesse in fronte scritto, 
quanti mai che invidia fanno 
ci farebbero pietà. 

(.Giuseppe riconosciuto, parte I) 

25 «Sono oggimai mancati quei pochi che qui facevan professione di seguitar 

le Muse... Tutto ci è diventato politica e filosofia»: così una lettera del Parini del 
1768 (Prose , II, p. 161 Bellorini). . 

26 Lettera a F. M. Zanotti, 10 die. 1752, in Opere, IX, 251 (e in Lettere filol., cit., pp. 
116-117). 

27 Lettera a Antonio Zanon, in Lettere filol., cit., p. 186. 


458 


Storia della lingua italiana 


latinismi e di termini tecnici e per complicatezza di subordinazione* 8 ; 
collegata com’è con le consuetudini e le legislazioni dei singoli stati, 
presenta notevoli varietà di termini nei diversi luoghi 2 *. 

Un nuovo campo di attività è quello dell’economia; negli scrittori di 
questa disciplina è sensibile lo sforzo per superare la lingua tradiziona- 
le, con i suoi periodi complessi e il suo lessico generico, mirando a un 
linguaggio concreto e preciso, piano e accessibile 30 . 

Si scrive largamente di ogni genere di scienza e d’ogni ramo di 
tecnica, con concreta aderenza alle mille cose di cui si tratta. I 
naturalisti mirano alla semplicità e alla intelligibilità, lasciando da 
parte le «pompose descrizioni e le frasi ricercate e turgide» 31 . D’altron- 
de, il linguaggio scientifico non ha ancora quella concisione a cui 
giungerà più tardi 32 , né è così staccato dal linguaggio letterario da non 
permettersi alcune eleganze 33 . 

Il Vallisnieri, il Cocchi, lo Spallanzani hanno pagine di prosa 
scientifica scritte con gusto d’arte. I tre eleganti dialoghi di F. M. 
Zanotti Della forza dei corpi che chiamano viva (Bologna 1752) si 
ricollegano alla tradizione dei dialoghi galileiani, mentre il Newtoniani- 
smo dell’Algarotti si richiama piuttosto al Fontenelle. 

La co mm edia ha scarso vigore: e la causa ne sta soprattutto nella 
mancanza di una lingua della conversazione valida per tutta l'Italia 


23 Valga come esempio un passo in linguaggio curiale napoletano del 1717: 
«fare la causa prò ut de jure con processo e recognitione del carattere di detto 
biglietto, usque ad sententiam diffinitivam inclusive, precedenti le trine pubbli- 
che citazioni ad comparendum» ( Critica , XXXV, p. 472). Nel Dialogo fra un 
Mandarino chinese e un sollecitatore di P. Verri (nel Caffè, tomo II, p. 39), il 
Sollecitatore si esprime così: «Questi due punti brocardici sono: il primo per 
vedere se il maschio dalla femmina debba essere preferito nel fedecommesso in 
concorrenza d’un estraneo; l’altro è per fare la graduazione d’un concorso fra i 
chirografari e gl’istromentari, e distinguere la poziorità, e liquidare le doti e i beni 
vincolati...»; e il Mandarino non capisce. 

29 Mentre, come abbiamo visto, nel fòro veneto le arringhe si tenevano in 
veneto illustre, le sentenze sono in italiano, naturalmente con qualche termine 
speciale: nelTAwocato veneziano del Goldoni la sentenza è di questo tenore: 
«Omissis etc. Consideratis considerandis etc. Decretò e sentenziò, e decretando e 
sentenziando tagliò, revocò e dichiarò nulla la donazione fatta dal fu Domino 
Anseimo Aretuso a favore di Domina Rosaura Balanzoni...». 

30 A. M. Finoli, «Osservazioni sulla lingua degli economisti italiani del 
Settecento», in Lingua nostra. Vili, 1947, pp. 108-112. 

31 G. Santi, Viaggio per le due provincia senesi, Pisa 1798, pp. 4-5 (cit. da F. 
Rodolico, La Toscana descritta dai naturalisti del Settecento, Firenze 1945, p. 11). 

22 «In questo mese (agosto 17781 il caldo è stato grandissimo... e nel 18 fu il 
maggiore, essendo asceso lo spirito di vino nel termometro di Reaumur a gradi 
31 ‘A sopra il segno del gelo»: G. L. Tilli (ap. F. Rodolico, La Toscana, cit., p. 213). 

33 «Pare che il confine posto dalla natura alla pietra, sia anche quello 
prescritto dall’arte a una piena ed estesa regolare coltivazione. Tutto infatti 
verso Trespiano è nel più florido stato di cultura; non vi è angolo di terreno, che a 
Cerere, a Bacco, a Pomona non sia consacrato»: V. Chiarugi, «Osservazioni 
georgiche», in Atti Acc. Georgofili, V, 1798 (ap. F. Rodolico, La Toscana, cit., p. 129). 


Il Settecento 


459 


tefr. § 4). Le commedie del Fagiuoli, del Gigli, del Nelli hanno il solo 
pregio della toscanità; a quelle del Goldoni manca - diversamente che 
nelle sue commedie in dialetto - la spontaneità. Nella prefazione alla 
prima raccolta delle sue commedie (1750) egli afferma di non essersi 
fatto «scrupolo d’usar, molte frasi e voci Lombarde» (= italiane 
settentrionali) «ad intelligenza anche della plebe più bassa» delle città 
settentrionali in cui si dovevano rappresentare; quanto allo stile ha 
cercato che fosse «qual si conviene alla Commedia, vale a dire 
semplice, naturale, non accademico ed elevato» a, p. 773 ed. Mondado- 
ri). Malgrado 1 affiorare di molti dialettalismi 31 e di forme letterarie rare 
e pedantesche 35 , egli riesce a infondere anche nelle commedie il suo 
mirabile senso del «parlato» 30 . 

Le traduzioni dal francese sono innumerevoli e per quantità supera- 
no di gran lunga quelle da qualunque altra lingua. Ve ne sono di ogni 
genere, dalla letteratura amena ai testi di scienza, e certo contribuirono 
molto a divulgare costrutti e vocaboli di provenienza francese. 


6. Discussioni sulla norma linguistica 

L’elaborazione di un nuovo gusto linguistico generale è estrema- 
mente faticosa, né quegli stessi che disputano intorno alla norma 
linguistica si rendono sempre conto dei-carattere ideale di essa norma 37 
e dell ampiezza dei mutamenti che si vengono preparando. 

Fermiamoci un momento a indicare i punti su cui più si discusse 38 . 

La disputa principale è tra i fautori e gli avversari dello «scriver 
toscano» (cioè del toscano trecentesco, quale si presentava principal- 
mente nel Boccaccio ed era codificato nel Vocabolario della Crusca, 
uscito intanto nella sua quarta edizione, 1729-1738). 

Malgrado l’azione restauratrice dell’Arcadia in favore del principio 


34 P. es.: «a poco a poco si andò smarrindo » flett. 2 maggio 1752), «non posso 
vedere; a penar nessuno» Unnam., I, 2); ecc. 

* * >er es - *J a dispiacenza che in casa mia originata siasi rinfermità del 
vostro cuore» (Un curioso accidente, I, se. 8); «Non mi eccitaste voi a ritornar daUa 
zia, dicendomi che colà sarebbesi introdotto il signor tenente?» (ivi IH S c 5> 
«Dove mai saranno eglino andati?» (Pamela mar., II, sc. 8); «Vadasi a precipitar 
quest indegni» (ivi. III, sc. 6); «Vi tomo a dire che io non amo donna veruna» (Il 
bugiardo I, se. 7); «un fazzoletto di seta, che era l’unico mobile che m’era restato» 
Ut poeta fanatico, I, sc. 8); ecc. 

o ?» ^°^ ena ’ es P er i® nza linguistica di C. Goldoni», in Lettere ital., X, 1958, 
PP* 21*54. * 

31 Importante, a questo riguardo, un passo del Parini: «da lingua nobile 
comune italiana! è deposta... nel complesso delle buone scritture; essa adunque 
nella sua essenza, non depende più punto dall’arbitrio del popolo: ella è fìssa, ella 
e, per questa parte, della natura di quelle che chiamansi ‘morte’» ( Corso di belle 
lettere, parte II, cap. vi). 

Si consulterà utilmente la ricca antologia di Discussioni linguistiche del 
Settecento curata da M. Puppo, Torino 1957 . 


460 


Storia della lingua italiana 


di imit azi one, molti si domandano perché l’imitazione debba volgersi a 
scrittori così remoti e disformi dal gusto dominante fi toscanismo 
interessa per due aspetti, quello lessicale (gli arcaismi dei duecentisti e 
trecentisti e la possibilità di adoperarli ancora) e quello smtattico 
(complessità e lunghezza dei periodi, ordine mverso spesso seguito dai 

tfe Altro punto molto controverso è quello dei francesismi. Si parte da 
uno stato di fatto, che è la fortissima penetrazione nell uso comune 
(parlato e scritto) di forme e costrutti francesi. Contro questo consenso, 
assai largo e non ragionato, muovono, alcuni valentuommi: non v è, 
invece si può dire, chi prenda esplicitamente posizione in difesa dei 
francesismi. Ma i risultati definitivi furono in complesso contrari ai 

^'Nell’Italia meridionale, la scuola di Lionardo di Capua, a Napoli, 
aveva suscitato un largo movimento filotoscano. In conseguenza di 
esso narra il Galiani 39 , «fu risoluto abbracciar con fervore, non già il 
comune italiano, ma il pretto stringato idiotismo toscano...; tutti si 
dettero a rivoltar vocabolari, grammatiche, regole di ben Parlare 
toscano». A questa corrente si devono il trattato di Niccolò Amenta, 
Della lingua nobile toscana, Napoli 1724 46 e la ristampa di alcuni autori 
trecenteschi e degli Avvertimenti del Salviati (Napoli 1712); ad essa si 
deve anche una forte spinta all' atteggiamento che Giambattista Vico 
ebbe verso il Trecento 41 . «L’eruditissimo signor Lionardo da Capova 
dice il Vico (Autobiografia , p. 21) - avea rimessa la buona faveUa 
toscana in prosa, vestita tutta di grazia e di leggiadria...*. Nella 
«necessità» che egli sentiva «di farsi una spezie di favellare sua 
propria» (Autobiogr ., p. 227) il Vico ricorre studiatamente, oltre che ai 
latinismi, alle voci trecentesche quali parole dell età «eroica» della 
lingua «Di qui il carattere particolare del purismo vicinano, che non è 
soltanto il purismo di L. di Capua e di N. Amenta, ma il purismo di uno 
spirito rivolto al passato e desideroso di serbarne nella sua pagina la 
voce» 42 . Di qui l’uso di parole arcaiche come appellagione, assemprare , 
avacciare, avolio, calogna, calognare, danaio, negghienza, ecc.; di qui le 
correzioni che il Vico fece nella Scienza nuova, prima e che passarono 
poi nelle successive: egli muta anatomia in notomia, delicato m 
dilicato magistrato in maestrato, proprio in propio ecc. . 

Questa studiata ricerca di flosculi trecenteschi non andava a gemo 
a un cruscante come A. M. Salvini, il quale si lagna di alcuni 


38 Del dialetto napoletano, ed. F. Nicolini, Napoli 1923, pp. 197-198 (si tengano 

presenti le ricche note). »... 

40 Niccolò alla toscana, si noti, non Nicola. 

« Fra i dotti napoletani di quegli anni, si nbeUava mvece alla Cmsca il 
Giannone come si ricava da un libretto di Osservazioni Ccfr. Clan, m Bibl. delle 
scuole italiane, agosto-sett. 1900). 

42 M Fubini, Stile e umanità di Giambattista Vico, Ban 1946, p. 122. 

43 Scienza nuova prima, ed. F. Nicolini, pp. 333-334, Fubini, op. at, pp. 122-123. 


Il Settecento 


461 


Napolitani del suo tempo che «vorrebbero la Lingua Toscana, Lingua 
morta, per non avere la pena di studiare, se non i Libri d’un solo 
secolo», senza considerare che l’affettazione è sempre vizio; e che 
«Sallustio fu criticato come affettatore di voci antiche» 44 . 

In Toscana stessa i lucchesi D. A Leonardi e M. Regali, nel Dialogo 
dell’Amo e del Serchio e nel Dialogo del Fosso di Lucca e del Serchìo, 
Lucca 1710, disputavano sull’autorità della Crusca intorno a vari punti 
di ortografia (pruova, esercizzi, giugnere, ecc.); e un Senese litigioso e 
bizzarro, Girolamo Gigli, moveva in guerra contro la Crusca con il suo 
Vocabolario Cateriniano (1717 segg.). Egli accusava l’Accademia, che 
aveva accolto tante voci fiorentine antiche, di aver invece trascurato 
affatto le opere di S. Caterina da Siena, pure includendola ira gli autori 
citati 45 . 

Nell’Italia settentrionale, il veronese G. C. Becelli precorre il Cesari 
domandandosi in cinque dialoghi Se oggidì scrivendo si debba usare la 
lingua italiana del buon secolo (Verona 1737), e conclude che «quasi- 
mente tutti al dì d’oggi nelle rime imitano la lingua de’ maggiori nostri; 
dunque si dee altresì nelle prose la lingua de’ maggiori nostri imitare». 

In quell’anno stesso, un avvocato veneziano, G. A. Querini, ci 
testimonia che «il Secolo, com’è delicato nel lusso, così lo è anche nelle 
lettere-, vuol Crusca, vuol stile, vuol quel che mal sa di volere» 46 . 

Satireggia questa voga la scipitissima tragicommedia attribuita a 
B. Marcello, Il Toscanismo e la Crusca (Venezia 1739), la quale mette in 
scena Cruscanzio, Seicentuccio, Neutralio e Anticrusco, che rivaleggia- 
no per ottenere la mano di Cruschetta figlia di ser Toscanismo: il 
simulacro del Boccaccio finisce poi col dar ragione a Neutralio... 47 . 

Altri coltivano piuttosto i cinquecentisti: secondo ima lettera dell’ Al- 
garotti (15 maggio 1747) «quella divozione che era una volta nelle classi 
di filosofia verso Aristotele, pare che sia presentemente passata nelle 
classi di grammatica e di rettorica verso il Bembo e quella scuola». 

In parecchie lettere ad amici l’ Algarotti si sofferma sulle tendenze a 
cui egli medesimo obbedì, e che si rispecchiano nelle tre redazioni del 
Newtonianismo (cfr. p. 457). Rispetto alla Crusca, il suo atteggiamento 
rimase sempre sostanzialmente ostile, come si può vedere da molte 
allusioni delle sue lettere 48 . 


44 L. A. Muratori, Della perfetta poesia, Annot. di A. M. Salvini, Venezia 1730, 
II, p. 136. 

45 Migliorini, in Lingua nostra. II, 1940, pp. 73-80 (rist. in Lingua e cultura, pp. 
167-189). 

46 G. A. Querini, Il foro all’esame, Venezia 1737, Prefazione. 

47 II Goldoni nel Torquato Tasso (1755) mette in scena un Cavalier del Fiocco 
cruscante che imperversa con locuzioni fiorentine (far celia, tornare a bomba ) e 
con voci arcaiche (per es. utole «utile»); nella prima redazione dell’/mp resario 
delle Smime (1760) ima certa Lucrezia affetta espressioni fiorentine che vengono 
spiegate (c’è di nuovo celiai. 

48 V. specialmente quella a F. M. Zanotti del 2 marzo 1764 (.Opere, X, pp. 203- 
220; anche in Lettere filol., pp. 204-217). 


462 Storia della lingua italiana 

Anche l’oratoria forense e quella ecclesiastica andavano volentieri 
a cercar fronzoli nei Toscani del Trecento e del Cinquecento. 

Il Baretti fletterà a C. A. Tanzi del 19 aprile 1758) attribuisce il 
toscaneggiare di alcuni ecclesiastici alla loro vanità: «Non senti tu que’ 
loro vocaboli cruscantissixni? quelle loro frasi cinquecentesche? que’ 
loro bei periodi alla certaldese?». Si senta come satireggia il Bettinelli 
tali predicatori: 

Altri, la guancia 

polita sempre e sempre crespo il crine 
leggiadramente in numero comparte 
l’intinte in Arno parolette accorte 49 ; 

e più severamente il Mascheroni: 

Altri ha studiato in un decennio intero 
chi ha molta feccia in pure frasi accolta, 
di Certaldo e d’Etruria onor primiero; 

e fa di fiorentin motti raccolta, 

e 1 pan celeste adulterando incrusca 
all’orrevol brigata, che l’ascolta. 

Ammiro la leggiadra lingua etnisca; 
biasimo quel noioso infrascamento 
che ogni pensier d’ignote frasi offusca. 

Il gran Vocabolario ogni momento 
squadernar converria per risapere 
del Vangelo che corre il sentimento 30 . 

Il milanese p. Onofrio Branda, nel dialogo Della lingua toscana 
(Milano 1759), dopo aver lodato l’uso vivo toscano (cfr. la citazione a p. 
453), proclama la necessità di evitare gli arcaismi, e sceglie a modello 
per la prosa due cinquecentisti assai vicini all’uso vivo: il Casa e il 
Caro 51 . 

Ma l’opposizione più radicale al culto del Trecento e alla Crusca 
proviene dal gruppo illuministico milanese. Alessandro Verri fa nel 
Caffè (luglio 1764) la sua «solenne rinunzia alla pretesa purezza della 
toscana favella » dichiarando la sua ostilità ai «riboboli noiosissimi» 
(tomo I, pp. 30-31F; e altri articoli suoi ed altrui gli fanno eco 53 . 


49 Versi sciolti di tre eccellenti autori, Venezia 1758, poemetto IX. Altrove (nelle 
Raccolte, c. II, st. 60-61) il Bettinelli se la prende con quelli che danteggiano (v. § 18). 

50 Nel sermone Sopra la falsa eloquenza del pulpito, 1779, v. 175 segg. 

51 La lunga polemica che il dialogo suscitò (e a cui partecipò, come si sa, il 
Parini) fu principalmente dovuta all’ostilità manifestata dal Branda verso i 
dialetti, specialmente il milanese. Cfr. G. Salinari, «Una polemica linguistica a 
Milano nel sec. XVIII», in Cult, neol., IV-V, 1944-45, pp. 61-92. 

52 II titolo dell’articolo è Rinunzia avanti Nodaro degli Autori del presente 
Foglio periodico al vocabolario della Crusca (nell’errata corrige del tomo I Nodaro 
è corretto in Notaio). 

53 Tuttavia in una lettera del 1768 manifestava una certa resipiscenza-, «se il 


Il Settecento 


463 


rill JV I Q tro , fier ° oppositore è Giuseppe Baretti, in vari dei suoi scritti su 
quefla che dovrebb’essere la norma della lingua 54 II suo S 

• S ^° n ì Sl ^H e a ^T e europee che conosceva, l’influenza dei suoi 

non si * 

letteraria * H n el°f«?to CÌ ^ ent °i, della essenziale toscanità della lingua 
- . r f na ’ •? ., fatto che a Firenze si parli un dialetto più elefante * 

sSivono^ì t\r° n v 8U *f e ? sce di biasimare i Hor?ìtiS |Sn d o 
’ , e d 1 scagliare alla Crusca frecce non meno acute di omelie 
che a piu riprese scaglia all’Arcadia; Secondo il Baretti il Vocabolario 
1? io™ ^«stomachevoli vocaboli e modi di dire, parte tratti da mo7S 

di Ffren^ffrS 8 n°XVIIh etÌ ’ ® P u rte raCColti ne ’ chiassi e lupanari 
; ^ n ’ XVIIIJ ; e sso ha una vacua ricchezza di narrile 

o sconcS^ha^troOS^vSaboli 6 ^ 0 V S i ’ ?- troppo specificamente locali, 
.. . ’ a troppi vocaboli duphcati o magari triDlicati Crome 

Abadessa abadessa, badessa). La Crusca ha il torto di mescili 

bocche^aSOlle^nt- 010 ^ paroluzza che es ce attualmente dalle 
tenti mo ^ d . ge tl ’ ma smo og m minimo ette trovato in que’ loro 
tanti meschinissimi scrittorelli». E l’ammirazione che n™ „ ° 

va I 0t,e CCa r emÌCÌ hanno Pestata al Boccaccio ha avuto per conseguen- 

Sè* S s S, SUa ?° lpa ? erò - è s,ato la rovHTdetaSa 

a nana, anzi è stato la cagione prunana che l’Italia non ha ancore uno 
togua buona ed universale»: «l’artificiale carat&re SS Sel BocSS 
eoe di altri antichi scrittori fa sì «che non v’è stato e non vi sarà modo 
n. XXV) leggere uruversalmen te e con piacere al nostro popolo» [Frusta, 

R P Baretti motiva in vario modo il fatto da lui tanto rimproverato al 
ne’ wfr? 6 ^t^ antichi, di «non seguire l’ordine naturale delle idee 

lingua ticanàl 1 Sri )* IV \? ra ne dà la col P a afl’«indole della 
ungua toscana» (ivi), ora, piu correttamente, all’influenza latina 56 


2 C pe£%Tn?o eÌ C n h e e U n ° n traduce , sse mio la Rinuncia 
cattivo tonò, e beerebbe pSgarie ^Produzioni tutte regna un 

Ìnq - e sfvSa UCÌtà ' ^ ^ traspare» [Carteggio I n p 2 ^°™ ® da ma CGrta 
n. XVIII 57 - 6 B P^Hnnn la If*?? al «Signor Filologo Etrusco» neUa Frusta, 

nell’Accademia della Crusca il % elio * ce] ? a Aristarco Scannabue da recitarsi 
XXV ai dd jy 30 * 1 adl che sarà ricevuto accademico», nella Frusta n 

v ui. pp. 252-262). Cfr. anche, sugli arcaismi, il § 18 ’ 

comporre opereTMoTtr^^' P^icolare quando si fanno a 

della provincia loro tnL Gibbóne SS ln , questo o m queU’altro dialetto 

PkSonD. C ° Sa dÌ PÌÙ ° he n0n t0SCan ° ° fìoren ttao» e tfre/^Fonie potm°?L d p S iII 

ZSfc'SSZZ'JttSSX 


464 


Storia della lingua italiana 


Il Settecento 


465 


Al toscano parlato, al «bell’idioma», si era volto l’ Alfieri fin dal 1776 
nella sua strenua ricerca tecnica per avvezzarsi «a parlare, udire, 
pensare e sognare in toscano» (Vita, IV, 2); e alternò letture di classici e 
osservazioni sulla lingua viva 57 . 

Quasi tre anni dopo il decreto di Pietro Leopoldo che aboliva 
l’Accademia della Crusca (v. § 7), l’ Alfieri componeva a Colmar, il 18 
marzo 1786, il noto sonetto: 

L’idioma gentil sonante e puro, 
per cui d’oro le arene Amo volgea, 
orfano or giace, afflitto, e mal sicuro-, 
privo di chi il più bel fior ne cogliea. 

Boreal scettro, inesorabil, duro, 
sua madre spegne; e una madrigna crea 
che illegittimo ornai farallo e oscuro, 
quanto già ricco l’altra e chiaro il fea. 

L’antica madre, è ver, d’inerzia ingombra, 
ebbe molti anni l’arti sue neglette: 
ma per lei stava del gran nome l’ombra. 

Italia, a quai ti mena infami strette 
il non esser dai Goti appien disgombra! 

Ti son le ignude voci anco interdette! 

Non si può dire che il sonetto contenga un’accettazione del punto di 
vista dei Cruscanti 58 , bensì un accorato rimpianto per un nobile edificio 
vandalicamente demolito. 

L’antirigorismo trova il suo più tipico rappresentante in Melchior 
Cesarotti. Nel 1785 uscì a Padova un trattatello saldamente concepito 
che ebbe larga eco, il Saggio sopra la lingua italiana, ristampato poi 
nel 1800 con il nuovo titolo di Saggio sulla filosofia delle lingue e 
1’aggiunta di alcune note. 

Il trattato, breve e concettoso, mirava soprattutto a rompere certi 
vieti pregiudizi e a rendere la lingua «saggiamente libera». Il primo e il 
secondo libro costituiscono un trattatello di linguistica generale-, nel 
terzo l’autore considera più dawicino le condizioni italiane. «La lingua 
scritta - egli dice (III, 3, 4) - dee considerarsi come il dialetto particolare 
d’una nazione non ristretta a veruna città, ma diffusa per ogni parte 
d’Italia, nazione composta dal fiore degli uomini colti delle diverse 
provincie, che si regge a repubblica, che ha per tutto gli stessi principi 
regolativi, e la di cui libertà non riconosce altri vincoli che quelli della 
ragione». «L’uso fa legge, qualunque siasi, quando sia universale e 
comune agli scrittori e al popolo..; Ma se una nazione separata in 
diverse provincie, senza ima capitale ch’eserciti veruna giurisdizione 
monarchica sopra le altre, avrà un dialetto principale e una lingua 
comune, l’uso anche generale del dialetto primario non potrà dirsi 


57 V. gli Appunti di lingua pubblicati da C. Jannaco, Torino 1940. 

“ E del resto, nella satira «I pedanti», l’Alfieri deride Don Buratto: «Ed io gliel 
dico, che il verbo vagire - non è di Crusca...». 


autorizzato dal consenso della nazione, e accolto nella lingua comune» 

fili, il, 1). 

Dimostrato che l’Italia deve «affrancarsi per sempre dalla gabella 
delle parole bollate come gl’insurgenti d’America si affrancarono da 
quella della carta» (IV, 13), e quindi rifiutare l’ossequio al Vocabolario 
della Crusca, finisce col proporre un Consiglio nazionale della lingua, 
in cui all’Accademia fiorentina si affianchino dei Consigli provinciali, e 
tutti insieme risolvano le questioni attinenti alla lingua, per «depurare 
e accrescere l’erario di essa e mantenerla in imo stato di giudiziosa 
libertà e di sana e florida vitalità»; Si sarebbe dovuto compilare un 
grande vocabolario fondato su nuovi principii. Fra l’altro, ove si fosse 
osservata la mancanza di un vocabolo per esprimere un dato concetto, 
si sarebbe dovuto scegliere tra i vari termini dialettali «il più chiaro, il 
più comune, il meglio dedotto, il più espressivo, il più conveniente». 

Fu osservato che così si tornava a un’altra «gabella», se pur più 
ragionevole e moderata. Ma è anche vero che fin che non si fosse 
formato naturalmente, in tutta l’Italia, un uso linguistico vivo, era bene 
cercare di promuoverlo, sia pure per via accademica. 

Le maggiori critiche vennero al Cesarotti per il suo atteggiamento 
rispetto al francesismo. Benché a più riprese egli si pronunzi contro 
l’afflusso di tanti francesismi mutili, benché egli trovi che il seguir 
troppo dawicino il gusto francese nella costruzione diretta dei periodi 
rende la lingua soverchiamente logica 58 , pure l’illustrazione dei princi- 
pii secondo i quali un popolo che riceve da un altro alimenti di pensiero 
ne riceve anche parole, sembrò un’approvazione data a ogni licenza 60 . 

Contro il Cesarotti è principalmente rivolto il trattato Dell’uso e dei 
pregi della lingua italiana (Torino 1791) del conte Gianfrancesco 
Galeani Napione, il più noto tra i letterati che partecipavano alle due 
Accademie torinesi dette la Sampaolina e la Filopatria 81 . L’opera è 
principalmente rivolta a far adoperare Vitaliano in luogo del latino e 
del francese per tutti quanti gli usi: ma non vi mancano considerazioni 
sia contro il lassismo del Cesarotti, sia contro l’Accademia della 
Crusca, che «si pretese di esercitare la più dura tirannide che mai si 
fosse». 

Altro fiero avversario del lassismo è Carlo Gozzi, il quale aveva 
fondato l’Accademia serio faceta dei Grahelleschi per «tener fermo lo 
studio in su gli antichi maestri, ferma la semplicità e l’armonia 
seduttrice dell’eloquenza sensata, e ferma scrupolosamente la purità 
del nostro litterale linguaggio» 62 . Queste sono le idee fondamentali 


50 Tuttavia il Cesarotti è anche più severo contro le trasposizioni di tipo 
boccaccesco (cfr. Viscardi, art. cit., p. 214). 

60 II Saggio va integrato con i Rischiaramenti apologetici e con la lettera al 
Napione (Opere, I, pp. 158-197 Ortolani). 

61 Sull’attività filologica delle due accademie, v. C. Calcaterra, Il nostro 
immininente Risorgimento, Torino 1935, pp. 447-519. 

“ Memorie inutili, parte I, c. xxxin. 





466 Stona della lingua italiana 

della sua Chiacchiera intorno alla lingua litterale italiana e dei 
Ragionamenti sopra una causa perduta, che rimasero a suo tempo 
inediti 63 . 

Sulle polemiche suscitate dall’irruzione dei gallicismi, ci soffermere- 
mo più oltre (§ 10). Queste discussioni sulla norma da tenere in fatto di 
lingua (toscanismo e antitoscanismo, simpatia o antipatia verso l’arcai- 
smo, rigorismo o lassismo nell’accogliere termini nuovi, specialmente 
francesi, ecc.) naturalmente non si presentano sole, ma legate a 
problemi stilistici (Arcadia e Antiarcadia, frugonianismo o no) e 
culturali (espandersi delle scienze e nascita di nuovi termini scientifici); 
ma in sos tanz a le dispute ci rivelano quanto profondi erano i dissensi 
fra quelli che erano meglio in grado di riflettere sul passato e l’avvenire 
della lingua italiana, quanto grave insomma era la crisi di essa. 

7. Grammatici e lessicografi 

I grammatici e i lessicografi, per lo più legati a concezioni rigida- 
mente conservatrici, presentano assai scarse novità. 

In mezzo a numerose compilazioni trascurabili notiamo le due 
grammatiche di Girolamo Gigli, l’anticruscante: Regole per la toscana 
favella, Roma 1721, e Lezioni di lingua toscana, Venezia 1724, la prima 
in forma di dialogo, seguita da alcuni esercizi in cui sono corrette le 
espressioni errate o discutibili, e da un repertorio ortofonico, la 
seconda in forma di trattato, con i medesimi esercizi. I due volumi di N. 
Amenta, Della lingua nobile d’Italia, Napoli 1723-24, discutono minuta- 
mente problemi grammaticali e lessicali, con principale riguardo al 
fiorentino trecentesco. D. M. Manni tratta di molti punti grammaticali 
e retorici controversi (con discussioni su passi di scrittori, lezioni di 
codici e di edizioni) nelle Lezioni di lingua toscana, Firenze 1737 (3 a ed. 
rinnovata, Lucca 1773). 

La grammatica descrittiva che ebbe maggior fortuna fu quella del 
p. S. Corticelli, Regole ed osservazioni di lingua toscana ridotte a 
metodo, Bologna 1745. 

Poi, specialmente per influenza di Port-Royal e dei sensisti 64 , 
incomincia la voga delle grammatiche ragionate: ricordiamo quella del 
p. F. Soave, Grammatica ragionata della lingua italiana, Parma 1770, e, 
con insistenza ancor maggiore sui rapporti fra grammatica e logica, 
quella dell’ab. I. Valdastri, Corso teoretico di Logica e Lingua italiana, 
Guastalla 1783 M . 


“ V. l'ed. di N. Vaccalluzzo, Livorno 1933, e cfr. A. Accame Bobbio, «C. Gozzi e 
la polemica su la lingua italiana», in Convivium, 1951, pp. 31-58. 

M È l’età in cui l'algebra è considerata modello delle lingue: «nous raisonnons 
avec des mots comme nous calculons avec des chiffres, et les langues sont pour 
les peuples ce qu’est l’algèbre pour les géomètres» (Condillac, discorso prelimina- 
re al Cours d'études ). 

65 Per notizie più minute si veda C. Trabalza, Storia gramm., capp. XI-XIV. 


Il Settecento 467 

Al centro dell’attività lessicografica è tuttora l’Accademia della 
Crusca, benché la sua autorità, come s’è visto, sia contestata da molti. 
La quarta edizione uscì in Firenze in sei volumi, dal 1729 al 1738: vi 
avevano lavorato principalmente A. M. Salvini (che cita assai larga- 
mente esempi tratti dalle sue proprie opere), Giuseppe Averani, 
Giovanni Bottari, Domenico Maria Manni e molti altri, servendosi 
anche di spogli del Redi e del Cionacci. Fu allargata la serie degli 
autori citati, divisi in due classi (quelli del buon secolo, e quelli allegati 
per aggiunta o per conferma); molte definizioni furono migliorate. 

L’uscita della nuova edizione rinfocolò le dispute fra partigiani e 
avversari. Fu più volte ristampata (non so se mai recitata, perché mi 
pare impossibile che regga sulla scena) la tragicommedia attribuita a 
B. Marcello, Il Toscanismo e la Crusca o sia II Cruscante impazzito, 
Venezia 1739 (v. p. 461). Il p. G. P. Bergantini iniziò, quasi in gara con 
l’Accademia, spogli copiosissimi. Rimase in tronco il suo immenso 
repertorio Della volgare elocuzione, essendone uscito solo il primo 
volume con le lettere A e B (Venezia 1740). Una certa utilità, benché le 
citazioni siano troppo sommarie, hanno anche le altre sue raccolte: 
Voci italiane d’autori approvati dalla Crusca nel Vocabolario d’essa non 
registrate, con altre molte appartenenti per lo più ad arti e scienze, 
Venezia 1745; Voci scoperte e difficoltà incontrate sul Vocabolario 
ultimo della Crusca, Venezia 1758; Raccolta di tutte le voci scoperte sul 
Vocabolario ultimo della Crusca, Venezia 1760; Scelta d’immagini o 
saggio d'imitazione di concetti, Venezia 1762. 

La Crusca stessa pensava a una nuova edizione, ma ancora 
rimanendo molto attaccata al suo tipo tradizionale-, nel 1741 Rossanto- 
nio Martini teneva un Ragionamento... per norma di una nuova 
edizione del Vocabolario toscano (stampato più tardi, Firenze 1813). Si 
fecero anche ristampe non ufficiali del Vocabolario, con un piccolo 
numero di giunte, a Napoli (1746-48) 66 e a Venezia (1763). 

Poi le voci dei malcontenti finirono con l’avere il sopravvento, e 
Pietro Leopoldo il 7 luglio 1783 soppresse l’autonomia dell’Accademia 
della Crusca, fondendola con l’Accademia Fiorentina e con quella degli 
Apatisti, sotto l’unico nome di Accademia Fiorentina 87 . L’ab. Giulio 
Perini, vicesegretario, nel discorso inaugurale inneggiava alla «nuova 
libertà», e neH’anno seguente il :p. Ildefonso Frediani presentava un 
Piano... per la nuova compilazione del Vocabolario “, in cui proponeva 
di far larga parte alle voci tecniche, mentre dei barbarismi si sarebbe 
semplicemente compilata una tavola, indicando le equivalenti «voci 
buone». Nel 1786 gli Accademici a ciò deputati scelsero parecchi 


66 Cfr. anche la Giunta di vocaboli raccolta dalle opere degli autori approvati 
dall’Accademia della Crusca, (Napoli) 1751. 

67 Si veda il testo del motuproprio di P. Leopoldo in Atti Acc. Crusca. 1909-10, 
pp. 73-75. 

“ Anch’esso pubblicato solo più tardi (Firenze 1813). 


468 


Storia della lingua italiana 


scrittori da spogliare per la futura ristampa®. Ma il progetto non ebbe 
alcun séguito. 

Invece un privato, l’abate nizzardo Francesco D’Alberti di Villanuo- 
va, che già aveva tradotto dal francese il Dictionnaire du citoyen di H. 
Lacombe de Prezel, Parigi 1761 (Dizionario del cittadino, Nizza 1763, 
più volte rist.) 70 e compilato un ampio dizionario francese-italiano e 
viceversa (1772, molte volte rist.), riusciva a portare a compimento, 
benché non a vedere interamente edito prima della sua morte, un 
Dizionario universale critico-enciclopedico (Lucca 1797-1805). Gli spogli 
nuovi sono molti, ma le citazioni sono non di rado inesatte e incomple- 
te. Sono anche incluse numerose voci dell’uso, senza attestazioni di 
scrittori. La maggior novità consiste nella larga inclusione delle voci 
scientifiche e di arti e mestieri: il D’Alberti aveva percorso la Toscana 
intrattenendosi con artieri e maestranze; e così il suo è il primo grande 
vocabolario italiano che rimedii alle lacune della Crusca in questi 
campi del lessico. 

Molti già si erano lamentati della mancanza di vocabolari speciali 71 
e alcuni avevano cercato di provvedervi direttamente, come il Valli- 
snieri (del Vocabolario filoso fico-medico da lui iniziato ci resta il Saggio 
alfabetico d’istoria medica, e naturale : Opere, III. Venezia 1733, pp. 364- 
481) e il Pasta ( Voci, maniere di dire e osservazioni di toscani scrittori ... 
che possono servire d’istruzione ai giovani nell’arte del medicare..., 
Brescia 1749) 72 ; molti si erano dati a tradurre vocabolari speciali 
francesi 73 . 

Tenta un diverso ordinamento lessicale G. A. Martignoni nel Nuovo 
metodo per la lingua italiana la più scelta, 2 voli., Milano 1743-50, in cui 
sono distribuite in paragrafi metodicamente ordinati tutte le voci della 
Crusca. 

Merita anche ricordare la raccolta di S. Pauli, Modi di dire toscani, 
Venezia 1740, e il vocabolario dei sino nimi di C. Rabbi, Sinonimi ed 
aggiunti italiani, 2 voli., Venezia 1751. 

Fra i dizionari bilingui vanno menzionati almeno quei due che 
ebbero numerose ristampe sia nel Settecento sia nel secolo successivo: 
quello italiano-inglese e viceversa del Baretti (1760) e quello già citato 
di F. D’Alberti, italiano-francese e viceversa (1772). 


60 Da varie parti si insisteva per F allargamento del canone, e specialmente 
per una più larga inclusione nei futuri lessici di spogli di scrittori non toscani: v. 
specialmente Cesarotti, Saggio, IV, xvi, 9. 

70 P. Ciureanu, «Il Dictionnaire du citoyen e la sua traduzione italiana», in 
Boll. Fac. econ. e comm. Univ. Genova, III, 1954, pp. 69-87. 

71 Ne parla ad es. Antonio Vallisnieri iunior nell’edizione degli scritti di suo 
padre (Opere, III, p. 3631. 

72 II Dizionario delle arti e dei mestieri di G. Griselini, continuato poi dall’ab. 
M. Fassadoni, 18 voli., Venezia 1768-1776, è, più che un dizionario, un’enciclopedia 
tecnica. 

73 C. Battisti, Note bibliografiche alle traduzioni italiane di vocabolari francesi 
enciclopedici e tecnici francesi nella seconda metà del Settecento, Firenze 1955. 


Il Settecento 


469 


8. Latino e italiano 

L’italiano continua a guadagnar terreno sul latino 74 , ma la lingua 
antica ha ancora in molti campi posizioni fortiss im a 

Nelle belle lettere, dove l’italiano ormai predomina, si scrive in 
Mino persino di argomenti che per la loro attinenza con la vita 
quotidiana sembrano richieder piuttosto il volgare: si pensi alle satire 
del Cordare (che continuano la tradizione del Sergardi). Quasi solo in 
latino sono redatte le iscrizioni; il Gravina scrisse in latino arcaizzante 
le leggi dèli Arcadia. 

Nelle opere di erudizione storica il latino è largamente adoperato: il 
Muratori si serve dell’una e dell’altra lingua (e dopo aver scritto in 
latino le Antiquitates Italicae Medii Aevi, Milano 1738-43, le compendia 
^“ stesso in italiano nelle Dissertazioni sopra le antichità italiane 
pubblicate postume, Milano 1751-55); il Vico scrive dapprima di prefe- 
renza m latino e solo tardi passa all’italiano; il Fabroni scrive in latino 
biografie di secentisti e settecentisti (Vitae Italorum doctrina excellen- 
tium qui saec. XVII et XVIII floruerunt, Pisa 1778 segg.), ecc. Nell’anti- 
quaria, A. F- Gori pubblica in latino le sue raccolte, mentre G. Lami 
scrive m italiano le sue Lezioni di antichità toscane, Firenze 1766 e L 
Lanzi il Saggio di lingua etnisca, Roma 1789. 

In molti campi delle scienze, parecchie opere fondamentali sono 
ancora scritte in latino. Gli atti dell’Istituto di Bologna sono redatti per 
molti anm in quella lingua da F. M. Zanotti (De Bononiensi Scientiarum 
et Artium Instituto Commentarli, Bologna 1731-1791); persone note 
anche nel campo delle lettere italiane scrivono opere scientifiche in 
latmo: E. Manfredi, Ephemerides motuum coelestium, Bologna 1715 - 
i^oano Mascheroni, Adnotationes ad calculum integrale Euleri, Pavia 

Quasi tutte le trattazioni botaniche sono in latino (P A Micheli 
Nova plantarum genera, Firenze 1720, ecc.), pochissime in itaiiano (per 
es. 1 istoria delle piante che nascono ne’ lidi intorno a Venezia di G G 
Zanmchelh e di suo figlio, Venezia 1735: cfr. pp. 499-500, n. 204). 

Qualche opera si presenta con un testo bilingue: così per es. l’/storia 
dell incendio del Vesuvio accaduto nel mese di maggio dell’anno 1737 
scritta per 1 Accademia delle Scienze, Napoli 1738, è redatta per ordine 

d ÌJ-% Carl °, ni ( Y II] * non sol ° 111 volgare, ma in latino ancora... per 
soddisfare al gemo de’ Signori Oltramontani». 

Nel diritto^ le opere teoriche sono spesso in latino: si ricordi ad es. il 
trattato del Gravina, Originum iuris civilis libri tres, Lipsia 1708. La 
legislazione dei vari stati è di regola in volgare: ima codificazione 
bilingue flàtmo-itahana) si cominciò a elaborare nel regno di Napoli 
per ordine del re Carlo III (VII) ad opera di Giuseppe Pasquale Cirillo e 


?* ha ““ “ a ®? ior num ®ro di opere scritte in latino al principio che alla 
1750, ParigTlflOQ ^p ^ 372 ^^ EsS °* *“ r lévotution intellectuelle de Vltalie de 1657 à 



470 


Storia della lingua italiana 


di altri giureconsulti, ma questo Codice carolino non fu poi mai 
promulgato 75 . 

Negli Stati Sabaudi, la legislazione è in italiano per i paesi cisalpini. 
Si sa che qualche giudice persisteva ancora nel Settecento a scrivere 
sentenze in latino 78 . 

Nella Chiesa, l’uso del latino è sempre larghissimo; esclusivo nel 
campo liturgico, anche se qualche voce si faccia udire per richiedere la 
celebrazione della Messa in volgare 77 . La lettura della Bibbia in 
versioni approvate è ormai consentita da un decreto di Benedetto XIV 
(1757) 78 . 

Nell’insegnamento secondario il latino ha una parte grandissima, 
sia come materia di studio, sia come lingua strumentale. Molti 
vorrebbero far si che l’italiano non gli rimanesse addietro.- il Muratori 
lo chiede 7 ®; nel Piemonte il Magistrato della Riforma ordina nel 1729 
che nelle scuole fuori dell’Università lo studio della lingua latina 
proceda di pari passo con quello dell’italiana 80 ; in Lombardia A. Volta 
si lagna (1775) perché lo studio della lingua italiana «non meno a torto 
che imperitamente si è trascurato, e si trascura tuttavia dai nostri 
Fidenzj, vaghi solo dell’idioma in or e in us» 81 ; a Napoli il p. N. Onorati 82 
si lagna che nelle scuole «tutta l’applicazione si circoscriva a’ rudimen- 
ti della lingua del Lazio», trascurando lo studio ben più doveroso della 
lingua materna. 

Chiedono che l’italiano abbia la preminenza sul latino il Carli, il 
Gorani, il Filangieri, il Gozzi 83 . 

Nelle università l’insegnamento continua a essere impartito di 
regola in latino 84 ; e fece molto scalpore a Napoli il fatto che Antonio 


75 P. Del Giudice, Storia del diritto italiano. Fonti, II, Milano 1923, pp. 55-57. 

76 Galeani-Napione, Dell’uso e dei pregi, I, p. ix. 

77 IG. M. Isottal, Della Messa in lingua volgare, Vercelli 1788. I giansenisti 
italiani, com’è noto, volevano che i fedeli partecipassero attivamente alle 
cerimonie sacre rispóndendo al clero in italiano. 

78 E i giansenisti raccomandavano una quotidiana lettura della Sacra 
Scrittura in italiano (cfr. C. A. Jemolo, Il Giansenismo in Italia, Bari 1928, p. 253 e 
283). 

78 «...via maggior profitto si recherebbe al pubblico da chi ha cura in Italia 
d’ammaestrar nelle lettere la gioventù, se nell’insegnar la lingua latina si volesse, 
o sapesse nel medesimo tempo insegnar l’Italiana»: Muratori, Della perfetta 
poesia ital., Modena 1706, p. 106. 

80 T. Vallami, Storia delle Università degli studi del Piemonte, III, Torino 1846, 
p. 90. 

61 Relazione al Firmian, pubbl. da M. Gliozzi, in Rassegna di cultura e vita 
scolastica, novembre 1953, p. 10. 

82 Nella sua mediocre compilazione Dizionario di voci dubbie italiane, Napoli 
1783. 

83 G. Calò, Dall’umanesimo alla scuola del lavoro, I, Firenze 1940, p. 221, 225-26, 
228, 231, 267. 

84 A Torino la persistenza del latino ha una particolare giustificazione: 
frequentano l’università sia studenti che provengono dai territori cisalpini dello 
stato, di lingua italiana, sia studenti che provengono dai territori transalpini, di 


Il Settecento 


471 


coU^fraSctS^Vro J« end -° dlscutere m matematica e di fisica con un 
N?n manca nòliwT pm , a S P° a P° a P arlare latino che francese 88 
di 16 dlss ? rtazion i sull’opportunità 

filosofia l’erurìivinnc i altra .H n 8' ua , specie in quei campi come la 

vXsSri^?lSnt«® Cien f ’ m ^ S ncora la P artita era incerta: il 
- l r , r e 1 Algarotti sostengono che si debba preferire l’italiann 
ì ,?• Lagomarsini 8 ® difende l’uso del latino 00 . Ma picche queste 
P te, per loro natura un po’ declamatorie, è l’uso effettivo che conti 


9. Uso scritto dei dialetti 

ristretto, a strati P ‘ Ù 


lingua francese iCalcateiTa, Il nostro imminente Risorgimento cit. n. 489) 

accorto nello incomincfare^la spiee-aztóne d d Uar tt . Italiano ’ finché essendomene 
lingua Italiana, e ^cominciare de’ pregi della 

87 Brosses, Lettres d’Italie, I, Dijon 1927, p. 87 

268. ^ ttera ad A ‘ PegroI °tti, hi Opere fisico-mediche. III, Venezia 1733 , pp. 254 - 

88 Opere, IV, Venezia 1794 , pp. 3-28 

flessa 


472 


Storia della lingua italiana 


Il carattere spiccatamente letterario di quest’uso scritto risulta 
anche dalla influenza della lingua poetica toscana anta» «Y gSS 
dialettali quasi tutti arcadici: influenza sensibile nei Veneti (Gntti, 
Lamberti), fortissima nel Meli- Abbondano - e anche ciò conferaia, se 
ce ne fosse bisogno, il carattere riflesso della letteratura " la 

satire (si ricordino i toni piemontesi), i poemi eroicomici, ongmah o 
tradotti in dialetto. Intenzioni popolaresche hanno gh almanacchi (G. 
Pozzobon di Treviso inizia il suo Schiesón). _ 

Il teatro mettendo in scena personaggi delle vane classi sociali, si 
accosti^ maggiormente al dialetto parlato hi tutte le w jjanete: 
specialmente in un osservatore della realtà come il Gc r doa1 ' Qri a 
piuttosto artificioso è l’alternarsi sulla scena dipersonaggi ^Parlano 
hi dialetto con altri che parlano in lingua (quale si ha nel Goldom nel 
Chiari in Carlo Gozzi). Anche nelle commedie toscane troviamo 
qualche personaggio con caratteri dialettali accentuati: P er es. il Gigli 
nella commedia II manto piu onorato del suo bisogno abbonda m 
idiotismi fiorentini e senesi nei personaggi di Ser Lapo notaio e di 
Prizia servetta. La figura del contadino Ciapo, che il Fagiuoh introduce 
in parecchie sue commedie sottolineandone le caratteristiche rusticah, 

oiaceva a Firenze ma non fuori 92 . , 

Quanto alla possibihtà di un uso «seno», «no bile », «ufficiale» del 
dialetto scritto, esso è incompatibile con la posmone che l itahano ha 
ormai acquistato. Se a Venezia esiste ancora un uso nobile e ufficiale, 
esso si ha se o nell’uso forense parlato, ed è antistorico appellarsi al 
confronto col «patriotico zelo de’ veneziani» P er . tentar . dl r s °^ ar { ? )e l1 , 
dialetto napoletano a uso analogo, come auspicava d G^iam (Del 
dialetto napoletano, rist. Nicolini, p. 7; v. qui addieta-o al § 4XNé p 
consistente era stato il proposito dell Accademia dei Pescaton Oretei di 
SSml fontoL nel ?745 con lo scopo di «affinar sempre più la 
siciliana favella» 93 : basti dire che era prescntto che 1 discorsi si 

^ShTvalm-e^eLa funzione dei dialetti, fu discusso specialmente nella 
polemica suscitata dal p. Onofrio Branda-, e il Panni giustamente lo 
rimproverò d’aver deriso «quel linguaggio, che essendo e il piu 
naturale e il più puro e incorrotto della nostra città, è conseguentemen- 
tecte riputerei il più bello» (Prose, I, p. 55 Bellorini; y. qui addietro al § 6) 
Parecchi dizionari dialettali si pubblicano nella ®f,“ ada “ e ^ d ^J 
secolo: il Vocabolario bresciano e toscano attnbinto all abate Gagliardi 


»> «n Meli era persona colta e scriveva per persone colte: come la sua togua 
poteva non essere colta?»: S. Santangelo. «La lingua <L G. Meli», in Studt su G. 

M "Ì ortMe d^agrnnprincip^aVW»» 

ci Che essa «viene pregata da due nobili Veneziani del favore di due belle sue 
S.S5I. “a™ “SI perù, ohe non vi eia n» » » «*>-» 

altro» (M. Benci, Il vero C. B. Fagiuoli, Firenze 1884, p. 159). 

83 S. Santangelo, in Studi su G. Meli, cit., p. 102. 


Il Settecento 


473 


(Brescia 1759), l’anonima Raccolta di voci romane e marchiane (Osimo 
1768), il Vocabolario veneziano e padovano del Patriarchi (Padova 1775, 
2 a ed. 1796), l’ampio Vocabolario etimologico siciliano, italiano e latino 
del Pasqualino (Palermo 1785-95), il Vocabolario delle parole del dialetto 
napoletano che più si scostano dal dialetto toscano di F. Galiani e F. 
Mazzarella Farao (Napoli 1789). Essi obbediscono, oltre che a scopi 
pratici, a un interesse almeno embrionalmente scientifico. Né mancano 
autori, come il Bettinelli e il Cesarotti, che vedono nella raccolta di voci 
dialettali la via per possibili incrementi del lessico nazionale. 


10. Rapporti con altre culture e lingue europee 

In un secolo cosmopolita è ovvio che la conoscenza di qualche 
lingua straniera sia indispensabile alle persone colte. Molti Italiani si 
rendono conto che restar fermi non è possibile-, anche senza rinnegare 
le tradizioni della nultura rinascimentale che proprio in Italia e 
dall’Italia aveva sparso tanta luce, è necessario mettersi al passo con 
la cultura europea. 

Per far questo, occorreva anzi tutto prender contatto con quella 
civiltà e quella lingua che nel Settecento avevano dilagato e tenevano 
l’egemonia in Europa, ritenendo d’aver raggiunto addirittura l’« univer- 
salità», cioè la civiltà e la lingua francese 94 . 

Convergono a creare quest’atmosfera fattori di vario ordine e di 
varia importanza. In primo luogo, l’ammirazione per la nuova filosofia 
razionalista, prima cartesiana, più tardi sensistica ed enciclopedistica-, 
poi, la grande influenza politica, rafforzata da alcuni fatti importantis- 
simi: l’installazione della dinastia lorenese a Firenze (1737) e quella di 
Filippo di Borbone (marito di Luisa Elisabetta, figlia di Luigi XV) come 
duca di Parma (1749). Ancor più forte sarà l’efficacia delle invasioni 
degli eserciti della rivoluzione, negli ultimi anni del secolo 95 . 

La letteratura francese è in auge: si leggono nel testo originale e si 
traducono gli scrittori dell’età di Luigi XIV e i contemporanei (Voltaire, 
Rousseau, Diderot e innumerevoli autori minori, di ogni genere, ma 
specialmente romanzi e novelle). Nei vari campi delle scienze si 
consultano opere francesi, si traducono, si riassumono in periodici 
fondati a tale scopo. L’Algarotti, lagnandosi del soverchio «clamore che 
levano i libri francesi», afferma che «ad essi si ha ricorso per ogni 
materia di studio; essi solo si leggono, ad essi si dà fede» 96 . «Dimandate 


94 Ci basti rinviare all’eccellente panorama di H. Bédarida e P. Hazard, 
L’influence frangaise en Italie au dix-huitième siècle, Parigi 1934, e, con particolare 
riguardo ai problemi linguistici, alle ricche e lucide pagine di A. Schiaffini, 
Momenti, pp. 91-132. 

95 «La lingua francese, già stata la lingua dei belli spiriti, diventa la lingua dei 
patriotti e degli eroi» (Natali, Il Settecento, Milano 1929, p. 343). 

96 Lettera del 1752, in Lettere filologiche, cit., p. 115. 


47* 


Stona della lingua italiana 


a un Libraio Opere Italiane - si lamenta Matteo Borsa® 7 -; ei vi chiede 
perdono, ma per la difficoltà dello smercio questa classe è affatto 
mancante. Proponete una stampa.- se non avrà tutta l’aria di una 
traduzione, o di copia perfin nel titolo spirante vezzi francesi, parrà 
che chiediate l’elemosina; tanto lo Stampator troverete superbamente 
fastidioso. Scorrete finalmente le case; v’incontrerete in libri stranieri 
ad ogni angolo, mentre i nostri buoni Italiani dormon coi Greci nelle 
pubbliche librerie». E il Cesarotti 98 ; «la lingua franzese è ormài 
comunissima a tutta l’Italia: non v’è persona un poco educata a cui non 
sia familiare, e pressoché naturale: la biblioteca delle donne e degli 
uo mini di mondo non è che francese»®*. Non a torto perciò il Devoto ha 
intitolato «il nuovo bilinguismo» il capitolo dedicato al Settecento nel 
suo Profilo. 

Per avere un’idea della parte considerevole che ebbero nella cultura 
italiana le compilazioni lessicografico-enciclopediche francesi, basta 
consultare il diligente repertorio che he ha dato il Battisti (cfr. p. 519 n.>. 
vi troviamo dizionari (talora pubblicati in più edizioni) di geografia, di 
erudizione storica (religiosa e profana), di matematica, di fisica, di 
chimica, d’industria, di commercio, d’agricoltura, di marina. E si sa che 
l ’ Encyclopédie di D’Alembert e Diderot fu per ben due volte ristampata 
in Italia in francese (con postille che miravano a smorzarne la 
tendenza anticristiana). 

L’influenza francese si estende per tutta l’Italia, ma è particolar- 
mente forte in due stati: il Piemonte, per la maggior vicinanza e per la 
struttura bilingue degli Stati Sabaudi 100 , e Parma, diventata un centro 
d’irradiazione francese sotto Filippo di Borbone e il suo minis tro Du 
Tillot. 

Un potente tramite per la conoscenza del francese tra gli Italiani è 
lo stanziamento di numerosi Francesi nella penisola, specialmente in 
alcune città (come Parma) e per certe professioni (come i cuochi, i 
parrucchieri, i maestri di ballo, le modiste), la presenza di numerosi 
viaggiatori, ecc. 

D’altronde molti Italiani viaggiano e si stabiliscono in Francia, o 
percorrendo vari paesi d’Europa, si valgono del francese come lingua 
internazionale. Fra essi non pochi lasceranno importanti scritti in 
francese, come il Galiani, il Goldoni, il Denina, il Lagrange. 


87 Del gusto presente in letteratura italiana, Venezia 1784, p. 18. 

06 Saggio sulla filosofia delle lingue, IV, xm. 

M Cesare Beccaria, facendo al suo traduttore, il francese Morellet, la storia 
della propria conversione dal «fanatismo» alla «filosofìa» arriva a dichiarare: «Io 
debbo tutto ai libri francesi» Getterà del 1766, citata da Natali, Il Settecento, p. 269). 

100 Per ricordar solo un esempio, il savoiardo padre Gerdii, poi cardinale, 
passò molti anni della propria vita a Torino, come professore all’Università e 
precettore del futuro Carlo Emanuele IV: la maggior parte della sua opera 
d’insegnante e di scrittore si svolse in francese. Sappiamo dall’ Alfieri, dal Galeani 
Napione, e da tante altre testimonianze che a Torino le classi più. elevate si 
servivano quasi soltanto del francese o del dialetto. 


Il Settecento 


475 


Carteggi dell ’ e P°ca spesseggiano le lettere in francese non <?oln 

r.;E° persone * •“» «— t - p-£52£E5S 

esercitò mSrtf. U S»? I , CÌna -. e < S Ha moda ’ s P«dotaente femminile, si 
hwj t o m - , pa per tramite di persone (e di cose) che per mezzo di 

Venezia ^serriva^-orine ^ (cbamb ?^ francese»), esposta in Merceria a 
enezia serviva come modello indiscusso. E benché tutto 

mamfestaziom vadano connesse tra loro, p^, b"n aSer? clS 

,S°™ C H n ‘° r Per ' regicldi e 1 massacratori non tolga la curiosità per le 

SStfSS"- C ° mC to qUeUe dame “tlregglate mS soSto 

Madamm, gh’ala quaj noeva de Lion? 

Massacren anch’adess i pret e i fraa 
quij soeu birboni de franzes, che han traa 
la legg, la fe e tutt coss a monton? 


A proposit; che la lassa vedé 
quel capell là che g’ha dintoma on velL 
eel staa inventa dopo che han mazzaa el re? 
tei el pmnm, ch’è rivaa? Oh bell! oh bell' 

Oh 1 gran franzes! Besogna dill, non gh’ è 
Popol, °be sappia fa i mej coss de quell 109 . 

eieJantLP V °^ abolÌ francesi anzitutto i giovani 

S£ffT tam 6 cicisbei> : * certi giovanotti leziosi^vverte fi p 
Sramon an; mtr ° dotto ? eUa Ungua Italiana t^maS 

gnsto,;STto t LS«°de”or a a^ole 

segnal| 0 dfun 'belio SSE 

qaesto tì P° ci sono presentati nel Raguet 108 di 

Scipione Maffei (1747). Ecco come parla Alfonso, nell’atto II sa 3° ; 

Ed io mi do l’onore 

signor, di rendergli un million di grazie. 


e ^vedano, per es„ nel carteggio del Cesarotti, lettere in francese al Taniffì 

1752 p 34 

toe c n1 L^ff C ’ Della lingua toscana, Torino 1777, dial. VII - P- • 

dei «• « “• 

1957, pp. 63-68. ael MaMei - v - Cigna, m Lingua nostra, XVIII, 


476 Stona della lingua italiana 

È una gran proprietà la sua, di fare 
agli stranier tanta onestà. Ciò marca 
la bontà del suo cuore: io farò in sorte 
che nii conosca sempre tutto a lei. 

O Ermondo, nell’atto III, se. 2 a : 

Non le darò cibi plebei: guazzetti, 
manicaretti, intingoli, stufati 

Io le darò ragù, farsi, gattò, 
cotolette, crocande; e niente cotto, 
sarà nello spiedo, ma olio spiedo 
nn7i alla brocca. Non farò la mala 
creanza mai di far portare in tavola 
un cappone, se non in fricandò. 

Non mangerà fiitelle, nè prosciutti, 
nè vii vivanda d’anitra, ma sempre 
canàr, sambòn, bignè... 

Un personàggio dell’anonima commedia Lo spirito forte (Venezia 
1772) - irreligioso e franceseggiante - lusinga così una ragazza: «Occhi 
bleu, capelli biondi, è un prodigio in Italia; il vostro temt così ^^o, ® 
vermiglio, sorpassa quello delle Moscovite; la taille non ne ho veduta 

lU ^JeUa commedia di G. Gherardo De Rossi Le sorelle rivali , L se. 5 
( Commedie II, Bassano 1791) ima contessa si rivolge ad altri due 
personaggi: «Luigia voi qui? Voi in rendevù col Marchese? E non vengo 
di avervi detto jeri sera ch’egli non è per voi? e tu [a Colombina) che 

rollo giocasti fra loro?» ecc. .. 

Incesti di questo genere, l’intento satirico porta a esagerare d 
numero e la qualità degli esempi (si sarà detto davveroqualchevolta 
alla brocca per à la broche ?), ma un idea possiamo farcela ^stesso. 

La penetrazione nella lingua quotidiana si valuta bene 
testi poco letterari, come i carteggi 108 , gli appunti personali e 

Notevole è la presenza di numerosi francesismi nei dialetti , ma 


107 È interessante notare che qualche volta 1 P erso f W 
___ «mrrira- così sDesso nel Raguet; così in Goldoni (Figlia obbediente, 1, se. loJ. 
«Tiò Lumaca averzi quel coftefort. - Che significa questa parola? - Eh poverazzi! 
VuaitSlfalia XsTvé gnente. Cofrefort è parola tedesca, vuol dir... Quel coso 

Che l^rancesismTpuUidano , ad esempio, nel carteggio dei fratelli VerxLmentre 
sono molto rari nelle lettere del ministro B. Tanucci, toscano di nascita e 
antifrancese in politica: tuttavia anche lui adopera ad es roana dett. al Galiam 
del 1707, II, p. 72 NicolinD e, a proposito dell’Amo, fi verbo debordare detterà al 

V Band^o nastro <tenotte o ricamato a caratteri amorosi dalla bella», negli 

annunti del Parini per il Vespro e la Notte 0, p. 269 Bellonm). 

PP no schiaffini (Momenti, p. U4) ricorda numerosi esempi rmlmiesi, mantova- 
ni ve n e ziani Per l’Italia mediana, dà molti francesismi la citata Raccolta di voci 
romane e marchiane, Osimo 1708. 


Il Settecento 


477 


anche ai Fiorentini se ne rimproverava l’abuso 111 . L’influenza è così 
generale, che non c’è chi vi sfugga. Si potrebbe, sì, fare una lista di 
francofili e di francofobi, in politica e in letteratura, ma non sempre le 
intenzioni dichiarate collimano con la maggiore o minore accoglienza 
fatta ai francesismi L’Algarotti, in ima lettera del 1756 l12 , biasima il 
Redi e il Salvini che hanno adoperato fare il diavolo a quattro, mettere 
una cosa sul tappeto, rimprovera il Magalotti che avrebbe voluto 
accogliere faire les yeux doux, le petit maitre, la prude; si lagna, nel 
Discorso sopra la ricchezza della lingua italiana ne’ termini militari, 
dell’abbondanza dei francesismi nelle scritture d’argomento militare; 
in un’altra lettera del 1763 113 deplora che i Fiorentini usino dettaglio, 
regretto, debosciato, ecc. Eppure a sua volta egli scrive capo d’opera, 
colpo d’occhio, cochetta, il poema il più galante che ci sia, ecc. Il 
Bettinelli, che nel poemetto sulle Raccolte biasima che siano venuti 

i franzesismi in abito italiano 


tripponi armati di stranier ramaggio 
a culbuttare tutto il buon linguaggio 111 

e altrove se la prende contro «i Targioni, i Grazzesi... e tali altri nei 
quali trovo or parole, or frasi franzesi» lls , ne adopera a sua volta a 
decine. 

Queste osservazioni non vogliono essere postumi rinfacci personali, 
ma solo mostrare quanto permeata di francesismo fosse tutta la 
cultura del tempo 118 . 

L’influenza inglese, per quanto senza confronto meno ampia di 
quella francese, è pure assai considerevole 117 , e dovuta a un’ammirazio- 
ne (che in alcuni diventa addirittura una mania) per molti aspetti della 
vita inglesi: le istituzioni, la filosofìa (Newton è universalmente animi - 
rato, Locke e Hume suscitano contrasti), le scienze, la letteratura, 
l’industria. Contribuiscono a diffonder notizie (e quindi vocaboli) i 


111 «Uh giardino - quale il Toscano anch’ei Parterre chiama - da poi che l’Arno 
è fatto parigino» (T. Valperga di Caluso, Il Masino, Torino 1791, XI, 57). 

1,2 Lettere filologiche, cit., pp. 126-129. 

113 Lettere filologiche, cit., p. 183. 

114 Opere, XVII, p. 48. 

115 Opere, I, p. 62. 

nfl Altri molti, oltre a quelli che abbiamo avuto occasione di citare, polemizza- 
no contro rirruzione dei francesismi: Matteo Borsa, Carlo Gozzi, ecc. Alla fine del 
secolo interveniva a sostenere le tesi puristiche anche un critico tedesco, F. 
Haupt da cui Lettera sull’infranciosamento della lingua italiana fu ripubblicata 
da P. Fanfani, Firenze 1871, e studiata da A. Buck, Zeitschr. rom. Phil., LXIX, 1956, 
pp. 123-129). 

117 La esaminò con ricca informazione e con acume A. Graf, L’anglomania e 
l’influsso inglese in Italia nel sec. XVIII, Torino 1911. 


478 Storia della lingua italiana 

viaggi degU Inglesi in ItaUa (nel «giro d’Europa», di mod * n ®* 
riSS e i viaggi e talvolta lunghi soggiorni di 

Tn rrViìitorra. (Cocchi Rolli Angioliiu, Rezzomco, Alfieri e tanti altri>, 
l q n fluenza ni acenell'una e neli'altm direzione fti forse quella del 

B'aretd'^resce rapidamente in ItaUa il numero di quelli che sanno 

1 m s^ traducono Pope Ipiù volte), Addison, Defoe, Rlchardson, Swift, 
Sterne Young. Sì comincia (piuttosto tardi) a conoscere e a tradurre 
Shakespeare Dilagano le traduzioni di romanzi, per lo più, tuttavia, 

fattó seSaconiSre imgto»-. SI div^anole compUarrom enctdo- 

nediche Qa Cyclopaedia del Chambers fu tradotta tre volte). 

P Soprattutto negU ultimi decenni del secolo i preromantici sono sotto 
l'influenza dei "motivi dominanti aUora nella letteratura mglese, la 

me S^nò a r'2ie«e“S te i'inglese diventa necessanoal = er- 
cianti per l’importanza presa appimto in questo secolo dal _commercK> 
dell’Inghilterra nel Mediterraneo. Circolano sm mercati italiani, stoffe, 

£SSunto col secolo precedente, e 
in regresso* benché gruppi fllospagnoli non manchino. Poca influenza 
harnro le die dinastie borboniche trapiantate dafla Spagna, queUa di 
Parma è promotrice d’influenze francesi, presso queUa di Napoh lo 
spagnolo scompare definitivamente dagU atti della cancelleria dopo 
che Ferdinando IV si è emancipato (1767) dalla tutela del - 

In Sardegna dopo il passaggio aUa casa di Savoia, lo spagnolo 
perde te^en? ma lentissimaSSite: solo nel 1764 l’itaUano diventa 
lingua ufficiale nei tribunali le nefl.’lnseg^mento-. Una m 

v ditti nre&oni ed altri provvedimenti..., 3 voli., Cagliari 1775, dà tutte le 
fermiate neU’ulthno cinquantennio in testo italiano, comprese 
auelle che erano state emanate in spagnolo . __ _ ___ir 

Ricevettero più che non dessero Qinguistica^nte) ^smUspagoh 
stabifitisi in ItaUa dopo la soppressione deUa ComPfg^m di Gesù 
La conoscenza del tedesco è molto scarsa, malgrado ^ P®J® nt ® 
influenza poUtica esercitata dall’Austria e il conse^ientescambiod^ 
persone e i viaggi non rari neUe due direzioni. Solo tardi, m età 
preromantica, stcomincia ad aver notiziari alcum autori tedeschi e se 
ne fanno traduzioni 123 . 


“-s ^ ìjissjsss * ***-> 

mSTp , G«ii»mDei »• ,u - 

121 m l Wagner, La lingua sarda, Berna 119511, p. 187- 

va p Dpi Giudice Storia del diritto ital. cit.. Fonti, il, p. io- 

.23 Ma G. Gozzi traduce la Morte di Adamo di Klopstock da una versione 


Il Settecento 


479 


Quanto alla conoscenza deU’itaUano neUe altre nazioni europee, 
essa è tuttora discreta tra le persone colte. In un secolo musicale come 
il Settecento, era beUo conoscere la lingua in cui erano scritti i Ubretti 
di quasi tutte le opere: «Qui - scrive il Baretti da Londra al can. Agudio 
(8 agosto 1754) - la lingua itaUana va ripigUando terreno, mercé 
deU’Opera che si è finalmente ristabiUta». E vi era chi imparava 
l’itaUano per leggere gU scritti scientifici 124 . 

Numerosi avventurieri e alcuni uomini di prim’ordine - un Baretti a 
Londra, un Goldoni a Parigi, un Metastasio a Vienna - contribuiscono 
a far conoscere la nostra lingua. 

Per la Francia, Voltaire giudicava l’inglese e l’italiano «les deux 
langues de l’Europe nécessaires à un journaliste» 125 ed egli stesso 
(benché il Baretti lo contestasse) conosceva discretamente l’italiano 1 ”. 

Il Goldoni, stendendo nel 1783 un manifesto per un Journal de 
Correspondance Italienne et Franfoise (che poi non vide la luce) 
dichiarava: «Cette Langue est en vogue en France plus que jamais. Le 
goùt de la nouvelle musique y a beaucoup contribué; les Bibliothèques 
— - à Paris abondent en Livres Italiens, on les Ut, on les goùte, on les 
traduit, et les voyages des Frangais sont devenus plus fréquens» 
( Mémoires , III, cap. 35) 127 . 

Non molto diversamente vanno le cose in Inghilterra 1 ”, in Olan- 
da 12 *, in Baviera, in Austria, ecc. 130 . Non si dimentichi che alla corte di 
Vienna è viva la tradizione del «poeta cesareo», che deve scrivere 
melodrammi in italiano. 


francese, e il Monti fletterà a C. Vannetti, luglio 1778: Epistolario, !, pp. 51-52) crede 
che sia possibile tradurre Klopstock senza sobbarcarsi a studiare quella «lingua 
aquilonare». 

m V. la testimonianza del Santi, cit. da F. Rodolico in Lingua nostra, V, 1943, 
p. 14. 

“ Oeuvres complètes, XXII, p. 201 (cit. da Brunot, Hist. de la langue frangaise, 
VI, p. 1224). 

u “ E. Bouvy, «Voltaire et la langue italienne», in Voi taire et l'Italie, Parigi 1898. 
Di recente sono state scoperte, e pubblicate dal Besterman, delle Lettres d’amour 
de Voltaire à sa nièce, Parigi 1957, in un italiano molto scorretto. - 

127 E altrove aveva testimoniato: «E1 linguaggio italian, con mio contento - 
«uro deventa a la nazion francese, - e tutti i cortigiani e i parigini - cerca maestri 
e compra l’Antonini» (La Piccola Venezia, 1765): cfr. Folena, in Lettere ital., X, 1958, 
p. 32. 

“* V. il capitolo di A. Graf, «Lingua e letteratura italiana in Inghilterra», nel 
citato volume su L’anglomania, pp. 80-104. 

** Una lettera del banchiere lucchese Ottavio Sardi (1773) avverte che ad 
Amsterdam «la toscana favella... è moltissimo onorata e ben voluta, non 
essendovi, per così dire, dama o cavaliere di condizione che non ne sappia 
qualche cosa, o che non procuri di saperne. Già molte e molti la parlano molto 
bene, in particolare que’ cavalieri che han viaggiato in Italia. Il Metastasio è in 
gran voga, ed è cognito tanto quanto in Italia...» (Misceli. Lucch. di studi storici. 
Lucca 1931, p. 333). 

V. le testimonianze raccolte da V. Santoli, in Problemi e orientamenti, IV, 
pp. 237-238. 



480 Storia della lingua italiana 

Nell’Europa danubiana e nel Levante l’italiano ha funzioni di lingua 
internazionale: sappiamo per es. che il boiardo romeno Ienàchitzà 
Vàcàrescu si servì dell’italiano scrivendo al feld-maresciallo russo 
SSScev chXveva fatto prigioniero (1770) e facendo da interprete 
ad altri boiardi presso Giuseppe II (1773) 131 . 

11. I fatti grammaticali e lessicali 

Nel presentare i fatti più salienti della lingua del , Settecento 
dobbiamo ancora una volta ripetere che le oscillazioni nell uso sctitto 
Ce tanto più a quel che possiamo congetturare, neh uso parlato) erano 
moC maggiori di ciò che possa ritenere uno che legga in edizioni 
moderne i soliti autori scelti fra i più noti. Un ampia lettura di libn 
nelle edizioni originali (e più ancora di manoscritti del tempo) mostra 

che le disformità sono ben più notevoli. , , VTtR ,. R _ etten . 

Affiorano ancora largamente, nella lingua scritta dell Italia setten 
(rionale e di quella meridionale, peculiarità ricalcate sui "spettivi 
vernacoli; quanto al canone toscano, esso rimane assai incerto non 
tanto per la differenza che gli usi locali presentano, quanto perche le 
varianti della lingua scritta registrate dalla Crusca sono numerose e 
per lo più senza una netta dichiarazione di preferenza: vediamo per es. 
tael primo volume della 4* impressione) acquidotto e aquidoccio; 
apostolo e appostolo-, circonstanza e circostanza, circonstanzia e circo- 
stanzia, circunstanza, circunstanzia e circostanza. Qualche volta la 
preferenza è indicata per mezzo di im ramo: sotto cirimonia, vi è 

semplicemente un rimando a cerimonia. ir h si 

Citiamo fra gli innumerevoli esempi di oscillazioni nell uso che si 
notrebbero elencare, quelli che ci vengono sottomano. Ecco principe - 
prencipe-, delicato - dilicato 132 ; miscuglio - miscuglio-, burrasca - borrasca 
feer es in P. Chiari); sbocciare - sbucciare (sempre nel senso di 
«Sbocciare »• per es. C. Gozzi, G. Meli); unzione - onzione (Valhsmenl, 
diritto - dritto (sost.); ecc. Tremuoto prevale di gran lunga su terremoto, 

n° per dare alcuni esempi di varianti consonantiche^ abbiamo-, sacro 
, sagro bmciare - abbracciare (Vallisnieri) - brugiare (Gigli, Algarotti) - 
abbruggiare (Caffè); gianduia - glandola - ghiandola-, pranzo - Prarso 
(ner es. Vallisnieri, Lazzarini, Chiari, Algarotti); gengiva - gengia, 
chirurgia - cirurgia - cirusia-, congettura - conjettura - conghiettura-, 
naralello - parallelo, ecc. La c e la z davanti a vocale anteriore si 
scambiano P in numerosissimi vocaboli, specialmente negli scrittori 
settentrionali: francese - franzese-, socio - sozw, commercio - commerzio-, 


131 R ortiz. Per la storia della cultura ital. in Rumania, Bucarest 1916, pp. 230- 

23L V. la discussione in IM. Regali], Dialogo del Fosso di Lucca e del Serchio, cit. 

pp. 33-35. 


Il Settecento 


481 


specie - spezie (nel senso di «spezie»); speciale - speziale (in ambedue ! 
significati); sufficiente - suffiziente (Cesarotti); bilanciare - bilanziare (C. 
Gozzi); pernicioso - pemizioso-, Confucio - Confuzio (S. Maffei), ecc. 

Nel raddoppiamento consonantico vi era oscillazione specialmente 
nelle serie in cui l’uso toscano era diverso da quello latino: accademia - 
accademia-, imagine - immagine-, femina - femmina (e viceversa gram- 
matica - gramatica, commodo - comodo ); mathematica - matematica-, 
opio - oppio-, camelo - cammello-, tolerare - tollerare, ecc. Non era ancora 
stata fatta una scelta definitiva tra procurare e proccurare, provedere e 
provvedere-, né fra inalzare e innalzare, inoltrare e innoltrare, inondare e 
innondare. Accanto a autore, pratico c’è chi scrive auttore, prattico, più 
conformi all’etimologia 133 . 

Nello scrivere le particelle composte (sì che - sicché, tanto più - 
tantopiù ) i Toscani e i Meridionali potevano regolarsi sulla pronunzia 
per sapere se raddoppiare o no, mentre i Settentrionali spesso errava- 
no. Di solito ormai s’ignora che viepiù non è altro che un via più 13 * e si 
scrive vieppiù (Baretti, ecc.). 

Ma anche in innumerevoli altre parole, dovè la norma toscana era 
stabile e regolarmente registrata dai lessici, gli autori e i tipografi 
settentrionali raddoppiano o scempiano con estrema incuria (con 
particolare frequenza in posizione protonica e dove si susseguono due 
coppie di consonanti, ma anche altrove). Ecco, per es., drapello 
(Algarotti), ippocondriaco (Patriarchi), trappellare «trapelare» (C. Goz- 
zi), disabbitato (Vallisnieri), beffana, schiffo, soffà, zuffolare (C. Gozzi), 
strofinare (A. Verri), Catterina (Caffè), reatino «reattino» (Vallisnieri), 
succido (p. Branda), flacidità (Vallisnieri), sfogio (Beccaria), diriggere 
(Cesarotti), compaggine (Parini), sceleragine (Parini), valetto (Parini), 
barille e regallo (biasimati dal Baretti nel poemetto giocoso La barcac- 
cia di Bologna ), guereggiare (Beccaria), ecc. L’abate Chiari nelle sue 
commedie scrive plebbe per rimare con vorebbe, vacche con lumacche, 
stuffa con baruffa, malvaggio con coraggio, non calle con spalle, e, 
sicuro che gli attori veneti conguaglieranno recitando, mette insieme 
quattro con teatro, brutto con aiuto, ecc. 

Forme facoltative si hanno spesso anche nelle terminazioni: lapide - 
lapida, addome - addomine, mestiere - mestiero, pensiere - pensiero, 
magistero- magisterio, alveare - alveario, calesse - calesso, cioccolata - 
cioccolato - cioccolate - cioccolatte, ecc. 

S’intende che tutte queste varianti non sono del tutto indifferenti: 
un autore secondo la sua formazione culturale adopererà costante- 
mente l’ima piuttosto che l’altra, ovvero sceglierà l’una o l’altra 
secondo il proprio gusto o la conformità a. un certo modello, ecc. Così il 


133 II Maffei {Rime e Prose, Venezia 1719, Al Lettore) rifiuta esplicitamente 
pubblico-, il Denina ( Bibliopea , cit., pp. 107-108 n.) consiglia imaginazione, rinovare, 
procurare, academia-, il Gigli (Regole, Prefazione) vuole grammatica e non 
gramatica. 

131 Ma nel Benvoglienti (Opuscoli diversi, Firenze 1721, p. 56) leggiamo viapiù. 



482 


Storia della lingua italiana 


Vico scrive iconomia piuttosto che economia, forse per amore di 
arcaismo- il Baretti adopera lapida perché trovava questa forma nel 
Berni e nel Cellini; il Parini preferisce mercatante Perché questa 
variante gli sarà sembrata più adatta alla poesia (o forse per un 
preciso ricordo dell’Anosto), ecc. 

12. Grafia 

Dagli ultimi decenni del Seicento si ha ormai una grafia non molto 
oscillante essendosi placate le principali controversie. 

L’espediente di distinguere le e e le o toniche aperte per mezzo di un 
accento circonflesso, proposto da A M. Salvini all’Accademia della 
Crusca il 10 febbraio 1723-24 135 e applicato nella sua versione ài 
Oppiano (Firenze 1728), non ha carattere generale, ma vuol solo essere 
uji espediente didattico per facilitare la pronunzia ai non Toscani. 

Si distinguono ormai costantemente la u dalla v 13 ® e quasi sempre 
/ dalla i • troviamo j per lo più in parole come iattura, gennaio, coniugale, 
quasf sempre nel plurale dei nomi e aggettivi in -io-, propri, municipi, 

WZ LaT meramente ortografica qualche volta sovrabbont^ specie m 
scrittori settentrionali: cappuccietto (Goldoni), pregievole (Valhsmen), 

sciatta ®® c ®^^^ sa> salvo che in qualche raro caso di ““jcato 
adattamento in voci greche (per es. C. Caudini Gli elementi dell ' arte 
sfygmica, Genova 1769-, G. Arduino, «Saggio fisico-nuneralogico di 
Lythogonia (sic) e Orognosia*, in Atti Acc. delle scienze di Siena, , 

177 L’h non si adopera ormai che nelle interiezioni e, per lo più, nehe 
quattro voci del verbo avere 13 »; la farsetta del Martelli II P^fflllI, 
pubblicata in appendice al Vocabolario catenniano del* Gigh non è che 
uno sfogo anticruscante 139 . Solo in ran casi di voci dottissime si ha 

i3s Vedi }i «ragionamento» nelle sue Prose toscane, I, Firenze 1725, pp. 189-192. 
Strano il metodo di qualche tipografo di scrivere v in 
noccivolo, givochi, vovo (ma suoi, uomo): questo è luso seguito nelle Opere -del 

Va ^^ n CeiS l o e ra a de 7 l 3 Casotti (Firenze 1734) ha ossequi, ma invece arcolaio, 

vi è chi cerca di evitarla in questa seconda funzione-, nel Newtoniani- 
smo dell’Algarotti (NapoU 1737) si legge ò, à, Anno-, il p. Ildefonso Fndian^e di 
solito scrivi ho, hai, ha. hanno, non osa tuttavia introdurre ^^^cando 1 
opere di fra Girolamo da Siena, e preferisce scrivere ò, à, ma di, ànno {Delizie aegn 

eruditi toscani, I, Firenze 1770, p. clv). 

138 Ma che ha fatto quest’H sì inerme e sì innocente 
alle fauci dell’Amo, dov’abita sovente, 
che dagli scritti altrui voglion cacciarla in bando, 
mentre giammai non sanno scordarsene parlando. 

(p. 362, dell’ed. datata da Manilla) 


Il Settecento 


483 


qualche h etimologica, quasi mantenendo nel testo italiano la voce 
latina o greco-latina: P. M. Gabrielli scrive un trattato su L’Heliometro, 
Siena 1705; in un consulto il Vallisnieri parla di «un’apoplesia parziale, 
detta Hemiplexia » ma poco sotto usa «Emiplegia» 140 . Si ha anche 
qualche raro caso di mantenimento di h in digrammi greci-, il Salvini 
(( Oppiano , p. 5) scrive Parthi, il Vallisnieri (Opere, II, p. 215) Lapathj 
(nome di pianta); G. B. Sottovia tratta Della Loica-. l’Ideografia e 
l’Alethologia, Mantova 1748; per eufemismo e per evitare l’equivoco 
con fallo il Parini scrive «il turpe Phallo » (Mattino, v. 544). 

Nessuna traccia si ha più di k se non nel vocabolo ka voliere (come 
titolo cavalleresco) a Venezia. La c e la q sono spartite come ancor oggi 
facciamo (salvo pochi esempi aberranti: per es. risquotere nella Celidora 
del Casotti o nelle Commedie del Fagiuoli). 

La grafia con zi ha sostituito interamente quella con ti: orazio- 
ne, ecc. Qualche incertezza rimane ancora nell’uso della z doppia, sia 
in parole come vizi (vizzi come plurale di vizio è combattuto dal Leo- 
nardi) 1 ' 1 , sia nei casi in cui il gruppo latino ti era preceduto da con- 
sonante 1 * 2 . 

Gli accenti grafici si scrivono, di regola, in forma d’accento grave, 
sulle parole tronche; solo in rari casi si ha l’accento nel corpo della 
parola (ora in forma d’accento acuto, ora d’accento grave: ironia o 
ironìa ); in qualche opera di carattere didattico sono usati con maggiore 
abbondanza 143 . Molto oscillante è l’uso sui monosillabi (fu, sà, qui più 
spesso sono accentato. 

Si comincia a usare in poesia qualche segno (per lo più l’accento 
acuto) per indicare la dieresi 144 . 

L’uso dell’apostrofo è molto simile a quello odierno; il Corticelli dà 
la regola che si deve scrivere un uomo (Regole , 1. Ili, cap. 4), mentre 
ancora il Gigli (Lezioni di lingua toscana ( cit.) scrive un’uomo. Le 
maiuscole sono adoperate ancora con notevole frequenza. Ecco, per 
scegliere a caso qualche esempio, da un Capitolo di G. Gigli (nelle 
Lezioni ora citate): 

Disse un di lor: Ch’entrare alfin possiate 


140 Opere, III, p. 522. 

M1 Dialogo dell’Amo e del Serchio, cit., p. 18; lezzi è nella Celidora del Casotti, 
Vili, st. 30. 

143 Negli scritti del Vallisnieri leggiamo decozione o decozzione; il Rolli ha 
traduzzione-, il Baretti, nel primo numero della Frusta, censura il p. Morei che 
scrive produzzioni «con due zete alla romana»; l’Amenta, Della lingua nobile, cit., 
I, p. 59, difende le grafìe lezzione, concezzione (da et, pt latini) «contro l'uso degli 
stessi Accademici Fiorentini»; il Gigli dice che chi volesse scrivere lezzione, 
concezzione «non potrebbe tacciarsi siccome esse derivano dal et e pt, in latino, e 
molti Scrittori così han fatto» (Lezioni , cit.). 

143 Per es. nella Scelta di lettere familiari, curata dal Baretti (Londra 1779) per 
uso delle «damine» inglesi. 

144 Camilli, in Lingua nostra, XIX, 1958, pp. 24-26. 


484 


Storia della lingua italiana 


Come all’Inferno i Dottori di Legge. 

Allora quelle Bestie spiritate 
Entraron nello stabbio a cento, a cento, 

Quasi 1 Pastor l’avesse scongiurate. 

SSSSTtóttMSsrcaf ss 

faceano^ di lontan* prospetto all’elegante Palagio sii di questa genti 

C ° Nei* decenni°successìvi trovarne ancora abbondanza di maiuscole^ 
Der es nell’ Afimurgia. del Targioni Tozzetti, Firenze 1767, I, p. 2 
Piante Arboree e Fruticose che stanno sempre vestite di foghe, 

rw rfj ,ofn Tìresente in letteratura italiana, Venezia 1784, p. 14 («attesa la 
^StSoS Sra poSTca il Neologismo Straniero deVessere d pnmo 
Carattere Costitutivo del presente Gusto Italiano in fatto di Lette . 
^fnffinsoDra la lingua italiana del Cesarotti, Padova 1785, p 54: 
"rèuSmore menoSSabili gU Autori dede Lingue Dotte-, «qualche 
SS? ^S^Sista, Mattando le frasi idolatriche dei Romani alla 

^S'S^gSSdeto' grata fu proposta dal bergamasco 
uJSndo c£cia'« La sua .ortografia filosofica di soli diecinove 
SS- Conobbe abolire la /, la v, e la z. Egli manterrebbe ila ih .solo m 
h hni ha hanno oh ahi, deh. Scriverebbe otsio, gratsia, petso e anche 

"S^rhoXe-«b?.f^« 

a— 

de? (Scc’ia, da lui stesso applicata senza molta coerenza, non eb 
alcun séguito. 

13. Suoni 

Oualcuno dei grammatici toscani cerca di fornire schiarimenti sulle 
miattro lettere di pronunzia ambigua (e, o, s, z ): il Gigli nella «Raccolta 
di tutte le voci italiane di buon’uso» (inclusa nella sue Regole per 


,« gì veda il volumetto composto di più opuscoli usciti in date diverse e 
pomposamente intitolato Opere, Bergamo 1782-66. 


Il Settecento 


485 


toscana favella, Roma 1721) distingue (ma con numerose sviste) le 
parole di incerta pronunzia; invece gli altri grammatici non fanno che 
accennare al problema: per es. il Corticelli: «E... presso i Toscani ha due 
suoni, l’imo più aperto, come in mensa, remo-, l’altro più chiuso, e assai 
frequente, come in refe, cena. Cotal suono però appresso i Poeti non fa 
noja alla rima. Petrarca, canz. 24: Fa subito sparire ogn' altra stella, Così 
pare or men bella. E pure stella ha il suono chiuso e bella aperto» Q. Ili, 
cap. i; un analogo paragrafo si ha per la o). 

Le congiunzioni e e nè hanno ancora suono aperto, come si vede 
dalla trascrizione (è, né) che ne dà il Salvini nella sua versione di 
Oppiano. 

La moda franceseggiante fa che parecchi accolgano la pronunzia 
uvulare della r alla francese, e la testimonianza di Carlo Gozzi ci fa 
sapere che qualcuno proferiva alla francese anche la u 148 . 

La regola del dittongo mobile è largamente ignorata, anche dai 
Toscani (risuonasse, Cocchi; cagnuolina, Minzoni; scuoiare, scuolaretto, 
Baretti), benché i grammatici continuino a prescriverla (il Gigli, nei 
racconti che corregge per esercizio nelle Lezioni, muta suonando e 
muoveva in sonando e moveva ). 

La riduzione del dittongo uoao nel toscano parlato, che ancora nei 
primi decenni del secolo non è avvertibile (a giudicare dalle battute in 
fiorentino di G. Gigli) 147 , si dev’essere divulgata più tardi: il p. Ildefonso 
Fridiani documenta «Omo secóndo il tronco pronunziare del volgo 
anche presente» 148 . 

Non mancano le incertezze di accento: per dame qualche esempio, i 
Toscani preferiscono preparo, sepàro, mentre altrove si sentono spesso i 
latinismi preparo, sèparo (Rosasco, Della lingua toscana, Torino 1777, II, 
p. 463); si oscilla fra dissipa e dissipa, dìsputa e disputa, proibito e 
proibito (Salvini, Annot. alla Fiera, V, in, 4); il Chiari (Il Medico viniziano 
al Mogol, II, I) accenta ipocòndrio alla latina anziché alla greca. Poiché 
la comune scrittura non dà consigli sul modo di accentare le parole, 
quelle più rare vengono qualche volta imparate, e quindi ripetute, con 
accenti erronei: così il coltrici del Parini 149 o il Megàra del Cerretti 
(«Talia») o il Peripàto del Mascheroni («O mio Vigan...»). 

Il troncamento della vocale finale assoluta dopo liquida e nasale è 
ammesso in poesia («È la colpa e non la pena - che può farmi 
impallidir»: Metastasio, Temistocle-, «Muggir di mare e rimbombar di 


144 «Bello è sentire la lettera u pronunciata alla bergamasca, che ci faceva 
ridere, la lettera r pronunciata nell’ugola, ch’era difetto d’organo viziato, divenuti 
grazie e vezzi di pronuncia in Italia» (per influenza francese!: Gozzi, Chiacchiera 
intorno alla lingua laterale italiana, p. 65 Vaccalluzzo (cfr. Lingua nostra, XVII, 
1956, pp. 80-81). 

147 Migliorini Linguale cultura, p. 182 n. 

148 Delizie degli eruditi toscani, I, Firenze 1770, p. cx.iv. 

149 «Il Sonno - ti sprimacci le morbide coltrici» (Mattino , w. 85-86); più tardi il 
Parini si accorse dell’errore, e nelle varianti inserì un coltrici sdrucciolo. 



486 


Storia della lingua italiana 


tuon»; Mazza), ma suona falso dove i versi sono prosaici («Per or non 
ttqH/-» o scasso, vado per un affarci Goldoni). / ■ . 

Quanto ai troncamenti della vocale finale quando ima paro a si 
connette alla seguente (volgar lingua, ragion che sopravvenga ), non 
soltanto essi sonofrequentissimi nel verso, ma abbondano in parecchi 
OTOsSori del leSSndo Settecento; U Foscolo a più riprese se la prenderà 
contro questo «vizio di troncar le parole», che considerava «atticismo 

^Quando aUa^paroia troncata si affigge un’enclitica, non si ha 
assimilazione, almeno nella scrittura: passiamla (Fagiuoh, Il cavaliere 
parigino, II, se. 6). 

14. Forme 

Le oscillazioni che osserviamo nelle forme grammaticali sono 
ancora a un dipresso le medesime che nel Seicento. Davanti alla z 
Drevale ancora l’articolo il: ma nei passi del padre Segnen ritoccati dal 
n Bandiera, questi corregge ’l zelo in allo zelo. Un po piu rispettata è la 
rèttola che prescrive lo, gli davanti a s impura: il Baretti commentando 
un sonetto di un poeta frugoniano [Frusta lett., n. X) avverte: «ai scritti 
(doveva dire agli scritti)*. Il Cesarotti che nota queste particolarità fra 
quelle su cui «i timorati grammatici fanno schiamazzo» faggio ,III,iI 
adopera Uberamente ambedue le forme. La forma U per d piurate 
dell’articolo sta perdendo terreno, ma è ancora tutt altro che rar , 
sSc^davlnli a consonante: il GigU dice che deUa scel a fra i due 
articoU i e li «sarà giudice l’orecchia» {Lezioni, p. 42), mentre il 
MirapelU (Delle partì del volgare parlamento Casale 17 2 8 - p : che 
li è «più del Poeta che del Prosatore». Solo del v ® rs £ ? l ì l i ° x ^ a Ì^ V o 
consonante («i migUori che io ver non sanno»: Gozzi Serm XDD, salvo 
che non si tratti deUa preposizione articolata per, ché in questo caso 1 
grammatici continuano a prescrivere perdo 

larecchi (ma ad es. il Genovesi scrive pel desiderio). Ai, dei, nei sono 
SSd Temere sostituiti da a’, de’, ne\ Nei versi c’è chi preferisce 
scrìvere staccate le preposizioni articolate quando non siano apostro- 
fate p es il Parini scrive (in poesia, non in prosa) ne le Gallie, ma 
dellopre. La preposizione fra qualche volta è scritta congiunta («qual- 
che rosa traile mie spine», Fagiuoli). , 

Nel plurale dei nomi e aggettivi in -co e -go continuano le 
intonachi CTargioni Tozzetti), ittiofaghi ^smotti), 
d aralitìchi (FagiuoU), astrologhi (Gozzi), reciprochi (C. Gozzi, castu, 
tombrici (Cocchi), bruci CTargioni Tozzetti), catoiogi EanmchelW omo o- 
ei (GalianU- il Cesarotti, che nel Saggio aveva scritto teologhi, nella 3 
td. corresse in teologi. Anche nei superlativi, abbiamo cattolichissimo 


- seconda lezione pavese, in Opere, Ed. naz., VII pp. 93-94-, Discorso storico 
sul testo del Decamerone, in Opere, Ed. naz., X, p. 357. 


agi 


Il Settecento 487 

(Manni), filosofichissima dissertazione (Baretti), ascetichissimo e teologi- 
chissimo (p. Fridiani), ecc. Qualche plurale in -u è esumato per 
arcaismo (le coltella, G. Gozzi, le pugna, C. Gozzi) 151 . Per il plurale dei 
nomi in -elio, troviamo non solo capegli, ma anche campanegli (Baretti)-, 
in verso anche -ei (augei, Cerretti). 

Qualche numerale composto con sei o sette appare ancora in forma 
contratta: cinquansei (Saccenti), cinquanzettimo (Cocchi), venzett'anni 
(Baretti). 

I grammatici continuano a discutere il vecchio argomento, se lui e 
lei siano ammissibiU come soggetti; il Bertini ( Giampagolaggine , p. 140 
Bacci) e il Salvini in una cicalata 152 U ammettono in parecchi casi, il 
GigU (neUa prefazione al Don Pilone) chiede che «si doni ciò aUo stesso 
idiotismo plebeo di Toscana, il quale riesce quanto più proprio, tanto 
più grazioso». 

NeUe forme oggettive atone li e gli, lo e il si adoperano ancora 
promiscuamente. Probabilmente per influsso francese, si comincia a 
adoperare lo riferito a una frase precedente: «l’Accademico è un 
personaggio distinto dal Professore, come lo mostrò egregiamente il 
mio valoroso CoUega» (Cesarotti, «Riflessioni sui doveri accademici», 
in Opere scelte, I, p. 330 Ortolani). 

Gli atono con significato plurale è adoperato anche da un purista 
come C. Gozzi: «né vergogna - gli prende [= agli uomini! a dare il core 
aUe più viU» ( Turandoti 

II toscano gliene per «gUelo, gUela, ecc.» è adoperato per es. dal 
FagiuoU e, per arcaismo, da G. Gozzi («Presemi eUa la mano. Vorrei che 
aveste veduto con qual garbo io gliene baciai»: Osservatore veneto, 
XXIX). 

Accanto alle forme encUtiche normaU mi, ti, si sono ammissibiU nei 
versi le forme me, te, se-, anzi il Parini spesso, correggendo il suo poema 
già stampato, mutò saettarti in saettarte e simiU. 

Al plurale, ne per «ci» è frequentissimo anche in prosa. Qualche 
scrittore settentrionale, ricalcando il dialetto, confonde ci con si: «ci 
serviamo deUo stile famiUare... per non distaccarsi del verisimile» 
(Goldoni, Teatro comico, II, se. 2). 

NeUe sequenze di pronomi atoni, ancora persistono, in verso e in 
prosa, se gli, se le per «gU si», «le si»: «In questo mentre Gano se gli 
getta - ai piedi» (Forteguerri, Ricciardetto, XXIV, st. 69); « se gli facciano 
(al fanciullo] tirar due righe di scrittura» (Genovesi, Lez. civ. econ., I, p. 
203)-, «gode che se le presenti un’occasione» (Spalletta Saggio sopra la 
bellezza, p. 27 Natali), «non si obbedisce al medico e non se gli chiede» 
(Goldoni, Finta ammal., II, se. 2 a ). 

Ci e vi come avverbi di luogo, che prima significavano «in questo 


151 Nei prosaici versi della Notte critica di, se. 10), il p. Chiari accanto a dell’ova 
scrive degli ovi e l’ove. 

,!B Nella Raccolta di prose fiorentine, Firenze 1741, parte III, n, p. 200. 


della lingua italiana 


gloria aeu^ «*•©«** *»y**w™ 

00 uel luogo*, ormai sono venuti a confondersi, come 

A e *' q Gigli nel Vocabolario cateriniano, s. v. Particelle -, il p. 

i 0, ^comanda vi anche per indicare «in questo luogo»; invece il 

la distinzione di significato. . 

tfS&i f® imo nel Settecento è il costrutto il di cui libro, la di cui 
lusinga, che siate un giorno la di lui sposa»; Goldoni, Le 
%0yt e u& , S1 Gb I se. 1 1). Pure frequente è Io che (« S’egli pur ti piacesse, 
P eT lC t non osa»; Chiari, La Veneziana in Algeri, V, se. 2). 
t 0 Ì a fl Kip er0 ‘ X c k nuò ancora adoperare come un plurale: «un mazzo di 
gfdpfi oDerazioni di lingua»; Salvini, Prose toscane, I p. 210); 

yt> C Q0{L d’impiego» (Parini, lettera 1769 al conte Firmian), 

O lC !% e °Xnmaticature» (Amen, Vita, anno 1783), ecc. 
d'iffirtì# possessivo suo è talvolta adoperato con riferimento a un 
es il Gigli («tante Eccelse, e robuste Monarchie dalle 
così pg djv elt e »f orazione 1714, in Lezioni, p. 161-, il Becelli 
né 1’Ariosto] lasciarono di scrivere Toscanamente, 
auisa parlassero i terrazzani suoi»-. Se oggidì senven- 
Vjb fifi m Goldoni («Le Muse, che non abbandonano i suoi divoti»: /I 
74)- . tt sc . 7 ) : all’influenza latina si assomma in questi ultimi 

■ó e a dialettale. . 

y SP"AP h a ue ^ à anche il rafforzamento con che dei pronomi e avverbi 
pO rtv\ nazzi quanti che siete» (Goldoni, I malcontenti , II, se. 8), 
0 0 V<i-. che condizione miserabile che mi trovo!» (Goldoni, Le 

h 1 ®.’ vili I 7) «come che fanno i cani» (Chiari, Il Tesoro, I, sc. 
P er Ift r’è del male» (Chiari, La bella pellegrina. II, sc. 1), ecc. 
(tprJe c oinne verbale è grande l’abbondanza delle varianti, tra le 
0 eS f°Sci si sforzano di mettere- ordine, fi Gigli, nelle Lezioni 
ah cana, accanto alla colonna in cui registra le forme 

0 rii *JaO> ' ^ ha altre tre, di cui una è dedicata alle forme «antiche», 
dirlrvlP*’^* poetiche», l’ultima a quelle «corrotte». Senza discutere 
* aP * 0 di questa classificazione 154 notiamo l’importanza data 

0 Liche; in genere si tratta di forme arcaiche ancora 

pà\\’°?fiP e versi Naturalmente il giudizio sull’appartenenza di 
^fth^^Vi-una o all’altra categoria è in parte opinabile: per es. il 
éKriQ e-d&ZSÌ accanto a vediamo e veggiamo corretti, vedemo come 
a? *°se>& s -a Non ci meraviglia di trovare la terminazione in -emo nel 
v^t’è noto, arcaizza («il di più che noi godemo sopra gli 
^^nuneno di trovarla in poesia («Veder ciò che vedem tu 

^rfversi approfittano largamente della libertà di servirsi 
a ?\ 0 e.aOirt laiche»- troviam ó la -e nella terza persona del congiuntivo 

tO'cPpe ‘P° 

d* elle stesse Lezioni, p. 57: «resta talora qualche dubbiezza intorno al 

*9 C^’sito* Partizione del Gigli è accolta da G. B. Pistoiesi, Prospetto di Verbi 
* a uftdn ^76l- e una divisione simile daranno, nel secolo seguente, il 
Compagnoni. 


Il Settecento 


489 


dei verbi in -are, non solo dove il poeta aspira a un tono nobile («E l’amo 
ancor che il suo destin l’onnode - con sacro laccio a più felice amante»: 
Zappi; «nè perché roco ei siasi, o dolce ei conte»-. Zappi, «Il gondolier...»; 
«quanta awien che olezzante aria rinnove »: Varano, Visioni, I; «Una 
certa grandezza - splende, che si può dir che nulla manche »: C. Gozzi, 
Marfisa bizzarra, VI, st. 85) 155 ma anche in passi di andamento prosaico, 
in cui la forma è prescelta soltanto per trovare più facilmente la rima 
(«A sé mi chiama il Duca; fa che l’udienza aspette»-. Goldoni, T. Tasso, II, 
sc. 1; «Si cangi quanto vuole; ma trovi chi l’ascolfe»; Chiari, Il poeta 
comico, III, sc. 2). Se ai versificatori è riconosciuto il diritto di servirsi 
delle forme poetiche, perché privarsene? Così il Chiari arriva a 
esumare un arcaico sièno per siano, quando gli serve una rima in -eno-, 
«Non dico che insoffribili gli uomini tutti sieno» Ul filosofo viniziano, I, 
sc. 1). 

Tra le varianti generalmente ammissibili ricordiamo le due forme 
della prima persona singolare dell’imperfetto. Accanto alle forme era, 
amava, vedeva ecc., di gran lunga predominanti, sf hanno le forme ero, 
amavo, vedevo, ecc. (usate per es. dal Chiari e da P. Veni). Altra forma 
oscillante è la 2 a persona singolare del congiuntivo presente: che tu 
abbia o che tu abbi 156 

Le forme di terza persona plurale del congiuntivo del tipo vadino, 
venghino sono largamente diffuse, ma proscritte dai grammatici 157 

Per le seconde persone plurali dell’imperfetto indicativo i Toscani 
preferiscono alle pesanti terminazioni regolari (voi andavate, voi 
facevate ) le forme più brevi voi andavi, voi facevi, ma, salvo il Fagiuoli, 
v’è pochi che osino scriverle 158 

Al condizionale, le forme di terza persona in -io sono frequenti nel 
verso, ma si hanno anche nella prosa. Quelle di prima persona plurale 
in -aressimo, -eressimo, -iressimo appaiono qua e là, ma i grammatici 
non le tollerano: correressimo (Vico), vedressimo (C. Gozzi), saressimo 
(Cesarotti), potressimo (Alfieri). Alla terza persona plurale le forme in 
-ebbono sono ancora ammissibili. 

Non termineremmo più, se volessimo elencare la maggiore o minore 
osservanza delle forme di verbi meno regolari: notiamo tuttavia che gli 


155 II Panni, che nel Mattino aveva scritto «Sì temerario che in suo cuor ti 
beffi-» (v. 633), «E chi vuoi ch’osi» (v. 650) ecc., ritoccando il poemetto correggeva ti 
beffe, ose, ecc. 

158 Il Cesarotti, nell’un caso e nell’altro, si pronunzia almeno teoricamente per 
la forma «inserviente alla distinzion delle persone» (Saggio, III, n, 2), cioè per 
amavo e abbi. Anche il Rosasco {Rimario, alla terminazione - oschi ) preferisce che 
tu conoschi a che tu conosca. 

157 II Natali, nel ripubblicare il Saggio sopra la bellezza di G. Spalletti (1765), 
avverte (Firenze 1933, p. 82) di aver eliminato forme come convenghino, appari- 
schino, rimanghino. 

158 In una scena del Cavaliere Parigino del Fagiuoli (II, sc. 17, in Commedie, III, 
Firenze 1735, p. U6), un personaggio domanda: «... lo volevate ?» e un altro 
risponde: «Eh, io non lo volevavo... questo signore lo volevava». 


490 





scrittori non toscani hanno una certa tendenza ad applicare i paradi- 
gmi regolari-, potiamo (passim), onderà, averà, goderà (Goldoni), s oppo 

nera (Chiari), veniremo (C. Gozzi), ecc. 

L'ausiliare dei verbi riflessivi impropri è ancora avere-, «si hanno 
preso la briga» (Galiani), «se si avesse seguito l'ampio campo» (A. Conti) 
«mio fratello se l'ha sposata Qa Bergami» (C Gozzi) «mi Pare che 
abbiasi fatto più onore di quel che meritava» (Mazzuchelli), ^ Pe^o 
che .. l'acqua vi si abbia scavato il canale piu angusto* (Targiom 
Tozzetti), «l’idea che codesti Signori si hanno di me formato* (MelB, eca 

Della flessione personale delle forme indefinite, propria un tempo 
dei dialetti meridionali e dell’italiano scritto fondato su di essi (esser eno, 
essendono) non vi sarebbe più traccia, se il Vico non 1 avesse adoperata 
con voluto arcaismo. 


15. Costrutti 

In questo campo si fa molto sentire l’influenza francese Francese è 
il tipo «pollo allo spiedo» (biasimato come tale nel Raguet del Maffei, 
III, se. 2; cfr. p. 476) Il di partitivo si estende al di là di quel che era 1 uso 
tradizionale: «con più di energia», «il troppo di varietà» (Algarottfl. 

Al francese si appoggia la fortuna del superìativo relativo con 
l’articolo ripetuto: «le anime le più sonnacchiose» (Genovesi), «il poema 
il più galante che ci sia», «le verità le meglio dimostrate» (Algarotti), «la 
musica la più eccellente» (Goldoni), «l’uomo il più grave, 1 uomo i piu 
XSbeo della terra» (P. Verri), «l’uomo il più sensitivo della terra» 
(Pe rini) , «l’arte la più necessaria» (Filangieri), ecc. 

Sul francese è modellato il costrutto «E Antonio (o E lui ) che me 1 ha 
scritto» con valore enfatico: «È da così lungo tempo eh io non ho nuove 
di lui» (Algarotti, Opere, XVII, p. 27), «fors’è per ciò che vengono spesso 

a trovarmi» (Bettinelli, Opere, V, p. 89), ecc. 1 . 

E anche il costrutto «Non gli ho dato per elemosma che un 

quattrino» risente dell’influenza francese 180 . , . 

Lo stesso si può dire del tipo per poco che («per poco eh io cambi non 
sono più io»: Bettineili, Opere, V, p. 123) e del tipo troppo... per («egh è 
troDPO saggio e prudente per approvare»: Fontamni) . 

Si divulgano ora (e li biasima il Maffei nel Raguet) ì due costrutti 
perifrastici vengo di dire, vado a fare. 

IS » Già l’italiano possedeva costrutti come «È Antonio, che è tenuto a 
salutarmi» e «È manifesto che ha ragione», sui quah il nuovo tipo ha potuto 

facilmmde appgparsio 63; ado pera per altro che, fuor che, più che 

alla Franzese» CU costrutto antico era non., se non...- «le gru non hanno se non una 
cosciav Bocc. ^■ t ^ I li > 0 1 °Ì 0Strutt0 U biasimo di G. G- Orsi (ConsiMoni 
sopra un famoso libello franzese, I. Modena 1735, p. 720) e di G. C. Becelh (Se oggidì 
scrivendo..., cit., p. 80). 


Il Settecento 


491 


Il gerundio preposizionale in leggendo (Algarotti, G. P. Zanotti) è 
promosso dall’analogo costrutto francese, ma ha esempi antichi negli 
scrittori del Trecento (in aspettando : Petrarca) e del Cinquecento, e 
perciò è considerato legittimo 162 . Malgrado («malgrado la lontananza», 
Zanotti; «malgrado le gelosie frequenti»; Bettinelli) tende a sostituire, 
secondo l’esempio francese, il costrutto tradizionale o malgrado di. 
Anche la ripresa col relativo («il dialetto particolare d’un popolo 
illustre dell’Italia, il quale dialetto...»: Parini) sembra dovuta all’influen- 
za di analoghi costrutti francesi 183 . 

Ma, più ancora che nei costrutti nuovi o rinfrescati, l’influenza 
francese si sente nella scelta d’un periodare diverso da quello tradizio- 
nale. La frase lineare tende a sostituire quella architettonica: molti 
preferiscono ai periodi lunghi, ricchi di nessi subordinati («stile periodi- 
co»), periodi brevi scarsamente sindetici («stile spezzato» o «interrot- 
to»). Inoltre, prima Lordine delle parole era ricco d’inversioni, e 
regolato in un ampio giro preferibilmente concluso da un verbo, 
secondo i modelli latini e quelli latineggianti del Boccaccio o del Casa; 
ora invece molti scrittori preferiscono l’ordine diretto. I due problemi 
sono diversi, benché strettamente connessi 184 ; in Francia i grammatici 
ne discutono a lungo, sotto l’influenza delle idee di Cartesio e di Port- 
Royal, mirando soprattutto a raggiungere la massima chiarezza; in 
Italia i novatori come l’Algarotti, i Verri, il Cesarotti, non perdono 
occasione di lodare i pregi dello stile spezzato e dell’ordine diretto 18S ; il 
Beccaria ironizza sull’«arte sopraffina di stemprare un pensiero, anche 
comune, con qualche centinaio di parole, e poi impastarne tutto il 
composto in un bel periodone di mole gigantesca, e tutto cascante di 
vezzi, e sostenuto da tante minutissime particelle, che fanno poi il 
secreto dell’arte» («Lettera sulla lingua», Il Caffè, tomo I, Brescia 1765, 
p. 70) 166 . Invece il Galeani Napione difende i periodi che spaziano 


162 M. V. Setti, in Lingua nostra, XIV, 1953, p. 12. 

163 G. Folena, in Lingua nostra, XVIII, 1957, pp. 22-23. 

164 Vedi, specialmente sul secondo argomento, A. Viscardi, «Il problema della 
costruzione nelle polemiche linguistiche del Settecento», in Paideia, II, 1947, pp. 
193-214; e M. Puppo, «Appunti sul problema della costruzione della frase nel 
Settecento», in Boll. Ist. lingue estere Genova, V, 1957, pp. 76-78. 

185 Si senta l’Algarotti nella prefazione al Newtonianismo del 1737: «Lo stile 
che io ò procurato di seguitare, è quale io ho creduto convenire al Dialogo, netto, 
chiaro, preciso, interrotto, e sparso d’immagini e di sali. O’ schivato più che ò 
potuto quell’intralciati e lunghi periodi col verbo in fine nemici de’ polmoni e del 
buon senso, che sono, assai meno che non si pensa, del genio della nostra Lingua, 
e che non devono essere guari del genio di quelli, che vogliono essere intesi. Gli ò 
lasciati affatto a coloro, che anno abbandonato il Saggiatore per la Fiammetta... »; 
oppure la sua lettera a E. Zanotti da Potsdam, 15 maggio 1747, in cui professa di 
schivare «a tutto potere quegli intralciati e lunghi periodi col verbo in fine, nemici 
dei polmoni e del buon senso...». 

— 188 I grammatici francesi, e specialmente il Condi llac, avevano insistito 
sull'inutilità delle particelle subordinanti nelle numerosissime frasi in cui la 
dipendenza era già ovvia. 


492 


Storia della lingua italiana 


ampiamente 1 ® 7 , e ritiene un vantaggio dell’italiano quello di ammettere 
sia la costruzione diretta che quella inversa; G. Gozzi non può soffrire 
lo stile spezzato 168 . Il Baretti più volte insiste sui pregi dell’ordine 
diretto 189 , ma non è molto favorevole al periodare spezzato 170 . 

Tende sempre più a fissarsi la sequenza moderna per cui l’attributo 
con valore limitativo segue il nome a cui si riferisce: in particolare i 
participi, gli aggettivi etnici, gli aggettivi indicanti la materia o la 
forma o il colore. La regola è lungi dall’avere carattere assoluto: vi si 
può contravvenire sia nella lingua poetica, che non rinunzia alla sua 
antica libertà, sia anche in prosa per influenza latina. Il Metastasio 
ricorda l’araba fenice nella notissima quartina del Demetrio Gl, se. 3); la 
Veneta Marina è dell’uso ufficiale della Repubblica Veneta-, il Parini 
parla della cimmeria nebbia, dell’itala voci, déìl’italian Goffredo, e così 
via; il Baretti parla di «alcune settentrionali isole»; l’Alfieri nella Vita 
ricorda un suo periodo «di logorate grammatiche e stancati vocabolari... 
e di raccozzati propositi» 17 ' , ecc. 

Fra le trasposizioni più o meno ardite, di cui la lingua poetica 
conserva il privilegio, ricordiamone una frequente soprattutto nel 
Pe rini 172 , l’incastro di un complemento tra l’aggettivo attributivo (o 
anche il semplice articolo) e il nome: «e le gravi per molto adipe dame» 
(Parini, Notte, v. 268); «le dal sol percosse - del suo fiotto inegual spume 
d’argento» (Bettinelli, «All’abate Benaglio»), «Su la d’olivo inghirlanda- 
ta prora» (Fantoni, «Sorgi Laware...»), «la rauca di Triton buccina tace» 
(Mascheroni, Invito a Lesbia Cidonia, v. 88), ecc. 

Le rudi trasposizioni dell’Alfieri colpivano lettori e ascoltatori: 
prova ne sia quel verso parodistico che un bello spirito coniò nel teatro 
dei Dilettanti a Roma, una sera di scarso concorso: «Oh poca quanto 
nel teatro gente!» 173 . 


187 Dell’uso e dei pregi della lingua ital., 1 . II, cap. n, § 10. 

186 «Oggi è usanza che non si usano più periodi ma singhiozzi; e quello è 
periodare meglio gradito, ch'è più spesso rotto... Quando til fanciullo! studia le 
novelle scelte del Boccaccio, gli farei notare la purità, la varietà e la proprietà del 
suo stile; ma l’armonia di quel periodare non è più intesa dagli orecchi nostri, 
divenuti ritrosi pel continuo stile interrotto, smanioso e a singhiozzi, che s’usa 
oggidì, per grazia delle traduzioni dal francese e per colpa de’ traduttori» (Scritti 
scelti... da N. Tommaseo, Firenze 1849, II, p. 225 e 240). 

160 V. i passi della Frusta letteraria Ù5 novembre 1763, 1 aprile 1764, 15 gennaio 
1765) e della Scelta delle lettere famil. Qett. XXVI) ricordati da Viscardi, art. cit. 

™ o almeno a quello stile molto spezzato che Voltaire adoperava nella 
lettera indirizzata al Goldoni «figlio della natura»; «egli non sa finalmente che 
noi' non scriviamo a periodetti spezzati, come fa egli in questa sua grama 
letteruzza, usando noi di legare i nostri pensieri e i nostri periodi con un poco di 
garbo e d’armonia» (Frusta, n. XXII, 15 agosto 1764; I, p. 187 Piccioni). 

171 Cfr. le osservazioni di M. Fubini, in Lingua nostra, XV, 1954, p. 109. 

172 Ma di cui già si avevano esempi nel Martelli (Carducci, Opere, XVII, pp. 
154-155). 

173 I. Bernardi - C. Milanesi, Lettere inedite di V. Alfieri, Firenze 1864, p. 74. 


Il Settecento 


493 


16 . Consistenza del lessico 

Se guardiamo qual era, al principio del secolo, il lessico che gli 
Italiani avevano ricevuto per tradizione, vediamo che nei suoi elementi 
essenziali era quello medesimo dei secoli precedenti. Ma alla tendenza 
conservatrice si contrappongono forti tendenze novatrici, conformi alla 
inclinazione generale del Settecento di ribellarsi alla tradizione ove 
non corrisponda alla «natura» e alla «ragione». E poiché antesignana 
di questo movimento è la Francia, una larga parte delle innovazioni è 
data dai francesismi: sia vocaboli propriamente francesi, sia vocaboli 
di formazione greco-latina che muovono dalla Francia per divulgarsi in 
tutte le lingue europee. 

Diamo una rapida occhiata ad alcune fra le parole che cominciano 
ad essere adoperate o che assumono nuovi significati e nuova voga in 
questo secolo 174 . 

Filosofo e filosofico hanno un significato molto generale, riferendosi 
non specificamente alla scienza dei primi principii, ma a ogni attività 
che implichi riflessione. Per es. il Targioni Tozzetti avverte: «conside- 
rando attentamente con occhio Filosofico questa Pianura orizzontale 
di Pisa, si vede che l’Amo negli antichi tempi l’ha dominata in varj 
luoghi» (Relazioni d’alcuni viaggi, 2 a ed., Firenze 1768, II, p. 94); P. Verri 
parla del «filosofico pellegrinaggio d’America» del La Condamine (Il 
Caffè, tomo II, Brescia 1766, p. 273). Molti parlano del filosofismo (e anzi 
l’abate Cataneo espone II filosofismo delle belle, Venezia 1753); e si 
designano vari rami e varie scuole della filosofia (per es. psicologia; 
fatalismo, materialismo, monismo, ecc.). 

La persuasione d’essere giunti all’età del trionfo della ragione dà 
valore di mito alle espressioni lumi ( secolo dei lumi, filosofia dei lumi), 
illuminato, ecc., che appaiono frequentissime, sia nei fautori dello 
spirito nuovo, per es. sotto la penna degli scrittori del Caffè 175 , sia, 
ironizzate 178 nei lodatori del tempo antico 177 . 

Anche letterato ha un senso molto più ampio di quello odierno: non 
essendo ancora approfondita la scissione fra le lettere e le scienze. 


174 Vanno tenute presenti le osservazioni e le ricche note di A. Schiaffìni, nel 
V cap., già cit., dei suoi Momenti. 

175 «Più l’uomo è illuminato, e minore è il numero degli avvenimenti che 
attribuisce alla fortuna»; Verri, Il Caffè, tomo II, p. 153; «illuminatasi la pubblica 
opinione venga stabilito un modo più ragionevole e meno feroce per rintracciare i 
delitti»; Id., «Osservazioni sulla tortura», in Opere varie, I, p. 357 Valeri, ecc. 

176 «Benedetti i scrittori illuminati!»: C. Gozzi, Marfisa bizzarra, XI, st. 33; 
[costumi e caratteril «riformati da’ scrittori pemiziosi e dalla scienza del nostro 
secolo detto illuminato»; Id., note alla Marfisa ; «una scienza che anima la 
corruttela sotto l’ipocrita veste di illuminatrice»: Id., Chiacchiera p. 78. 

177 Su queste espressioni, cfr. P. Hazard, La pensée européenne au XVIII* siede 
de Montesquieu à Lessing, III, Parigi 1946, pp. 26-31; Fubini, in Problemi e 
orientamenti. III, p. 590; in particolare su illuminismo, A. Natta, in Belfagor, I, 
1948, pp. 603-607. 


494 


Storia della lingua italiana 


letterato si riferisce alle une e alle altre, vuol dire msomma « dotto» (il 
Giornale dei letterati corrisponde al Journal des Sgavans francese). 

Concetto proprio della filosofia del tempo, ma ben noto anche ai 
non filosofi è quello del buon gusto : ne discettava, come è noto, il 
Muratori (Lamindo Pritanio, Riflessioni sopra il Buon Gusto intorno le 

Scienze, e le Arti, Venezia 1708). . . _ , _ , >_ 

Se la ragione è uno dei miti del secolo, non meno importiate è la 
funzione che si attribuisce al sentimento 178 : nasce allora il termine di 
sentimentale 179 , mentre sensibile viene a significare «che si commuove 
facilmente», «che ha sensi di umanità». 

Entra nell’uso emozione, acquista voga sublime. „ 

La distinzione già esistente fra genio e ingegno viene approfondita 
nel 700 e ge/So riene applicato non solo agli spontanei impifisi 
dell’animo ma a una forza creatrice eccezionale, e poi anche all uomo 
in cui questa forza si manifesta: «Siamo qui (sic) 

_ „ ot . rn oì Hire di . sì gran gemo qual fu Dante» (Salvini, Prose 
tose III P 2) 180 Altra esigenza settecentesca è quella della tolleranza, 
ODDOSta al fanatismo m . Gli increduli estendono l’ambito di pregiudizio 
fino° a includerà ogni manifestazione religiosa-, e si protestano 
^rejudtcati, spiriti forti, liberi pensatori * Molti si professano filantro- 

Pl Persiste^ ancora il vecchio significato di patria e di nazione ritrito 
alla città o al piccolo stato a cui uno appartiene; ma sempre piu 
frequente è il riferimento all’Italia intera- Patriota, patnotto che nel 
Seicento voleva dire «compatriota», ora prende il significato di «aman 
pipila rjatria»; seguono patriotitìico e patnotltiismo • 

Entrano in circolazione nel Settecento anche democrazia e despoti- 
smo. Nella seconda metà del secolo, appare il termine di risorgimento. 


». Lerch, in Archivum Roman.. XXII, 1938, pp. 338-349; Fubini, in Problemi e 

0rte ^ a ^ t Todotto’ m balia, sembra, nel 1792, con la prima versione del Viaggio 
. . » j- Qi-rnp fA L Messeri in Biv. lett. med n. 15-16, 1954, pp. 102103). 

sen ™ v n gli echi della reazione puristica in Vìani, Dizionario di 

r 

noto articolo Della patria degli Italiani di Gian Rinaldo Carli. 

185 Schiaffini, Momenti, p. 112. 


Il Settecento 


495 


come espressione della volontà di uscire dallo stato di inferiorità in cui 
l’Italia allora si trovava; più che altrove, in Piemonte la parola è 
permeata di pensiero politico («il nostro imminente risorgimento»; 
conte di San Raffaele, 1769) 188 . 

Alle discussioni sulla lingua è legata l’apparizione di linguaio, 
parolaio, purista e di neologismo. 

Il significato estensivo di abate, riferito in genere a qualsiasi 
ecclesiastico (cfr. p. 360), e la divulgazione di cicisbeo sono tipici di 
questo secolo. E così pure la moda degli improvvisatori e quella delle 
raccolte. 

L’introduzione dell’uso del doppio settenario è ricordata traendone 
il nome da quello dell’autore: martelliano, da P. I. Martelli. «Il 
Settecento distinse la gazzetta dal giornale, e il gazzettante, compilatore 
di notizie cittadine e politiche, dal giornalista, compilatore di notizie 
letterarie: mestierante il primo, letterato, o savant, dotto di scienze e di 
lettere, il secondo» 187 . 

Da opere letterarie del Settecento prendono origine alcuni nomi: 
vanesio dal nome del protagonista della commedia del Fagiuoli Ciò che 
pare non è (1724), ciana dalla protagonista del melodramma di A. Valle 
Madama Ciana (1738), lillipuziano dai Viaggi di Gulliver di Swift, e altri 
ancora 188 . 

Le parole dell’opera in musica sono consegnate a un libretto-, può 
darsi che il termine risalga al tardo Seicento, ma comunque non era 
ancora ben consolidato al principio del Settecento, perché il Muratori 
nel trattato Della perfetta poesia (1706) scrive: «Mancando all’uditore il 
libricciuolo (come suol chiamarsi). dell’Opera...». 

Numerosi vocaboli nuovi appaiono nel campo delle dottrine stori- 
che e critiche: biografo, editore, diploma (insieme con diplomatico e 
diplomatica ) ecc. 

Secentismo e secentista prendono senso spregiativo nella prima 
metà del Settecento 189 . Romanzesco, che al principio del secolo non era 


186 Calcaterra, Co nvivium, 1947, pp. 5-32. Cfr. anche: «Amo la mia patria, 
compiango i suoi mali, e morirò prima che ne disperi il risorgimento » (P. Verri, 
«Pensieri sullo stato politico del Milanese», 1790). 

187 G. Natali, Il Settecento , p. 39, cita la definizione dei giornali data dal Maffei 
nell’Introduzione al Giornale dei letterati d’Italia: «quell’opere successive, che 
regolatamente di tempo in tempo ragguagli danno de’ varii libri, ch'escono di 
nuovo in luce, e di ciò che in essi contiensi» (ciò che oggi diremmo «rassegna 
bibliografica»). 

188 Migliorini, Dal nome proprio, pp. 188-190, dove sono però incluse anche voci 
nate nell’Ottocento per riferimento a personaggi settecenteschi: per es. pamela 
«cappello di paglia a larga tesa per donna», ecc. Si può aggiungere il nome di 
delia, dato dal matematico p. Guido Grandi a una curva, per onorare la contessa 
Clelia Borromeo. 

189 Cfr. la lettera del Metastasio all’ Algarotti del 1 agosto 1751: «da mezzo 
secolo in qua, non v’è barcarolo in Venezia... che non detesti, che non condanni, 
che non derida questa peste, che si chiama fra noi secentismo »; o la History of thè 
Italian Language del Baretti: «Nor can we give a more opprobrious character to a 


496 


Stona della lingua italiana 



altro che un aggettivo di relazione di romanzo se mai con una 
sfumatura spregiativa 180 , verso la fine prende quel significato per cui 
noi prevarrà il vocabolo romantico-, «un misto di culto e di selvaggio, 
d’ameno e d’orrido, di ridente e sublime forma una scena veramente 
mirabile e romanzesca »: così il Pedemonte, nel romanzo Abantte 
(1790) 101 . Pure in voga tra i Preromantici sono patetico e pittoresco. 

Ebbero fortuna alcune locuzioni con bello-, bell’ingegno 192 , belle arti. 

Negli ultimidecenni del secolo si divulga l’aggettivo barocco, riferito 

all’architettura e alla scultura secentesca 193 . 

Abbondano i nuovi vocaboli riferentisi a nuove mode, per lo piu 
provenienti d'oltralpe: andrienne, falpalà, ecc. (ne enumereremo parec- 
chi nel § 21). . 

Appare qualche nuovo veicolo, come lo svimero. 

Numerose invenzioni, italiane e straniere, dannò origlile a oggetti 
nuovi, che entrano in circolazione con i nomi rispettivi: ncor^amo il 
pianoforte, chiamato dapprima dal suo inventore, il padovano Bartolo- 
meo Cristofori, il clavicembalo col piano e forte Oa imtizia della scoperta 
fu divulgata da S. Maffei nel Giornale dei letterati d Italia nel 1711) . E 
poi il ventilatore, lo scafandro, l’aerostato, ecc. La tendenza alla 
praticità si manifesta con l’apparizione dell’aggettivo tascabile che 
rSgarotti Getterà del 1 gennaio 1763) dice d’aver appreso dall uso 

Par Appaioiuf nuovi giochi (come il faraone)-, si divulga in Italia il gioco 
del lotto (da Genova, dove si scommetteva sul seminano, cioè sull estra- 
zione a sorte dei nomi dei magistrati maggiori di tra 1 120 già approvati 

Nel campo giuridico qualche vocabolo nuovo è dovuto specialmente 
ai provvedimenti di carattere giurisdizionalistico; si pensi a monomor- 
to Persistono forti differenze di nomenclatura per istituii analoghi, 
dovute al mantenersi delle diverse tradizioni nei singoli stati. Ma per 
qualche termine che ha significati diversi secondo ì luoghi si ha ogru 
tanto qualche intervento normalizzatore: sappiamo per es. che nel 1706 
a Roma il Tribunale della Rota, dovendo decidere se majorasco 


bad modem scribbler, than by calling him un secentista » (Prefazioni e polemiche, 

^ «è più facile, che i giovani a’ cattivi (libri], e a’ Romanzeschi s appiglino, 
che a buoni»; Valiisnieri, Opere, III, p. 259 

181 Bosco, in Problemi e orientamenti, 111, p. 62L _ 

182 Su cui cfr. Baretti, Frusta, n. Vili: I, p. 213 Piccioni. 

‘«a Esso risale all’agg. frane, baroque (di provenienza portoghese) sovrappo- 
stosi al termine barodcìo, già esistente in italiano come vocabolo mnemonico 
artificiale per indicare una forma di sillogismo (Getto, Letteratura e critica nel 
tempo, Milano 1954, p. 148; Kurz, in Lettere ital., Xf 414^; J^ormi, 

[Accademia dei Linceil, Manierismo, Barocco, Rococò, Roma 1962, pp. 39-49). 

184 Ma un istrumento «piano e forte lavorato tutto a rabeschi d hebano con 
suo organo sotto» era già in un inventario-estense del 1598. 


Il Settecento 


497 


significasse «eredità che tocca al fratello maggiore» come si usava a 
Firenze e la Crusca aveva codificato, o invece «primogenito » come si 
usava a Siena, si pronunziò per il secondo significato 195 . 

Il nuovo fervore da cui sono animati i traffici tra i vari paesi, e 
l’interesse che si manifesta per gli studi economici portano a innovazio- 
ni notevoli nella terminologia 196 . Ecco termini come economia politica 
(con i sinonimi pubblica economia e economia civile ) e il derivato 
economista ; monetaggio, materie prime, monopolio, ( libera ) concorren- 
za 197 , esportare e importare™; biglione «argento di bassa lega», miliona- 
rio™, aggiotatore, cambia-valute, ( lettera ) cambiale, tassabile, capitali- 
sta, ecc. 

Manifattura e stabilimento passano, secondo l’esempio francese, dal 
significato astratto di nomi d’azione a quello concreto. 

I nomi delle istituzioni vecchie che spariscono e di quelle nuove che 
si istituiscono nel periodo delle riforme andrebbero elencati stato per 
stato: a Milano, per esempio, sotto Maria Teresa si effettua il primo 
censimento nel 1749, si mette in opera il catasto prediale nel 1760, si 
aboliscono le ferme e i fermieri nel 1771; sotto Giuseppe II vengono 
create in Lombardia le camere di commercio, ecc. Oltre ai nomi delle 
istituzioni pubbliche, vanno ricordati quelli di importanti istituzioni 
private: per es. l’asilo d’infanzia istituito a Genova nel 1757 da Lorenzo 
Garaventa. 

II grande sviluppo delle scienze nel secolo XVIII fa sì che le 
terminologie della botanica, della zoologia, della fisica, della chimica 
ecc. subiscano modificò fioni grandissime. Appaiono migliaia di voci 
nuove, di cui molte arrivano a penetrare nell’uso comune-, parecchi 
termini, accanto al significato comune, ne prendono uno tecnico; altri 
spariscono dall’uso, e così via. Mentre per alcune scienze siamo 
esattamente informati, purtroppo per altre lo siamo molto meno, 
perché gli specialisti non sempre hanno curiosità per la storia delle 
discipline rispettive. 


185 C. Lucchesini, Della illustrazione delle lingue antiche e moderne, 2“ ed., 
Lucca 1826, I, p. 67. Si ricordi anche l’amplissimo Parere intorno al valore dèlia 
voce Occorrenza di P. F. Tocci, Firenze, 1707. 

106 V. le considerazioni e gli spogli di A. M. Finoli, in Lingua nostra, Vili, 1947, 
pp. 108-112, IX, 1948, pp. 67-71. 

187 Nel significato di «concorrenza» il Baretti aveva tentato il neologismo 
competenza-, «far valere i vini nostrani in competenza, dirò così, con quelli di 
Francia» (Frusta , n. VII: I, p. 174 Piccioni). 

188 « Esportare ed esportazione sono frequenti, ma accanto a questi gli 
economisti usano anche i più generici estrarre, estrazione. Raro è importare, cui si 
preferisce immettere, introdurre, intromettere-, ma importazione prevale su immis- 
sione, introduzione e il rarissimo intromissione » (Finoli, Lingua nostra, IX, p. 69; in 
nota i rinvìi ai singoli autori). Aggiungiamo che il Bettinelli adoperando esporta- 
zione {Opere, XXI, p. 211) lo scrive in corsivo. 

188 La parola è ancora legata al ricordo deH’inflazione seguita alle operazioni 
di Law: «tutti coloro che a tempo del sistema di Parigi furono chiamati milionari » 
(Genovesi, Lezioni di economia civile. Parte II, cap. vii, § 14). 


498 


Storia della lingua italiana 


Il progresso scientifico e la conseguente rivoluzione terminologica 
ha luogo parallelamente nei vari paesi d’Europa: e se il contributo 
dell’Italia è molto notevole in alcuni campi, per es. l’elettrologia, per 
altri essa è piuttosto ricettiva che espansiva. La cooperazione di 
scienziati di vari paesi alla elaborazione sistematica di concetti e di 
nozioni si presenta in modi diversi, le cui tracce si possono vedere nelle 
rispettive terminologie. Talvolta il rinnovamento è legato a singole 
personalità di travolgente influenza (si pensi a Linneo per la botanica e 
la zoologia, o a Guyton de Morveau e Lavoisier per la chimica), talaltra 
invece a un lento e paziente lavoro di più scienziati, che vengono 
tessendo per più generazioni la trama delle loro discipline. 

L’immane vastità di queste terminologie e l’impossibilità di ricorre- 
re per molte di esse a lavori preparatorii ci sconsiglia dal dare 
un’esemplificazione anche ridottissima dei termini nuovi o mutati di 
significato; cercheremo piuttosto, ricorrendo ai campi che sono stati 
meglio esplorati 200 , di dare un’idea dei procedimenti principali a cui 
assistiamo nella formazione di queste terminologie, e dello sforzo degli 
scienziati di giungere a sempre maggior rigore e sistematicità di 
nozioni. 

L’osservazione della natura porta alla conoscenza di oggetti e di 
fenomeni sparsi per tutto il mondo. S’accettano così numerose voci 
straniere (come platinai e particolarmente esotiche (come orango o 
urango)-, ma soprattutto si attinge a vocaboli dialettali finora limitati a 
un uso strettamente locale. Si pensi a termini come lava (Magalotti, 
Della Torre) 201 o mofeta. Lo Spallanzani osserva il fenomeno del 
calòfaro, nome che a Messina indicava un «incrocio di correnti» presso 
Cariddi 202 . A Livorno il Targioni Tozzetti visitando due laboratori in cui 
si tagliava il corallo raccoglie dalla voce dei lavoranti quattordici nomi 
con cui si designavano altrettante sfumature di rosso-, schiuma di 
sangue, fior di sangue, ecc. 203 . 

D’altro lato tante scienze si sono servite e tuttora si servono così 
largamente del latino per le loro terminologie che è ovvio attingerne 
molte voci. Si pensi al lento adeguarsi dei nostri scienziati alla 
nomenclatura di Toumefort e poi a quella di Linneo per la botanica 204 , e 


200 Cito in prima linea gli ottimi articoli che F. Rodolico ha dedicato in Lingua 
nostra a numerosi termini di geografia fìsica, geologia mineralogia, e specialmen- 
te gli articoli «Terminologia geomorfologica settecentesca» (Lingua nostra, XVII, 
1956, pp. 91-94, 112-U6, XVIII, 1957, 12-14, 52-55). Allo stesso Rodolico dobbiamo la 
preziosa antologia La Toscana descritta dai naturalisti del Settecento, Firenze 
1945, con un utile glossario. 

201 Prati, Voc. etim., s. v. ; Rodolico, art. cit., XVIII, pp. 12-13. 

202 Viaggi alle Due Sicilie, ap. Bonora, Letterati, memorialisti e viaggiatori del 
Settecento, Milano 1951, p. 957. 

203 Lingua nostra, XVI, 1955, p. 28. 

204 Nella Istoria delle piante che nascono ne’ lidi intorno a Venezia di Gian 
Girolamo Zannichelli e dì suo figlio Gian-Jacopo (Venezia 1735) le piante sono 
elencate in ordine alfabetico, con i nomi latini con cui erano state fino allora 


ISSI 


Il Settecento 499 

a quella dello stesso Linneo per la zoologia 206 Gli innumerevoli tarmir,,- 
S - jn cui I nomi degù elemen”"^ SS„ B TK 

pm con elementi greci o latini, e i composti sono intrecuosamento 

SdSfrScSe Z aS’ttahan? SÌ ® “ passano con facfleTdattamen- 

c^è iiSmaSonSei ’ *** l0r ° Struttura latina ^ema, 

nèlle* SS? hi™ ™ tìamo «aliano spesso trovano esatto riscontro 
a ®~.® angue europee occidentali: platina entra dallo spagnolo 

. femmH } lle ' nia poco dopo è sostituito di platino maschile 
P er analogia con 1 nomi degli altri metalli 207 . ’ 

Hai N rif 0l ° nei repertori * termini scientifici,' come in quello già citato 

SSS s£rf 2 sS 

di hSSie storierei d’Italia (o talvolta anche 

m ungue stranierei. «Catinella chiamano gli Agricoltori quel ramicello 

toent^° P S^f r i . 1 r ne f tare “u sfera - 

è lo stesso, che calmella » (Vallisnieri ITT n 

totofìK’SSi! H £f°- 1 1-ombara SXSJ S.S.S 

chiamo P ' 423 : r- la - loro filetta o bozzolo, che egli [l’autore torinese! 

^t C °r ne ^ p - 574); « a fluesti uccelli mi sia lecito di Se fl 

(TiSSi TozzPt? S » n f S - Chìa ^ a stìattaion e e dai Romani strillozzo » 
Uargiom Tozzetti, Relazioni, V, ap. Rodolico, Lo Toscana, p. 226), 


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n , . . tsncuiologia della vecchia chimica è registrata da p c 

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1909-10, p. 4271 ’ 1798, p 3351 at - ^ Guareschi, Suppl. Enc. Chim., 

207 Rodolico, Lingua nostra, XVI, 1955, pp. U7-U8. 


500 


Storia della lingua italiana 


Il Settecento 


501 


«un’enorme lavina, o smotta di terreno» Qd., Relazioni, X, ap. Rodolico, 
La Toscana, p. 191); « turfa o torba » Od., ibid., p. 209); «tumoletti chiamati 
da noi tomboli e dagli oltramontani dune » Qd., p. 173). Al divulgarsi 
della patata, alla fine del Settecento, la Società Patria di Genova 
pubblica un opuscolo De’ pomi di terra ossia patate, Genova 1793. 

Nella citazione di nomi di animali o di piante, le opere destinate a 
un pubblico piuttosto ampio citano spesso le forme latine italianizzate 
accanto a quelle italiane 208 ; invece le opere più strettamente scientifi- 
che, anche se scritte in italiano, si attengono alla terminologia 
sistematica latina: gli Zannichelli, nella Istoria delle piante... ne’ lidi 
intorno a Venezia, or ora citata, prendono le mosse dai nomi latini, 
salvo poi a italianizzarli; B. Bartalini, nel Catalogo delle piante che 
nascono spontanee intorno alla città di Siena, Siena 1776, dà gli elenchi 
di piante secondo le nomenclature di Toumefort e di Linneo-, L. 
Spallanzani cerca sempre di aggiungere il nome scientifico a precisa- 
zione del nome volgare: «il lago di Orbitello, feracissimo di grosse 
anguille [Muraena anguilla ), la cui pesca si fa in ogni stagione» ( Viaggi 
alle Due Sicilie, V, p. 42), ecc.; e lo fa anche un poèta come il 
Mascheroni, il quale, dopo i versi «Dal calice succhiato in ceppi stretta 
- la mosca in seno al fior trova la tomba» {Invito, w. 491-92), aggiunge in 
nota il nome scientifico della pianta, Muscipula Dionea. 

Accade non di rado che un naturalista delimiti esattamente, di tra 
le varie forme e significati che l’uso popolare presenta 209 , quello che 
propone come valevole per l’uso scientifico: per es. lo Spallanzani nel II 
e nel III Opuscolo di appendice ai Viaggi alle Due Sicilie, definisce 
esattamente il rondicchio e il rondone : rondicchio : «così denominasi in 
più luoghi dell’Italia e così chiamerò io la rondine neroazzurrognola 
nel dorso e biancheggiante nel ventre, che è l’hirundo urbica di 
Linneo»; «Per rondone s’intende in diverse provincie dell’Italia quella 
specie di rondine che è più grossa delle due antecedenti (rondine 
comune e rondicchio), che foscamente biancheggia sotto la gola, e che 
nel rimanente del corpo è nericcia» 210 . 

Gli scienziati si sforzano di far corrispondere a una nozione che 
viene scientificamente fissata un vocabolo determinato. Può qualche 
volta servire un termine del lessico usuale, a cui si attribuisce un 
significato delimitato: poniamo saturo «satollo», a cui i chimici danno 
ima nuova accezione {saturo è il liquido in cui è sciolto il massimo 
possibile d’una data sostanza). 

Si prestano bene a esprimere nozioni scientifiche che si vengono 


208 Per es. Relazione dell’erba detta da' Botanici Orobanche e volgarmente 
Succiamele, Fiamma e Mal d’occhio, Firenze 1723; P. Moscati, Saggio di storia 
naturale dell’Alopecuro chiamato in Lombardia Covetta, Milano 1772. 

209 Qualche difficoltà nella tecnificazione di termini volgari può venire dalla 
semantica: osserva per es. il Ferber che peperino ha significato diverso sul Monte 
Andata e presso Roma (Rodolico, Lingua nostra, V, 1943, p. 14). 

210 Bonora, Letterati, memorialisti e viaggiatori, cit., p. 960 e 962. 


precisando vocaboli latini e greci di significato vicino; si pensi a corolla 
o a polline nella loro accezione botanica speciale, diversa da quella 
antica. 

Nuove concezioni scientifiche portano ad allargare o a restringere 
il significato di certe parole: per es. ovaia è esteso dàgli animali ovipari 
ai vivipari dai «Moderni Anatomici» (Vallisnieri, Opere, III, p. 429). 

In altri casi, serve meglio la coniazione di vocaboli nuovi: dopo che 
Giovanni Arduino è giunto alla conclusione che gli strati terrestri 
vanno divisi in «quattro ordini generali e successivi», è ovvio che egli 
venga a parlare di ordine terziario e di ordine quaternario. 

La fissazione o creazione di termini nuovi non sempre ha buon 
esito. Può accadere che essi sorgano in funzione di sistemi scientifici 
che poi vengono abbandonati (cfr. flogisto, ecc.: p. 515). Può accadere 
che, nei tentativi che vari scienziati fanno per chiarire scientificamente 
una nozione, si adoperino allo stesso fine più sinonimi, di cui uno solo 
finirà col persistere: si pensi alla molteplicità di nomi con cui gli 
scienziati settecenteschi designano i vulcani: vulcano, monte vulcano, 
volcano, monte ignivomo o anche solo ignivomo, monte fiammifero, 
Vesuvio, mongibello 2U . Duna ha vinto tombolo e anche montone e altri 
sinonimi regionali 212 ; lava, che ancora nel Targioni Tozzetti ha il 
duplice significato di «frana», «lavina» e di «colata vulcanica», resterà 
vivo solo in questo secondo significato. 

Lo sviluppo delle scienze fisiche e naturali incide fortemente sulla 
cultura e sulla vita. Certe applicazioni penetrano subito nella vita 
pratica: basti pensare alle scienze mediche con le nuove specializzazio- 
ni {oculista, ostetricia ), l’identificazione di nuove malattie {pellagra, 
scarlattina ), l’applicazione di nuovi metodi di cura ( innesto , inoculazio- 
ne o anche inserzione-, solo più tardi si avrà la vaccina ). 

Nei trattati destinati agli specialisti è ovvio che si ammettano 
largamente i termini tecnici: tuttavia è molto sentita anche l’esigenza 
sociale, che consiglia di evitare i vocaboli speciali quando si vuol 
essere intesi largamente: il Baretti {Frusta , n. XI: I, p. 301 Piccioni) 
rimprovera a un naturalista modenese, D. Vandelli, di non aver 
risparmiato in un suo trattato {Analisi di alcune acque medicinali nel 
Modonese, Padova 1760) «certi vocaboli affatto ignoti a novantanove in 
cento de’ più eruditi leggitori: come sarebbe a dire glossopetre, patelle, 
dentali, spatose... ed altri tali diabolici aggettivacci e sostantivacci da 
far impazzare le brigate a indovinarne i significati». 

Ancor più delicata è la posizione dei poeti didascalici: ora essi 
inseriscono nei versi qualche termine tecnico: 

Or gli epicicli de’ pianeti, e il vasto 
eccentrico rotar laberinteo 


211 Rodolico, in Lingua nostra, XVII, 1956, p. 115, XVIII, 1957, p. 12 e 14. 

212 Rodolico, in Lingua nostra XI, 1950, pp. 88-91. 


502 


Storia della lingua italiana 


fremendo osserva... „ . x , , . ... 

(Rezzonìco, Il sistema de cieli) 

Il nautilo contorto a. l’aure amiche 
aprì la vela... 

La solcata mammella arma di spme 
il barbarico cacto 

(Mascheroni, Invito) 

ora preferiscono le descrizioni allusive e le studiate perifrasi (cfr. § 17). 

I vocaboli scientifici pullulano negli oratori sacri alla moda-. 

E mentre d’Eloquenza ambisce il regno, 
di Fisica, di Storia e d’ Aritmetica 
non senza sforzo il suo discorso è pregno. 

L’eterna Grazia alla virtù magnetica 
l’odi agguagliare, l’attrazion spiegando, 
schernendo la follia peripatetica 213 . 

E nella società elegante gentiluomini e dame afrettano di conoscere 
le scienze e le rispettive terminologie. Si senta il Panni: 

Se alcun di Zoroastro o d’Archimede 
discepol sederà teco a la mensa, 
a lui ti volgi; seco lui ragiona; 
suo linguaggio ne apprendi, e quello poi, 
quas’innato a te fosse, alto ripeti 

[Mezzogiomo, w. 876-880); 

Te con lo sguardo e con Xorecchio beva 
la Dama da le tue labbra rapita; 
con cenno approvator vezzosa il capo 
pieghi sovente-, e il calcolo, la massa, 
e l’inversa ragion sonino ancora 
su la bocca amorosa. Or più non odia 
de le scole il sermone Amor maestro. 

(ivi, w. 983-989). 

Anche il Cordare deride l’affettazione dei grecismi scientifici in una 
satira latina che citiamo nella versione del Carducci (Opere, XVII, pp. 
145-146): 

...Egregiamente 

tu parlerai se ad ogni passo ne le 
favole conte un ellenismo piova, 
ed una doppia e pur di greca stirpe 
vocetta nuova. Né oggimai più tonda 


213 Mascheroni, sermone «Sopra la falsa eloquenza del pulpito», vv. U9-124. 
Anche l’ Algarotti, il Bettinelli, il Gozzi biasimano questa moda. 


Il Settecento 503 

ma ciclica per te sia la padella 
ed elliptìco l’uovo e microcosmo 
l’uomo... 

Frequentissimi sono infatti, negli scrittori d'ogni genere, gli usi estensi- 
vi o metaforici fondati su nozioni scientifiche: «luna capitalel dove otto 
in novecento persone si elettrizzino insieme», scrive per es. l’Algarotti 
detterà a Voltaire, 1746); il Baretti dice che i pensieri del p. Buonafede 
«non hanno soverchia elasticità »: e non c’è bisogno di dire che 
l’immagine al p. Buonafede non piacque [Frusta , n. XXXII: II, p. 384 
Piccioni). Brighella, nel Mostro turchino di C. Gozzi (IV, se. 6), parla non 
senza ironia dell’« inoculazion del bon senso». In un opuscolo intitolato 
Italia (1778) si dice che a Firenze si usava una cicisbeatura matematica 
per cui in colloqui galanti si sentivano frasi come queste: in ragion 
composta del vostro affetto, in ragione inversa del vostro languore, i 
quadrati dei tempi della mia speranza sono come i cubi della distanza 
del vostro consenso, ecc. 2M . P. Verri (nelle «Meditazioni sull’economia 
politica», § 22) dice che «la Capitale è alle Città quello che esse sono 
alla provincia», con ovvio riferimento alle proporzioni matematiche. 

Alle pretese degli schizzinosi, i quali in nome della tradizione 
biasimavano le metafore scientifiche 215 , il Cesarotti rispondeva: «Se la 
lingua soffre l’elettricità nei corpi, dovrà ben permettere che si elettrizzi 
lo spirito: se la virtù della calamita ha il nome di magnetismo, come 
impedire al cuor d’un amante di sentir la forza magnetica negli occhi 
della sua bella?» (Saggio, III, xrv, p. 109 dèll’ed. 1785) 218 . 

Può accadere che ancor oggi sopravviva nell’uso qualche termine 
scientifico settecentesco, abbandonato invece dagli scienziati: il Valli- 
snieri e il Targioni Tozzetti adoperano con preciso valore naturalistico 
l’aggettivo antediluviano, mentre oggi antidiluviano non è altro che un 
sinonimo iperbolico di «antico». 

Altra serie di vocaboli che prendono un posto nel lessico italiano, 
sono i vocaboli che si riferiscono a oggetti e costumanze di altri paesi: 
vocaboli che in alcuni casi resteranno rari e di carattere solo enciclope- 
dico, in altri penetreranno saldamente nella vita e nell’uso linguistico 
italiano. Si pensi alle notizie sulla guerra d’indipendenza americana 
( insurgenti , ecc.) o sulla rivoluzione francese (notabili , Stati generali, 
ecc.), quel che relazioni di viaggi divulgavano sugli altri paesi ( copicco 


aM C. Cantù, L’abate Parini, Milano 1854, p. 400. 

215 Per es.: «Scorrano infine tutta quant’è la moderna Letteratura, e troveran- 
no ad ogni tratto, e a proposito di niente un frastuono di frasi tecniche tolte dalla 
Chimica, dalle Matematiche, e dalla Teologia, una frenesia di adoperare parago- 
ni scientifici cento volte più oscuri della cosa, che dovrebbero illustrare» (M. 
Borsa, Del gusto presente, cit., p. 41). 

2le Senza confronto meno numerose sono le metafore tratte da altri campi, 
come quando il Cesarotti ricorre a un termine teologico parlando di «timorati 
Gramatici, che in cose tanto gelose non ammettono parvità di materia » [Saggio , 
III, I, p. 74). 


504 


Storia della lingua italiana 


cerS^^atamtSefSmato^^PpSocUlwe^M^M 

rhp ebbero brande fecondità verbale, n Vico, piu cne nei cumm e 
neolo^smi, manife^a P^a Pers^aWà^a scelta * pa ^ 

fradSom 9 Z ^eTe ’d^tre lingue foggiò innumerevoli parole 
"speciale composte-- ma, benché la Crusca ne abbm 
accolte parecchie, probabilmente da lui stesso fomite, ben poche ne 

S °*PerilIlaretti la coniazione di neologismi momentanei, sp«diataK>bte 
rprti suffissi è un vezzo stilistico-, barbitondere, boccascena, 
bmnocchiuto, cinquecentesco, creanzato, cruscheria, 

Ptruscaio fazzolettata, frugoneria, giovanesco, illustnta, mcatalettarsi, 
ìnrovallàrsi insignità magistratesco, malmantilesco, medagliesco, p 

te, subarcadico («delle colonie provinciali dell Arcadia»), versiscioltaio 

GrtS°cima£ST?^Umi (più volentieri con prefissi) è anche 
V Alfieri specialmente in alcuni scritti (nella Vita, anzi piuttosto nella 

%-legge, ' italiche sco, madrignale, microscopo, misi ^al^ odw^ sa ™*> : 

satirizzare («sbagliare nel metro»), sparruccarsi, spensare, spiacevole^ 
za, Vpiemontizzarsi, sprotetto, spigionato, ^f^ì^J^A^hè 

disnaturato. 


cU ne femme, servante ou Fille r fP°“ d p e ™Sa 1818 ™^66- Id., Antipurismo, 
220 F. Torti, Il purismo nemico del gusto, Perugia «sia, p. «>o, - 

Foligno 1829, p. 170. 


Il Settecento 


505 


Non vi sono novità particolari nella formazione delle parole, se 
sappiamo prescindere dall’illusione di trovar strani i molti vocaboli che 
non hanno attecchito, mentre un numero certo minore si è stabilmente 
installato nell’uso. 

Non mancano i sostantivi deverbali ( usurpo «usurpazione», villeg- 
gio «villeggiatura»), né i verbi denominali ( dilazionare , parodiare, 
stilare ). 

Nomi di formazione suffissale si continuano a formare via via per 
indicare persone (cambista), cose, astratti (cicisbeismo)-, ora per moventi 
obiettivi 221 , ora per moventi affettivi (sonettaio). 

Si coniano anche molti aggettivi con i suffissi consueti, -ale (settima- 
nale, Casti; il Cesarotti foggia nozionale, che Carlo Gozzi ironizza 222 ), 
-ico (centaurico, Targioni Tozzetti-, nordico, Cesarotti), -esco (si ricordino 
i numerosi esempi barettiani citati), -abile ed -ibile (capibile, Vallisnieri, 
riflessibile. Algarotti), di contro a quelli in -evo le che per lo più sono 
tratti da sostantivi e hanno una connotazione arcaizzante o scherzosa, 
ecc. 

Tra i verbi formati con suffissi abbondano quelli in -eggiare (inneg- 
giare, tantaleggiare) e quelli in -izzare, qualche volta di formazione 
nostrana (panizzare), ma più spesso modellati su analoghi verbi 
francesi. 

Si hanno parecchie formazioni prefissali del tipo di antiscorbutico 
(Vallisnieri), co-academico (Gozzi), condeputato, incombattibile, innega- 
bile, insalvabile (Salvini), protogiomale, sottoscala, vicepiè (nella locu- 
zione scherzosa un vicepiè di legno, Gigli). 

Abbondano anche i parasintetici: antediluviano, ingesuitato (Mura- 
tori), scocollato (Martinelli), ecc. 

Fra i composti, ricordiamo anzitutto quelli del solito tipo imperati- 
vale: guardaportoni o, scherzosamente, parastrepito (G. B. Vasco). Sulle 
lingue classiche sono modellati composti come occhi-pietoso (Fantoni), 
occhi-azzurro (Cesarotti) o anche vini dolcepiccanti (Rolli), brunocchiuto 
(Baretti), ecc. Continuano le arbitrarie formazioni di tipo ditirambico: 
*amorarmicantante filastrocca» (Saccenti), «della fiorbellaccoglitrice 
Crusca» (Arisi), ecc. 

Alcuni suffìssoidi sono parimenti .adoperati nella lingua poetica e 
nelle terminologie scientifiche: cfr. da un lato ondifero (Varano), 
racemifero (Lamberti), e lo scherzoso quaglifero (Saccenti), dall’altro 
lato bilifero, ecc. (Vallisnieri). Ma ne riparleremo fra poco, accennando 
ai latinismi 


221 Parlando di coralloide il Vallisnieri spiega come il suffisso venga a 
manifestare la frequenza delle forme di transizione nella natura: «Sono anch’es- 
se un anello, per così dire, della connessione de’ generi o delle spezie, e di 
quell’ ammirabile progressione, e legame che hanno insieme tutte le cose create» 
(Opere, III, pp. 395-396). Il Vallisnieri usa la parola come sost. masch. (nel Museo di 
fisica di P. Boccone, 1697, la parola era usata come agg i 

222 Chiacchiera..., p. 77 Vaccalluzzo. 



506 


Stona della lingua italiana 


17. Il «linguaggio poetico » 

Il Settecento ha ereditato dai secoli precedenti, come s’è visto, il 
canone che alla poesia convengano certi vocaboli diversi da quelli 
della prosa. Alma, augello, etra, frale, guardo, ostro, prence, pria, rai, 
suora, sono le parole che vanno adoperate nel verso, a preferenza o 
addirittura a esclusione dei loro equivalenti prosastici. 

D’altra parte, molti dei vocaboli normali non sarebbero ammissibili 
nel verso (o solo in certi «generi» considerati inferiori, come la satira). Il 
Maffei biasimava C. M. Maggi di aver adoperato nei suoi versi parole 
come appetito, confutare, congratularsi, dimenticarsi, misericordia, ope- 
rare, tribolato 223 . E il Metastasio scriveva all’Algarotti: «Voi talvolta 
(benché non frequentemente) pur che una parola esprima la vostra 
idea, e goda la cittadinanza fiorentina, non avete repugnanza a 
valervene, ancorché essa sia straniera a’ poeti. Come imbriacare, 
rinculare, banderuola, molla o altre simili, sono parole ottime, e sonore: 
ma non impiegate finora affatto, o-pochissimo ne’ lavori poetici, fanno 
una tal quale dissonanza dal tenore di tutto il rimanente, e presentano 
i pensieri non rivestiti di tutta quella decenza che (come appunto dalle 
vesti) dipende in gran parte dal costume» 224 . 

Interpretando formalisticamente la norma accade così che, per il 
solo fatto di scrivere in versi anziché in prosa, un autore si ritenga 
autorizzato a servirsi di parole riservate ai versi. Le commedie in versi 
del Chiari e del Goldoni contengono, anche in passi assai pedestri, 
esempi come questi: 

Non temete violenze; rasserenate i rai 

(Chiari, L’innamorato di due, I, se. 4) 

Se il suo dinar rimando, egli è perch’io noi merto 

(Goldoni, Il filosofo inglese. III, se. 17). 

D’altra parte, se non manca qualche tentativo «realistico» di poeti 
che non esitano a servirsi di parole prosaiche o addirittura tecniche, è 
frequente lo sforzo di sostituirle con perifrasi. Nel sonetto di G. F. Zappi 
sul Mosè di Michelangelo («Chi è colui...», nelle Rime, Venezia 1723), la 
barba è indicata così: 

Quest’è Mosè. Ben mel diceva il folto 

o nor del mento, e ’l doppio raggio in fronte; 

e la perifrasi rimase poi in circolazione. 

Zaccaria Betti nel poemetto II baco da seta nomina così la rugiada: 


223 Fubini, Dal Muratori al Baretti, p. 84. 

224 NeU’ed. Palese delle Opere dell’Algarotti, XIII, pp. 16-17. 


Il Settecento 


507 




E però quando il Sol dal verde moro 
col suo calor tolse de l'Alba il pianto 

(c. IV, w. 30-31). 

Il Parini definisce il caffè nel Mattino (w. 141-42): 

il legume... d’Aleppo 
giunto e da Moca 225 . 

La «pasta di mandorle » è (ivi, w. 268-271): 

il macinato di quell’arbor frutto 
che a Ròdope fu già vaga donzella, 
e chiama in van sotto mutate spoglie 
Demofoonte ancor Demofoonte. 

Il Chiari nella commedia II poeta comico (II se 5) chiama, ir» 
.sctaopix,, la ferrea canna, e ohi Sa quanti altri ai s aranno SS m 
questa perifrasi prima che l’adoperasse il Leopardi 

conteTBeSSi? * cioccola,a tazza> è P" 11 F™S°ni (-Sermone la 

abil coppier che lieto 
d’indiche droghe, e d’odorata spuma 
largo conforto mi recava in nappo 
di cinese lavoro. 

caffè »P° ndÌ neUa Giornata villereccia parla così del «macinino da 

altri in ordigno addentellato il trita 
e polvere ne trae minuta e molle. 

fi Cesarotti, volendo evitare di nominare le «mule», le chiama: 

le padreggiane figlie 
di bigenere prole. 

n Mascheroni, che pur non esita nell’Invito a adoperare termini 
gallismo pa^S b0nda " PerifcaSÌ 6 de8cri2i °“ i ^ive; del 

con sottil argomento di metalli 
le risentite rane interrogando; 

fi nome della conchiglia Venus literata è trasposto in questi versi: 


Nell’Invito del Mascheroni tornerà «il legume d’Aleppo». 



508 


Storia della lingua italiana 



a quelle 

qual Dea del mar d’incognite parole 
sparse l’eburneo dorso? 

Come si vede da parecchi di questi esempi, l'intenzione di evitare il 
vocabolo proprio non è che il punto di partenza per un raffinato gioco 
di eleganza. 


18. Arcaismi 

Se a linguaggio poetico ammette o addirittura richiede un largo 
impiego di arcaismi, spariti dalla lingua comune e rimasti a loro modo 
vivi soltanto nella tradizione poetica, la prosa spontanea per sufi 
natura non li ammette. Ma la prosa ricercata, studiata, leccata ne 
abbonda e se pensiamo all’ancor scarsa conoscenza di un lessico — . 
cornee e al modo in cui si ver. a apprendendo la lingua Qettura de 
Boccaccio consultazione della Crusca) non ci meraviglieremo nel 
vedere affiorare qua e là parole trecentesche attinte dai llbri - E ciò con 
particolare frequenza in quelle cerehie in cui maggiore era il rispetto 

Pei A Firenze ilmfito domestico per gli scrittori di Crusca era temperato 
dall’uso nativo; ma a Napoli aveva séguito la scuola capmsta, aa cui 
XSpii aderiva Giambattista Vico; nel Veneto troviamo il veronese 
Gfiulitf Cesare Becelli e Carlo Gozzi coi suoi Granelleschi. Ma anche 
Pietro Verri scrive ( Osservazioni sulla tortura ): «Levò, col passarvi il 

ma Avrebbe pocc» 6 significato il mettere insieme un ampio elenco di 
arcaismi lessicali staccati dal loro contesto stilistico (e di queg 
arcaismi grammaticali che fan loro riscontro-, vosco, mel darete, man- 
rhprantì e simili) - basterà a dare un’idea del fenomeno una brevissima 
lista esemplificativa-, apparare (C. GozzDavocciarelVicola 
Gennaro) calogna (Vico), contmovare (Panni, daddovero (Cesarotti), 
danaio (Vico, Gozzi), diffalta (Becelli), durazione (Becelli), entragne 
(Vico), erbolaìo (Gozzi), gualoppàre (Gozzi), lunghesso (biasimato >m piu 
autori dal Baretti), maestrato (Vicol negghienza (Vico), orrevole (Gozzi), 
ricada «molestia; (Gozzi), ecc. Gasparo Gozzi ricordandosi l di ima 
novella del Sacchetti (CLIII) in cui si parla di un «uomo grande e grosso 
dì «ma nersona e molto giallo, e quasi impolmmato-» (cioè «gialliccio 
X? malato di potoonW r» la. parola scendo 1 etimo, .grado 
che parea impolmonato » ( Gazzetta Veneta, 29 maggio 1760). 

Ma come già abbiamo ricordato (§ 6), agli zelaton della Crusca, del 
«buon seSfo? dei fiori di lingua, si oppongono, più numerosi, gli 
aweraarif palpale fra tutti r 1 Baretti, che a plt ■ 
scrittori inclini all’arcaismo (il Genovesi, nel n. II della Frusta, uui 
Gennaro, nel n. IV, ecc.). Forse la parola più invisa al Baretti e agh 


Il Settecento 


509 


anticruscanti e conciossiaché, con le sue varianti conciossiacosaché Z28 , 
conciofossecosaché 227 , conciossiamassimamenteché 22 *. 

I poetastri che danteggiano urtano il Bettinelli, il quale si lagna (Le 
Raccolte, III, st. 41) dei 

mille stolti 

ch’han repleta di bolge ogni canzone 
e vengono esumando 

e le berze ed il sene e peggior molti 

tai rancidumi. 

Poco ricaveremmo, per conoscere gli arcaismi tentati in questo 
periodo, dagli scritti dei parodisti: la già ricordata «tragicommedia» Il 
Toscanismo e la Crusca, in cui Ser Toscanismo e il Signor Cruscanzio 
parlano una lingua caricatamente trecentesca, le battute anticruscanti 
di qualche commedia del Goldoni, ecc. 229 .. 

Che alcuni degli arcaismi siano in definitiva riusciti a vincere la 
loro battaglia (o che i critici non li avessero definiti esattamente come 
tali) si vede dal fatto che oggi adoperiamo correntemente parole allora 
biasimate: così altezzoso, nonpertanto, smagato, Ferragosto, che il 
Baretti (I, p. 93, II, p. 257 Piccioni) trovava intollerabili; o caparbio, 
carezzevole, dappoco, tiepido, istigare, tutti e due, tenere in bilico (che 
leggiamo in un elenco del Toscanismo, atto I, se. 9) 230 . 

II Baretti stesso, tanto avverso agli arcaismi, se ne usa qualcuno lo 
fa per scherzo o per ironia: per es. sirocchia («m’accommiatai da quella 


228 Leggendo conciossiacosaché all’inizio del Galateo, l’Alfìeri getta il libro 
dalla finestra (Vita. ep. IV, c. 1). Errata, e non rara la forma conciossiacosacché : 
così scrive il Becelli (Se oggidì..., p. 86), così il Genovesi (sec. Baretti, Frusta, I, p. 
40). 

227 II Casti, nella Congiura di Catilina, mette la parola in bocca a Cicerone, e 
fa che nasca confusione in Senato ogni volta che egli la pronunzia. 

228 Nel Toscanismo, cit. (atto I, se. 9), e in una parodia dello stile arcadico del 
giovane Galiani (D’Ancona e Bacci, Manuale, IV, p. 403). 

228 II p. M. Carmeli in una nota «A’ leggitori» delle sue Storie di vari costumi, 
3 a ed., Venezia 1778, scrive parecchi periodi pieni di modi di dire cruschevoli: «Dio 
pur guardi da coloro, i quali stanno a pancaccia in oziose dimoranze, s’eglino 
muovono parole della tua opera, è cosa da strasecolare, quando se ne tragga un 
fil di netto», e poi spiega d’aver avuto giusta cagione di favellare «con questi 
modi di lingua, che cercati paiono col fuscellino...». 

230 Va avvertito che sia nelle discussioni di critici, sia nella pratica, non è 
facile distinguere fra espressioni arcaiche e «fiorentinismi» giacché per «fiorenti- 
nismi» non s’intendeva alludere al fiorentino modernamente parlato ma al 
fiorentino registrato dalla Crusca. Quando il Goldoni dice Ul teatro comico, iti, se. 
3): «Questo giovane ha del brio. Pare un poco girellajo, come dicono i Fiorentini...» 
probabilmente non ha sentito lui stesso la parola, ma l’ha letta nel Malmantile ( o 
in un vocabolario che la citava dal Malmantile ). 


510 


Storia della lingua italiana 


Il Settecento 


511 


angiolella e dalla sua formosissima sirocchia Lett. farti., xxxvii), 
calonaco (nelle lettere al can. Agudio). 

19. Dialettalismi e regionalismi 

Si sa bene che la lingua dell’alta lirica è ormai da secoli conguaglia- 
ta, e non c’è da aspettarsi di trovarvi alcuna sfumatura di carattere 
locale; e lo stesso si può dire per la prosa più elevata ed astratta. Ma 
già abbiamo visto parlando della lingua scientifica, e specialmente 
delle terminologie naturalistiche, come si comportano gli autori rispet- 
to alle voci locali. 

Giacché la nomenclatura agricola, poniamo, o quella marinaresca 
presentano molti vocaboli diversi da regione a regione o addirittura da 
luogo a luogo, gli autori d’un trattato di agricoltura o di un glossario di 
marina, i quali si rivolgono anzitutto alle cerehie più prossime a loro, è 
ovvio che usino anzitutto i termini della propria regione. Il Baretti, nèl 
recensire L’Agricoltura di C. Trinci pistoiese (Frusta , n. 24: II, pp. 239-241 
Piccioni), s’accorge che l’editore ha aggiunto all’opera un trattato che 
parla di morati, ma senza avvedersi che esso ripeteva quanto era stato 
già presentato dal Trinci nel trattato dei gelsi, e inoltre che ha aggiunto 
una memoria di Z. Betti intorno la ruca de’ meli. Che cos è questa ruca ? 
non è altro che la voce veronese per bruco. Ora, «chi non vuole 
scrivendo servirsi della lingua toscana in certi casi, dovrebbe almeno 
dirci come si chiami in Toscana quella tal cosa di cui vuole scrivere, 
acciocché ricorrendo al vocabolario, possiamo capire quale è la 
materia di cui scrive. Come, senza essere veronese, si può egli sapere 
che chi scrive delle ruche scrive de’ bruchi?...*? 31 . 

Il grande sviluppo della produzione della seta nel Piemonte, con 
ima ricca nomenclatura propria, fa che il conte Felice San Martino 
asserisca francamente-. «Quando si parla di seta, si possono adottar 
senza scrupolo le voci piemontesi» 232 . 

Per la marineria, Venezia, Genova, Napoli non sentono ancora il 
bisogno di abbandonare i loro vocaboli: per es. nella traduzione del 
Dizionario istorico, teorico e pratico di marina del Savérien, pubblicata 
a Venezia nel 1769, abbondano i venetismi; l’Algarotti parla 
dell’«angustia de’ cantieri dell’arsenale vecchio», ma anche del «fale- 
gname di uno scoerro di Amsterdam». Le parti della città, le parti della 
casa hanno nomi vari nei vari luoghi, e il Goldoni parla delle calli di 
Venezia e del suo mezà. 

I vari stati hanno istituti che portano nomi loro propri: per es. quella 
magistratura che nel Piemonte e a Nizza va sotto il nome di consolato 

231 II Baretti applica anche per proprio conto questa regola quando scrive: 
«noi, che avevamo nosco una tacchina, come dicono i Fiorentini, o un gallinaccio, 
come diciamo noi» ILett. fam., xxxvi). 

232 C. Calcatemi, Il nostro imminente Risorgimento, cit., p. 489 


del commercio corrisponde ai cinque savi della mercanzia di Venezia e 
al supremo magistrato di commercio di Napoli e di Palermo. E i bandi, le 
notificazioni delle autorità adoperano, come è ovvio, i termini dell’uso 
locale-, per es. nei Manifesti del Consolato di S. M. R. sovra Cambij, 
Negotij et Arti, Torino 1720-27, i «bozzoli» vengono chiamati cocchetti, 
certe stoffe di lana vengono chiamate ratine, ecc.; a Ferrara nel 1747 si 
pubblica una Tarifa o calmiero perpetuo per il pane che si fabrica dalli 
fornati di Ferrara : cioè emerge nell’uso scritto la voce calmiere o 
calmiero, finora propria dei dialetti dell’Italia nord-orientale. E come 
avrebbero potuto il Goldoni o il Gozzi chiamare i tagliandi rilasciati a 
chi giocava al lotto altrimenti che firme del lotto, se quello era il nome 
ufficiale e usuale a Venezia? E non doveva sentirsi autorizzato il 
Galiani a scrivere (nella Moneta, passim) coniata, impronto, zeccare, se 
quelli erano i termini usati ufficialmente nella zecca di Napoli? 

Negli scritti del Beccaria i termini economico-amministrativi varia- 
no secondo il pubblico a cui egli si rivolge: mentre nelle «consulte», che 
hanno un orizzonte solo regionale, egli parla di prestinoti, di sfrosi, di 
melgone, in altri scritti, che si rivolgono a un pubblico non soltanto 
lombardo, parla di fornai, contrabbandi, grano turco 333 . 

Nelle narrazioni di cose familiari, nelle lettere private, negli appunti 
personali, affiorano spesso voci regionali o dialettali. Il Cesarotti parla 
nelle lettere del suo brolo e dei suoi spàresi ; il Parini negli «Appunti per 
il Vespro e per la Notte» registra: « Cavagnola , fichetti, cartelle...» e più 
oltre «Dialetto della cavagnola* 23 *, ma il nome dialettale del gioco (una 
specie di tombola con cartelle figurate) non comparirà dove il poeta ne 
darà la descrizione in versi (Notte, w. 564-681). 

Nelle commedie (anche in versi) di scrittori non toscani troviamo 
ogni tanto qualche dialettalismo: per es. nel Martelli (Che bei pazztt, II, 
se. 1) «e inviarmi al prosciutto, al cacio, ai bigoli*, nel Chiari (Il poeta 
comico, II, se. 1) «abbiam nelle finanze - agenti che per scrivere 
patiscon le buganze »; neU'Augellin beiverde di C. Gozzi si parla della 
spazzacucina («retrocucina») e della scaffa («acquaio») oppure delle 
cottole («sottane»), E quando lo stesso Gozzi nelle Memorie inutili scrive 
muraio in luogo di muratore non fa che ricalcare con un suffisso 
italiano il veneziano murèr. 

Da un dialetto settentrionale entra nell’italiano (e nel latino) 
scientifico la voce pellagra. 

Insomma, i dialetti ancora floridi nelle regioni settentrionali e 
meridionali forniscono numerosi vocaboli alla lingua scritta in quanto 
non esistano o non siano abbastanza noti vocaboli di lingua: e ciò per 
esprimere nozioni piuttosto terra terra, che di rado sono state espresse 
nella letteratura (nomi di parti della casa, di utensili domestici, di cibi, 

233 Folena, «Lombardismi tecnici nelle Consulte del Beccaria», in Lingua 
nostra, XIX, 1958, pp. 41-49. 

234 Poesie I, pp. 289, 273 Bellorini. Il nome appare in una grida del 1739, in cui si 
elencano dei giochi «pregiudizievoli» (Cantù, L’abate Panni, cit.. p. 129). 



512 


Storia della lingua italiana 


di vesti ecc.). Abbiamo insomma molti affioramenti spontanei di 

S ° S ffi a quSo poiqualcuno si renda conto che accanto alla singola voce 
dialettale o regionale ne esistono altre sinonime, e qualcuna che ha 
maggior diritto d’imporsi nell’uso nazionale, si hanno quelle coppie o 
teme che abbiamo già viste, specialmente presso 1 naturalisti. 

In qualche caso è l’affettività che dà 1 abbrivo aUa parola dialettale, 
così si spiega la fortuna di birichino (originariamente birichino di 

BOl SrZin scritti letterari, è visibile l’intenzione di dar risalto aUa 
voce dialettale per favorirne l’accoglimento nell uso g en e r ^: si ncorffi 
che il Cesarotti (Saggio sulla fil. delle lingue. III, x) contava molto sui 
vocaboU dialettali per venire «in supplemento di altn che mancar^ nel 
dialetto principale» 236 . Così il Vallisnieri difende la distmzione^lombar- 
da» fra crine dell’uomo e crena del cavallo (Opere, III, pp. 396-397). 

Forse a un semplice scherzo è dovuto il fatto che Pietro Verri e ì 
suoi amici diano il titolo La Borlanda impasticciata (Milano 1751) - cioè 
«bazzoffia, broda» - a una loro raccolta satirica in più lingue e 

Un uso conscio di voci dialettali si ha anche quando qualche 
scrittore si ritiene autorizzato a adoperarle trovandole in autori 
antichi Per es. in un suo sermone (il II) Gasparo Gozzi parla di quelli 
che non sanno far altro che «le oziose lacche - npiegar sui ^seddi». Le 
lacche sono le «gambe», secondo l’uso veneto, che qui trovava appog- 
gio in un verso del Burchiello. , nn 

E così quando il Gozzi scrive pattina (Gli Osservatori veneti, n. VII) o 
quando (in una lettera al Seghe zzi) parla della scuriada, cioè dei colpi 
di frusta dati ai cavalli, egli ritiene che l’uso dialettale sia convalidato 
da quello arcaico. Non diversamente troviamo nel Genovesi (Lezioni di 
econ. civile, I, p. 30 Custodi) pezzire per «chieder 1 elemosina», che è 

insieme napoletanismo e arcaismo. . 

Lentamente e faticosamente i vocaboli nazionali guadagnano terre- 
no su quelli locali: il Muratori, che nell’edizione 1714 del suo trattato 
Del governo della peste aveva scritto «le Persiche, o sia ì àrsici» (p. 15 D, 
nell’ed. 1722 corregge «le Pesche, o sia le Persiche* (p. 128). Ma ancora 
alla fine del secolo si pubblicava un Trattato della Cultura dei Persici e 

degli alberi da frutto (Venezia 1792). 

Emergono, per lo più, le voci toscane, ma m qualche casosi 
espandono anche i vocaboli di altre regioni. Sappiamo dal Salvirn e 
dal Regali 230 che il vocabolo romanesco magnare era preferito a firen e 


235 Folena, in Lingua nostra, XVII, 1956, p. 66. 

236 Analoghe intenzioni manifestava il Bettinelli (.Opere, IX, p. 531 

237 II Verri amava scherzare coi dialetti: scrisse ima Cronaca di Cola de li 
Piccirilli (1763) parodia del volgare degli antichi cronisti meridionali. 

239 Nota alla Tancia, TV, se. i. 

239 Dialogo del Fosso di Lucca e del Sercnio, p. 42. 


Il Settecento 513 

e a Lucca a mangiare, perché sembrava più elegante. Ma, se questo 
vezzo scompare, rimasero i romaneschismi cocciuto, pupazzo e il gioco 
delle bocce. Dal dialetto napoletano si divulgarono i nomi del malocchio 
e della iettatura. 

20. Latinismi 

In un secolo in cui le correnti antitradizionaliste predominano, non 
ci si aspetterebbe che apparissero molti latinismi di nuovo conio. E 
invece si può tranquillamente asserire che essi sono in numero non 
minore che nei secoli precedenti. 

E si ricorre principalmente al latinismo nei due campi in cui più 
vibra la vita culturale del secolo: in quello delle scienze e in quello della 
poesia neoclassica. 

Naturalmente, ogni singolo scrittore ha un suo particolare atteggia- 
mento rispetto ai latinismi e ai grecismi. Il Vico, ad esempio, che 
vagheggia una prosa maestosa, ricorre ad ogni passo a latinismi: 
edurre, perrompere, urente, ecc., infermo nel senso di «debole», ecc. 240 . Il 
Salvini, nella sua molteplice opera di traduttore, abbonda di parole 
latine (hiattola, inspergere, irsuzia, sagena, ecc.) e molte altre ne conia 
su modelli latini e greci. Numerosi latinismi adopera il Parini 241 , per lo 
più felicemente: accenso, capripede, cucurbita, lituo, pàtera, pàtulo, 
ridolente Qat. redolens ), scutica, solvere, testudo, venenoso, ecc.; talora si 
tratta di parole usuali a cui egli ridà significato antico: esaurire 
«vuotare suggendo», flagello «frusta», ecc. 242 ; va notato che qualcuno 
ha avuto fortuna, e non solo poetica, per es. àlacre. 

Qualche latinismo troviamo persino negli scrittori illuministi: per 
es. nel Caffè del 1764, P. Verri scrive che sebbene l’uomo «non sia per lo 
più sensibile alle attrattive della verità per sé stessa, pure per un 
secreto niso la sente» 243 -, e l’anno dopo C. Beccaria nota che «vi è un 
maggior niso verso l’uguaglianza che non era per lo passato » 2 “. Ma 
esso dev’essere stato suggerito dal nisus degli illuministi francési. 

Le discipline antiquarie hanno bisogno di parecchi vocaboli attinti 
alle lingue classiche, come latercolo (Gori) o loculo (F. Buonarroti). 

Nelle scienze l’affluenza di nuovi latinismi e grecismi e la coniazio- 
ne di nuovi vocaboli formati con elementi classici sono dovute alle 
sempre crescenti esigenze terminologiche, all’approfondirsi di nuovi 


240 V. resemplifìcazione e il commento di M. Fubini, Stile e umanità di G. B. 
Vico, cit., pp. 115-120. 

241 Con fine gusto ne commenta stilisticamente alcuni il Carducci nel 
«Glossario del Giorno» (Opere, XVII, pp. 261-268). 

242 In qualche caso il Parini stesso si persuase d’aver latineggiato troppo: 
nelle sue correzioni al Mattino si proponeva di eliminare il versar de' libri amati, 
sobole, ecc. 

243 II Caffè, tomo I, p. 21. 

244 II Caffè, tomo II, p. 5. 


514 


Stona della lingua italiana 


rami di singole scienze, al sorgere di nuove discipline specializzate 2 ". 
Ne notiamo solo qualcuno come esempio: animalcolo; corolla , gluma, 
laciniato, monopetalo, pistillo, polipetalo, rizotomo ; stalagmite-, acidulo 
l-p lo), clinico, diagnosi, prognosi, patema, profilattico, rachitide (dal lat. 
scient.rachitis), scarlattina (dal lat. scient. scarlatina), specillo, tòrmini; 
aberrazione (t. ott.l, centrifugo, centripeto, coesione, eolipila, ondulazio- 
ne, oscillare l-atorio, -azione); eliocentrico, geocentrico; catenaria, ellissoi- 
dale. 

I neologismi formati con elementi latini o greci sono specialmente 
frequenti per le nuove invenzioni: aeronautica, aerostato, scafandro, 
ventilatore. 

Mentre nell’assunzione o nella coniazione di vocaboli scientifici e 
tecnici prevalgono, come è ovvio, le spinte di ordine intellettuale, i 
latinismi letterari sono spesso dovuti a spinte affettive: quando il Parini 
parla nel dialogo Della nobiltà dei familiari «che udivano e vedevano le 
vostre sciocchezze taciti e venerabundi», è ovvio che ironeggia-, quando 
il Baretti nella Frusta letteraria (n. XII: I, p. 316 Piccioni) dice che «il 
Goldoni ha la Stàppota teatrale», mescola scherzo ed eufemismo. 

L’uso di qualche frammento di lingua cancelleresca in lettere, 
commedie, satire, poemi eroicomici è anch’esso affettivo, giocoso- 
ironico: « Quare quell’albergo da masnadieri sia chiamato Venta o 
alloggio del Duca...» (Baretti, Leti, famil., 20 sett. 1760); «Il Padre in far 
quotidie l’apparecchio - dicea...» (Fagiuoli, Rime); «ma questo in quel 
protunc non le fa prò» (Casotti, Celidora, VI, st. 24), ecc. 248 . 

I versi sdruccioli, frequenti in certi schemi metrici, inducono a 
ricorrere a parole sdrucciole latine: «Ha colmo il sen tomàtile - che 
neve par non tocca» (A. Mazza, «Il talamo»), «Laide erudita pòllice - del 
bimare Corinto» (Cerretti, «La vendetta»). 

Voci classiche già apparse nei secoli precedenti sono ancora nel 
limbo dei vocaboli ignoti ai più: miriade, vocabolo già cinquecentesco, 
si sta divulgando ora, per testimonianza del Vallisnieri («parola 
barbara, che ora da non pochi si mette in uso»-. Opere, III, p. 423). Altre 
parole, destinate a larga fortuna, appaiono timidamente con significati 
speciali. Il Salvini sente ancora il bisogno di glossare erotico quando 
parla dei «libri erotici, ovvero amorosi, de’ Greci» {Discorsi, II, p. 140). 
Inaugurare e inaugurazione hanno ancora solo il significato di «elegge- 
re solennemente, elezione solenne», mentre nell’Ottocento prenderan- 
no significato più ampio 247 . Adepto o adetto significa essenzialmente 
«ritrovatore, o cercatore della pietra filosofale» (D’ Alberti, s. v. Adetto), 
e comincia appena ad assumere maggior estensione: «li libri stampati! 


245 II D’ Alberti, nella prefazione al suo Dizionario universale, appellandosi al 
Bellini e al Lami, difende il diritto degli scienziati di coniar nuovi vocaboli, e 
quello dei lessicografi di registrarli. 

2M Con scherzo ancora più vistoso, la regina Celidora emana un sfrattetur (ivi, 
St. 32). 

247 Goidanich, in Lingua nostra, IV, 1942, pp. 56-57. 


Il Settecento 


515 


tomo r TT d S U Qw anÌ ^ P ^ Chl ? deptì le cognizioni» (Beccaria, in Caffè: 
(«Q’Ilisso/ 3 wS S ° f n' adope F ato con Predilezione dal Rezzonico 
rUJmo Sr ba Ò d ® s ? ri . ossequioso il piè»: «Per la coronazione di 
* d a ltri Rofì antichissimo drappello»- «Il sistema de’ 
? «“•*» “Che dal Palmi («I nuovi sofugX òX e 
Anrht°- persegue>: . Mezzogiorno, v. 941) non ebbe poi fortuna. P 
scientifici non erano tutti destinati a sopravvivere- 
flogisto, onttogema, onttologia, per citar solo qualche esempio spari- 
ranno nell Ottocento dall’uso scientifico. esempio, span 

„„ diversità di significato che talvolta si nota tra la parola antica e 
quella italiana è dovuta spesso all’uso che ne era stato fatto nel latino 
medievale, o rinascimentale, o anche sei-settecentesco.- così si spiega 
fdovfito « significato già visto di adepto, o il significato fisico di etere 

ndiS n^r,» T t0n -^ QUell ° chimico (dovuto a Frobenius); così fecola 
1 * a f ud ° nca vato da varie piante» («estrarre la fecola o 

Targlom Tozz etti) e non, come il vocabolo latino 
faecula, il «tartaro» o un «certo decotto medicinale». 

Ì.. latuusau . e 1 grecismi, come è risaputo, spesso riproducono non 
1 v ° cal fli cla ssici, ma una mutuazione che già un’alfra 
lingua moderna ha fatto al latino o al greco. 

Immorale potrebbe essere attinto al latino (è documentato l’awer- 

de° e li7S?f r H ma U „ SalvM lodando immorale come voce propria 
degù Inglesi e «di gran forza» 249 ci attesta che essa non è un latinismo 
ma un anglo-latinismo 250 . Il Baretti 251 , parlando dell’aggettivo terraaue o 

dX P m S pt 0 à C ri P i U i atÌV ° t h f ringl ® se aveva attinto al lat&o scientifico fin 
Seicento* ne difende la legittimità («o fiorentina o non 
norentina che quella voce si sia»), 

^° rr } marÌO ®!® nco d* latinismi e grecismi giunti per tramite 
rfnrnr? '' “ aneddoto > belligerante, biografo, cariato, coalizione- 

sotto derìda wn 5 , cosm °f )olita ' deferenza, duttile, egida (fig. : 

£ d d ' ] ’ er ?° zlone > epoca, esportare, importante, industria nel 
* «operosità» ma in quello di «utilizzazione delle materie 
'*/*’ ! na . teria P nma (ìn significato economico), niso (v. p 
5131 patnoUtìa (anteriormente la parola esisteva in italiano col signifì- 

dPii» «^uP^^Qtta»), progresso (in significato assoluto: «progresso 
della civiltà»), refrattario, tecnico, ecc. s 

Ed ecco alcuni anglo-latinismi: adepto, colonia (nel senso di «gruppo 


250 alla Fiera del Buonarroti (II, v, se. 3) p 428 

222 a ? ta , a X f a& , deUe be»ere familiari (ed. Piccioni, p. 431 ). 

mmhnwi ì S Che m alcuni casi il francese a sua volta abbia ricevuto il 
vocabolo (o la nuova accezione del vocabolo) dall'inglese. ricevuto u 


516 Storia della lingua italiana 

di stranieri abitanti in una città»: «la colonia inglese che è in Livorno»: 
AlgarottD, esibizione * 53 , immorale, imparziale, insignificante **, inocula- 
re 2SS , rebus, transazione («memoria scientifica») 258 , ecc. V’è poi la serie 
dei vocaboli politici: costituzionale, legislatura, sessione, petizione, ecc. 
All'insurrezione americana si deve il nuovo significato di presidente 
«capo d’uno stato repubblicano». 

Meno frequenti sono i germano-latinismi: ricordo per es. dica- 
steriiìo OT , estetica 1 * 8 , etere (nel significato chimico, dovuto a Frobenius), 
inaugurale, ecc. 

Qualche altro latinismo sarà pervenuto all’italiano per altre vie: per 
es. la terminologia botanica e zoologica italiana risente della nuova 
sistemazione data a tutta la terminologia botanica latina dallo svedese 
Linneo. 

Non si possono disgiungere dai latinismi e dai grecismi in senso 
stretto gli innumerevoli composti e derivati in cui letterati e scienziati 
hanno ricorso a elementi latini e greci per coniare nuove parole. I 
vocàboli foggiati per ischerzo \lettericidio, Gigli; nosologia, Baruffaldi; 
bibliotafio, Targioni Tozzetti; quaglifero. Saccenti; e sim.) o per momen- 
tanea opportunità stilistica (nubiaduna, procellipede, profondigorgo, 
ecc.. Salvimi non sono entrati nella tradizione; invece si sono imposti 
parecchi termini generali-, anglomania, bibliofilo, bibliomane-, hanno 
avuto fortuna aeronauta ed aerostato-, e si sono affermati molti termini 
scientifici: bilifero (Vallisn.) e molti altri composti in -/ero; anguilliforme, 
proteiforme e molti altri composti in -forme-, xilologia (Algarotti) e altri 
nuovi nomi di scienze in -logia 158 , ecc. 

Anche più numerosi dei composti sono i derivati formati dai 
latinismi con prefissi e suffissi: si moltiplicano più che mai in questa età 
le formazioni in -ismo, -ista, -izzare-, talvolta secondo il modello di 


563 Non nel senso di «offerta», che è già nel Redi, ma in quello di «esposizio- 
ne»: «A Londra, all’esibizione, vidi rappresentata assai bene in un quadro questa 
celebre abbazia» (Bezzonico, nel giornale del suo viaggio in Inghilterra, 1787-88, 
ap. Bonora, Letterati, ecc., p. 1004). 

354 V. il luogo del Salvini or ora citato, e, ivi, p. 439. 

255 «li avrebbe fatti, come dicono là (in Inghilterra] inoculare » (Baretti, lettera 
del 27 sett. 1760). ' 

258 Gibelin, Compendio delle Transazioni filosofiche della Soc. Reale di Londra, 
Venezia 1793-98. 

257 È citato come «voce tedesca» nell’anonimo ParaleUo (sic) della lingua 
italiana colla ftanzese, Vercelli 1769, p. 25. 

258 Nel significato fissato da A. G. Baumgarten nel titolo del suo trattato 
( Aesthetica , 1750). 

252 Molti grecismi troviamo nei titoli dei libri: Alimurgia di G. Targioni 
Tozzetti-, Bibliopea di G. Denina; Diceosina di A. Genovesi; Gamologia di Di 
Cerfool; Gerotricamerone del p. A. Bandiera; Nomotesia di F. M. Pagano (è un 
vocabolo che Platone usò nella Repubblica); Oenologia toscana di S. Manetti (già 
il Béguillet aveva pubblicato una Oenologie ); Orizonomia di A. Chinaglia; 
Omitogonia, ovvero la cova de’ canari del p. Basilio della Concezione, ecc.; si 
ricordi anche la Musogonia del Monti (1793). 


Il Settecento 


517 


mamente. V AbWamf ^ e ™°? ee ' Evolta autono- 

neologismo, purismo ecc - botan potls P} 0 ' frontismo, moderantismo, 
sta, deista , balista, cinquecenti- 

divinizzare, elettrizzare legalizzare trànanilì 6CC ' : caratter izzare, 
tramite forestiero Zìi! u ’• tranquillizzare, umanizzare, ecc. Il 

l’esame critico dei Diù^ntfoh -0 ^ 81 ? uò documentare solo attraverso 

-ic- davanti a -isme 261 Anniì-r™™ tendenza francese a sopprimere 

(Cocchi) s'afferma embrionale accanto a embrionico 

l'aiuto dell'analoga forma francese (?rforMt?« ablIme ? 6 prevalse P cr 
co. il Salvini e il Gen™ei “eS “of aVe ™ ad0pera, ° ^gia- 

regol^Òme^rseSllDre^dini^ e gr S Cl ?*“ schemi «l fa di 

cosi ad £ fl Z C1 ? Che ri « uarda le desinenze: 

rarissimo che sfmmtemv» if u? ■ v ' * mì ’ 11 Ode o. È 

VaUisnieri iOpere. Ili, p. Jgg chiim^^^'deTgaSri 0 “ 

sueti: ecStoSfè quache ^ ìfVST se ,T d ° g “ scheml con ' 
(abbiamo ricordato \oenologia ' del Manef ““ 'i™ " o. ®J? molo fdco 

* --StuISe.^^ro 

aneddoto. Nel Seicento il ni ade pto o adetto, anecdota o 

Baretti, forse secondo il ,f c n ve va smossi-, ora l’Algarotti e il 

Crusca, fondandosi su un volgarizzane’ rierln? 00110 La 

sia, mentre il Valfisnieri Secentesco, scrive epiles- 

il Magalotti avevano adattato ’il lktmn°rnnH epile P sla - Pallavicino e 

(coÌTtO ( Q^ando a a‘i a non III r P; 143} SCriVe et °^ 1 ogican3e^aptto S o 

ginnasta «acrobata», appare^oZ-mn^G^orasSn- G BD^R^f 
Il gimnasta, Venezia 1753. assalti G De Rossi!, 

Si può affermare che in complesso, malgrado un certo numero di 


& S3S; LXXV ”' >“ «■ PP ««. Mt in 
Migliorini, Saggi linguistici, p. 147 . 



518 Storia della lingua italiana 

s sxisswsasa <**°™ se “ a “ sum - 

lazione 262 . 

21. Francesismi 

Se numerosi francesismi erawpenetratitaittìia^ 

SKrsstf^- 

‘Jg» tS.S' SffSKSS 

r=S^^ 

Terenzio fatta dal Baron u iu*r , , roclò, surtò «soprabi- 

»S»S»-T re iocco, buccola: cignone o 

in croce a chi si diletta di par ^ r J^?. SC f^ 0 g r unot (su appunti di G. Maugain) 
- si confrontino gh elenchi data ^Brunot ^app^ ^ fl 

nel l'Histoire de la languefr., Vili, PP- francesi travestite per far ridere: bel 

JSETC ruo^S^la^^leS., volare «rubare» e sim.). e gli esempi 

dati dallo Schiaffim nel cit. capitolo dm ^ itaBano i e quali ora prendono per 

Ìnfl 5 n S}IÌrÌ èaS àa&"?d^AS5SSS fiwwia biasima nel 

Raguet, ma l’usa nel suo epistolario. inglesi- «Nè in Italia v'ha miglior 

- Il Bettinelli difende la parola tri noi perTsprimere certe 

voce di cotteria che s’è tolta .^ancesi, ed caffè o altrove » P (Opere, XII, P- 2211. 
compagnie di colte persone umte ms correnti fatta ad una dama che ne fa 

£ Così. per es„ nella Mawone a temo* Bologna 1880 . 

istanza da un cavaliere per sua ^abbigliata (Lettera 28 aprile 1759. in Opere, 

invece il Goldoni parla di una do rt f h «alla corsa non si va se non 

SSfafiJS XSt&Z' ÌSSS& 5-. »■ -• « 1 

288 Migliorini, Dal nome proprio, p. 188. 


Il Settecento 


519 


«crocchia» 28 ®, frisare, frisatura, frisore, papigliotti, ecc. Ricordiamo 
anche il profumo sanspareille, e qualche nome di colore: bleu (o blo, o 
blu), lillà, sucì 270 . 

Ecco alcuni vocaboli concernenti la casa e il suo arredamento: bidè, 
burò «tipo di scrivania», cabarè, etichetta «cartellino», fladcìone, ghiri- 
don «tavolino con un piede solo», fr. guéridon -. C. Gozzi, Memorie inutili, 
II, xvm), ridò, surtù «trionfo da tavola», tirabussone, trumò, ecc. 

Si riferiscono alla mensa: bignè, cotoletta, fricandò, ragù-, dessert-, 
framboesia o frambuè, sciampagna, ecc. Ricordiamo anche il tabacco 
rapè. 

Fra i mezzi di trasporto citiamo cabriolè, cupè, fiàccaro (Martelli), 
landò -, malia è la «valigia di posta»; alle strade si riferisce marciapiede. 

Concernono la vita militare: baionetta, mitraglia, montura, bloccare, 
ingaggiare, picchetto, ranzonare. 

Qualche termine di navigazione: manovra, scialuppa, andare alla 
deriva. 

Per le arti e mestieri e le industrie si ricordino: calotta, cerniera, 
ghisa, tombaca o tombacco 271 , zinco. 

Per l’economia s’importano parecchi vocaboli 272 :oggiotòggio, aggio- 
tatore, beni-fondi, billon, bureau o burò «ufficio», conto corrente, ferma, 
fermiere, ecc. Alcuni termini amministrativi appaiono qua e là nei 
diversi stati: per es. dipartimento in Piemonte, e in Toscana al tempo 
dei Lorenesi, visare per «vistare» in Piemonte. Una fiumana ne verrà 
dopo il 1796. 

Per le arti va ricordata anzitutto la locuzione stessa di belle arti 273 . È 
in voga l’uso delle roccaglie. 

Per il teatro, la musica, i balli si ricordi parterre nel senso di 
«platea», marionetta-, overtura, rondò-, oboe o oboè; minuetto, rigodone, 
ecc. 

Nei giochi di carte, come il faraone, s’adoperano le fisce. 

Nelle scienze s’importano moltissimi termini dalla Francia, ma sono 
quasi sempre latino-francesi o greco-francesi. Degli altri, ricordiamo 



:] 

i 


“ Non solo nel Raguet (V. se. 6: cignoni, ma anche in C. Gozzi (Marfisa 
bizzarra. Vili, st. 69: cignone 1 e nel Bettinelli (sotto la forma chignone). 

372 Dal frane, souci «calendola»: «la Ruggine... comparisce d’un bel giallo 
chiaro, il quale presto diventa ranciato, o suci, come dicesi in oggi, poiché la 
moda necessita a barattare i buoni nomi antichi Toscani, nei moderni Franzesi» 
(Targioni Tozzetti, Alimurgia, Firenze 1767, I, pp. 289-290). 

271 «Oro di dodici carati (detto dagli antichi electrum, e che è forse la nostra 
tombacaU-, Galiani, Della moneta, II, vi, p. 140 Nicolini-, diversa definizione in altre 
fonti (cfr. DEI, s. v. tombacco). 

m A. M. Pinoli, in Lingua nostra, Vili, 1947, pp. 108-112, IX, 1948, pp. 67-71. 

273 Già il Vasari aveva parlato di bellissime arti e il Baldinucci di arti belle ove 
s’adopra il disegno, ma il nome di beaux arte si cristallizza in Francia alla fine del 
Seicento, ed in Italia l’espressione tornò dalla Francia, come si vede dal fatto che 
si parla di belle arti e non di arti belle. Cfr. L. Venturi, La Cultura, Vili, 1929, pp. 
385-388. 



520 


Storia della lingua italiana 


cretino, cretinismo (da crétin, crétinisme 274 ), marna. Per la tecnica, 
citiamo l’uso transitivo del verbo montare (un meccanismo e sìm.). 

La profondità della penetrazione è mostrata dall’abbondanza di 
termini generali: allarmante, cicana, debordare, invironare 275 , papà 
(aiutato nel suo espandersi dal simbolismo fonetico), regrettare, rimarco, 
rimpiazzare, risorsa, ecc. 

In parecchi casi derivati nuovi vengono ad aggiungersi a francesi- 
smi già penetrati nei secoli precedenti; accanto al francesismo antichis- 
simo giardino si conia ora giardinaggio-, e così chincaglierie, congedare, 
ecc. 

Molte alterazioni semantiche per calco in parole che già l’italiano 
possedeva, sono meno appariscenti, ma non meno sicuramente dovute 
a influenza francese: abile (usato assolutamente, senza complemento), 
addrizzare («indirizzare»), adorare (iperbolico, di donna o di cosa), 
affascinare (estensivo, per calco di charmer), affiorare (come term. geol.), 
alleanza («matrimonio, parentado»), autorizzare (che voleva dire «dare 
autorità», e ora prende il significato di «permettere»), caffè (nel senso di 
«bottega del caffè»), canna («bastone»), chimera («ideale irraggiungibi- 
le»), concorrenza, consolante, deperimento, egida («protezione»), embrio- 
ne (fìg), estrazione («origine»), felicitare (è in regresso il vecchio 
significato di «render felice», in auge quello nuovo di «congratularsi»), 
furiosamente (iperbol.), genio («uomo di alto ingegno»), genti di lettere 
(«letterati»), giocare («sonare; recitare»), giurare («bestemmiare»), gros- 
sezza («gravidanza»), guadagnare «vincere (al gioco, in guerra)», illumi- 
nato («colto, senza preconcetti»), incantare (estensivo, per calco di 
charmer), interessante, intraprendente, intrapresa, liquore (che significa- 
va prima soltanto «liquido»), lusingarsi (calco di se flutter), manifattura 
(che passa dal significato di «fabbricazione a mano» a quello di «luogo 
dove si esercita un’industria»), marca (per es. d’amicizia), marcia 
«andamento», materia prima (in significato industriale), mescolarsi (di 
qualche cosa, fr. se mèler de), misura («provvedimento»; e nella 
locuzione u misura che), molla (nel significato figurato di ressort) 2 ™, 
mondo («gente»), obbligante, obbligato («riconoscente»), patriotttìa (nel 
senso di «amatore della patria»), piano («disegno di un edificio, di 
un’opera»), essere portato («avere inclinazione»), pregiudizio («precon- 
cetto»), preveniente, prevenzione («preconcetto»), prodotto (sost.), pro- 
gresso (usato assol. nel significato di «progresso della civiltà, dell’uma- 
nità», nozione tipicamente illuministica) 277 , pubblico (sost., «quelli a cui- 
si rivolge un libro o imo spettacolo»), qualità (in espressioni come 
personaggio di qualità), rapito («contento»), rapporto («relazione fra 


271 Proveniente dai dialetti franco-provenzali: cfr. Migliorini, Dal nome pro- 
prio, pp. 326-327. 

275 E registrato nell’Ortografia moderna italiana, Venezia 1796, p. 99. 

278 Cfr. quel che ne dice il Metastasio in due lettere all’ Algarotti (Algarotti, 
Opere, XIII, p. 17 e 22). 

277 Cfr., per il francese, Brunot, Histoire de la langue fr., VI, p. 109. 


Il Settecento 


521 


ggl ° ( * ar ti c olo»), scolo (nel senso di «smercio», fr. écou- 
Ge ” ov< ; s ^ sensit ì lle (cche si commuove facilmente»), sensibi- 
lità, sfumatura (che prende il significato del fr. nuance 276 ), soffrire (assol.: 
ho sofferto molto), superficiale (fig.), toccante («commovente») toc- 

^ C °^^r\ t0 ^° ° Ugiro [di frase] »> ricalcato su 

tour) , trasporto («entusiasmo»), travaglio «lavoro», truppa («compa- 
gnia teatrale»), umanità («genere umano»), vignetta, vista («mira 
disegno»), ecc. 1 

Penetrano ora più o meno profondamente nell’uso anche locuzioni 
scalcano con parole italiane le analoghe locuzioni francesi: belle 
arti (cfr. p. 519 n.), bel mondo, buon tono, colpo d’occhio, colpo di mano 

f£ C ?- dl P arole J }r f s . enza dj spinto, sangue freddo, spirito forte-, avere un 
bel dire, dar carta, bianca, far la corte, mostrarsi difficile, essere al fatto di 
? ( ì':£ i ? r Ì are l l tetto («restare a letto per malattia»), fare delle onestà 
(«tare delle cortesie»), over l’onore, pescar nel torbido, saltare agli occhi- 
a misura che, m séguito, a testa a testa, ecc. 

^cono Per calco anche parole nuove: approfondire («non si 
profondano nelle materie; non approfondiscono, come dicono i France- 
si»: Salvrni, nota alla Fiera)-, f aniente Ida fainéant-. Algarotti), impagabile 
W^F°m a veramente, direbbe un Franzese, impagabile »: Cesfrotti, 
faggio III, xi), passabile («mediocre»), riserbatoio (da réservoir- Algarot- 

JhtoSSSJ 1 " 1 ? (da dével °PP ement: Algarotti), ecc,, e già abbiamo 
formazioni m -ismo, -ista, -izzare, in cui l’analoga voce 
francese è servita di modello. 

Negli elenchi che precedono, abbiamo registrato anche francesismi 
(^scomparsi; e molti altri avremmo potuto registrarne che non 
ebbero che una, vita effìmera: apprentici («apprendisti»: Dizionario del 
cittadino), badino (Bettinelli), blé delle Indie (Vallisnieri), degaggiato 

Gozz V- fissato (id.), griffa («artiglio»: Bettinelli), 
malonesto (P Vem) peaggio CAlgarotti), plagiato (id.), rilieffo (P. Paoli) 
tracassena (A. Verri), e infini ti altri. ’ 

Meriterebbe, accanto alle parole che s’affacciano e tendono a 
radice m italiano, registrare le opposizioni che incontrano 
presso le persone piu fedeli alla tradizione, il Maffei, il Gozzi, il 
Galeani-Napione, ecc. Alcuni mutarono opinione col tempo: abbiamo 
insto per es. (p. 457), che l’Algarotti, dapprima noncurante di qualsiasi 
remora, divenne poi molto più rigoroso 280 . 

Nell’accogliere i francesismi, si poteva procedere in tre modi: o 


279 JL. W - Bultrtkin, m Pubi. Mod. Lang. Ass. Am., LXXII, 1957, pp 823-853 

amo- H® ra I? 1 Manfredi (8 gennaio 1738) a proposito del Newtoniani- 

e nei dt ìnrn ri^r-l 8 ' Vanesse) nei modi di attaccare insieme le cose 

e nei dar loro ciò che essi chiamano le tour ». 

dorrrm pn tn^Tr,ri lecit u d ado P erare quei francesismi che avessero una 
vott^a^rZ^i tlca ’ anche se modernamente disusati: per es. allumare, altra 

cfr M V SPtìMn r P guardia - aver ricorso, tutto giorno, ecc.: 

cir. m. v. betti, in Lingua nostra , XIV, 1953, pp. 8-13. 


522 


Storia della lingua italiana 


adattarli alla fonologia e alla grafia italiana, o accettarli tali e quali, 

con la loro grafia, o, infine, riprodurli con un calco 

L’adattamento è, in genere, un segno che la parola è giunta per via 
popolare o è penetrata largamente nel popolo; gli altri due modi sono 
indizio di provenienza più colta. Già nel Magalotti abbiamo parecchie 
parole o locuzioni citate tali e quali-, e molte di più ne troviamo nel 
Bettinelli: négligé, petit maitre, badinerie, bon mot, impromptu, joli, 
piquant, charmant, ari de plaire, ecc. ; e cosi ancora à notre tour 
(Baretti), fare amende honorable (A. Verri), ecc. 

Ma per parecchi vocaboli si oscillò, e anzi per qualcuno ancor oggi 
si oscilla. Tipico è l’esempio di toilette, che alcuni scrivono alla 
francese, altri adattano in tueletta, toeletta, toletta, teletta™ 1 -, qualcuno 
infine ricorre alla (falsa) traduzione tavoletta (Panni, C. Gozzi): ancor 
oggi la parola si scrive in almeno cinque modi: toilette, toletta, teletta, 
toelette, toeletta. Vistose varianti presenta anche dettaglio -. questa è la 
forma predominante (Goldoni, Bettinelli, Beccaria, Panni ecc.), ma si 
ha anche detaglio (Maffei), o, per evitare il male adattato francesismo, 
ritaglio («questa sorte di critica minuta, o critica di ntagfio, come 
vogliam chiamare»-. Baretti, Frusta, n. XV. I, p. 397 Picc.) 2 **. E così 
troviamo che alternano: bleu / blu e bio(v le 1 testimonianze nel 
Vocabolario etimol. del Prati); bureau / burò, burròJRaguet-, Goldoni 
Chiarii, chicane / cicana (a Lucca: Bianchini; P. Paoli); débauché / 
deboscia (Fagiuoli), debocciato iRaguef)-, fiche / fise la (Algarottd-, fram- 
boise / fiambuese (Trinci), framboesia IRaguet), frambuè ecc. (cfr. Prati, 
Voc. etim.X pièce / pezza (A. Verri); ragoùt / ragù (G. Gozzi, Algarotti); 
sans pareille / sampareglie (Bettinelli); pot poum (potpourry, P. Verri) / 

do puri (Sàlvini), ecc. • « 

Altre volte prevalgono le forme italianizzate, ma con molte varianti, 
per es. amuerro, amoerre, moerro, moerre, muerre (frane, morrei, tupypiè, 

topipìè (frane, toupet ). .. 

Non va dimenticato che il francese ha servito di tramite, piu o meno 
facilmente riconoscibile, per l’introduzione in italiano di molte altre 
voci, europee ed esotiche. Il nome dei «massoni» si presenta rare volte 
in forma inglese iFrimesson nella ritrattazione del Minerbetti, 1740), piu 
spesso in forma francese, adattata o no [franmassone L. Pascoli, «tato 
dal Bergantini, 1745), e anche non di rado in forma tradotta (ùberi 
muratori-, congregazione... detta dei Muratori, in una lettera del Dioda ì 
al Nicolini, 1737, a proposito del processo contro il Crudeli). Cosi il 


281 V. le forme nel Voc. etim. di A. Prati, s. v. toelette. Le forme con ua citate dal 
Prati Itualette tualetta) sono ottocentesche toi nel Settecento sonava ancora ueì. 

282 II D’ Alberti, nel Dizionario universale, giudica Dettaglio «Pretto franzesi- 
smo che l’uso sovrano signore della lingua, ha cominciato a stabilire, ed anc 
Id introd^e negli scritti di persone colte». Anteriormente, nel dizionari 
francese-italiano (cito dall’edizione di Bassano, 1777) lo stesso autore aveva 
tradotto détail «a minuto, a ritaglio, particolarmente»; nel dizionario italiano- 
francese non registrava dettaglio. 


Il Settecento 


523 


vocabolo inglese riding-coat diventa in francese redingote, donde 
l'italiano redengotto, rodengotto-, packet-boat attraverso paquebot si 
italianizza in pacchéboto (Algarotti), ecc.; il nome di contraddanza 
rispecchia l’adattamento francese contredanse e non la forma originale 
country-dance. 

Lo spagnolo platina probabilmente è passato attraverso il francese 
prima di diventare platina e poi platino™ 3 . Azione, in senso economico, 
è registrato dall’Alberti come «francesismo commerciale», ma è, sem- 
bra, di origine olandese 284 . Dalle lingue nordiche giunge narvalo, per 
tramite di compilazioni naturalistiche francesi 285 , e per la stessa via 
giunge steppa che è il russo step' passato attraverso il francese step, 
steppe. Le voci indigene americane, che nei secoli precedenti giungeva- 
no spesso in forma spagnola, ora si presentano per lo più in adattamen- 
to francese: canato (Targioni Tozzetti), piroga. E per lo stesso tramite 
giungono altre voci esotiche: kaulin «caolino» è nella traduzione del 
Dizionario del cittadino, Nizza 1763, s. v. porcellana. L’Algarotti 
adoperò mussoni (dal frane, moussonsì per monsoni, ma la voce 
precedentemente usata finì col prevalere. 


22. Altri forestierismi 

In un capitolo al p. Angelico Martignoni il Passeroni si lamentava 
che 


oltre ai molti vocaboli francesi 
adottando si van di giorno in giorno 
voci e frasi di Varj altri paesi 286 . 

Il principale contingente viene dall’Inghilterra, anche se la parte 
maggiore di essi non è immediatamente riconoscibile, o perché essi 
sono anglolatinismi (si veda qui addietro, p. 516) o calchi {biglietto di 
banco, insorgere «ribellarsi», libero muratore, libero pensiero, senso 
comune, verso bianco, ecc.), o perché sono alterati dalla mediazione 
francese. 

Tra i vocaboli che si riferiscono alla vita sociale vanno citati 


283 Si veda per i primi esempi italiani, F. Rodolico, in Lingua nostra, XV 1, 1955, 
pp. 117-U8. 

284 E, remotamente, italiana: cfr. azione nel glossario dei Nuovi testi fiorentini 
del Castellani. 

286 «I Danesi, e gli altri popoli del Nord vanno a caccia d’un grossissimo 
pesce, da loro detto Narwal»: LPluche), Spettacolo della Natura, 2 a ed., II, 1745, p. 
121. Il Prati, Voc. etim., cita un esempio tratto dal vocabolario siciliano del Del 
Bono. 

288 Raccolta di poesie satiriche scritte nel sec. XVIII, Milano 1827, p. 251. 


524 


Storia della lingua italiana 


MilonJfo) e Wledi. che si divulgano Jf™"* 

Agissi, sia figuratamente per politica-, 

^fifsa SuSS,* ^ceneri. Si conoscono i pnmphtets- . ri dà H 

" ffirStSJS*?sasiE^ & ^ n 

punch 2 * 2 . „ ^ppdntfn fv n 523) e lo schincherche. Una 

lega'metaSica SS* SSologhdoVc^ ai chiamb princis- 

^ A(S““o ìa letteratura ^«XSutaSSS 
gnomi (nomi comatì do F^araratóo M drvidg endono Liilìpultó 

SS3UJ SSng'il^di FÙn^nunziato aOa francò passa 
“ pJcS ’^Si'S^no ormai dai paesi di 

fandango, seguidiglia (zighetUgim, Bare . P ^ que u a degli sumeri 


, • no i 9 n 1 S 5 Già il Chiabrera aveva scritto milorte 

W» registrato dallo Z«c^. -accoda, p. 

317 - Si» con il loro nome inglese (.un hbdcclolo ^1 

inglesi chiamano pomphlcts » : Alg^rotti,(^e , ^ 4 • imitazione dello 

^ panfletti («innumeraWh panetti e * ™nfleti (che sono «fogli 

SSridiSa Snòn pe^on^o a chicchessia,: Bettinelli, Opere, XIV, p. 

190). . r ivnmo 1754- Magazzino italiano, Venezia 1767; Mafia& 

ai J’JSS^SS^SSSlgS^Sk eie "ami «oh « periodici sono nealean 

sullo schema di Spectotor fr °“ e "®{° u re ’ q®^' adattato in pudino o puddingo 
a* Ora in forma inglese UJarettu, ora incrocio col frane, boudm. 

(Algarotti); più tardi piuttosto budmo o a. Pindemonte, / viaggi. 

» «preclaro - Dottor di tosù e thè ^poimbi e nure^ ma anche le 

poco dopo il 1790); ^Jr t nZ^Lml!tteTing£Top^re. XII, p. 150). 

(Goldoni), pancia (Baretti). ponchio (Pmdemonte). e 

altre ancora (cfr. Prati, Voc ’ s®' p^^pogUassimo opere concernenti la 

Ne potremmo dare lunghi elenchi PK locale il Baretti nelle 

Spagna o l'America spasola: m° 1 ^ “ ^ Curatori (/[ Cristianesimo felice nelle 
sue lettere igolvgha, posodera quinto e i n termini concernenti la vita 

-capei .sonaglio», porto». mn- 

CHe ‘ % -Nfa ‘ a SSf’voto il ted. Kaffeehaus è ricalcato sull'ingl. coffee-house. 


Il Settecento 


anche alcuni termini mineralogici: cobalto o cobolto, feldspato , nickel o 
nìccolo, scorillo o scorto da Schorl 295 spizio «cuspide» da Spitz 2 ™. 

Dalle lingue slave viene la notizia e il nome dei vampiri : se 
direttamente dal serbocroato o per mediazione tedesca o francese è 
difficile dire. I viaggi nei paesi slavi portano alla conoscenza di termini 
locali: per es. l’ Algarotti usa czar (femm. czaraì , copicco, ecc. 

E così giungono, attraverso relazioni di viaggi ecc., vocaboli 
orientali (nabab, Cesarotti, 1792; tattow, nella traduzione dei Viaggi del 
Capitano Cook, Napoli-Livomo 1787, IV, p. 222) e vocaboli americani 
(maogano, Baretti, Frusta, n. XIV: I, p. 369 Picc.; oppure maogani, Id., 
lett. 10 nov. 1796, in Epist., I, p. 421 Picc.; i sachemi. Algarotti, lettera del 
4 luglio 1757). 

23. Italianismi in altre lingue 

La cultura italiana continua ad essere presente nella cultura 
europea: e ciò si vede anche dal discreto numero di italianismi passati 
nelle principali altre lingue. 

Alcuni si riferiscono alla vita sociale, come cicisbeo (entrato in 
spagnolo nel 1717, in francese nel 1765 come sigisbé, poi sigisbée, ted. 
1784, ingl. 1718), casino (frane. 1740, ted. 1775, ingl. 1789), villa (frane. 
1743, ingl. 1755, ted.) 297 . Si divulga in Europa la locuzione (dolce) far 
niente, ora rinfacciata ora invidiata agli Italiani 298 . 

Fra i tennini d’arte ricordiamo pittoresco, riferito soprattutto a 
paesaggi di natura selvaggia, come ad esempio quelli di Salvator Rosa 
(frane, pittoresque 1721, ingl. picturesque 1703, ted. pittoresk 1768). 

Per la musica citiamo pianoforte (frane. 1774, e accorciato in piano 
1798; ingl. 1767; il ted. oscilla tra Fortepiano 1775 e Pianoforte 1786; lo 
svedese, evidentemente attraverso il ted., ha pure fortepiano 1779), 
mandolino (frane. 1762, ingl. 1708; il ted. ha Mandoline, 1795, attraverso 
il francese), violoncello (frane, violoncello 1709, violoncelli 1743; ingl. 
1724; ted. 1739, anche Cello 1784); e poi barcarola (frane. 1798, ingl. 1779), 
bravo come acclamazione (frane. 1782, ted. 1774, ingl. 1761). 

Dilettante era principalmente, nel Settecento, un «virtuoso» di 
musica, e, all’estero, l’appassionato per la musica italiana (frane. 1740, 
ted. 1764; ingl. 1733, nel significato più generico di «amatore di belle 
arti»). 

Cicerone, nel senso di «guida alla visita di oggetti antichi o altre 
curiosità», passa in frane. (1773), in ted. (1729), in ingl. (1726). 


285 «rene piene di piccoli scortiti»: G. Santi, Viaggio secondo, Pisa 1798, p. 13; 
«cristallizzazioni di scorto verdastro»; Bertela, Viaggio sul Reno, p. 249 Baldini 
288 Rodolico, in Lingua nostra, VII, p. 65. 

297 Entra in francese anche villeggiatura (villégiature, 1761), eco delle «smanie 
per la villeggiatura» che imperversavano in Italia. 

288 B. Gerola, in Festskrift A. Boèthius, Goteborg 1949, pp. 31-47. 


526 


Storia della lingua italiana 

Protagoniste compare la prima volta in francese nei Mémoires del 

^i’improwisatore (e Vimprowisatrice) presentalo un aspetto tipico 
della letteratura settecentesca (fr. 1765, ted. 1787, mgl. 1795). 

Due epidemie di «grippe» (nel 1743 e nel 1782) diffusero largamente 
il nome Zaffano 6 di influenza Ungi. 1743, fr. e ted. 1782, sved. mfluensa 

^Abbiamo scelto alcuni esempi tipici, che attraverso le date di prima 
atmarizione (con tutto quello che di casuale vi può essere m questo 
elemento di prova) ci mostrano la penetrazione all’ingrosso contempo- 

ran |?rTeS^lT^^'hZro si potrebbero redigere, elenchi di 
vocaboli molto più ampi 300 e solo parzialmente concordanti; molto vane 
sono particolarmente le date in cui singoli vragpaton o scrittori 
presentano alla loro nazione peculiarità di colore locale . 


298 Polena in Lettere ital., X, 1958, p. 48. ioor 

3 oo v. per es. per il francese Brunot, Hist. de la langue fran$„ VI, n, pp. 1236 

123 »• Per es il maraschino idi cui parla il presidente de Brosses) o i grissini (che 
Rousseau nomina nelle Confessions e nell ’Émile sotto la forma di gnssesl 


CAPITOLO XI 

IL PRIMO OTTOCENTO 
Dall’invasione francese 
alla proclamazione del Regno d’Italia 

( 1796 - 1861 ) 


1. Limiti 

Poco prima dell’inizio del secolo, l’anno 1796 segna, con l’invasione 
francese, l’inizio di un nuovo periodo storico. Con l’unione del Setten- 
trione al Mezzogiorno, e la proclamazione del regno d’Italia (1861), 
l’unità politica è virtualmente compiuta, anche se Venezia e Roma e 
Trento e Trieste mancano ancora al concerto delle città politicamente 
italiane. Per la sua importanza, la data del 1861 potrà valere come 
limite di questa trattazione. Come date intermedie vanno specialmente 
sottolineate quella che segna la nuova prevalenza delle forze reaziona- 
rie, il 1815, e la grande fiammata del ’48. 

2. Eventi politici 

Dopo le grandi, improvvise novità portate dall’invasione francese 
del 1796, e dopo le lotte e gli alternati passaggi di truppe straniere in 
molte parti della penisola, si ha un consolidamento della potenza 
francese in tutta l’Italia peninsulare: accanto ai territori soggetti 
direttamente alla Francia, che comprendevano il Piemonte, Genova, 
Parma, la Toscana, Roma, stavano gli altri due stati vassalli, il Regno 
Italico e il regno murattiano di Napoli. Malgrado questa dipendenza, e 
il tributo di denaro e di sangue che la dominazione francese costò 
all’Italia, gli Italiani incominciano a godere dei benefici dell’uguaglian- 
za civile e a ritenere possibile l’avvento di un’Italia libera e indipenden- 
te. La caduta di Napoleone porta con sé la soggezione al predominio 
austriaco e il ristabilimento di quasi tutti gli antichi staterelli. La 
Liguria è annessa al Piemonte, e il Veneto è assoggettato all’Austria. 
La Valtellina resta ormai unita alla Lombardia. Il Canton Ticino non è 
più vassallo dei cantoni tedeschi d’oltre il San Gottardo, ma è 
diventato cantone sovrano nell’àmbito della Confederazione Svizzera. 

I moti del ’21 e del ’31 mostrano il progressivo maturarsi dell’idea 
nazionale, specialmente attraverso l’opera delle società segrete. Molti 
esuli vivono rifugiati in Toscana, dove il governo è più tollerante che 
altrove. 

Grandi speranze si accendono nel ’48-’49, e per pochi mesi Milano, 
Venezia, Firenze, Roma, Palermo vivono in libertà e credono imminen- 


528 


Stona della lingua italiana 


, , Tìalincenesi italiana Funzionano dei parlamenti, si costituiscono 

r Aiìltria^nortgfall’vinione fra Piemonte e Lombardia, ben presto seguita 
flCotótina ìlbeS2.cha le Marche e TOmbna la n = e y 

ss 

repubblica, il dominio veneto. 


3 Vita sociale e culturale 

Italico, e poi 8 , g , 5 c he travolgono come un turbine 

fStSr&srs- sa- 

relarionffra foro Sìe città P dove vivono, a Firenze, a Torino, a Parigi, a 

L ° I Anchef contatti fra classe e classe In senso .verticale. hMino molta 
* «i. „ n v»nnrh 4 nnrora il «oopolo» min uto conti assai poco. 

Ff%^SìhS5s e ta S a £ande è stancò n^U^iT ^oKabco; 

civflf “SS?Sone, la quale ormai nel Regno Italico prende molti 

lra N sfSfsT^oducflfcondo il modello francese il 

sismnmmetricofil^udteperslsterà (mentre presto sparisce il colenda. 

n ° n e codice C dri!e redatto (per ordine di Nag^MO^ ^J£ 

romanistiche viene promulgato nel Regno d Italia nel 180 


1 Leopardi, Zibaldone, 3546-47, 28 sett. 1823. 


Il Primo Ottocento 


529 


bilingue, italiano e francese 2 testi analoghi sono messi in vigoré in tutta 
l’Europa soggetta all’egemonia francese. La sua influenza permarrà 
anche dopo la caduta del Bonaparte. 

Acquista crescente importanza la stampa periodica. L’Austria 
protegge la Biblioteca Italiana, e vigila il Conciliatore con ima censura 
rigorosa 3 . 

Moltissime benemerenze ebbe per la cultura italiana l’AnfoJogia del 
Vieusseux. Né minori furono quelle del Politecnico, iniziato dal Catta- 
neo nel 1839, e poi del Crepuscolo del Tenca. La stampa quotidiana 
esercitò principalmente la sua influenza in regime di libertà nel ’48-’49: 
in Toscana i giornaletti «da una crazia», nel divulgare le opinioni 
politiche, si attengono a una prosa meno aulica di quella che si usava 
nei tempi «codini». 

Si hanno i primissimi inizi della pubblicità, riferiti dapprima a 
specialità medicinali. 

La vita teatrale è assai fervida: e il Rosini assai giustamente nota 
come il teatro di prosa potrebb’essere «il primo passo, onde giungere a 
render comune sulle labbra delle colte persone d’Italia la lingua» 4 . Ai 
melodrammi più divulgati si attingono facilmente nomi e allusioni. 

L’insegnamento influisce solo sulle classi più elevate, e giunge 
scarsamente e di rado al popolo. L’istruzione elementare è resa 
obbligatoria per tutti fino ai 9 anni (ma ancora senza sanzioni) dalla 
legge Casati (13 nov. 1859). Nelle scuole medie l’insegnamento dell’ita- 
liano è spesso posposto o subordinato a quello del latino, malgrado 
l’ammonimento di M. Gioia di «non invertire l’ordine naturale delle 
cognizioni, come si fa insegnando il latino prima dell’italiano» 5 . Nelle 
università s’insegna ancora prevalentemente in latino: ne riafferma 
l’uso per l’università di Roma Leone XII; nelle università dello Stato 
Sardo l’uso dell’insegnamento in latino è abolito solo nel 1852. 

Poche sono le Accademie veramente attive: ricordiamo l’Accademia 
delle Scienze di Torino e l’Istituto Italiano, con sede a Milano sotto il 
Regno Italico (più tardi, sotto l’Austria, diviso in Istituto Lombardo e 
Istituto Veneto). L’Accademia Fiorentina nel 1808 è ridivisa in tre classi 
(del Cimento, della Crusca, del Disegno): riappare così il nome della 
Crusca, la cui piena autonomia è ripristinata nel 1811 da Napoleone. Si 


2 La traduzione italiana fu fatta a Milano; quando poi i giuristi del regno di 
Napoli furono consultati per proporre le modificazioni necessarie prima d’appli- 
carla nei territori napoletani, la giudicarono «barbara, né sempre fedele» (N. 
Rodolico, Storia degli Italiani, Firenze 1954, p. 592). 

Poiché il lessico giuridico italiano subì fortemente la sua influenza, meritereb- 
be studiarla dawicino. 

3 Si arrivò persino ad impedire la pubblicazione di queste parole del Pellico: 
«il nobile bisogno della pubblica stima e l’appoggio dell’opinione pubblica». 

4 Rosini, Risposta ad una lettera del cav. V. Monti sulla lingua italiana, Pisa 

1818, pp. 81-82. 

5 Anche per il pregiudizio che non sia necessario «d’imparà l’itajjano a un 
itajjano» (Belli, son. «La lezione del padroncino», 8 aprile 1834). 


530 


Storia della lingua italiana 


fa molta attenzione ai premi letterari che essa distribuisce, mentre la 

sua attività lessicografica è piuttosto fiacca (v. § 9). r1 

Notevoli progressi fanno le scienze, pure e applicate. E 1 Congressi 
degli scienziati (a cominciare da quello di Pisa, 1839) hanno importanza 
per i contatti che suscitano e il lievito imitano che li pervade. 

P Nuove invenzioni vengono a incidere sulla vita civile. Le applicazio- 
ni del vapore danno origine, soprattutto nell’Italia settentnonale, a 
nuove industrie, e modificano profondamente il traffico terrestre (prime 
strade ferrate, 1839) e quello marittimo (battelli a vapore). Al telegrafo 
ottico tien dietro il telegrafo elettrico. Le città vengono illuminate a gas 
(Milano, 1845). Appaiono i fiammiferi fosforati (1832), e s introduce la 

fabbricatone dm s^iga^ ^ stenografia-, si esperimenta il cembalo 
scrivano (a Ravizza, 1855), che precorre la macchina da scnvere. Ha 
molto successo la litografia; appare la fotografia. , = 

Nelle belle arti, il gusto neoclassico predomina neh età na Poleomca 
e seguiterà assai a lungo, accanto a manifestazioni romantiche fan 

architettura, per es., il neogotico). nn - idea del 

È ovvio che cenni così sommari non possono dare i im idea a . il 

nroeresso delle idee e delle cose nella loro complessità: abbiamo citato 
alSSi ls empi solo per ricordare che dovrà riferirsi a premesse di 
questo genere chi voglia studiare l’apparizione di nuovi vocaboli e di 
nuovi significati durante questa età (cfr. § 16 segg.J- 


4. Principali tendenze nel mutamento linguistico 

Illuminismo e francesismo avevano fortemente inciso sulla lingua 
nuotidiana che alla fine del Settecento era quanto mai andante e 
franceseggiante. L’invasione francese porta nuovi francesismi, neologi- 
ojnì amministrativi - e un’ondata di retorica. 

Ma come ben presto nella politica la soggezione fa nascere un 
nuovo spirito d’indipendenza, così la generate incuria stihstica e 
dilagare delle voci francesi e delle voci burocratiche porta ì letterati a 
Sa reazione Protesta il Botta, all’Accademia di Torino, con un sonetto 
di stampo alfìeriano (1803); protesta iLMonti, nella Prolusione agli s u / 
dell’Università di Pavia per l’anno 1804: 

Qpntirpì tentato di inveire alcun poco contro il barbaro dialetto misera- 

Lfllunoue ti sia che intendi a procacciarti impiego pohtico, se hai cara la voce 
qualunque ti sia cne une f studio del i> e i oq uenza; bada 

“heSShopp^ Ideare’ “ "rSorzi Infelice abitudine dello scrivere e 

parlare viziosamente.... 

Di contro alle esigenze meramente pratiche i letterati raffermano, 
secondo la tradizione italiana che dà tanta importanza al culto della 


Il Primo Ottocento 


531 


forma, l’importanza del bello scrivere 8 . Si tende a rimettere in vigore il 
principio d’imitazione, richiamandosi alle glorie del passato: i classici- 
sti si attengono principalmente al Trecento e al Cinquecento, mentre 
quella più rigorosa loro schiera che fu chiamata dei puristi insiste 
soprattutto sul Trecento. 

Nel 1816 ha inizio la polemica sul romanticismo: i romantici 
rinnegano il principio d’imitazione, proclamano morta la vecchia 
mitologia e vorrebbero ima letteratura e una lingua che esprimessero 
le idee di un’Italia giovane e fresca, all’unisono col resto d’Europa. Di 
qui la necessità di stretti contatti fra là lingua scritta e la lingua 
parlata, per meglio aderire alla realtà delle cose. 

Un problema che si fa sentire in questo periodo (specialmente per 
opera dei romanticD è quello dell’unità della lingua come strumento 
sociale d’ima nazione spiritualmente unita. 

Manzoni vagheggia un’Italia 

una d’arme, di lingua, d’altare, 
di memorie, di sangue e di cor, 

il Poerio la auspica 

fiorente - possente 
d’un solo linguaggio. 

Ma le vie per accostarsi a questo ideale sono ancora più difficili per 
i romantici che per i classicisti e i puristi. Per questi, che rivolgevano gli 
occhi al passato, si trattava di scegliere fra vari modelli più o meno 
illustri; ma i romantici, che miravano alla lingua parlata, a che modello 
dovevano attenersi? 

Alcune delle esigenze espressive potevano essere ben soddisfatte 
per mezzo dei singoli dialetti (e infatti il Porta ne dava luminoso 
esempio, e difendeva la legittimità del dialetto contro il Giordani); ma 
altra via si doveva evidentemente tenere per ima letteratura e una 
lingua nazionale. Ricorrere al toscano parlato? Fu la ria per cui 
s’incamminò sempre più risolutamente il Manzoni, trovando si parec- 
chi seguaci, ma anche obiezioni e riluttanze 7 . 


8 E ne ottengono qualche riconoscimento ufficiale: il decreto napoleonico del 
1809 «per la conservazione della lingua» (vedine il testo negli Atti dell'Acc. della 
Crusca, 1909-10, pp. 97-98), le raccomandazioni del Vaccari, ministro dell’interno 
del Regno Italico, contro l’uso dei barbarismi burocratici (G. Bemardoni, Elenco 
di alcune parole..., Milano 1812, p. ni), e cosi via. 

7 Possiamo, schematizzando, parlare di istanze classicistiche e di istanze 
romantiche, mentre ci guardiamo bene dal dividere i classicisti e i romantici in 
due schiere: è ormai trita osservazione che il Monti e il Leopardi classicisti sono 
intrisi di romanticismo, e di classicismo il Manzoni capo della scuola romantica. 
Così pure è ozioso discutere se vi sia o no parallelismo fra tendenze letterario 1 
linguistiche e tendenze politiche, e chiederci se aveva ragione il Pellico quando 
asseriva che a Torino «per dire un liberale si dice romantico» (lettera 18 agosto 


532 


Storia della lingua italiana 


Mentre il numero di quelli che miravano all’unità territoriale (fra le 
• * • /j’Tfniioì vìAiip crescendo rapidsmente fino a farsi vaiali- 

Affisi 

scienziati, barbari nel ìessic > *1 , , „y. p snesso sproporzio- 

incuranti di stile 9 : rimproveri assai fondati, anche se spess p 


,81®. o se aveva ragione 11 Boto OKffl ne^cltom 1 romuUd^grideto 
patria» (gli faceva eco ancora nel 1853, m una ^"^bonico» o «patriotta»-. la 
?iov m et né è meno p„ ( °XS,sclenza civile, ed e 

sua scuola molto aUa form _ tutta ^ rivoluzione ignorata e 

S at C tori C e°^ TgU^pettatorfe daUe ^Ittoe. È rivoluzioni siffatte sono le meno 
reprimibili e le più efficaci» («L’ultimo dei «letteratura 

“Bosco, in Probi, e orumtam^, I** ^ J^pa^dossalmente egU 

popolare» toma piu ^olte nelte ^riconosciuta aulicità della letteratura e il 
addirittura pensava Sa cSe ! ™ e °e due poesie e letterature, l’una per gli 
??nH«ntfTatoa pel popola Così quelli non perderebbero, mentre questo 
ricupererebbe», ecc. .^aWoiw 4^8, 21 per «popolare» 

riguardo^Ua re^ri^e'dàUa^CnSca: 

sta fatta interrogando la gPP^Cf^ffgx^eUo che f letterati dicono 

tr^m^io^h^so^scelsr un^donna per^apere^uso^ippunto di quel popolo ch’é tra il 
Chmndo^^ongM^i^^naSda^^^^dùé Ja ^gf^v^e» S ffi «un°ben 

> a mZ ™n camp^variati. Il Foscolo satireggia (1813) il «giornalista» che 

un pasticcio latino-italo-greco 

rivomita indigesto dàlia gola , 

(capitolo a L. Cicognara). 

S1 W’SKST.Stfi 

SS. *4” ”SSe ft v=ig^^o1f t«d, d !i 

Cesarotti».... «Nelle scuole ^Uano scuretto, ma 

latino passava di moda-, si scrivev a i^ cos stess i anni si riferiva l’ Amari 

chiaro e facile» (La Giovinezza, p. 15, 29 Ritósol Agust^si ^ 

scrivendo nel 1886 della Propria f 1 avan o a reagire, tra tante altre cose, 

penisola, le si scriveva comunemente: povero, basso e pur 

contro quel certo italiano, c s ^nve^ ^ N Rodolico, Dalla vita e dalla, 

tsssi £ 

£££££ Ienzt n null“di Speciale, di vivo, che proprio uno non se ne sa dar 


Il Primo Ottocento 


533 


nati, perché da un giornalista odaun segretario non si può pretendere 
che scriva come uno scrittore d’arte. 

Eppure non rimasero senza effetto sulla prosa quotidiana né 
l’insegnamento dei classicisti e puristi, né quello del Manzoni. Valsero i 
puristi soprattutto come antidoto contro la sciatteria e il francesismo, 
mentre l’esempio manzoniano molto giovò «a estirpar dalle lettere 
italiane, o dal cervello dell’Italia, l’antichissimo cancro della retorica» 
CAscoli, Arch. glottol. ital., I, p. xxvm). 

Ma ancora verso il ’0O è possibile distinguere non solo negli scrittori 
che sanno tener la penna in mano, ma anche nella prosa usuale, un 
filone piuttosto classicheggiante e un filone piuttosto semplice e 
spedito 10 . Sarà compito dei decenni successivi, soprattutto per i più fitti 
scambi dovuti all’unità nazionale, il ridurre, nella prosa corrente, la 
differenza fra questi due filoni. 

Molti scienziati non rimasero indifferenti a questi problemi; ma più 
li preoccupava il tumultuoso moltiplicarsi delle terminologie scientifi- 
che, che, secondo il Breislak minacciava «una confusione grande nelle 
idee di una scienza la quale non potrà progredire giammai con 
sicurezza e rapidità, fino a tanto che non se ne stabilisca il linguag- 
gio» 11 . 

5. La lingua parlata 

Benché gli scambi fra regione e regione siano parecchio più intensi 
che nei secoli precedenti, l’italiano è ancora essenzialmente lingua 
scritta, e, fuori dell’Italia centrale, pochissimo parlata. Sentiamo il 
Foscolo: «Le persone educate negli altri paesi d’Europa si giovano della 
lingua nazionale, e lasciano i dialetti alla plebe. Or questo in Italia è 
privilegio solo di chi, viaggiando nelle provincie circonvicine, si giova 


pace, e non dico se il Manzoni ci s’arrabbia» (D’Azeglio, lettera 8 ottobre 1844 al 
Giusti, in Epistolario del Giusti, Firenze 1859, p. 449). 

Non parliamo poi delle lamentele da cui prendono le mosse gli elenchi e i 
repertori di modi errati. Prendiamone uno qualsiasi: «a fame ricolta Idi voci e 
modi barbari] non vi vuol certo erculea fatica, imperciocché basta solo entrare 
fra le nostre più alte brigate (e più alte sono esse, di maggiore dovizia ne 
forniranno), basta por piede nelle opere che vengono oggidì a stampa, e ben 
poche vorrei eccettuarne, e basta infine prendere in mano i nostri grandi fogli 
periodici e in questi soli, che in ogni altra lingua scrivono che italiana, troverem 
tanto da comporre un’altra biblioteca alessandrina» (G. Valeriani, Vocabolario di 
voci e frasi erronee, Torino 1854, p. 14). 

10 Talvolta le due maniere convivono nello stesso autore e magari nella stessa 
pagina: lo nota il De Sanctis nei Saggi critici, a proposito delle Memorie (1853) del 
Montanelli, che pure egli ascrive a «quella scuola che dietro le peste del Manzoni 
ha gittate via dalla prosa italiana tutta quella vacua sonorità, tutti quei 
riempimenti e giri e perifrasi e leziosaggini, che chiamano eleganza, e le ha dato 
un fare franco e spedito». 

11 Mem.'dell'Ist. del Regno Lombardo Veneto, III, 1824, p. 39 (cit. in Lingua 
nostra, XVII. p. 92). 



534 


Stona della lingua italiana 


d’un linguaggio comune ‘a^ed^tiiS^o^eSfòhto^Sinoran- 

^r.WS^rA per affettazione d, 

letteratura» 12 . . mloll _ rhe nei primi decenni del secolo si 

Il Manzoni ci descrive Q^eUo c ene adoprar tutti i vocaboli 

chiamava a Milano porla Jì - clie s i credevano italiani, e al resto 
italiani che si sapevano, o quett chi con TOCttb oli milanesi 

supplire che Mche ai milanesi sarebbero parsi 

S^tCsf e S “Sro fatti ridere; e da» al tutto insieme le 

SSetiofeToi^eva spiso neUa predicazione e neffinsegnamento 

catechistico 14 - necessità di por rimedio a questo stato di 

Pochissimo sentita era la necess uà p . rlari de n e campagne 

cose. Qualcuno bensì ammir Foscolo dice, parlando di sé 

contigue e cercava di confonnann l tomò & stare a dimora nel 

sotto la figura di Didimo "Sn arare migUore idioma di quello che 

contado tra FireMeePistoiaa^^ c ™f e Carlo Vidua piemontese 

si insegna nella citta e nelle scuol^ ^ andare al MerC ato Vecchio ad 

consigliava a un amico, ne , alcune famiglie piemontesi 

ascoltarvi pizzicagnoli , e conte; tau^Em g.^ nel collegk, 

era tradizione di ? Giordani del 30 aprile 1817, il Leopardi, 

Tolomei". Nella sua lette» al Giorfam del 30 ap^ fche 

oltre agli esercizi e alle letture^ p^, ta taogo doT e si parh la 

Ca h"Scbe anno di ££ SSSSS 

ss,?* zszsz scalasse - « - 


iv, Dmw u>tter IV. Firenze 1851, p. 187 

Sieri» sm isSio 1 “• 

,ta * , “ , ° De “° v OP< ” ‘“ < “ K 
0 "Tn V d&a S N «.U..e, scrivendo 

oratore che predicando a Tonno in P d’insegnamento del catechi 

dfpam/ìio a Polifllo, Firenze 1821, PP- 8 *!; „ , naz y p. 176). In una lettera 

del 1813 leggiamo * aiut^a ad imparare la pronunzia 

toscana» (EpistoL, Ed. naz IV, 

16 Mazzoni, Ottocento , 2 P\ 

.7 Rodolico, Stona degli Italiani, cit.. P- 679. 


/i Primo Ottocento 


535 


Firenze; perché non ci è paese dove meno si studi la lingua, e si studino 
i maestri scrittori di essa (senza di che in nessuno si potrà mai scriver 
bene): ed oltre a ciò non è paese che parli meno italiano di Firenze. 
Non hanno di buona favella niente fuorché l’accento 18 : i vocaboli, le 
frasi vi sono molto più barbare che altrove». E il Leopardi acquietan- 
dosi «alla sua sentenza» lodava la pronunzia di Recanati detterà 30 
maggio 1817). 

Non c’è bisogno d’insistere sull’importanza che Firenze ebbe nella 
concezione del Manzoni, e sul valore di mito che egli contribuì a darle. 
Il suo ideale è la lingua parlata dai Fiorentini colti; altri insistono 
piuttosto sulla schiettezza del parlare popolano e campagnolo. Ma 
c’era molto e molto da fare perché, in ima forma o nell’altra, l’italiano 
diventasse veramente una lingua parlata 19 . Quando nel Parlamento di 
Torino i deputati si sforzavano di parlare in italiano, parlavano una 
lingua morta, nella quale non avevano l’abitudine di conversare 20 . 

E più volte l’aneddotica ci serba notizie di frasi dialettali di uomini 
illustri: del Prina, che consigliato di nascondersi nei tumulti milanesi 
del 20 aprile 1814 rispondeva: I saria neri piemonteis ; di Cavour che in 
un momento d’ira, alla vigilia dell’elezione di Rattazzi a presidente 
della Camera, esclamava A l'è na ciula, a l’è na ciulaì ; di Vittorio 
Emanuele II, di Leopoldo II, di Ferdinando II. 


18 L’«accento» che 8 Giordani lodava, irritava invece lo Stendhal: «Je vote au 
théàtre du Hhohhomero, c’est ainsi qu’on prononce le mot cocomero. Je suis 
furieusement choqué de cette langue fiorentine, si vantée. Au premier moment, 
j’ai era entendre de l'arabe»... «la prononciation arabe du florentin vous dessèche 
le coeur»; Stendhal, Rome, Naples et Florence, 2 a redaz., rist. Calmann-Lóvy, p. 211 
e 229. 

18 Abbiamo parecchie testimonianze su singoli individui. Di Carlo Alberto, 
per es., sappiamo che parlava bene, per le sue lunghe residenze in Toscana. 
Pasquale Galluppi impartiva le sue lezioni «con l’accento tagliente del suo 
dialetto» (Settembrini, Ricordanze della mia vita, I, p. 53 Laterza). 

Il Manzoni si meravigliava che il Giordani «ritenesse la gallica sua pronunzia 
piacentina» (Tommaseo, Colloquii, p. 107), mentre per conto proprio s’era sforzato 
di proferire fiorentinamente, e quando il Salvagnoli lodò la suar pronunzia 
migliorata, se ne compiacque Avi). 

Il Tommaseo aveva imparato benissimo 'la pronunzia di Firenze: ci dice 
Ariodante Le Brun, che fu suo segretario: «lo, fiorentino, in tanti anni trovai che 
due sole parole non pronunziava come qui si suole-, bosco e apposta con o stretto» 
(Di N. Tommaseo, Torino 1875, p. 12). 

Un napoletano scolaro del De Sanctis, Nicola Marselli, ci dice che 8 maestro 
pronunziava la s di chiosa «in modo veramente barbaro» (cit. da Russo, nel suo 
commento a La Giovinezza, p. 125): vuol dire che la pronunziava sonora, mentre 8 
Marselli e i suoi compagni ignoravano che questa era la pronunzia toscanamente 
corretta. 

20 L’osservazione è deHa marchesa Arconati, in un suo colloquio con uno 
studioso inglese CN. W. Senior, L’Italia dopo il 1848: colloqui ecc., ed. A. Omodeo, 
Bari 1937, p. 34). 



530 


Storia della lingua italiana 


6. Il linguaggio della prosa 

Sulla prosa quotidiana andante, quale può essere quella dun 
giornale, d’una relazione amministrativa, d’una lettera confidenziale 
si solleva la prosa con intenzioni d’arte. Tra la prosa di un «attuano di 
tribunale e quella di un Giordani passano infinite gradazioni, dipen- 
deX oltre^e dafia capacità dei singoli, dal maggiore o mmor 

d6S fi clSsSiS^ttocmSIsco^mira a una lingua aitamente decorosa^ 
che si scosti dalle «bassezze del moderno idioma» (Giordani!, di 
«quell’italiano servile e maccaronico che i più fra gli odierni italiam 
parlano o scrivono ognidì» (Botta), per ricollegarsi invece alla hngya 
dei più nobili autori del ’300 e del ’500 ; fra i più insigni i modelli è 
annoverato Daniefio Bartoli, mentre il Settecento è considerato ima 
vergogna. Per il lessico i classicisti si attengono, per quanto P°ssonc> e 
saimo a parole appartenenti alla tradizione nobile: non dunque 
forestierismi degli ultimisecoli, non neologismi, ove non siano strettis- 
stoamentrnecessari. n Leopardi insiste sul fascino delle parole 
«vaghe» (mentre sono da evitare i «termini» scientifici e tec^ci, troppo 
precisi) È lecito attingere moderatamente anche al lessico poetico. 

Uno studio particolare è rivolto all’arte del periodo, J fingeva 
costruito con membri di misurata ampiezza, accuratamente connessi 
in modo da ottenere ima gradevole armonia. 

Queste aspirazioni generali naturalmente si atteggiano nei mo 
più vari nei Cingoli scrittori. Il Botta, nell’attingere non solo agli 
scrittori di tono pfù alto (specie al Guicciardini) ma anche al Damati 
popolareggiante, ai novellieri, ai comici, non di rado usa un lessico 
sforzato e composito 22 ; e lo sforzo si sente anche nelle numerose 

ÌnV Anche il Leopardi attinge talvolta al lessico familiare e dialettale, 

ma iTgeneri»1n cifi fa?e sue maggiori prove la prosa classicteticasono 
la storia le orazioni, le dissertazioni di carattere generale. Un campo 
nuovo è quello dell’epigrafia 23 , in cui bene si cimentarono il Giordam e 

U *Ancor più «libreschi» e ligi al principio d’imitazione che i classicisti 
sono i puristi, i quali se per certo rispetto possono essere considerati 


21 Vedi i buoni saggi di G. G. Ferrerò, Prosa illustre dell'Ottocento, Torino 1939- 
41 (2 a ed. col titolo Prosa clàssica dell' Ottocento, Tonno 1945). . ... 

“ Le edizioni del 1819 e del 1820 della Stona della guerra d tndipendenzadegli 
Stati Unìti Nerica sono accompagnate da un «Indice alfabetico di alcune 

Par °^ 6 ^ 

to btP llSt* M. può anche darsi che egli non avesse voglia <h scrivere le 
iscrizioni richiestegli. 


Il Primo Ottocento 


537 


come una varietà più severa dei classicisti, quasi la loro «estrema 
destra» 24 , per altro rispetto ne divergono, in quanto apprezzano l’aurea 
semplicità del Trecento molto più che la rotondità del Cinquecento 25 . 1 
due principali rappresentanti del purismo, il p. Antonio Cesari, verone- 
se (1760- 1828), e il marchese Basilio Puoti, napoletano (1782-1847), 
raccolsero intorno a sé parecchi seguaci. Più che per la loro opera di 
scrittori, povera e arida (si pensi specialmente a quelle Novelle in cui il 
p. Cesari si provò a trattare di cose moderne in stile trecentesco), va 
ricordata la loro attività di lessicografi, di grammatici, di maestri, su 
cui avremo occasione di tornare più oltre. 

Come esempio dell’imitazione dei vezzi trecenteschi da parte del 
Cesari ecco un passo d’una lettera al Pederzani del 1813: «Veramente 
essi ne dicono Idi questo dialogo] tanto di bene, che non pure superò a 
pezza l’espettazion mia, ma quello eziandio, che il mio amor proprio 
avrebbe potuto desiderare» 28 . Nella lettera del 1827 in cui rompeva le 
relazioni col suo infedele discepolo Villardi, egli incominciava: « Fratei- 
mo carissimo» e concludeva: «A Dio, Sozio» 27 . 

Certo, spetta ai puristi il merito di aver rimesso in onore lo studio 
attento e diretto dei testi (e di averne pubblicati parecchi), sia pure 
limitatamente al loro canone trecentesco (alcuni cinquecentisti e 
Daniello Bartoli erano apprezzati in quanto alla loro volta erano 
ammiratori del Trecento). 

Le loro invocazioni per un radicale mutamento della lingua suscita- 
vano meraviglia, e talora quasi scandalo: si ricordi il dialogo fra il 
giovanissimo De Sanctis e il Costabile, già allievo del Puoti, che 
l’invitava a frequentare lo «studio» del marchese: «E credi tu ch’io 
debba ancora imparare l’italiano?» - «Sicuro, quell’italiano lì è un’altra 
cosa» (La Giovinezza, p. 57 Russo). E molti rifiutavano il giogo che i 
puristi pretendevano imporre: già nel 1816 il Berchet li considerava «un 
esercito di scrutina-parole, infinito, inevitabile, sempre all’erta, e 
prodigo sempre di anatemi» 28 ; e ancora nel 1854 il Mamiani osservava: 
«A leggere per es. il Puoti sono tante le voci barbare usate al di d’oggi, 
che in verità io non saprei come fare ad aprir la bocca senza sputare 
un farfallone, e il povero scrittore italiano è da colui menato alla 
condizione di chi balla sulle uova» 29 . 

Le pretese di alcuni puristi andavano talvolta al di là delle loro 


24 Molto essi polemizzarono fra loro: specialmente il Cesari ed il Monti. G. 
Marchetti nel sonetto II Monti e il Cesari, immaginando che i due s’incontrino 
«oltra quel varco che al ritorno è chiuso» fa che essi dicano riconciliandosi: «Solo 
è bello (dicean) quel varco che l’antica - età consente e la moderna intende». 

25 Tanto che il Cardarelli (La Ronda, III, p. 130) ha potuto confrontarli con i 
preraffaelliti. 

28 G. Guidetti, La questione linguistica e l’amicizia del p. A. Cesari ecc., Reggio 
Emilia, 1901, p. 21. 

27 Guidetti, cit., pp. 141-142. 

23 Lettera semiseria, in Opere, II, p. U Bellorini. 

29 Lettera a P. Fanfani, nella Bibliobiografia di questo, p. 50. 


538 


Storia della lingua italiana 


premesse, già di ver sé ^^^Se^ett^S dove^ronSSe due 
3gSaf°.SSSWS ^'SSffde, puristi ha a^to 

?o°r?°ócuzioni ignQte o ma^ riote Bisogna esserenaturali, 

spo ^"^^ 

cando come scrivevano gli cioè un periodico che non 

no le loro prime battaglie nel nersegue apertamente firn 

wof essere Reamente leUerano^ ma t P^2^ ne ^ t «tratti ma 

sociali. Bisogna esprimersi MP™ loro carat teristiche concrete, e 
realisticamente, cogliendo nomi gli animali, le piante, le 

chiamando senza scmpolocon f rasegg iato e convenzionale, che 
cose 31 Bisogna evitare «quello stde treggia g . è stabl nto 

ora mai s’introduce n f^ e °^eoperaa uno Studio, deporre il Panate 
nella poesia»-, mente ^^A^^Jerché tanti ricordi classici, tanta 
di Melpomene, scalzare ileo irLnanz i tutto bisogna servire alle 

"^fsoSta .S ™ i SS SS 
ilSoS ie a>*e — ^ * 

letterature europee. meglio si manifesta il romanticismo è fi 

roins^^storico^'suggerito^ daU’h3empio ledere un 

STa'S^o STu— tr-zo heiia lontananza he, tempr 

e dei luoghi. moTin _ hp aue lli della poesia si rinnovano 

I temi della prosa non meno che quem ^ Medioevo , trovatori e 

largamente: vengono di m°da. streghe, geni, folletti, silfi, spettri, 

SSS- ^rte nuoie, o nuove atoano per la 


sa I discorsi furono tenute neU’ Accademia di Lucca (1B35 6 1830) e xist. in Alcuni 

l'estensione del diritto pQsco tiani, Faenza 1958, p- SU. 
nel JtìS “l CoSK « « 1818 0. p. 531 Branca!. 


a Primo Ottocento 


539 


vocaboli nuovi: è messa in questione tutta la lingua letteraria tradizio- 
nale, troppo esclusivamente libresca e troppo poco popolare. 

Naturalmente, le cose non cambiano da un anno all’altro: troviamo 
ancora parole come pria nel Conciliatore, aere in una lettera del Pellico, 
appo Lei in una lettera del Manzoni: ma l’esigenza è ormai posta, e 
presto o tardi i pria, gli aere, gli appo dovranno sparire dalla prosa (e 
poi anche dai versi). 

La tendenza generale dei romantici è quella di ravvivare la lingua 
scritta raccostandola alla lingua parloata 33 . Ma poiché una lingua 
parlata generalmente diffusa non c’era, ciò volle dire per i Toscani 
attingere al loro parlato (con vocaboli e costrutti toscani comuni, o 
fiorentini, o lucchesi, o livornesi, o d’altra città che fossero); e vi fu chi 
ne usò e chi ne abusò: il Giusti, per esempio, che ai manzoniani piacque 
tanto, fu rimproverato d’aver abusato dei modi toscani, dando inizio a 
una «retorica in maniche di camicia». Invece per i non Toscani si 
aprivano due vie: o ricorrere all’italiano regionale (si pensi, per citar 
solo un esempio, al Nievo) o rifarsi anch’essi al toscano. 

Mentre i più procedevano a tentoni e volta per volta si attenevano 
con maggiore o minor coerenza all’ima o all’altra soluzione, il Manzoni 
con crescente chiarezza in sede teorica e con sempre maggior risolu- 
tezza in sede pratica si decise per il fiorentino, puntando su di esso con 
i ragionamenti e con l’esempio. Quella norma, cioè quel gusto collettivo 
che il Manzoni voleva si instaurasse, ancora non esisteva, e la scelta 
era ancora rimessa al gusto dei singoli. Sorse così in molti non Toscani 
la moda di attingere al toscano parlato; talvolta con esagerazioni e con 
errori. Il Cattaneo, in un articolo del Politecnico *, se la prendeva con 
chi «va ramingo per Toscana a far abbaiare i cani delle cascine, per 
raggranellare atomi novelli per far lingua», e biasimava il Tommaseo 
per essersi servito in Fede e Bellezza di parole come daddoli, damo, 
coso, sgargiante, giucco, tarpano. 

Anche i Fiorentini furono in genere piuttosto scettici di fronte a 
questi sforzi: nel 1835 il Capponi così si esprimeva, nella sua lezione 
alla Crusca sulla Storta della lingua italiana: «dove prima rispondeva il 
ghigno lombardo all’ eleganze di Mercatovecchio, oggi è così grande 
l’amore di quelle eleganze medesime, che veggendole o male scelte o 
male adoperate, siamo costretti a menomare lo zelo che riconduce a 
noi i non toscani...» 35 . E in più forme si parafrasava il noto detto di 
Teofrasto: 


33 «Senza il canone della favella parlata il linguaggio illustre degli scrittori 
non è più lingua viva... Gravità, gravità, ecco l’unico, l’insopportabile pregio di 
tutti gli scritti» (Tommaseo, «Nuova proposta di correzioni e di giunte al 
Dizionario italiano», in Nuovi scritti, IV, Venezia 1841, p. 108). 

34 Rist. in Scritti letterari, I, pp. U4-126. 

33 Vedi l’estratto contenuto nel Diario del Guasti (C. Guasti, Opere, III, pp. 217- 
218). 



540 Storia della lingua italiana 

lo stile 

troppo toscan lui non Toscano accusa 38 ; 

dal troppo 

toscaneggiar vegg’io che non sei Tosco 37 . 

La lotta fra istanze classicistiche e puristiche e istanze romantiche 
si protrasse a lungo, e tutta quanta la prosa, anche la piu umile e pnva 
di pretese letterarie, finì col risentire gli effetti dell una o dell altra di 
queste correnti. 

7 . Il linguaggio della poesia 

Una tradizione di quasi cinque secoli dava al linguaggio della lirica 
e dell’epopea una solidità eccezionale; e 1 classicisti continuano a 
servirsene talora con altissima maestria, conservandone le caratteri 
stiche essenziali. La grammatica mantiene alcune forme tradiTionali 
(nui sana, forai ; il lessico è ricco di vocaboli arcaici o latineggianti 
(alma, desidero, fiata, ostello-, calle, delubro, ulto «vendicato»; luna 
«mese» sole «anno», polo «cielo», ecc.l, e i poeti rivendicano il diritto di 
attingere Uberamente al latino (cfr. § 191. Al l nomi geografici moderni, 
troppo realistici, si sostituiscono quelli antichi: cosi per es. «Vidi il 
tartaro ferro e l’alemanno - strugger la speme dell ausonie spiche» 

^AdiirSscSo analogo, quello di evitare le parole troppo realistiche, 
precise, moderne, serve la perifrasi: le rane sono «le rauche di stagno 
abitatrici» (Monti, Mascher., IV); i colpi dei cannoni e dei fucili sono « il 
tuon de’ cavi - fulminanti metalli» (Monti, Bardo della Selva Nera, IV , 
«ìTmuggif degl’ignivomi tormenti» (G. C. Ceroni, La presa di Tarraga 
na), «un tonar di ferree canne» (Leopardi, Il passero solitario), la 
mitraglia è il «folgorato - intorno a te col tuono - nembo di ferro» (G. 
Scalvhii La plebe); il chiostro è per il Mamiaru «femineo cenobio» 
«penitente gineceo», «romito albergo», «devoto ostello», ecc. Spesso 
presenti sono le favole mitologiche (anziché «morire», scendere all Ère- 
bo irrompere nel Tartaro). Abbondano alcuni costrutti ignoti alla lincia 
comune (per es. l’accusativo alla greca); 1 ordine delle parole è assai 

llbe Molto rara invece è l’accettazione di termini speciali, se non in 
«generi» considerati meno nobili (per es. quando 1 Arici nell Origine 
delle fonti, IV, parla di «pecci atri» o di « baccare solinga») . Escluse 


37 Giorgi’ prefazione ai Novo Vocabolario della lingua italiana, P- iv»- 
58 Tuttavia le parole che hanno un aspetto classico possono ® sse ^®^ t Ì; 
' -Xwttà- avverte il Mamiani (Pref. alle Poesie, p. lvh) che fibrilla «fu 
Staffa Staa scientifico, poi sotto la penna del Monti divenne granoso e 

poetico». 


Il Primo Ottocento 


541 


sono anche, di regola, le parole troppo famiUari: il Leopardi si giustifica 
in una «annotazione filologica» per aver adoperato evviva, evviva nella 
canzone All’Italia-, e fu certo ardito, agfi occhi dei classicisti contempo- 
ranei, quando descrisse Aspasia che scoccava baci nelle curve labbra 
dei suoi bambini (altrove, nella canzone All'Italia, aveva adoperato 
parvoli ) 3e . 

Le scuole instillavano ai giovanetti i principii classicistici: si senta 
come il Cantù descrive gU insegnamenti del suo maestro di retorica: 

Poesia, mi diceva esso, è favella degli iddìi, e tanto miglior è, quanto più dai 
parlari del profano vulgo si sprolunga. E prima quanto alle parole, tu non dirai 
abbrucia, affligge, cava, innalza, è lecito, spada, patria, la morte, la poesia-, ma 
adugge, auge, elice, estolle, lice, brando, terra natia, fato, musa-, e così merto, 
chieggio, oceàno, imago, virtude, andaro, destriero. Dalle idee basse, che rammen- 
tano cose troppo a noi vicine abborri, fìgliuol mio. Ai nomi propr] sostituisci una 
bella circonlocuzione; non dirai amore ma il bendato arderò-, non il vino ma liquor 
di Bacco-, non il leone, l’aquila, ma la regina de’ volanti, il biondo imperator della 
foresta, e così i regni buj, 0 tempo edace, la stagione de’ fiori, il liquido cristallo, 
l'astro d'argento, la cruda parca. Vedi il Monti? non disse il gallo, ma il crìstato 
fratei di Meleagro... 40 . 

La forza della tradizione è così irresistibile, che quando i romantici 
si provano a far valere anche in poesia i loro principii fondamentali si 
trovano imbarazzati; e quando vogliono esprimere cose che si riferisco- 
no alla vita moderna, specie nei suoi aspetti più umili, urtano contro 
difficoltà gravissime: «la poesia epico-lirica - avvertiva il Berchet nella 
sua prefazione alle Fantasie - è una sciagurata che non vuole piegarsi 
a usare stile da gazzetta» 41 . 

È quasi impossibile raggiungere un impasto soddisfacente tra le 
parole di antica tradizione poetica e quelle moderne, realistiche. 
Ancora troviamo più o meno abbondanti nei poeti romantici gli 
arcaismi e i latinismi: leggiamo nel Berchet: «ei preferse i tetri abeti», 
«dal fratello ricevi un’offa,», «dalle membra è svanito un algore », «e co’ 
baci una lagrima elice»; o nel Carrer: «l’ermo ostello », «i fulminei 
cocchi », le « armille preziose»; nella novella in versi Pia de’ Tolomei di B. 
Sestini (1822) si legge che 


39 II Manzoni ha pargoli e bamboli; il Borghi bamboli; ecc. In prosa, il 
Giordani raccomanda a Caterina Franceschi Ferrucci: «Non abbia la smania di 
fare del suo bamboccio un Salomonctao prematuro» Qett. 16 gennaio 1832). Il 
Manzoni, che nella prima edizione dei Promessi Sposi (cap. XXXV) aveva scritto 
«balie con bamboli al petto», nella seconda corresse in bambini. 

40 Nel Ricoglitore italiano e straniero. III, i, p. 309 (rist. in Alessandro Manzoni, 
Milano 1882, I, p. 230). 

41 Sempre vive e luminose le pagine dedicate da Cesare de Lollis ai «conati 
realistici» dei poeti dell’Ottocento C Saggi forma poetica ); spunti felici in D. Pe trini. 
Dal barocco al decadentismo, Firenze 1957, passim, e in W. Th. Elwert, «La crisi 
nel linguaggio poetico italiano nell'Ottocento», in Anales dei Instituto de Linguisti- 
ca, TV, 1950, pp. 36-81. 


542 


Storia della lingua italiana 


sull’ingiusta lance 
fanno alle cose prevaler le ciance, 

e il p aiuolo diventa un «sospeso lebete»-, in quelli che si intitolano Canti 
per il popolo del Prati troviamo-. 

Ma chi l’ha morta? - Uno stranier soldato 
che il verginal suo velo 
tentò rapirle... 

Où leene La Fuggitiva del Grossi nella stesura originale milanese 

«esimei sw££, ss 

la strofa 29 in milanese-. 

I lacrim, el tremór, l’abbattiment 
m’ han strozzaa lì i paroll dent in la gora, 

_ tant che in quell att ho poduu di ment, 

e gh’hoo avuu temp intant de pensagh sora 
al sproposit che fava in quel moment: 
hoo veduu tutt el precipizi: allora 
m’è cascaa i man, sont dada mdree trn pass, 
e son restada lì come de sass 


e in italiano: 

I gemiti, le lagrime, il tremore 
si fer sui labbri alle parole inciampo, 
che respinte piombavanmi sul core: 
balenò intanto di ragione un lampo 
a rischiararmi il tenebroso errore 
del precipizio e m’additar lo scampo. 

Atterrite allor caddermi le braccia 
e la vergogna mi velò la faccia. 

dSSÈSSStSSiSsàsS 

ts «sax «sSsssrss 

- Si .«j la Ltter. 1« c»Hl 

SSSSE ir di. poco dal discorso comune di ossidi- Celierà 

8 gennaio 1820, in Carteggio di A. Manzoni, I, p. 457 


Il Primo Ottocento 


543 


lancia di guerra», «una selva di lance si scorse» (Rossetti), «dell’elmo di 
Scipio s’è cinta la testa» (Mameli), «dove il cimier del barbaro - 
sinistramente appar» (Prati); i «cannoni» sono, anche per il Prati, cavi 
bronzi («Noi e gli stranieri», 1846); i proiettili sparati dagli Austriaci su 
Venezia sono per il Fusinato («Addio a Venezia»), «le ignivome - palle 
roventi» (in cui ignivome è, a dir poco, improprio). E così ima carrozza a 
cavalli è per il Prati (Edmenegarda ) un «agii cocchio tratto da palafre- 
ni», la «ferrovia» è, per un poeta d’occasione del 1856, un ferreo calle, il 
«treno» è nell’inno del Mercantini un carro di fuoco, per il Nievo un 
fiammante mostro, ecc. 43 ; i fili telegrafici sono per il Regaldi (1856) ferrei 
stami, docili stami, fune elettrica. 

Ma quando, osservava il De Lollis, le cose moderne appaiono 
chiamate con i loro nomi (come quando il Prati nella lirica «Dopo la 
battaglia di Goito» parla di moschetti, di mitraglia, di barricate ), la 
giustapposizione di voci tradizionali e voci moderne urta per la sua 
discordanza. Lo stridente contrasto tra la solennità del primo verso e 
l’andante familiarità dell’ultimo nella quartina del Canto d’Igea del 
Prati 

Né men chi si periglia 
coi flutti e le tempeste 
del nostro fior si veste 
se il mar non se lo piglia 

non è difetto stilistico d’un singolo passo o d’un singolo poeta, ma 
sintomo caratteristico della crisi del linguaggio poetico in questa età. 

Fa capolino anche qualche voce burocratica latineggiante («Sei 
delatore»: Prati, «Il-delatore») e, anche più infelicemente, qualche voce 
dell’italiano regionale: il Prati nel 1855 in «Satana e le Grazie» 
scriveva: 

E gli occhi allo sferlato arco d’argento 
paralitica e scempia era Latona 44 . 

Tuttavia, nel volgere dei decenni la poesia di tono alto tende sempre 
più a lasciar cadere i vocaboli arcaizzanti (tipo aita) e, un po’ meno, 
quelli latineggiantl Dipende, certo, in primo luogo dall’individualità 
del poeta, ma anche un poco dal volger dei tempi se il Tommaseo ne ha 
in minor numero e meno spiccati che il Berchet o il Carrer. 

Nella poesia di tono minore, per es. quella satirica e giocosa, il 


43 Messeri, in Lingua nostra, XVI, 1955, p. 74. 

44 II Cherubini, Vocabolario Milanese-ital., s. v., spiega il mil. sferlà come 
«squarciare, sdruscire (sic), stracciare, strappare, sbrandellare». E il raccolto nei 
Saggi critici, Napoli 1874, p. 104, annotava: «Non ved’egli che questi due versi 
cozzano fra loro, e che l’imo è comico, l’altro dell’alta poesia? E se di suono è 
posta a’ servigi d’un arco d’argento sferlato, che sarà, quando mi parlerà d’un 
divino arco d’argento?» 


544 


Storia della lingua italiana 


contrasto è molto mano "g%&2?£2g£‘i ^2““ 
ammettere gU arcaismi e pm mclrni ad accettare pre ferisce 

che in questo «genere» a il Pananti o il 

scrivere in dialetto, temono il , ca ”*2 LlTSenS nel loro versi 

^XdehU pXo'Sno, anzi talvolta specificamente deUe 

loro città (v. § 17). 


8. Discussioni sulla lingua 

realizzare SsSH 

SS 1 »:— Cesari, la polemica monUa- 

na, la teori ?;J? anzo ^”. a4 J'. ant esienano della scuola dei puristi 48 fu 
Come abbiamo visto, 1 antesignano Con le gue edizi oni di 

Antonio C , esa ^’ t V T°e c e e S nto Pr cL hLuzioni dal latino, con operette 
testi ascetici del Trecento, c ° , riedizione della Crusca 

religiose e letterarie, ma ^Wtoco^n^nedizion^ ^ ^ 

(1806-1809) e con Le GnauMmi varsi solo tornando alla lingua 
generale inquinamento era possimi secolo d’oro: «tutti in 

dei trecentisti. L’italiano ha avuto^ah^ ^ scrivevano bene j ubri de ne 

candore, una 

^£ia di schiette mardere » , es i del salviatl, 

maMn^s^oTSsi di dame alcuna 

nella flnennesta beUezza non toma ad 

^‘ r lnc5e wTo^^Ma^^inv^si <M£ggP» 

«e elocuzioni, pensando forse che ci6 basti a 

scandahzzare i lettori di buon gusto . 


« Fra le trattazioni generali sulla questione della lingua, la più importante 
Per «' Zces^, in Ledere ital, II, 1950, 

PP ' ^Dissertazione sopra lo stato presente dUfa i lingua Ualiana, 1808, rist. in 

PP- 587-588. 


Il Primo Ottocento 


545 


Il Cesari era convinto che chi avesse studiato a fondo la lingua del 
buon secolo aveva modo di dire tutto ciò che volesse: «S’è durato gran 
tempo a vituperar questa lingua del ’300... Ora, lodato Dio, s’è alla fine 
toccato con mano la cosa essere tutto altrimenti... Ogni cosa potersi 
dire che uom voglia, e per avventura meglio» 49 . 

Egli rinunziava per amore d’ingenuità e di freschezza a quattro 
secoli di vita italiana, e biasimava il proprio tempo come un «secoletto 
miterino» (cioè degno di portare in capo per punizione la «mìtera», 
come quelli che erano condannati alla berlina). 

Non strettamente limitata al Trecento, ma pur ferma nel proposito 
di «córre il più bel fiore dalle opere degli antichi» è la dottrina del 
marchese Basilio Puoti 50 . Si sa che la sua opera di maestro fu molto più 
importante degli scritti; fra questi, più che le sue edizioni di testi, in cui 
dà prova di ben debole filologia 51 , interessano i suoi scritti di avviamen- 
to all’arte dello scrivere, le sue Regole elementari della lingua italiana 
(Napoli 1833, più volte rist.), il suo Vocabolario domestico napoleta- 
no-toscano (Napoli 1841, 2 a ed. 1852), scritto non per documentare le 
forme dialettali napoletane, ma per far conoscere ai suoi concittadini le 
voci del toscano letterario, il Vocabolario de’ francesismi e di modi 
nuovi e guasti ecc. (Napoli 1845, lettere A-E) 52 . Se nelle letture con i suoi 
scolari, egli giungeva fino aH’Alfieri e al Monti, più severo avrebbe 
voluto fosse il canone della Crusca: nella sua lettera a L. Ciampolini 
(1844) egli riteneva non si dovesse andare più oltre del sec. XVII, 
considerando che il Magalotti «è da allogare tra’ primi corruttori della 
lingua». Se mai dovessero essere inclusi dei moderni, bisognerebbe 
pensare al Leopardi 53 . 

Piuttosto numerosi furono i seguaci e gli amici del Cesari e del Puoti 
nelle varie regioni d’Italia: ricordiamo, fra quelli che più si occuparono 
di studi sulla lingua, M. Parenti, L. Fomaciari, G. Manuzzi, mons. T. 
Azzocchi, variamente operosi. 

Rispetto alla lingua, fu certo un bene l’aver rinvigorita l’opposizione 
all’ingresso illimitato di ogni barbarismo; non fu un bene l’aver rimesso 
il giudizio all’esclusivo beneplacito di un gusto letterario arcaizzante. 

Più vasto respiro porta, nella questione, Vincenzo Monti. Il suo vivo 
interesse per i problemi di lingua lo spinse a prender posizione contro 


49 Ragionamento sulla vita di Gesù Cristo, Milano 1841, p. xiii. 

60 Sul Puoti restano sempre fondamentali le testimonianze del De Sanctis 
(nella Giovinezza e nel saggio cit. su «L’ultimo dei puristi»). Vedi N. Caraffa, B. 
Puoti e la sua scuola, Girgenti 1906. 

51 11 Puoti non aveva scrupolo di sostituire ima parola con un’altra, di che lo 
rimproverava il Fomaciari; e il Bonghi ricordava come, per decidere se in un 
periodo del Serdonati si dovesse stampare potrebbono o potrebbero, leggeva più e 
più volte il periodo «procurando che l’orecchio gli deliberasse, se l’una o l’altra 
terminazione tornasse più sonora» (Prefazione a Perché la letteratura italiana non 
sia popolare in Italia, p. xv). 

52 L. Rosiello, in Lingua nostra, XIX, 1958, pp. 110-118. 

53 Epistolario, ed. Guidetti, pp. 254-264. 



546 


Storia della lingua italiana 


gli sforzi fatti dal Cesari per ridar vigore al culto più rigoroso del 
Trecento e della Crusca. Nel Poligrafo del 1813 egli cominciò a 
pubblicare anonimamente qualche articolo satirico: per esempio nel 
dialogo «Il Capro, il Frullone della Crusca e Giambattista Gelli», il 
capro viene a lagnarsi di essere stato escluso dal Vocabolario, mentre il 
suo nome era stato adoperato dall’Ariosto, dal Guarini, dal Menzini, da 
altri ancora: la Crusca ha incluso invece la meno nobile voce di becco ; 
nel dialogo «Il 31, il 36 e il 46» attacca la Crusca del Cesari per i 
vecchiumi che ha raccolti Iquaranzei e simili) e l’incompletezza delle 
esemplificazioni. 

Con più salda lena il Monti si mise all’opera lessicografica quando 
l’Istituto Lombardo, negli ultimi tempi del regime napoleonico e nei 
primi di quello austriaco, prese l’iniziativa perché si compilasse, a 
opera di dotti di tutta l’Italia, un nuovo grande Vocabolario. Il Monti, 
che preparò una elaborata relazione e la presentò all’Istituto nel 1816, 
vide che era vano sperare un accordo con la Crusca,- ciò nonostante il 
Governo volle che la proposta fosse fatta (chi si occupava della 
faccenda negli uffici milanesi era Giuseppe Bemardoni, con l’approva- 
zione del governatóre Saurau), e i direttori delle due classi dell’Istituto 
la fecero, il 6 luglio 1816. 

La Crusca rispose il 10 settembre di aver già cominciato per proprio 
conto il lavoro, e di non essere perciò «più, il tempo di convenire col R. 
Istituto e assegnare concordemente le massime preliminari, le norme e 
il metodo da tenersi» 54 . 

Non questo episodio, che può essere tutt’al più, una causa occasio- 
nale, ma tutto l’atteggiamento del Monti in questi anni spiega il tono 
dell’opera che egli verme pubblicando dal 1817 al 1824, la Proposta di 
alcune aggiunte e correzioni al Vocabolario della Crusca. 

Sono quattro volumi divisi in ben sette tomi, che comprendono, 
oltre alla parte maggiore che è del Monti, e consiste in una serie di 
postille critiche alla Crusca secondo l’ordine alfabetico delle voci, due 
trattati di Giulio Perticati (il genero del Monti), Degli scrittori del 
Trecento e de’ loro imitatori e Dell’ amor patrio di Dante 55 , e dissertazioni 
e comunicazioni di vari eruditi (G. Grassi, G. Gherardini, ecc.). 

Nelle prefazioni ai diversi volumi il Monti vien precisando il suo 
atteggiamento in favore dell’italiano illustre, e insistendo sull’hnpor- 
tanza di un «vocabolario ordinato co’ metodi della filosofia, purgato 
d’ogni lordura, suggellato dall’universale consenso della nazione» QI a 
parte: dedica a Barnaba Oriani). Del rifiuto della Crusca 


64 Cfr. N. Zingarelli, «V. Monti, l’Istituto Lombardo e la lingua italiana», in 
Rend. Ist. Lomb., LXI, 1928, pp. 591-619 (rist. anche in Scritti di varia letteratura, 
Milano 1935, pp. 496-522). 

55 L’idea comune fra il Monti e il Perticali era quella della lingua illustre : ma 
mentre il Monti difende lo scrivere colto contro lo scrivere incolto, il nobile, il 
gentile, 1’elegante contro il municipale, il plebeo, il casalingo, il Perticari sofìstica 
sui testi danteschi, risuscitando le teorie trissiniane. 


Il Primo Ottocento 


547 


“m ss d ?“ a vecch “‘ °> >iMone 

camaldolese, né potersi nemettere P ren .d er legge dall'africo dialetto 
rivi che a &d altri 

Al Monti pare di avere sufficientemente dimostrato 

nessuno gl’intende (III, u, pp . X . XI ) nacc l ue ro non hanno alcun valore P erché 
r^l Cr i tÌChe contro la Crusca (e contro fi Cesari, che rifacendo la 

^m%cA CODfìSUran ° Ìn Un ’ analisi e severa 

r A 1 ^ 1 ° nai » e s . pogli ^ autori a torto trascurati Q’Ariosto fi Rucellai 

Imr, S& SS, e „ C , 1,a2 ‘ 0nÌ ? r™ ^nsidemtZ°e'Me R aS 

zioni ^p a r| a ^ 1U r ! prese msiste perché vengano eliminate le «deprava- 
S™r H? !S^T“,V non aol ° vanno tol “ dal vocabolario “e deve 
(.reuma. I ritmntvfm na ? lon ? fistiare, flebotomia, paralelto, rema 
'* o e ™ a ) ' ntropico («idropico»), sanatore («senatore») ma eeli nreferi 

Sto d Sn e arenare a rm ° e arrmare “■ “• PP- amasse a 
; 1 a&^±^e°r^uS n S a S 

tutto SerT^r P aTa^e,”a e ‘mSànr tlen ^ 6 «* 

tro^co^Tts; ssfs&s ssx 
%2SEZ£ìZ?£i£Z? dCUa ProPOSto ' Che dà lullta ° «*• 

pu£P^ 

Fummo nemico del gusto. Perugia 1818 ) salutava con entutfasmo U 


548 


Stona della lingua italiana 


Crusca e in genere al fiorenti^mo. U ^ togcanismo e 

Va D'importanza capitale nell'annosa questione della lingua fu l'inter- 

’J: 


” £ A ""»“ « 

di cui menzioneremo solo 1 prmapali. S P de j proemio ascolia- 

Correzioni, e le pagine da, ^P^emesse un * Momigliano (in A. Manzoni, 

no. Città di Castello, LaP^-l 014 ^t. m °P er ®’^^ tte „„ ia “ tUmamente la filosofia 
ristampa della ed., Messina 1945, pp. 105435 ) tratteggia oinm £ Gabbuti 

manzoniana della lingua, quale ns ® 6) B Croce saggia il pensiero e 

Il Manzoni e gli ideologi francesi A e la questione 

l’opera manzoniana aUa lardella propria mpsMia^ ^ Manzonl: saggi e 

della togua*,m toaTop eg-sS A. Schiaffici esamina «Le origini dell’italiano 
discussioni, Ban 1930, pp. . j | rjrnVilpraa della lingua dopo G. I. Ascoli», 

letterario e la soluzione manzoniana ^P^XfmentoS^ idee manzoniane e 
in Italia dialettale V, 1929, pp. 129 7 . ^ un’edizione nazionale delle 

la cronologia degli scritti v. M. Barbi «Piano per un Reynolds, The 

Opere di A. Manzoni* m F Forti «L^ emo lavoro e la 

Linguistic Writingsof A M„ Cambridge 1950^ K , 954 pp . 352 . 385; C. 

conversione linguistica & A M^>, storia del pensiero e della cultura del 

Baglietto, «Il problema, della pi 2 « s . XXIV, 1955, pp. 1-49, 182-236-, G. 

NenS, S «^onVers 6 ioiiì n derP. Sposi*, in Rassegna lett. it, LX, 1956, pp. 53 68. 


Il Primo Ottocento 


549 


dell’Adelchi, e l’anno d’inizio del romanzo) il Manzoni manifesta la sua 
idea in versi in cui canta l’Italia 

una d’arme, di lingua, d’altare, 

di memorie, di sangue e di cor. 

e in una lettera al Fauriel (3 novembre 1821) pone l’intero problema. 
Mentre uno scrittore francese usando una certa espressione sa già 
quale effetto produrrà sul suo pubblico, perché ha «un sentiment 
presque sur de la conformità de son style à l’esprit général de sa 
langue», il fatto che in Italia non si tratti verbalmente in lingua 
nazionale di grandi questioni, e che le opere concernenti le scienze 
morali siano così poche fa sì che, se non è toscano, «il manque 
complètement à ce pauvre écrivain ce sentiment, pour ainsi dire, de 
communion avec son lecteur, cette certitude de manier un istrument 
également connu de tous les deux>. Come si fa a giudicare se scrive in 
«italiano», se questo termine è definito in modi tanto diversi? Eppure 
«dans la rigueur farouche et pédantesque de nos puristes iTy a, à mon 
avis, un sentiment général fort raisonnable; c’est le besoin d’une 
certame fixité». Se questi sono i pensieri e i sentimenti che il Manzoni 
ebbe sempre, e che egli viene rimuginando in occasione della stesura di 
Fermo e Lucia, i modi in cui egli si propone di ovviare alle difficoltà 
sono ancora molto eclettici: 

il faut penser beaucoup à ce qu’on va dire; avoir beaucoup lu les italiens dits 
classiques, et les écrivains des autres langues, les frangais surtout; avoir parlé de 
matières importantes avec ses concitoyens...; avec cela on peut acquérir une 
certame promptitude à trouver dans la langue, qu’on appelle bonne, ce qu’elle 
peut foumir à nos besoins actuels, une certame aptitude à l’étendre par 
l’analogie, et un certain tact pour tirer de la langue frangaise ce qui peut ètre 
mèlé dans la nòtre, sans choquer par ime forte dissonance... 

Ma nel lavorare al primo testo edito del romanzo (quello che 
leggiamo nell’edizione 1825-27) egli viene lentamente abbandonando 
questo criterio di mettere insieme una lingua composita e si volge 
all’uso vivo toscano, come i libri glielo possono insegnare. Nelle sue 
ricerche, egli s’accorge con lieta sorpresa che v’è una concordanza 
molto maggiore tra i modi fiorentini e quelli dei vari dialetti italiani e in 
particolare quello che a lui più importa, il milanese. La «lingua 
toscano-milanese» che egli dice di vagheggiare, in una lettera al 
Ftossari del 1825 58 , è quella che si manifesta in tali concordanze: il 
Manzoni scopre con gioia che impiparsi dell'Olanda è modo lombardo- 
toscano; se si ha in milanese matt de ligà e in toscano matto da legare, 
così bisogna dire, anche se il Cherubini traduce pazzo da catena* 0 . 


58 Carteggio, II, p. 192. 

60 II De Robertis ha mostrato (Primi studi manzoniani, Firenze 1949, pp. 84-98) 
quale importanza abbia avuto lo studio del Vocabolario milanese del Cherubini 
per le varie stesure del romanzo. 


550 


Storia della lingua italiana 



dal canonico Giuseppe Borghi-, ; do p >o averi ivoratom v del 

^ s ^iSHS"X , Sis 

rifleSS1? tn dSa SSrola o?di «dove l’Uso si fa intendere, il Vocabolario 
proposito della parola orna, «uuve i febbraio 1829) e a proposito 

SSSgSMZZSZ». “ ak e tl?a F S?7 n aTrfe S“' n °” 

mi paiono da opporsi m nessun n riflessioni si consolida nella sua idea 

tSaSsa-ssa 

egli non arriverà mai a completare-, ce ne rimangono nume u 
6 TaStóndflSbfto dopo il suo secondo matrimonio, 1837) a riscrivere 

deU La d reviSo“ 6 d™ C p^lÌ S i Sposi, su cui non possiamo qui^ut»; 

menfe Armarci, ™„di cm pwe aodbiamoda^enno^^ta 

SS 0 MaSSm” accett'ato’d’alla tradizione letteraria senza che 


Obiezioni su onesto peni. ■£>“ 

lui nel 1855: .-Ma s. Quella de’ parlanti meglio'. E 

riSSoS^SS;^' marche.!,’ 8iciùr,Qe.t.raaGinoCappom, 
15 genn. 1858; cfr. anehe Colloquu coi Martam p^ 95? cinque fasi, con 

- Il Barbi distingueCAnnaii Manzoniani,!, ^ manoscritto già 

cui si va da un capitolo mtrodu i „ ^él 1831-34), e attraverso il Sentir 

posseduto dal Giorgim te k e dal Bonghi n l 

messa (che sarebbe la fase del 1835-36) aueuue si h corrispondono allo stato 

volume IV e nel V delle Open ’.inedi te a - m parte diverse 

dell opera negli anni 1848 © se eK-, © n f a M cit e F. Forti, art. cit. 

giungono B. Reynolds, The ll ' 1 ^' l f dal 1825 . 2 7 e quella del 1840 si può fare con 

«H riscontro fra la redazione del 1825 27 equeua^^ ^ ristampa , 

“3 T?rKsf^pa So-^dmian. delle tre redazioni <F<™ e Lucia. 
1825-27; 1840). 


Il Primo Ottocento 


551 


avessero riscontro nell’uso parlato fiorentino: parole e modi arcaici (o 
almeno stantii) o dialettali 

In numerosissimi altri casi il Manzoni sostituì parole e locuzioni che 
potremmo dire di tono letterario con altre di tono familiare: accidioso - 
uggioso ; adesso - ora-, ambedue, ambo, entrambi - tutt’e due-, confabulare, 
chiacchierare-, ecc. 

Molte volte si tratta delle varianti fonetiche fiorentine sostituite a 
varianti letterarie: dimandare - domandare-, imagine - immagine-, lione - 
leone-, obbedire - ubbidire-, publico - pubblico-, sofferire - soffrire -, ecc. (ma 
egli sostituisce, anche, si osservi, angiolo con angelo, limosina con 
elemosina ). 

Il Manzoni accetta inoltre la pronunzia toscana o per gran parte dei 
vocaboli con uo; sostituisce gli imperfetti di prima persona in -a con gli 
imperfetti in -o. Il pronome egli è spesso abolito o sostituito con lui: 
tuttavia in tutto il romanzo egli è ancora adoperato 61 volte (in 18 delle 
quali si riferisce a Dio). 

Il mutamento non è solo di stile, ma vuol essere anche di lingua: non 
soltanto cioè il Manzoni sceglie, tra due varianti ugualmente possibili e 
di tono diverso, quelle più conformi al toscano familiare, ma si propone 
anche un fine paradigmatico, e cioè vorrebbe che le forme più stantie 
venissero colpite d’ostracismo. Insomma egli non si contenta di 
rimanere nell’àmbito della lingua quale essa è, ma vorrebbe mutarla o 
almeno contribuire a mutarla nel suo sistema, riformarla quale 
istituzione sociale. 

Fortunatamente le esigenze artistiche hanno quasi sempre il so- 
pravvento sulle esigenze dottrinarie. Per esempio il Manzoni trova un 
po’ letterario natio, e alcune volte lo sostituisce con nativo-, ma nel 
famoso passo: «Addio, casa natia, dove, sedendo, con un pensiero 
occulto, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi cornimi il rumore 
d’un passo aspettato...» (cap. Vili), introdusse addirittura natio, mentre 
nella prima stesura aveva scritto natale. 

Le intenzioni che egli si proponeva nella revisione (anche se 
involontariamente un po’ travisate per il maturarsi delle concezioni 
manzoniane attraverso i decenni) e l’accoglienza fatta al testo riveduto 
(in particolare l’aneddoto della lettura comparativa di un passo nelle 
due edizioni, fatta dal Giusto furono narrati con grande brio dal 
Manzoni al marchese Casanova nella lettera del 30 marzo 1871. 

Non sempre il Manzoni riuscì a adeguarsi all’uso fiorentino del 1830- 
40 in modo perfetto o con sufficiente approssimazione: dubbi furono 
elevati già allora, e altri più severi sono stati presentati più tardi 84 . Né 
sempre questa adeguazione fu artisticamente felice (cfr. pp. 583-584). Ma 
il romanzo raggiunse ugualmente lo scopo che il Manzoni si proponeva: 
di raccostare lo scritto al parlato, di dare un colpo mortale ai fronzoli 
retorici che per secoli avevano aduggiato la letteratura italiana. 


E. Bianchi, In Annali manzon.. Ili, 1942, pp. 281-312. 


552 


Storia della lingua italiana 


Il trattato sulla lingua a cui il Manzoni lavorò per tanto tempo 
senza giungere a compierlo, per un certo gusto nel soffermarsi sui 
sempre nuovi dubbi che la meditazione gli presentava, doveva consta- 
re anzitutto di un primo libro, di carattere filosofico, sulla natura delle 
lingue. Un secondo libro doveva esaminare le varie soluzioni proposte 
per la questione della lingua (ci rimane il frammento in cui il Manzoni 
esamina «D sistema del padre Cesari», oltre alla precisa formulazione 
pubblica del proprio sistema, di cui ora diremo). Infine il terzo libro 
doveva trattare del modo di diffondere quella forma di lingua che egli 
riconosceva come veramente tale (e anche di questa parte ci rendiamo 
conto abbastanza bene attraverso alcuni scritti pubblicati). 

Nella parte filosofica, fondata sulla lettura e sulla meditazione di 
grammatici e pensatori dei più vari indirizzi, ma specialmente dei 
sensisti e degli ideologi francesi, il Manzoni toma spesso su alcune idee 
fondamentali: bisogna studiare che cos’è la lingua in generale, e non 
esclusivamente la bella lingua; ciascuna lingua costituisce un tutto; 
l’Uso è signore delle lingue, e unico signore, ché qualsiasi altro criterio 
(analogia, ecc.) deve cedere di fronte a esso. 

Mentre il Manzoni andava saggiando con minuzia e circospezione i 
principii generali di filosofia della lingua, precisava sempre meglio le 
proprie idee sulla lingua italiana. Dopo varie occasioni di esporre il suo 
sistema, occasioni che gli si presentarono un momento e che per la sua 
incontentabilità lasciò cadere, si decise nel 1846 (mentre durava la 
stampa delle Opere varie cominciata nel 1845) a esporre compendiosa- 
mente il suo parere sulla questione della lingua, a proposito della 
pubblicazione della prima parte del Prontuario... per saggio di un 
Vocabolario metodico della lingua italiana di Giacinto Carena 85 . Qui 
per la prima volta il Manzoni afferma in pubblico di professare «quella 
scomunicata, derisa, compatita opinione, che la lingua italiana è in 
Firenze, come la lingua latina era in Roma, come la francese è in 
Parigi», e perciò ritiene che il beneficio che il Carena ha fatto agli 
studiosi col suo Prontuario sarebbe stato ancora maggiore se egli 
avesse lasciato da parte quelle locuzioni «che non sono dell’uso vivente 
di Firenze». «Ciò che costituisce ima lingua, non è l’appartenere a 
un’estensione maggiore o minore di paese, ma l’essere una quantità di 
vocaboli adeguata agli usi di ima società effettivamente vera». L’errore 
in cui comunemente si cade è quello di «associare al nome di lingua 
non l’idea universale e perpetua d’un istrumento sociale, ma un 
concetto indeterminato e confuso d’un non so che letterario». D’altron- 
de, il fatto stesso che si disputi da tanto tempo sulla lingua è una prova 
«che gritaliani non possedano in effetto una lingua comune». Per 
arrivarci, c’è chi consiglia di ricorrere anzitutto al «dialetto» di Firenze, 
e poi a quelli delle altre città. Ma «quando si tratta di sostituire l’unità 
alla molteplicità, se uno dice: questo sia il primo, la logica aggiunge: e 


95 n testo fu spedito dal Manzoni al Carena il 20 febbraio 1847. 


Il Primo Ottocento 


553 


differenti 

che il comensodiventi possess^effe^Hw^f 1161 ^ f ? r ? larsl - E bisognerà 
-l’Italia; e non solo nella 6 com .P leto m tutta quanta 

lingua scritta non è che un vero abuso dfn^iì Cri b ta ’ ° hé * la form °la 

^cie°tà C effeifiva n Tco^Sua ?a c^t’ ’ • liuwpSSTtaS 

è cheX«?o a rtÌrrv r a e ri o 

quanSo iS ^ n ° n è ricchezza - ma miseria: 

zioni, «cosa ci giova d’S^wS^w® P °T° quattro altre denomina- 
crocicchio, e cf Slce pZ d ™e per " d “ 

a dare all’Italia ^un* voc abolario^deU* si ^ sserouna buona volta decisi 
usata, simile a quello delTAerademin r bngua da loro effettivamente 
nosce che le condizioni dell’Italia nrm f J ancese! Certo, il Manzoni rico- 

non è detto che SiSa- ’ “S,? 116 d S la *““*>• 6 che 

quello che la Francia ha consSSto P cÓnT»ao^i 4 !l d ' a ‘““ artifiziall. 

Il solo mezzo d'accosta™ nio^l • 1 u *° deUe circostanze. «Ma è 

“TC* de ‘ so,c -.diese d Franiti,! ac^eS’er fd !!aì£etel reSUl * a,0 ' In 

meditatì?tì ffloiSh^e l^iJS 41921 H n n de , flnitÌTa delIa sua ,eorIa! ,e 

cono non a mm deiWzÌne?2 S "? teoria Pienti lo condu- 
politico-civile: egli mir a a consetmi^ ni r sto ì? ca ’ a un programma 
* fflEE per la via ohc eU s Snbra la Sù tosta? “Valida, e cerca 

n °" 4U “ -ovimento che- 
maggiore o minore hnpegno E a lavorare" ridiSendn conllnuò °° n 
obiezioni che gh si Dresentn niifi’ discutendo le sempre nuove 

(«la mia opera eterna intendi hen’o a s ^? sura del suo libro sulla lingua 
del io dicembre 1856). Nel 1855 di ante*-, lettera a G. B. Giorgini 

col Tommaseo il quale ce ne Se a ^n®. 0 di problemi linguistici 

Manzoni, ed. T. Lodi Firenze lsag^NH^ ^imoriiaxiza, (Colloquii col 
incontri con V ’anficcT Gh£ CannoS lì®? appr ? fittò di due brevi 
voci di saggio di quel vocabolario deiVne ste / lder ®. co1 suo aiuto alcune 
di vocabolario italiano secondo l’uso rii F? r Che X^®beggiava ( Saggio 
1957). Ma solo negli anni deeicbH “f f 1 Firenze > ed - G. Macchia, Firenze 
il Manzoni scese in lizza ner difendpro C ° mP wK?- nt ° dell’unità nazionale 
XII, § 8). Moltissimi altri m pubbhco la sua teoria (v. cap. 

queste dispute sulla norma linguislica^m^ 1 ^! S à’ parteci P aron o a 

principali correnti di ide™ gmStlCa; ma basterà aver indicato le 
9. Grammatici e lessicografi 

della grammatìca^lo^ca^ràgionafri 11 eh 6 rif 1 la dlsputa tra 1 fautori 

logica e postiderebbe^ahnemftecnicamente^ta prioriti?deUa^ragiane 


554 


Storia della lingua italiana 


sull’uso, e quelli che invece la oppugnano, principale fra tutti il De 
Sanctis 68 . minimum s’intitola «filosofica» o 

.raS?nita“JS?’sTri&nmogtt o SrtdSto 

secondariamente sull uso. S am b e rti ripubblicava con aggiunte 

Rio ’ pure 00,1 

aggiunte, la grammatica del^CorticeUi dl u '®““ secoU e tutt altro che 

«SbS£ Se pSS 

''^SThS «S^SaUohé che deliberatamente peneino a 
^ eS parecchi TajScl rSnMUono a n d ^^ r ° u ^f p Trlctà 

st. "“d s ^rs, c cXut;rfui 

premesse mologiche si fonda de j nomi della lingua italiana, 

Mpnsietto generale di ludi i verbi anomali e 

di/ 1 ? tt V ‘h>SSa Z |eSlvl.à dei ga— ci é^Ua 

Cesari nel ^“"'JiSic'a'veroriese .) inserendo nella 4- edizione 

chS.'ao.WO giunte, sue e di 8 “4TOa ? S^è,^Stiira 

me BStabm?a?itórad^madeUaCruscat»n^OTa^autonomia^nenmi, 

essa nconunciò nel 1813 1 ^ vo ^P vinrpnzo Monti la cui Proposta si 
«Snt e “ 0 Vopma dell'Accademia e quella del suo 

e u 3 . 

di Padova (o «della Minerva», a cur u U ^ Napo ii ( Vocabolario 
1827-30), e più importante di tutti, queuo cu iNapu 


« V. i capitoli XV e XVI della «^fppdfl^ “ ^ 

Sanctis grammatico, v. Sgroi, J^teUte ente come L. Fomaciari, può portare la 

» «soverchio rigore de, 

grammatici» nel condannare cosa interrogativo. 


Il Primo Ottocento 


555 


universale italiano, a cura della Società tipografica Tramater e C., 
Napoli 1829-40), successivamente ripubblicato con parecchie giunte a 
Mantova, 1845-56. Pur facendo conoscere immediatamente ai consulta- 
tori quali sono le voci di Crusca e quali no, il Tramater accoglie 
moltissime voci nuove: parecchie provenienti da spogli di carattere 
letterario, molte altre da repertori scientifici e tecnici. 

Come un rifacimento della Crusca, migliorato nei particolari ma 
essenzialmente ligio ai canoni tradizionali, si presenta il Vocabolario 
della lingua italiana di G. Manuzzì, cui il Leopardi fornì un certo 
numero di schede (l a ed., Firenze 1833-42; notevolmente migliorata è la 
2 a edizione, 1859-67). 

La quinta edizione ufficiale della Crusca cominciò a uscire nel 1843 e 
fino al 1852 ne uscirono sette fascicoli, suscitando critiche severe 98 . Il 
Puoti biasimava l’eccessiva larghezza del canone (v. p. 545), il Gherardi- 
ni si lagnava che fossero state plagiate le sue Voci e maniere di dire, 
ecc. L’Accademia infine decise di sospendere la pubblicazione dell’ope- 
ra per ricominciarla dopo un’ulteriore preparazione. 

L’attivissimo Gherardini, che abbiamo ricordato più su come gram- 
matico, aveva cominciato la sua opera di lessicografo già nel 1812, 
pubblicando anonima a Milano ima raccolta di Voci italiane ammissi- 
bili benché proscritte dall’Elenco del sig. Bemardoni; a lui si devono 
vasti e buoni spogli di scrittori, i cui risultati sono consegnati a due 
raccolte: Voci e maniere di dire additate ai futuri vocabolaristi, Milano 
1838-40 e Supplimento ai vocabolari italiani, Milano 1852-57. La Lessigra- 
fia italiana (Milano 1843; 2 a ed. Milano 1849) è rivolta invece a 
propugnare le sue teorie ortografiche. 

Un genere di repertori lessicografici che fiorisce particolarmente in 
questo periodo è quello degli elenchi di barbarismi. Già l’Alberti aveva 
promesso, ma poi non compiè, un elenco di «modi antiquati e abusivi». 
G. Bemardoni raccolse, per incitamento del Vaccari, ministro dell’In- 
terno del Regno Italico, un Elenco di alcune parole oggidì frequentemen- 
te in uso, Milano 1812. Si tratta specialmente di voci amministrative e 
legali di conio più o meno barbaro: per alcune poche il Bemardoni 
proponeva una sanatoria, per molte altre suggeriva altre voci in 
sostituzione. Egli si rendeva conto (e molto più insistè sull’argomento il 
Gherardini, nel volumetto del 1812 ora citato) che per quanto uno voglia 
essere purista, non può proscrivere una parola adoperata in una legge 
o in un codice. 

Altri repertori di questo genere, più o meno severi, più o meno 
assennati, sono i seguenti: A. Lissoni, Ajuto allo scrivere purgato, 
Milano 183 1 89 ; L. Molossi, Nuovo elenco di voci e maniere di dire 


08 G. Volpi, «Il primo tentativo della quinta edizione della Crusca», in 
Rassegna nazionale, 2 a s., XL, 1923, pp. 242-250. 

99 Con uno strascico di polemiche: [Anonimo, prob. G. Gherardini], Aiuto 
contro l'aiuto del signor Lissoni, Como 1831; Risposta al libercolo « Aiuto contro 


556 


Stona della lingua italiana 


biasimate. Panna 1839-41; M- 

K SS 

S-— "«SI di pretesi ftancesHm, Firenze 

1858 Alcuni repertori mirano » a jSVSSffn 

Frasologia, del Ijssom, che ebbe NaDole t a ni (NapoU 1841) e quello 
Vocabolario domestico del .P^°^P e 2 ? ed Roma 1846), le Bellezze di 
deff Azzecchi per ! Romani ^ 0 ^ 1858). 

modi comici e familiari di o. G- g . -Rarhaelia Venezia 

Si hanno anche “^ o °£ a l8 50 F. Zanotto, Venezia 1852- 
1845, incompleto; G. Ramoeui, c carena ( Vocabolario 

55) ma specialmente ^^\l^^rS Zodico d’arti e 
domestico, Tonno 1846, 2 rt ’_ fu pubblicata postuma, Tonno 

SST--S SSMS^ Sffih. d/Manzoni ,v. pp. 
552-553). t vn ifo « Firenze nel 1830-32 il suo 

“foTrl°sut e aSTanch'è 

poi fu più volte ritoccato dall autore. ^ tradotti dal francese 

Si hanno ancora parecchi voca ,? compilati da ItaUani, 

e qualcuno dall .inglese; Xeno alciL? dei più importanti: G. B. Ca- 
fra cui vanno ncordati almeno alcuni uei y ^ 1822 . s . strafico, 

gioni Tozzetti, Dizionario botanico italiano, Firenze iwn, a 

renze 1825. . rRrmnvilla Milano 1819-21-, Marchi, 

Anche 1 vocabolari di gr^Km (Bona^a Muan scientiflcl . 

Milano 1828-40 «SS rimangono fra 1 

I numerosi vocabolari dwtottaù. lira wi^ic fl Milano 

migliori che tuttora abbiamo, co . vpnez s ano Venezia 1829, 2 a ed. 

1814, 2 a ed. Milano 1839-56, ù Boeno pe ^ parano al duplice 

Icopo S doCTimentare le voci SS et fornire le voci corrisponden- 
ti italiane a chi non le abbia presenti. 


Potuta.. Milano 1831; Orioni intorno od un liba indWo.o -Aiuto aito 
scrìvere purgato », Milano 1832. 


tl Primo Ottocento 


557 


10. Rapporti con altre lingue 

L’influenza del francese sull’italiano, potentissima nel Settecento, 
diventa strabocchevole durante l’età napoleonica, perché all’influenza 
culturale s’aggiungono gli effetti dell’occupazione militare, dell’annes- 
sione alla Francia di un buon terzo d’Italia, diviso in dipartimenti; e 
della supremazia esercitata dalla Francia nel Regno Italico e nel 
Regno di Napoli. Così, ad esempio, l’atto di nascita di Verdi è rogato in 
francese nel 1813 a «Busseto, département du Taro». Con decreti del 
1809 in Toscana e a Roma l’uso dell’italiano era espressamente 
equiparato a quello del francese. Il territorio in cui il francese si 
adoperava più largamente era il Piemonte 70 : non solo sotto l’occupazio- 
ne francese, quando il Denina addirittura proponeva di adoperare il 
francese come lingua culturale generale 71 , ma anche poi, quando la 
Restaurazione ristabilì lo stato bilingue a cavaliere delle Alpi, la 
Savoia fece di nuovo sentire tutto il suo peso, fino al 1860. Si senta 
come trovava le cose a Torino nel 1831 il De Laugier: 

Sulla porta d’ingresso in Torino, e nella via che le succede, attonito leggo: 
Porta d’Italia! Via per l’Italia!! Appena sceso nella locanda, chiedo spiegazione 
del rebus. Mi viene risposto: Est-ce que vous ignorez, ètre en Piémont, et non plus en 
Italie!! Nei caffè, passeggiando per la città, non odo che parlar francese, o il 
vernacolo del paese! Aveva dei conti da regolare col libraio Pomba, per varie 
copie inviategli dei Fasti e vicende degli Italiani. Ei me li mostra tali e quali, 
suggerendomi riprenderle, impossibile esitare: ‘Qui, egli dice, non si legge né si 
scrive che in francese, cominciando dal re e dai ministri. Anche la truppa è 
comandata in francese’... 72 . 

Vicende che portano a vivere più o meno a lungo in Francia, 
desiderio d’una più vasta circolazione internazionale inducono alcuni 
dotti italiani a scrivere qualche opera in francese piuttosto che in 
italiano: specialmente scritti di scienza, ma anche opere storiche, 
antiquarie ecc. 73 . 

Di parecchi scrittori fu detto che sapevano meglio il francese che 


70 Si ricordi il fatto che ci racconta -C. Lucchesini {Della illustrazione delle 
lingue antiche e moderne, 2* ed., cit., II, p. 252): «Tornando di Francia nel mese di 
maggio del 1799 visitai il vecchio signor marchese di Barai in Torino. Parlando a 
un italiano credei dovergli parlare italiano, ma egli, dopo poche parole reciproca- 
mente dette mi pregò di usare il francese, dicendo, che poca pratica aveva della 
lingua italiana». 

71 C. Denina, Dell'uso della lingua francese.- discorso informa di lettera diretto 
ad un letterato piemontese, Berlino 1803; e di nuovo in una lettera indirizzata nel 
1809 «au citoyen préfet du département du Po». 

77 Concisi ricordi di un soldato napoleonico, rist. Ciampini, Torino 1942, p. 113. 

73 II Leopardi in una lettera dell’8 agosto 1817, biasimava E. Q. Visconti 
d’ essersi «scordato dell’Italia... avendone abbandonato non solo la terra ma la 
lingua», e diceva che se mai «queste cose che hanno a essere Europee» vanno 
scritte in latino. Similmente si lamentava nel 1829 il Guerrazzi di Guglielmo Libri. 


558 


Storia della lingua italiana 


l’italiano 74 -, e il «saper meglio» qualche volta può voler dire semplice- 
mente sapersi servire del francese con quella sicurezza che è facile 
conseguire data la sua stabilità, e invece esitare di fronte alle molte 
incertezze dell’uso italiano 75 . 

La conoscenza del francese che avevano tutti gli Italiani colti spie- 
ga l’abbondanza dei francesismi (v. § 20): numerosi nelle traduzioni, 
repressi per motivi puristici nella letteratura più sostenuta e control- 
lata, abbondanti negli scritti confidenziali (appunti personali, lettere). 

Abbiamo già accennato alle conseguenze linguistiche dell’annessio- 
ne di Nizza alla Francia (1860); dal 1860 diminuisce anche quel po’ 
d’influenza italiana che Torino capitale esercitava sulla Savoia. Quan- 
to alla Corsica, le funzioni dell’italiano come lingua culturale regredi- 
scono di generazione in generazione: ma ancora in questo periodo i 
libri stampati in Corsica in italiano sono in lieve maggioranza 7 *, e la 
predicazione si fa ancora per lo più in italiano. 

Senza confronto più scarsa che la conoscenza del francese è quella 
del tedesco, malgrado la presenza in Italia del dominio austriaco. Non 
mancano tuttavia le traduzioni, letterarie e non letterarie, dal tedesco, 
come pure quelle dall’inglese. Un filone di anglofilia (e una qualche 
conoscenza dell’inglese) è dovuto all’ammirazione per le istituzioni 
britanniche. 

La conoscenza del latino continua ad essere larghissima fra le 
persone colte; minore, ma pur notevole, quella del greco. E si hanno in 
questo periodo numerose e importanti traduzioni, naturalmente ad 
opera di classicisti 77 . 

Quanto alla conoscenza che fuori d’Italia si ebbe della lingua e 
della cultura italiana, essa non è vasta.- ai più non importa addentrarsi 
nella letteratura e nella vita italiana, ma parecchi vogliono conoscere 
quel tanto d’italiano che serve per il canto. Eppure non mancarono i 
contatti attraverso i molti viaggiatori venuti in Italia da vari paesi 
d’Europa, e attraverso l’opera dei nostri esuli in Svizzera, in Francia, 
nel Belgio, in Inghilterra. 

Sulle coste orientali dell’Adriatico la posizione dell’italiano è ancora 
discreta: la Dalmazia dà alla cultura italiana uomini come il Tomma- 
seo e il Paravia, le isole Ionie come il Foscolo e il Mustoxidi. Ma 
raffermarsi della lingua e della cultura «illirica», cioè serbo-croata, e il 
risorgimento della Grecia sminuiscono la funzione dell’italiano come 
lingua culturale 78 . 


74 Per es. del Pellico (Ravelli, Giom. star. lett. ital., CXV, 1940, p. 45). 

75 È un punto su cui il Manzoni ha molto insistito: basti ricordare la lettera al 
Fauriel del 1821 (cit. a pp. 609-610). 

70 V. l’elenco di scrittori corsi del sec. XIX dato da P. Arrighi nel volume 
Visages de la Corse, Parigi 1951, pp. 130-132. Sulla tomba di Salvatore Viale, il poeta 
della Dionomachia, sono inscritte le parole: La Corsica al suo poeta. 

77 Mazzoni, L'Ottocento, 2* ed., pp. 402-420. 

78 Sulla progressiva decadenza dell’italiano nelle Isole Ionie sotto l’ammini- 


II Primo Ottocento 


559 


H 0 ,-^o lta i’ OCCUpata dagIi In « lesi n el 1800 e non più restituita all’ordine 
dei Cavalieri, mantiene l’uso culturale dell'italiano 6 

6 co ® te dal Mediterraneo, specialmente orientale l’italiano è 
XS2. “«-> la forma sempSfcS a 

' • ne f, u ¥> scritto come lingua diplomatica”. 

, f^ooctu Romeni, nella fase di crescenza e di occidentalizzazione in 
S*" trovava, si volgono alMtaliano per trameTSS 
ima ì pat Maior, scrittore della scuola transilvana conduce 

una sua traduzione da Fénelon Untimplàrile lui Telemah Buda 1818) 
sul testo francese, su una versione italiana che ghoS 
dei vocaboli piu facilmente assimilabili {faretra, isola incuda «inmrH 
de^lfr’ Str> ì purtà ’ ecc)8 ’ Ion Heliade RMule^mjtózi^la corrente 
fusero SSl'r5? a *, da " a Premessa che Italia^ era“en! 
S-atteri HrS Sf deUa medesima lingua; propose di abbandonare i 
ShnndA una grafia molto aderente all’italiano e 

Sm ^ £c^ a “ snu ne ‘ SUOi SCrttti contagia, 'tn 

li. Oscillazioni nell’uso 

Sa c ^ e ' quando è P iù vivo e intenso il ricambio linguistico sì 
effettua uno spontaneo processo di selezione che porta all’eliminazióne 
ridu2 ?°?? tra più ferme o vocaboli equivale™ 

Nell età di cui ci stiamo occupando questo processo agisce assai 
HifìVzrz* dl qaaato ci si potrebbe aspettare. Anzitutto, la sempre forte 
differenza tra. la lingua della prosa e quella della poesia e il desiderio di 
molti poeti e di qualche prosatore di valersi di varianti più o meno 

a mante ner vivi numerosiTppSS 

Poi da un lato ì fautori dell’italiano antico ravvivano forme e 
2 che altrimenti sarebbero scomparsi; ài STX i Sori 
uso vivo tendono a mettere in circolazione voci e forme regionali. 


?T rpiù *?Po . l’annessione alla Grecia, v. M. 
Vili, 1947, pp. 44 - 50 . ” Che della lingua italiana a Corfù», in Lingua nostra, 

nuov ? star buono, non cercare me né buono né male ingoili. 

U 1835) ' a Pr ° POSlto deUe me “orie dell’inglese A. W. Kinglake, che viaggiò verso 
co Gi?7toSnf^ a S de ^ U’itahano in Egitto nel primo Ottocento, v. A. Sammar- 

hi fAusttìa’e ff ifS 4£T2?MSSS S.'S’SlJ 

P- p. nomine. Contribuiti la istoria hmbn rom., Bucarest 1956 , pp. se 60 . 



500 


Stona della lingua italiana 



Inoltre, come sempre, i neologismi e i forestierismi di recente accatto 
appaiono spesso in forme divergenti; e occorre tempo perché una 

tn °In\uttì i paragrafi seguenti - sia trattando dei fenomeni ^ammatr- 
cali, sia di quelli lessicali - avremo agio di renderci conto di questa 
scarsa compattezza dell’uso. 


12. Grafia 

Nell’alfabeto tradizionale è incerto l’uso di j, sia, aJTiniziale e ali in- 
terno della parola per esprimere l’i semiconsonantico , sia alla finale, 
come compendio di iù forse quelli che 1 adoperano specialmente alla 
finale, predominano di poco sugli altri. Il Leopardi, che negli scritti 
giovanili adoperava /, più tardi l’abbandona risolutamente (nelle ìstru- 
fioni al Brighenti, lett. 5 die. 1823, per la stampa delle canzoni Prescrive: 
«Non si usino / lunghi né minuscoli né maiuscoli, in nessim luogo né 
dell’italiano né de’ passi latini»!, tuttavia quando 1 editore Stella gli 
domanda un articolo «per bandire... dalle buone scritture quel barbaro 
/», risponde che egli condanna «quella lettera come inutile, che 
veramente non le manca l’autorità e 1 antichità» Qett. 9 febbr. 1827). 

Il Manzoni oscillò molto nell’uso dell’/: nelle stampe giovanili 
troviamo il segno, mentre in quelle più tarde esso non appare piu; ma 
nei manoscritti autografi esso persiste anche m anni assai tardi . 
Avversi alla j si dichiarano il Puoti, il Gioberti, il Carena, favorevoli 

Peyron e il Lambruschini. „ 

Nell’uso delle doppie vediamo assai forti oscillazioni: e non solo 
auelle dovute a ossequio puristico per la Crusca ( appostolo , pannello, 
Droccurare ecc.) o quelle dovute a raccostamenti all’ètimo, per principa- 
le impulso’del Gherardini 1 Academia , catolico, publico, ecc., e viceversa 
commune, millione, ecc.): molti settentrionah a cui la pronunzia natia 
non permette di distinguer bene le scempie dalle doppie, specialmente 
negli scritti confidenziali si lasciano andare a frequenti scambi: nelle 
lettere del Foscolo troviamo cattano, creppare, dmggere Placcato, 
tacciato e un soqquadro corretto in soquadro, nel 
schiffoso piacciuto, griggi, nel Prati tranguggiare e fantasticagini, nel 
Rajberti 'zuf folate, ecc. Ma il Leopardi, che scrive carciofo avrà anche 
pronunziato così-, e certo con -gg- pronunziava il Puoti che scrive, nelle 

^CdaKnóhe i&^fiSppiamanti di scrittori settennali 
nelle parole composte: anzicché, sempreppiù ( Conciliatore ), dippiu 
(Bor sieri); anche al Foscolo e al Manzoni capita di scrivere stassera. 


* Eccezionale è l’uso di ij all’interno di parola per evitare due i consecutivi: 
d oesiina (Pananti, Il Poeta di teatro , III, st. 6 dell ed. 1824). 

J f. Ghisalberti, in Annali manz., IV, 1943, p. 215-, A Manzoni, Poesie nfiutate, 

ed. Sanesi, pp. l-u. 


Il Primo Ottocento 


501 


Invece il Gherardini e i gherardiniani scrivono adirittura, dacapo, ecc. 
Il Muzzi, nelle sue iscrizioni, adopera aqqua, naqqui. 

Altra fonte d’oscillazione è la grafia delle palatali: spregievole 
(Borsieri), scìegliete (Rosmini), camice (plur. di camiciài (Cantò), villag- 
gietto CNievo), ecc. Il Foscolo scrive, in una lettera, oglio per olio. 

Nelle parole straniere non adattate si applica come si può la 
pronunzia delle rispettive lingue. E quando si scriveva guigliottina e 
daguerrotipo è da presumere che si leggesse (come più tardi si scrisse) 
ghigliottina e daghenotipo. 

Non v’è regola certa per l’assimilazione delle enclitiche dopo le 
forme verbali troncate: il Monti e il Leopardi scrivono sovvienimi, il 
Guerrazzi gittarommi, mentre altri preferiscono tienmi, ecc. 

Palco scenico si scrive ancora in due parole (Pellico, Condì., 25 luglio 
1819), e così Terrò Santa o Terra-Santa (Grossi); il Guadagnoli e il Giusti 
scrivono pian-forte-, nello stesso passo della traduzione della Geografìa 
universale di Malte-Brun (1815) si parla di alti piani e di altipiani- nel 
1851 il Regno di Sardegna emette il primo franco bollo, mentre la 
Toscana emette un francobollo. Il trattino nelle parole composte del 
tipo italo-greco e simili acquista voga secondo l’esempio francese 85 . 

Permane la tradizionale scarsità di accenti tonici. Una nuova 
funzione è attribuita al circonflesso, quella di indicare le contrazioni 
(tórre) o le credute contrazioni ( andar per andarono), con lo scopo, per 
lo più, di evitare possibili omonimie 86 . 

Nei testi poetici si indica sempre più spesso la dieresi vocalica: 
alcuni si servono, come in francese, dei due punti, mentre altri 
preferiscono un accento (di solito acuto): «La cascata parer di Niagara» 
(Pananti, Il poeta di teatro, XXXIX, st. 27 nell’ed. 1824) 87 . 

Nell’uso delle maiuscole, danno luogo a oscillazioni particolarmen- 
te quelle a scopo onorario: il Manzoni giovane scriveva re, imperatore e 
papa con la minuscola, facendo indispettire il p. Soave 88 , mentre il 
Cesari sosteneva: «io fo sempre Re, e non re-, e credo meglio fatto» 
Getterà 15 febbraio 1815). 


85 Ma è combattuto dal Gioberti {Pensieri e giudizi a cura di" F. Ugolini, 
Firenze 1859, p. 175). 

89 «Esempj pel nuovo segno circonflesso o doppio acuto aggiunto moderna- 
mente nella poesia italiana: Fuggir l’oro e i palagi ogni misura» (G. Donini, 
Sillabario italiano teorico-pratico, Perugia 1831, p. 236). 

87 «a stuolo a stuolo balzano fuori con petulanza apostrofi, accenti e dieresi o 
treme, come odo alcuni appellarle... Non in ima maniera oggi si avvisa il Lettore 
che due vocali unite non vanno pronunziate in un fiato: chi usa la Dieresi, cioè 
due punti in capo alla prima vocale, chi l’accento...» G. Casarotti, Sopra la natura 
e l’uso dei dittongi italiani, Padova 1813, p. 123, che ritiene inutile l’espediente, 
fidando sull’intelligenza dei lettori). Vedi Ca mini , in Lingua nostra, XIX, 1958, pp. 
24-26. 

88 Cantù, A. Manzoni, cit., I, p. 19. Sull’uso delle maiuscole nelle poesie 
giovanili, v. Ghisalberti, Annali manz., IV, 1943, pp. 203-206; nei Promessi Sposi, v 
Barbi, La nuova filologia, pp. 222-223. 


562 Storia della lingua italiana 


Quanto all’interpunzione vi sono alcuni che vi badano assai poco, 
mentre altri vi stanno molto attenti: il Leopardi, conscio «che spesse 
volte una sola virgola ben messa dà luce a tutto il periodo > Getterà al 
Giordani 12 maggio 1820), era «sofistichissimo» al riguardo Qettera a P. 
Brighenti, 5 dicembre 1823), e anzi si proponeva di scrivere un 
Trattatello della punteggiatura *». Spesso, nei testi quali li leggiamo 
l’interpunzione è stata regolarizzata dagli editori 90 . 

Nessuna eco ebbero le proposte di riforma del sistema ortografico, 
come quella di un N. N., Proposta per la rettificazione dell'alfabeto ad 
uso della lingua italiana, Milano 1830, che voleva introdurre k e y, 
segnare con un uncino sottoposto la i e la u semivocale o semiconso- 
nante, distinguere la z forte con un accento grave, indicare la se 
palatale con ima lineetta sopra la c, la gl palatale con due punti sopra 
la g, la gn con un punto sopra 1 la g. Il Lambruschim avrebbe visto 
volentieri l’introduzione del fe nell’alfabeto. , . 

Senza proporsi di riformare il sistema ortografico, il Gherardiiu, 
come abbiamo visto, si propose invece di ritoccare la scrizione di 
n um erosissime parole singole, ricorrendo all’etimologia e all’analogia. 
Egli sviluppava, anzi portava sino alle estreme conseguenze, una 
tendenza che si può notare attraverso tutti i secoli { anatomia che 
prevale su notomia. Africa su Affrica, ecc.): voleva perciò che si 
scrivesse non solo academia, alunne, amazone, bubone, catolico, ecc.-, e 
abbate, commodo, sabbato (con le scempie e le doppie secondo l’uso 
latino), ma anche adomine (per addome), asente (per assente ), altretale, 
ecc. Qualche seguace non gli mancò: ricordiamo specialmente il 
Cattaneo, che applicò e propugnò una riforma molto vicina a quella del 
Gherardini 01 ; e applicazioni del metodo gherardiniano vediamo in 
scrittori più o meno importanti (Giuseppe Ferrari, il Rajberti, il Dossi, e 
persino, in alcune peculiarità, l’Ascoli); ma in complesso, esso non 
riuscì a imporsi. 


13. Suoni 

Settentrionali e Meridionali cominciano a rendersi conto di alcune 
peculiarità della pronunzia toscana mal rappresentate dall’alfabeto 

(cfr. p. 535). . . , 

Agli ultimi decenni del Settecento (cfr. p. 485) e ai primi dell Ottocen- 
to risale la riduzione di uo a o nella parlata fiorentina (borio, novo. 


69 SuU’mterpunzione leopardiana, specialmente nelle Operette morali, v. F. 
Colagrosso, Le dottane stilistiche del Leopardi, Firenze 1911, pp. 200-230. 

00 In una lettera al Le Monnier (3 agosto 1846), il Giusti si lagna dei segni di 
punteggiatura troppo abbondantemente aggiunti al suo saggio sul Parine 

91 V l’articolo «Della riforma dell’ortografia», in Scrìtti letterari , I, pp. 257-272. 
Il Cattaneo proponeva anche, molto opportunamente, d'accentare le parole 
sdrucciole e più che sdrucciole, e applicò tale sistema nelle sue Notizie naturali e 
civili su la Lombardia. 


Il Primo Ottocento 563 

ecc.) 92 . Nell’uso letterario uo permane stabile, malgrado la presa di 
posizione del Manzoni 93 : le oscillazioni che si hanno in alcune coppie 
risalgono alla tradizione e non a questa novità del toscano: così per es. 
il Leopardi usa cuopre e scuopre in prosa, scopre nel verso. Quanto al 
dittongo mobile, la regola è considerata da qualcuno come una pretesa 
ingiustificata dei puristi 94 ed è largamente ignorata, anche da scrittori 
toscani (scuoiare nel Giusti, Lettere, passim; tuonare, suonata nelle 
Memorie del Montanelli). 

La regola che le parole con s impura debbono essere precedute da i 
quando siano precedute da consonante comincia a venir meno: il 
Guadagnoli scrive non inviluppi, per isgravio, ma anche in scuola, e due 
grammatici di opinioni così diverse come il Fornaciai! (Alcuni discorsi, 
pp. 109-118) e il Gherardini (Appendice alle grammatiche, p. 556) si 
trovano d’accordo nell’attenuare il rigore della regola. 

L’assimilazione della r dell’infinito alla l del pronome enclitico si ha 
ormai solo nell’uso toscano plebeo: per lo più gli esempi che ne 
troviamo nei versi non sono che un ricordo letterario: pagalli in rima 
con cavalli nel Poeta di Teatro del Pananti (c. L, st. 4), e, peggio, vedelli 
in rima con chiovelli, in una versione di una romanza spagnola del 
Berchet Q, p. 261 Bellorini). Invece al toscano plebeo allude il Giusti nel 
«Delenda Carthago», v. 56: «E non vogliam Tedeschi: arrivedello». 

In forte regresso è il troncamento sintattico. Leggendo nell’Ugoni 
una version di quest’opera il Foscolo vorrebbe correggere in versione 
( Epist ., IV, p. 45), considerando quest’uso un vezzo dei Gesuiti del 
Settecento, e «un prettissimo barbarismo» (2 a lezione pavese). Anche il 
Tommaseo (Memorie poetiche, p. 18 Salvadori) dice che questo «mal 
vezzo di troncare le parole» lo perseguitò fino ai venticinque anni 95 . Il 
Manzoni cercò di attenersi anche in questo all’uso fiorentino, ma vi 
riuscì solo fino a un certo punto 99 . 


14. Forme 

Nel plurale dei sostantivi, le principali oscillazioni sono quelle dei 
nomi in -co e -go (traffichi, che è preferito dal Gioberti e dal Manzoni; 


92 Goidanich, Atti Acc. d’Italia, s. 7*, II, pp. 167-218. 

92 Sul modo tenuto dal Manzoni nel conservare o togliere il dittongo, v. 
D’Ovidio, Correzioni, 4* ed., pp. 57-61. In una lettera del 13 aprile 1856 leggiamo 
«dammi bone notizie», ma «Il Signore è buono anche quando colpisce»: oscillazio- 
ne dovuta alla diversità di tono. 

94 «Manfredini scrive da Vienna esser buonissima, o bonissima come voglio- 
no i puristi, la salute» Qett. I. Pindemonte, 15 gennaio 1803). Il Tommaseo stesso è 
piuttosto scettico sulla norma, e accetta non solo buonissimo ma anche suonare, 
tuonare («Nuova proposta* in Nuovi scritti, IV, p. 65). 

96 Ma invece, altrove, si attenne ad alcune elisioni popolari toscane-, du’ altri, 
i’ ho dato. 

99 Bianchi, in Annali manzoniani. III, 1942, pp. 288-291 


504 Storia della lingua italiana 

narrochi asparaghiF. Per i nomi in -o si noti i camerata (Foscolo). Nei 
nomi in -elio si ha il plurale capegli non solo in poesia ma anche in 
prosa OD’ Azeglio): su questo modello, il Torelli scrive zampigli come 

plurate ^ . composti notiamo sordi-muti, che prevale nei primi 

dei?ecok> Conciliatore . passim), mentre più tardi si passa a sordomuti 

(P ' Pe^gli^agg^Uivi, la principale oscillazione al plurale (e al superlati- 
vo) è pure quella delle voci in -co e -go: aprici (Clasio), reciprochi 
(Foscolo), pratichi (Puoti, Tommaseo), poetichissimo, sofistichissimo 

(Leopardi), laconichissimo (Manzoni). .... trn 

Per formare l’elativo, i puristi hanno esumato il presso tra- 
{trasuperbo, Cesari, tragrande, Gioberti, Giordani, Mamiam, Farmi) e 

ancora gli Amici Pedanti lo difendono 08 . , 

Il superlativo relativo con l’articolo ripetuto è tutt altro che raro: «lo 
stato il più rozzo dell’uomo» (Pecchio); «l’uomo il più certo della malizia 
degli uomini» (Leopardi, Zibaldone ), «l’uomo il più disperato » (Giusti), 
«SatìsTSil contegno il più pudico » (Guadagnoli), ecc. Di acerrimo 
alci^ S hanno perduto la nozione che è un superlativo: «più acerrimo 
che (Giusti, Crow. fatti Toscana., p. 110). _ 

I numerali accorciati del tipo venzei, quaranzette non sono del tatto 
scomparsi almeno in Toscana («Son ventisette lire; ma per lei - Si ha 
da fare all’agevole, venzei»; Pananti, Il poeta di teatro, c. L 71; «P 1U 
vensette anni fa»; Tommaseo, Colloquii col Manzoni, p. 31 Lodi), benché 
l Minti Standone esempi nella Crusca del Cesari, se ne prendesse 

gÌ °Passando ai pronomi, vediamo frequentemente adoperato egli 
accanto a ei (anche in prosa): il Manzoni, trovandolo troppo solenne, 
nella revisione dei Promessi Sposi per lo più lo sostituì con lui (cfr-p. 
612) Eglino, elle, elleno si adoperano talvolta ancora («O che novità 
sono elleno queste?»: Guerrazzi, Il buco nel muro). 

Piuttosto largo, anche in scrittori non toscam, è 1 uso di gli, la, le 
come soggetti («Un re che gli era, fin dalla balia - pazzopelgioco 
dell’altalena*: Carbone, Re Tentenna-, «gii è un castello di carta»: 
Farmi- «la è carriera di delitto e di sangue»: Mazzuu; «vaga e quasi 
mistica forinola come le son tutte quelle del Mazzini»; Fanm) e di e 
come soggetto impersonale («e' v’è»; Mazzini; «queste ferocie non sono 
credibili ma é sono avvenute tali e quali»: Giusta. 

Li e' gli come particene oggettive di terza persona plurale si 
scambiano molto frequentemente: alcuni scrittori le adoperano m 
modo TomScuo rimettendosi «al giudizio dell’orecchio» (Parenti, 
Esercitazioni filologiche, n. 2), altri invece (Gioberti, Manzoni) adopera- 


« Un trattato del Casarotti nell’ed. di Padova 1813 porta nel titolo dittongi, in 

quella di Milano 1834 dittonghi. 

w Qiunta alla derrata, p. 120 della nst. Pellegrini. 


Il Primo Ottocento 


565 


no gli davanti a vocale, li davanti a consonante («laddove l’ingegno li 
trae fuori, li fonde, li cola, li purga, gli opera, gli aggiusta»-. Gioberti, 
Rinnovamento ). 

Gli per le (dativo singol.) non è raro (si ha anche nel Leopardi), 
mentre le per gli è un dialettalismo (per es. nelle lettere di Quirina 
Mocenni). Gli per loro (dativo plurale) si legge nel Leopardi, nel 
Tommaseo, nel Manzoni. 

In scrittori veneti, si ha qualche volta confusione tra ci e si: «io e la 
Pisana facevamo gazzarra, contenti e beati di vedersi dimenticati» 
(Nievo, Confessioni). Ne è ancora piuttosto frequente per ci («noi, a 
noi»). 

In posizione enclitica, la lingua poetica può avere, oltre a mi, ti, si, ci 
anche me, te, ecc.-. libertà di cui approfittano non solo i classicisti 
{deporse. Monti) ma anche i romantici («Del monte ove Gesù tras figuras- 
se*: Grossi, I Lombardi). 

Le coppie di particelle il cui secondo elemento è lo o ne sono spesso 
contratte anche in prosa: mel, tei, cel, vel (e così anche noi). Conforme 
all’uso toscano, antico e moderno, qualche volta gliene vale anche per 
glielo, ecc. {rimandargliene per «rimandarglielo», in una lettera del 
Leopardi, 5 marzo 1836). 

Assai numerosi sono ancora i casi di coppie di particelle in cui il 
dativo segue al complemento oggetto: e non solo in poesia («io si 
raccolse all’odoroso seno»: Monti); abbiamo per es. «che se gli possa 
fare una camicia»: Leopardi, Annot. canz. Ili; «facendosegii il freddo 
sentir sempre più»: Manzoni, Prom. Sp., XVII; «il cuore se gli serrava»: 
Canta, Margh. Posteria; «alle domande che se le facevano»: Carrer, 
Racconti; «chi io si mise pazientemente in tasca fu lo Sgricciolo»: 
Nievo, Il Varmo; ècc. 

Alcuni plurali come qualche professori (Berchet), qualche decine 
(Tommaseo), qualche speranze (Canta), qualche anni (Carrer) stanno 
cadendo dall’uso: il Manzoni, che nell’ed. del ’27 ne aveva pochi esempi, 
li abolì nella revisione. Cfr. anche nessune trattative (Nievo). 

Notiamo qualche scambio nell’uso di che e cui («la nube di 
maledizioni, di che lo aggravano i secoli»: Mazzini), di che e chi («la 
Francia, a chi si attribuisce...»: Amari), qualche esempio di chi plurale 
(«chi proseguettero i ladri» (= quelli che persèguironol: Giusti). 

Cosa? nel senso di «che cosa?» trova dei difensori (L. Fomaciari, 
Gherardini). 

Riguardo all’articolo determinativo, si possono osservare anzitutto 
queste due peculiarità: sussiste ancora, benché in forte regresso, il 
plurale Ji 99 ; davanti a s impura e z si adoperano quasi liberamente 
ambedue le forme. Li persiste specialmente nella lingua degli uffici, ma 


09 Non più, invece, il singolare lo davanti a consonante: lo troviamo, forse 
come allusione all’uso meridionale (dato il riferimento al re di Napoli) piuttosto 
che come arcaismo, in uno stornello politico di Dall’Ongaro: «Quando la gente 
non avea farina - Lo re diceva: Mangiate pollame». 



566 


Storia della lingua italiana 


se ne servono ancora talvolta, in prosa ed in verso, scrittori classicisti e 
anche romantici Mi suoi pseudo-liberali»; Breme, 1818 ^ «se a forza di 
sproni li fianchi t’ho aperti»; Prati). Il Gherarduu e il Cattaneo usano 
pressoché regolarmente li davanti a vocale e s impura (li articola li 
uomini, eco .). Specialmente li persiste davanti a s impura (li strilli. 
Bresciani; Atti spettri del 4 settembre 1847, Giusti; su li stinchi. Carducci) 
e dopo per (v. qui sotto). Davanti a s impura si ha grande oscillazione 
sia in prosa che in poesia, sia nei Toscani che nei non Toscani: tutt al 
più si può osservare che nei settentrionali abbondano gli esempi del 
tipo con ii «ha sepoltura - già vivo, e i stemmi unica laude» (Foscolo); ! 
stenti (Berchet); i stupendi marmi (Carrer); un po meno frequente è il 
singolare: «piu azzurro il scintillante Eupili ondeggia» (Foscolo), un 
spergiuro (Berchet). Anche più libera è l’alternanza fra d tipo il zio, i zu 
e lo zio gli zii loa : per citar solo un esempio fra mille, nella stessa pagina 
il Rosini scrive un zelante e degli zelanti {Risposta al cav. Monti, p. 33). 

Anche nell’uso delle forme intere o apostrofate la libertà e assai 
grande, non solo nei versi ma anche in prosa: leggiamo uno anello 
(Leopardi), della istoria (Colletta), lo idea, tutta la /lolla (Guerrazzi) , e 
viceversa l’o micizie (Foscolo), le lettere e l arti (Mazzini), l ore (Maz , 

ne * Quanto^ Sle preposizioni articolate, notiamo anzitutto la frequenza 
delle forme a’, de’, ne’, co’: la scelta tra forme intere e apostrofate è 
spesso governata da ragioni di eufonia (per es. il Mazzini scrive de 
bisogni e dei desideri, per non ripetere due volte la ste! > s a 
Nell’uso dei poeti, si oscilla fra le preposizioni articolate mute (dello, 
allo) e quelle separate (da lo, a lo): per es. il Leopardi passa, dalla 
Batracomiomachia del 1815 a quella del 1821, dal primo metodo al 

SeC Dopo per (e anche dopo il raro ver «verso») molti usano lo, li, 
conforme aUa regola dei grammatici antichi-, il Leopardi osserva 
costantemente la regola in prosa e in verso e considera 
lineua» per il suo reo delitto (recensione giovanile al Salteno versificato 
dal Gazola, in Scrìtti letter., II, p. 168), 102 e così scrivono spesso non solo 
il Cesari il Monti, il Perticali, il Gioberti, ma anche 1 Aman (per Io 


,00 n pedemonte, in una lettera al Bettinelli (23 novembre 1799) scrive «a zio 
(perché io non dirò mai lo zio ) scrive le memorie del nipote», e in una lettera al 
Pieri (in maKKio 1810) «Io poi dico il zelo e non lo zelo, e prego lei a guardarsi 
anch’ena da Xttazione». Anche il Cesari Qettera ad A. Chersa, 25 aprile 
1828) se la prende con «certi schifiltosi» che vogliono dire allo Zoilo, lo zucchero, 
in zolfo mentre il Boccaccio ha il Zima e simili. 

101 li giornaletto fiorentino La Zanzara del 15 maggio 1849 ^rimproverava _«d 
gran melante Francesco Domenico» di scrivere la Europa piuttost *> > che l E £°PCL 
ediceva che per questo il Giusti l’aveva proposto come Accademico della Crusca 

(Giusti EpistoL IV a tiii Mi^LAir/tolia), «per lo Ubero ciel fan mille giri», «per li 
campi esulta» Ul passero solitario) non hanno per lui alcuna connotazione 
stilistica, ma sono ima sempUce appUcazione della regola. 


Il Primo Ottocento 


567 


momento, in ima lettera del 1849) e il Prati (per lo deserto, per lo 
mondo) 103 . Il Carducci del tempo degli «Amici Pedanti» scrive in una 
lettera al Chiarini (1857) «rispondimi per lo procaccia»; ma nella lirica 
in morte del fratello, che è del medesimo anno, ha ambedue le forme: 
per li verdi oliveti e per i lieti cpmpi. I meno rispettosi di queste 
prescrizioni sono i Toscani (pel cheto camposanto, Guerrazzi; per il suo 
valore intrìnseco, per il malgarbo. Giusti); e il Fomaciari ( Alcuni discorsi, 
pp. 103-104), appellandosi al Bartoli, dichiara che la regola non è 
assoluta. Il Manzoni che aveva adoperato pel (e pello, secondo la 
posizione) nei Promessi Sposi del ’25-’27, passa a per il (per lo) nell’edizio- 
ne del ’40. 

Per i verbi abbiamo una gamma di varianti assai ampia 104 . Anzitut- 
to, nella lingua poetica, rimangono adoperabili terminazioni e forma- 
zioni cadute dall’uso: avemo (Manzoni, «Nome di Maria»), avièno 
(Monti, Mascher., III), ghirlandomo (Monti, Mascheri, III), ecc. Ma anche 
nella prosa troviamo frequentemente varianti che i grammatici catalo- 
gano come antiche o poetiche: dee o debbe-, dicea, parea-, fia («quando 
ella fia giocondata dai figli», ancora in una lettera del Guerrazzi del 
1865); sarta, ecc.; corre, sciorre, torre per cogliere, sciogliere, togliere. 

Né raro è l’affiorare di forme peculiari nei Toscani: «quando me ne 
parlavi », 2 a pers. plurale: Fanny Targioni Tozzetti, lettera 1838; «Voi eri 
amico e compatriotta dell’eroico Giovannetti»: De Laugier, Concisi 
ricordi, p. 200; «in velluto e scarponi com’eramo»-. Giusti, lettera 1841 a 
P. Thouar, in Epistol., I, p. 388 Martini; curiose le forme di passato 
remoto e di condizionale di cui si serve l’elbano generale De Laugier, 
pochissimo letterato: raccolsamo, sparsemo, avrebbemo, traverserebbe- 
mo l0S ; più fortunato degli altri, anche se non immune da critiche, il 
costrutto noi si va: «Si par di carne, e siamo - costole e stinchi ritti» 
(Giusti, «La terra dei morti»); «tutti si può mancare» (Manzoni, Prom. 
Sposi, cap. XIX), ecc. 

Fra i non Toscani appaiono qua e là forme regionali, come il solito 
-assimo, -essimo, -issimo, terminazione settentrionale e romanesca per 
la prima pers. del condizionale («vedressimo tanto volentieri»: Giulia 
Manzoni Beccaria, lettera 1826; «quello che noi vorressimo»: Costanza 
Arconati, lettera 1832) 106 . 


103 Al Codice di Napoleone il Grande pel Regno d’Italia (Milano 1806) fa 
riscontro il borbonico Codice per lo Regno delle Due Sicilie (Napoli 1819). 

104 Moltissime se ne possono rilevare dal repertorio del Mastrofini ( Teoria e 
prospetto, cit.), il quale, benché fondato su attestazioni classiche, tuttavia spesso 
documenta l’uso contemporaneo: per es. al verbo cuocere fa vedere che cuocio sta 
sostituendo cuoca («l’uso par che voglia inserire un i»), tra valga e vaglia dichiara 
più comune vaglia nella locuzione e vaglia il vero, ecc. 

105 Gli Italiani in Russia, Italia 1826-27, passim, cit. da R. Ciampini, nella 
prefazione alla sua ed. dei Concisi ricordi di un soldato napoleonico, Torino 1942, 
p. 14. 

106 Nèlla 2“ edizione dell'Imitazione di Cristo da lui tradotta, il Cesari sostituì 
un vorresimo a un vorremmo, ma lo fece per evitare una ripetizione. 


568 


Stona della lingua italiana 


Il Primo Ottocento 


569 


Nel presente indicativo, alla prima persona plurale, è frequente 
davanti alla desinenza un indurimento del tema: tenghiamo, ponghia- 
mo, distrugghiamo e anche conoschiamo. Le stesse forme si hanno 
anche per il congiuntivo, che inoltre presenta forme analoghe per la 2 a 
persona: accolghiate, dirighiate. 

All’imperfetto la prima persona in -a è ancora vivissima, ma 
accanto ad essa è altrettanto frequente la forma in -o (che «si vede al 
presente scorrere in belle scritture»: così il Mastrofmi, parlando del 
paradigma di temere). Anche scrittori toscani di tono familiare usano le 
forme in -a (era, aspettava, sapeva-. Giusti), talora alternandole, a poche 
pagine o a poche righe di distanza, con le forme in -o ( conchiudeva , 
doveva, ma amavo nell 'Apologia del Guerrazzi), n Manzoni nei Promes- 
si Sposi del 1825-27, e nelle lettere anteriori e di qualche anno 
posteriori, adopera quasi sempre la forma in -a (ho segnato solo un 
bramavo del 1829, di contro a moltissime forme in -a); nell’edizione del 
1840 egli corregge faceva, non pensava in facevo, non pensavo, e a 
questa forma si attiene nelle lettere più tarde ( sapevo , 1850). 

Nel passato remoto appaiono non di rado, alla 1* persona plurale, 
forme del tipo ebbimo, in Toscani (abbiamo ricordato il De Laugier) e 
non Toscani (vidimo: Gargallo; ebbimo-. Rajberti-, seppimo-. Nievo). 

Al congiuntivo è ancora frequente la terminazione -i per la seconda 
persona-, abbi, facci, vadi, vo gli. 

Al condizionale le forme in -ia appaiono ancora qua e là anche in 
prosa, e l’uso va esaminato autore per autore: ad es. il Leopardi nelle 
Operette morali preferisce il tipo saria, dovria davanti a consonante, ma 
sarebbe, dovrebbe davanti a vocale 1 ”. 

Frequentissimo è ancora l’uso di avere come ausiliare di verbi 
costruiti di solito con quel verbo, anche quando siano usati come 
riflessivi: «quand’anche non si avesse conseguita l’indipendenza, si 
avrebbe giovato all’onore italiano»: Foscolo, lettera 1815; «pare che il 
poeta si abbia proposto »: Leopardi, in Nuovo Ricogl., 1825-, «un frate si 
avea tolto il carico di farmi venire i vostri volumetti»: Puoti, lettera 
1845; «tutto il vino che si hanno bevuto*-. Guerrazzi, Apologia-, «quel 
giorno avrebbesi dovuto installare solennemente la Signoria nuova».- 
Capponi, Storia Repubbl. di Fir., II, p. 439. 

Qualche osservazione sulle parole invariabili. Si adoperano talvolta 
anche in prosa avverbi, congiunzioni, preposizioni che poi cadranno 
interamente in disuso: eziandio (Gioberti, ecc.), mo (Manzoni, Prom. 
Sposi 1827), oggimai (Mazzini), awegnadio (Guerrazzi), appo (Manzoni, 
lett. 1826-, tenere appo Renzo dei Promessi Sposi del 1827 è sostituito da 
tenere presso di Renzo), contra (Breme), fuora (Manzoni, lett.-, un paio di 
volte nei Promessi Sposi del 1827; in verso, nell’inno di Garibaldi del 
Mercantini «Va’ fuora d’Italia...»). 


107 E. Bigi, Dal Petrarca al Leopardi, Milano-Napoli 1954, p. 134. 


15. Costrutti 

Nei costrutti più che altrove si rispecchiano le tendenze contrastan- 
ti. I classicisti abbondano di costrutti modellati sul latino e il greco e 
sugli scrittori classici italiani: accusativi con l’infinito (estremamente 
copiosi, per es. nel Gioberti), accusativi alla greca, ablativi assoluti, 
infiniti storici, ecc.; i puristi, oltre che servirsene anch’essi, ravvivano 
costrutti arcaici: per es. il Puoti adopera volentieri l’ellissi del che 
(«tutto quello fate per me»: lettera a L. Fomaciari, 1846; «quello mi 
avete detto»: lettera a S. Betti, 1846). D’altro canto si nota ima forte 
influenza francese; e toscanismi e dialettalismi affiorano in varia 
misura. . 

L’articolo con i cognomi spesso si tralascia, specialmente con quelli 
più illustri (e anche con quelli di stranieri): si veda la discussione del 
1817 fra il Leopardi e il Giordani CEpistol., I, pp. 99 e 106) e le fini note 
del D’Ovidio sull’uso manzoniano 108 . 

Non è raro il partitivo dopo avverbi di quantità-, più di fedeltà-. 
Leopardi, 1816; con più di precisione : Berchet; assai di regolarità : 
Torelli, Ettore Santo, p. 310; cfr. anche un dieci di volumi: Giusti, lett. 22 
die. 1846. 

Il participio presente con pieno valore verbale è assai raro, e suona 
letterario («a me giovane annunziante che il Rosmini verrebbe...»: 
Tommaseo, Colloquii col Manzoni, p. 181) ovvero burocratico («i 
Rappresentanti il Municipio»: in un manifesto, Cesena 1828; «Firmato 
in calce dell’originale: - Minosse presidente il Tribunale»: Guadagnoli, 
Poesie, p. 521 De Rubertis). 

Raro e meramente letterario è anche il costrutto del gerundio con 
in-, «ma il cor mi rode acerba - doglia in pensando...*: Monti, Iliade, 
XVI; «O sopiti in aspettando»-. Manzoni, Resurrezione-, anche in prosa-, 
«in leggendo quel tenero vostro Sonetto»: Monti, a Rosini 1818. 

Anche più raro l’infinito con in-, «molto mi dolse in leggere che 
eravate...»-. Puoti, lettera 1844. 

Molto ci sarebbe da annotare sulle reggenze dei verbi, talora 
influenzate dall’uso dialettale («lo intesi a russare»: Torelli; «pensate... 
che turbamento mi produsse il sentire il Manzoni a proporre...»: 
Bonghi), e sull’uso dei tempi e dei modi (per esprimere un futuro 
dipendente da un passato è frequente il condizionale semplice: «mi 
pareva che quell’architettura, trasportata sotto il sole d’Oriente e tra le 
nebbie britanniche, armonizzerebbe del pari»: Tommaseo, «I monumen- 
ti di Pisa», in Bellezza e civiltà, 1832) 109 . 

Nell’ordine delle parole, i classicisti mettono ancora talvolta il 


108 Correzioni, pp. 79-80. 

108 Lo stesso Tommaseo mescola il condizionale passato con quello presente: 
«non prevedevo che, esule volontario, io avrei di là a quindici anni inviato in 
Italia un libro sulle miserie e le speranze della nazione e... lo intitolerei...» (Rivista 
contempor., XXXVIII, 1864, pp. 125-126). 


570 Storia della lingua italiana 

verbo in fine per alzare il tono dei loro scritti («la vita mia che ormai 
verso l’occaso inchinai Botta, lettera 20 die. 1831). Con il medesimo 
scopo, nei gruppi di sostantivo e aggettivo, gli aggettivi con valore 
limitativo e gli aggettivi etnici talvolta precedono anziché seguire il 
sostantivo («in questa occidentale Europa»: Farini, Lo Stato Romano, I; 
«le tracce delle napoleoniche fortune»: ivi; «nel vedersi molto appiana- 
ta la via nel parlamentare arringo»; Cavour, discorso 5 febbraio 1852). 

Nei versi si mantiene un’amplissima facoltà di trasposizioni, anche 
dai romantici («Ma il periglio d’Ulrico ogni malnata - mitigando pur 
venne ira scortese»: Grossi, Ulrico e Lida, I; «Sento un soave di patir 
desio»; Tommaseo) 110 . 

Abbondantissima, anche nella prosa più andante, è l’enclisi prono- 
minale: possiamo pensare a un’intenzione un po’ arcaizzante leggendo 
in una lettera del Botta (20 die. 1831): « Tienmi Parigi e ancora 
terrammi », ma non vi è certo alcuna intenzione simile quando il 
Borsieri scrive (Condì., n. 70): «Il padre avevaio destinato allo stato 
ecclesiastico; però recossi a Gottinga», o quando il Rosmini scrive al 
Tommaseo (22 sett. 1831): «il Manzoni scrissemi una bella lettera», o nei 
numerosissimi puossi, diessi, trasportassi, lasciommi, delle Mie Prigioni 
del Pellico, o quando il De Laugier scrive: «coloro fra i nostri 
concittadini i quali nieganvi questa giustizia» (La milizia toscana, p. 
38). L’abbondanza di enclitiche nelle lettere del Carducci al Chiarini, 
negli anni degli «Amici pedanti» («Mandati subito il sonetto», 1856; 
«Sceglierai questi, metteraili da parte», 1857), forse non è senza 
intenzione. 

Quanto alla struttura del periodo, malgrado lo sforzo dedicato dai 
classicisti a restaurare l’arte degli ampi periodi armoniosamente 
bilanciati, nell’uso comune resta prevalente l’andamento a periodi 
brevi impostosi nel Settecento. Tant’è vero che in qualche ristampa di 
classici gli editori si arbitrano di introdurre delle pause: il Moreni nella 
prefazione ai Ricordi del cinquecentista Domenico Meliini (Firenze 
1820, p. 17) lamenta che nella ristampa pisana del Guicciardini «con 
ardimentoso impegno si mozzano i periodi con pause per facilitarne la 
lettura, e per non istancare colla loro pretesa soverchia lunghezza i 
polmoni dei lettori». Il Gioberti difendeva il diritto degli scrittori di 
svolgere molte idee «con un solo circuito architettato con senno», 
anziché «con dieci periodetti strangolati, come usano ai nostri gior- 
ni» 111 . E il Mamiani osservava 112 che mentre «nel cinquecento i maestri 
dell’arte adattavano ai varj stili varia foggia di periodo..., oggi d’ogni 


110 Al Betti, che in nome della tradizione classica italiana aveva censurato per 
le troppe inversioni il volgarizzamento di Pindaro del Lucchesini, il Fomaciari 
rispose allegando numerosissimi esempi di poeti e anche di prosatori trecente- 
schi con forti trasposizioni (Alcuni discorsi, cit., pp. 3-37). 

111 Cit. da Mazzoni, Ottocento, 2* ed., p. 604. 

112 Della italianità e dell'eleganza, 2“ lettera (Parigi 1842), in Prose letterarie, 
Firenze 1867, pp. 251-252. 


Il Primo Ottocento 571 

ampiezza di periodo siamo schivi e intolleranti, e vogliamo rotte non 
che slegate tutte le membra del discorso...». «Potrei citarvi - egli 
aggiunge - un autore de’ nostri che sveglia meritamente gran fama di 
sé per sapienza e facondia rarissima, il quale non esce in eterno dal 
suo costrutto regolare del nominativo, verbo e accusativo». Giudizi 
sommari, certo; ma ho l’impressione che chi allargasse opportunamen- 
te la ricerca vedrebbe corroborate le osservazioni del Mamiani. 


16 . Consistenza del lessico 

Non ci lusinghiamo di poter dare altro che una pallida idea del 
lessico del primo Ottocento e delle sue innovazioni rispetto al lessico 
dei secoli precedenti. 

Anzitutto ricordiamo le ripercussioni della potentissima scossa 
data alla vita italiana dall’invasione francese e da tutto quello che 
segui fino al 1814. Dapprima si erano solo conosciuti gli avvenimenti di 
Francia e i vocaboli relativi; ora molti di questi vocaboli si applicano 
alle nuove vicende italiane. 

Il modenese Bartolomeo Benincasa, nel Monitore Cisalpino del 
maggio 1798 113 , dava un elenco di vocaboli «nuovamente arrivati in 
Italia, o di nuova significazione, o d’un’ antica, ma cambiata e travisa- 
ta»: aggiornare, allarmista, aristocrazia, arrestare, attivare, awocazione, 
cittadino, civismo, clisciano, corporazione, correzionale, correzione, co- 
stituente, costituito, democrazia, eguaglianza, emigrato, emigrazione, ex 
(particola preposta), federalismo, federalista, federativo, federazione, 
filantropia, libertà, liberticida, massa, menzione onorevole, moderanti- 
sta, monarchia, mozione, nazione, oligarchia, organizzare, patriota, 
patriotismo, popolo, provvisorio, rapportare, risolvere, rivoluzionare, 
rivoluzionario, sanculotto, scioano, teocrazia, teofilantropia, tirannia, 
vendeista. 

Più tendenzioso l’anonimo che pubblicava a Venezia nel 1799 un 
Nuovo Vocabolario filosofico-democratico indispensabile per ognuno 
che brama intendere la nuova lingua rivoluzionaria. 

Se avessimo una completa rassegna dei neologismi sorti fino al 1814 
in séguito alla nuova organizzazione dei dipartimenti annessi alla 
Francia e dei nuovi stati satelliti, troveremmo innovazioni im portanti 
Ce ne dà un’idea il citato Elenco di alcune parole oggidì frequentemente 
in uso, le quali non sono ne' vocabolari italiani, di G. Bemardoni 
(Milano 1812). 

Alcune voci entrarono brevemente nell’uso e poi sparirono (come i 
nomi dei mesi del calendario repubblicano), altre si radicarono forte- 
mente (come i nomi delle misure: grammo, metro, ecc.). Numerosi 
vocaboli furono introdotti nell’uso dal Codice Napoleone (per es. 


113 V. Lingua nostra, II, 1940, p. 58. 



572 


Storia della lingua italiana 


immobiliare licitazione, regime della comunione dei beni, ecc.), e molti 
di essi persistettero anche oltre. Lo stesso si può dire per parecchie 
istituzioni giudiziarie, amministrative, militari (Corte di Cassazione, 
tnzSnTrio^regìa, sotto-ufficiale, ecc.>, e in genere per im ^an numero 
X voci burocratiche ( caseggiato , controllo, processo verbale suiu con 
valore collettivo; mensile in luogo di mensuale, doganale, postale, 
retroattivo ; centralizzare , monopolizzare , eccJL 4 

Il nome di tricolore, che alTapparire dei Francesi ^^a ancora 

soltanto il tricolore francese (azzurro-bianco-rosso) designò ben presto 
il nuovo vessillo italiano (verde-bianco-rosso), bandiera deU ® 
na e poi della Cisalpina: dopo varie vicende, nel 1848 esso fu da tutti 
riconosciuto come simbolo dell’Italia costituzionale. 

La Restaurazione ristabilì in parte le antiche terminologie. Poi, 
molti nuovi mutamenti si ebbero nella terminologia ufficiale dei vari 
Sali dmaSe i moti del ’48 e poi nel ’59 e nel ’60. L. C. Farmi diceva nel 
’59- «Ad anno nuovo da Piacenza a Cattolica tutte le leggi, 1 regolamen- 
ti i mmd^d anche gli spropositi saranno piemontesi». Ma di questo 

Par Lericende 1 talvolta turbinose a cui andò soggetta ia vita politica in 
questi decenni spiegano il moltiplicarsi di vocaboli nfenti aUa vita 
politica. Il nome di Risorgimento, che aveva designato già nel 700 in 
Piemonte e in Lombardia una più o meno vaga aspirazione a un 
miglioramento delle sorti d’Italia, prende un senso decisamente politi- 
co ne j ’47-’48 (si ricordi II Risorgimento fondato da Cesare Balbo il 15 

< ^ C Le sètte portano nomi svariati: sia quello di Carbonari (con i termini 
comiessi di borami, vendita), sia quello antitetico di Calderan seguono 
k^schema semantico di (Liberi) Muratori-, altn sono coniazioni dotte: 

Ad Se di partiti veri e propri, nel senso moderno, si può parlare solo a 
cominciare dal ’48, nomi di tendenze e raggruppamenti appaiono ben 
prima Se q ual cuno di questi nomi è esclusivamente italiano (come 
sanfedista, olonista, albertista, muralista), i più si riconegano a mm 
analoghi francesi oppure inglesi: destra e sinistra, liberale, assolute a, 
legittimista, conservatore, moderato, radicale, costituzionale, progressi- 
sta, oscurantista, comunista, socialista e così via. - - fi t 

Liberale, per es„ ha una lunga incubazione, che dal significato 
latino di «generoso, di animo aperto» porta la parola a un significato 
politico Già il Baretti in una lettera del 1766 parla degli Italiani rumiti 
«sotto ii medesimo governo non importa se liberale o dispotico». Due 


U* Ma il Ferrari adoperava risorgimento alludendo alla ripresa della civiltà 
italiana dall’oriinne dei Comuni al trionfo delle Signorie, mentre lo Spaventa e il 
Fiorentino se ne^jervivano nel senso in cui oggi diciamo Rinascimento CSestan, m 
O^T^CR^m^gnosi, C. Cattaneo, G. Ferrari, Milano 1957 p. 1057). ^Gioberti 
innovamento civile d'Italia) avrebbe voluto distinguere fra Risorgimento (fino al 
’49) e Rinnovamento (dopo il ’49). 


Il Primo Ottocento 


573 


episodi accentuano il significato politico della parola: M. m6 de Staél che 
nel 1790 dichiara «je défends les idées libérales», Napoleone, il quale 
nel proclama del 19 brumaio 1799, il giorno dopo il colpo di stato, 
proclama che «les idées conservatrices, tutélaires, libérales sont 
rentrées dans leurs droits». E, infine, nelle Cortes di Cadice, discuten- 
dosi di finanza, il gruppo liberal, che, dopo aver rinunziato ai propri 
emolumenti, difendeva le pubbliche libertà, si separò dal gruppo servii, 
fautore degli antichi abusi economici e delle opinioni retrive: con 
quest’ultimo passo la parola diventò nome di partito. 

Fusionista entra in circolazione nel ’48, quando si discute se la 
Lombardia e gli altri che hanno ricuperato la libertà debbono «fonder- 
si» col Piemonte o no; separatista nasce a Nizza nel 1859, quando alcuni 
ormai progettano di «separarsi» dal Piemonte per unirsi con la 
Francia. 

Pullulano i nomi politici affettivi: sia riferiti spregiativamente agli 
stranieri (gli Austriaci sono chiamati caiserlicchi, mangiasego o segoni, 
patatucchi, plùfferi, tognini-, dottamente anche turchi), sia a varie 
tendenze o partiti: codini e parrucconi (nomi nati nel 1799, dalla 
parrucca che i conservatori ancora usavano, mentre i rivoluzionari 
l’avevano smessa), funari (soprannome dato a Lucca nel 1848 ai 
retrogradi), malva, malvini (moderati), cupolini (a Firenze «campanili- 
sti»), arruffapopoli (voce coniata dal Giusti, largamente fortunata). 
Troviamo spesso anche soprannomi scherzoso-spregiativi dati a varie 
milizie ( lucemini «carabinieri», polpini «soldati croati» nel 1848, ecc.). 

Anche le fedine implicano un sottinteso politico: sono le «basette» 
come le portava Francesco Giuseppe, e perciò implicano una «fede», un 
«certificato politico» di buon suddito austriaco. Gli eroi della sesta 
, giornata alludono alle Cinque Giornate di Milano. Quarantottata 
«fiammata politica senza conseguenze durevoli» esprime le delusioni 
seguite alle speranze del Quarantotto. Il nome di barabba emerse nella 
rivolta milanese del 6 febbraio 1853. Numerosi poi i motti storici 
divulgatisi in questa età: la carne da cannone (attribuito a Napoleone), 
il concerto europeo (accordo di Chaumont, 1814), i fatti compiuti (O. 
Barrot, 1831), l’espressione geografica («l’Italia è un’espressione geogra- 
fica»-. Mettemich, 1847), la lotta di classe (Marx, 1848), l’Italia farà da sé 
(motto della società segreta dei Raggi, fatto proprio da Carlo Alberto 
nel 1848), il governo negazione di Dio (divulgato da Gladstone, 1851), il 
grido di dolore (nel discorso di Vittorio Emanuele II del 10 gennaio 
1859), ecc. 115 . Prima la mistica giacobina, poi quella mazziniana, 
trasferiscono spesso vocaboli di origine religiosa al campo patriottico ( i 
martiri della libertà; «i morti della nostra Religione nazionale »: Mazzi- 
ni, lett. 29 agosto 1855; ecc.). 


115 Invece la frase di Pio IX che aveva chiamato barbacani della Santa Sede i 
volontari (Genova di Revel, Umbria e Aspromonte, Milano 1894, p. 50) fu volta a 
dileggio, per l’ignoranza del significato proprio del termine, e la somiglianza con 
barba e cane. 


574 


Storia della lingua italiana 


i 


Ebbero grande influenza anche nella lingua quotidiana le vicende 
letterarie: la restaurazione neoclassica, il purismo, l’avvento del ro- 
manticismo. n Monti adopera neU' Iliade il latinismo reduce (e il 
Manzoni in un senso un po’ diverso nel coro di Ermengardak poi nel 
1848 a Roma si organizza un battaglione di reduci. 

Per designare nuove invenzioni, si ricorse spesso a moduli ciassi- 
cheggianti: così il velocifero, il celerifero, il fiammifero. 

Appare anche in Italia il movimento romantico-, il termine dopo una 
lunga incubazione anglo-francese (ss. XVII-XVIII), acquista valore 
nettamente letterario nella cerchia di M. me de Staél, m cui si fissa 
l’opposizione tra romantico e classico-, e si sa quale importanza abbiano 
assunto in Italia la nozione e la parola 118 . Il romanticismo sommuove 
largamente il vocabolario, con l’importanza data a tutto ciò che e 
sentimentale ( idee color di rosa), con il realismo che spinge a descrivere 
cose su cui prima si sarebbe sorvolato (ambienti popolari, rustici, ecc.), 
con l’amore per il fantastico, l’esotico, il medievale (cfr. p. 5381. La 
polemica dei romantici contro la mitologia rende un po ridicole 
perifrasi come il santuario di Temi, il regno di Nettuno, tanto care ai 
classicisti. Nasce con il romanticismo l’aggettivo primaverile (dappruna 
in concorrenza con primaveresco ), si diffonde autunnale, prima rarissi- 
mo. Si conia medievale (accanto a medievitico, poi scomparso!, Entra 
neli’uso pomeriggio. Nuove forme poetiche sono la ballata (diversa da 
quella che così si chiamava nel Medioevo) e la romanza. Eufemismo 

romantico è il nome di mal sottile. . . . , . 

Fra gli scrittori v’è chi è più incline a comare neologismi, chi invece 
li evita. Il Giusti per es. scrive arfasatteria, arlecchineggiare, arruffa,po- 
po u articolato (v. p. 578), birrocratico, castrapensieri, grinzume, innaiolo, 
insùgherire, meritometro, nipotame, puerpere, scalessare, sonniloquio, 
vanume, eco.-, il Gioberti, oltre a rinnovare numerose parole greco-latine 
e italiane dei primi secoli, conia contrascossa, cronotopo, fogliettista, 
scattedrare, scriviarticoli, torcilegge, ecc.; il Mamiani conia bronzeo (che 

attecchì) e quercioso (che non attecchì). . . .. , 

E numerose parole e locuzioni di singoli scrittori si divulgano con 
valore allusivo e poi talvolta generico: l’ombra dei cipressi e il lombardo 
Sardanapalo del Foscolo, il procombere e le sudate carte del Leopardi, il 
disonor del Golgota e i pareri di Perpetua del Manzom (e anche Perpetua 

- cfr. p. 580). . . 

Il melodramma agisce in vario modo sulla lingua: con reminiscenze 


»» ri mimo esempio fin qui additato è in una nota del n. 3 dello Spettatore 
Italiano 0814); nel n. 11 12 della stessa rivista si precisa: «questo moderno gustoche 
M me de Staél e i tedeschi chiaman romantico» Per la stona deUa parola in 
italiano, si veda C. Apollonio, Romantico-, stona e fortuna di uno paroto, Fmenze 
1958 e l’«Antologia di testimonianze sul romanticismo» raccolte da E. Mazzali in 
ap 5 pèndiceaUa sua ristampa del Discorso di un italiano intorno aiiapoesm 
romantica di G. Leopardi, Bologna 1957-, per le altre lingue europee^. 

F. Baldensperger, in Harvard Studies and Notes Phil. Liter., XIV, 1937, pp. 13 105, fi. 
Wellek, in Compar. Literature, I, 1949, pp. 1-23. 


Il Primo Ottocento 


575 


divulgatissime di locuzioni, come il suon dell’ arpe angeliche (dal Poliuto 
di Donizetti, libretto di Cammarano), una furtiva lacrima ( dall’Elisir 
d’amore di Donizetti, libretto di Romani), ultimo avanzo -- d’una stirpe 
infelice (dalla Lucia di Lammermoor di Donizetti, libretto di Cammara- 
no), invenzione prelibata (dal Barbiere di Siviglia di Rossini), disperato è 
l'amor mio (dalla Francesca da Rimini di Pellico), di quella pira 
l’orrendo fuoco (dal Trovatore di Verdi, libretto di Cammarano), ecc., e 
inoltre con la voga che ne ricevettero alcuni vocaboli. Le lettere di 
Byron alla contessa Guiccioli, scritte in un italiano piuttosto approssi- 
mativo, sono piene di parole, di movenze, di troncamenti che rivelano 
come fonte il linguaggio del melodramma: «con quei soavi palpiti», 
«tutto dipende da te, la mia vita, il mio amor, il mio onor» 117 . Palpito, 
benché esistesse fin dal Quattrocento almeno, e l’avessero adoperato 
alcuni scrittori del primo Ottocento (Leopardi, Guadagnoli, Rosini) non 
era registrato dai vocabolari: ma «la famosa cavatina Di tanti palpiti - 
di tante pene 1 ' 6 ha introdotto in tutti gli orecchi, e impresso in tutti i 
cuori italiani il suo suono e il suo significato» 119 ; traviata ha preso 
valore estensivo per la voga dell’opera di Verdi; e alla conoscenza di 
personaggi di melodramma si devono antonomasie come Dulcamara 
«farmacista ciarlatano» (dall’Elisir d’ Amore di Donizetti, 1832) e Figaro 
(che risale al Beaumarchais, ma deve la fortuna italiana a Rossini). 
Nascono ora le maschere di Stenterello (1798) e di Gianduia (1808). Da 
un certo Luigi Anzampamber si trasse, e perdurò a lungo nel linguag- 
gio teatrale dell’Ottocento, il nome di Anzampamber per «guitto» (Enc. 
Ital., s. v.). 

Qualche espressione sorge nel linguaggio dei teatranti e si diffonde 
più o meno anche fuori: far fanatismo, far un furore, essere un pezzo da 
sessanta 120 . 

Il giornalismo politico e d’informazione rispecchia, per lo più senza 
originalità e invece con enfasi a freddo, le tendenze letterarie del 
tempo, oscillando fra classicismo e romanticismo. Di un artista scom- 
parso si dice che «lascia vedovo un posto nell’arte», di un uomo politico 
che «riscuote le più frenetiche dimostrazioni»; le questioni sono 
«palpitanti di attualità». 

Nei giornali, e negli scritti dei letterati da strapazzo, si abusa degli 
astratti. Si lamenta il Tommaseo: «d’un uomo famoso parlando in 
Francia dicono (e certi Italiani fangosi ripetono) una sommità, un’illu- 
strazione, una celebrità: e queste son le figure di noi italiani. Di qui a 
poco, per dire Ariosto diremo ariostizzazione e per Petrarca petrarchi- 
tà» al -, e il Giusti, nella satira «Gli umanitari», crede che 


117 M. Praz, Cronache letterarie anglosassoni, I, Roma 1950, pp. 68-72. 

118 Dal Tancredi di Rossini, libretto di G. Rossi. 

118 L. Molossi, Nuovo elenco di voci e maniere di dire, Parma 1839-41, s. v.; cfr. 
Viani, Dizionario di pretesi francesismi, s. v. — 

128 Pananti II poeta di teatro, c. VI. 

121 «Nuova proposta», cit., p. 19. 


576 


Storia della lingua italiana 


...sarà parlata 
una lingua mescidata 
tutta frasi aeree; 
e già già da certi tali 
nei poemi e nei giornali 

si co min cia a scrivere. 

Larghissimo è l’uso di vocaboli burocratici e di forestierismi. La 
reazione co^o questi vocaboli, particolarmente tenuta viva dai 
puristi fa nascere molti scrupoli. I vari autori di quella tendj^asono 
or più òr meno severi, e non di rado si trovano in contrattone fra 
loro 122 - ma in complesso la loro opera non fu senza effetto. Se non 
riuscirono a far sparire la maggior parte dei vocaboli contro cui 
battagliarono ( controllo , deperire, distintivo, funzionare, ispettore, licita- 
SKSS atiia, proclama. Profilare ^ono^rt^ 
trn cifrare e mille altre parole vennero accolte da tutti), altre caaaero m 
SSoSrman” merla, tirabussòn. ecc.; degrado, estremare, rea*.* 
tSf renZenU speranza re, eco.* altre ancora rimasero m una spera <h 
Tfn^Vt’ò accolte dai dìù ma da altri considerate come illegittime o 
carminate all’uso degli 'uffici {bigiotterìa, dettaglio, rimarco ; miglioria, 

dÌZ Co°nSiòori C remore di carattere puristico affluiscono *vece nel 
lessico i^ocaboli riferiti a oggetti nuovi della vita pratica Abbiamo 
così nomi riferiti all’abbigliamento maschile (civile e militare) e a quello 
femminile- i pantaloni' 23 , la cravatta, il paltò, il ragion il (cappello al 
Stiv o (cappello a) staio, la tuba, il gibus, il corsè, il figaro, la 
crinolina, la pellegrina, il boa, ecc. Ricordiamo il percalle e ùpiawi, e 1 
nomi di colori magenta e solferino, coniati m occasione delle d 
battaglie. Citiamo anche alcuni nomi di danze venute di moda m questi 

anni; la mazurka, la polka, il “walzer delle 

Si diffonde l’uso dei sigari (e, dopo la guerra di Crimea, delie 

sigarette ); nel 1832 appaiono i fiammiferi fosforati, che sostituiscono g 

antichi e poco pratici solfanelli 124 . 


ia n Bemardoni (Elenco, s. v.l avrebbe voluto per es che si evitasse deportare; 
r-herardini (Voci italiane ammissibili) fa notare che «1 u§are m sua 

m 

accette Particolarmente severo è l’Azzocchi, che combatte per es. deputato. Il 
n £ n ZTfr^nctSTome C è r noS nZ a4eva CO fratto' origine dalla .maschera 

VCTl tSTn om e neoclassico di fiammiferi prevalse presto sugli altri che allora 


Il Primo Ottocento 


577 


Nel campo del traffico ricordiamo i celerìferì e gli omnibus ; i 
velociferi, le draisiennes, i bicicli; e una ricca nomenclatura di tipi di 
carrozze a cavalli-, tilbury, padovanelli, ecc. Con l’introduzione delle 
strade ferrate in Italia (1839) prende inizio tutta una nuova terminolo- 
gia 123 : locomotiva, vaporiera™, vagone, tender, ratte (poi sostituito da 
rotaia ), tunnel, viadotto, ecc. Ferrovia appare un po’ più tardi, nel 
1852 127 . Un progetto di tramway («ossia strada ferrata a cavalli») si ha 
nel 1856 128 . 

Il grande progresso delle scienze porta a un forte ampliamento 
terminologico pressappoco parallelo in tutte le lingue occidentali 
d’Europa; le applicazioni delle scienze nella vita pratica e la conoscen- 
za che il pubblico ne acquista fanno sì che molti di questi termini si 
divulghino largamente. 

Così vediamo sorgere in questi decenni innumerevoli termini nuovi 
di chimica, come per es. boro, cloro, alluminio, calcio, iodio, sodio, 
destrina, glicerina, paraffina, stearina, morfina, acido fenico, clorofor- 
mio, ecc. 

La medicina identifica la difterite, l’encefalite, la flebite-, studia il tifo, 
la cirrosi, i vibrioni, i batteri, ecc. S’adopera V auscultazione-, si sviluppa 
l’igiene-, sorgono l’omeopatia e frenologia, acquistando molti seguaci 
(dalla frenologia dipende la locuzione avere il bernoccolo per «avere 
una spiccata capacità»). 

Molti nuovi vocaboli sono foggiati dagli zoologi (per es. plantigradol 
e dai botanici; alcuni che eran solo adoperati nei trattati scientifici, 
penetrano nell’usp comune. Per es. libellula entra ora dal latino in 
italiano 129 ; e così medusa-, il termine linneano di crittogame, che era noto 
solo agli specialisti, si divulga verso la metà del secolo, con la 
diffusione dell’oidio della vite, chiamato usualmente la crittogama. 

Similmente il gas, da termine di fisica qual era, diventa vocabolo 
usuale quando si propaga l’uso del gas illuminante (ne) secondo 
decennio del secolo). 

La geografia fisica comincia a parlare di alti piani o altipiani; i 
mineralogi coniano vocaboli come dolomite, i geologi studiano la 
stratigrafia delle rocce, coniando numerosi termini nuovi ( alluvionale , 
trias, lias, eocene, pliocene, devoniano, permiano, ecc.); nasce la paleon- 
tologia. 

E nascono numerose altre scienze o rami di scienze; per es. la 


125 Veramente già prima si era avuta la traduzione del trattato francese del 
Biot, L'architetto delle strade ferrate, Milano 1837. 

126 Vaporiera fu anche adoperato per «battello a vapore» («su le vaporiere del 
Po e dell’Adriatico, sino al porto di Fiume»: indirizzo di C. Cattaneo «Ai prodi 
Ungari», 5 aprile 1848). 

127 Messeri, in Lingua nostra, XVI, 1955, pp. 73-74. 

128 Bollettino delle str. ferrate, 12 marzo 1856 (cit. da Messeri, Lingua nostra, 
XVI, 1955, p. 9). 

129 Carena, Osservazioni intorno ai vocabolari della lingua italiana, Torino 
1831, p. 76. 


578* Storia della lingua italiana 

linguistica o glottologia, V antropometrìa; nascono tecniche nuove come 
la litografìa la fotografìa (dapprima daguerrottpia o dagherrottpwl 

SOr Ba?tino 3 Questi pochi cenni a dare una minima idea di ciò che ampie 
indagini metodiche, condotte per vari filoni potrebbero farci conoscere 

SUl I^rStaenlfderivaUvTsono quelli consueti, 

Sgi^TaK 

modello latino o moderno-, più spesso si tratta di formazioni ^dirette. 
Ecco per es. illacrimato (Foscolo), illodato (Perticari), impoetico O^opar- 
™ Gioberti ecc ) iìTipremiCLto ( Conciliatore ), inoffettuto 

SiSdi!: Sotto (Foscolo, eco ), infilo**™ 
(PeSii) inobbedito (Foscolo), inoffensivo (Pananti), trwa lutare ( oUett a) 
ecc ‘« Tra i prefissi elativi, abbiamo visto che 1 pur^ti hanno cercato di 
rimettere in vigore tra-, ma rimane prevalente stra- (gh Sirauttra, Giusti, 
irari p non mancano i supra- (supra-romantico, E. Visconti). 

Tra i suffissi notiamo la fortuna di -aio per formare voci scherzose: 
«vo’ siete - minestraio, lessaio, fritturaio, - pasticciaio amistaio poipet- 
taio» (Pananti, Poeta di teatro, c. 37), catalogato (Di Breme), arcolaio 
(GiustD 132 gesùitaio (Cattaneo), libertaio (Gargam), ecc. Il suffisso ^is 
S molta fortuna nel linguaggio politico (cfr. p. 572); ma è pertanto 
nmH i itti vo come nome di professione: appare ora per es. pianista. 

P Meriterebbe anche studiare la fortuna intemazionale di alcimi 
suffissi nella lingua scientifica: per es. -oide m asteroide, metalloide, 

ant n >P uffisso tC -iz°are è molto in voga, secondo il modello francese, 
specialmente nel linguaggio burocratico 

SSSl Sire e universalizzazione )“. I puristi- Festeggiarono forte- 


parola è latina. Mi prendo la libertà di feria itabans, perché fatalmente s «tende, 
iacch?»l VSrè di to rto «1 yie n fetfe « .lurtdare^ 

? StSSS u , a 

d ’ invece por evitare i corrispondenti verbi m -izzare, usa 

° r8a ™E Miche^^pialche^CTiùor^pir^osto^ 0 *^®^® 1 ^^®^^ 1 ^ 

sssfit ri sssjrrt ss» *fir M 


/I Primo Ottocento 


579 


mente, e ciò spiega come molti verbi in -izzare, in voga in questo 
periodo, siano poi spariti (per es. mobilizzare è stato sostituito da 
mobilitare ). 

La derivazione immediata dà origine a numerosi deverbali nel 
linguaggio burocratico: accompagno, allargo, ammanco, sodisfo, spreco-, 
compensa, consegna, ecc. Avviene ora il passaggio da agricola sost. ad 
agricolo agg. 13S , sotto l’influenza dell’analogo regnicolo 138 e del fr. 
agricole agg. 

Frequenti sono le sostantivazioni di aggettivi, sia nel linguaggio 
scientifico (il calorico, Yelettricoì, sia in quello burocratico (il consuntivo, 
il preventivo ). 

Tra i composti, è sempre in auge il tipo imperativale per indicare 
persone, come arruffapopoli (Giusti), sciupateste (id.), vendilettere (Fosco- 
lo), oppure cose, come paracadute, paragrandine, paralume™, tornacon- 
to, ecc. 

1 composti con elementi greci e latini abbondano specialmente nel 
linguaggio scientifico (v. più oltre, § 19); e fra essi non mancano gli 
ibridi (per es. neonato ). Molto rari sono invece i composti di altri tipi, 
quali cormentale (Maroncelli), codafestante (Nievo). Si ha perfino qual- 
che formazione per mezzo di sigle-, il Lampredi per satireggiare la sigla 
U.F. (Ugo Foscolo) ne aveva tratto un verbo ufeggiare 138 . 

Avvengono anche numerosi mutamenti semantici, in conseguenza 
di mutamenti di cose o di concetti, avvenuti in Italia o fuori: per citar 
solo qualche esempio, ecco il nuovo significato politico attribuito a 
rosso o a destra e sinistra ; la predicazione mazziniana trasporta 
numerosi vocaboli dalla sfera religiosa a quella patriottica ila nostra 
Religione nazionale, ecc.). Ecco esposizione che prende valore concreto. 
Panificio, che nel ’700 significava «panificazione», prende il significato 
di «forno» (con qualche pretesa). Carrozza, che si riferiva solo al veicolo 
a cavalli, si applica anche ai carrozzoni ferroviari, e così pure treno 
passa dal significato di «equipaggio signorile o militare» a quello di 
«complesso di carrozze o carri ferroviari». Vettura passa dal significato 
astratto di «trasporto» a quello di «carrozza». 

Anche nella terminologia scientifica abbiamo mutamenti dovuti 
all’inquadramento in nuovi sistemi concettuali: fossile, che prima 
indicava qualunque corpo facente parte della crosta terrestre, è 

operaie» (Scritti letter., I, p. 117 Bertani); il D’Azeglio, parla di «quel sistema che nel 
dizionario vandalo-burocratico porta il nome di centralizzazione». 

135 Attraverso la fase di agricola aggettivato invariabile (cfr. carta moschicida) 
che si ha ancora nel Romagnosi: «un nocciolo agricola e industriale» (Dell'indole e 
dei fattori dell’incivilimento, p. 238 Sestan). 

■” Migliorini, Saggi Novecento, pp. 147-149. 

lsr 11 Leopardi, nelle Operette morali («Proposta di premi fatta dall’Accademia 
dei Sillografi») immagina che «di mano in mano si abbiano a ritrovare, per modo 
di esempio (e facciasi grazia della novità dei nomi) qualche parainvidia, qualche 
paracalunnie o paraperfidia o parafrodi...». 

1M Tommaseo, Dizionario estetico, 4“ rist., Firenze 1867, col. 380. 


580 


Storia della lingua italiana 


Il Primo Ottocento 


581 


limitato al principio dell’Ottocento 138 ai resti di antichi organismi. 
Parecchi nomi di personaggi noti assumono valore metafonco, come 
un Figaro , un Dulcamara, un Mefistofele, un Azzeccagarbugli, una 
Perpetua 1 * 0 , un Cameade (ignoto a don Abbondio, perciò «persona 
ignota»), un Girella, ecc., ovvero metonimico - come un napoleone d oro 
_ i41 ; e non meno numerosi sono i vocaboli provenienti da nomi di luogo 

(un marengo). . „ n 

Le parole, come è ovvio, vanno esanimate non una per una, ma nel 

loro campo semantico: così vediamo che il deterioramento e la 
progrediente sparizione di servo e servitore vanno considerati insieme 
con l’uso più esteso di domestico. E proprio questo esempio ci mostra 
come non si debba mai dimenticare la forte influenza esercitata sulla 
semantica italiana dal modello di altre lingue, e specialmente dal 
francese 

All’apparizione di un nuovo oggetto, talvolta il nome tarda a 
fissarsi: quando anziché piegare i fogli delle lettere si cominciano a 
usare le buste, per un pezzo il nome oscilla: si ha il francese enyeloppe, 
o l’adattamento inviluppo, o sopraccarta, o sopraccoperta, finché busta 
prevale. E così si hanno, accanto a indirizzo, i termini soprascritta, 
soprascritto, direzione o anche talvolta mansione, missione. 

La possibilità d’adoperare due o più parole per esprimere 1 identica 
nozione è, come si sa, cosa frequente in italiano: non c è differenza 
concettuale fra Costituzione e Statuto (nel senso in cui la parola tu 
adoperata da Carlo Alberto nel 1848); si esita a lungo fra patata e pomo 
di terra ■ fra grappolo, pigna e ciocca-, fra crestaia e modista-, fra balocco 
e giocattolo-, fra pedignone, gelone e buganza-, tra fazzoletto, pezzuola e 
moccichino 1 * 2 , ecc.: l’uso pratico è oscillante, e i lessicografi consigliano 
l’una o l’altra forma secondo la loro provenienza e le loro teorie. 

Sia queste varianti lessicali, sia le minori varianti formali di un 
vocabolo medesimo sono assai numerose. „ 

La Crusca, come è noto, registrava, nella sua 4 a edizione e nel 
rifacimento del Cesari, molte varianti arcaiche; e abbiamo detto come 
il Monti (seguito dal Gherardini e dal Cattaneo) insistesse perché 
fossero tolte di mezzo le «depravazioni degli ignoranti »-.paralello, 
sanatore, ecc. Il Leopardi, annotando una sua canzone (IX, v. 43), 
avverte per giustificarsi d’aver usato fratricida- «Il Vocabolario dice 
solamente fraticida e fraticidio. Ma io, non trovando che Abele si 
facesse mai frate, chiamo Caino fratricida e non fraticida ». 

Ma scrittori più ligi all’autorità della Crusca si attenevano alle 
forme in essa registrate: per citarne solo uno, il Manno, nel suo trattato 


■39 probabilmente per influenza francese-, cfr. gli esempi cit. da F. Rodolico, 

Ll ^SS^er^Giudici al Manzoni, prob. del 1830, si parla della 
«disinvolta Perpetua» di un vecchio parroco (Manzoni, Carteggio, II, p. 639). 

141 Migliorini, Dal nome proprio, pp. 197-198 e passim. 

uà Ne i Conciliatore (29 ott. 1818) il Di Breme scrive pannolmo di tasca. 


Della fortuna delle parole (Torino 1831, più volte rist.), scriveva cucuzzo- 
lo, sustanza, fenestrella, nimico, nissuno, nudrimento, instruzione, sagro, 
ecc. Viceversa il Manzoni preferiva, specialmente nella redazione del 
1840, le varianti del fiorentino parlato: lazzeretto, maraviglia, suggezio- 
ne, ecc. Un valente antitoscano, il Gherardini, cercava di accreditare 
con i suoi scritti grammaticali e lessicografici numerose varianti 
rimodellate sul latino: vulgo, dubio, febre, atimo, catolico, legitimo, 
academia, scelerato, contraporre ; esaggerare, commune-, secreto-, ecc.; si 
proponeva di generalizzare la distinzione fra in- negativo e inn- 
«immissivo» tinnalveare, ecc.), ecc. 

Se avessimo larghi spogli delle singole parole che presentavano 
varianti, troveremmo insomma una serie di coppie o di teme notevol- 
mente più ampia di quella odierna-, e guardando le forme più usate 
troveremmo ogni tanto che sono diverse dalle nostre. Così fisonomia 
prevale di gran lunga su fisionomia, tremuoto è ancora frequente di 
contro a terremoto, tuono s’adopera spesso anche col significato di 
«tono» 143 , nodrire (usato per es. da Pindemonte, Borsieri, Pellico, 
Perticali, G. Torti, Guadagnoli) e nudrire (che troviamo in Guerrazzi, 
Farini, A. Maffei e persino nei Promessi Sposi, cap. IX) prevalgono su 
nutrire. 

In alcune voci notiamo la lotta tra -er- fiorentino e -or- del resto 
d’Italia: lazzeretto (registrato dalla quarta Crusca con un esempio del 
Malmantile e uno di Galileo) alterna con lazzaretto, che poi prevarrà; 
nel medesimo articolo del Pecchio, nel Conciliatore del 30 sett. 1819, 
leggiamo Ungheria, ma ungarese-, Giovanni Torti nello stesso poemetto 
(«Scetticismo e religione») scrive a pochi versi di distanza vecchierella e 
vaccherella, na «chiesa villareccia »; nel «Cadetto militare» del Guada- 
gnoli il v. 18 suona aretinamente Scioccarello! Vanarello!; il Giusti 
adopera con quasi altrettanta frequenza -eretto e -aretto. Il Manzoni 
sostituì il santarella del ’27 con santerella. 

Tra le innumerevoli varietà a cui dà luogo l’adattamento dei 
latinismi, ricordiamo l’oscillazione tra i suffissi atoni -olo e -ulo, che è 
anche più forte di oggi: accanto a cumulo si ha cumolo, immaculato 
accanto a immacolato, formolo è più comune di formula-, ecc. 

Anche l’adattamento dei gruppi consonantici dà luogo a forti 
oscillazioni: sia che avvenga anche dove poi prevalse la forma non 
assimilata (il Leopardi scrive Calisso per Calipso, il Manzoni annegazio- 
ne per abnegazione, il Mussafia, 1857, preferisce circollocuzione), sia nel 
caso contrario (il Rosini, 1808, scrive scepticismo). 

Lo scambio fra -iere e -iero è larghissimamente ammesso, non solo in 
poesia Icavaliero, Foscolo; mestiero, Pananti; pensiere, forestiere, Guada- 
gnoli), ma anche in prosa: il Leopardi scrive passeggere, il Borsieri 
bicchiero, il Carrer battelliero. 


14S II Grassi, Saggio intorno ai sinonimi, s. v. tuono, propose di distinguere fra 
tuono («rumore della folgore», «fragore») e tono (di voce, ecc.) ma solo nel nostro 
secolo la distinzione arrivò a imporsi. 


582 


Storia della lingua italiana 


Il Primo Ottocento 


583 


Pulmonia e polmonèa si trovano accanto a pneumonia e pneumoni- 
te. Ossigene e idrogene cedono lentamente a ossigeno e idrogeno. 

Talvolta il mantenimento dell’una o dell’altra forma è legato alle 
consuetudini ufficiali (amministrative, giudiziarie) dei singoli stati: così 
oscillano officio, ufficio e uffizio- officiale e ufficiale-, procedura e 
processura ; fidecommisso , fideicommisso e fedecommesso; garantia , 
guarendo è guarentigia (mentre garanzia appare molto tardi: nel 1865 

secondo il DEI). . 

A molte varietà dà luogo, come già abbiamo accennato, 1 accettazio- 
ne delle parole forestiere. Una fonte di divergenze è intanto il 
mantenere o no la grafia originale: burò o bureau-, valz, valtz, walser , 
walzer. I nomi del calendario repubblicano francese sono variamente 
adattati: fiorile e floreale-, nelle sue lettere il Foscolo scrive vendemmiese 
nell’anno Vili (1799) e vendemmiatore l’anno successivo {Epistolario, I, 
p. 73 e p. 87). Nell’accettare il sistema metrico decimale si oscilla fra 
gromma e grammo, ara e aro. Gendarme sta accanto a giandarme (così 
scrive, per es., il D’Azeglio). Accanto a trovatore, forma già adoperata, 
da secoli, c’è chi preferisce trobadore (Romagnosi). Scoppiano le grandi 
epidemie di cholera morbus (dal 1832 in poi), e il nome colera, che prima 
nel linguag gio dei medici era sdrucciolo e significava «colica biliosa», 
ora è pronunziato còlerà ora colèra, ora è maschile ora femminile 144 . 
Vengono introdotti i sigari e c’è chi dice sigaro, chi cìgaro, chi zìgaro, né 
manca chi preferisce sigarro. Accanto a giaguaro si ha giagaro 
(Tramater) e sciaguaro (Leopardi). Chi scrive fetìccio, chi fetisce, mentre 
il Gioberti preferisce fetisso. E si potrebbe continuare senza difficoltà 
l’elenco. 


17. Voci popolari moderne 

Più che nei secoli passati la lingua letteraria (fatta eccezione per 
quella poetica nei «generi» più illustri) è incline, specialmente dopo la 
diffusione delle idee romantiche, ad accogliere voci di conio popolare, 
attinte alla lingua parlata. 

Per i Toscani la cosa avviene in modo spontaneo, spesso senza che 
se ne rendano conto: ce ne accorgiamo specialmente quando ricorrono 
a vocaboli di area un po’ ristretta. Il mugellano Pananti scrive non solo 
scagnozzo, ma mascagnotta «ragazza furbacchiona», far la stummia 
«darsi importanza», ecc. 

Il Giusti, che aveva attento l’orecchio alla parlata popolare e 
godeva di incastonarne parole e modi di dire nei suoi scritti in prosa e 
in poesia, adopera, per es., altogatto «pioppo», balenare nel senso di 


i4« Migliorini, Saggi linguistici, p. 79. Cfr. anche in un sonetto del Belli (4 
agosto 1835): «Bbasta, o sse chiami còllera o eco libra...», e la discussione nella 
Strenna per il 1885 del Vefatti, s. v. cholera. 


«vacillare», chiòvina «fogna», gorga (femmina gorga «astuta»), meggio- 
na «donna grassa», rave «dirupo», scianto «spasso», storgere («torcere il 
muso»), trullaggine «scioccaggine», ecc., e locuzioni come trovarsi di 
balla («d’accordo»), montare i fùteri («la collera»), aver più debiti della 
lepre, ecc. 145 , qualche volta affettatamente accumulandole: «scegliere 
una città così piccola ILuccal per una adunanza tanto solenne (il 
congresso dei dottil è un voler mettere l'asino a cavallo-, pure quei 
Lucchesi si arrabattarono tanto da levarne le gambe meglio che non si 
sarebbe immaginato». Il duca «se la batté a Dresda... perché bollendogli 
a mala pena la pentola per sé e per i suoi sentiva di non poterne uscire 
con onore» Getterà 12 ottobre 1843, I, p. 535 Martini); «da un’ora 
all’altra potevano accaparrarsi altri e fare la barba di stoppa a 
Francesco Domenico, il quale era sull'undici once o di doventar 
dittatore o di tornare al pane di ghianda » ( Cronaca dei fatti di Tose., p. 
187 Pancrazi) 146 . 

Il Guadagnoli, aretino, adopera fitta nel senso di «gran quantità » 147 
gazzerare per «ingannare», ecc. 

Il Guerrazzi usa alcune voci e locuzioni livornesi: brameggio «esca», 
caso morto e caso vivo «disgrazia grave, disgràzia lieve», diligine 
«smilzo», mattarullo «scimunito», novitoso, sbrizzarsi «sparpagliarsi», 
mettere a picca «incitare», a vanvara, ecc. 148 . 

Mentre i Toscani non fanno che attingere al loro idioma spontaneo, 
molti non Toscani cercano d’informarsi come possono-, e accade non di 
rado che ricorrendo ai vocabolari s’illudono di adoprare vocaboli della 
lingua parlata, mentre si tratta di voci ormai cadute fuor d’uso. 

Nella sua ragionata adozione del fiorentino colto come norma 
dell’italiano scritto, il Manzoni si valse metodicamente, per correggere 
il testo del 1825-27, dei suggerimenti del Cioni, del Niccolini, del Borghi 
e poi dell’Emilia Luti: è così che sostituisce chicche a dolci, filastrocca a 
lunga enumerazione, impiparsene a ridersene, pezzo d’asino a matto 
minchione, pigionale a inquilino, ecc. Non sempre, come si sa, egli 
seppe evitare le esagerazioni 149 e i malintesi, come l’improprio tafferia 

145 Qualche volta il Giusti ha degli scrupoli: dopo aver adoperato nel 
Gingillino «oggi s’insacca - la carne a macca » chiese al Francioni, accademico 
della Crusca, se la locuzione fosse documentata-, si difese (Epist., II, p. 484 Martini) 
per aver adoperato le espressioni sfilinguellare e giubba sversata-, ecc. 

148 II glossario con la «Spiegazione di alcune voci e locuzioni tratte dalla 
lingua parlata» che accompagna l’ed. Le Monnier (1852) dei Versi editi e inediti e 
l’analogo glossarietto unito ai Consigli, giudizi, massime, pensieri tratti dalle opere 
di G. Giusti contengono molte centinaia di vocaboli tratti dai versi e dalle prose di 
lui: ma la grande maggioranza di essi erano già stati adoperati da scrittori. 

147 La parola è usata anche dal Giusti, e registrata (senza esempi) dal 
Manuzzi. 

148 Beccarli, in Lingua nostra, IV, 1942, pp. 58-60. 

149 Come quando l’oste della Luna Piena riferendosi a Renzo lo chiama quel 
bel cecino. Sulle sue orme il Grossi (Marco Visconti, c. XXV) mise in bócca al 
Tremacoldo queste parole: «tu hai un cavallo più grosso, cecino mio bello e 
galante». 


584 Storia della lingua italiana 

nel cap. VI 150 o accozzare il pentolino in luogo di accozzare i pentolini 
«mettere i cibi in comune» nel cap. XXIX 151 . Egli continuò poi sempre a 
cogliere ogni occasione per imparare espressioni di lingua viva e 
comunicarle agli amici della sua cerchia 152 . 

Vediamo così che, in parte nella scia del Manzoni, scrittori non 
toscani, il Grossi, il Cantò, il Tommaseo 153 , il D’ Azeglio e tanti altri 
attingono (in vario modo e misura e con risultati diversi) parole e 
locuzioni dal toscano parlato. 

Accade, in definitiva, che parecchi vocaboli prima ignoti o rarissimi, 
penetrino nell’uso comune: tanto per citare qualche esempio, bécero, 
canèa, figuro 15 *, sbraitare 135 ; il Gelmetti 155 attribuisce al Giusti la divulga- 
zione di birba, musoneria, vattelappesca, ciurlare nel manico, grattarsi 
la pera, sbarcare il lunario, ecc.-, il Nieri 157 gli attribuisce la fortuna di 
spadroneggiare. 

Ma anche voci dei dialetti o delle lingue regionali emergono 
largamente in questo periodo. Anzitutto nell’uso pratico. Affiorano, per 
esempio, nell’uso amminis trativo del Regno Italico, numerose voci 
lombarde che i repertori del Bemardoni e del Gherardini ci fanno 
conoscere: e non sono soltanto termini d’ufficio, come finca «incolonna- 
tura in carta per conti d’ufficio» 153 , o ragionateria accanto a ragioneria, 
ma voci riferite a quelle infinite cose di cui l’amministrazione si occupa: 
accaparrare 153 , anta, caseggiato, locale (sostitutivo), prestinaio, roccolo, 
tavolo, ecc. 

Qualche altro di questi idiotismi è registrato alcuni anni più tardi 
(1831) dal Lissoni, per es. mantino, mentre per l’Emilia possiamo 


130 Barbi, Annali manzoniani, 1, 1939, pp.. 178-180, Bianchi, ivi. III, 1942, p. 70L 

151 II Barbi, La nuova filologia, p. 222, tentò di difendere l’espressione 
manzoniana; ma cfr. Bianchi, Ann. manz.. Ili, p. 312. Il Giusti, nella Cronaca dei 
fatti di Toscana, p. 71, ha riunire i pentoli. 

152 II 27 settembre 1852 scrive «dia moglie: «ho attaccata al muro (così ho 
saputo che si dice ora, e Stefano lil figliastro] lo può scrivere a Rossari) anche la 
voglia di Pistoia e di Volterra» [Manzoni intimo. III, p. 28). 

153 II Cattaneo protestava contro le parole che il Tommaseo avrebbe «con 
tanto studio razzolate lungo i pagliai di Val d’Elsa o dentro gli ossarii della 
Crusca» per inserirle in Fede e bellezza l Scritti letter., I, pp. 114-126); il Bajberti non 
gli sapeva perdonare d’aver adoperato polendo nell’elogio del Rosmini, Il Viaggio 
di un ignorante, Milano 1857, p. 152). 

1M L’adopera il Giusti, e il Tommaseo in una lettera del 1834 al Vieusseux ne 
avverte ancora il carattere regionale: «quel che in Toscana si dice figuri ». 

155 Se ne ha qualche raro esempio toscano dal '500 in poi; l’Alberti lo 
registrava come «voce bassa». 

158 La lingua parlata di Firenze e la lingua letteraria d’Italia , II, 1864, pp. 308- 

309. 

ls7 Pref. al Vocabolario lucchese, § 55. 

153 Dev’essere voce penetrata al tempo della dominazione spagnola, e che 
solo ora emerge. Similmente affiora (dai dialetti meridionali) l’antico ispanismo 
disguido (cfir. Lingua nostra, IX, p. 73). 

130 I vocabolari registravano solo le forme toscane caparrare o incaparrare: 
cfr. il Bemardoni, e il Gherardini che lo contraddice. 


Il Primo Ottocento 585 

conoscerli dal Molossi, per Roma dall’Azzocchi (che biasima, per es., 
biocca, dindaroloì, per Napoli dal Ruoti. 

Se si diffondono gli oggetti, naturalmente si divulgano anche i loro 
nomi, come è il caso dei grissini piemontesi, dello stracchino lombardo, 
dei cotichini ( cotechini , coteghini ) emiliani. Il vocabolo lombardo di 
brusone, nome di una malattia del riso, è ammesso anche dagli scrittori 
toscani quando parlano di risaie 160 . In alcuni rari casi abbiamo notizie 
sicure su passaggi da città a città o da regione a regione: per es. il 
Moroni (nel Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, s. v. «Universi- 
tà») ci attesta che a Roma «dal 1860 si sono introdotti legni a un 
cavallo, volgarmente detti botte, ad imitazione di Napoli, dove la corte 
si era ritirata sul declinar del 1848». 

Dialettalismi affiorano anche nella lingua letteraria in misura 
diversissima secondo gli autori, secondo il «genere» e il tono, più o 
meno confidenziale, secondo gli argomenti. Essi abbondano special- 
mente nei carteggi di quelli che si servivano del dialetto con i familiari 
e gli amici. Il Foscolo, nelle lettere ai familiari, non si fa scrupolo di 
scrivere venetamente «temo bensì che la vera (= «l’anello matrimonia- 
le») non sia troppo stretta per la mamma» Qettera 26 sett. 1814). Il 
Manzoni nelle lettere confidenziali adopera spesso voci dialettali 
italianizzate: «mi vien voglia di giavanare » («perder tempo in scioc- 
chezze»), lettera del 1822, « pivelli rispettosi, ma feroci», lettera 9 marzo 
1822, «vite uccellino» («vite selvatica»), lettera 9 nov. 1830, «appena 
sarà arrivata un’altra gubbia » («attacco di tre cavalli o muli»), lettera 
14 sett. 1852; talvolta, specialmente con l’amico Grossi, ricorre a 
espressioni dialettali: «tu ci hai brusàa el pajon », lettera del 1825. O, per 
citar solo un altro esempio, leggiamo nel carteggio di Michele Amari: 
«certe volte sferru a scrivere e non la finisco più» Qettera 29 nov. 1848). 

Nelle opere letterarie d’impegno bisogna distinguere fra i dialettali- 
smi sfuggiti agli autori in quanto non si rendevano conto che erano tali, 
e viceversa le voci consciamente adoperate per raggiungere scopi 
documentari (il color locale o il colore storico di narrazioni ambientate 
in certi luoghi e certi tempi) o fini stilistici. Valgano alcuni casi fra i 
molti che si potrebbero citare. 

Il Leopardi, che aveva scritto pesciarello nella prima edizione del 
Dialogo della moda, nell’edizione del ’35 preferì pesciolino. 

I Promessi Sposi del ’25-’27 sono pieni di lombardismi, in buona parte 
involontari 161 , e malgrado la rigorosa intenzione dell’autore di eliminar- 
li del tutto, alcuni ne rimasero nell’edizione del ’40 162 . 

II Romagnosi dice che «la violenta sovversione eseguita da Siila, 
lungi dal dover affrettare la caduta della repubblica ne avrebbe anzi 
rinvigorite le suste » (cioè «le molle, i meccanismi») {Dell’indole e dei 
fattori dell’incivilimento, 1829, p. 149 Sestan). 


100 Canevazzi e Marconi, Vocabolario di agricoltura, s. v. 

131 Molto se ne è scritto: basti vedere D’Ovidio, Correzioni, pp. 34-46 
1(0 Bianchi, Annali manz., III, p. 299. 


580 


Storia della lingua italiana 


Nelle Confessioni di un Italiano del Nievo i venetismi (involontari e 
volontari) pullulano: bagiggi «arachidi», coppa «nuca», guantiera «vas- 
soio» resta «lisca», secchiaio «acquaio», sfregolare «stropicciare», ecc. 
Gli stessi o altri venetismi troviamo anche nelle opere minori Ul Vanno , 
ecc ) ^ 

Numerosi dialettalismi appaiono poi, con valore tecnico, in opere 
documentarie, come descrizioni geografìco-etnografiche e simili: il 
Cattaneo, nelle Notizie naturali e civili su la, Lombardia, 1844, parla 
dell’uso di coltivare «a ronchi le pendici dei monti», il p. Bresciani, 
trattando Dei Costumi dell’isola di Sardegna, 1850, descrive per es. 
«una lor danza a suono della lionedda », ecc. 

Rarissimi sono invece i dialettalismi nella lingua poetica; qualcuno, 
se mai ne appare in poesie di tono familiare. Il Monti, nella traduzione 
di Persio parla della «raschiatura - del rigustato salaria » servendosi di 
una voce ferrarese (e veneta). E il Pananti in un componimento di tono 
andante come il Poeta di teatro, parla «De’ buoni maccheroni col 
sughillo » (c. XXXVII), termine di color locale (pseudonapoletano), il 
Mamiani adopera roccolo «specie di paretaio» nell’idillio Rispetti dun 
Trasteverino, e lo difende nella prefazione come voce delle Marche e del 
Lazio (era anche, come s’è visto a p. 584, settentrionale). 

Abbiamo detto già (p. 543) quanto spiacesse ai critici lo sferlato del 

Prati. 

18 . Voci letterarie ed, arcaiche 

Nella lingua poetica regna sempre il lessico tradizionale, in cui 
sussistono moltissime voci ormai morte nella lingua parlata e nella 
prosa corrente, e si continua a ricorrere ai latinismi (dei quali 
discorreremo fra poco). Come esempio di versi studiatamente ncchi di 
arcaismi trecenteschi può valere l’Appressamento della morte del 
Leopardi tatare «aiutare», roggio «rosso», ecc ). . 

Abbiamo già accennato (§ 7) come la tradizione sia cosi forte da 
imporsi non solo ai classicisti, ma anche ai romantici, malgrado ì loro 
sforzi per un rinnovamento in senso realistico. 

Ma an che nella prosa abbiamo potenti filoni di conservazione e, in 
alcuni scrittori, di arcaismo. Anzitutto sussistono centinaia di vocaboli 
tradizionali che poi spariranno, adoperati non solo dagli scrittori 
classicisti ma anche non di rado da quelli romantici: per es. esumazio- 
ne, eziandio, guiderdone, laudare, nomare, otb)blivione, permissione, e 

Il ritorno dei classicisti e dei puristi agli scrittori antichi fa sì che in 
essi troviamo anche molti altri termini volutamente esumati: leggiamo 
nel Cesari auspizio, capitanio, carminare «esaminare rigorosamente», 
orrevole, poffare, sempremai, soprano e sottano 163 , sozio, tornagusto, 


In una versione dal latino, il Cesari aveva scritto «tutte le genti alpigiane, 


163 


Il Primo Ottocento 


587 


ecc.oltre a numerose frasi come andare in cappa, ecc.; eppure il Cesari 
professò di voler evitare arcaismi come diffalta, dottanza, ecc., e alle 
ripetute accuse d’aver scritto carogna per «corpo morto» 164 , sfidò gli 
avversari a citare il luogo. 

Il Botta scriveva convento «adunanza», girandola «raggiro», mae- 
strato «magistrato», masserizia «risparmio», rivilicare «frugare», sospi- 
ntone «sospetto», ecc. 

Particolarmente notevole è l’uso che fa delle parole antiche il 
Leopardi: egli ne usa largamente nella sua prosa 165 , ma cerca di 
distinguere le parole ancor rawivabili dai veri arcaismi: 

Odio gli arcaismi, e quelle parole, ancorché chiarissime, ancorché espressivis- 
sime, bellissime, utilissime, riescono sempre affettate, ricercate, stentate, massi- 
me nella prosa. Ma i nostri scrittori antichi, ed antichissimi, abbondano di parole 
e modi oggi disusati, che oltre all’essere di significato apertissimo a chicchessia, 
cadono così naturalmente, mollemente, facilmente nel discorso, sono cosi lontani 
da ogni senso di affettazione o di studio ad usarli, ed insomma così freschi (e al 
tempo stesso bellissimi ec.) che il lettore il quale non sa da che parte vengano, 
non si può accorgere che sieno antichi, ma deve stimarli modernissimi e di zecca; 
parole e modi dove l’antichità si può conoscere, ma per nessun conto sentire... E 
sebbene dimessi, e ciò da lunghissimo, o nello scrivere, o nel parlare, o in 
ambedue, non paiono dimenticati, ma come riposti in disparte, e custoditi, per poi 
ripigliarli 186 . 

Il Gioberti arcaizza ecletticamente: animastico, bugiare, celabro, 
chieresia, miluogo, norie, saporetto «leccornia», soprano, sozzopra, tribo, 
ecc.; spesso adopera in barbagrazia «verbigrazia, per esempio» (attinto 
ai poeti burleschi). 

— Un genere in cui gli arcaismi abbondano è l’epigrafia: «Qui dorme - 
Nunziata di Luigi Fossati - Fancellina soavissima e dolcissima» (Gior- 
dani). 

Abbiamo visto come anche negli scrittori romantici si trovino 
numerosi vocaboli rari, disusati, arcaici (fra i quali non sono tuttavia 
da includere i vocaboli storici, riferiti a istituzioni e costumanze dei 
secoli trascorsi). La presenza di tante di queste parole non dipende da 
intenzioni arcaicheggianti, ma dal modo libresco di apprendere la 
lingua. Così troviamo cocchio, compungimento, doppiere, forese, garzon- 
cello, rangolo, sanie nei Promessi Sposi del ’25-’27; aere, egro, esponimen- 
to, garrire, martirare, nomare, trabocchello nelle Mie Prigioni del Pellico; 


che dal soprano mare al sottano tenevano», e se ne lodava così col Manuzzi 
Getterà del 12 marzo 1828 ): «Torcerassi per avventura il naso da alcuno al sottano 
e soprano-, ma noi muterei, se sperassi di piacere a Semiramide stessa». 

164 «Al Cristo morto potè dir carogna », secondo l’accusa del Villardi ( Varie 
operette, Padova 1832). 

165 V., per le Operette morali, F. Colagrosso, Le dottrine stilistiche del Leopardi 
e la sua prosa, cit., pp. 100-114, F. Moroncini, Discorso proemiale all’edizione delle 
Operette, pp. xux-l; E. Bigi, Dal Petrarca al Leopardi, cit., pp. 118-121. 

166 Zibaldone, 28 maggio 1821, 1098, I, p. 738 Flora. 


588 


Storia della lingua italiana 


satollo forbottare, gavazza, lampaneggio «veglia all aperto», tomiello 
«torneò» nella Margherita Posteria del Cantù; farsi trinanti nell Aman, 

eCC Il Capponi, accortosi d’essersi lasciato sfuggire un testé, lo conside- 
ra «come un vaso etrusco nel fondo d’un ipogeo »‘f. . ,. 

Anche nel linguaggio di solito andante di memorialisti e di giornali 
sti appaiono non di rado forme molto letterarie o arcaiche: per es. 
nell’opera del Farini Lo stato romano dall’anno 1814 ai nostri giorni, 
Torino 1850-53, leggiamo chieresia, le peccata, satellizio, scelleranza 
sitire ecc • il De Laugier, che di solito usa una lingua scorrevole e 
spesso sciatta, scrive a notte avanzata riedo in mia casa, pria di 

rispondere il Prence comanda e simili. . 

P Tutt’altra cosa è l’uso scherzoso o ironico di arcaismii come 
1 ’unquanco deUa conclusione della Lettera semisena di Grusostomo: E 
tu, allorché uscirai di collegio, preparati a dichiararti nemico do gru 
novità, o il mio viso non lo vedrai sereno unquanco. Unquoneo. dico e 
questo solo avverbio ti faccia fede che il Vocabolario della Crusca io lo 
rispetto...»- o come in ima lettera del Manzoni al Grossi del 1822: «il 
cocchio e l’auriga sono ai tuoi comandi» ( Carteggio , II, P- 42). Una_satira 
degh arcatemi^ scrive J. Landoni sotto il nome di Maestro Ircone, 
fingendosi purista: 

non v’ha uno membro della nostra Setta, che non conosca la difficultate smnma 
dello avere allo impronto comente uno arzenà di vocaboli li pm straiu ed ignoti di 
frasi ed Sitìfrarile più viete ed obsolete, di bellissimi modi li più abstrusi e 
mutati delli quali novissimi e leggiadrissimi abbellimenti nnfarciata e repleta la 
orazione d’inespUcabile dolzore tutto lo leggente monda . 

Più tardi la «diceria» di G. T. Gargani Di Braccio Bracci e degli altri 
noeti nostri odiernissimi, la Giunta alla derrata degli «Amici Pedanti» e 
la Risposta ai giornalisti fiorentini del Gargai (Firenze 1856) ostenta- 
no frequenti arcaismi, conforme alla professione di «pedanti» fatta 

dag È assaTdifficile dire quante e quali voci siano stat<^esta^atenel 
nrimo Ottocento- possiamo averne in qualche modo un idea nel vedere 
che n nen^lenco°d?\mcaboli e locuzioni che il Borsieri- biasima nel 
Botta come inutilmente esumati (mai sì, mai no, all alenante «a. 
proporzione», popoleschi, dar la spogliazza «predare» confortarsi .cogli 
abietti «con baie», ecc.) ve n’è anche alcuni che oggi adoperiamo senza 
scrupolo come aver alle costole e rinfocolare. 

E il De Sanctis, nell’articolo su «L’ultimo dei puristi» (nst. nei Sagg 


Z g" SstroT^r°B2^o n D^£pufrm ^rejo,uio ^na prisca 
ito p Borsieri. Avventure letterarie di un giorno, Milano 1816, p. 42. 


Il Primo Ottocento 


589 


critici), elenca tra i modi cari ài marchese Puoti anche andar per la 
maggiore e tener per fermo, che oggi non ci stupirebbero. 


19. Latinismi 

È ovvio che si debbano comprendere sotto il nome di latinismi non 
soltanto i vocaboli attinti per la prima volta al latino durante questo 
periodo, ma anche quelli che erano tuttora sentiti come appartenenti 
piuttosto al lessico latino che all’italiano, benché fossero stati qualche 
volta adoperati nei secoli passati (per certo rispetto, possiamo dunque 
considerarli come vocaboli di uso letterario raro, come quelli che 
abbiamo esaminati nel paragrafo precedente). Così clade e procombere, 
adoperati dal Leopardi, già si leggevano nell’ Ariosto e nel Baretti; 
munuscolo e trutina sono nel Monti, ma già prima Lorenzo de’ Medici 
aveva usato munuscolo, è Biringuccio e Galileo trutina-, precingere del 
Foscolo era già nel Cavalca, e così via. Chiedersi se gli autori 
ottocentisti abbiano attinto agli autori latini o agli italiani antichi può 
avere un interesse stilistico per i passi singoli; ma quel che più importa 
è che il lessico latino è considerato come complementare a quello 
italiano. A proposito delTmcom.be della prima stanza della canzone Ad 
Angelo Mai, il Leopardi osservava {Annotazioni filai., canzone III): 

Queste ed altre molte parole, e molte significazioni di parole, e molte forme di 
favellare adoperate in queste Canzoni, furono tratte non dal Vocabolario della 
Crusca, ma da quell’altro Vocabolario dal quale tutti gli scrittori classici italiani, 
prosatori o poeti (per non uscir dell’autorità), dal padre Dante fino agli stessi 
compilatori del Vocabolario della Crusca, incessantemente e liberamente deriva- 
rono tutto quello che parve loro convenevole, e che fece ai loro bisogni o comodi; 
non curandosi che quanto essi pigliavano prudentemente dal latino fosse o non 
fosse stato usato da’ più vecchi di loro 171 . 

Abbonda di latinismi la poesia dei classicisti. Eccone qualcuno fra i 
moltissimi che si leggono- nel Monti: acervato, annuire, cassitèro «sta- 
gno», cicada, cipèro «pianta del papiro», comburere, crine, èpate «fega- 
to», larario 172 ,- nitente, oberato, transire 173 , versuto, ecc. 


171 E, per citare un solo altro esempio, si ricordi quel che il p. Mauro Ricci 
opponeva a chi biasimava annuire -. «Dicono che l’ha usato il Monti nell ’ Iliade. 
Altro che il Monti! l’hanno usato tutti i nostri padri latini; e secondo il mio misero 
giudizio, la fonte latina è buona fonte» {L’allegra filologia di Frate Possidonio da 
Peretola, Firenze 1861, p. 303). 

172 È evidente che il Monti avrà attinto questa parola non direttamente a 
Lampridio, ma agli archeologi del proprio tempo. 

173 Veramente, la forma transe che il Monti adopera nella Mascheroniana di, 
v. 163), «Pietà gridammo, ma pietà non transe - al cor de’ cinque», è un 
adattamento diretto, eccezionale, del perfetto latino transiit, a cui la somiglianza 
d’altri perfetti forti da parola è in rima con franse, pianse) mantiene il valore di 
perfetto. 


590 


591 


Storia della lingua italiana 

Ma anche nei poeti romantici i latinismi non mancano: callido 
(Poerio), cincinno (Cantù), lebete (il sospeso lebete non è altro che un 
«paiolo» nella novella romantica del Sestini Pia de’ Tolomei), pregnante 
(«una pregnante annosa», Manzoni), rabula (Pananti, Giusto, sonito 
(ManzonO, uliginoso (Grossi, Prati) e innumerevoli altri, in contesti 
stilisticamente ora felici ora no. 

Tra i prosatori, i latinismi nuovi e men nuovi sono più frequenti 
nelle opere degli scrittori che mirano a ima prosa illustre: per es. nel 
Foscolo delle lezioni pavesi, nel Botta (che ha per es. eruscatore, 
impellersi ). Il Leopardi ne ha non solo nelle opere più lavorate, nelle 
quali abbonda specialmente il latinismo semantico ( ferocia «superbia», 
imbecillità «debolezza», sentenza «opinione», ecc.), ma anche non di 
rado nello Zibaldone (illecebre, obruto, oppidano, tentarne ). Nello stile 
epigrafico essi spesseggiano: innubo, sospite, vivituro-, il Muzzi usò 
persino i comparativi celebriore e salubriore. - 

Nel Gioberti i latinismi e i grecismi addirittura pullulano: circumi- 
nessione, perennare, pistrino, satellizio, succedituro, ecc.; acroamatico, 
antagonia, cosmopolitia, steresi, zoolatrico, ecc. 

Spinte logiche e spinte affettive inducono singoli autori ad accoglie- 
re singoli latinismi o grecismi. Quando il Maroncelli nelle Addizioni 
alle Mie prigioni parla del «conte Bolza ed assedi suoi», vuol esprimere 
un ironico disprezzo. Quando il Leopardi scrive nello Zibaldone «io 
amo la |i.ovo9ay(a » (7 aprile 1827) per dire «mi piace di mangiar solo», 
gode nel richiamare eruditamente alla propria memoria Giuseppe 
Flavio che ha adoperato la parola in questo senso - o i lessici che lo 
citano. 

Eaun accumularsi e intrecciarsi di tali spinte si dovrà rassestarsi 
nel lessico generale di latinismi di significato generale, come blaterare 
o commerciale o monumentale o silenzioso (ma questi tre ultimi 
potrebbero anche essere gallolatinismi, giacché appaiono in francese 
prima che in italiano). 

Una vera inondazione di latinismi si ha nel campo della vita 
pubblica: nel diritto, nella politica, nell’amministrazione. Si pensi ad 
esempio a cassazione, collaudare, coscritto, deportare, dilapidare, eccepi- 
re, effrazione, evadere, lasso (di tempo), plebiscito, redigere, refurtiva, 
ripristinare, sowentore,tramite, utente, velite, vigile (sost.), ecc. 174 : anche 
qui si tratta in piccola parte di vocaboli attinti direttamente al lessico 
latino, nella maggior parte di franco-latinismi o di anglo-latinismi. I 
prefetti furono istituiti nel 1802, riprendendo il nome antico col nuovo 
significato francese; la cassazione è un istituto napoleonico; i veliti sono 
battaglioni aggiunti da Napoleone alla fanteria della sua guardia (e 
veliti troviamo in Piemonte anche dopo la Restaurazione). Il nome di 


,7 « Non pochi tuttavia sono comparsi e poi sono morti: egreferenza, enisso 
C enixus ), innutto Unnuptus ), ecc. Così non attecchì Ves torre (da extorris «esule dalla 
propria terra») esumato dal Cattaneo («ima delle tribù eslegi ed estorri sembra 
quella dei Zingari»: «Dell’India antica e moderna»). 


% S II Primo Ottocento 

centurioni fu dato a una milizia volontaria pontificia, istituita dal card. 
Bemetti; vigili furono chiamati a Roma i «pompieri» nel 1847; un 
battaglione dei reduci fu istituito a Roma nel 1848 sotto Pio IX, mentre 
poi la Repubblica FLomana rinnovò il nome di triumviri. 

La terminologia politica e parlamentare (.iniziativa, preventivo, 
consuntivo, commissione, mozione, ecc., conservatore, liberale, radicale, 
ecc.) consta quasi tutta di vocaboli latini (o di derivati-, costituzionale, 
assolutismo, comuniSmo, socialismo, cesarismo, ecc.) a cui sono stati 
dati i significati moderni in Inghilterra o in Francia. 

Il modo più frequente di designare un’invenzione, un’istituzione 
nuova o rinnovata è quella di darle un nome latino o greco, attinto 
all’antichità o coniato nuovamente: abbiamo già ricordato i fiammife- 
ri 175 , e altri vocaboli classicheggianti. Le ambulanze (nel senso di 
«ospedale ambulante») erano apparse al séguito degli eserciti napoleo- 
nici; si fondarono brefotrofi, orfanotrofi, manicomi (quello di Aversa si 
chiamò per un certo tempo morotrofioì, ecc.; per il gioco del pallone si 
eressero degli sferisteri. 

Abbiamo accennato (p. 577) al notevole ampliamento del lessico di 
varie scienze, parecchie delle quali stanno assumendo proprio in questi 
decenni la fisionomia che poi serberanno. In alcune di esse (per es. le 
scienze mediche) la maggior parte dei termini sono attinti al latino o al 
greco 176 o foggiati secondo quei modelli, e valgono con piccole variazio- 
ni ortografiche per tutte le lingue. Si tratta di migliaia di vocaboli, molti 
dei quali sono arrivati a penetrare non solo nella media cultura, ma 
addirittura nell’uso quotidiano. Per es. morfologia è stato coniato da 
Goethe (nel senso di «scienza di tutte le forme organiche») e man mano 
si è divulgato in tutte le lingue occidentali, con varie specificazioni di 
significato. 

Naturalmente quello che più conta è il nuovo concetto che si vuol 
esprimere: quindi non di rado il significato che si dà alla parola greca o 
latina non è uguale a quello originario. Il tifo descritto dai clinici 
ottocenteschi è ben diverso dal rGtpo? di Ippocrate. Gli scienziati che per 
primi parlarono di animali e vegetali parassiti tecnificarono un signifi- 
cato nuovo, assai diverso da quello antico. Auscultare prende un 
significato speciale in quanto esumato dai medici con valore tecnico, di 
contro al comune ascoltare. Il p. Barsanti, facendo brevettare (1854) il 
motore a scoppio, dà alla parola un significato specifico. 

Talvolta i termini antichi sono adoperati con disinvolto arbitrio: 


173 II termine appare come sostantivo, nel nuovo significato, nel 1832-, come 
aggettivo l’aveva già attinto al latino il Boccaccio, e più recentemente se n'era 
servito il Di Breme, che nel Conciliatore (I, p. 186 Branca) aveva parlato del «san- 
benito non fiammifero». 

176 II Cattaneo (nell’articolo «Di nuove voci greche», ristampato in Scritti 
letterari, I, pp. 250-257) protestava contro l’abuso del greco, gli stiracchiamenti di 
significato in confronto con le voci antiche, le difficoltà dell’adattamento fonetico 
all’italiano. 


592 


Storia della lingua italiana 



Cav Lussac (1812) trae dal greco tóSrj? «di color violetto» il francese 
Sg nerlTcolor violetto dei suoi vapori; e i chimici italiam accettano 
lodo o iodio. Né fa meraviglia di vedere talvolta manomesse lentia 
in paraffina è molto arbitrario il modo di composizione di 
affinis • hi miocene l’unione di (xetwv «mrnore» e xaivó? «nuovo» è quanto 
SdfiSIS! Telegramma, se fosse fatto secondo le buone regole, 

^Mentre Y&dozione o la formazione secondo schemi greci o latmi di 
nuovi termini a opera di un letterato per lo piu rimane limitata al suo 
uso individuale, l’accettazione nel linguaggio 

o nella terminologia di una scienza o nella vita pratica 8“ assicura 
facilmente un uso stabile. Moschicida era stato invano tentato nel 600 
dal LaM • h5£e?e Attecchisce col divulgarsi della carta moschicida. 
Quando il Gioberti tentò l’uso di tellurico («1 infermità tellurica l- dei 
terrestri degli uomini! non è incurabile»: Primato, Brusselle 1843, II, p. 
8) non trovò echi, mentre il significato scientifico della parola («che 
concerne la terra e più precisamente i fenomeni che avvengono nel 
interno»- movimenti tellurici, eco.) attecchì stabilmente. 

Accanto a queste adozioni di latinismi e grecismi nel lessico, 
bisogna tener conto dell’influenza formale esercitata su certe parole 
dal modello latino: quell’adeguamento che in alcuni autori è un infhmn- 
za sporadica (per es. il Monti scrive destruttore o nepote secondo il 
modello latino) diventa un programma nel Gherardim, che vorrebbe 
cancellare quanto più è possibile dollX^ 0 *^ 0 * daUa lmgU ’ 

raccostandola all’ortografia latina (cfr. p. 562 e 581). 


20. Francesismi 

Come si è detto, la potentissima influenza politica e culturale del 
francese sull’italiano ha ancora aumentato la schiera dei francesismi, 
g£ cosf nAmArosi nel Settecento. Se, nella lingua letteraria Piu eleva f 
nlmni francesismi recedettero in seguito alla reazione puristica, nella 
lingua più andante, parlata e scritta, essi abbondano. Cosi ad es. m uno 
scritto Sfatto per proprio uso come lo Zibaldone del Leopardi ne 


•77 t -adattamento in italiano di questa terminologia intemazionale non 

mmmwmrn 

nel 1817, scriveva memorandi). 


Il Primo Ottocento 


593 


troviamo spesso 178 : «il piacere che noi proviamo... della raillerie » (27 
luglio 1822); «il suo difetto è di piegare alla roideur » (30 giugno 1823); 
«immaginazione continuamente fresca ed operante si richiede a poter 
saisir i rapporti...» (17 ottobre 1823); «sarebbero bien fachés di trovarsi 
soli» (6 luglio 1826); «una donna di venti, venticinque o trenta anni ha 
forse più d’attraits, più d’illecebre» (30 giugno 1828); «per dare unità, 
insieme, liaison scambievole...»- (30 agosto 1828) ecc. l7B . 

Nei carteggi poi, ne troviamo a bizzeffe.- non solo, per es., nelle 
lettere di Giulia Manzoni Beccaria, ma anche nel Berchet («or che gli 
amori della patria mi hanno désenchanté così infamemente», lettera 3 
agosto 1848), nel Manzoni stesso: «facendo une balte a Cassolo» Getterà 
9 ottobre 1855) 180 , «mia moglie esce da una grippe» Getterà 11 gennaio 
1858), nel De Sanctis: «sa di dover morire, glielo leggo in quegli occhi 
égarés » Getterà 10 giugno 1858), ecc. 

Un campo in cui i francesismi abbondano è quello delle cose 
militari: affusto, ambulanza, appello, avamposto, buffetteria, casermag- 
gio, marmitta (estesosi poi anche al di fuori dell’uso militare), pioniere 
«soldato del genio zappatori», ecc. 

Molti francesismi politici penetrano dapprima con riferimento alle 
cose di Francia (club, comitato, giacobino, assegnato, ecc.), poi si 
applicano, in numero sempre crescente, alla vita politica nostrana 
( budget , consuntivo, preventivo, nomi di partito, ecc.). 

Per la vita amministrativa, la penetrazione è fortissima: bureau o 
burò (in Piemonte si accettò anche il derivato buralistà), borderò, 
controllare ( controllo , controllore ), maire (e meria «mairie»), par afflare, 
regia, timbro («bollo»), ecc. Oltre all’amministrazione della giustizia 
( cassazione , giudice di pace, giurì, ecc.) bisogna tener conto nel periodo 
napoleonico dell’influenza esercitata dai modelli francesi sui codici e 
sulla legislazione ( vagabondaggio , ecc.). 

Non va dimenticata la diffusione del nuovo sistema metrico: metro, 
litro, grammo, ecc.; l’abbreviazione chilo suona talvolta chilo (ancor 
oggi si pronunzia così a Livorno e a Siena), e per parecchio tempo potè 
essere adoperata come invariabile. 

Qualche termine entra nel lessico marinaresco: pompa (da cui poi 
pompiere ) è documentato anzitutto come termine di marina; rullìo, ecc. 

Nella terminologia della casa, troviamo voci indicanti stanze 
( boudoir ) e mobili (cislonga, comò, psyché 1M , secrétaire, ecc.), termini di 


178 Già negli appunti e ricordi del 1819: «Mie reverie sopra una giovine di 
piccola condizione...» iscritti vari inediti, p. 277). 

178 Così anche in una lettera dell’8 ottobre 1832: «sono proprio ahimè di 
debolezza», ecc. 

Indirizzata a Madame Thérèse Manzoni née Borri, Lesa (Lago Maggiore). 

181 «Datosi un’ultima occhiata nella psychè lin nota: «Allo specchio impema 
to»J e irrorato il pannolino di tasca con mille goccie di millefleurs o di mousseline, 
Alfonsino...» (Di Breme, Condì., 29 ottobre 1818: I, p. 275 Branca). Più tardi si dirà 
psiche. 


594 


Storia della lingua italiana 


Il Primo Ottocento 


595 


cucina ( griglia , casseruola, ecc.; entremets, tartina, ecc.; cfr. anche 
trattore, trattoria \, di giardinaggio (pepiniera, serra, ecc.). 

Molti vocaboli concernono l’abbigliamento (bretelle, calosce, corsè, 
paltò, percalle, ecc.); qualcuno, riferito dapprima alle vesti militari 
(pom pon), passò poi all’uso comune. Anche i colori seguono la via della 
moda (bistro, ecc.) 182 . 

Tra i veicoli ricordiamo il faeton, il fiacre, il furgone. 

Dalla vita teatrale abbiamo per es. debutto e messa in scena. 

Per le belle arti, ricordiamo rococò e la conoscenza delle danze 
macabre 193 . Quanto ai giochi, citiamo la moda delle sciarade. 

Nella terminologia delle varie scienze, oltre agli innumerevoli 
latinismi e grecismi suggeriti dalle analoghe voci francesi, si accettano 
anche molti vocaboli francesi di tipo più o meno popolare: per es. in 
medicina crampo, grippe, ecc., in zoologia cormorano, pinguino, ecc., in 
etnologia meticcio (mentre nei secoli precedenti si preferiva mestizzo 
secondo l’esempio spagnolo), ecc., in geologia morena, picco, ecc. 

L’àmbito in cui meglio si misura la forte penetrazione dei francesi- 
smi è quello astratto: si ricordino gli esempi citati all’inizio di questo 
paragrafo da scritture confidenziali, quasi tutti riferiti a concetti 
astratti; e si pensi alle non rare lagnanze di scrittori di non poter 
rendere bene in italiano sfumature possedute dal francese 184 . 

Mancando i vocaboli che esprimano la nozione generica (agricola, 
mineraria, industriale) di exploiter, exploitation, si adoperano le parole 
francesi in forma originale oppure adattata ( esploatare ), finché non si 
estende sfruttare a coprire tutto l’àmbito semantico di exploiter. 

In presenza di un verbo come entrevoir, che non aveva un preciso 
riscontro in un vocabolo unico, ma per cui bisognava ricorrere a 
perifrasi («vedere un poco, cominciare a vedere»), sorge il desiderio di 
ricalcarlo. C’è chi tenta un travedere (biasimato dal Cesari, Disseti., cap. 
XI) 185 , ma poi prevale intravedere (Gioberti, Capponi, Mazzini). Fin dal 
Cinquecento si usava saputa : ora per tradurre à l’insu si foggia 
all’insaputa. E similmente nascono e finiscono con l’imporsi, malgrado 
le proteste dei puristi, vocaboli come sedicente, controsenso, frattempo. 


182 Cfr. rouge «rossetto», già nella versione foscoliana del Viaggio sentimenta- 
le di Sterne (cap. X). 

183 Di qui l’agg. macabro che però prenderà solo più tardi, con le ultime 
propaggini del romanticismo, significato generale. 

184 A definire il concetto di suffisant «gli italiani mancano forse di vocabolo 
adattato»: D’ Azeglio, Ettore Fieramosca, cap. XII; «Neppur essa Qa reazione! è 
stata capace di farmi mai rimpiangere (benedetto regretter che non ha equivalen- 
te esatto fra noi) Napoleone ed il dominio francese...»: D’Azeglio, I miei ricordi, 
cap. Vili a, p. 166)-, «uno spettacolo féerique: parola che non si può adequatamele 
tradurre, perché fu inventata dai Parigini per la sola Parigi»: Rajberti, Il viaggio 
di un ignorante, Milano 1857, p. 80. 

185 Ma l’adoperarono anche il Leopardi Qett. al Giordani, 30 aprile 18171- e 
Manzoni (Prom . Sposi, princ. del cap. Ili): «Tutt’e due [Renzo e Agnesel si volsero... 
lasciando travedere ...un cruccio pur diverso» (ed. 1825-1827 e ed. 1840). 

i 


malinteso, rendiconto, sorvegliare, ecc., e locuzioni come essere al 
corrente, ecc. Molto più rari sono gli astratti in cui la parola francese è 
adattata anziché ricalcata: scamotaggio, trantran e s imili 

Non sì contano i vocaboli che ora si foggiano secondo il diretto 
modello francese, ricollegandoli ad altri vocaboli italiani o latini 
preesistenti: bonomia, contabile, floreale, responsabile, mentalità, spes- 
sore, tasso (t. econ.), versante, vetrina, basare, rivoluzionare, ecc. L’esi- 
stenza di un prefisso italiano de- tratto dal latino de- fa sì che trovino 
più agevole strada vocaboli come debordare, in cui il prefisso francese 
ha altra origine (déborder da dis). Si moltiplicano le parole in -aggio 
(cordaggio, drenaggio, lavaggio, vagabondaggio, ecc.). Non solo si 
accettano facilmente alcuni vocaboli che contengono il suffisso -ista 
(per es. modista ); ma poiché in francese il suffisso aveva anche preso, 
specialmente nel linguaggio politico, il valore di un aggettivo d’ineren- 
za, un uso analogo si diffonde anche in italiano: per es. la chiesa 
Sansimonista (Romagnosi, 1832), l’analisi materialista (Mazzini, 1850), 
la scuola socialista (Minghetti, 1858), accanto a gli ordini comunistici 
(Giusti, 1849) ecc. 

In parecchi casi è dovuto all’esempio francese il passaggio ad altra 
categoria grammaticale: l’uso di commerciante, industriale, domestico 
come sostantivi di persona, di uniforme come sostantivo di cosa. 

E frequente è il mutamento di significato conforme al modello 
francese: domestico, appunto, prende il significato di «servitore», 
bruma di «nebbia»; giurato, che aveva avuto vari significati ammini- 
strativi e legali, prende il significato di «membro d’un giurì»; direzione 
oltre al significato di «atto, effetto del dirigere» prende quello di 
«persone che dirigono»; farmacia, che voleva dire solo l’«arte di 
comporre i farmaci», passa a indicare la «bottega dello speziale»; fase 
passa dal significato astronomico a quello generale; tara oltre che 
«peso da dedurre» viene a significare «grave difetto»; attualità prende 
il significato di «cosa modernissima»; di scuole secondarie si comincia a 
parlare secondo il modello francese, ecc. 

Nell’esemplificazione che abbiamo data fin qui abbiamo quasi 
sempre escluso quei francesismi che non hanno attecchito nell’uso: ma 
chi estenda la ricerca anche a quelli che hanno fatto apparizioni 
isolate od effimere ne troverà centinaia e centinaia-, per es. abbutire, 
appuntamenti nel senso di «stipendio», attaccato («addetto»: attaccato 
al burò. Monti, 1798), in sul campo («sur le champ, subito»), cifrone 
(«Chevron»), flambò, limiere («segugio»), mortissa (« mortaise , incastro»), 
revancia, rìnvegno (« revient »: prezzo di rinvegno: Cavour, 1836), sabre la- 
scia, sarrò, vammastro Uvaguemestre, quartiermastro») ecc . 186 

Non meno numerosi sono i francesismi che sono stati accolti, 


188 Abbondano specialmente i termini militari: basta sfogliare il repertorio del 
D’Ayala, Dizionario delle voci guaste o nuove e più, de' francesismi introdotti nelle 
lingue militari d’Italia, Torino 1853, per trovarne a decine. 


596 


Storia della lingua italiana 


Il Primo Ottocento 


597 


effimeramente o saldamente, in aree limitate: barège a Lucca e altrove, 
boetta boatta, buatta, buatta (da botte) in varie zone, preposeo (da 
préposéì a Lucca (anche prepose a Piacenza); retrè («gabinetto» da 
retrctitì in vari© regioni, scictrabbà (da chcir-à-bcincs ) nei dialetti menalo- 

nali (anche sciabarà a Pisa) ecc. 187 . , . 

Nel modo di adattamento si seguono le solite due vie: nelle parole 
più colte si mantiene la grafia francese, mentre dove la parola è 
penetrata nell'uso popolare si tende piuttosto ad adattarla nella 
scrittura. È questo il più forte motivo di oscillazione nella grafia dei 
francesismi: brochure o brossura, bureau o burò, début o debutto, fiacre 
o fiacchere, percale o percalle, rendez-vous o randevù (Guadagnoli), ecc. 
Molti scrivono bleu, mentre altri adoperano ancora blo; i più ormai blu. 
Accanto a débauché e a deboscia si ha l’adattamento popolare 
fiorentino bisboccia. 

Qualche volta si oscilla fra 1* adattamento e il calco: quando entra 
porte-monnaie alcuni lo scrivono alla francese (Fusinato, 1847), poi 
qualche dialetto l’adatta (milan. pormonè), mentre la lingua scritta lo 
ricalca in portamonete; coupon viene adattato in cupone o copone, 
ovvero tradotto con tagliando o cedola. 

Non va dim enticato che il francese, oltre ad aver trasmesso 
all’italiano in questo periodo numerosi vocaboli propri e numerosi 
latinismi da esso adattati o foggiati, gli ha anche trasmesso parecchi 
vocaboli d’altre lingue. Abbiamo anzitutto anglicismi (frac, rosbif, 
macadam, tender ); qualche volta alterati nella forma o nel significato 
dal loro passaggio attraverso il francese (Tingi, waggon «carro coper- 
to» prende in Francia l’ortografia wagon e il significato ferroviario; 
review viene calcato in Francia con revue, e in italiano se ne trae rivista; 
honeymoon si traduce con lune de miei e poi con luna di miele, ecc.). 
Per il tedesco citiamo Thalweg, termine geografico accolto dalla 
diplomazia, che troviamo dapprima in un decreto di Napoleone del 
1811. Colza è una parola fiamminga (kolzaad) accettata in francese. Il 
nome del copricapo degli usseri (scioccò) è ungherese ( csakó ), ma ci 
giunge per tramite napoleonico. E gran parte delle parole orientali 
penetrate in questo periodo nel nostro lessico sono arrivale passando 
attraverso viaggiatori, geografi, compilatori francesi: gli scrittori di 
cose orientali, dal Quattrocento al Seicento, conoscevano il bazarro o 
bazzarro per indicare «mercato» (Persia, India): nel secondo decennio 
dell’Ottocento rientra in Italia bazar con l’ortografia francese e nel 
senso moderno europeo di «emporio» (E. Visconti, Conciliatore, 1819). 
Di massaggio (anzi, dapprima, massagio) si parla le prime volte con 
riferimento a usi orientali e già col suffisso francese. 


21. Altri forestierismi 

Meno numerosi dei francesismi, eppure piuttosto copiosi, sono gli 
anglicismi: qualche volta diretti, più spesso, come s’è visto, passati 
attraverso il francese. Mentre quelli di aspetto anglico Fintano ad 
acclimatarsi, l’accettazione è molto più facile per gli ang. latinismi. 

I più abbondanti sono quelli politici. Già un certo numero si era 
imparato a conoscerne nel Settecentp, con riferimento alla vita inglese 
( costituzione , comitato, commissione, maggioranza, opposizione, petizio- 
ne ); ora essi e molti altri penetrano anche in Italia a varie riprese 
(spesso, come s’è detto, dopo essere penetrati nel lessico politico di 
Francia). 

Nella costituzione siciliana del 1812, concessa sotto le pressioni 
inglesi e redatta su modelli inglesi, si parla di bill. Abbiamo poi budget, 
leader, meeting, self govemment, speech, conservatore, radicale, assentei- 
smo, ecc. Anche premio (d’assicurazione) è modellato sull’inglese 
premium. 

Cavalli, carrozze, corse ippiche si modellano sul gusto inglese: 
abbiamo poney (con grafia francese, in luogo di pony), brougham, 
tilbury, steeple chase, jockey, turf, ecc. Così anche bulldog, ecc. 

In gran parte dall’Inghilterra ci giunge la terminologia ferroviaria: 
rail im , vagone (cfr. p. 596), tender, tunnel, locomotiva, viadotto; railway o 
railroad fu sùbito sostituito da strada ferrata, via ferrata, più tardi da 
ferrovia; tramway durò a lungo. 

Osteriggio «riparo a vetri» è un adattamento marinaresco di 
steerage. 

Parecchi ter min i si riferiscono all’abbigliamento: lo scialle o sciatto 
(«Ma cosa è quello shall che gira e vola?»: Pananti, Poeta di teatro, c. 
99), lo spencer, il raglan (diffusosi con la guerra di Crimea), ecc. 
Attenzione e per lo più ammirazione per le cose di moda sono palesate 
dall’accoglimento di dandy e lion, fashion e fashionable, high life. 

Comfort (o anche alla francese confort o italianizzato conforto ) si 
riferisce agli agi e alle comodità della vita («quella comodità che 
gl’inglesi con sì bel vocabolo dicono comforts, e dond’è venuto che essi 
chiamano confortevole tutto ciò che nelle suppellettili vi ha di compito 
per l’uso e di gradevole nello stesso tempo per l’occhio»: Pellico, 
Conciliatore, 2 maggio 1819: II, p. 532 Branca). 

Per cibi e bevande, ricordiamo roastbeef (rosbif, rosbiffe ) e punch 
(ponce). 

Passa anche in Italia, dopo che in Francia, la pratica del drenaggio. 

Humour e spleen sono riconosciute come qualità caratteristiche 
degli Inglesi. E numerosi sono i termini che appaiono in Italia riferiti 


ai «Anche adesso - attesta il Cantù, Sull’origine della lingua italiana. Napoli 
1865 p 182 — ma più pochi anni fa, i Piemontesi mescolavano moltissime parole 
prettamente francesi al loro dialetto; e diceano cependant. jamais, ce maUn, 
désormais, en attendant, vite, c’est-à-dire. à mon tour, au pus alter, voilà, cest (a, 
ecc. L’aristocrazia non avrebbe mai detto altrimenti». 


188 La parola durò a lungo, sia nella pratica (adattata in raile, plur. ratti), sia 
nella legislazione (è per es. nel Codice penale sardo del 1859): fu sostituita poi da 
guida, verga, rotaia, finché quest’ultima prevalse. 


598 


Storia della lingua italiana 



dapprima a cose inglesi; e alcuni fra essi più tardi si divulgheranno (per 
es. plaid, che appare dapprima in traduzioni da W. Scott; docfe, ecc.) 188 . 

Meno numerosi sono i germaniSmi, malgrado la forte influenza 
politica austriaca: qualche termine militare (feld-maresciallo ), qualche 
nome di moneta isvànzica) lM qualche voce di moda ( walzer , variamente 
storpiato: v. p. 582). 

La tensione contro gli Austriaci occupanti fece nascere alcune voci 
di scherno: caiserlicchi «Austriaci*, radeschi «pedata» (ima volta il 
maresciallo Radetzky aveva dato un calcio al figlio, il quale aveva 
insultato un prete milanese) 181 . 

Non mancano le voci di stampo greco o latino foggiate nei paesi 
tedeschi: per es. morfologia (v. p. 591), stilistica™. 

Nella lingua astratta si hanno alcuni calchi: il divenire, il non-essere, 
il non-io-, il meismo del Rosmini ricalca Ichheit™. 

Qualche volta, il tedesco è servito di tramite per voci di altre lingue 
dell’Europa orientale: per es. tose, pechèsce, peghèsce «soprabito con 
lunghe falde», dal ted. Pekesche (dal polacco bekiesza «mantello di 
pelliccia»). 

Anche dalle lingue scandinave giunge, per lo più indirettamente, 
qualche vocabolo: scaldo, Valhalla, geyser. 

Dallo spagnolo ricordiamo qualche voce concernente la politica 
(< camarilla -, si ricordi anche liberale, p. 572-573) e la tauromachia 
( corrida , torero, matador ). 


22. Italianismi in altre lingue 

L’influenza italiana in questo periodo è relativamente scarsa Un 
gruppo notevole di italianismi si ha in Francia in un campo, quello 
della musica operistica, in cui la genialità italiana si manifesta 
specialmente con Rossini. Abbiamo così una serie di termini, per 
parecchi dei quali il mediatore fu Stendhal: maestro (Stendhal 1824; in 
inglese già nel 1797), libretto (frane. 1827; ingl. già 1742; ted. 1837), 
impresario (Stendhal 1824; ted. già 1771); diva (Gautier 1832; ted. 1867; 
sved. 1850); brio (Stendhal 1824; ingl. 1855); fioriture (Stendhal 1824); 


V. le serie di anglicismi ottocenteschi accuratamente raccolte da A. L. 
Messeri, Lingua nostra, XV, 1954, pp. 47-50; XVI, 1955, pp. 5-10 e 73-74; XVIII, 1957, 

pp. 100-108. 

180 Si ricordi anche il veneto schei, dal nome schei demanze che si leggeva 
sulle monete. 

1,1 Parecchi austriacismi del dialetto milanese (non tutti ottocenteschi e non 
tutti sicuri) sono citati dal Cherubini nel Supplimento del suo Vocabolario 
milanese-italiano, 2“ ed., V, pp. 257-258. 

«I tedeschi, per i primi a coltivarla, la chiamano stilistica » (Bonghi, Perché 
la letteratura italiana non sia popolare, 1855, lett. XIV). 

103 Non attecchì slancio come calco di Entwurf nel senso di «abbozzo»: G 
Gautieri, Slancio sulla genealogia della terra, Jena 1805. 


li Primo Ottocento 


599 


1841 +’ te<t * 837) 6 81411 ancora. Dilettante, che era già stato 
sporadicamente usato nel Settecento, attecchisce ora saldamente in 
Franma col significato di «appassionato della musica italiana» e se ne 
ipim d f nvat .° diteffantisme 184 . Cfr. anche piccolo «flauto piccolo» (ted 
1801 circa, ingl. 1856, fr. 1828). Qualche parola entra in Francia ner 
contatto orale: flemme (1821), forse frisquet (1827), ecc. P 

diffida la conosc f. nza che i viaggiatori ebbero dell’Italia si 
diffonde la conoscenza di peculiarità geografiche etniche ecc • fata 
morgana appare in ted. nel 1796, in ùigl nel l818 (proprio memre 

LìoV fif^ V ; eCe a ? cett . a co , me termine scientifico il francesismo ™irag- 
gto\ fumarola vulcanica ùngi, fumarole 1811, frane, fumerolle 1829 ) 

Deliaca r* 1 i la St . end hal in ima lettera da Trieste del 1830; ingl 1864)’ 
fescb? l 'f e l lagra 1811 ’.? anc - Pellagre 1834), ecc. I confetti clÀlva- 

(S)ethe i 789 fr^f S fr mtÌ i C ° me , Una caratteristica di Roma 
1 ’ “• 185 ?; ir ^ frane, la parola entrerà più tardi nell’uso 

dfllin V rvf ° 11 C8 J nevale hi Nizza, 1873). La parola vendetta si diffonde 
t^r^ 0 ', 1803 ’ ina* 1861). Fantasia, nel senso ditdlnZ 
sfrenata di indigeni» (ingl. J831, frane. 1842), è probabilmente una voce 
italiana passata attraverso la «lingua franca». 

franc m i800 Z1 wi d ?8nn lt f + dÌ J Ulga Y arie a nome di P«a (pile, 

11 Adesco preferisce invece il calco Sàulel 
Qualche voce italiana già precedentemente penetrata nelle grandi 
hit™ ora nelle lingue perfferiche Spesso ì 
amite del tedesco): per es. in svedese entra soprano (sotto la forma 

(XrT°feSinTTSL Ì ra Ung ? ereSe ? Pem ' Casin °’ Cupola ’ influenza, ecc. 
kasz ino, kupola, influenza ), ecc. In romeno, molti italianismi 

dSbero fortuna 00 ™ S1 è accennato ’ da Ion HeUade Ràdulescu, ma non 


offerti à M n c^fù.? Ì nJ tante D i}fnannsme, in Mélanges de linguistique ffancaise 



CAPITOLO XII 

MEZZO SECOLO DI UNITÀ NAZIONALE 

( 1861 - 1915 ) 


1. Limiti 

In quest’ultimo capitolo della nostra trattazione esamineremo le 
principali vicende della lingua, cominciando dalla proclamazione del 
regno d’Italia (1861) e giungendo fino all’entrata dell’Italia nella prima 
Guerra mondiale (1915). È ovvio che avremmo anche-potuto cominciare 
dal 1870, cioè da quando l’unità nazionale fu quasi interamente 
raggiunta, e Roma divenne effettiva capitale del regno. 

2. Eventi politici 

Il primo decennio del regno è caratterizzato da una fremente 
aspirazione a ricongiungere al nuovo stato Venezia e Roma-, mète 
raggiunte attraverso le note vicende nel 1866 e nel 1870. Gli anni di 
Firenze capitale (1865-1870) sono una breve, ma importante tappa. Una 
svolta decisiva è il trasporto della capitale a Roma, col quale si chiude 
il più che millenario ciclo del potere temporale dei papi (dando luogo a 
conflitti di coscienza e a scissure politiche). La creazione di strutture 
civili e militari uniformi per tutto il regno, che già era Cominciata nel 
1859 e più fortemente dopo il 1861, continua con sempre maggiore 
intensità. L’inquadramento amministrativo, iniziato dalla onesta, an- 
che se talvolta gretta burocrazia piemontese, parte ormai da Roma. 

Il governo del paese è tenuto per pochi anni (fino al 1876) dalla 
Destra-, poi esso passa alla Sinistra: ma talora si tratta più di un 
cambiamento“di uomini che di programmi, specialmente da quando il 
Depretis inaugura quella politica che fu detta del trasformismo. 
Successivi allargamenti del suffragio, specialmente quelli promossi dal 
Giolitti, portano a una partecipazione sempre più ampia delle classi 
non abbienti alla cosa pubblica. 

Continua vivissima, come nel resto di Europa, la tendenza a far 
coincidere le nazionalità con gli stati: nasce così l’irredentismo. Più 
tardi nascerà, con scopi espansivi, il nazionalismo. 

Anche la tendenza alle imprese coloniali, che domina in Europa, e 
in Italia si afferma non senza contrasti, porta alle spedizioni in 
Abissinia e poi in Libia. 

L’emigrazione, specialmente numerosa negli anni di maggiori diffi- 


602 





colta economiche, è talvolta temporanea (partecipazione al traforo del 
S Gottardo, ecc.), talvolta stabile (e porta alla formazione di «piccole 
Italie» specialmente negli Stati Uniti, in Argentina, in Brasde). 

In peculiari condizioni politiche si trova 1 italiano nel Canton Ticino 
e nelle valli italiane dei Grigioni. Forti spinte alla snazionalizzazione si 
svolgono nei territori italiani soggetti all’Austria (Trentino, Trieste, 
centri italiani dell'Istria e deUa Dalmazia). Nella Corsica, i dialetti 
subiscono sempre più l’influenza francese, e la lingua italiana cólta e 
nota ormai a pochi A Malta, essa mantiene faticosamente la posizione 
di parità con l’inglese come lingua culturale. 

3. Vita sociale e culturale 

L’unità politica porta con sé una più intensa circolazione didee, di 
cose di parole. Dal 1870 Roma (che passa dai 220 mila abitanti elei 1871 
ai 542 mila del 1911) assume un’importanza sempre maggiore nella vita 
nazionale-ma le altre grandi città, in particolare Milano da «capitale 
morale»), Torino, Bologna, Firenze, Napoli Palermo, continuano a 
influire non soltanto sulle regioni tradizionalmente ad esse legate, ma 
su più ampio raggio. Le ferrovie si moltiplicano; e cosi pure le strade. 
Le industrie settentrionali assumono un sempre maggior sviluppo, 
mentre quelle meridionali languiscono. Entrano m vigore per tutto il 
regno leggi uniformi: vengono promulgati il Codice civile nel 1 865, il 
Codice penale nel 1889, e man mano tutta la legislazione elaborata dal 
parlamento. L’apparato amministrativo estende la sua influenza sulla 
vita quotidiana; e benché si parli molto di decentramento, va sempre 
crescendo l’accentramento degli uffici nella capitale. Specialmente nei 
primi tempi dell’unità, è molto forte l’influenza piemontese-, piu tardi 
invece si fa sentire la predominanza numerica degli impiegati di 

origine meridionale. , . , 

Anche nell’organizzazione militare, la predominanza piemontese, 
fortissima agli inizi, presto si attenua; e giova a un sia pur lento 
conguaglio di idee e di linguaggio il reclutamento su base nazionale. 

La distanza fra le classi sociali, che era fortissima, forte rimane-, 
solo lentissimamente, e attraverso conflitti non sempre bevi « 
contadine e operaie cominciano a diventar conscie della loro apparte- 
nenza alla compagine sociale, guidate nelle loro rivendicazioni mate- 
riali e morali da un socialismo inizialmente romantico e umanitario. 
Per ciò che concerne la lingua, le classi inferiori nella vita quotidiana si 
servono dei dialetti, e sono ancora scarsamente pratiche della lingua 
nazionale 1 . 


. La separazione delle classi è talvolta anche caratterizzata da nomignoli 
tratti deUa diversità del vestire o da altre peculiarità: si pensi ad es. aUa divisione 
tra cannelli e berretti in Sicilia, soprannomi dati rispettivamente ai cittadini delle 
cltssfpTù alte e ai popolani (M. Rosi. L’Italia odierna. I. Torino 1918, p. 429). 


Mezzo secolo di unità nazionale 


603 


Fortissime rimangono anche le differenze sociali e culturali fra il 
Settentrione e il Mezzogiorno: quelli che discutono della «questione 
meridionale» si rendono conto che solo un’azione a lunghissima 
scadenza varrà a rendere meno gravi queste differenze. 

Notevoli, ma non ancora sufficienti, sono i progressi dell’istruzione 
elementare: l’obbligo dell’istruzione di tutti i fanciulli di oltre 6 anni è 
sancito dalla legge Coppino nel 1877 e affidato ai comuni; così gli 
analfabeti, che nel 1861 erano il 78%, sono ridotti a meno del 50% nel 
1910 2 . 

L’insegnamento medio (statale e privato) è il principale agente di 
trasmissione della cultura scientifica e letteraria, mentre nelle Univer- 
sità e intorno ad esse si svolge gran parte della più alta attività 
scientifica, filosofica, filologica. Occupa una posizione preminente tra 
le accademie quella dei Lincei, nuovamente fondata nel 1875 da 
Quintino Sella. 

La cultura tradizionale, verso il Settanta, è tutta sconvolta: «oggi 
tutto è rinnovato - esclama il De Sanctis nel 1869 -, da tutto sboccia un 
nuovo mondo: filosofia, critica, arte, storia, filologia». Si affaccia 
prepotente il positivismo; le scienze fìsiche e naturali reclamano e 
acquistano un posto sempre maggiore nella cultura e nella vita; ne 
risentono fortemente e variamente l’influenza anche le scienze morali 3 . 
Le generazioni del primo Novecento reagiranno a questa tendenza con 
una nuova ondata di spiritualismo e di idealismo. 

La stampa quotidiana e periodica assume un’importanza sempre 
maggiore. Nei quotidiani, accanto alle informazioni politiche nazionali 
ed estere, trovano posto notizie varie; spesso un’appendice a piè di 
pagina contiene la puntata di un romanzo; nel 1901 nasce la «terza 
pagina», riservata alla letteratura e alla cultura (v. p. 641). Intermedi 
tra i quotidiani e le riviste di più ampia mole (come la Nuova Antologia, 
dal 1866) vengono a collocarsi i settimanali letterari. 

L’amore per il teatro è sempre vivace (e gli attori che, dal 1881 in 
poi, escono dalla scuola di Luigi Rasi portano per l’Italia, oltre che una 
dizione espressiva, la pronunzia fiorentina colta). 

Anche più larghi consensi di popolo ha l’opera lirica, specialmente 
quella di Giuseppe Verdi: ed echi dei testi dei libretti continuano a 
passare nel linguaggio comune. 

Penetrano in Italia parecchi sport: alcuni destinati a diventare 
popolarissimi, come il ciclismo (chiamato da principio velocipedismo ) o 
il calcio (dapprima col nome inglese di football)-, altri limitati a cerehie 
più ristrette, come l’alpinismo o V automobilismo. Il turismo, dapprima 
limitato a ricchi stranieri, entra man mano anche nelle abitudini degli 
Italiani. 


2 R. Benini, Demografia, p. 40 (in Cinquantanni di storia italiana per cura 
della R. Accademia dei Lincei, I, Milano 1911). 

3 Per citar solo un esempio tipico di questa tendenza, il De Sanctis nel 1883 
tiene a Roma una conferenza sul «Darwinismo neU’arte». 


604 


Storia della lingua italiana 


Mezzo secolo di unità nazionale 


605 


4. Principali tendenze nel mutamento linguistico 

Il conseguimento dell’unità nazionale, con l’influenza esercitata 
dalla nuova capitale (per brevi anni Firenze, poi definitivamente 
Roma), porta a conguagli linguistici attivi. E la nuova partecipazione 
alla vita civile di ceti sempre più ampi fa si che l’uso della lingua scritta 
e parlata estenda man mano il suo àmbito. 

Già nel 1860-70 il purismo ha perduto ogni forza di persuasione 4 : si 
pensi ai molti scrittori che dopo aver fatto il loro tirocinio alla sua 
Scuola escono dalle strettoie: il De Sanctis 5 , il Carducci®, il D’Ancona, 
Adolfo Bartoli, e tanti altri. Nelle sue Memorie, Gaspero Barbèra, 
trattando del mercato librario nel 1863, avvertiva, a proposito dell’edi- 
zione dei Marmi del Doni, che «incominciava a venir meno l’amore per 
quei libri il cui pregio principale fosse la lingua» 7 . E, osservando questo 
mutamento, lo storico cattolico P. Balan esortava a tenerne conto: «È 
passato il tempo delle vuote ed eleganti parole non ordinate a forti 
ragioni: più che i fiori di lingua abbisognano il vigore dell’argomenta- 
zione e l’abbondanza delle prove» 8 

I letterati, alla ricerca di ima forma bella, espressiva, la perseguono 
secondo varie tendenze, ma ormai non v’è più alcuno che accetti come 
modello da imitare pedissequamente gli scrittori del passato (Trecenti- 
sti, Cinquecentisti). Presso i non letterati, poi, si fa largo più o meno 
consapevolmente l’idea che la lingua è una norma sociale, e che si può 
scrivere correttamente anche senza bisogno di ricorrere a modelli 
letterari più o meno precisamente prefìssati. Praticamente, cioè, essi 
non obbediscono più all’esempio dei classici tradizionali, ma conforma- 
no la loro lingua ai giornali, ai manuali, alle disposizioni di legge, e 
tutt’al più ai romanzi, magari tradotti. 

II Tabarrini, in un discorso del 1869“, prospetta l’ampiezza degli 
effetti che la nuova vita della nazione sta producendo sulla lingua 10 , e 


* V., sulle polemiche contro il purismo e contro il lassismo, il § 8. 

5 «Del purismo rimase una confusa ricordanza, come di tempi lontani, e 
nessuno ne parlò più; nessuno spese il tempo per combattere un morto»; così il De 
Sanctis neLtrentunesimo dei Saggi critici, a proposito delle Lezioni di storia del 
Ranalli, «1’ultimo dei puristi», uscite nel 1869. 

® Si ricordino, ad es., le sue parole contro i «nepotuncoli di Zucchero 
Benci venni» che «seguitano a dibattere in così bel modo quelle loro questioni di 
lingua che non finiscono mai mai mai» (1870): Opere, XXVII, p. 52. 

7 Memorie di un editore, rist. Firenze 1930, p. 200. 

8 P. Balan, I precursori del razionalismo moderno fino a Lutero, Parma 1868-69. 

• Relazioni sui lavori della R. Acc. della Crusca (1869-70), Firenze 1870, pp. 28-29. 

10 «Le mutate sorti d’Italia gioveranno senza fallo ad estendere l’uso della 

lingua comune; e questo rimescolarsi d’italiani dalle Alpi all'Etna, che si 
guardano in viso per la prima volta, e si stringono la mano col sentimento 
d’appartenenza a una sola nazione, condurrà necessariamente a rendere sempre 
più ristretto l’uso dei dialetti, che sono marche di separazione, fatte più profonde 
dai secolari isolamenti. Ma da questo gran fatto, si voglia o non si voglia, la 
lingua uscirà notabilmente modificata...» (p. 28). 


pur rendendosi conto dei pericoli che portano con sé la «barbarie 
irruente» e l’indiscriminata imitazione della lingua burocratica, ha 
fiducia che 

quando la nazione riprenda la sua via, sicura di sé, operante più che ciarliera, 
ritroverà i suoi nobili istinti; e la sua lingua si allargherà senza corrompersi; 
perché la vita d’un popolo libero, quando si svolge per virtù proprie, trova sempre 
per esplicarsi nella parola forme non repugnanti al suo genio ed alle sue 
tradizioni (p. 29). 

Tutto permeato di fiducia nell’efficacia che Inattività operosa» 
avrebbe esercitato sulla lingua è il famoso Proemio scritto dall’ Ascoli 
nel 1872 per il primo volume deH’Arc/xivio glottologico italiano (1873) (v. 
oltre § 8). 

Nelle università cessa l’insegnamento dell’« eloquenza», sostituito 
dallo studio critico della letteratura. Quanto aU’insegnamento medio, 
perdurano a lungo i canoni classicheggianti; ma v’è chi invece si 
attiene alle teorie manzoniane; e man mano si fanno strada letture 
aderenti alla lingua viva (si pensi alle antologie del Martini e del 
Pascoli) 11 ed esercitazioni più moderne. 

Certo, non poteva bastare solo mezzo secolo di vita imitarla a 
unificare la lingua scritta e tanto meno la lingua parlata. Ma nelle 
varie regioni del Nord e del Sud, e specialmente nelle città, gruppi 
sempre più vasti, accanto al loro dialetto sono ormai in grado di 
adoperare, scrivendo e parlando, la lingua nazionale 12 : non proprio in 
forme identiche, ma mantenendo ancora qualche peculiarità locale o 
regionale nell’uso scritto e più ancora nell’uso parlato 13 . 

I dialetti alla loro volta, specialmente quelli urbani, subiscono una 
italianizzazione assai forte, non solo per ciò che concerne il lessico, ma 
anche nella fonetica e nella morfologia. 

5. La lingua parlata 

Come il solito, bisogna distinguere tra la Toscana e zone contermi- 
ni, dove le differenze tra la lingua spontaneamente parlata e la lingua 


11 Le Prose italiane moderne del Martini (Firenze 1894) erano composte in gran 
parte da pagine di moderni, in modo che i ragazzi imparassero a scrivere «con 
disinvoltura paesana» fletterà di F. Martini a R. Fucini del 14 marzo 1894); larga 
parte ai moderni italiani e stranieri, fa il Pascoli in Fior da fiore e in Sul limitare. 

12 Anzi un certo numero di famiglie rifiutano l’uso del dialetto e allevano i 

figli a parlare solo italiano: e ciò sia per la loro costituzione (matrimoni 
interregionali), sia per le loro vicende (trasferimento da una regione all’altra), sia 
per contrarietà verso il dialetto. Acerrimo nemico dei dialetti, considerati come 
insidiatori dell’unità nazionale, fu P. Mastri, nello scritto «La malerba dialettale», 
in Su per l’erta, Bologna 1903, pp. 303-326. 

13 Mancano ricerche obiettive su queste varietà regionali dell’italiano: posso- 
no dame un’idea alcuni capitoli satirici dell’Idioma gentile del De Amicis, o i 
repertori composti con lo scopo di correggere i dialettalismi (cfr. p. 607). 


600 Storia della lingua italiana 

scritta sono molto piccole, e le regioni del Nord e del Sud, dove i dialetti 
sono tuttora ben vivi: è in questi territori che un numero sempre 
crescente di persone si allena all’italiano parlato, specialmente gli 
impiegati dello stato, spesso trasferiti da luogo a luogo, i militari M , i 
commercianti, ecc. 

Questo estendersi dell’uso parlato della lingua nazionale è mag- 
giore nelle grandi città, e specialmente ampio a Roma, dove con- 
vengono da tutte le regioni d’Italia impiegati, uomini politici, uomini 
d’affari, che debbono di necessità parlare fra loro italiano; se hanno 
portato con sé le rispettive famiglie, continuano magari a parlare 
dialetto in casa: ma le giovani generazioni crescono assorbendo dal- 
l’ambiente un italiano di colorito romanesco, e lo portano nelle loro 
famiglie. 

Tuttavia i passi compiuti sono in genere assai lenti: fuorché m 
Toscana e a Roma, la situazione è pressappoco quella descritta dal 
Finamore per l’Abruzzo nel 1880: 

La nostra lingua è educata a pronunziare in un certo modo, e non arriverebbe 
mai con una ginnastica differente a pronunziare perfettamente secondo un 
ordine diverso di mov im enti. Onde avviene che, anche pe’ più colti, parlare a mo’ 
del dialetto è come adoperare la mano destra-, parlare secondo le norme del 
buono italiano, è come adoperare la sinistra, per quanto si voglia educata. 
Talché, in tutto l’Abruzzo, - non dico anche da un Sindaco, da un Avvocato o da 
un Deputato; ma, anche da un Professore di Lettere italiane e latine, quando non 
sta sull’avviso - senti: Aldo (= alto), Calge (= calce), Pensiero...' 5 . 

Stilla pronunzia di qualche personaggio abbiamo precise testimo- 
nianze: si leggano le~ descrizioni che il D’Ovidio ci dà della pronunzia 
del De Sanctis e del Bonghi, che possono servire a illustrare due casi 
opposti: quello più frequente della pronunzia semidialettale, e quello 
delle confusióni che nascevano in chi voleva adeguarsi alla norma 
toscana senza troppo faticarvi 18 . 


14 II Fanfani narrava nel 1862 non so bene se un aneddoto o un apologo: che in 
un crocchio di ufficiali toscani e piemontesi questi ultimi parlavano in dialetto, e 
furono redarguiti da un capitano degli zuavi, che concludeva: «in Francia chi non 
sa il francese non è ufficiale» (articolo ristampato in Lingua e nazione, Milano 
1872, pp. 48-49). 

15 Vocabolario dell’uso abruzzese, l a ed.. Lanciano 1880, pp. iv-v. 

18 Sul De Sanctis: «Anche la sua pronunzia non era gran fatto felice. Ben poco 
s’era liberato dei -vezzi fonetici meridionali; e forse per paura di questi sdrucciola- 
va, com’altri della sua regione, nel proferire poi, mettiamo, incegno per ingegno, o 
tempo per lembo. Inoltre, caso pur frequente nella sua regione, pronunziava il d o 
il t suppergiù come farebbe un inglese, più simili a linguali che a dentali. Tendeva 
a pronunziare le parole come ciò e giusto quasi come chiù e ghiusto » (F. D Ovidio, 
Rimpianti, Palermo 1903, p. 110); sul Bonghi: «La pronunzia avrebbe voluto che 
riuscisse toscana, e in gran parte toscaneggiava difatto, ma dava sistematica- 
mente in certi vezzi che egli s’era imposti perché sedotto da analogie fallaci. 
Pronunziava, poniamo, forte o corpo, negletto o petto, con la vocale chiusa, perché 


Mezzo secolo di unità nazionale 607 

Quanto al lessico, mentre per i campi più elevati, i dibattiti di idee, 
L’attività politica, ecc., non vi sono discrepanze notevoli, per ciò che 
concerne le cose legate alla famiglia, alla casa, alla terra vi sono 
fortissime differenze tra una regione e l’altra e talvolta fra un luogo e 
l’altro. I più non se ne preoccupano; ma parecchi ritengono che l’unico 
modo di uscire da questa situazione sia il divulgare la conoscenza 
della nomenclatura familiare toscana: si pensi ai dialoghi di E. L. 
Franceschi e di P. Petrocchi 17 e ai capitoli sulla «lingua che non si sa» e 
sulla necessità dello studio del vocabolario nell’/dioma gentile del De 
Amicis. 

Si moltiplicano in questi anni i vocabolari dialettali, che si propon- 
gono, accanto allo scopo documentario, quello di fornire le corrispon- 
denti voci italiane per quelli che le ignorassero 18 ; e le raccolte di voci di 
italiano regionale considerate erronee: piemontesismi, venetismi, 
abruzzesismi, sardismi ecc. 19 . 

In complesso l’italiano parlato in questo mezzo secolo si è esteso 
notevolmente nell’uso a spese dei dialetti, anche se è difficile precisare 
in modo obiettivo la misura di questa estensione. 

6. Il linguaggio della prosa 

Chi consideri panoramicamente la prosa quale si scriveva corrente- 
mente prima dell’unità nazionale e dopo il primo cinquantennio di vita 
comune, noterà certo un considerevole progresso sia per quello che 
concerne l’unità (cioè l’esprimere le stesse idee con le stesse parole) sia 
per quel che concerne la vicinanza con la lingua parlata. Valga un 
esempio. Nel 1877 usciva l’Assommoir di Émile Zola, e poco dopo i 
traduttori italiani si mettevano all’opera per far conoscere quel tipico 
prodotto della scuola naturalistica francese. Ecco una mezza paginet- 
ta, quale la tradussero il napoletano Emmanuele Rocco, di tendenza 
tradizionalistica (1879), e il pistoiese Policarpo Petrocchi, di tendenza 
manzoniana (1880) 20 : 


credeva che anche in simili voci fra il toscano e il napoletano vi sia quella 
differenza che è in posto o fioretto-, e diceva viaggio come un toscano direbbe 
Biagio. Se profferiva soggetto, cadeva in -tutti e due codesti falsi toscanismi. 
Spesso metteva l’esse dolce fuor di proposito...» (F. D’Ovidio, Rimpianti, cit., p. 24). 

17 E. L. Franceschi, In città e in campagna: dialoghi di lingua parlata, Torino 
1868 e succ. edizioni-, P. Petrocchi, In casa e fuori: racconto dialogico illustrato, 
Milano 1893. 

18 Scarsi risultati ebbe un concorso ministeriale bandito nel 1890 per ima serie 
di vocabolari dialettali. 

19 Vedine un ampio elenco in E. Monaci, Pe’ nostri Manualetti, Roma 1918, pp. 
43-50. 

20 II Petrocchi dice nella prefazione d’aver tradotto il romanzo per dimostrare 
fallace l’asserzione che in Italia non si sarebbe potuto tradurre il romanzo 
zoliano per colpa della lingua; e dice d’averlo tradotto «senz’un vocabolo 
letterario, sei 'una parola che non sia popolare in Toscana: e anche senza 
nessuna perifrasi». 


608 


Storia della lingua italiana 


Mezzo secolo di unità nazionale 


609 


Gervasia, sempre rispondendo con 
compiacenza, guardava attraverso i 
vetri, fra i boccali di frutte in acquavi- 
te, il movimento ch’era nella strada, 
ove l’ora della colazione radunava una 
calca straordinaria. Sui due marcia- 
piedi, nel breve spazio che le case 
chiudevano in mezzo, vedevansi passi 
frettolosi, braccia ballonzolanti, un 
continuo urtar di gomiti. Quelli ch’era- 
no in ritardo, operai trattenuti dal 
lavoro, col viso stravolto dalla fame, 
attraversavano la via a gran passi, 
entravano di rimpetto da un panattie- 
re; e quando riapparivano, con ima 
libbra di pane sotto l’ascella, andava- 
no tre porte più su, al Vitello a due 
teste, a mangiare un pasto di sei soldi 
V’era pure, accanto al panattiere, una 
trecca che véndeva patate fritte e telli- 
ne al prezzemolo; una fila continua di 
operaie, in lunghi grembiali portava 
via dei cartocci di patate e delle telline 
nelle tazze; altre fanciulle graziose in 
capelli, d’un aria delicata, comprava- 
no mazzi di ravanelli. 

Quando Gervasia s’inchinava da 
un lato, scorgeva altresì una bottega di 
pizzicagnolo, piena di gente, d'onde 
uscivano fanciulli che tenevano in ma- 
no, involta in carta ingrassata, una co- 
stoletta crostata, un rocchio di salsiccia 
o un pezzo di sanguinaccio caldo caldo. 
Intanto, lungo la strada impegolata di 
una melma nera, anche quand’era bel 
tempo, in mezzo allo scalpiccio della fol- 
la che camminava, alcuni operai ab- 
bandonavate già le taverne, scendeva- 
no a frotte, andando a zonzo, battendo- 
si le cosce con le mani aperte, rimpin- 
zati di cibo, tranquilli e lenti in mezzo 
agli spintoni della tumultuosa calca. 

Si era formato un gruppo di n a n z i 
alla porta dello Scannatoio. 

- Di’ su, Bibi la Grillade, domandò 
una voce rauca, ci paghi una bevuta in 
giro di vitriolo? * 

E. Zola, L’Assommoir (Lo Scanna- 
tojoì. Trad. di Emm. Rocco, Milano 
1879, p. 40 segg. 

‘Spirito di vino. 


La Gervasa nel tempo che rispon- 
deva con compiacenza, guardava at- 
traverso i vetri, tra i vasi di frutte in 
guazzo, il movimento della strada, 
dove l’ora della colazione tirava una 
gran calca di gente. Sopra i due mar- 
ciapiedi, nella stretta gola delle case, 
c’era un affrettar di passi, un dondolar 
di braccia, un darsi delle gomitate 
senza fine. Gli operai tardivi, stati 
trattenuti al lavoro, colla céra annoia- 
ta per la fame, attraversavano il lastri- 
cato a lanci, entravano di rimpetto da 
un fornaio, e quando riapparivano, 
con ima libbra di pane sotto il braccio, 
andavano tre usci più avanti, al Vitello 
dalle due teste, a mangiare una solita 
da trenta centesimi. C’era anche, ac- 
canto al fornaio, una fruttaiola che 
vendeva delle patate fritte e delle telli- 
ne col prezzemolo; una sfilata conti- 
nua d’operaie con grembialoni, porta- 
van ina dei cartocci di patate e telline 
nelle tazze; dell’altre, graziose ragazze 
in capelli, con aria delicata, comprava- 
no dei mazzi di radici 

Quando la Gervasa si chinava, ve- 
deva pure una bottega di norcino pie- 
na di gente, di dov’uscivan dei ragazzi 
con una braciola panata in mano, av- 
volta in una carta unta, una salsiccia o 
un biroldo caldo fumante. Intanto, lun- 
go la strada impeciata d’un fango 
nero, anche col bel tempo, per lo scal- 
piccio della folla in movimento, alcuni 
operai lasciavan di già le bettole, scen- 
devano in crocchi bighellonando colle 
mani aperte e ciondoloni che gli batte- 
vano nelle cosce, inghebbiati di mangi- 
me, tranquilli e lenti in mezz’agli into- 
ni della folla. 

Un crocchio s’era formato all’uscio 
dell’Assommuàr. 

- Dimmi dunque, Bibì-braciola, do- 
mandò una voce fioca, lo paghi te un 
giro di zozza? 

E. Zola, L’Assommuàr. Trad. in lin- 
gua italiana parlata dei prof. Petrocchi 
e Standaert, Milano 1880, p. 34 segg. 


Prescindiamo per un momento dalla personalità dei due traduttori, 
e consideriamoli come i rappresentanti di due tendenze che, con 
innumerevoli sfumature tennero il campo ancora per alcuni decenni 
dopo l’unità. Nel 1910, due traduzioni così profondamente diverse 
sarebbero impensabili. 

La mediazione era stata preparata da quella che il Carducci 
chiamava con dispregio la «prosa borghese» (De Amicis, ecc.) 21 , di cui 
invece il Pancrazi riconosce i meriti: «la prosa borghese che in quegli 
anni si venne formando sulla tradizione manzoniana e sugli stampi 
regionali e sull’esempio del naturalismo francese, rispondeva a un 
bisogno... vitale: era la prosa della nostra vita media, sarebbe stata la 
prosa del romanzo e della novella italiana» 22 . Tra i critici, naturalmen- 
te, v’è chi tende piuttosto a sottolineare questo progressivo raccosta- 
mento, chi a lamentarsi che una sufficiente conformità non sia ancora 
raggiunta 23 . 

A operare questo conguagliamento nella lingua scritta quotidiana 
media valse in primo luogo, come abbiamo accennato, la palestra della 
Anta. 

Notevole efficacia mediatrice ebbero le riviste letterarie (va ricorda- 
to come primo e più notevole esempio il Fanfulla della Domenica, 
fondato da F. Martini nel 1879; intorno al 1910 conterà soprattutto La 
Voce) e i giornali meglio scritti. 

Ma ben s’intende che anche sulla lingua scritta quotidiana forte- 
mente agisce l’esempio degli scrittori d’arte. Delle maggiori correnti 
basterà qui dare un brevissimo cenno. 

Mentre il filone tradizionalistico si viene estenuando in alcuni 
attardati (come gli scrittori della «scuola romana»), il Carducci crea un 
nuovo esempio di prosa alta, temprata nella consuetudine con i classici 
latini e italiani, ma con felici spunti di toscanità nativa. E a lui più o 
meno fanno capo tutti quelli che propugnano la dignità della lingua 
letteraria illustre: «una lingua letteraria dotta e aristocratica - dice E. 
Scarfoglio nella nuova prefazione (1911) al suo Libro di Don Chisciotte - 
non può alimentarsi ai cento torrentelli impetuosi della lingua parlata, 


21 Si ricordi come definiva questa prosa borghese la Serao: «Guardate qui a 
Napoli: abbiamo tre lingue; una letteraria, aulica, sognata non reale; una 
dialettale, viva, chiara, pittorica, sgrammaticata, asintattica; una media che dirò 
borghese, che è scritta dai giornali che ripulisce il dialetto sperdendone la vivacità 
e tenta imitare la lingua aulica senza ottenerne la limpidezza» (in Ojetti, Alla 
scoperta dei letterati, p. 275 della rist. Pancrazi). 

22 II Ponte, I, 1945, p. 44. 

23 Nelle interviste ojettiane raccolte nel citato volumetto Alla scoperta dei 
letterati, il Bonghi si lagnava: «oggi, nel fatto, la lingua italiana non esiste nelle 
opere stampate. Tra la prosa sciatta e frettolosa di certi giornalisti e la prosa 
preziosa e affettata di Gabriele D’Annunzio, non si sa trovare il giusto mezzo. 
Uno Io avrebbe trovato, Ferdinando Martini, ma non ha vigore e novità» (p. 250); 
cfr. analoghe doglianze del De Roberto) («Ci vorranno anni e anni perché 
quest’istromento sia limato e solido», p. 135). 


610 


Storia della lingua italiana 


ma bensì al nobile serbatoio della lingua scritta, la lingua degli oratori, 
degli storici e dei poeti latini» 24 . 

Quanto all’influenza manzoniana, bisogna distinguere: mentre ge- 
neralmente si riconosce l’efficacia dell’esempio dato dai Promessi Sposi 
per insegnare a «scrivere con naturalezza» 25 , molte sono le contestazio- 
ni sulla sua teoria (cfr. § 8) e gli attacchi contro quelli che 1 applicano: 
parecchi se la prendono con il noto esperimento del Broglio, la vira ai 
Federico il Grande, in cui tanto spesso parole forme, frasi familiari 
toscane sonavano false, perché troppo popolari in relazione con 

1 argomento^ era la na ti va toscanità che risonava nel Collodi o 
in Yorick, nel Martini o nel Fucini, e più tardi nel Papirn o nel 
Palazzeschi. 

Dopo la breve stagione degli Scapigliati, antiretorici, che cantano 
Torrido il macabro, il diabolico, domina per qualche decennio nelle 
forme più varie, la tendenza veristica: gli autori si propongono di iar 
rivivere nei loro romanzi gli ambienti popolari, delle città e delle 
campagne; e ciò ha importanza anche per la storia della lingua, perché 
se i più si limitano a adoperare, per ottenere il color locale, qualche 
espressione in dialetto, il Verga riesce nei migliori deisuoiromanzia 
riassorbire i costrutti dialettali nel tessuto narrativo. Vero è che il suo 
stile parve al tempo suo troppo ardito ed ebbe scarsa influenza. Nè 
influenza si può dire che avessero gli impasti assai originali di un 
Dossi 27 , di un Faldella, oppure di un Imbriani. 

Sulla generale piattezza della prosa si leva come «voce d altura» 
quella di Gabriele d’ Annunzio, che fu soprattutto «artefice della 
parola» 28 . Per esprimere le più varie sensazioni, umane, superumane. 


« Commemorando il Carducci appena scomparso, lo stesso Scarfoglio dice- 
va- «Ci insegnò che la lingua deU’arte italiana non è nata pei trivi dialettali come 
pretendevano i corvi e le cornacchie appollaiate sugli ormai nudi alberi del 
romanticismo, ma è stata foggiata sull’incudine della trad^ione latma da una 
oligarchia di letterati nutriti di midollo plastico» (Le piu belle pagine, Milano 1932. 

^ 2 ls y oltre alla prefazione del Giorgini al Novo vocabolario di Giorgim e 
Broglio p Lira, le parole dell’ Ascoli (cit. a p. 618), e quel che diceva il D Ancona ne 
suo Manuale della letter. italiana: «quello... che ha la prosa moderna eh 
precisione di naturalezza, di popolarità, di densità di pensieri, m confronto della 
prosa Accademica e compassata, già troppo in onore, si deve per grandissima 

part ® 648- '649. Sul dilagare del fiorentinismo d’accatto, vedi anche F. 

Martini- «inondò le scuole una colluvie di storie, ove i personaggi di Sallustio e di 
Livio parlano come i contadini del pian di Lecore o i fruttaioli di via dell Anento; 
né si giurò più che per il Giusti e sul Giusti, lui solo inimitabile, lui maestro unico 
di ogni eleganza» («Giuseppe Giusti», m Pagine raccolte Firenze 1912, p. 36). 

27 D igeila. La lingua e lo stile di C. Dossi, Milano-Napoh 1958. 

22 Nell’ampia bibliografia, mi limito a rimandare a M. Praz, «D Annunzio e 
l’amor sensuale della parola», nel suo volume La carne, la morte e il diavolo nella 
letteratura romantica, Milano Roma 1930, 2» ed. Firenze 1948 e a R Mighonm, «G 
d’ Annunzio e la lingua italiana», in Saggi Novecento, pp. 222-250. 


Mezzo secolo di unità nazionale 


611 


ferine, egli allarga il vocabolario ben oltre i limiti consueti, ricorrendo a 
voci arcaiche, dialettali, tecniche (tratte, per esempio, dalla Storia 
naturale del Pokorny o dal Vocabolario marino e militare del Gugliel- 
motti), attingendo al latino o al greco (direttamente o magari attraver- 
so i simbolisti francesi). «La vita - dice il Bellonci 29 - dalle lettere degli 
amanti ai proclami della politica, prese le forme dannunziane; e le 
donne diventarono le elette dove gli uomini erano i despoti ». Questa 
influenza si fece sentire specialmente nel giornalismo, nel quale si 
divulgarono numerosi vocaboli e giunture dannunziane: teoria nel 
senso di «processione, fila», velivolo, irreale, malioso, aromale, liliale 30 , 
sinfonia di odori, la declinazione del giorno, una fascinazione di 
continenti sconosciuti, i dolori di nostra gente, quel volto di giovane 
iddio, temeva non forse egli avesse, ecc. 

Grande rumore levò il movimento futurista, propugnando innova- 
zioni radicali: «l’irruenza del vapore-emozione farà saltare il tubo del 
periodo, le valvole della punteggiatura e i bulloni dell’aggettivazione» 
(Marinetti, Zang tumb tumb, Milano 1914, p. 10). Ma l’influenza sulla 
lingua comune fu insignificante. 

Ancor più che i narratori, stentano a trovare un tono garbato e 
naturale gli autori teatrali, soprattutto perché l’uso parlato è poco 
sciolto e poco uniforme. Giova fino a un certo punto alla scioltezza, ma 
non certo alla purezza della lingua, il fatto che la maggioranz'a dei 
drammi che si recitano in Italia sono cattivi raffazzonamenti di 
drammi francesi. 

Naturalmente, chi voglia tener conto del linguaggio della prosa nel 
suo complesso, non solo non potrà trascurare gli scrittori di scienze 
morali (gli storici, i filosofi, ecc.), ma dovrà anche tener conto degli 
«scrittori utili ma non artisti» (come li chiamava l’Ascoli): per citar solo 
un esempio, la terminologia di C. Lombroso e della sua scuola interessa 
di per sé, e interessa in quanto qualche termine ne filtra nel lessico 
usuale (per es. mattoide ). 

Hanno molta importanza anche le terminologie scientifiche e 
tecniche: numerosissimi vocaboli (di medicina, ad es., o di elettricità, 
per lo più di conio intemazionale) arrivano a penetrare nell’uso 
quotidiano. Importa molto la terminologia giuridica, soprattutto per le 
precise delimitazioni concettuali che essa pone. 

L'influenza del linguaggio amministrativo è più che mai forte, e più 
che mai osteggiata dai puristi 31 : oltre alle coniazioni di vocaboli singoli 


29 Annali dell’lstr. media, X, p. 240. 

30 «Di aggettivi exo manti e gabrielici farete uso moderato: sacrificatene uno 
ogni tanto per propiziarvi la dea dell’eleganza e della snellezza e della 
naturalezza»: così il Pascoli in una lettera a A. De Witt del 1896 (T. Rosina, Saggi 
dannunziani, Genova 1952, p. 129). 

31 Si veda, per citare un esempio, il commento del Cerquetti a ima relazione 
della Commissione d’inchiesta sulla scuola secondaria (nel periodico L’Unità 
della lingua, 1 maggio 1873, pp. 129-135): egli biasima presiedere la Commissione 


612 


Storia della lingua italiana 



come realizzo, periziare e simili (v. p. 643), oltre a nuove locuzioru 
[donna attendente a casa), è caratteristico della lingua amministrativa 
l’abuso di formule fisse: prelodato può andar bene se si riferisce a^un 
personaggio autorevole, ma può accadere che un burocrate scriva m 
una relazione «i prelodati lupi»; e cosi si spiega bene «un libello a base 
di calunnie», ma non altrettanto «una rissa o base di zoccolate». 

Non meno forte è l’azione esercitata sulla lingua comune scritta dal 
giornalismo, che anch’esso cdntribuisce a propagare luogln comum e 
formule fisse (il fior fiore dei cittadini, sotto l egida del sindaco, i lieti 

C ° n Chi^olge l’occhio all’arte dello scrivere ammirerà il classico e pur 
vivace Carducci, il lussureggiante D’Annunzio, il meditato e composto 
Croce: ma bisogna (purtroppo) riconoscere che sulla prosa scritta 
quotidiana (nelle lettere, poniamo, di un tizio qualsiasi) 1 azione 
esercitata dal linguaggio burocratico e da quello giornalistico è piu 
forte che quella di un Carducci, di un D’Annunzio, di un Croce. 

7 . Il linguaggio della poesia 

I decenni che chiudono il secolo XIX conducono ancor più innanzi 
duella progressiva ridùzione della lingua aulica tradizionale che il 
romanticismo aveva iniziata. Il realismo tende a introdurre nei versi 
argomenti quotidiani, domestici, borghesi, e quindi a servirsi di voci 
dell’uso- «Suoni l’ode alla calce e al rettifilo» (Boito, Case nuove, 1866), 
«Si stava assai benino - un tempo a la Regina: - buona cu cma - ottimo 
vino» (V Betteioni, «Per una crestaia»)-, «E davanti a un gelato di 
crema alla vainiglia» (De Amicis, «Fra cugini»); «al fuoco la salsiccia 
odora e il vino splende» (S. Ferrari, «Nostalgia»), ecc. 

Ma nascono irreparabili dissonanze sofistiche 
andante e il molto che ancora persiste del lessico aulico 32 : «col falerno ; 
diamo la baia al verno» (Prati, «Iside»)-, «gli umidi campi redolenti - di 
nepitella» (Rapisardi, «Ottobre»), «le iperboree sizze» (Rapisardi, Giob- 

La consuetudine al lessico aulico è tuttavia ancora tale che anche ì 
poeti che vorrebbero esser letti dal popolo scrivono m m °d° che gli 
sarebbe certo inintelligibile. In una linea di Eliodoro Lombarch 
«Scienza e lavoro», parlano gli operai del braccio: «Ci escluser dal 
santo comune retaggio - ci han colmi e pasciuti di fiele e di oltraggio...». 


(vorrebbe presedere alla Commissione), distinto, verbale come sost., attribuzione. 

Dobbiamo citare di nuovo i suggestivi articoli di C. De Lollis, rist. nei Saggi 
forma poetica, e il buon saggio di W. Th. Elwert, «La crisi del ^«uaggio poetico 
ital. nell'Ottocento », in Anales del Instituto de Linguistica (Mendoza), I , , PP- 

36 ' 8 £ Severino Ferrari, nel Mago (c. Vili) derideva le strofe del Rapisardi 
«gemmate di lingua aulica e tracina». 


Mezzo secolo di unità nazionale 


613 


In una lirica di Giovanni Raffaelli sugli «Ospizi marini» (1868) il poeta 
esorta: «Ed or la salma frale - d’inopia e di fatica, - perché, scarno 
mortale - non credi all’onda amica?». Vittorio Betteloni, da alcuni 
rimproverato, da altri lodato per aver scritto i suoi versi in lingua 
parlata, usa funesti augelli; spirto; omero mio; la Morte dice alla 
Fanciulla di esser la suprema aita, e così via. Felice Cavallotti, quegli 
che fu chiamato il «bardo della democrazia», abbonda di espressioni 
auliche: «E l’oste egizia fu* («Marcia di Leonida»); « prischi evi*, «il caro 
fral* («Lucerna di Parini»). 

Le perifrasi care alla tradizione aulica si fanno più rare: ma lo 
Zanella per parlare del treno nomina «sulle compresse ali del foco - i 
trasvolanti carri» («Alla Madonna di Monte Berico»); nella stessa lirica 
il telegrafo è «l’accento - come guizzo di folgore trasmesso»; per la 
Bonacci Brunamonti i cannocchiali sono «concavi tubi»; «Molti segreti 
ai concavi - tubi assente l’aerea lontanza» («Stelle nere», II, in Nuovi 
canti). 

Molto lessico poetico tradizionale è ancora nel Carducci giovane; 
ma nella sua miglior stagione egli rinnova il suo lessico specialmente 
con l’arricchirlo di latinismi, se non nuovi, non consunti dall’uso 
poetico dei secoli precedenti: adamante, buccina, cortice, delubro, ilice, 
vulture-, cerulo, flavo, fumido, occiduo, virente, ecc.-. si noterà che 
abbondano tra questi latinismi le parole sdrucciole, particolarmente 
adatte ai nuovi metri inaugurati dal poeta. Qualche altra voce egli 
attinge volentieri ai poeti italiani antichi, senza che sia passata per il 
tramite della tradizione: aulente, piovomo, ecc. 

Mosse da lui anche Gabriele d’ Annunzio, prima di prendere un suo 
proprio cammino-. Il suo alessandrinismo lo spinge alla ricerca di 
parole belle e rare, il suo decadentismo fa che egli gusti la parola come 
una musica o come un sapore. Egli attinge a larga mano latinismi e 
grecismi, dialettalismi e tecnicismi: allarga insomma quanto forse non 
era mai stato fatto il lessico poetico. Ma le parole della tradizione 
aulica sono ormai ridotte a pochissime 34 . 

Per il Pascoli la tradizione aulica è ormai completamente finita: egli 
evita non solo vocaboli alieni dall’uso popolare ma anche quelli troppo 
generici, cari per lunga consuetudine ai poeti dal Petrarca in poi 33 ; ama 
invece la concretezza dei vocaboli rustici, romagnoli o lucchesi, fino a 
riuscire talvolta inintelligibile: 


31 Già mi sono permesso di rinviare al mio articolo su «D'Annunzio e la lingua 
italiana». Un bel glossario dei vocaboli della poesia del secondo Ottocento, quali 
sono adoperati dai postcarducciani e dal D’Annunzio, è nel volume cit. del 
Garzia, Il vocabolario dannunziano, pp. 110 - 182 . 

35 II Pascoli lamentava che per i poeti italiani «tutti gli alberi si riducono a 
faggi, tutti i fiori a rose e a viole (anzi rose e viole, unite più spesso nella dolcezza 
del loro suono che nella soavità del loro profumo) e tutti gli uccelli a usignuoli»: 
Pascoli, «Il Sabato», in Miei pensieri di varia umanità, Messina 1903, p. 70 (= Prose, 
I, Milano 1946, p. 59). 


614 


Storia della lingua italiana 


Vogliono dire ch’han la tiglia soda 
più che nimo altri che di mattinata 
porti in monte il cavestro o la bardella 

(«Il ciocco», I, in Canti di Castelvecchioì 3B . 

Questa tendenza pascoliana è, in sostanza, un modo di preziosismo; 
come si vede altrove dalla frequenza di vocaboli tecnici (meteci, 
mirmilloni , mistofori , pezeteri , pulte , teda , ecc. nei Poemi conviviali). 
D’altro canto il Pascoli spesso preferisce decadentisticamente parole 
vaghe, indeterminate, che con la loro musicalità possono suggerire al 
lettore una apertura verso mondi ignoti. . . 

Anche per i crepuscolari, anticarducciani e antidannunziam, il 
lessico poetico tradizionale è ormai morto: se mai, il Gozzano qualche 
volta se ne vale per evocare il suo vecchio piccolo mondo (si ricordi, nel 
«Viale delle Statue», l’ava che pellegrinava «lungh’essi - i bussi e i 

° ^Nei futuristi lo sforzo di liberarsi da ogni vecchia consuetudine (v. p. 
680) si combina con un esasperato metaforismo che fa pensare a,i 
secentisti («O vento crocifisso dai chiodi delle Stelle!»: Marinetti, 

Distruzione, 1911). . ... 

Vediamo, insomma, che il verso e la prosa si sono raccostati 
moltissimo: il verso sta diventando simile alla prosa e la prosa al verso. 
Abolito, salvo qualche sporadico resto, il lessico poetico tradizionale, i 
soli espedienti linguistici di cui i poeti dispongono quando voglio- 
no valersi dei versi consueti (e molti inclinano invece al verso libero) 
sono una certa libertà nei troncamenti e nelle dieresi, e una maggior 
libertà nell’ordine delle parole («E ancor ne odora la campestre via»: 
Bertacchi). 

Anche il linguaggio del teatro in versi (Cossa, Giacosa, Cavallotti! 
non si scosta di molto dalla prosa. Invece il melodramma conserva di 
solito « quell’ambiguo gusto linguistico, tra romantico e classico, in 
nome del quale Francesco Maria Piave, con abuso retorico, avrebbe 
fatto ascendere Alfredo Germont alle egre soglie di Violetta, e dichiara- 
va alla medesima di avere di lacrime d’uopo, volendo significare che 
aveva voglia di piangere» 37 . 


36 II Mantovani {Letteratura contemporanea, Roma 1903), a proposito di versi 
come questi, parlava di «passi in turco»; più mitemente il Baldini: «le parole piu 
umili più villerecce, spesso da intendersele solo due biroccini di Barga fra di 
loro»’ (Fine Ottocento, Firenze 1947, p. 229). Il Contini (nel voi. miscellaneo Studi 
pascoliani. Faenza 1958, p. 47) ha giustamente osservato che ì dialettantismi 
pascoliani sembrano molto determinati: «pure in effetti la precisione è sfuggente, 
in realtà assistiamo a una forma di evasione impressionistica». 

37 Baldacci, I poeti minori dell’Ottocento, I, Milano-Napoli 1958, p. xn. 


Mezzo secolo di unità nazionale 


615 


8. Discussioni sulla lingua 

I primi decenni di vita del nuovo regno sono pieni delle dispute 
ravvivate con giovanile fervore dal Manzoni 38 . 

Veramente, negli anni in cui si sentiva come imminente il compiersi 
dell’unità politica con Roma capitale, qualche dubbio era sorto nel 
Manzoni stesso intorno alla sua tesi che l’italiano dovesse prendere a 
modello Firenze 39 . 

Ma la principale manifestazione della tesi fiorentina del Manzoni si 
ebbe nel breve periodo in cui Firenze fu capitale. Nominato ministro 
della pubblica istruzione (il 27 ottobre 1867) il milanese Emilio Broglio, 
grande ammiratore del Manzoni e seguace delle sue idee, pensò bene 
di romper gli indugi, e di dare la spinta al vagheggiato vocabolario, di 
cui il Manzoni «doveva essere il maestro di cappella» (Prefaz. al Novo 
Vocabolario, voi. Ili, p. xiv). Il 14 gennaio 1868 fu nominata una 
commissione con il compito «di ricercare e proporre tutti i provvedi- 
menti e i modi, coi quali si possa aiutare e rendere più universale in 
tutti gli ordini del popolo la notizia della buona lingua e della buona 
pronunzia»: la commissione era suddivisa in due sezioni, una milanese 
e una fiorentina; presidente generale era il Manzoni, vicepresidente il 
Lambruschini. Benché quasi ottantenne, il Manzoni si accinse a 
stendere la relazione «con un’alacrità, quasi direi una furia, davvero 
prodigiosa in quell’età» (Broglio, 1. c.). Già il 19 febbraio egli mandava il 
testo autografo al Broglio, accompagnandolo con una lettera in cui si 
diceva grato d’aver ricevuto «un incarico che m’onora, e che è tanto 
conforme a una mia vecchia passione». 

Nella relazione (intitolata Dell’Unità della lingua e dei mezzi di 
diffonderla ) il Manzoni mostra la necessità d’una lingua comune per 
tutta la nazione, e sostiene «che l’accettazione e l’acquisto dell’idioma 
fiorentino sia il mezzo che possa dare di fatto all’Italia una lingua 
comune». Lingua «non è, se non è un tutto; e a volerla prendere un po’ 
di qua e un po’ di là, è il modo d’immaginarsi perpetuamente di farla, 
senza averla fatta mai». Egli risponde, una per una, alle principali 


38 Sorvoleremo in questo paragrafo su tanti autori minori; ma non vogliamo 
lasciare senza menzione l’articolo di P. Valussi, «La lingua nel rinnovamento 
nazionale italiano», in Rivista contempor., gennaio 1863, pp. 17-33, ricco di 
osservazioni e di assennate proposte. 

38 Si veda il poscritto confidenziale a una lettera a G. B. Giorgini, del 5 ottobre 
1862 (in Manzoni intimo, a cura di M. Scherillo, II, Milano 1923, p. 197): «Mi sono 
anche ben guardato d’addurre un motivo che mi leverebbe una gran parte di 
coraggio, ... la gran probabilità che la capitale sia per essere altrove che a 
Firenze. Prima d’ora, se questa non era riconosciuta unanimemente e costante- 
mente per la sede della lingua, non c’era però alcuna altra città che, in questo, le 
potesse contendere il dominio; e chi avesse riconosciuto che la lingua s’ha da 
prendere da una città, era costretto a nominar Firenze. Ma una capitale ha, per 
la natura delle cose, una grande influenza sulla lingua della nazione. Sarebbe 
credo, un caso unica che il capo della nazione fosse in un luogo e la sua lingua in 
un altro». 


616 


Stona della lingua italiana 


obiezioni che immagina possano essergli fatte intorno alla scelta di 
Firenze e intorno all’utilità di un vocabolario dell uso vivo fiorentino . 
La relazione conclude col tributar lode al ministro dell’aver «avviata 
per la vera strada ima questione di tanta importanza; giacché dopo 
l’unità di governo, d’armi e di leggi, l’unità della lingua è quella che 
serve il più a rendere stretta, sensibile e profittevole 1 unità d una 
nazione». 

Mentre la lettera al Carena, pubblicata nel volume delle Opere vane 
aveva avuto un’eco limitata (pp. 652-653), la Relazione, subito pubblica- 
ta nella Nuova Antologia di Firenze e nella. Perseveranza di Milano, 
ebbe grandissima risonanza. Erano passati più di vent anru e 1 itaiiasi 
trovava nel periodo decisivo della sua unificazione politica. Inoltre 
l’iniziativa non si presentava più come ima critica privata di un insigne 
scrittore a un vocabolario troppo composito; ma come una precisa 
proposta, fatta per incarico ufficiale, la quale in certo modo invitava a 

uri pubblico dibattito. 

Molti sorsero a plaudire e ad echeggiare, molti a contraddire con 
libri opuscoli, articoli. Luigi Settembrini scrisse al Broglio, il 22 marzo 
1868- «Che mi avete fatto, onorevole Signor Ministro! Confregisti opus 
auinquaginta annorum\ mi avete guastato l’antica e bella statua di 
Alessandro Manzoni, che voi Lombardo dovevate piu degli altri 
conoscere, rispettare, e non farlo parlare. Perché sforzare il vecchio e 
venerando Priamo a riprendere le armi e scagliare telum sme ictu...... 

L’animoso vegliardo, ormai in mezzo alla mischia, si batteva con 
ardore. Eccolo sostenere con una lettera «intorno al libro De vulgan 
eloquio» {Perseveranza , 21 marzo 1868) che nel trattato dantesco «non si 
tratta d una lingua, né italiana, né altra qualunque». Eccolo rispondere 
al Tigri pistoiese (il quale aveva scritto: «Non dubito punto che quando 
il Manzoni diceva che l’idioma nazionale dovesse essere ti fiorentino, 
non volesse intendere il buon toscano»), che, date le varietà che si 
hanno anche in Toscana, intendeva proprio dire fiorentino, e che «il 
concetto di questa unità che è la vita delle lingue* è «anche la 
condizione per poterle diffondere; giacché per camminare bisogna 
0SS6T6 » 

Infine, riprendeva la penna, tra la fine del’68 e il principio del 69, per 
rispondere all’altra relazione presentata al ministro dal Lambruschim 
(a nome della sottocommissione fiorentina), piena di riguardi per il 
Manzoni, ma sostanzialmente negativa 41 . Il volumetto di risposta 
s’intitolò Appendice alla Relazione intorno all'unità della lingua e ai 

mezzi per diffonderla (Milano 1869). , , 

L’Appendice è meno organica della Relazione e salta un po «di palo 
in frasca», perché il Manzoni vuol chiarire il suo pensiero sui punti in 


« Accanto a questo principale provvedimento, altri la Commissione ne 
proponeva al ministro (preferenze da accordarsi agli insegnanti toscani, eccJ. 
*' Vedila nella Nuova Antologia del maggio 1868 . 


Mezzo secolo di unità nazionale 


617 


cui gli sembra che sia stato frainteso. Nega cosi che esista una serie di 
vocaboli «riservata a uso particolare delle persone di Lettere»; conte- 
sta che la compilazione del dizionario dell’Uso possa esser fatta con un 
processo di eliminazione. Confrontando alcuni articoli del dizionario 
dell’Accademia francese con quelli corrispondenti del Vocabolario 
della Crusca, lamenta che non si sia riconosciuta in Italia l’autorità 
dell’Uso come si è fatto in Francia, ma nota che ciò è in parte dovuto 
alle diverse condizioni dei due popoli. Coglie l’occasione per conferma- 
re in breve alcune «leggi generali del linguaggio» applicate «alle 
circostanze particolari dell’Italia», e conferma così la sua definizione 
del «vero e intero Uso delle lingue; cioè una totalità di segni prodotta 
da una totalità di relazioni, quale esiste, per effetto naturale, in una 
popolazione riunita e convivente». Accoglie dalla relazione fiorentina il 
suggerimento di un prontuario di gallicismi, in quanto siano superflui, 
purché accanto ad essi vi siano nell’uso fiorentino voci corrispondenti. 
Nega che la sua proposta conduca «a uno sconvolgimento, a una 
rivoluzione generale in fatto di lingua». 

La trattazione è vivace, ricca di richiami, di citazioni, d’aneddoti, 
forse un po’ chiacchierina; e si chiude con un’esortazione appoggiata a 
un ricordo patriottico: «Ventun anno fa, tra vari pareri (non erano 
allora, né potevano esser altro) intorno all’assetto politico che conve- 
nisse meglio all’Italia, ce n’era uno che chiamavano utopia, e qualche 
volta, per condescendenza, una bella utopia. Sia lecito sperare che 
l’unità della lingua in Italia possa essere un’utopia come è stata quella 
dell’unità d’Italia». 

Il 24 ottobre 1868 il Broglio aveva intanto istituito per decreto «una 
Giunta incaricata di compilare il Dizionario della lingua dell’uso 
fiorentino», con quattro membri ordinari e alcuni straordinari; egli 
aveva nominato anzi sé stesso presidente, per evitare che i lavori si 
fermassero quando egli non fosse stato più ministro. 

Quando si cominciò a pubblicare l’opera, col titolo di Novo Vocabo- 
lario della lingua italiana secondo l’usó di Firenze, Graziadio Ascoli 
colse l’occasione per pronunziarsi intorno alla teoria manzoniana, 
proemiando alla sua nuova- poderosa rivista, l’Archivio glottologico 
italiano Qa prefazione, datata 10 settembre 1872, uscì al principio del 
1873). Riconoscendo come vero «il male, cioè la mancanza dell’unità di 
lingua fra gli Italiani», riconoscendo come opera molto meritoria 
«quella che valga a minorare questo male o a sanarlo», si ferma ad 
analizzare le differenze tra le condizioni storiche dell’Italia e quelle 
della Francia e quelle della Germania, e a mostrare quello che sarebbe 
potuto avvenire se condizioni simili a quelle francesi oppure a quelle 
tedesche si fossero avute fra noi. Quando un’attività operosa si 
diffonde per tutta una nazione, il «provvido rimedio» della selezione 
naturale vien presto a eliminare il «lusso di voci o locuzioni equivalen- 
ti» (p. xviii). Ora «si viene a dire agli operai dell’intelligenza che 
sospendano, tanto o quanto, la propria industria, e non già per rifornire 
il loro apparecchio mentale col rituffarlo in una nuova serie di libri che 


618 Storia della lingua italiana 

ancora alimentino il loro pensiero e Moro studi (che sarebbe cosa 
tollerabile), ma per farsi a imitare (essi dicono scimieggiare) una 
conversazione municipale, qual sarà loro offerta da un vocabolario, da 
una balia, oppur dal maestro elementare che si manderà (da una terra 
così fertile di analfabeti) a incivilir la loro provincia» (p. xxv). 

Purtroppo il motivo per cui l’Italia non ha ancora una lingua «ferma 
è sicura» sta «nella scarsità del moto complessivo delle menti, che è a 
un tempo effetto e causa del sapere concentrato nei pochi, e nelle 
esigenze schifiltose del delicato e instabile e irrequieto sentimento 
della forma» (p. xxvn). E i rimedi che ora si suggeriscono, nel 
«nobilissimo intento di rimediare al doloroso effetto», finirebbero col 
«ribadirne le cause» (ivi). «Le squisite brame di quel Grande, che è 
riuscito, con 1’infinita potenza di una mano che non pare aver nervi, a 
estirpar dalle lettere italiane, o dal cervello dell’Italia, l’antichissimo 
cancro della retorica» (p. xxvm) hanno provocato lo «zelo illusorio o 
nocivo» (p. xxix) dei suoi seguaci. Se l’ideale del classicismo non si 
attagliava alla vera unità nazionale, le ripugnava ben di più «il nuovo 
ideale del popolanesimo» fiorentineggiante (p. xxxi). 

Insomma, lo scopo a cui si deve mirare è «rinnovare o allargare 
l’attività mentale della nazione», non procurare, dopo quella antica, 
una nuova «preoccupazione della forma»' 12 . 

Quando al Manzoni, ormai vicino a spegnersi, giunse notizia del 
proemio dell’Ascoli, dicono esclamasse celiando: «se l’Ascoli non vuole 
il fiorentino, pigliamo magari il bergamasco, purché ci teniamo a un 
linguaggio vivo e intero», e soggiungesse: «l’Àscoli ci può insegnare a 
tutti come le lingue si formano, ma vorrei che egli considerasse che 
cosa è una lingua!». Così Francesco D'Ovidio 43 , il quale fin dall’anno 
della pubblicazione del Proemio 44 e poi in parecchi altri scritti, con 
molta informazione e sagacia cercò di gettare un ponte fra le due 
opposte dottrine. 

Il purismo metteva alla disperazione il pensatore e lo scrittore che si volgesse 
a idee e cose nuove, o avesse da richiamar alla svelta le già note; mentre il 
Manzoni voleva la parola o la frase fiorentina dove questa ci fosse, ma dove 
mancasse lasciava libero il passo ad ogni novità, ad ogni espediente, sia di 
ricorrere a voci d’altri dialetti o lingue, sia di cimentarsi a nuove formazioni. In 
secondo luogo, non strozzava gli studi sui dialetti, anzi li favoriva e promoveva. E 
finalmente e soprattutto, se il Manzoni deduceva la sua dottrina pratica troppo 
esclusivamente dal fatto dei primi tre secoli, in cui la Toscana e Firenze ebbero 
ima specie di dittatura linguistica, l’Ascoli guardava con troppa predilezione ai 
tre secoli successivi, in cui l’attività letteraria e linguistica è stata, bene o male, di 

42 Più pacatam Jnte, l’Ascoli tornò sull’argomento nel 1880, per il noto articolo 
deU’Encyclopaedia Britannica (pubblicato in italiano dall’Arch. glott. it.. Vili: v. le 
pp. 125-127). 

43 Correzioni, pp. 119-120. 

44 Nell’articolo «Lingua e dialetto» nella Rivista di filoL classica (1873), poi 
ristampato nei Saggi critici e nelle Opere. 


Mezzo secolo di unità nazionale 619 


tutta 1 Italia. Ma la nostra gloriosa e dolorosa storia abbraccia tutti e sei quei 
secoli, e la nostra condotta presente e futura deve di necessità discendere da essi 
tutt J; s ® negU ultimi tre secoli le condizioni d’Italia sono state rassomiglianti a 
quelle della Germania, nei primi tre, tanto ancora vivi nella nostra coscienza 
rassomigliarono a quelle della Francia. Né si possono saltare dunque a piè pari i 
tre ultimi secoli, rendendo a Firenze una dittatura già deposta, né d’altro lato 
dimenticare neppur oggi quella che fu la nostra Parigi, o almeno la nostra Atene. 
Se in Germania nessuno ‘discerne la culla della lingua’ né ricerca il ‘precisò 
angolo della patria tedesca’ da cui scaturì la prima fonte della lingua di Lutero di 
Klopstock e di Kant, in Italia invece tutti sappiamo che la culla o la fonte della 
lingua nostra fu la patria di Dante e di Machiavelli. 

Or come dunque questa differenza così grande non avrebbe a determinarne 
una altrettanto grande nel modo di provvedere alle sorti della nostra lingua? Il 
fiorentino odierno si dovrà perciò tener sempre come un vivo specchio d'italianità 
sincera e fresca, e solo non prenderlo a norma quante volte diverga dall'uso 
letterario, ove questo è saldamente stabilito; e prenderlo come un consiglierò 
spesso prezioso, non come un’autorità assoluta, dovunque l’uso letterario 
ondeggi o manchi del tutto 45 . 

Se oggi possiamo trovarci consenzienti in questa formula di 
conciliazione, dobbiamo tuttavia renderci conto dell’atteggiajnento 
radicalmente diverso dei due maestri. Il Manzoni, che pure era così 
alieno da ogni specie di attività politica, si era accinto all’impresa con 
un preciso fine di politica culturale. Era giunto a porsi il problema sotto 
la spmta delle proprie necessità artistiche, per crearsi un ling uaggio 
che permettesse im «andamento naturale e scorrevole» fletterà al 
Casanova); ma poi l’artista s’era fatto da parte, cedendo il posto al 
cittadino, preoccupato di rimediare a un inconveniente di carattere 
sociale. Già Dante, già il Varchi, già il Salvini avevano riconosciuto il 
carattere sociale della lingua; ora il Manzoni addirittura propugna una 
riforma di essa per giungere a un fine sociale e politico. Egli vuole che 
gli Italiani «di tutte le classi» giungano in un avvenire non lontano a 
possedere una lingua veramente comune; e pur di giungere a questo 
altissimo bene civile non si preoccupa che non rientrino nel program- 
ma le sue opere di poesia, come le tragedie e gli inni sacri 45 . 


Prefazione alla ristampa di G. I. Ascoli, Il Proemio all'Archivio Glottologico 
Città di Castello 1914, pp. 12 - 13 . ~ 

45 Nei colloqui col Tommaseo U857), il Manzoni aveva ben detto che voleva 
che «la lingua della prosa fosse tutta del comune uso vivente», e «concedeva poi 
alla poesia un linguaggio differente» ( Colloquii col Manzoni, cit., p. 52 ). E il 
Criorgmi, nella Prefazione al primo volume del Novo Vocabolario (p. lvii), al Prati 
il quale gli aveva dedicato il suo Armando scusandosi che 
Il libro non è scritto in fiorentino 


ché per ridomandar, nato in Italia, 
la lingua a un’altra balia, 
poco mi giova rivagir bambino, 

rispondeva così: « La poesia è fuor_di questione. Per la poesia (meno i generi che 
unitan la prosa) è un vantaggio avere una lingua in parte diversa da quella che 
serve al commercio ordinario degli uomini». 


620 


Storia della lingua italiana 


Se l’avere impostato la questione non più come problema letterario 
ma come problema civile è altissimo merito del Manzoni, non si può 
Ssconoscere che il rimedio da lui proposto era piuttosto artificioso. 
Inoltre esso misconosceva l’importanza di quell’unificazione che (sia 
urne in certi casi incompletamente o malamente) già si era venuta 
facendo attraverso la lingua scritta. E non teneva conto di Quei casi 
(sia pur non molti) nei quali tutta o quasi tutta 1 Italia era concorde 
talvolta proprio per aver accolto una forma o un vocabolo fiorentino, e 
soltantoSirenze era discorde perche, in età relativamente prossima 
aveva innovato (è il caso di anello per ditale e, vanatis variandis, di 
borio novo, per buono, nuovo). 

D’altra parte la coscienza deh’ Ascoli era così rigorosamente stonca 
che mal tollerava qualsiasi intervento normativo, «glottotecmco», che 
in aualche modo mirasse ad accelerare la «selezione naturale». 

Nel fermare l’attenzione sui due maggiori protagonisti della disputa 
e sul più acuto dei mediatori, non abbiamo inteso negare I mportanza 
delle discussioni condotte da numerosi altri studiosi, dal 1868 m poi . 
Intervennero a favore del Manzoni, con vana competenza e vana 
energia, oltre al Giorgini e al Broglio, il Buscaino Campo, il Morandi, il 
Petrocchi, il De Amicis e alcuni altri; contro il Manzoni, o contro gli 
abusi delia teoria manzoniana, il Fanfani, il Gelmetti, il Settembrini 
rimbriani, lo Scarabelli, il Caix, lo Scarfoglio, il Dossi e, piu autorevole 

deS Col secolo nuovo, le dispute sono ormai in gran parte placate. Nel 
fatto, le differenze sono già molto minori; e ci si accorge che continuare 

a discutere in astratto giova assai poco. . , 

Ma c’è un’altra questione che sempre si rinnova. Abbiamo già visto 
(8 4 ) come il purismo del Cesari e del Puoti non avesse ormai piu 
séguito nella nuova Italia unita. Tuttavia il turbinoso pullulare dei 
francesismi e delle voci burocratiche la trascuratag^ 
stilistica che domina negli scritti pratici, e non solo m quelli, suscita 

V1V pietto e Fmifani, parlando di Firenze capitale dice che essa “dopo il 
trasporto è, per la più parte della gente nuova, poco di meglio che una 
tana da fiere...: è degna di riso la lingua che vi si parla, o non certo 


« Vedi l’elenco dato da G. Sforza, nell’Epistolario del Manzoni, II, pp. 350-353, 
e i riassunti del Vivaldi, Le controversie intorno alla nostra lingua, 1 ed., II , 

paS « 'oltre al notissimo verso contro il «manzonismo degli stenterelli» («Davanti 
San Guido» nelle Rime nuove: il Mazzoni e il Picciola giustamente ^terpretan 
«lo stenterellismo dei manzoniani»), si ricordi specialmente la de le 
MnsrhP cocchiere in cui immagina il «sognacelo d incubo» del ministro broglio, 
fhe tveva ^tisto «nosUa madie Italia puntargli le ginocchia sullo stomaco 
impugnava con 1W =*£0 ^ta quirito e 

XXIV, PP. 161-162; Lettere, XIII. p. 125; e 

v. § 17. 


Mezzo secolo di unità nazionale 


621 


degna di scambiarsi co’ dialetti dell 'altre parti d’Italia» 49 . Brunone 
Bianchi denuncia «il leppo ostrogotico tra cui siamo avvolti» (lettera al 
Fanfani, 1867) 50 . Il Mamiani si lamenta: «...il quesito non versa sopra il 
conoscere se v’abbia una lingua italiana, ma sopra il modo di salvarla, 
tanto si va ogni dì sciupando ed infranciosando!» Qettera al Fanfani, 18 
ottobre 1868) 5 '. 

Il Tommaseo traccia sconsolatamente un quadro della lingua 
contemporanea: «abbiamo un gergo composto di vocaboli e maniere 
esotiche stranamente figurate, ricercate nella ineleganza, ridevoli a 
chi ne conosce l’origine e gli sformamenti patiti passando a noi... Non 
solamente negli uffizi pubblici e nelle scuole, nelle botteghe e nelle 
officine, ne’ giornali e nelle assemblee, il contagio di questo gergo si va 
diffondendo, ma penetra negli scritti più accuratamente studiati, nel 
consorzio della vita domestica...» 52 . 

E potremmo continuare a lungo citando lamenti di questo genere, 
anche nei decenni successivi, e non solo da parte degli epigoni del 
purismo (Arila, R. Fomaciari), ma anche da parte di scrittori di 
formazione assai diversa (De Amicis, Martini, D’Annunzio, Fanzini...): 
segno, da un lato, della gravità della crisi di crescenza che l’italiano 
subì con l’allargarsi del suo uso a tante nuove cerehie; segno, d’altro 
lato, del sempre rinascente culto per l’eleganza della parola e dello 
stile, di contro all’affermarsi delle convenienze pratiche. 

Com’è ovvio, le dispute della lingua spesso sono indissolubilmente 
consertate con censure alla lingua individuale di singoli scrittori. 
Quando i Promessi Sposi furono inclusi nel 1883 dalla Crusca fra i testi 
da citare nel Vocabolario, il Tribolati trovò da ridire. Contro il De 
Sanctis e i suoi «mondi» (il mondo intellettuale, il mondo morale e 
simili) sono numerosi quelli che protestano (Fomaciari ed altri). 
Avversano la lingua del Verga il Petrocchi, lo Scarfoglio, ecc. E tutti 
ricordano le numerose critiche e parodie alla lingua e allo stile del 
D’Annunzio, e la ribellione fra i letterati e il pubblico suscitata dai 
futuristi. 

9. Grammatici e lessicografi 

Anche fra i grammatici, si sentono le risonanze della disputa 
manzoniana: mentre il più ricco fra i manuali (quello di R. Fomaciari, 
Grammatica italiana dell'uso moderno e Sintassi italiana dell’uso 
moderno, Firenze 1881) si appella per lo più ad esempi di scrittori 
classici, e qualche volta ad esempi più recenti (Manzoni, Giusti, 
Tommaseo), le grammatiche dei manzoniani (Petrocchi, 1887; Morandi- 


49 II Borghini, III, 1865, p. 764. 

60 Cit. da P. Fanfani, Bibliobio grafia, p. 111. 

51 Ivi, p. 118. 

52 Aiuto all'unità della lingua. Saggio di modi..., Firenze 1874, p. i. 


622 Storia della lingua italiana 

Tramater a cura Bellini, pubbUcato a Tonno dalla casa 

SlSSSSSSl 

JSSSvwtó delto tmgua 

r Rìcnitìni (fieura nel titolo anche il nome di P. Fanfani, cne p 
di G. nigunni uiguia nei 1QQ o „n ncriva una nuova 

SSe1iS.eSSÌ e dXstL<» Rigutini L’insistenza sulla lingua 
Movo vocatoiari^delio^ijiguu^iialiana secondi^ 

importante per lnrigmaSserie d’esempi messi insieme dai compilatori 
SeC Non mSo Mtevole"Tw?«dizionorio italiano di P. Petrocchi (2 

"Sne SKS S^re^aTUo 

Tta^^peculiarità^ovute^affiorent^smo^ro^wimiaRcoldSi^uitore, 

lèssss&sssss 

’mM ISSsSSSS 


Mezzo secolo di unità nazionale 


623 


corrotta italianità di P. Fanfani e C. Arlia, Milano 1877 (poi intitolato 
Lessico dell’infima e corrotta italianità nelle successive edizioni e 
ristampe, ivi 1881, 1890, 1897, 1907) e I neologismi buoni e cattivi di G. 
Rigutini, Roma 1886. Il Dizionario moderno di A. Panzini raccoglieva 
fin dalla prima edizione (Milano 1905), insieme con molte voci abusive 
condannate, numerose altre voci dialettali, tecniche, gergali non 
registrate dai vocabolari; nelle successive edizioni (già cominciando 
dalla seconda, Milano 1908) la severità del censore di lingua un poco 
s’attenua, mentre vien prevalendo l’osservatore attento ed ironico del 
costume. 

Vanno ricordati i migliori tra i numerosi vocabolari speciali pubbli- 
cati in questo periodo: quello di Canevazzi e Marconi ( Vocabolario di 
agricoltura (Rocca S. Casciano 1871-1892) 53 , quello del Rezasco [Diziona- 
rio del linguaggio italiano storico ed amministrativo, Firenze 1881), 
quello del p. Guglielmotti ( Vocabolario marino e militare, Roma 1889), 
tutti e tre impostati più o meno storicamente; si ebbero anche discrete 
raccolte di termini di arti e mestieri (Gargiolli, Arila, Fanfani). 

10. Rapporti con altre lingue 

Benché la posizione del francese come lingua culturale intemazio- 
nale sia in questo periodo un po’ diminuita per motivi politici e 
commerciali e quella dell’inglese sia molto cresciuta, la cultura italiana 
per la vicinanza, per gli stretti rapporti d’ogni genere, per la lunga 
tradizione, per la maggiore affinità linguistica, è tuttora principalmen- 
te rivolta verso la Francia: il francese è la prima lingua straniera che 
obbligatoriamente s’impara nelle scuole, i giornali e le riviste attingono 
largamente a quelli transalpini; i maggiori scrittori francesi circolano 
nella lingua originale, mentre i romanzi più popolari si traducono, 
magari parecchie volte; così anche si traducono manuali scientifici e 
tecnici in abbondanza 54 . 

Le liste non solo dei pranzi di gala, ma anche dei ristoranti di 
qualche pretesa, sono spesso in francese 55 . E si potrebbero moltiplicare 
gli esempi che dimostrerebbero come linguisticamente l’apertura verso 
l’estero è limitata. per lo più, alla conoscenza del francese. 


53 Esso è 1’unico risultato di ima Commissione istituita nel 1870 presso il 
Ministero di agricoltura, industria e commercio per compilare un «Dizionario 
italiano della lingua tecnica». 

“ Non di rado le traduzioni erano fatte ad orecchio. Cito un solo esempio fra i 
tanti: nella traduzione italiana del Dizionario veterinario di P. Cagny e H. S. 
Gobert (I, Torino 1907) figura il lemma arnesi; e leggendolo si capisce che il 
traduttore ha reso così (anziché con finimento il francese hamois. 

55 Nel Demetrio Pianelli del De Marchi (1890), a un pranzo d’impiegati per 
festeggiare un superiore, imo di essi «cercava di nascondere la faccia col 
cartellino del menu, che egli leggeva per la quarta volta senza capir nulla di quel 
francese stampato in oro...» (p. 321 dell’ed. Firenze 1910). 


624 


Storia della lingua italiana 


Mezzo secolo di unità nazionale 


625 


Molto più ristretta è dunque, in confronto, la conoscenza dell’ingle- 
se e del tedesco. Sanno l’inglese gli ufficiali di marina e cosi pure 
l’aristocrazia che frequenta la numerosa colonia inglese di Firenze. I 
professori di filosofia, di filologia, di storia, di economia, di medicina 
ecc. si tengono al corrente delle pubblicazioni tedesche-, gli operai che 
vanno in Svizzera o in Austria a lavorare alla costruzione di nuove 
ferrovie imparano a masticare un po’ di tedesco; il turismo austriaco e 
tedesco ha nell’Italia settentrionale alcune manifestazioni così vistose 
da far sorgere lamentele sulla violata «italianità del Gardasee» (1909). 
Delle altre lingue, come le slave o le scandinave, si contano, si può dire, 
sulle dita i cultori. 

Il moltiplicarsi delle relazioni tra nazione e nazione in numerosi cam- 
pi della vita pratica e delle scienze applicate (poste, dogane, informazio- 
ni meteorologiche, ecc.) porta a conguagli linguistici sempre maggiori, 
talora addirittura con l’identità di qualche serie di termini (si pensi ai 
nomi delle unità pratiche di elettricità, ampere, coulomb, farad, ohm, 
volt, fissati definitivamente dai congressi intemazionali di elettrotecni- 
ca di Parigi, 1881, e di Chicago, 1893), talora con precisi parallelismi. 

Le condizioni della lingua nelle terre abitate da popolazioni italiane 
fuori dei confini del Regno meriterebbero non un cenno ma un lungo 
discorso. Malgrado l’alleanza politica tra l’Italia ufficiale e l’Austria- 
Ungheria, la posizione della lingua italiana è insidiata dal tedesco nel 
Trentino, dal tedesco e dallo slavo a Trieste e presso i nuclei italiani 
dellTstria e della Dalmazia. L’aspirazione ad avere un’università 
italiana a Trieste non arrivò mai a realizzarsi. Il linguaggio giudiziario 
e burocratico (detto per irrisione dai Triestini austriacàn) è pieno di 
voci 58 e costrutti arcaici e barbari 57 , e più ancora il linguaggio 
pubblicitario 58 . 

Meno sfavorevole è la situazione nel Canton Ticino, benché anche 
là la pressione del tedesco si faccia sentire in alcuni campi 58 . 

Nei paesi stranieri la conoscenza che si ha dell’italiano è in fase 
decrescente; meglio che nell’Europa continentale, esso mantiene una 
parte del suo antico prestigio nel Levante mediterraneo. Scuole 
italiane si hanno in Tunisia, in Egitto, in Turchia. Può dare un tenue 
indizio della vitalità dell’italiano il fatto che i francobolli austriaci per 
gli uffici del Levante portano leggende in italiano nelle emissioni dal 
1867 al 1886; in italiano è anche il testo dei francobolli egiziani del 1872- 


58 P. es nostrificare, stabale («dello Stato maggiore»), urbano. 

57 Ecco qualche frase di un editto di tribunale: «Si notifica che nel giorno... 

avrà luogo il secondo esperimento d'incanto delle realità riportate nella part. tav. 
... Si diffidano soltanto tutti i creditori ipotecari di insinuare le loro pretese fino 
alla vendita di detta realità» (cit. da G. Caprin, «Lingua di confine», nella Lettura, 
agosto 1909, p. 648). — - 

58 Caprin, ivi. 

58 V. le lettere di G. Martignoni e C. Salvioni nel Corriere della Sera, 1 e 3 
febbraio 1909 


75 (mentre più tardi esso sarà in francese, e poi in inglese). A Malta si 
ebbero, specialmente fra il 1880 e il 1902, disposizioni contro l’uso 
dell’italiano. Gli stanziamenti coloniali in Eritrea e poi in Somalia e in 
Libia fanno si che presso gli indigeni maggiormente a contatto con i 
nostri stanziamenti si formi un «italiano coloniale» 60 , mentre gli Italiani 
imparano qualche vocabolo riferito alle cose e alle usanze dei luoghi. 

La massiccia emigrazione italiana negli Stati Uniti porta alla 
formazione di parlate ibride. Non sono parlate uniformi secondo i 
luoghi, ma piuttosto secondo gruppi, perché, data la scarsa cultura 
degli emigrati, essi sono giunti nella nuova terra conoscendo solo (o 
quasi solo) i loro dialetti: e su questa base s’innestano numerosi 
vocaboli inglesi (statunitensi), alterati secondo le abitudini fonetiche 
dialettali. Dalla mancanza d’una comune base italiana nasce la 
difficoltà di capirsi fra immigrati nello stesso luogo, cosicché essi 
finiscono col preferire l’inglese per intendersi fra loro 61 . 

In condizioni analoghe si sono trovati gli emigranti italiani negli 
stati del Piata, nel Brasile ed altrove 62 . 

Qualche aiuto alla difesa della lingua italiana fuori dei confini del 
regno fu portato dall’attività della «Dante Alighieri» (fondata nel 1889). 


11. Oscillazioni nell’uso 

La scarsa compattezza dell’italiano, su cui ci siamo tante volte 
intrattenuti, si manifesta ancora in moltissime forme. Ma qui non 
vogliamo occuparci delle varianti lessicali del tipo scopa / granata, 


80 Per es. in Eritrea (1892): Ma tu berché non dato a me bacscisc? Io venuto 
senza tu chiamato; in Libia (1911-12): Arkù, comprare gallina ? («amico vuoi 
comprare una gallina?»); Ma- fish! («no»), lu ma- flsh poder dormire molte bulci 
(«pulci»). Io ghiamato te! (comun. di A. Menarmi). 

Non come esempio di «italiano coloniale», ma come esempio di stile di 
«proclama orale» citiamo il saluto indirizzato da F. Martini il 25 marzo 1907 alle 
popolazioni eritree prima di lasciare la colonia: «Genti tutte di qua del Mareb e 
fino al mare, udite: S. M. il Re d’Italia volle che fossi tra voi a governarvi in suo 
nome, e per dieci anni ho ascoltato le vostre voci e nel nome del_Re ho giudicato, 
ho premiato ed ho punito; e per dieci anni ho visitato i paesi del cristiano e del 
mussulmano, al piano ed al monte; e nel nome del Re ho detto ai mercanti: 
commerciate; ho detto agli agricoltori: coltivate, e la pace sia sempre con voi. E le 
strade furono libere ai commerci e le messi furono sicure nei campi. Genti tutte 
udite: S. M. il Re d’Italia sa che così la sua volontà fu fatta interamente, per la 
grazia di Dio, e ha permesso che io ritorni e rimanga nella mia Patria. Do il saluto 
dell’ addio al grande ed al piccolo, al ricco ed al povero. Che Dio aumenti i vostri 
traffici e mantenga feconde le vostre terre; che Dio vi serbi in pace». 

61 Meglio che in altri precedenti studi, si troverà illustrato il fenomeno in tutta 
la sua complessità da A. Menarmi, Ai margini della lingua, Firenze 1947, pp. 144- 
201 . 

82 Ma sul loro linguaggio siamo meno precisamente informati, specie per le 
fasi meno recenti (cfr. Menarmi, ivi, pp. 201-207, e per l’italo-rioplatense la serie di 
articoli di G. Meo Zilio, in Lingua nostra, XVI-XVII, 1955-56). 


626 


Storia della lingua italiana 


lesina / subbia, attaccapanni / cappellinaio: ci limiteremo ad accenna- 
re ad alcuni doppioni in cui la differenza consisteva in piccole varietà 
grafiche o morfologiche: doppioni che presentemente si adoperano 
molto meno o hanno ceduto addirittura il campo a una forma unica. 

Si hanno alternanze fra scempie e doppie in parole in cui la forma 
latina lotta contro quella toscana: cammino «camino» (Collodi), catedra 
(Ascoli), febrìle (D’Annunzio), obedire (Dossi), femina (Carducci, Praga, 
Martini, D’Annunzio), publico, republicano (Panzini), ecc. Molto si 
discute sulle forme Africa / Affrica-. Bianco Bianchi si proponeva di 
scrivere un lavoro intitolato Africa per Affrica, ossia le più recenti 
deturpazioni della lingua italiana 63 ; il Martini, fautore di Affrica, ne 
scriveva al Carducci il 30 settembre 1891, e il Carducci rispondeva: 
« Affrica , sempre, almeno in prosa. Altrimenti, francesismo » M . Invece a 
difendere la grafia latineggiante esaggerare rimase solo Vittorio Im- 
briani. 

Si appoggiano al latino anche altre varianti: decembre (Carducci, 
Martini), infirmità (Carducci), e la serie conscienza, conspetto, inspira- 
zione, instituzione (Carducci, D'Annùnzio, Scarfoglio); palimpsesto al- 
terna col più comune palinsesto e con palinsesto (Panzini); Minghetti 
preferiva ozione e o tiare a opzione, optare, che poi prevalsero; eucalitto 
è vinto da eucalipto-, ì’ Ascoli scriveva ossoleto-, il Carducci preferiva 
Apocalipsi a Apocalissi-, su dactilografia (così ancora il Panzini nella l a 
ed.) prevalse dattilografia. 

Accanto al più comune sdrucire, si ha anche sdruscire. I Toscani 
preferiscono polenda, bodola, arrenare, zittella a polenta, botola, arena- 
re, zitella. Il Martini a una signora toscana che adoperava ospedale 
invece ài spedale, domanda: «a proposito, perché scrive ospedale ?» (lett. 
27 genn. 1899). L’analogico duecento guadagna terreno sul toscano 
dugento. Colezione è usato qua e là accanto a colazione; sbucciare in 
luogo di sbocciare-, zuccaro accanto a zucchero. Qualcuno scrive 
viglietto per biglietto. Guarantire (Bonghi) e guarentire (Carducci) 
prevalgono ancora su garantire. Il Petrocchi registra senza scegliere 
binoccolo, binocolo, binoculo. Parecchi (Carducci, Martini, Fomaciari, 
Fogazzaro, Panzini) adoperano ancora tuono nel senso in cui oggi 
useremmo solo tono («un tuono quasi di tristezza»). Coltura e cultura si 
adoperano indifferentemente 65 . Ufficio e ufficiale, auspice la burocra- 
zia, vincono la battaglia sulle altre varianti ( officio , uffizio, ufizio-, 
officiale, uffiziale, ufiziale). Invece è dovuta agli scienziati la prevalen- 


In esso egli attribuiva l’introduzione della forma Africa a un giornalista, e 
la datava al 1870 circa. Cfr. F. Sarri, «Carteggio inedito Ascoli- Bianchi», in Mem. 
Acc. Lincei, s. 6 a , Vili, 1939, p. 173. 

84 Sarà da dire piuttosto «latinismo comune alle lingue colte d Europa». 

85 Ma il Fanfani (Muovo vocabolario de' sinonimi, Milano 1879 n. 415), 
proponeva di limitare coltura «a quella de’ campi, de’ fiori» e cultura a «quella 
metafisica dell’ingegno»; e più tardi la distinzione prevalse. 


Mezzo secolo di unità nazional- 


627 


za di ghiacciaio su ghiacciaia come termine naturalistico dopo una 
lunga esitazione tra le due forme. 

Si oscilla molto anche in alcune voci di recente introduzione: 
decentramento, dicentramento, discentramento; aeroplano stenta ad 
attecchire di contro alla forma plebea areoplaho. Lo stesso accade non 
di rado nell’adattamento dei forestierismi: si è incerti tra le forme 
esotiche tourist (angl.) e touriste (frane.) e gli adattamenti turista e 
torista ; per tramway si esita se accettare o no l’adattamento toscano 
tranvai si oscilla tra vermut e vèrmut, vermùtte e vèrmutte. 

Esitazioni si hanno anche nella scrittura di voci giustapposte: il 
Carducci preferisce da vero, né meno, più tosto a davvero, nemmeno, 
piuttosto, il Martini considera chissà uno «sproposito» Getterà a C. 
Pigorini Beri, 27 giugno 1889). 


12. Grafia 

Nel paragrafo precedente abbiamo visto come si oscillasse nello 
scrivere (e pronunziare) vocaboli singoli. Qualche cenno va dato anche 
intorno ad alcuni criteri di applicazione dell’alfabeto e dei segni 
ortografici. 

La / è in forte regresso. La Crusca, che l’ha abolita sia all’iniziale 
che all’interno di parola ( iattura , gennaio ), l’adopera invece nei plurali 
dei nomi in -io [studi ), e un certo numero di studiosi (D’Ancona, Monaci) 
la seguono. Altri invece si attengono a criteri diversi: G Mestica, per es., 
scrive gennajo, ma studii. Gli avversari della j non mancano di 
attaccarla, anche con colpi mancini 67 ; qualcuno tuttavia la difende, non 
senza buoni argomenti 68 ; ma in complesso anche quelli che ritengono 
non ragionevole questa eliminazione accettano l’opinione dei più (così 
appunto si esprime la Grammatica italiana di Morandi e Cappuccini) 69 . 

Assai incerto è anche l’uso della i nei nessi ce - eie, ge -gie-, frequenti 
sono i plurali come angoscie, roccie, scarpaccie e i derivati come 
braccietto, passeggierò-, viceversa non è raro trovare effige, superfi.ee, e 
plurali come camice. Non è ferma neanche la regola se la i vada 
assorbita o no in forme verbali come consegniamo, sogniiìamo. 


68 II Martini ottenne che la Camera dei deputati in una disposizione di legge 
preferisse tranvai (febbr. 1892); ma il D’Ovidio (in un articolo del Giornale d’Italia 
del 15 ottobre 1902, rist. in Opere, X, pp. 275-281) fece valere parecchi buoni 
argomenti contro questa lettura indotta di ima voce straniera. 

67 «L’uso dell’/' cominciò tanto o quanto colla venuta degli stranieri in Italia; 
coll’ùscita degli stranieri pare che vada cessando» [Petrocchi, Dizion., s. v.). 

68 V. per es. L. Gelmetti, Un ostracismo ingiusto nell’alfabeto italiano, Milano 
1884. 

69 II Malagoli, nell’eccellente volumetto sull’Ortoepia e ortografia italiana 
moderna, 2“ ed., Milano 1912, pp. 26-27, è incline all’i, e solo si lagna della scarsa 
coerenza di molti. 


628 


Stona della lingua italiana 


Non valse a scuotere l’abitudine a favore déil’h in ho, hai, hanno 
l’ennesimo tentativo fatto dal Petrocchi per abolirla. 

Né viceversa, ebbe fortuna il tentativo pascoliano di ripristinare le 
scrizióni etimologiche hchphthyae oe nei nomi propri greci e latini: le 
Chariti, Phalaride, Myrmidoni, Xantho, Naevio, ecc. . 

L’uso delle maiuscole e delle minuscole rimane oscillante in pochi 
casi (i Torinesi o i torinesi ; il Reo il re-, quasi tutti ormai scrivono invece 
febbraio ecc., primavera, ecc.). Ma nell’uso letterario assistiamo a due 
ondate opposte: quella che porta ad abbondare nelle maiuscole, specie 
con gli astratti, allo scopo di personificazione e di magnificazione 
retorica: e qui il corifeo è D’Annunzio: la lenta ascensione del Giorno 
(nel Piacere)-, l'apparizione della Bellezza consolatrice invocata dalla 
Preghiera unanime (nel Fuoco); l’altra, antiretorica, che riduce a 
minuscole persino i nomi propri (Guido Gozzano che vede sé stesso 
come «quella cosa vivente - detta guidogozzano»). 

Per gli accenti, malgrado le frequenti invocazioni ad accentare le 
sdrucciole, tutte quante o almeno quelle dubbie 71 , e i tentativi in questo 
senso che alcuni fecero (per es. il Dossi, che si appellava al Cattaneo) 
non si giunse ad alcun risultato pratico. Accanto all’uso di gran lunga 
più comune, che è quello di servirsi solo dell’accento grave nelle parole 
tronche e in un certo numero di monosillabi, a scopo distintivo, 
comincia a diffondersi l’uso di segnare la diversa pronunzia di e e o per 
mezzo dell’accento acuto e di quello grave-, alcuni estendono 1 acuto 

anche airi e all’u ( fini , virtù) 72 . ,, 

L’uso dell’apostrofo presenta qualche incertezza non solo perché 
talvolta con gli articoli si fa l’elisione, talvolta no (come vedremo piu 
sotto), ma perché in alcuni casi vi è incertezza se si abbia troncamento 
o elisione: alludo specialmente a tal è, qual era, 13 . 

Per la divisione in sillabe, qualche grammatico e qualche pedagogi- 
sta sostennero la tesi che le doppie consonanti dovessero essere 
considerate ambedue come appartenenti alla seconda sillaba (a-tto-reì, 
ma, giustamente, non trovarono seguaci. 

Progetti teorici, più o meno accuratamente studiati, per riformare 1 
punti più discutibili della grafia italiana, non mancarono mai. Un certo 
G. B. nell’opuscolo Di alcune riforme dell'ortografia italiana, Milano 

70 Anche il Carducci ha qualcuna di queste forme (Cycno Hermete, ecc.), molte 
ne ha il D'Annunzio. L’esempio veniva, come ho accennato (Lingua contemp., pp. 
141 - 142 ) i dai parnassiani francesi e dagli archeologi (cfr. p. 659). Anche più rare 
sono le applicazioni di questo criterio all infuori dei nomi propn: per es. R. 
Gaetani d'Aragona, Saggio di filosofia scientìfica (Pandynamismo), Tonno 1906. 

71 V. per es. la voce «Accento» nel Dizionario moderno del Fanzini. 

72 pj. a i più autorevoli, ricordiamo il Carducci e il Croce, il cui esempio ni 
seguito da parecchi. Così il Malagoli nel citato volumetto Ortoepia e ortografia 
italiana moderna (ma non più nel suo trattatello su L accentazione italiana 
Firenze 1946, dov’è invece propugnata una regola assai pratica per 1 accentazione 
generale delle sdrucciole). 

73 Malagoli, op. cit., p. 164 


Mezzo secolo di unità nazionale 


629 


1878, proponeva di adottare due e, due o, un segno speciale per se, ecc. 
L. Gelmetti invece propugnava una Riforma ortografica con tre nuòvi 
segni alfabètici per la buona pronunzia italiana, Milano 1886: i segni 
sarebbero una; con la coda a destra per i plurali dei nomi in -io, una s e 
una z tagliate per lesez sonore; egli vorrebbe inoltre che si segnassero 
con l’accento grave le e e le o aperte; l’acuto si scriverebbe solo sulle 
sdrucciole di dubbia pronunzia [émbrice). Maggiore interesse destarono 
le riforme proposte da vari studiosi nel 1909 e negli anni successivi, che 
condussero a fondare una «Società ortografica italiana» ed ebbero 
larga eco nelle riviste: ma i due principali sistemi allora proposti, 
quello del Goidanich e quello del Luciani 74 , che prevedevano parecchi 
nuovi caratteri da aggiungere all’alfabeto, erano troppo macchinosi e 
troppo poco europei per avere fortuna. 

Per ciò che concerne l’interpunzione, va ricordato un vezzo carduc- 
ciano che ebbe assai largo seguito: quello di sopprimere la virgola nelle 
serie enumerative: «lil Leopardi! abituato a contemplare un esempio di 
arte lucido eguale sereno», «Dante il Cavalcanti il cronista Giachetto 
Malespini il padre del Petrarca e la maggior parte degli scrittori e 
giureconsulti toscani d’allora» [Rime di Cino da Pistoia, Firenze 1862, p. 
iv e x) 75 . L’impiego di una coppia di punti e virgole in luogo d’una 
coppia di parentesi o di linee è raro, ma non isolato. L’adopera qualche 
volta il Pascoli, l’adopera il Novati: «a Dante... pervenne un giorno; 
correvano gli anni estremi della sua vita; un poetico carme» [Freschi e 
minii del Dugento, Milano 1908, p. 3). 

Qualcuno, trovando scarse le risorse dell’interpunzione tradiziona- 
le, vorrebbe rimediarvi. 

Per evitare la confusione tra i punti di sospensione voluti dall’auto- 
re e i punti che indicano nelle citazioni le parole omesse, il Guasti si 
serviva in questo secondo caso d’una serie di virgole. 

Il Dossi si lagna che manchi un segno che indichi «un distacco tra 
l’una e l’altra proposizione, minore di quello della vìrgola accoppiata al 
punto, maggiore della sémplice vìrgola»; per es. nel passo «fra quelli 
onesti legislatori, i quali, sostituita alla privata vendetta la pubblica; 
non più potendo sfogar nei delitti la loro ferocia, cercavano legittimarla 
nelle pene» adopera la dóppia virgola 79 . 

Ma nessuna di queste proposte arrivò a modificare l’uso generale 77 . 


74 P. G. Goidanich, Sul perfezionamento dell'ortografia nazionale, Modena 
1910; L. Luciani, «Per la riforma ortografica», in Atti della Soc. Ital. per il progresso 
delle Scienze, IV riunione, Napoli 1910; id., in Rivista pedagogica, 1910, pp. 893-942. 

75 C’è chi ne ha fatto, nella propria scrittura individuale, una regola; chi 
invece alterna le serie virgolate con quelle senza virgole: «Egli avrebbe voluto 
che quel leggero verde... avesse gittato rami, foglie, virgulti, spine, viticci e fiori 
fiori fiori rossi azzurri bianchi gialli, giocondi nuovi fiammeggianti innumerevoli» 
(Ojetti, Il gioco dell’amore, 8“ ed., Milano 1910, p. 94). 

79 L’esempio e la giustificazione che il Dossi ne dà provengono dalla «Nota 
grammaticale» in appendice a La colonia felice (p. 176 della 4 a ed., Roma 1883). 

77 II Bertoldi, lamentandosi (nella sua edizione delle Poesie liriche di A. 


630 


Storia della lingua italiana 


13 Suoni 

Il tentativo dei manzoniani di abolire il dittongo uo sostituendolo 
dappertutto col monottongo (non nuovo ma novo) 78 incontra fortissime 
resistènze, fra cui principale, come si è accennato, quella dell’ Ascoli, e 
finisce con Tesser respinto nell’uso scritto generale, inclusi anche i 
Fiorentini. Soltanto dopo palatale le forme con monottongo ( orciolo , 
fagiolo, figliolo, spagnolo, ecc.) guadagnano terreno, senza tuttavia 
arrivare a soppiantare del tutto quelle con dittongo. 

Quanto al dittongo mobile, le inosservanze sono numerosissime 
( ruotare , infuocato, Carducci; rinnuoverebbe, Tabarrini; ruotolarsi, Dos- 
si- giuocherei, cuoprivano. Martini; ricuoprirti, D Annunzio; c uopriva, 
Nobili; scuoprite, Palazzeschi, ecc.) 79 . Se per l’alternanza fra o e uo il 
rispetto è scarso, per e - ie il cedimento è ancora più grave-, anziché 
presedere, con forme come presedeva (Imbriani), presedette (D’Ovidio), 
ormai si ha un infinito presiedere con forme come presiedeva (Carducci, 
in una recensione del 1869: Opere, XXVII, p. 161). 

La regola dell’i prostetica davanti a s impura si fa meno rigorosa: il 
Martini scrive per istrozzarlo, non Spregevole, ma nel Carducci si legge 
in specie. 

Il troncamento e l’elisione sono soggetti in piccola parte a regole 
fisse, mentre molti casi sono facoltativi. I. manzoniani tentano, ma con 
scarsi effetti, d’introdurre nell’uso scritto alcuni vezzi del parlato: 
du'anni 80 essere nel su’ elemento, lo ’ngrassava. Gli articoli lo e la 
davanti a vocale quasi sempre si apostrofano, ma in qualche caso si 
hanno le forme intere, quasi per indicare una pronunzia lenta e 
scandita: lo antropofago, lo Allagherio (Imbriani), «il Poliziano alle 
storie de’ due Testamenti e alle leggende ha sostituito la -egloga» 
(Carducci, Opere, XII, p. 226); «consentirvi con la immaginazione», 
«lucevano sulla umida gradinata della villa» (Fogazzaro, Piccolo 
mondo moderno, cap. II). Davanti a i si apostrofa spesso gli [gl ingegni ), 
e davanti a e è frequente l’elisione di le (I ’erbeì. 

II troncamenti in sequenza sintattica sono un po’ in declino nella 


Manzoni, p. 160) che manchi una pausa minore della virgola, pur si decide a 
scrivere con la virgola il verso manzoniano: «Tal della mesta, immobile...». 

78 II Broglio per es., fa che Federico Guglielmo parli di un omo per bene nella 
sua Vita di Federico il Grande; il Giorgini-Broglio e il Petrocchi danno l’assoluta 
prevalenza alle forme con o. Si ricordi l’apprezzamento di Marina sul racconto 
Un sogno di Corrado Siila (Fogazzaro, Malombra, I, cap. v): «che vi si dicesse 
borio e bona invece di quel buono e buona che bastano a rivelare un povero 
ingegno, un uomo vergognosamente sfornito di dottrina filologica e di gusto»: si 
sente che il Fogazzaro ironeggia. 

™ Rimproverato da G. Mazzoni, il Martini gli rispondeva (lettera 1 maggio 
1895): «Il cuoprivano era uno sproposito ch’io ricommetterò domani, perché in 
questa faccenda dell’accento io non sono mai (inorridisca) arrivato a capir nulla» 

( Lettere , p. 299). , , , _ 

80 Du’ anni anche in traduzioni di tono popolaresco nel Fior da fiore 

pascoliano, pp. 63 e 86. 


Mezzo secolo di unità nazionale 


631 


lìngua comune, ma vivissimi ancora nella prosa sostenuta Ua tradizion 
familiare, quella istintiva esaltazion sessuale, l’azion dell’acido : D’An- 
nunzio, Il Piacere ) e in poesia. 

L’accento 81 è molto importante, anche socialmente, tanto che lo 
sbagliare gli accenti è considerato un segno di poca cultura 82 . Ma in 
molte parole rare sono ammesse due diverse accentazioni: acònito 
(D’Annunzio) e aconito (Carducci), adamantino (D’Annunzio) e ada- 
màntino (Carducci), crisòlito e crisolito (D’Annunzio), diritto e dìruto 
(CarduccD, esile (Corradino) ed èsile (passim), ecc. Chèrubo (Boito, 1863-, 
Dante aveva usato Cherùbiì è dovuto al contraccento di Cherubino. 
Arbitrario è incubi (Praga) e così pure Leonida, che era il modo di 
pronunziare di Garibaldi 83 . Macabro, che il Malagoli registra come 
prevalentemente piano 84 , tende a ritrarre l’accento secondo l’esempio 
di càlabro, cèlebre, fùnebre, lùgubre M . Il plurale microbi, che si sarebbe 
dovuto leggere micròbici J 86 , fu spesso letto mìcrobi, e se ne cavò un 
singolare mìcrobo 87 . I repertori (Fanfani, Petrocchi, Malagoli) registra- 
no come prevalente la pronunzia scòrbùto, benché essa non abbia 
alcuna giustificazione. Cinema entra dal francese e per alcuni anni 
Taccento oscilla fra cinema, cinèma e cinemà (poi finirà col trionfare 
cinema ). 

14. Forme 

Cominciamo con qualche noterella per quel che concerne il sostan- 
tivo e l’aggettivo. 

Per i plurali, abbiamo già accennato alle oscillazioni grafiche dei 
nomi in -eia, -già. Qualche spostamento si ha nei plurali dei nomi in -co 
e -go, e per lo più a vantaggio delle forme in palatale nei nomi 
sdruccioli: appare traffici accanto al tradizionale traffichi, parroci 
guadagna terreno, e così pure stomaci; qualcuno scrive stroscici 
(Rajna). Notiamo anche, in parole piane: lombrici (Rapisardi), aprici, 
pudici (Carducci, in verso). Continua ad apparire, come plurale di 
capello, la forma capegli, sia nella lingua popolare (Petrocchi) che in 


81 V. specialmente G. Malagoli, Teorica e pratica dell'accento tonico nelle 
parole italiane, Firenze 1899. 

82 Di un personaggio di Leila, Massimo, il Fogazzaro dice che «una volta gli 
era bastato, per guarire dell’amore di ima signorina, che ella dicesse polline in 
luogo di pòlline». 

63 Lo sappiamo da A. G. Barrili, Elogio funebre di Garibaldi, Genova 1882. 

84 «Urlo il canto anatomico e macabro»: Boito, «A Giovanni Camerana» (1865). 

86 Accanto a delubro (Zanella, Carducci, Panzacchi, D’Annunzio) qualcuno ha 
dèlubro (D’Annunzio nel Primo vere ; Cavallotto. C’è chi adopera l’erroneo sàlubre 
(per es. C. Nigra). 

88 «Porta in giro ciascuno dei globi - ... le glorie de’ suoi microbi» (Orsini, Fra 
Terra ed astri, 1903). 

87 D’Ovidio, in Fanfulla della domenica, 8 gennaio 1888 (rist. in Opere, X, pp. 
259-260). 


632 


Storia della lingua italiana 


quella letteraria (Barrili). Tra i plurali dei maschili in -a, si estende, 
malgrado le proteste dei grammàtici, l’uso di considerarli invariabili: 1 

Belga, i comma, ecc. 88 . . , „ 

Le forme del plurale di bello e quello seguono ormai le forme 
corrispondenti dell’articolo: solo persistono con una certa abbondanza 
le forme belli, quelli anche davanti a vocale, s impura ozli belli ocelli 
parlanti: Fogazzaro, Picc. mondo mod., c. VI; quelli uomini che sanno 

un po’ di tutto-. Martini, La Marchesa ). 

Quanto all’articolo, il e lo (e così un e uno) hanno ormai ima 
distribuzione fissa, salvo qualche lieve oscillazione: lo davanti a 
consonante suona meridionale o arcaico («il fato - che lo tuo re Si^° 
segna in terra e in mare» dice una fata nella «Ninna nanna di Carlo » 
delle Rime Nuove)™; non è raro l’impiego di il davanti a z ( unzmzmil 
Zanella, il Zanardelli, Carducci; dal Zambrini, Carducci, Op., XII , p. 42, 
ma lo Zambrini, ivi, p. 54; il zenith ma lo zibaldone, Balossardi-, il zulu, 
D’Ovidio; un zuccherino, Fogazzaro; dal zeffiretto, Corradino; i zefin, 
“Capuana* ecc.) 90 ; davanti a ps si usa ancora spesso il, un (il psicologi- 
smo-. Carducci, Op., XII, p. 138), benché lo, uno leggermente prevalgano, 
e i pochi grammatici che ne parlano consiglino lo, uno-, si oscilla, come 
del resto ancor oggi, davanti a j (£ semivocale) e davanti ai nomi 

stranieri con h. . 

Qualche esitazione maggiore presenta il plurale, perche non e 
ancora scomparsa, quantunque sia diventata ormai rara, la forma il. 
Qualcuno l'adopera davanti a vocale (li ordini, li occhi : Martini, La 
marchesa; li oc chiacci: Verga; li emuli, li alti fieni: D Annunzio; li 
umani, de li umili: De Bosis-, li organi: S. Corazzimi, davanti a s impura 
Hi spagnoli, li spiriti, li scritti: Carducci; detti scrittori, dalli spogli degli 
scrittori: Tabarrini; delli sciami: De Bosis; «la procellaria - eh ama li 
scogli »: Pascoli). Quasi nessuna grammatica ne parla: solo Morandi e 
Cappuccini giudicano che li «è oramai, nella prosa, una spiacevole 
affettazione». Per la spartizione di i e gli abbiamo come per il e lo 
qualche esempio aberrante (dai sguardi: Cossa; a zefin: Rapisardr, i 
zamponi, coi zoccoli-. Panzini; i gnocchi-. Panzini). 

Riguardo alle preposizioni articolate, notiamo anzitutto qualche 
sporadica persistenza di per lo in prosa («mi si aggirava la lezione per 
lo capo »: De Sanctis, Giovinezza, c. XVI; per lo passato-. Martini; per lo 
contrario) e in versi («Per lo nitido ciel l’ardua montagna»; Rapisardi, 
Ottobre). 


88 Migliorini, Saggi linguistici, pp. 105-106. 

89 Nell’italiano dell’Emilia si ha qualche volta io suocero (dovuto alla pronun- 
zia quasi consonantica della u). . , _. , * ,-i 

90 Strano uno sigaro, che si legge nella Partita a scacchi del Giacosa («E 
fumo di uno sigaro, è un’ombra, è tutto, è nulla»; già nella stampa ongmale della 
NUova Antologia, marzo 1872, p. 614) e nella Disfatta dell Gnarn («Il giovane dei 
macellaio gli chiese uno sigaro», in Pancrazi, Racconti e novelle dell Ottocento, p. 
742): si deve trattare di un resto della pronunzia uno zigaro. 


Mezzo secolo di unità nazionale 


633 


Nella lunga lotta tra le forme unite e quelle staccate (dello - de lo, 
alla - a la, ecc.) quelle unite in complesso prevalgono, benché il 
Carducci e il D’Annunzio propendano (specie in poesia) per le forme 
staccate, e non manchino di seguaci. Fortuna un po’ maggiore 
incontrano le forme staccate di su (su la), e cominciano a esser sentite 
come arcaiche petto, pella, collo, cotta. Rarissime le forme unite di tra 
(trai: Martini; tra’l: Pratesi). 

Le forme a’ co’ de’ pe’ su’ sono raccomandate specialmente davanti 
a parole con altri gruppi con i (de’ miei, co’ suoi), ma v’è chi ci sente un 
«certo artificio d’imitazione toscana» (Panzini, Diz. mod., s. v. qui, qua). 

Quanto ai pronomi, notiamo anzitutto che ei, eglino, elleno si sono 
fatti molto rari; ma ei è caro al Verga: «E£ non ci pativa» (Jeli); «ei si 
pigliava le busse senza protestare» (Rosso Malpelo); e quando il 
Martini scrive (Di palo in frasca) « ci è noto il nome dei vostri maggiori 
parlamentari, ci son note le opinioni ch’eglino professano» o « elleno 
tutte pigliavano sul serio i romanzi di Paolo Perret o di Ettore Malot», 
la solennità confina con l’ironia. Ella e Lei alternano come pronomi 
allocutivi con largo margine di scelta: una volta il Carducci si adira 
contro chi gli scrive «manzonianamente, Lei» (Opere, XXIV, p. 394), 
un’altra volta il Martini scrivendo al Fanfani aggiunge tra parentesi a 
un Lei allocutivo: «(dovrei dire Ella ? non mi ci va)» (Lettere, p. 49) 01 . 

I pronomi soggetti pleonastici, personali o impersonali, frequenti 
nell’uso toscano, sono accolti volentieri dai toscaneggianti (oltre al più 
comune «gii è quel che avviene»: Betteioni, si ha anche: «e’ fu in piazza 
di S. Caterina»: Betteioni; «la verità... la può esser crudele ad udirsi»; 
Martini; «le si vedevano spesso»; Martini; «ie son baie»; Carducci); ma 
anche un manzoniano come il Morandi ritiene che solo «qualche rara 
volta possono accogliersi e usarsi lodevolmente» (Morandi-Cappuccini, 
Gramm. it., § 374). Un po’ più letterario è egli come soggetto pleonasti- 
co: «Egli è dunque inutile fare indagini» (Martini), «Egli è come se 
qualche cosa di superiore spirasse un alito di pace» (Gabelli); «Egli fu 
un istante che io avrei voluto risparmiarlo» (Barrili), ecc. 

«Gli per le è comune nell’uso toscano e nell’italiano di molte regioni 
(«oso pregare la signora Sansoni a fare ciò che gli sia meglio possibile. 
Io le scriverò quando vegga che sia il caso...»: Carducci, Lett., XIX, p. 
133; «come una gatta che gli si vogliano rubare i figliuoli»; Verga, 
Mastro don Gesualdo, p. 378); ma per lo più i grammatici non ne 
vogliono sapere: per es. il Fanfani (La Unità della lingua, I, 1869, p. 13), 
pur riconoscendo che l’uso ammette gli e li, non vuol accettare questa 
«sgrammaticatura»; invece il Carducci, in ima lettera al Tribolati del 
1871, difende apertamente gli (Op., XVII pp 53-54)“. 


91 Si ricordino le esitazioni di Scrupolino nell’Idioma gentile del De Amicis, p. 

209 . 

“ Il pronome congiunto gliene vale di solito sia per il maschile sia per il 
femminile: ma c’è chi per il fe mminil e preferisce le ne U E s’ella vuol permettermi 
di dartene ima prova»: Martini, Chi sa il gioco non l’insegni, se. 13, «Le ne disse il 


634 Storia della lingua italiana 

Anch’esso corrente in toscano, e respinto, seppur meno acremente, 
dai grammatici, è gli per «loro». 

Diffusissimo nell’italiano di varie regioni, ma rigorosamente pro- 
scritto dai grammatici, è il tipo io ci dico per «gli dico» o «le dico» o 
«dico loro» 93 . 

È ormai piuttosto raro ne nel senso di «ci»: sia in poesia («Eccoti il 
re, Signore, - che ne disperse, il re che ne percosse»: Carducci, 
«Piemonte»; «Ma perché mai ne piacque - vivere di desio?»: G. A. 
Costanzo, «Il canto e l’addio»; «pensate all’ombra del destino ignoto - 
che ne circonda»: Pascoli, «I due fanciulli»); sia in prosa (V. Imbriani, 
nel titolo del romanzo Dio ne scampi dagli Orsenigo-, «Siamo grati 
all’Inghilterra di ciò ch’ella ne diede»: Graf, Anglomania, p. 427). 

Venendo a esaminare qualche forma verbale, vediamo anzitutto la 
voga data dai manzoniani 94 al tipo noi si dice per noi diciamo. Tali 
forme, adoperate in qualche libro a tutto spiano, spiacquero ai non 
Toscani (si ricordino le severe parole dell’Ascoli nel Proemio dell’Archi- 
vio glottol.) ed ai Toscani stessi («il si fece, il si disse... posto per regola 
costante, equivalgono all’andar fuori in maniche di camicia, e senza 
lavarsi il viso»: Fanfani, Bibliobiogr., p. 213 n.). Anche in séguito quel 
costrutto si adoperò qualche volta per esprimere un tono familiare 
(«Anche a quei tempi noi s’avea paura»: Pascoli, «I due orfani»). 

Alla prima persona dell’imperfetto, la forma in -o vien guadagnando 
terreno, ma non tanto che quella in -a cada del tutto in disuso. 
Troviamo molti che adoperano le due forme indifferentemente, cioè 
senza alcuna differenza stilistica, a poche pagine di distanza o 
addirittura nello stesso periodo: «Ebbi una volta un pendolo a cucù... - e 
lo tenevo in camera... Io, ripigliato sonno, ancora voi, - miei colli 
rivedeva » (Carducci, «Intermezzo», 3); «Io gustava l’arcana, indefinita, - 
voluttà della vita», «Ed io t'amavo ed io ti son caduto - pregando 
innanzi» (Stecchetti, Postuma, XV, lx); «tormentato dal desiderio di 
dirle che le voleva bene...», «Pensavo se dovevo farti una domanda» 
(Martini, Lo Marchesa ); «io, io era il tuo naturai marito», «Prima ero in 
educandato» CP. Ferrari, Cause ed effetti, I, se. 6); «nelle ore del riposo 
mangiava quel po’ di pane in bottega e disegnavo alcuno dei gessi» 
(Dupré, Ricordi autobiografici, p. 14); «Ed intanto io pensava, e... E quel 
vasto campo che un istante prima mi parlava di morte, lo vedevo ora 
popolato...» (Fucini, Veglie di Neri, p. 5); «Perché ero malata,... avevo una 
malattia al cuore... e non potevo servire» (Serao, Suor Giovanna della 
Croce, p. 351); «solo solo come era...», «io non avevo ancora bevuto...», 
«io capitavo a Superga» (Panzini, La lanterna di Diogene, p. 17, 18, 19). 


perché»: Fogazzaro, Daniele Cortis, p. 364). 

93 V. lo scambio di versi scherzosi fra il p. Mauro Ricci e il Fanfani nella 
Bibliobiogr., pp. 263-265. 

94 Al di là di quel che aveva fatto il Manzoni nella revisione dei Promessi 
Sposi, che «del costrutto toscano noi si fa per noi facciamo e sim., così scusso 
scusso, non fece mai uso» (D’Ovidio, Correzioni, p. 85). 


Mezzo secolo di unità nazionale 635 

Forme come èramo alla l a persona plurale, eri alla 2 a pers. plur. sono 
adoperate solo da qualche scrittore che ostenta il toscano f amili are 
(per es. il Gradi, nella traduzione delle commedie di Terenzio) 95 . 

Per il passato remoto, forme forti come conobbimo, rimasimo, 
suonano come dialettali e pochissimi le adoperano (per es. Verga, La 
peccatrice ). Le forme in -etti, -ette della 2 a e 3 a coniugazione sono meno 
cornimi di quelle in -et -é. II Carducci adopera anche, in prosa e in 
poesia, stiè per stette. 

Al congiuntivo, le seconde persone che tu sii, che tu abbi, che tufacei 
al presente, che voi fossi all’imperfetto sono solo del toscano familiare, 
e di qualche toscaneggiante. 

Al condizionale, le forme in -io diventano rare ormai anche nel 
verso, eccezionali in prosa («le chiese stupende ove saria dolce 
credendo, pregare»: Carducci, 1888, in Op., XXV, p. 300). Le forme di l a 
plur. in -assimo, -essimo, -issimo sono considerate scorrette, ma ancora 
sopravvivono nel linguaggio semicolto dellTtalia settentrionale («Sen 
za di questo, chi sa cosa saressimo noi!... cosa avressimo ora 9 »- Verdi 
lettera 12 febbraio 1878). 

All’imperativo, le forme fa, va, da, sta tendono ad essere sostituite, e 
non solo in toscano, da quelle (originariamente indicative) fai, vai, dai 
stai e dalle corrispondenti apocopate fa’, va’, ecc. 

Nell’uso degli ausiliari con i verbi modali, il costrutto ho potuto 
andare sta acquistando terreno rispetto a quello tradizionale sono 
potuto andare Q’adopera non di rado il D’Annunzio). 

Con i verbi riflessivi propri od impropri troviamo ancora non di 
rado avere-, «la sola meraviglia fu che non s’avesse mangiato Salandra» 
(Verdinois, Profili ); «come non ci avessimo mai conosciuto» (Pirandello, 
Il fu Mattia Pascal, c. XVIII); «non ricordava d’aversi mai tagliato le 
unghie» (Deledda, Colombi e sparvieri, p. 159). 

Nella lingua poetica, la tradizione mantiene ancora, in numero 
sempre più ristretto, alcune delle forme verbali della poesia tradiziona- 
le: dee, ponno, vedea, fìnia, vanio «svanì», avria, ecc. 

Quanto alle parole invariabili, mentre le varianti eufoniche ad, ed, 
od sussistono 99 , ned è rarissimo («ned è necessario»; Ascoli, Arch. glott. 
it., I, P- xvi). 


95 O nel verso, come «licenza poetica»; «In un avel calati eram per gioco» 
(Tarchetti, «Sognai...»); «Di là del bugigattolo d’ingresso - perfettamente vuoti, 

eram passati» (Riccardi di Lantosca). 

06 Ma il Broglio osserva al Rìgutini che «il popolo toscano, propriamente, non 
direbbe od invecchiare » (Pref. al III voi. del Giorgini-Broglio, p. xxxvii). 


636 


Stona della lingua italiana 


15. Costrutti 

Anche nella sintassi non è difficile notare, accanto allo sparire o al 
rarefarsi di certi usi tradizionali, qualche influenza dialettale, la 
presenza del francese, la spinta del linguaggio burocratico. 

Tra i vari tipi di sostantivi uniti senza preposizioni, si moltiplicano 
le sequenze ellittiche del tipo cassa pensioni, dazio consumo, tassa 
bestiame, banco lotto, scalo merci, massa rancio, nate in campo 
amministrativo e invano combattute dai puristi. Meno aliene dalla 
tradizione sono le coppie il cui secondo elemento è un nome proprio 
( piazza San Marco), a cui si ricollegano costrutti come il ministero 
Giolitti, e anche gli scandali Dessalle, le finanze Salvador, il mondo 
Scremin (Fogazzaro); non attecchì invece il tipo il monumento Cavour 
(Dupré, Ricordi autobiografici, passim), che ebbe fortuna in Francia. Le 
coppie appositive tradizionali (il Conte duca, la serva padrona), ebbero 
anch’esse notevole incremento (coperchio-sedile-. Dossi, ecc.) 97 . 

Sembra dovuto a influenza francese (benché non ne manchino 
esempi negli scrittori cinquecenteschi) il partitivo espresso con di 
davanti ad aggettivo seguito da sostantivo: «vendeva di piccole 
focacce che non potevano uccidere ima donna» (Scarfoglio, Il processo 
di Frine), «gli procuravano anche di solenni scapaccioni» (De Roberto, I 
Viceré), «Papà tuo passa di ben tristi giornate» (Martini, lett. 28 luglio 

1914). * „ J . 

Tra le molte osservazioni che si potrebbero fare sull uso dei tempi, 
citiamo solo un tipico esempio di passato remoto esemplato sul 
siciliano: «Mastro Cola cadde gridando: - Mamma mia! va' ammazzaro- 
no-» (Verga, ^Novelle rusticane). 

Nella sintassi del periodo, notiamo certi casi in cui si ha l’indicativo 
in luogo del congiuntivo, per influenza dialettale: «Il popolo credeva 
che il suo gran nemico era il Governo» (Settembrini, Ricordanze, I, p. 
113), «Aspettano che suonate mezzogiorno» (Verga, Mastro don Gesual- 
do, p. 144). Invece l’Ascoli adoperava spesso il congiuntivo in proposi- 
zioni dipendenti di affermazione limitata, in cui comunemente si 
sarebbe adoperato piuttosto l’indicativo presente o futuro: «Quanto poi 
sia conseguito per questa seconda via, se da un lato riconferma^ la 
normalità... della continuazione fonetica, è chiaro che stremi dall’al- 
tro... il campo...» (Arch. glott. it., X, p. 83), «lo Scaramuzza... tocca di certi 
rioni della sua Grado in cui perduri abbastanza nitida la vecchia 
parlata» (ivi, XIV, p. 335); «l’impressione che su voi produca questa mia 
cosa» Getterà a Bianco Bianchi, 29 nov. 1886) 98 . 


97 Migliorini, Saggi Novecento, p. 127 (e bibl. ivi citata). 

08 È interessante notare come i glottologi dell’ultimo Ottocento talora seguo- 
no il vezzo del Maestro: «È il solo caso in tutta la declinazione, in cui paja 
d’avvertire un influsso dell’-i» (Pieri, Arch. glott. it., XIII, p. 323); «v è il filtro del 
gusto e del criterio nazionale attraverso di cui la vena fiorentina si purifichi » 
CD’Ovidio, Correzioni, pp. 175-176). 


Mezzo secolo di unità nazionale 


637 


Nelle reggenze degli infiniti dipendenti si hanno alcune oscillazioni, 
dovute spesso a influenze dialettali: «mi piaceva a vederlo sorridere» 
(Neera, Anima sola), «ho visto il barone a confabulare» (Verga, Mastro 
don Gesualdo, p. 87), «De Zerbi, del quale aveva inteso tanto a parlare» 
(Verdinois, Profili, p. 211 Le Monnier), «A Modena un tabaccaio si 
offerse ad incollarmi egli stesso i bolli» (Panzini, La lanterna di 
Diogene, p. 30). 

Qualche rara volta si ha ancora rinfinito accompagnato da con 
senza articolo;, «gli altri tre finirono con parlar di lei» (Fogazzaro, 
Piccolo mondo ant.), «chiuse gli arruffati ragionamenti con pregare il 
genero» (Fogazzaro, Piccolo mondo mod.), «mi aiutino essi con sugge 
ritmi...» (Pascoli, nota alla 2 a ed. di Fior da fiore). 

Il gerundio è non di rado riferito ad altri membri della proposizione 
che non al soggetto: «Al far del giorno io avevo davanti a me, in 
ginocchio, un soldato nemico di cavalleria, chiedendo mi la vita» 
(Garibaldi, Memorie, p. 281), «Rosaria... vide la padrona in uno stato 
spaventevole, frugando nei cassetti e negli armadi» (Verga, Mastro don 
Gesualdo, p. 292); «Lodovico scorse Giovanni e Maria in piedi ciarlando 
affabilmente» (Ojetti, Il gioco dell’amore, p. 185). 

Per ciò che concerne l’ordine delle parole, è da notare il regresso 
dell’enclisi. Sentiamo quel che dice il Pascoli annotando un brano di 
Filippo Pananti: 

Una delle particolarità, e forse più spiccata, per cui lo scrivere accademico, 
pretensioso, affettato si distingue dal nativo e svelto e moderno (diciamo 
Manzoniano) è l’appiccare le enclitiche alle forme di verbo le quali non le 
comportano. Le forme di verbo che prendono dopo sé tali pronomi e particelle 
atone sono l’imperativo (seconda persona), il gerundio, il participio e l’infinito: 
ditegli, dicendomi, dicentemi e dettogli, dirti. Le altre no: le hanno avanti: gli dico, 
gli dica, gli direi ". 

Ciò non vuol dire che non si abbiano ancora numerosi casi di 
enclisi, e non solo in formule fisse (Appigionasi; come volevasi dimostra- 
re). Parecchi ne ha il Dossi: «tutti si rimbarcarono e distaccaronsi dalla 
riva» (Colonia felice, p. 36), « rincamminossi per le orme segnate il dì 
prima» (ivi, 78 e passim); parecchi il Verga: «il grosso pilastro rosso, 
sventrato a colpi di zappa, contorcevasi e si piegava in arco» (Rosso 
Malpelo), «Stava zitto, non lagnavasi perché non era un minchione» 
(Mastro don Ges., p. 321). Ma che si tratti di un costrutto che tende a 
diventar stantio, si vede dall’uso stilistico che ne fa il Faldella, in una 
sua umoristica descrizione d’una seduta in Arcadia: «Si approssimò 
qualche poco al mio concetto di Arcadia un vecchietto lindo e ben 
imbottito d’eleganza, o meglio approssimossi la sua tosse» («In Arca- 
dia», nel voi. Roma borghese, Roma 1882). 

Qualche traccia d’una tendenza a mettere il soggetto all’inizio della 


Pascoli Fior da fiore, p. 134 n. 


638 


Storia della lingua italiana 



frase anche dove non s’aspetterebbe («Una dolcezza ci allacciava che 
non èra di questo mondo»: Neera, Anima sola, p. 138), sara dovuta 

all’esempio francese. , _ . , 

In deciso regresso sono i periodi con il verbo m fine: «viene quel 
giorno in cui (quei volumi! permettono ad imo di fare una indagine che 
altrimenti far non potrebbe» (Q. Sella, discorso alla Camera, marzo 
1881) 

Le scelte fra periodi lunghi e periodi brevi (si pensi per citare un 
solo esempio, alle serie di proposizioni brevissime cosi frequenti nella 
Storia della letteratura italiana del De Sanctis), fra periodi piuttosto 
paratattici o piuttosto ipotattici, le novità nella tecnica del dialogo , 
ecc. vanno naturalmente studiate in relazione con ì singoli autori. 

16. Consistenza del lessico 

Cominciamo col dare qualche esempio dei vocaboli che entrano in 
questo periodo nei vari campi del lessico. Alla concezione positivistica 
ed evoluzionistica predominante negli ultimi decenni dell Ottocento si 
ricollegano i molti derivati di evoluzione allora coniati: oltre a evoluzio- 
nista e evoluzionistico, si hanno evoluzionario, evolubilita ecc. una non 
ancora evolversi). Si oscilla fra selezione naturale ed elezione-, il 
Tommaseo biasimava selezione 101 ; G. Canestrini, traduttore di Darwin, 
non osava sanzionare il neologismo e preferiva tradurre Sulla origine 
delle specie per elezione naturale, Torino 1875; non ne aveva paura 
invece l’ Ascoli, che parlava della selezione naturale nelle lingue (Arch. 
glott. it., I, p. xviii). Moltissimi parlano anche metaforicamente di 
darwinismo (o darvinismo ) e di lotta per la v ita. 

Ambiente, che prima era solo termine fisico e biologico, per 
influenza delle concezioni del Taine, viene a significare anche le 
circostanze sociali (come il francese milieu) 102 . Anche trasformismo fu in 
origine un ter min e evoluzionistico (coniato dall’antropologo francese 
Broca nel 1867 riferendosi alle teorie di Lamarck): dopo il discorso di 
Depretis dell’8 ottobre 1882 (il quale parlava di trasformazione), passò a 
indicare quell’abolizione di nette frontiere tra i partiti che caratterizzò 


.00 È stato specialmente studiato il «dialogo interiore » o «stile indiretto 
libero» del Verga (con riferimento al noto libro di M. Lips, Le style mdirect libre, 
Pariizi 1926- ma già lo Scarfoglio, nel Libro di Don Chisciotte, Roma 1885 , aveva 
notato '«k^'strano abuso del dialogo indiretto,! ctr. V. Lugli, .Lo otite tadirat.o 
libero in Flaubert e Verga», in Mem. Acc. Ist. Bologna, Cl. se. mor., s. 4 voi. V, 1942 
SfcSt in Dante e Balzai Napoli 1952 pp 221-239), G 

in due capitoli dei Malavoglia», m Boll. Centro St. fil. Img. Sic., Il, I9j>4 pp 
I Frangeà, «Su un aspetto dello stile di G. Verga», m Studia Rom. Zagr., I, 2, 1956, 

PP ' ioi 4 jsjel suo opuscolo L’uomo e la scimmia, Milano 1869, p. 31, e più acremente 
nel Dizionario, come «voce con cui gli scienziati della bestialità e del pantano, per 
negare la libertà umana, la affermano consentendola a tutte le cose». 

102 Migliorini, Saggi linguistici, pp. 242-261. 


Mezzo secolo di unità nazionale 


639 


la politica di quegli anni: « Trasformismo , brutta parola a cosa più 
brutta», lo giudicava il Carducci 103 . 

Innumerevoli altre ve i nascono dalla politica nei vari suoi aspetti. I 
primi anni dell’unità fanno sorgere proteste contro i piemontisti o 
piemontesisti, e quelli che vogliono Um)piemontizzare l’Italia. Chi è 
autoritario, intransigente, forcaiolo, chi libertario. Vi sono triplicisti e 
antitriplicisti, per lo più a cagione dell’irredentismo. Si parla dei 
comunardi e poi dei dreyfusisti o dreyfusardi, riferendosi alle condizioni 
francesi; invece blocco (col derivato bloccardo) viene presto anche 
riferito, oltre che alla politica francese, a quella italiana. Lo stesso si 
può dire di boicottare (anzi dapprincipio, boycottare), che è considerato 
alla sua apparizione come neologismo inglese 104 , ma è poi subito 
accolto anche in italiano. Si crea il nuovo titolo di sottosegretario (di 
Stato). 

Frequentissime sono pure le locuzioni politiche: la questione meri- 
dionale, la capitale morale (cioè Milano: espressione attribuita a R. 
Bonghi), il momento psicologico (dovuto a Bismarck), le zone grigie (con 
cui Crispi indicò i paesi di confine di nazionalità mista), e via via fino al 
sacro egoismo (da un discorso di A. Salandra). 

Le guerre africane portano alla conoscenza di persone, cose, usanze 
di quei luoghi: negus, ras, ascari, ecc.; nascono allora anche guerrafon- 
daio e retrovie. Con la guerra di Libia si diffonde la parola araba ghirba 
(«otre», e figuratar mte «pancia»). 

Le lotte sociali fanno nascere molte nuove espressioni o danno 
significato nuovo a parole antiche-, lega operaia, Camera del lavoro, 
sciopero, serrata (dapprima, all’inglese, lock o ut, 1875), sabotare, ecc. 
Abbondano le parole affettive, di attaccamento ( compagno come titolo) 
o di spregio: succhioni, crumiri (operai o contadini che continuano a 
lavorare mentre gli altri scioperano; dal nome di una piccola tribù di 
Tunisini alla frontiera con l’Algeria, che con il loro atteggiamento di 
contrabbandieri diedero occasione alla spedizione francese del 1881) e 
non mancano i motti (il Sole dell’avvenire, dapprima adoperato, sem- 
bra, da Mercantini e da Garibaldi, poi divulgato dal Canto dei 
lavoratori di F. Turati, 1886). Ricordiamo anche lor signori, epiteto 
spregiativo dato alle classi dominanti dagli oratori e dai giornali di 
sinistra 105 . 

Si formano molti nuovi sostantivi femminili, ora che le donne sì 
dedicano più frequentemente di prima agli studi e a professioni prima 
riserbate agli uomini. «La terminazione essa è preferita a tutte le altre 


103 Don Chisciotte, 3 genn. 1883. Molte altre citazioni di quegli anni v. ap. De 
Mattei, Lingua nostra. II, 1950, pp. 124-126. 

104 Illustrazione ital:, 2 genn. 1881 (cit. da Messeri, in Lingua nostra, XVIII, pp. 
102-103). 

105 Nel «Canto dei mietitori» del Rapisardi (nella raccolta Giustizia, 1888) il 
ritornello «e falciamo le messi a lor signori» si cambia nella chiusa in «Poi 
falcerem le teste a lor signori». 


640 


Storia, della lingua italiana 


-SriSrSSSSf | 
SSSo 

studenti™ la donna avvocato, ecc. Dei nomi in -tore, solo dottoressa 

ESCSSS?: e SSS&Zvtfo la 
Sala SS favole al nomi in -torà, è considerato annesso 

C ° m NeKto ernia il rinnovamento edilizio porta agi, 
e ai rettifili. Milano costruisce il suo famedio. E già si par 

Urb r?Sdi innovazioni si hanno nelle comunicazioni: compare ancora 

mifllrhe tino di carrozza a cavalli (victoria); ma poi entrano in uso 
qualche tipo scarrozza »■ (col troliey e cc.), il velocipede, la bicicletta 

EllSsaSBSsf^ , fia&“ 

11 S ST Z?da‘ h JSdSJT&SSte importa od escogita, come di 
rnn<;iipto decine e decine di nomi nuovi: il tight, lo smoking, 1 imper- 
meabile, la lobbia, il pijama (pigiama); il sellino (frane, toumure \ il 

bOÌ Neìle lìggiT’neUa pratica degli uffici si coniano o si fissano 

ìsss, 

daU F™ P SeT“a rt c a o"SS£ne di vocaboli generici come attendente a 
cosa mdSmsntS e naturalmente le designazioni d'impieglu tenenza), 

d ‘ NSeSnS t StlaS appaiono vocaboli come Corning 
perula™ bancabile, contabilizzare e innumerevoli altri; a cbccb 


» Cosi il Carducci, a proposito di . » ' »“»«»«"£ SHXSS 
107 C. Arila, Passatempi /Uoto^ci, Milano J902,^?p. 25 31. Appoggi favorevoli ai 

SSK a^he v^T^rano^azioni dialetti per es. -quella 
pittora lì», spreg. (Fogazzaro, Damele Cortis, cap. 


Mezzo secolo di unità nazionale 


641 


( chèque ) si comincia a sostituire assegno. La statistica parla di natalità, 
di nuzialità, ecc. 

Nel campo della letteratura, molti fra i termini che indicano nuove 
tendenze vengono dalla Francia: parnassiani, realisti, veristi, simbolisti. 
Ma il nome di scapigliatura traduce con originalità il francese bohè- 
me 108 ; quello di crepuscolare, pur non mancando di precedenti francesi e 
italiani 108 , fu applicato a un determinato gruppo di scrittori dopo un- 
articolo del Borgese. Bozzetto come termine letterario è metafora 
attinta alla scultura e alla pittima. 

Anche nel campo delle arti figurative troviamo numerosi nomi 
europei ( impressionisti , divisionisti, ecc.) e qualcuno di conio italiano 
( macchiatoli ). Per la musica ricordiamo il termine wagneriano di 
Leitmotiv, la modesta ocarina inventata a Budrio nel 1867, la pianola di 
origine inglese. 

Nell’ambito del giornalismo quotidiano e letterario nascono l’elzevi- 
ro, il trafiletto, la terza pagina 110 , l’intervista, e anche il verbo cestinare. 
Nel 1896, il Carducci domandava a G. Biagi (Leti., XIX, p. 236): « Editoria 
è vocabolo suo o nuovo uso fiorentino?». 

Nel campo delle scienze morali, la filosofia risente nella terminolo- 
gia dell’ondata positivistica, e poi della ripresa della scolastica e della 
riscossa idealistica: e ciò non solo nei molti nuovi termini ( abulia , 
afasia, agnostico, autocoscienza, introspezione, neoscolastica, pragmati- 
smo, pseudoconcetto, psicanalisi, psicometria, ecc.) ma anche nel muta- 
mento di certi usi (i positivisti non vogliono che si parli di anima, ma di 
psiche ). Si moltiplicano le manifestazioni di telepatia. Per la teologia 
basti ricordare il termine di modernismo m . 

Nel campo del diritto penale, -appare la nuova criminologia. Un 
nuovo campo di ricerche è quello della preistoria e della paletnologia : si 
scoprono le terramare e le palafitte e si foggia una nuova terminologia 
( villanoviano , ecc.). 


108 Nella sua prima apparizione, tuttavia do scritto di C. Arrighi La scapiglia- 
tura e ile febbraio, Milano 1861, già preannunziato alcuni anni prima dal Pungolo) 
scapigliatura non si riferiva alla nota scuola letteraria milanese, ma a 'quei 
cospiratori patriotti che avevano preparato i moti del 6 febbraio 1853. 

109 F. Coppée, in un articolo del Journal, 15 marzo 1894, chiamava Samain «un 
poète d’automne et de crépuscule», F. Gaeta nel Libro della giovinezza (1895) 
invocava: «Ma a me crepuscolare l’anima resti», G. Camerana in una lettera al 
Boito (1901) diceva che certe proprie strofe mandavano una «loro luce un po’ 
mortuaria, un po’ spettrale, un po’ crepuscolare». 

110 Iniziata dal Giornale d’Italia nel 1901, in occasione della prima rappresen- 
tazione della Francesca da Rimini del D’Annunzio (v. A. Bergamini, Nuova Antol., 
XC, 1955, pp. 347-362). 

111 Apparso già, con significato politico generico, nella Civiltà cattolica del 
1883, e da altri adoperato con valore anche più -vago («l’esagerazione di 
modernità, o modernismo che dir si voglia»; Mazzoni, Poeti giovani, 1888), il 
vocabolo viène poi usato, con preciso riferimento alle nuove concezioni eterodos- 
se, dalla Civiltà cattolica nel 1904, ed è infine teologicamente definito dall’encicli- 
ca Pascendi (1907). 



642 


Storia della lingua italiana 


Le scienze biologiche vantano numerose scoperte nel regno dei 
bacilli e dei microbili ). La medicina adotta l’antisepsi e l’anestesia, 
perfeziona la parassitologia, identifica la difterite e la tubercolosi; nasce 
(per le ricerche sulla malaria) l’aggettivo malarico ; e citiamo fra mille e 
mille. I chimici coniano voci come cocaina o ptomaina ; e l’industria 
produce celluloide e dinamite. 

Tra le scienze applicate hanno un enorme sviluppo tutte quelle che 
si riferiscono all’elettricità: accumulatore, trasformatore, dinamo, volt, 
ecc. 

Nel campo dei motori ricordiamo voci come macchinario, montag- 
gio, turbina. 

Lo sviluppo del commercio dà origine alla merceologia (o merciolo- 
gia). Si perfeziona l’arte fotografica: istantanea, viraggio. 

Entrano in uso il fonografo e il cinematografo teine , cinema ), con una 
ricca terminologia. 

Si sviluppano grandemente gli sport (sport ippici, tennis, ciclismo, 
alpinismo, sci, ecc.) con una affluenza preponderante di voci francesi e 
inglesi, ma anche con qualche voce di formazione greco-latina o 
italiana ( alpinismo , stella alpina, ecc.; il vocabolo maratona adoperato 
come nome di corsa in occasione del rinnovamento dei giochi olimpici 
del 1896; l’antico allenare esumato, ecc.). 

Fra le innumerevoli cose nuove di questa età che portano alla 
coniazione di parole nuove ricordiamo la grafologia e la filatelia. 

Ma, come è ovvio, non abbiamo fatto che piluccare: sarebbero 
invece desiderabili ampi elenchi per ì singoli campi, con precise 
datazioni. Né basterebbe, naturalmente, considerare le parole di uso 
generale: bisognerebbe approfondire la storia del lessico di ciascun 
campo speciale (il lessico della filosofia, poniamo, o quello della fisica, o 
quello della marina), e poi vedere quali di queste parole si sono diffuse 
nel pubblico e quando. 

Le nuove voci che appaiono nel lessico italiano sono dovute, come 
di consueto, a nuove coniazioni, a mutamenti di significato, a voci di 
origine regionale, all’esumazione di voci arcaiche, alla penetrazione di 
latinismi e grecismi o di voci forestiere. 

Le nuove coniazioni sono in minima parte di origine onomatopeica: 
vi è particolarmente incline il Pascoli, che non solo riprende nomi e 
verbi raramente usati dagli scrittori [bombire , chioccolare, zirlare ), ma 
attinge all’uso popolare o conia voci nuove, grammaticalizzate Igracila- 
re delle galline, sciusciuliare del mare) oppure no Itin fin dei pettirossi, 
uuid uid dell’allodola, ecc.). Pirandello presenta un suo personaggio 
che rifà il verso al canarino, che «forse coglieva in quel... pispissì o care 
notizie di nidi, di foglie, di libertà» HI fu Mattia Pascal, cap. IX). I 
futuristi puntano piuttosto sulle onomatopee tratte dai rumori. Ma in 
complesso poche voci onomatopeiche entrano nell’uso stabile: ricordia- 
mo ticchettio (Picciola, Versi-, D’Annunzio, Innocente, Trionfo della 
morte). 

È in auge la semplice sostantivazione riferita a persona (un 


Mezzo secolo di unità nazionale 


643 


mo«af un intellettuale, o a cosa (un di risibile, un'Istantanea, un'auto- 
abbondanza ’nel^linguag^fo* degli' uffici) 6 <e °° n partIcolare 

da monti in ? ne, coXZf:Z~^°^ * TCrb ‘ dari ™‘‘ 
ziano Trionfo d’eS^ZZ 

illimitata^^o^S^nSovi^o ChÌ p j 5f fìsso Ì di - con la possibilità quasi 
(Carducci, 1882 ) autocosripnJn^^ 08 t aer °f ere tr° (1903), autocommento 
troargentatura ’elettroDunturn. , f ^ utogovemo (1890), automobile, elet- 
plastica, ecc eLettropuntura - fotoincisione, fotoscultura -, galvano- 

dottrine, movimenti, teXzeSHS, gl™?™ nZ’Esmn tadlCan0 

2» sassssK s.ror era 

c’est troo simnlp Pilo ^ ^ professore: «Discorso di filosofìa. Oibò! 
sonante e schiacciante- una'diwi^ 6 !!' 6 ^ Un ^J 010 più sfolgorante e 
dedicava un “ttoTc/ S tT * P6r 10 meno ’- E U Capuana 
tratta per lo più di voci int^mL^ conten }b° ran ei (Catania 1898). Si 

Italia. Ma ca P n'è Z^StT^ 0 ^H 0 n ? a a e to altrl paesl - 

quello che indica un cXtesso di nt ®. denvazi <>ne francese: 

ciclismo), automobilismo Anrhn i attmta sportive: velocipedismo (poi 
significati lelSSTubm^L sfSaZ^ S ‘ mol «P lfc “° vari 
pre piacciono (il Veratti nel 1880 biasimi^’ avvenmsta ’ occ.) né sem- 
Lollis nel 1907 trovava medS? u f7 & ’ per es ’ con Sressista; il De 
La serie già arfil^de^fnt 1 ^^? • * br ^^ a ’ ma necessaria parola»), 

riceve molti nuovi incrementi- banchettisi™ 0 {an } lcissim ° : Villani, ecc.) 
simo (Nieri) pupissima ^ n Siomalissimo, palazzis- 

^glionissZZcTr^^MZZ,fn ma 

fiorentino il primo nonEnln a l ° ? ' are/to (ori gfoariamente 
secondo) si scambiano ormai spnT-n sp ® cial .P le P te caro ai Romani il 
regionale- il Dunré scriva fatto n & c ? e piu S1 sen ta la sfumatura 
attarello, fattarello, bruttarono, a mzdT’s'AreUo^f' adopera 


(«fui adSa£fa% a ia 0 Re3^aT: a ^°‘ XIX ' Una V ra del 1895 al Bia &i 
con tono scherzoso) in una lettera' del l’ftfls ( se n z a sottolinearlo, ma sempre 

èt. V,van0 * Domani par, “‘ 1 

ih Saggi Novecento , p. 67 

vosa. coma* %T " » 

^"5°^ s^uS dooo r os, ° bo “ a * “ 

Nel Irnsuaggm parlamentar, entri nel dicembre 1905 (Introdottavi dal 


644 


Storia della lingua italiana 


Le formazioni scientifiche abbondano (psicosi, tubercolosi, ecc.ì, e 
tendono a sconfinare anche nell’uso corrente: sull’esempio ài mattoide, 
coniato dal Lombroso e subito diffusosi, si ha anarcoide 
-ite, -itide si fa spaghite «paura», bnachitide UboUendogli la bnochihde 
su due bone materasse»: Petrocchi, versione di Zola, LAssommoir, p. 

128) 

Le scienze, la burocrazia, il giornalismo, la poesia, spingono a 
coniare nuovi aggettivi: malarico (da malaria ), maidico (da mais), 
luetico (da lue), medianico (da medium), velico (da veto); risorgimentale, 
decoramentale (Carducci), sensazionale-, aromale, liliale, smfomale 
(D’Annunzio), furiale (Boito), gloriale (Camerana), ecc. 

Fra il 1900 e il 1910 gli aggettivi in -esco riferiti ai secoli [trecentesco , 
ecc ) pr ima rarissimi, sostituiscono quelli in -istico (o in -ista appositivo: 
eleganza cinquecentistica, lirica cinquecentista ), fino allora usuali. 

Anche con i suffissoidi si coniano molte parole nuove: accanto ai 
vecchi vocaboli di lanificio, setificio, panificio, che dal significato 
astratto di «arte di lavorare la lana, la seta, di fabbricare il pane» 
erano passati a quello concreto di «luogo dove si lavora la lana, la seta, 
si fabbrica il pane», si foggiano numerosi altri nomi, specialmente m 
Lombardia: calzaturifìcio («goffa e sesquipedale parola creata a Mila- 
no 1902»- Panzini), canapificio, caseificio, cotonificio, ecc. I cannoni 
grandinifughi destano verso il 1900 grandi speranze; si creano labora- 
tori vaccinogeni, ecc. 

Accanto ai composti dei tipi usuali che anchessi si accrescono 
(accalappiacani, pesalettere, schiaccianoci, ecc X se ne hanno molti altri 
di vari tipi, specialmente nelle scienze (parolibero, Mannetti; avifauna, 

eCC 01tre alle molte voci nuove che sono arrivate più o meno facilmente, 
più o meno ampiamente a entrare nell’uso, se ne potrebbero citare 
mig liaia di altre che hanno avuto una vita momentanea o piu o meno 
breve: scimmietà, scimmiologo (Tommaseo), monumentare manzonici- 
dio (Carducci), empicomici «pittore», spulciacodici «erudito» (Dossi), 
nientarchia (Gandolin), massiccità (Fogazzaro), capolavorare, capolavo- 
razione (D’Annunzio), prosatolo (D. Mantovani), studianaio (studio + 
granaio-, cosi chiamava il Fucini il suo studio), ecc. 

Di parecchie parole si conosce l’autore, sia di quelle scientifiche e 
tecniche che di quelle letterarie o politiche: sappiamo per es. che 
ptomaina è stato coniato da F. Selmi, che bimetallismo e dovuto a E. 
Cemuschi, che paesanità è stato foggiato da Carducci^ guerrafondaie » è 
dovuto a L. A. Vassallo (Gandolin) e forcaiolo a L. Bertelli (Vamba). Di 
altre si conosce chi le ha introdotte: velivolo nel senso di «aeroplano» 
da D’Annunzio, congeniale da Croce, ecc. 

Inn ovazioni imp ortanti si hanno anche nella semantica: parole già 


presidente del consiglio Fortis) l’espressione uno puntarella di Destra; il Martini 
scrive punterella Qett. 6 nov. 1909). 


Mezzo secolo di unità nazionale 


645 


esistenti prendono nuova voga o nuovo significato, sia in relazione con 
le correnti dell’età (filosofiche, scientifiche, politiche, economiche, ecc.), 
sia per la spinta di qualche accadimento singolo. 

Si pensi, ad esempio, all’uso sempre crescente di termini scientifici e 
tecnici, sia in senso proprio 116 , sia in senso figurato. 

In tutti i secoli si sono coniate espressioni figurate, ed è diffìcile 
credere che in questa età se ne siano foggiate più che in altre: se i 
puristi se ne lagnano più che mai, ciò dipende probabilmente dalla 
maggior diffusione del giornalismo, che non va tanto per il sottile nel 
coniare metafore e ancor più spesso nel divulgare metafore già coniate 
in Francia. Il Fomaciari nel 1888 lamentava con amare parole l’incon- 
trollata divulgazione delle «metafore di moda» 117 ; ma il Torraca ebbe 
buon gioco nel dimostrare, con una larga documentazione, che le 
metafore biasimate dal Fomaciari non erano adoperate soltanto da 
giornalisti da strapazzo, ma che molte di esse erano entrate nel lessico 
degli scrittori e dei critici più autorevoli 118 . 

Né si può dire che successivamente quella tendenza sia regredita: 
tutt’altro. 

Si attingeva specialmente - e non fa meraviglia in un’età dominata 
dallo scientismo positivistico 119 - alle scienze della natura: di qui l’uso 
larghissimo di evoluzione, evoluto, svilupparsi-, il nuovo significato di 
ambiente e voci affini (v. p. 638); l’uso estensivo o figurato di alluvione, 
permeare 120 ; condensare, cristallizzare-, espansione-, convergenza, diver- 
genza-, diagramma («il diagramma delle tese fimi»: Graf, Medusa, 1880), 
apogeo, eclissi, orbita-, embrione, germe, microbili ), parassita 121 -, patolo- 
gia, diagnosi, sintomo, nostalgia 122 ; gestazione, superfetazione-, atrofia, 
ipertrofia, collasso, pletora, microcefalo, ecc. 


116 Anche i poeti, di solito alieni, nei secoli precedenti, dall'usare termini 
scientifici» li adoperano con larghezza: lo Zanella parla di nautili e di murici, di 
mastodonti e di uranghi-, il Rapisardi di quarzo e felspato, o dell’* insonne zoofitico 
gregge»; le attinie, le astree le madrèpore fioriscono nel Canto novo dannunziano, 
Gozzano compiange le «disperate cetonie capovolte» e ostenta i nomi di 
innumerevoli farfalle in un suo poemetto incompiuto dedicato ad esse; ecc. 

117 In un articolo della Nuova Antol., 16 ottobre 1888 , rist. nel volume Fra il 
nuovo e l’antico, Milano 1909, pp. 323-357. 

118 Rivista critica della lett. ital., V, 1888, rist. nel voi. Nuove rassegne, Livorno 
1894, pp. 53-88. 

1,8 Un esempio solo, fra i tanti, del modo di esprimersi non di uno scienziato, 
ma di un letterato positivista: egli non parla di opere d’arte, ma di «produzioni 
artistiche del cervello umano» IGiom. star. lett. it., XLII, 1903, p. 160). 

120 Al Panzini l’uso estensivo della parola non piaceva: egli notava CDiz. mod. 
7 a ed., s. v.): «usato dal Carducci in nobile prosa, poi dai moderni, stona come ima 
pezza di raso in un abito da strapazzo». 

121 Non solo «Parassiti del linguaggio» e «Microbi del discorso», titolo di due 
capitoli di P. Lioy, Piccolo mondo ignoto, Firenze 1900, ma parassita e parassitico 
riferito a suoni nei Corsi di glottologia dell’ Ascoli, Milano 1870, passim. 

122 Solo negli ultimi decenni dell’Ottocento il termine di nostalgia comincia ad 
uscire dai trattati di medicina e ad entrare nell’uso comune. 


646 


Storia della lingua italiana 


Pure largo è l’uso figurato di nomi di procedimenti e strumenti: 
termometro, sismografo («La seduta di ieri fu burrascosa: ma il sismo- 
grafo politico fin dalla mattina prometteva di più»: Collodi, Note gaie, 
1876), fotografia, fonografia (G. Cepparelli intitola - per consiglio di O. 
Baccì - Fonografie valdelsane, Firenze 1896, una raccolta di scenette 
trascritte dal vero), cinematografo ( Che cinematografo ! «Che scena 
movimentata!»). A Giulio Orsini sembra d’avere «di Rontgen i raggi - 
nell’occhio di scienza malato». , _ .. 

Chi voglia troverà negli elenchi del Fomaciari e del Torraca molte 
di queste «metafore di moda» tratte da vari campi concettuali (ma 
resterà spesso con l’incertezza se siano nate in questa età o non siano 
già anteriori, perché i lessici, solléciti a notare i significati propri delle 
parole, trascurano invece non di rado quelli estensivi e figurati). 

Accade anche talvolta che una scienza assuma come termine 
tecnico un vocabolo che già aveva preso in un’altra scienza un 
significato determinato: così il Canello (Arch. glott. ita*.. Ili, 1879) 
chiamò allotropi le parole che si presentano in forma diversa pur 
avendo la stessa etimologia, attingendo il termine alla chimica e alla 

Mutamenti di significato di varie specie si consolidano nel lessico. 

Il nome siluro, che prima si riferiva a un genere di pesci teleostei, e 
trasferito anche (per irradiazione sinonimica di torpedine ) a una mina 
acquatica semovente (1866). 

Fascio già poco dopo il ’70 a Bologna serve come nome di un 
raggruppamento operaio; e nel 1893 in Sicilia nascono i Fasci dei 

lavoratori. , .. _ 

Di sventramenti edilizi si cominciò a parlare dopo che il Depretis 
ebbe affermato nel 1884: «Bisogna sventrare Napoli». 

L’epiteto di bizantino applicato alla vita politica e sociale della 
Roma umbertina e al gusto letterario e artistico predominante nella 
Cronaca bizantina del Sommaruga (1881-85), ancora rimane a caraffe- 
rizzar© qu©gli anni (G. Squarciapino, Rottici bizantina , Torino 1950). 

Il monocolo degli eleganti viene battezzato ironicamente pasticca 
(Fanfani-Arlia, 1881), poi anche caramella (Fanfani-Arlia, 1890); e questa 
seconda parola rimane nell’uso. 

Coriandoli si chiamavano i confettini con un seme di coriandolo e 
poi in genere i confetti carnevaleschi di gesso, ma poi (verso il 1883, a 
Milano) si misero in commercio allo stesso scopo i minuscoli dischi di 
carta che avanzavano nel preparare i fogli forati per i bachi da seta, e 
il nome passò ad essi. 

Mosconi «note di cronaca mondana», ha origine dalla rubrica «Api, 
mosconi e vespe» istituita da Matilde Serao (dapprima nel Comere di 

ROTT ^scecane è registrato a cominciare dalla 2 a ed. del Panzini (1908) Per 
indicare i «grandi, astuti, insaziabili divoratori del lavoro e del danaro 
altrui»; contribuì a dar voga alla parola la commedia di Dario 
Niccodemi 1 pescicani (1913). 


Mezzo secolo di unità nazionale 


647 


Numerose sono le antonomasie, dotte e popolari, riferite a nomi 
propri di persone reali o fittizie. Abbiamo nomi metaforici, come un 
Fregoli (fregolismo ); un travet (dalla commedia piemontese di V. Berse- 
zio, Le miserie d’monsù Travet, 1862), un gigione «cantante, attore da 
strapazzo» (da una commedia di E. Ferravilla) ecc., e nomi metonimici 
come lobbia (cappello alla Lobbia), cavurrino, sigaro Sella ecc. 123 . Molti 
di questi vocaboli sono rimasti legati alla notorietà dei rispettivi 
personaggi, cosicché qualcuno, notissimo a suo tempo, cadde poi 
dall’uso o rimase confinato in un ambiente speciale 124 . 

Qualche volta non c’è stato vero e proprio cambiamento di significa- 
to, ma di connotazione affettiva. Santo è stato largamente adoperato in 
senso laico ,25 . Retorica ha preso per molti un valore spregiativo 126 ; e così 
filosofo e filosofia 121 . Nella polemica dei decadenti contro il sentire 
«borghese», i poveri droghieri (come i loro confratelli francesi, gli 
épiciers ) diventano il simbolo dell’incapacità d’intendere l’arte: «i 
piccoli giardini contigui alle villette dei droghieri » (D'Annunzio, Vergini 
delle rocce p. 10 1) 128 ; «frase volgare e dro ghiera» (Martini, Prefazione a 
Di palo in frasca ). 

Parecchi vocaboli riferiti alle cose e agli uomini di chiesa prendono, 
in un’età dominata da spiriti antiecclesiastici, una connotazione 
spregiativa: per es. paolotto, nome popolare dei membri di due or- 
dini religiosi, viene a significare «clericale» 129 . La troppa diffusione 
delle oleografie ne rende spregiativo il nome (e l’aggettivo derivato oleo- 
grafico). 

Ma accanto alle creazioni di voci nuove e ai mutamenti di 


123 Migliorini, Dal nome proprio, passim. 

121 In Liguria - attestava G. Baffico nella Nuova Ant. (1 ottobre 1908, p. 460) - si 
chiama Capitan Dodero (da un romanzo di A. G. Barrili) un capitano «fatto grigio 
dal tempo, cotto dal sole, piena l’anima di ricordi marinari». Dimenticato il 
giornalista Luigi Coppola, collaboratore del Fanfulla e il suo pseudonimo di 
Pompiere, si scordarono anche le pompierate «giochi di parole» (cfr. Martini, 
lettera del 20 luglio 1903: Lettere, p. 389). Né si adopera più livragare «sopprimere 
in silenzio», tratto dai nome del ten. Livraghi in séguito a un clamoroso episodio 
di politica coloniale. 

123 Si vedano le briose pagine di A. Baldini, Fine Ottocento, Firenze 1947, pp. 25- 
27 («santa canaglia» in un'ode carducciana del ’08; «La carne è santa» nella 
Chimera dannunziana, ecc.). 

128 «oggi certa gente chiama retorica tutto quello che ha il torto di parlare al 
cuore e alla mente un po’ più presto e un po’ più efficacemente che non le loro 
cifre e i resoconti...»: Carducci, G. Mameli, 1872 (Op., XVIII, p. 398). 

127 «Il nome di filosofo, la parola filosofia, secolarmente riveriti anche per il 
concetto che vi si univa di serenità e superiorità morale, divennero nome e parola 
di scredito, ora deprecati come segno d’insipidi motti e di lazzi triviali»: Croce, 
Storia d'Italia dal 1871 al 1915, 4 a ed., Bari 1929, p. 137. 

128 Cfr. Passerini, Il Voc. dannunziano, s. v. e Garzia, Il Vocabolario dannun- 
ziano, pp. 184-185. 

120 La Luna è confrontata dal Carducci con ima faccia di suora, «celeste 
paolotta» (Rime nuove, LXIX); e gli fa eco R. Zena («alla luna paolotta»: 
Intempestive ). 


648 Storia della lingua italiana 


significato, dobbiamo ora considerare, per avere un’idea complessiva 
degli incrementi del lessico, raccoglimento di voci dal toscano parlato 
e dai dialetti, il ravvivamento di voci letterarie e arcaiche, la penetra- 
zione di latinismi e grecismi e di parole forestiere moderne. 


17 . Voci popolari moderne 

La penetrazione nella lingua scritta e parlata usuale di voci toscane 
e di voci regionali o dialettali è ancora più forte che nelle età, 
precedenti, grazie all’influenza deU’unificazione politica. Negli anni di 
Firenze capitale, la vampata manzoniana diede un certo incremento 
all’espansione fiorentina, ma non senza suscitare molte reazioni. Dopo 
il 1870 l’accentrarsi della vita politica, mondana, culturale, giornalisti- 
ca neila nuova capitale, fece sì che molte voci dell’uso romano, 
specialmente borghese, si diffondessero neU’uso generale. Quanto alle 
altre regioni, la miglior conoscenza che si ha della vita di esse grazie 
alla moltiplicazione degli scàmbi e alla divulgazione della letteratura 
veristica ambientata regionalmente, fa sì che molte parole dialettali o 
regionali penetrino più o meno largamente nell’uso. 

Agli scrittori toscani di vena spontanea (come il Fucini, il Collodi, il 
Martini) vien fatto ogni tanto di adoperare qualche parola o espressio- 
ne del toscano parlato, anche se non accolta nell’uso scritto: leggiamo, 
per citare solo qualche esempio, nei Ricordi autobiografici del Dupre (p. 
412): «quella stupenda musica, che ricordandola mi ha fatto andar su 
pei peri», o, in un dialogo di Augusto Conti (in D Ancona e Bacci, Man. 
della lett. ital., VI, p. 40): «Bisogna imparare, non più guardarsi alla 
spera». Il Carducci in una lettera del 21 agosto 1898 ad Annie Vivanti 
ILett XX p. 161) scrive «la paura t’ha diminuita, direi striminzita»; poi 
per paura che la parola riesca ignota ad Annie, perché rara neU’uso 
scritto, aggiunge tra parentesi: «(vocabolo toscano)». Il Nobili (Memorie 
lontane p. 139 Pancrazi) scrive: « Stolzai come se fossi stato toccato da 
un bottone di fuoco...»: ed è voce non fiorentina, ma del toscano 

meridionale. , . ,. 

Ai non Toscani che voghono toscaneggiare accade mvece spesso di 
esagerare, specialmente adoperando vocaboh e locuzioni popolaresche 
anche dove U tono non lo consentirebbe. Si legge, neUa Storia di 
Federico il Grande di Emilio Broglio (Milano 1874-76): «La Prussia ci 
guadagnò un tanto, e fece un baratto co’ fiocchi » (I, p. 105); «t era 
doventata una strega» (II, p. 131); Federico Guglielmo dice al principe 
Federico: «ho procurato di far di voi un omo per bene» (II, p. 217); 
Federico Gughelmo «moriva dunque... tra il tocco e le due a poco meno 
di cinquantadu'anni » (II, p. 372) 130 . Questo toscaneggiare oltre quel 


130 II Martini, Confessioni e ricordi, Milano 1928, racconta come gli anuci 
convinsero il Broglio a togliere, e tolse a malincuore, la frase: «Federico arrivò a 
buco a riafferrare la vittoria». 


Mezzo secolo di unità nazionale 649 

limite che valeva per i Toscani stessi irritava U Carducci 131 e tanti 
altri 132 . 

SingoU toscanismi appaiono inoltre sia negli scrittori non toscani 
che aspirano a un lessico largamente eclettico (un Dossi, un FaldeUa), 
sia in quelli che cercando i vocaboli di cui sentono il bisogno, trovano 
di che soddisfarlo in qualche voce toscana non ancora accolta o non 
più accolta nell’uso scritto: così quando il Padula scrive beruzzo nel 
senso di «colazione nei campi», o il Verdinois adopera tornare nel senso 
di «andare ad abitare in un’altra casa», o il Verga scrive sito per 
«puzzo». Voci e frasi dialettali o regionali abbondano d’altra parte, ora 
riprese tali e quali, ora più o meno adattate, obbedendo a esigenze 
artistiche e magari a intenzioni teoriche varie, in opere letterarie 
regionalmente ambientate. Il Faldella, il De Marchi, il Fogazzaro, il 
D’Annunzio, la Serao, il Verga, la Deledda, il Panzini e moltissimi altri 
se ne valgono in vario modo e misura: ora si tratterà solo di qualche 
vocabolo di color locale, ora di una prospettiva di frasi e di vocaboli più 
o meno dialettali distribuita secondo le classi sociali che gli autori 
vogliono raffigurare, ora di ima trasposizione in lingua (più o meno 
ampia, più o meno riuscita) della maniera dialettale di pensare e di 
parlare. 

Mentre per parecchi autori (in prosa e anche in versi) conosciamo 
bene la consistenza (e l’utilizzazione artistica) degli elementi dialettali, 
ben poche ricerche sono state fatte per altri campi: per es. la cronaca 
locale dei giornali, oppure la diffusione di oggetti di produzione locale 
(citavamo qui addietro l’ocarina, diffusasi da Budrio), ecc. 

Malgrado queste lacune, proviamoci a delineare un bilancio provvi- 
sorio della penetrazione degli apporti dialettali nella lingua usuale, 
parlata e scritta. 

Ma anzitutto è necessario notare che le diversità fra il toscano 
parlato e l’italiano usuale si sono venute attenuando. Da un lato voci 
toscane prima ignote si sono divulgate. Scriveva il Mamiani al Fanfani, 
a proposito della Paolina «novella scritta in lingua fiorentina italiana»: 
«dirò che la S. V. è stata scrupolosa all’eccesso perché alcune delle 
frasi, da Lei notate come proprie alla sola Toscana, sono invece nel 


131 Oltre ai passi più propriamente antimanzoniani, già citati (p. 620), si 
ricordino le parole contro l’imitazione del Giusti minore, che aveva dato 
occasione a una «alluvione di cianciatorelli fiorentineschi» (Op., XVIII, p. 345); 
altrove, quasi a contrapposto, il Carducci citava l’urbanità del marchese Capponi 
che «non passeggia in maniche di camicia, non affetta lo scimunito, la donnacco- 
la, il bamberottolo e il ciano» (£a ira, in Op., XXTV, p. 398). 

132 P. es. Matteo Ricci: «non vedemmo, parecchi anni fa, comparire una certa 
Storia romana, dove Cesare e Pompeo parlavano la lingua di Stenterello? E non 
abbiamo ora alle mani una certa Storia di Federigo II, ottima per la sostanza, ma 
di quando in quando ridicola per la forma, in causa appunto dei fiorentinismi 
messi a sproposito?» (Rassegna nazionale, LUI, 1890, p. 36). Appropriatissimi, 
invece, possono riuscire i fiorentinismi (avverte lo stesso Rieri) nel tono familiare, 
nella poesia satirica, ecc. 


650 


Storia della lingua italiana 


Mezzo secolo di unità nazionale 


651 


parlare usuale delle persone civili di tutta 1 Italia, siccome questa per 
via d’esempio: non te la posso menar buona-, e l’altra: tante moine-, e 
questa pure: io sono di casa ...» Qett. 18 ottobre 1868) 133 . Anche più 
pertinente è la testimonianza del De Amicis sulla diffusione di parole e 
locuzioni familiari in conseguenza dell’unificazione nazionale: «Sono 
usati ora anche fra noi lin Piemontel, parlando italiano, sono anzi 
diventati comunissimi una quantità di vocaboli e di locuzioni che 
quand’ero ragazzo erano affatto sconosciuti. Quarant anni fa non le 
sarebbe mai occorso di sentir dire da un piemontese schiacciare un 
sonno appisolarsi, fare uno spuntino, fare ammodo, uomo di garbo, 
gente per bene, mi frulla per il capo, andare in visibilio, prendere in 
tasca, faticare parecchio, e via discorrendo» 134 . 

Viceversa in altri casi certe forme toscane hanno ceduto (o hanno 
cominciato a cedere, a sembrar vernacole anche a molti Toscani di 
fronte a vocaboli preferiti dal resto d’Italia: bòdola, limosina, oriolo, 
polendo, spedale, di contro a botola, elemosina, orologio, polenta, 
ospedale. A Firenze stessa cassetta (di un mobile) comincia a cedere a 
cassetto; tavolo, rifiutato pertinacemente dai puristi toscani, arriva a 
farsi strada; crestaia è vinto da modista. _ . . 

Si è già accennato come tra le varianti officio, ufficio, uffizio, ufizio 
(e rispettivi derivati) prevalga, dapprima non senza qualche esitazione, 
la variante non fiorentina ufficio-, il Manzoùi, leggendo questa forma m 
un avviso dell’«Ufficio» centrale dei telegrafi, se ne scandalizzava 
come di un’offesa all’unità quale egli la desiderava-. «Oh se i signonm 
di costì sua bona norintì » Qett. 16 novembre 1865) 135 . L’ammazzatoio 
fiorentino (registrato dal Fanfani e dal Petrocchi) cede a mattatoio (che 
è la forma di Siena, di Ancona, di Roma) 136 . Le voci fiorentine mezzaiolo 
e mezzeria lottano contro le voci settentrionali mezzadro e mezzadria e 
hanno la peggio. Il Codice civile del 1865, all’articolo 1647, diceva, 
elencando compendiosamente le varie forme regionali: «Colui che 
coltiva un fondo col patto di dividere i frutti col locatore, si chiama 
mezzaiuolo, mezzadro, massaro o colono...*: da allora mezzadro e 
mezzadria 137 guadagnano man mano terreno 133 . Il tóse, albero nel senso 
di «pioppo» si evita perché può dare origine ad equivoci 139 . 


133 Bibliobiogr., p. 117. 

L’Idioma gentile, pp. 72-73 Ciò non toglie che l’altro interlocutore di questo 
dialogo trovi che le voci stintignare, striminzire, baluginare sonerebbero strane e 
affettate. E il Russo trova fuori posto nel Verga il «toscanissimo» ruzzare. 


135 Manzoni intimo, II, p. 209. „ . , . 

1M Invece abbattitoio (Annuario scient. e industriale, II, 1865, p. 165) non òche 
un calco, forse momentaneo, del fr. abattoir. Macello rimane la voce piu diffusa 

nei piccoli centri. . . . . , 

137 II Petrocchi cita mezzadro come voce lucchese: ma il Nien (s. v. Mezzanini 
avverte che mezzadria è parola di recente importazione. 

isa n verga (Mastro don Gesualdo, p. 376) parla di mezzadria, mentre per lui 
mezzeria significa «senseria» («La mia mezzeria ci sarà sempre?»: ivi, p. 207). 

138 II Tommaseo, nel discorso del 1868 «Intorno all’unità della lingua italiana» 


Si divulgano in questo periodo molte voci dialettali provenienti 
dalle regioni che più attivamente partecipano alla vita nazionale. Ecco 
alcune parole di provenienza piemontese, per lo più trasmesse dalla 
vita militare: arrangiarsi, cicchetto, grana (nella locuzione piantare una 
grana), pelandrone, ramazza. È piemontese bocciare'* 0 ; e anche gian- 
duia, gianduiotto. 

Dalla Lombardia provengono soprattutto termini gastronomici: 
risotto, erborinato, robiola, panettone-, di lì viene anche il nome di 
grappa «acquavite». S’imparano a conoscere le brughiere lombarde, e il 
nome delle marcite si divulga, superando quello toscano di marcitoia (v. 
Canevazzi-Marconi, Voc. di agricoltura, s. v.). Milanese è guardina 1 * 1 . 
Non si può dire invece che siano riuscite a imporsi due voci lombarde, 
preconizzate come utili perché atte a soddisfare una carenza dell’ita- 
liano: ab(b)iatico e gibigianna. Abiatico nel senso di «nipote di nonno» 
avrebbe servito a rimediare agli inconvenienti del doppio significato di 
«nipote» 142 . Per gibigianna non esiste nell’uso toscano un equivalen- 
te 143 , e si può dire che la parola appare soltanto in scrittori lombardi: 
l’ab. Stopparli, C. Bertolazzi (che intitolò una sua commedia La 
gibigianna, 1898), C. Rebora («In gibigianna di diavolerie»; La Voce, 6 
nov. 1913). Fare un bacio è stato a più riprese adoperato, ma sempre 
respinto come lombardismo. 

Dal Veneto vengono il nome di vestaglia e il saluto ciao-, qualche 
nome di barca come il bragozzo e la fisolera (termine che, trasmutato in 
fusoliera, fu poi accolto come vocabolo aviatorio); il felze, nome 
veneziano della cabina della gondola, fu fatto largamente conoscere 
dal Fuoco dannunziano. Dalle Alpi venete vengono i nomi della baita, 
della malga, della cengia. Gli scienziati ricorsero al friul. foibe (sotto la 
forma italianizzata foiba), nel senso di «cavità carsica» 144 ; mentre lo 


(Adun. solenne della R. Acc. della Crusca, Firenze 1868, p. 83), ricorda che ne 
nacque anche mi processo. 

140 In Toscana la parola si assesta nell'uso come intransitiva (Il Gorini 
quest’anno bocciai; altrove come transitiva (Il professore l’ha bocciato ). 

141 Sono nate a Milano, non tra il popolo, ma negli uffici, famedio, enopolio, 
tecnomasio e tante voci del tipo calzaturificio-, cfr. p. 644. 

142 Ne prese le difese il Broglio (V’ita di Fed. il Grande, II, p. 101); l’adoperò 
qualche scrittore lombardo (Cantoni, Opere, p. 672 Bacchelli; anche il Fogazzaro, 
nel Piccolo mondo antico, parlando dei lombardi Maironi). 

143 II Manzoni s’interessò spesso del problemino (cfr. la lettera di G. B. 
Giorgini a F. Lampertico, 14 febbr. 1891, in Manzoni intimo, II, p. 268), e la 
tradizione orale ci conservò questa sua quartina: «Del sole il puro raggio - brilla 
sull’onda impura, - sulle vetuste mura - gibigianando va» (Petrocchi, Dizion., sotto 
il rigo). Il Rovani aveva tentato di tradurre con guizzasole (Rovani, Cento anni, 1. 
X, n), l’Arlia preconizzò abbagliocchi (Passatempi filologici, cit., pp. 100-102), altri 
luminello o illuminello. 

144 P. es. Omboni, Geologia dell'Italia, Milano 1869, p. 191. Nella terminologia 
scientifica finì poi col prevalere, per influenza della terminologia intemazionale 
(e anche per maggiore facilità strutturale) lo slavo dolina (cfr. Rodolico, in Lingua 
nostra, IV, 1942, p. 38, VII, 1946, p. 91). 


652 


Storia della lingua italiana 


Stopparli tentò invano di mettere in uso trovante nel senso di «masso 
erratico ^ 

Dal romagnolo proviene, come abbiamo detto, lo carina e poco 

r» 1 140 

Ma la serie più numerosa di dialettalismi è quella proveniente da 
Roma. Si divulga il nome di burino o barrino «campagnolo zotico» tv. 
Prati Voc etim., s. v.l. Romano solo per la semantica è il termine di 
buzzurro, che a Firenze si dava agli Svizzeri che d’inverno vendevano 
castagne arrostite e polenta di castagne, ma poi, quando la capitale 
passò Roma, fu dato spregiativamente ai piemontesi e m genere ai 
Settentrionali venuti a stabilirsi a Roma. L adoperarono il Faldella in 
un bozzetto intitolato Colonie buzzurre, il Carducci m una nota all ode 
barbara Dinanzi alle Terme di Caracolla («Fu chi intese che questi versi 
augurassero la malaria ai buzzurri»), il D’Annunzio in alcune note 
mondane e nel Trionfo della Morte. E accolto come sinonimo scherzoso 
di «guardia municipale», pizzardone, che fu applicato alle guardie 
quando portavano un cappello a feluca che ricordava il becco della 
nizzarda iScolopax malori Romanesco è il termine di imbonitore-, nelle 
feste natalizie scendono dalla montagna 1 pifferarti da Fresinone e 
dintorni vengono i ciociari. Forse da Roma proviene anche pignolo nel 
senso di «minuzioso, pedantesco». Abbondano 1 nomi delle specialità 
gastronomiche ( abbacchio , saltimbocca) e delle allegre mangiate imac- 
caronata, spaghettata) e gite campestri ( ottobrata ) . C è chi sa intrufo- 
larsi e godere di uno sbafo. Le corse nella Campania Romana fanno 
conoscere le staccionate'**. Il giornalismo presenta 1 fattacci (di cronaca 
nera) e i pupazzetti di Gandolin. Inoltre, s’imparano a conoscere alcune 
costumanze specificamente romane, come il cottìo («mercato del pesce, 
l’antivigilia di Natale»). 


.« Nel Bel Paese, serata XXXIV, e anche come titolo di una sua raccolta 

d ar M6 C ^j^n^ebbero ’r^oiSiz^S^poche voci romagnole che il Carducci Severino 
Ferrari il Pascoli in qualche occasione adoperarono Piene di voci romagnole 
qnno i e Quartine del Carducci «All’autore del Mago» Mime nuove, LXXTV1 egli 
ricorda ?pS£herfni e le arzàgole (tose, alzavo^ e il canto delle romanelle. Al 
Pascoli sarebbe piaciuto che entrasse nell’uso boschereccia.-. «Quando 1 uccello 
canta tra sé e sé pianta pianino, il toscano dice che studia, il romagnolo (non so 
se anche altri) dice che fa la boschereccia. E a me pare che il romagnola che paria 
cosi male dica per questo rispetto meglio del toscano, che parla cosi tene» (nota 
in Fior da fiore p 85) Altrove egli difende schiampa, stiampa «che un buon 
romagnolo 2 triterebbe di usare, scrivendo o dicendo per il pubbhco» (nota alla 
2 a ed dei Canti di Castelvecchio ). Sui dialettalismi pascoham, cfìr. pp. 613 61 . 

.« DAnnunzta! neh Piacere, ricorda «i gridi fiochi delli acquavitai (mentre il 
Belli nel sonetto italiano «A Barbaruccia», parlava dei «rauchi acquavitai»). 

148 La parola era registrata come dialettale e spiegata da Mons. Azzoccta (2 
ed 1846? come «steccata stecconato»; il Barrili l’adopera descrivendo la spezio, 
ne garibaldina («Per intanto rompevamo le staccionate dei prati»; Con Ganbald 
alle porte di Roma, Milano 1895) e Giulio Orsini raccoglie anche m poesia («Una 
fila d’uccelli paurosa - dalla staccionata spicca il volo»; Fra terra e astri). 


Mezzo secolo di unità nazionale 


653 


Da Napoli si diffondono i nomi di largo «piazzetta di forma 
irregolare» 14 *, e di rettifilo, mentre il basso si conosce come caratteristi- 
ca locale. Una forte connotazione locale mantengono i nomi di 
paglietta, cafone, guaglione, scugnizzo e quelli di camorra e omertà. 
Pastetta si divulga riferendosi ai brogli elettorali di tutta Italia. 
Parecchie sono anche qui le parole che si imparano a conoscere con il 
diffondersi delle specialità gastronomiche napoletane, come la mozza- 
rella e le vongole. Numerose sono le voci generali accolte per la loro 
espressività: mannaggia (che vince il tose, malannaggia ), scocciare, 
fesso. 

Della Sicilia s’imparano a conoscere la zàgara, i picciotti, i carusi, e 
ohimè, la mafia e i mafiosi' 50 . 

E della Sardegna, le tanche e i nuraghi, e i panni di orbace. 


18 . Voci letterarie arcaiche 

Nell’accennare per sommi capi alle grandi correnti che si possono 
scorgere nel linguaggio della prosa e in quello della poesia, abbiamo 
visto come le correnti manzoniane e quelle realistiche portino a lasciar 
cadere, nella prosa e anche nel verso, quei vocaboli di tradizione 
letteraria che non erano più vivi nella lingua parlata. 

Se nel 1863 la Rivista contemporanea descrivendo una «macchina 
per votare» poteva intitolare la notizia «Di un ordigno per gli squitti- 
nii* -, o nel 1865, Vittorio Emanuele II poteva dire (sia pure in un 
discorso solenne) «le mie parole furono mai sempre d’incitamento», o in 
una lettera del 1868 il Mamiani poteva scrivere « Laonde per me il 
quesito non versa sopra il conoscere...» (Fanfani, Bibliobiogr., p. 118): 
questi e tanti altri vocaboli alle nuove generazioni sonarono intollera- 
bili, e furono abbandonati. Matteo Ricci racconta 151 che Massimo 
d’ Azeglio avendo ima volta ricevuta una lettera con un inizio pedante- 
sco, la buttò nel cestino dicendo: «Un uomo che incomincia una lettera 
È buona pezza che io desiderava scriverle non può essere che un 
imbecille». 

Una d elle serie che cadono definitivamente in discredito 152 è quella 
degli imperocché, imperciocché e s imili . Se ancora il Minghetti comin- 
ciava le sue memorie con un solenne avvegnaché' 53 , qualche decennio 
dopo nessuno avrebbe più scritto così: àuspici non solo i manzoniani, 
ma anche un antimanzoniano come il Settembrini, di cui uno scolaro 


149 Si vedano le tappe della diffusione documentate da P. P. Trompeo, Lingua 
nostra, I, 1939, pp. 131-144. 

150 O, alla siciliana, mafiusi. 

131 Ross, nazionale, LUI, 1890, p. 234. 

152 Una «dinastia decaduta» la chiamò il D’Ovidio, Correzioni, p. 83. 

163 Anzi, con errato raddoppiamento: « Awegnacché al mio tempo siano 
avvenuti in Italia molti e grandissimi cambiamenti...» IMiei ricordi, I, p. 1). 


654 


Storia della lingua italiana 


Mezzo secolo di unità nazionale 


655 


diceva che avrebbe meritato questo epitaffio: «Qui giace il nemico dei 
Borboni, dei Gesuiti e degli imperciocché 

Se mai qualcuno adopera ancora una di queste congiunzioni, è con 
ironia: « conciossiaché secondo il marchese Puoti oblio sia parola da 
usare solo in poesia, e di rado e con molto riserbo in prosa» (De Sanctis, 
«L’ultimo de’ puristi», nei Saggi critici ); «Levatemivi d’innanzi, figliuoli 
del padre De Colonia; o vi butto in faccia un conciossiacosaché» 
(Carducci, 1882: Opere, XXV, p. 213). 

Molto maggiore è la resistenza del lessico poetico antico, legato a 
nobili secolari tradizioni Naturalmente la storia dei vari vocaboli 
andrebbe fatta caso per caso, e non sarebbe cosa facile: si sa che è 
molto più difficile mettere insieme ima tabella di assenze che una 
tabella di presenze. Ma si può ricordare qualche esempio sintomatico: 
calle per «cammino» è non solo nello Zanella e nel Graf, ma nel 
Cavallotti («Sorella, non senti pel calle - che lungo di frondi stormir?»: 
«Su in alto!»); ricorre ai rai anche Stecchetti («delle tremule stelle ai 
bianchi rai»-. Postuma, uv>, i vanni compaiono (nel senso tradizionale di 
«ali») non solo nell’ Aleardi e nello Zanella, nel Carducci e nel Panzac- 
chi, ma anche nel D’Annunzio del Primo vere (e, in prosa, nel Fuoco). 
Usano fiedere 166 lo Zanella («le membra - al gran Titano fiedere co’ 
nembi»: «Milton e Galileo»), il Carducci («di torbid’ire fiedere l’aere»: 
«Figurine vecchie», in Odi barbare ), il D’Annunzio («Onde si goda fleder 
Primavera»: Frane, da Rim., Ili, se. 4) 15 ®. 

È ben difficile distinguere, come occorrerebbe fare, tra persistenza 
di voci della tradizione poetica e ravvivamento di voci ormai sentite 
come arcaiche: e la distinzione spesso dipende dalla inteipretazione 
stilistica che si dà a singoli passi 167 . 

Vanno catalogati fra gli arcaismi, piuttosto che tra le voci tradizio- 
nali i non rari ravvivamenti di voci dantesche: come piovomo, che il 
Carducci «rinnovò» in «Miramar» 168 , e dopo di lui ebbe un certo uso 


,M Martini, Prose ital. moderne, p. 548. 

165 Si sa che fiedere è un infinito ricostruito abusivamente dai moderni sulle 
forme rizotoniche (fiede ecc.), mentre l’infinito antico era fedire. 

166 Naturalmente la Francesca abbonda di arcaismi che mirano a dare il 
colore del tempo lastronomaco, camaglio, sorcotto, zetani, ecc.); e similmente le 
Canzoni di re Enzio pascoliane, ecc. 

167 In un passo d’ima lirica del Panzacchi, «Visita in villa»: «ch’io dubitai 
d'averlo unqua baciato - quel suo bel volto gentilmente obeso», il Baldacci (Z Poeti 
minori dell’Ottocento, cit., I, p. 1053) sente in quell’unqua ima «stonatura 
‘classicistica’ in una poesia di gusto precrepuscolare» mentre io ci vedo piuttosto 
un leggero arcaismo intenzionale, che respinge l’atto del bacio in una lontananza 
remota. 

168 «Mi tengo d’aver rinnovato un bell’aggettivo dal v. 91 del 25 del Purgatorio-, 
se non che io invece di piamo vorrei poter leggere e senza esitazione scrivo 
piovomo che è la forma integra, come leggono il codice Poggiali e uno 
dell'Archiginnasio di Bologna, e come parmi d’aver sentito dire alcuna volta in 
contado non so più se di Toscana o di Romagna» (nota a «Miramar», 1878, in Op., 
IV, pp. 180-161). Il Giuliani, Sul vivente linguaggio della Toscana, 3* ed., Firenze 


(Pascoli, ecc.) 159 o roggio, anch’esso ravvivato nel lessico letterario 
(Carducci, Pascoli, S. Ferrari, Gnoli, D’Annunzio, ecc.). Non supera 
l’àmbito dell’allusione dantesca l’uso di non mi tange-, «Amore non mi 
tanse e non mi tange» (Gozzano, «Convito», nei Colloqui ). 

Qualche arcaismo fu attinto anche agli stilnovisti e ad altri 
duecentisti (.alena, pascore, ecc.: D’Ann.), ma solo aulire e aulente 
ebbero larga fortuna nella lingua poetica. 

Qualche voce che il Carducci si compiacque di attingere a scrittori 
del Trecento o del Cinquecento (miluogo, misprendere, popolazzo, 
rinomo, ecc.) non ebbe fortuna; rinascita, che egli trovò nel Varchi e nel 
Vasari, fu da lui rimesso in voga. Al gruppo fiorentino che fondò nel 
1877 1 nuovi goliardi (G. Marradi, S. Ferrari, L. Gentile, A. Straccali, G. 
Biagi) si deve la nuova fortuna del vocabolo nel senso prima di 
«studioso scapigliato» («il più goliardo della compagnia»; Carducci, Le 
risorse di San Miniato ), poi di «studente universitario». 

Il verbo guatare, che era quasi scomparso dall’uso letterario («voce 
oggidì rimasa in contado», secondo il Tramater, 1834), riacquista voga, 
sia in verso («Dal ciel guata la luna»: Graf, «Superstite», in Medusa ) sia 
in prosa («Oggi il palazzo reale guatava il viale»: Abba, Noterelle di uno 
dei Mille, 9 novembre). 

Abbiamo anche parecchi esempi di voci cadute in disuso che sono 
state ravvivate nell’uso pratico-, così il magistrato delle acque, istituito 
con una legge del 1907, rinnova il nome di ima istituzione veneta 190 , e 
serrata, antico termine storico (Serrata del Maggior Consiglio, Venezia 
1296), fu esumato nel nuovo significato di «chiusura di uno stabilimento 
come mezzo di lotta padronale» (ingl. lock o ut). 

Allenare, vocabolo letterario ormai raro (il Petrocchi lo registrava 
sotto il rigo), venne assunto nel linguaggio sportivo col preciso valore 
del fr. entrainer o dell’ingL to train-, per sostituire bookmaker Isidoro Del 
Lungo propose, con discreta fortuna, l’antico allibratore. 

19. Latinismi e grecismi 

I latinismi abbondano nei versi, specialmente nel Carducci e nella 
sua scuola e nel D’Annunzio. Nella prosa non aspetteremo certo di 
trovarne nel romanzo naturalistico-, tutt’al più nella prosa classicheg- 
giante. Abbondanti sono nelle terminologie delle scienze, sia delle 
scienze naturali che di quelle morali: ma per lo più, come è ben noto, si 
tratta piuttosto di latinismi indiretti, non coniati cioè in Italia, ma in 
altri paesi. Di solito, studiando nei capitoli precedenti i latinismi, 


1865, p. 177. diceva d’aver sentito piovomo in Val di Nievole, e il Boito aveva 
adoperato piomo nella lirica Ad una mummia, scritta nel 1862. 

158 II D’Annunzio (Forse che si, p. 355) preferì piomo. 

180 Si noti che magistrato riprende in questa locuzione il significato (ormai 
arcaico) astratto-collettivo, mentre comunemente la parola si riferisce a persone 
singole. 



656 


Storici della lingua italiana 



abbiamo incluso nella trattazione anche i grecismi fa^mo lo stesso 
nnrhp nuesta volta ma non senza avvertire che alcune voci cne u 
fatino non aveva accolte sono attinte direttamente al greco 1 (per lo più 
IS^TaSnfzzandole o latinizzandole parzialmente): in primo luogo nella 
torminnlniria storico-archeologica (una lekythos, la tholos, un anghelos, 
TSSS e g S tue£a sdeSS Ikinesiterapia ), ma anche negli sen ti 

s!éph<m£ zoani, Pascoli mute *E tu dà retta alla dice 1- giustiziai e 

dlm Ne{ iC lto^a , Sio traSoìJe S poesia e della prosa elevata 1 
letirvismiStìtSvano un elemento essenziale del lessico: e avremmo 
notuto cariare dei latinismi insieme con le voci letterarie i tradizionali 
se avessimo solo che fare con i latinismi già consueti-, «d edaci malori 
traspaion^’impronte » (Zanella), «posan gh àtavi re dentro gli avelli. 
SuccD ^quel prezioso e palerò - rifiuto del sepulcro «(Boito), 
«Pallide larve 1 dalla vita evulse » (Panzacchi), «Ed all enorme clipeo fiero 
s’appoggia e sta» (Cavallotti), ecc. Ma v’è sempre la possibilità di 
attingere altri latinismi o non adoperati mai, o cosi raramente da non 
oypr nr6so radice nella tradizione letteraria. ^ , 

TI Carducci apre la via a parecchi latinismi nuovi o rari, che sono 
molto spesso sdruccioli in conformità con le sue innovazioni metriche; 
fi D’IiSSSo Smette sulla sua strada- e poi adopererà, m versi ; e ita 
prosa molti più latinismi di lui; anche fi Pascoli partecipa di questa 
tendenza con vocaboli comuni agli altri e con vocaboli sum; quanto ai 
minori è facile rilevare l’influenza esercitata dai maggiori . Un elenco 
ner ciascuno degli scrittori maggiori richiederebbe più pagine: bastino 
SocM esempi pe? dar” un’idea <fi questa serie di latinismi e del nuovo 
timbro che essi hanno in confronto con i latinismi tradizionali, algido, 
alivolo , auletrìde, avio, cecubo, cenilo™, cincinno co abo crota o, 
efebico erbido estuare, fìmbria, ilice, irremeabile, longicollo, lituo, luco 
medus’eo multivolo. E andrebbero anche registrate le parole prese nel 
loro significato etimologico, diverso da quello usuale: erroneo <^vaga- 

testimonianza delle intenzioni 


- Cosi nella stampa originale (La Messa d’oro Bolo ^fJ 9 ° 5 é 19> ’ ma 

troviamo m Scarfoglio esso non viene dal latino o da Dante-, Viene dal Carducci e 

dal '«' NeU^uso°lett e rario si aveva più comunemente ceruleo. 

■ss Migliorini, Saggi Novec., pp. 230-23L 


Mezzo secolo di unità nazionale 


657 


degli autori* così per fi subsannare della Chiesa di Polenta fi Carducci 
stesso annota: «... osai fare italiano fi verbo latino subsannare, che 
s’intende benissimo nella vulgata versione della Bibbia: “Sprevit te et 
subsannavit te virgo Sion”. Altri scrittori ecclesiastici l’usarono», ecc. 
In alcuni casi fi suggerimento ad attingere al latino viene dal francese 
o da altra lingua straniera: così captivare (D’Annunzio) è si fi latino 
captivare, ma probabilmente secondo l’esempio del francese captiver 
(come si vede dal confronto con l’uso precedente, che prescriveva 
cattivare ). Anzi un più preciso ricordo dei simbolisti francesi è probabi- 
le per alcuni latinismi dannunziani: flavescente, lattescente, iemale, 
ialino 16fl . 

La fortuna di questi vocaboli di rado arrivò a oltrepassare l’ambito 
letterario. Si diffuse, per motivi eufemistici, etèra™-, fi Nencioni, adope- 
rando la parola, aggiunge riferendosi ai vecchi tempi: «una etèra (a 
quei giorni credo che sapesse cosa vuol dire etera solamente fi 
Bumouf)» 168 . 

Ricordiamo la storia di velivolo-, fi D’Annunzio aveva adoperato la 
parola nell’ode «Ai bagni» (1879) del Primo vere: «Con tenue murmure 
l’ Adria velivolo », attingendola agli scrittori latini (Ennio, Lucrezio, 
Virgilio, Ovidio) e italiani (Algarotti, Monti) nel suo significàto origina- 
rio (riferito alle navi che quasi volando corrono sul mare con le loro 
vele, e poi al mare stesso coperto di vele); poi, anticipando nel Corriere 
della sera del 28 novembre 1909 due brani del Forse che sì, lo scrittore 
giustificava l’uso che aveva fatto della parola nel romanzo, con fi 
nuovo significato di «aeroplano», e concludeva: «La parola è leggera, 
fluida, rapida; non imbroglia la lingua e non allega i denti; di facile 
pronunzia, avendo una certa somiglianza fonica col comune veicolo, 
può essere adottata dai colti e dagli incolti. Pur essendo classica, 
esprime con mirabile proprietà l’essenza e fi movimento del congegno 
novissimo». La parola ebbe qualche eco sia nella lingua letteraria (in 
cui fu adoperata come sinonimo nobile di «aeroplano») sia nella lingua 
tecnica (in cui fu usata per indicare insieme aeroplani, idrovolanti e 
anfìbi) 160 . 

Come si può vedere anche da questo esempio, alcuni vocaboli 
possono avere una duplice storia: nell’àmbito della lingua letteraria e 
in quello della lingua scientifica. 

Così algido, nivale, siderale, che ebbero una loro fortuna nella 
lingua poetica del secondo Ottocento, sono anche noti agli scienziati, 


198 Praz, La carne, la morte e il diavolo, cit., p. 489. 

197 II Carducci, il D’Annunzio e qualche altro (per es. Torraca, Nuove rassegne, 
p. 452) preferirono etaira. 

188 «Resurrezioni fiorentine» (1884), in Impressioni e rimembranze, Firenze 1923, 

p. 120. 

169 Migliorini, Saggi Novecento, p. 248, Giacomelli, in Lingua nostra, XIII, 1952, 

p. 10. 


658 


Storia della lingua italiana 


rispettivamente ai medici (febbre algida ), ai botanici {piante nivali), agli 

aSt Ma 0 SiilTa n di > passarla dar cenno dei latinismi nella terminologia 
scientific^dobbiamo ricordare che mentre nella prosa d’arte ne 
troviamo un certo numero solo negli scrittori ansiosi di allargare il loro 
lessioatominoso, Imbriani; lascivire, Faldella, ecc.), nella prosa dottrina- 
le non sono rari lef finger e, Ardigò; o rrepire, surrepire, Giunati-, mservire, 

Fla Nella ternhnologia 0 scientifica e tecnica i latinismi e i grecismi, e piu 
ancora le parole tratte per derivazione e composizione da vocaboli 
latini e greci si moltiplicano a dismisura, e penetrano assai facilmente 
neii’ncr» Quotidiano col divulgarsi delle nozioni e degli oggetti a cui si 
riferiscono Ecco termini come tubercolosi, bacillo, spinilo, anestetico, 
anofele elio rubidio, ptomaina, fonografo, grammofono aviazione, 
cinematografo , ascensore, ecc. Si tratta-per lo più di vocaboli internazio- 
nali, di cui solo qualcuno coniato in Italia e Passato hngUe 

puronee i più foggiati in altre nazioni e accettati m Italia. 

Siche nel Sto, nell’amministrazione, ecc. i latinismi e i grecismi 
abbondano: si istituiscono i probiviri, qualcuno ncorre alla cremazione, 
si distinguono gli alfabeti dagli analfabeti, si divulga teste m luogo di 
testimone* Qualche volta si hanno mutamenti semantici piu 0 
arbitrari: gestire, per es., che secondo l’esempio classico voleva solodire 
«far gesti gesticolare», in presenza di gestore e gestione prende un 
significato nuovo (e biasimato dai puristi), quello di «amministrare». 

g Nella vita pratica alcune voci già esistenti prendono significati 
nuovi-, edicola, per es., anziché il raro signifìcatodi prende 

auello di «chiosco per i giornali»; agape oltre al significato di antico 
convito cristiano »-assume quello di «banchetto massonico», ecc. 

C CiSnSa terminologia sportiva, in mezzo agli >?™nerev°h 
francesismi e anglicismi si hanno alcune voci pseudoclassiche, del 
resto anch’esse venute di fuori: podismo, ciclismo, criterium, epe- 
n gìmtSsmo “nia vocaboli e contribuisce a divulgar* 
le sostantivato prende valore spregiativo a cominciare dal processo 
DretfùfStari Statari si diffuse al tempo (19051 del processo Murn 
faiapoi contribuì a diffondere la locuzione l’«Elogio degh amori 

ancillari» di Gozzano, nei Colloqui, 1911). , _ 

Nel campo delle scienze molto più che in quefio delle lettere 1 
latinismi e i grecismi, come ormai abbiamo visto tante volte, circolano 
largamente fra paese e paese: qualche volta sono addirittura foggiati 
pStomenteto più lingue, come fece Enrico Cernieri. . datano 
naturalizzatosi francese, che in vari suoi opuscoli in piu lingue (1875 76) 
preconizzò le sue idee sul bimetallismo-. La monnaie bimetallique, 

BÌ,? Ecco Ì ^cuifi f fra i moltissimi franco-latinismi: acrobazia, ascensore 
(macchina) automobile, aviazione (La Landelle e ponton d Amecourt, 
infili documentario draconiano, filatelia, liliale, linfatismo, lirismo. 
Si i SSr pacifista, pedicure, questionario, redazione («stesti- 


Mezzo secolo di unità nazionale 


659 


ra di uno scritto») 170 semantica, societario, teoria (nel senso di «fila») 171 , 
torrenziale, ecc. Inoltre, come si è accennato, molti tra gli usi estensivi e 
metaforici, per lo più tratti da voci scientifiche e diffusisi principalmen- 
te in questo periodo, malgrado le resistenze dei puristi (per es. creare, 
deleterio, fenomeno, formula, superfetazione, traiettoria ecc.: cfr. p. 645), 
sono ricalcati sugli analoghi usi francesi. 

Anche gli anglo-latinismi sono numerosi: acquario tìngi, aquarium 
1854, ted. 1857, fr. 1863: l’acquario di Napoli risale al 1873), criterium 
(sport.), idrante, inflazione (nel significato economico, sorto in America 
durante la guerra di secessione), metropolitana (ferrovia: significato 
nato a Londra), selezione, simbiosi, ecc. 

Ecco alcuni germano-latinismi: agrario (sost., «proprietario terrie- 
ro»), antisemita, banausico (Croce), caratteristica (caratterizzazione») 177 , 
determinismo, epos, gipsoteca (o ghipsoteca ), kinesiterapia, obiettivo 173 , 
psicanalisi, recensione 17 *, tassametro, ecc. 

Qualche latinismo sporadico è stato suggerito da altre lingue: 
intransigente, sorto in Ispagna nel 1873 per indicare i repubblicani 
federalisti, si diffuse subitomene altre lingue europee. 

Ci limiteremo a un paio d’osservazioni sulla fonetica e la morfologia 
dei latinismi (e grecismi). Già s’è accennato (p. 628) a qualche tentativo 
di restaurare le grafie con eh, ph, th, y, e alla preferenza che alcuni 
scrittori danno alle forme latineggianti iimagine, conscienza, ecc.) 17S . 

Quando troviamo forme latine o greche con terminazioni non 
assimilate, si tratta quasi sempre di voci penetrate per via indiretta: 
aquarium, criterium, sanatorium, junior, senior, ecc. provengono, come 
è noto, all’italiano da altre lingue europee. 

Gli schemi consueti di adattamento sono qualche volta turbati da 
azioni analogiche ( autodidatta , poliglotta, archiatra, per autodidatto, 
poliglotto, archiatro; sillogismo per sillogismo, ecc.), qualche volta da 
influenze straniere ( autocrate , ecc.) 170 . 


170 «questa redazione (ci si perdoni questo mezzo francesismo, divenuto 
ormai d’uso generale, e spesso, come qui, richiesto dalla brevità e dalla 
chiarezza)»: D'Ovidio, Correzioni, p. 16. 

171 In questo significato la parola greca fu adoperata in francese già da 
Chateaubriand: in italiano la divulgò soprattutto il D’Annunzio, ma già era stata 
usata prima di lui dal Guerrini («Sale una bianca teoria di vergini»; «Vita», in 
Polemica, 1878). 

172 «compiere la caratteristica (per parlare di un Tedesco in modo tedesco) del 
volume di cui diamo conto» (D'Ovidio, 1875, in Opere, X, p. 19). 

173 L’epopea è, per usare un vocabolo dell’estetica tedesca troppo abusato ma 
pur proprio, è altamente, esclusivamente obiettiva» (Carducci, Opere, XI, p. 94). 

174 «Il Goethe fece quel che i tedeschi chiamano una recensione del Carmagno- 
la e dell’ Adelchi* (Carducci, 1873: Opere, XX, p. 360). 

175 Qualche volta la scelta è dovuta al contesto: nel discorso «Per l’inaugura- 
zione di un monumento a Virgilio» il Carducci adopera sempre Campidoglio-, solo 
in un punto scrive, per evitare la ripetizione di due sillabe, «dai campi al 
Capitolio » (Op., VII, p. 172). 

176 Migliorini, Saggi ling., pp. 58-62. 


660 Storia della lingua italiana 


20. Francesismi 

Abbiamo già visto (§ 10) come l’influenza francese sia di gran lunga 
più forte che quella di tutte le altre. Si séguita, così, non solo a 
mantenere moltissimi di quei vocaboli francesi che erano stati accolti 
nel Settecento e nel primo Ottocento, ma ad adottarne altri. Se essi 
abbondano oltre ogni credere nella letteratura di second’ordine, nei 
giornali (specialmente in quelli dedicati alle mode), nei carteggi, anche 
scrittori che sanno tenere la penna in mano ne adoperano in abbon- 
danza. Ecco alcuni esempi di francesismi non adattati, scelti unpo a 
caso: «quel francesismo barocco e langoureux del regno di Luigi XVI» 
(Carducci Op XV, p. 223); « Questa volta vi risparmio il piagmsteo su la 
perversità del tempo, il morceau di colorito sulla città grigia» (D’Annun- 
zio, cronaca nella Tribuna del 28 die. 1884); «le vibraziom delle 
pierrerìes, le luminosità dei tessuti pailletés » (Id., ibid., 16 genn. 1885); «le 
osservazioni... potrebbero blesser il suo amor proprio» dett. di G. Verdi 
a G Ricordi, novembre 1886); «Sono ancora ébloui della casa di Sarah» 
dett. F, Martini da Parigi, 17 ottobre 1900); «tutto va ò la dérive nel 
nostro paese» dett. F. Martini, 11 marzo 1908), ecc. Persino nei versi i 
francesismi non mancano: nella parodia del Giobbe rapisardiano il 
Guerrini e d Ricci satireggiavano Francesco Fontana, d quale «di 
prolisse - francescherie lardella d verso strano»: 

Voilato di nebbie 
Parigi ho apperguto 
e la siloetta 

che il domo del Pantheon 
nel cielo progetta. 

Promenasi il popolo 
francese la notte; 
nel fango pietinano 
gommosi e cocotte, 
guardati dai mille 
col sabre nel fodero 
sergenti di ville... 

La reazione dei puristi ottiene risultati assai scarsi. Nell’Appendice 
alla relazione intorno all’unità della lingua (Mdano 1869) d Manzoni 

cosi prospetta la lotta: 

Regnano in Italia, o piuttosto pugnano tra di loro, due opinioni intorno alle 
locuzioni venute di Francia, da un secolo circa, e che continuano a venire: una 
che dice a tutte: Passi; un’altra che dice a tutte: Via. E qui, come in ogni questione 
relativa a lingua, la soluzione logica e utile non si può trovar che nell Uso Vi. 

Ma proprio per parole e locuzioni che «continuano a venire», non 
esiste un atteggiamento unanime, un uso compatto, nemmeno nell’àm- 
bito di una sola città. 

Vediamo rapidamente alcuni tra i francesismi entrati m questo 


Mezzo secolo di unità nazionale 601 

periodo. Qualcuno si riferisce ada politica e aH’amministrazione: 
comunardo, petroliere, sciovinismo, blocco (in sign. politico), bloccardo. 
Dossier per «incartamento» si è divulgato in Italia al tempo del 
processo Dreyfus. Estradare è un adattamento di extrader (che a sua 
volta è un adattamento del lat. extradereì. Si organizzano istituti 
analoghi alla Morgue parigina, e si chiamano morgue 177 . Nuovi vocaboli 
si riferiscono ai conflitti del lavoro: sabotare, sabotaggio. 

A certi aspetti deteriori deda vita mondana dobbiamo garsonnière, 
cocotte, Alphonse. 

Ada casa e ai suoi adornamenti si riferiscono pied-à-terre, rideau 
Iridò), capitonné, ecc. 

La lingua deda moda è particolarmente ricca di francesismi: 
décolleté, plastron, ecc.; e così pure la cosmetica e l’igiene: brillantina, 
pedicure, ecc. Ricordiamo qui anche d color marron (subito adattato in 
marrone ), e l’uso di seni al plurale, nel senso di «mammede» (in luogo 
del tradizionale seno «petto») 178 . 

Per quel che concerne i cibi e l’arte culinaria e dolciaria citiamo 
restaurant {ristorante ), menu, couvert {coperto), glassare, {mela) renetta, 
marron glacé, bomboniera, ecc. 

Penetrano in itadano altri vocaboli concernenti le ferrovie ( cantonie- 
re , scartamento dede rotaie) e i nuovi mezzi di comunicazione {bicicletta, 
ecc.; automobile, garage, chauffeur, débrayage, ecc.; hangar, decollare, 
ecc.). Per i termini marittimi, citiamo oblò, passerella, salvataggio. 

Molti dei ter mini indicanti scuole e tendenze letterarie ed artistiche 
( parnassiani , simbolisti, impressionisti, ecc.) vengono, come si è già 
accennato (p. 641), dada Francia. Ebbero fortuna bohème e bohémien-, 
vernissage, ecc. 

Nel linguaggio giornalistico si ha per es. d calco trafiletto (da 
entrefilet); ada pubbdeità fatta nei giomad si riferisce originariamente 
d termine réclame. 

Hanno origine dada vita teatrale matinée, soirée, fumoir, foyer, 
claque, pochade, caffè concerto, divetta, chanteuse ( sciantosa ), soubrette, 
cancan. GU sport sono pieni di vocaboli francesi: pista (dal fr. piste, che 
a sua volta era di origine itadana cinquecentesca), incollatura, biciclet- 
ta, velodromo, routier, pistard-, boxe, masseur-, pattinare-, defaillance, 
guigne ; ecc. Nelle varie scienze, oltre ai molti franco-latinismi, abbiamo 
termini come liana-, falaise-, banchisa-, ecc. 

Anche più numerosi sono i francesismi nei vari rami deda tecnica: 
béton (betoniera ); alesare, biella, bullone, lingotto, putrella, trancia, 
cliché, ascensore, turbina, volante-, ecc. 

E così pure i termini generali: élite, débàcle (non nel senso letterale 


177 Né servi allora che il periodico L’Unità della Lingua, 1, 1869-70, pp. 371-372, 
invitasse a proporre un nome italiano. Obitorio attecchì molto più tardi. 

178 Non si tratta solo di un abuso del linguaggio mondano, ma troviamo anche 
nel Carducci: «Or forte madre palleggia il pargolo - forte; da i nudi seni già sazio - 
palleggialo alto» («La madre», in Odi barbare, 1. II). 


662 Storia della lingua italiana 

di «disgelo» ma in quello figurato di «sfacelo»), surmenage, pioniere (già 
adoperato precedentemente nel senso proprio di «soldato zappatore».; 
ora, per spinta francese e anglo-americana, in quello fìg. di «antesigna- 
no di progresso»); banale, mirabolante, macabro (ormai in senso gene- 
rale, non più solo nella locuzione danza macabra ); rèver, rèveur, rèverie 
(voci che troviamo frequentemente sia nel Carducci che nel De Sanc- 
tis), turlupinare ; vis-à-vis (come locuz. prepositiva e come sost.); ecc. 

Non meno abbondanti sono le locuzioni: tour de force, état d'àme (e 
stato d’animo); battere in breccia, battere in visiera (usato anche dal 
Carducci), dare la dimissione o le dimissioni, incrociare le braccia, 
mettere i punti sugli i, passarsene («dispensarsi dal fare qc.»), volerne (a 
qualcuno), e ancora non essere male (in luogo dell’aggettivo «brutto» o 
sim.: «Dicono che non è male la vista qui»: Fogazzaro, Malombra, p. 34); 
ecc. 

A questa sommaria esemplificazione vanno poi aggiunte l-„ altre 
parole non meno numerose che già abbiamo indicate tra i franco- 
latinismi, e quelle che non abbiamo osato chiamare con questo nome 
perché ibride ( cablogramma , ecc.). 

La moda dei francesismi è così forte che specialmente nei campi 
dov’essi più abbondano (moda, gastronomia, ecc.) si sono persino 
coniati degli pseudofrancesismi ( porte-enfant , zuppa santé e sim.). 

I modi di accettazione sono quelli consueti: l’adozione della parola 
tal quale {élite, réclame, coup de tète, escamoter, ecc.) o l’adattamento 
( pattinare , salvataggio, sciantosa, ecc.) o il calco {focolare che assume il 
senso di «centro onde trae alimento» per es. un’idea, posare che prende 
il significato di «darsi importanza», ecc.). È difficile in molti casi dire 
perché si è ricorsi piuttosto all’adozione della parola intatta che 
all’adattamento; ma spesso sono ben riconoscibili i fattori sociali e i 
fattori strutturali: chic è una forma che può essere adoperata da un 
elegante o da uno che affetta eleganza, mentre scicche ha un aspetto 
plebeo 170 -, e analoghe considerazioni si possono fare per chanteuse 
rispetto a sciantosa, per réclame rispetto a reclàm. Invece ascensore ha 
potuto benissimo inquadrarsi nella serie in -sore, ed è parso trascurabi- 
le il carattere più «distinto» che dapprincipio aveva a scenseur. Si nota 
tuttavia un lento progresso delle forme assimilate o ricalcate in 
confronto con quelle intatte, dovuto in parte a una tendenza spontanea 
della lingua, in parte all’azione volonterosa, anche se non sempre 
oculata e non sempre fortunata, dei puristi. 

Infatti parecchi vocaboli che per un certo tempo furono in uso, 
scomparvero poi: comptoir 180 , blaga' 81 , gigotto m , timbro nel senso di 


170 V. il capitolo «Purismo e neopurismo» nella mia Lingua contemporanea. 

180 «l’orologio a pendolo del comptoir » (Bracco, Smorfie tristi, p. 175). 

181 «senza blaga (è un francesismo brutto anche in Francia, ma oggigiorno 
non se ne può fare a meno)»-. Carducci, «Mosche cocchiere» (1897), Op., XXV, p. 
365. 

188 «Voce francese quanto si vuole ma comune da parecchio... E siccome noi 


Mezzo secolo di unità nazionale 663 

«campanello» 183 , ecc.; vediamo che a coup de tète si sostituisce colpo di 
testa, a restaurant, per lo più, ristorante 18 *, ecc. 185 . 

Altri continuarono a vivere nell’uso corrente ( debuttare , dettaglio 
rimarcare, ecc.), evitati o almeno considerati da evitarsi dagli scrittori 
piu accurati 186 . 

Non va dimenticato che anche in questo periodo molti tra i 
forestierismi venuti dalle lingue più disparate ci sono giunti per tramite 
francese: qualche volta lo ricaviamo dalla documentazione, qualche 
volta dalle tracce che la parola stessa ne porta. Così prima che 
prevalessero turismo e turista le due parole si vedono più spesso in 
torma francese ( tourisme e touriste) che nella forma originale inglese- 
boxe mostra con la sua -e finale di essere un adattamento francese; ecc! 

21. Albi forestierismi 

D ?P° \ francesismi, il contingente più numeroso di forestierismi 
penetrati in italiano in questo periodo è quello degli anglicismi. Sono 
ternum di politica (meeting), di economia (trust, stock, check), di moda 
(tight, smoking ); sono voci riferite alla città (sky-scraper, tradotto in 
grattacielo) ai mezzi di comunicazione (ferry-boat, tramway, trolley 
brougham), alla casa ( water-closet ), a usanze sociali (five o’ clock tea) a 
cibi e bevande (gin); sono termini di marina (yacht, destroyer, dreadnòu- 
ghty, ce qualche termine di gioco (bridge, poker), ma forse i più 
numerosi sono i termini di sport (raid , performance, record, criterium; 
derby, sulky, turf; football, goal; skating; sprinter-, ecc.). È l’età in cui si 
sviluppa u turismo (e nasce con un nome semiinglese il Touring Club 
Italiano), in cui parecchie famiglie agiate fanno educare i figli da una 
nurse (e il titolo di miss prende il valore di «governante»). Delle non 
poche parole tecniche la più fortunata fu film (accolta dapprima come 
emm., per influenza dì pellicola). Da notare l’accettazione di alcuni 
ermini generali come flirt, bluff, snob. Qualche voce si riferisce a cose 
o usanze del mondo anglosassone (pitchpine , bow-window, pickpocket, 
ecc.). h abbiamo lasciato da parte, avendone già parlalo più su ì 
numerosi anglolatinismi. 

La diversa struttura delle due lingue, e la prevalenza dell’uso scritto 
su quello parlato, fa si che gli adattamenti siano pochi e poco fortunati, 


^Hi l o I ^°i t ^ 1UttOSt0 ghiottì ’ co f l <l ues t° caso non la guardiamo tanto per il 
sottile e lasciamo correre...»: Fanfani-Arlia, Lessico, s. v. 1 

effetti senz altro ’ suona un timbro»: didascalia in P. Ferrari, Cause ed 

181 I puristi preferivano ristoratore. 

. , i!L ,Y 1 S eVerSa - d ° P ,° tent ativo di adattare in baluardi o baloardi il nome dei 

aoulevards parigini, la forma francese prevalse. 

i IT h Carducci aveva degli scrupoli nell’adoperare tappa-, «quella grande arte 
lombarda che in tre tappe (perdonatemi il barbaro termine) rinnovò la coscienza 
letteraria e civile di nostra gente» 


664 


Storia della lingua italiana 


k 


anche per moventi snobistici-, un po’ più facili sono se appoggiati a 
suffissi, come turista e turismo, brumista accanto al milan. bruni a 
brougham-, ma mitingaio (da meeting ), che ebbe qualche fortuna 
nell’Ottanta, più tardi spari. Verdi scrive spice P®r ( «Ave o 

preparato il mio spice che pareva un capo d opera»: lett 8 febbr 1865), 
ma è un caso isolato. Nella lingua tecnica fu accolto 1 ubndo selfindu- 
zione (poi, meglio, autoinduzione). Meramente grafico è 1 adattamento 

^ invece non fanno nascere obiezioni i calchi nati immediatamente al 
momento della penetrazione della parola in italiano-, per es. schiave 
bianche. E vi è una certa tendenza a sostituire voci di aspetto 
anglosassone con calchi o altrimenti: su intervie™ presto prevalseli 
calco intervista, meeting fu sostituito con comizio, lock out con serrato, 
check con assegno, destroyer con cacciatorpediniere, ecc. h Pitré cerco m 
sostituire folklore con demopsicologia, ma il termine non trovò generale 

Spesso "l’inglese è servito come tramite di parola di altre lingue 
( iceberg , ecc.)-. specialmente di lingue esotiche (giungla, ecc.). 

Una fisionomia speciale hanno le adozioni di parole inglesi accolte 
nelle loro parlate dagli Italiani degli Stati Uniti: ncevutesottolaspmta 
della necessità e attraverso contatti orali, sono quasi tutte adattamenti 
(e non calchi), con forti alterazioni fonetiche e morfologiche, talvolta 
dovute ad incroci: giobba da job, ghella da girl, sciabola da shovel .Un 
certo numero di tali anglicismi sono stati riportati m patria dagli 
emigranti, penetrando per questa via nei dialetti, specialmente m 
quelli meridionali, ma anche, per es., nel lucchese. ... 

Un certo numero di germaniSmi giungono attraverso contatti 
culturali e contatti pratici con la Germania, la Svizzera, 1 Austria. 
Citiamo alcuni vocaboli concernenti la filosofia: Weltanschauung, 
Kulturgeschichte o stona della cultura, Aufklàrung,Mehrwert o plusva- 
lore ecc. e calchi come autocoscienza, eticità l8S . Ebbe grande eco il 
krach della Borsa di Vienna nel maggio 1873, e la parola onomatopeica 
da allora entrò nel linguaggio finanziano e m quello generale italia- 
no 188 Le lotte del lavoro riecheggiano in qualche calco ( datore di lavoro) 
e nel titolo di giornale Avanti! (1896), che traduce 1 analo f 0 ,^?^ 
Per ciò che concerne cibi e bevande, ncordiamo il diffondersi 
dell’uso di birrerie alla tedesca, servite da cameriere (chellenne, da 


Abbiamo già rinviato alla miglior trattazione che abbiamo sull’argomento, 
mifìlla di A Menarmi nel volumetto Ai margini della lingua. Uno fra 1 primi ad 
attirare^ l’atterudone'su questo linguaggio fu il Pascoli, nel poemetto. «Italy» (sì 
vAria Qnrhp la «nota» relativa, nei Primi poemetti). . 

™ Dopo il ’BO, in Calabria gli studenti di filosofia furono ironicament 
chiamati begriffi eco del frequente uso di Begriff che faceva hegelianamente 
Bertmndo Spaventa dalla sua cattedra di Napoli (F. Nicolim, m Lingua nostra, II, 
1948, p. 51). 

ise Errerà, Nuova Antol., XXV, 1874, p. 410. 


Mezzo secolo di unità nazionale 665 

Kellnerin) 190 , e l’importazione o imitazione di specialità gastronomiche 
(.Wurstel, ecc.). 

L’alpinismo e poi il turismo danno occasione a nuovi germaniSmi 
( edelweiss , alpenstock; Kursaal, e persino nomi come Portofino Kulm e 
simili). 

Dall’uso delle governanti tedesche (specialmente svizzere) viene il 
significato di «governante» attribuito a Fràulein (come s’è visto ora ora 
per miss). 

Per le belle lettere, ricordiamo la voce franco-tedesca belletterista 
(«frati e preti belletteristi», scriveva il Carducci nel 1895, nella prefazio- 
ne alle Letture del Risorgimento italiano : Opere, XVIII, p. 13) e minnesin- 
ghero (altra voce carducciana) ecc.; la musica wagneriana porta con sé 
Leitmotiv, poi largamente usato anche fuori dell’uso proprio. 

I progressi di parecchie scienze conseguiti in Germania trovano eco 
in Italia anche nella terminologia: per citar solo un esempio, in 
linguistica si adotta largamente Ablaut, Umlaut (anche umlautizzare-. 
De Lollis, in Misceli. Ascoti, Torino 1901, p. 283), e si ricalcano altri 
termini (neogrammatico , ecc.). 

Sui germano-latinismi possiamo sorvolare, avendone già indicati 
parecchi (p. 659). 

Altri germaniSmi si riferiscono solo alle condizioni dei paesi rispetti- 
vi ( Reichstag , Kulturkampf; Burschenschaft, Backfisch, ecc.). 

Come s’è visto dagli esempi citati fin qui, si hanno quasi soltanto 
adozioni attraverso la lingua scritta ovvero calchi. Le relazioni orali 
dirette dovute agli emigranti lasciarono sì qualche traccia, ma solo nei 
dialetti: quelli che parteciparono alle grandi costruzioni ferroviarie (S. 
Gottardo ecc.) riportarono per es. nei dialetti dell’alto Veneto isenpón 
(«ferrovia», da Eisenbahn), sina («rotaia», da Schiene), ecc. 

Senza confronto minore è l’influenza di altre lingue. Qualche parola 
viene dai paesi Iberici ( intransigente , v. p. 659; tango dall’Argentina, 
1910; fazenda dal Brasile). Qualcuna giunse dai paesi scandinavi (saga ; 
ski, poi sci, diffusisi anche in Italia nell’uso sportivo). Dalle lingue slave 
giunge qualche termine riferito a cose locali (konak ; duma; termini 
come mugih, isbà, troika, ecc. si divulgano attraverso le traduzioni dei 
romanzi russi; dolina piuttosto che direttamente dallo sloveno o dal 
croato ci giunge come termine scientifico intemazionale: v. p. 651 n.). 

Un certo numero di voci africane riferite a cose locali si divulgano 
nell’uso in séguito alle guerre e agli stanziamenti coloniali: ascari, ras, 
negus, amba, tucul, futa, ghirba, ecc. Qualche parola acquista anche 
usi figurati: «i ras della magna letteratura contemporanea» (Rivista, 10 
genn. 1897, contro Carducci); «i basci buzuk del tecnicismo» (Carducci, 
1897: Opere, VII, p. 462). Il nome della tribù dei crumiri, venuto alla 
ribalta della stampa per i fatti di Tunisia del 1881, fu poi applicato ai 
non scioperanti (v. p. 639). 


,w Nel dialetto bolognese, si adattò in snit il ted. Schnitt «mezzo bicchiere». 


1 


666 


Storia della lingua italiana 


Giungono anche dall’Asia e dall’Oceania voci esotiche talvolta 
fatte conoscere da relazioni di viaggi, italiane o straniere, talvolta per 
altre vie. Abbiamo così giungla, veranda, nirvana Qa cuiconoscenza è 
dovuta, più che agli specialisti di filosofia indiana, alla divulgazione di 
Schopenhauer); pigiama (voce persianà, giunta attraverso il diffondersi 
del nuovo indumento), voci giapponesi come mikado, geisha, musmè, 
kimono, harakiri (mal trasformato in karakiri, già nel Piacere di 
D’Annunzio), giunte attraverso opere di divulgazione, relazioni di 
giornalisti durante la guerra russo-giapponese, e magari operette come 
La Geisha (1906) 191 , ecc. 


22. Voci italiane in lingue straniere 

Gli italianismi passati in questo periodo ad altre lingue non sono 
numerosi e si presentano in certo modo isolati, come effetto di singoli 

eV€ Eco della gesta garibaldina è in Bulgaria il nome garibaldejka d&to 
a una specie di blusa. Irredentismo si estende dalle condizioni politiche 
italiane e quelle di altri paesi tff. irrédentisme, mgl. irredentismi Si 
imparano a conoscere i malanni materiali tmalana, fr. 1867; ma mg . 
già dal 1740) e quelli morali d’Italia Imaffia, fr. 1875). Tra le specialità 
gastronomiche, ha fortuna il risotto tìngi. 1884; fr. (1 g 67) 

palafitte scoperte dai paletnologi danno origine al fr. palafitte ! 11867J, 
mentre il mattoide del Lombroso è ripetuto in francese {mattoide) e m 
inglese {mattoidi Interessante è la storia di ferroviario, che, cornato in 
Italia, passa dapprima, sotto la forma ferroviaire, nella Svizzera 

francese, poi in Francia 182 . . .. 

Naturalmente, si potrebbe mettere insieme un elenco molto più 
ricco e variopinto se tenessimo conto di singoli scrittori o giornalisti 
stranieri che parlano di cose italiane: per es. nel romanzo di Anatole 
France Le lys rouge (1894) troviamo numerosissimi italianismi che 
servono per il color locale {briscola, libeccio, loggia, palazzo, ecc.J. 


191 A questa operetta è anche dovuta la divulgazione della formula cinese di 
brindisi cin-cin-. v. Menarmi, Lingua nostra, XII, 1951, pp. 97-99. 
ire Migliorini, Saggi Novecento, p. 144. 


EPILOGO 


Il periodo che si apre con la guerra del 1915-18, sia per lo 
sconvolgimento politico e sociale prodotto dalla guerra stessa e dalle 
successive vicende (fascismo, seconda guerra mondiale), sia per l’im- 
portanza che i nuovi mezzi di comunicazione (e specialmente la radio, 
il cinema, la televisione) hanno assunto sull’evoluzione della lingua, 
richiederebbe altro discorso. 

Poiché tuttavia già ho avuto occasione a più riprese di discuterne 1 
mi faccio lecito di chiudere qui la mia trattazione. 

Abbiamo visto, dopo secoli d’incubazione, apparire nel 960 la prima 
testimonianza di un nuovo volgare, contrapposto a quella che fino 
allora era stata la lingua scritta per eccellenza del mondo occidentale; 
poi per due secoli e mezzo abbiamo trovato documenti relativamente 
scarsi e sporadici. Ma quando nel Duecento la nuova lingua si 
comincia a adoperare quasi a gara con le due lingue letterarie di 
Francia, e l’esempio dato dai Siciliani e dai Bolognesi viene accolto a 
Firenze, essa si manifesta già alta e matura, con quelle che saranno 
per sempre le sue caratteristiche essenziali: e Dante ne proclamerà in 
teoria e ne dimostrerà poetando l’attitudine a diventare la lingua di 
tutta l’Italia. 

Altre grandi lingue europee (il francese, lo spagnolo, l’inglese) 
hanno avuto già anteriormente all’italiano ima loro prima fioritura: ma 
poi quando si spanderà l’ondata dell’umanesimo ne saranno sconvolte 
e dovranno riassestarsi su altre basi per attingere ima nuova classici- 
tà. Invece l’italiano già in questa sua fase preumanistica si stabilizza 
nei suoi caratteri essenziali: sia per la struttura grammaticale sia per il 
lessico delle nozioni fondamentali, che riceverà nei secoli molti incre- 
menti ma relativamente pochi cambiamenti. Si manifesta in mille modi 
quel culto della forma che è l’atteggiamento secolare anzi, possiamo 
dire, perenne degli Italiani rispetto alla loro lingua: e ima delle 
manifestazioni più tipiche è il desiderio di adeguarsi a quei tre grandi 
trecentisti che avevano fornito così alti modelli letterari. 

Dopo un breve periodo in cui pare che il latino arrivi a sommergere 
il volgare, questo riprende l’aìre, e in ima forma che avrebbe potuto 
aprire nuove strade, per quella circolazione fra strati superiori e 
inferiori della società che nella lingua letteraria della cerchia di 
Lorenzo il Magnifico è così ben mantenuta. 


668 


Storia della lingua italiana 


Ma le cose vanno altrimenti: l’invenzione della stampa spinge a una 
relativa unificazione della lingua scritta, e il toscano deve pagare un 
forte prezzo per essere accolto come lingua letteraria di tutta la 
penisola La codificazione avviene principalmente sotto gli auspici 
della grammatica bembesca, e quindi per via retorica e arcaizzante, 
così che gli scambi con la lingua parlata sono scarsi, e luso della 
lingua letteraria è esteso sì a tutta l’Italia geografica, ma resta limitato 


alle classi colte. 

Le cose non mutano, a questo riguardo, nei secoli seguenti. 

Anche la formazione del lessico delle vane scienze, che si viene 
sviluppando di secolo in secolo, si compie su fondamenti greco-latini, 
che mantengono bene i contatti fra le varie lingue europee, ma sempre 
su un livello assai alto e non popolare. 

Mentre nel Cinquecento la lingua italiana, usufruendo dell alto 
prestigio della cultura del Rinascimento, era largamente nota nell Eu- 
ropa civile, nel tardo Seicento e nel Settecento la corrente s inverte, e 
l’italiano è fortemente influenzato, specialmente dal francese. 

All’invasione dei forestierismi cercano di reagire, sempre sul piano 
letterario, i puristi. Ma il più insigne fra i Romantici, il Manzoni, si 
rende conto che la lingua non è soltanto strumento letterario, ma è uno 
strumento sociale nel più ampio senso della parola: mentre come 
scrittore dà un colpo mortale alla retorica, come linguista vorrebbe che 
all’unità politica, ardentemente desiderata e infine conseguita, corri- 
spondesse un’unità linguistica. . ' , ,. , 

Infatti dal ’61 e più ancora dal ’70 in poi, sia pure in modo diverso da 
quello che il Manzoni preconizzava, i progressi nell unificazione 
linguistica in senso orizzontale sono stati assai notevoli, anche se 
avvenuti in parte non più sotto il controllo del buon gusto dei letterati, 
ma ad opera della vita pratica nei suoi aspetti più vari (amministrazio- 
ne, giornalismo, sport, ecc.). In progresso assai lento è invece tuttora la 
circolazione in senso verticale, per l’ancora scarsa cultura di larghissi- 
mi strati della popolazione. Ma una crescente unificazione è probabile: 
come la divulgazione della stampa in tre o quattro generazioni ha reso 
sensibilihente uniforme la lingua scritta, così i nuovi mezzi di divulga- 
zione della parola (radio e televisione) stanno dando una maggiore 

uniformità alla pronunzia. . 

Quale sia per essere la lingua di domani, non e possibile vaticinare, 
se non ripetendo quelle parole con cui Gino Capponi concludeva il suo 
noto saggio della Nuova Antologia (1869): «la lingua italiana sarà ciò 
che sapranno essere gli Italiani». 


AGGIUNTE E CORREZIONI 

alla quinta edizione postuma 


Era abitudine di Migliorini ritornare pazientemente, con scrupolosa 
diligenza, sopra i suoi lavori, apportando modifiche e aggiunte, dovute 
a sviluppi di nuove ricerche o a suggerimenti di recensori e lettori, che 
poi introduceva nelle edizioni successive. 

Alla Storia della lingua italiana aveva dedicato particolari attenzio- 
ni delle quali si può trovar traccia sia nelle edizioni «maggiori», sia 
nelle varie edizioni economiche. 

Qui sono raccolte le aggiunte e le correzioni che Migliorini aveva 
preparato in vista di una nuova edizione completa e che sono annotate 
in un suo esemplare della Storia della lingua italiana che porta la 
dicitura «Copia della quarta edizione per la tipografia (5 a ed.)». Si tratta 
in genere di correzioni formali, di eliminazioni di sviste e refusi; le 
aggiunte sono limitate a pochi casi e a cenni indispensabili, in modo da 
non richiedere rielaborazioni sostanziali e di conseguenza sconvolgi- 
menti nelfimpaginazione: sono qui riprodotte tali e quali, nella forma 
stabilita da Migliorini. 

Si è tenuto conto anche di un certo numero di schede, parte unite al 
volume, parte conservate insieme ad altri materiali che riguardano la 
Storia della lingua italiana fra le carte di Migliorini all’Accademia 
della Crusca, contenenti diverse annotazioni sommarie, che eventual- 
mente avrebbero dovuto essere introdotte. Queste schede tuttavia sono 
state utilizzate in misura limitata, dato che molte appaiono ancora 
evidentemente bisognose di una elaborazione da parte dell’autore. Qui 
di seguito sono indicate con un asterisco; su di esse si è talora 
proceduto a integrazioni, che però riguardano soltanto il completamen- 
to delle indicazioni bibliografiche. 

In genere si tenga presente che l’aggiornamento riguarda materiali 
bibliografici anteriori al giugno del 1975 (data della morte dell’autore) e 
che, per una nuova edizione, Migliorini avrebbe sicuramente perfezio- 
nato e completato il suo lavoro di revisione. 

Desideriamo manifestare la nostra gratitudine al professor Ghino 
Ghinassi che ha rivisto queste aggiunte: alla sua cortesia e alla sua 
competenza siamo debitori di non poche osservazioni e di consigli 
preziosi. 


Massimo Luca Fanfani 


670 


Storia della lingua italiana 


BIBLIOGRAFIA 

p. 7: tra le voci Castellani e Crescini si aggiunga Contini, P. Duec. G. 

Contini, Poeti del Duecento, Milano-Napoli, 1960. 
p. 8, r. 25 dal basso: B. Migliorini, Lingua contemporanea, 3 a ed., 
Firenze, 1943. si legga B. Migliorini, Lingua contemporanea, 4 a ed., 
Firenze, 1963. 

ibid., r. 19 dal basso: B. Migliorini, Saggi sulla lingua del Novecento , 2 a 
ed., Firenze, 1942. si legga B. Migliorini, Saggi sulla lingua del 
Novecento, 3 a ed., Firenze, 1963. 


CAPITOLO i 

* p. 28, rr. 30-31: fra hastula e illinc si aggiunga haurire: chiogg., friul., 
logudor. orìre (REW 4082); 


CAPITOLO il 

* p. 55, r. Il: dopo meridionali si aggiunga la nota 

a» per l’influenza del lessico longobardo nell’Italia meridionale, special- 
mente neuL toponomastica, vedi F. Sabatini, Riflessi IMMri AH. dona- 
zione longobarda nell'Italia mediana e meridionale, Firenze, 1963. 

* p. 63, r. 5: dopo volgare parlato si aggiunga la nota 

»» Sui registri intermedi tra il latino classico e quello P ar l at o- D’arco S. 
Avalle, Latino * circa romangum* e « rustica, romana lingua», Padova 19^, 

G B Picchi «La vita ritmica di San Zeno», m Mem. dellAcc. delle Se. delljstit. 
dì Bologna Bologna, I960; D. S. Avalle, «Alcune particolarità... della Vita 
ritmica^di San Zeno”», in Linguistica e filologia. Omaggio a Benvenuto 
Terracini, Milano, 1968, pp. 9-38-, F. Sabatini* Dalla senpta noma™ rustica 
alle ‘scriptae’ romanze», m Studi medievali, s. 5 , IX, 1968, pp. 

* ibid t. 10: dopo autonomo, si legga Parole volgari affiorano in qualche 

breve iscrizione, come in quella della prima metà del sec. IX, 
graffita nella catacomba di Commodilla dove un religioso richiama, 
in volgare, un confratello a recitare le secata a bassa voce . 

* R Sabatini, in Studi ling. it, VI, 1966, pp. 49-80. Vedi anche Fiscnzione 
che si legge su un portale (oggi smurato) della cattedrale di Civita Castellana. 

Eneas, gative, aiutarne, 

Non possum, quia crepo. 

(G. Contini, «Un’antica iscrizione laziale semivolgare?», in Lingua nostra, 
XXVII, 1966, p. 14). 


Aggiunte e correzioni 


671 



* p. 63, r. 12: dopo volgare si aggiunga la nota 

“ È fra la fine del sec. IX e l’inizio del X il glossario di Monza con 63 
lemmi, non più in latino come in altri glossari, ma in italiano padano tradotti 
in greco.- B. Bischoff - H.-G. Beck, «Das italienisch-griechische Glossar der 
Handschr. e 14 (127) der Biblioteca Capitolare in Monza», in Medium Aevum 
Romanicum, 1963, pp. 49-62-, cfr. F. Sabatini, «Il glossario di Monza», in Atti 
Accad. Torino, XCVIII, 1963-64, pp. 51-84 e O. Parlangeli, «Il glossario 
monzese», in Atti Accad. Pontaniana, n.s., XV, 1966, pp. 241-269. 

* p. 65, n. 46: in fondo si aggiunga Vedi anche F. Panino, «Se pareba boves», in 

Annuario 1966-67 del Liceo scient. «G. Galilei » di Macerata, pp. 1-41. 

p. 66, n. 48: in fondo si aggiunga Cfr. anche la recensione di Monteverdi a questo 
paragrafo in Cult, neolat., XXII, 1962, pp. 219-221. 

* p. 68, n. 51: si aggiunga (Cfr. ora Id., in Studi ling. it., II, 1961, p. 40, dove si 

stabilisce che nel testo appare bona e non buona). 

* p. 74, n. 76: in fondo si aggiunga Una buona sintesi in G. Bonfante, Latini e 

Germani in Italia, 3 a ed., Brescia, 1965. 

p. 79, r. l: nastro, si legga nastro (?), 

* ibid., r. 9 dal basso: si tolga trogolo che compare già negli esempi della 

pagina precedente 


CAPITOLO III 


* p. 97, r. 8: invece di esige l’enclitica si legga proibisce la proclitica 

* p. 98, n. 39 (segue p. 99): in fondo, invece di moscia «massa» si legga moscia 

«podere». 

p. 99, n. 40: i primi cinque righi sono cancellati; 
rigo 6: invece di Anche i si legga I 
dopo il rigo 12, a capo, si legga 

Quanto ai brani in volgare calabrese di ima carta di Rossano edita 
dall’Ughelli, essi sono un’aggiunta di età incerta (forse ancora del sec. XII) 
alla traduzione di ima carta greca del 1114: si veda il testo critico di A. 
Colonna, in Rend. Ist. Lomb., Lettere, LXXXIX, 1956, pp. 9-26; Id., in Studi di 
filol. it., XXIII, 1965, pp. 5-17. 

p. 101, r. 10: invece di Antonio si legga Giovanni 

* p. 103, n. 55: in fondo si aggiunga; V. ora dello stesso, «Storia deu iscrizione 

ferrarese del 1135», in Atti dell Accad. dei Lincei, Cl. se. morali storiche e filol., 
S. 8 a , XI, 1963, pp. 101-140. 


672 


Storia della lingua italiana 


Aggiunte e correzioni 


673 


* p. 104, r. 9: dopo ultimi anni del sec. XII o del principio del XIII. si 
aggiunga la nota 

580 La data viene ora fissata fra il 1151 e il 1157 dal Contini, P. Duec., pp. 
xvii e 4-5. 


CAPITOLO IV 

p 126, rr. 6-7: invece di (con quattro piccole e probabilissime correzioni 
dei Debenedetti): si legga (con cinque piccole e probabilissime 
correzioni): 

ibid., r. 8 dal basso: allegrali si legga alligrari 

* p. 126, n. 30: in fondo si aggiunga V. ora O. Parlangeli, «La canzone siciliana di 

Stefano Protonotaro», in Studi linguistici salentini , II, 1969, pp. 55-70. 

p. 127, r. 18: ima chiacenza si legga il chiacenza 

* p. 129, n. 41: in fondo, a capo, si aggiunga 

Per la mediazione dalla Sicilia alla Toscana: I. Baldelli, «Rime siculo- 
umbre del Duecento», in Studi di filol. it, XXIV, 1966, pp. 5-38, ora in Medioevo 
volgare da Montecassino all'Umbria, Bari, 1971, pp. 255-293. 

* p. 135, n. 58: in fondo si aggiunga Cir. ora Contini, P. Duec., I, pp. 29-34 
p. 139, r. 22 grand(e) si legga grande 

* p. 162, n. 139: si aggiunga in fondo 

V. ora G. B. Pellegrini, Gli arabismi nelle lingue neolatine con speciale 
riguardo all’Italia, Brescia, 1972. 


CAPITOLO V 

* p. 170, r. 14: dopo avessimo si aggiunga la nota 

u sul volgare curiale: G. Devoto, Linguaggio d Italia , Sfilano, 1974, p. 249, 
e la voce «Curiale» di P. V. Mengaldo in Enciclopedia dantesca, II, Roma, 1970, 

p. 288. 

* p. 179, r. 13: dopo Apocalisse si aggiunga la nota 

iea Conservo si trova anche nel Vangelo di Matteo. 

* p. 180, r. 1: si tolga come canta (Purg. , XXXI, v. 4) (che già era (sotto la 

forma cunctaì in Uguccione e Giovarmi da Genova). 


CAPITOLO vi 

* p. 199, n. 56: in fondo si aggiunga V. ora Maestro Antonio da Ferrara (Antonio 


BeccarO, Rime, ed. crit. a cura di L. Beliucci, Bologna, 1967 (e 1972) e la 
recensione di A. Balduino iLett. it., XX, 1968, pp. 526-542). 

* p. 201, n. 62: si aggiunga in fondo Per i tre sonetti in veneziano, padovano e 

trevisano, finora attribuiti a Nicolò de’ Rossi: M. Corti, «Una tenzone poetica 
del sec. XIV in veneziano, padovano e trevisano», in Dante e la cultura veneta, 
Firenze, 1966, pp. 129-142. 

* p. 204, n. 73: si aggiunga Ma cfr. Contini, P. Duec., I, pp. 883-884 e 890-891. 
p. 208, r. io dal basso: invece di seguito si legga accompagnato 

p. 210, r. 6 dal basso: invece di valentissimi si legga finissimi 


CAPITOLO VII 

p. 224, r. 12 dal basso: invece di Firenze si legga Livorno 
p. 231, r. 22: invece di aggiungeva si legga diceva 
p. 238, n. 54: in fondo si aggiunga (nuova ed., 1964). 
p. 240, n. 66, r. 2: Teogenio si legga Theogenius. 

ibid,, n. 66, ultimo rigo: invece di ( Opere volgari. III, p. 160). si legga (dedica a Lionello 
d’Este, Opere volgari, a cura di C. Grayson, II, Bari, 1966, p. 55). 

p. 241, r. 11 dal basso: invece di Cicco si legga Giovanni 

* ibid., n. 70: in fondo si aggiunga ; R. Cardini «Cristoforo Landino e l’umanesimo 

volgare». I, in «La Rassegna della lett. it., LXXII, 1968, pp. 267-296, con ima 
nuova edizione della prolusione landiniana al Petrarca che forse è del 1467 (o 
68, o 691, cfr. ora, dello stesso, La critica del Landino, Firenze, 1973, pp. 1 13-232. 

p. 245, rr. 2-3 dal basso: da l’identificazione ad Alberti, si legga ma l’identifica- 
zione dell’autore con Leon Battista Alberti è ormai sicura. 

ibid., n. 80: invece di V. il testo in appendice a Trabalza, Storia gramm. si legga V. 
l’edizione di C. Grayson, La prima grammatica della lingua volgare. La 
grammatichetta vaticana, cod. Vat. Reg. Lat. 1370, Bologna, 1964 e in Opere 
volgari, III, Bari, 1973, pp. 175-193. 

ibid., n. 81: si tolga specialmente e in fondo si aggiunga ; C. Colombo, «Leon Battista 
Alberti e la prima grammatica italiana», Studi ling. it., III, 1962, pp. 176-187; e 
l’introduzione all’edizione Grayson, pp. v-xlviii. 

p. 251, r. 22: invece di (o Pietro Edo) si legga (o Cavretto, o Edo) 

* p. 252, r. 19: dopo cultura si aggiunga la nota 

V. ora P. V. Mengaldo, La lingua del Boiardo lirico, Firenze, 1963. 

* p. 255, n. 134 in fondo si aggiunga-, Cfr. ora S. Gentile, Postille ad una recente 

edizione di testi narrativi napoletani del ’400, Napoli, 1961, pp. 18-28. 

* p. 259, n. 157, ultimo rigo: dopo cyfris. si legga L’attribuzione è ormai sicura (v. C. 

Colombo, Studi ling. it.. Ili, 1962). 

* p. 265, r. 2: dopo fussi si aggiunga la. nota 


674 


Storia della lingua italiana 



175 “ Sull'uso del congiuntivo imperfetto in L. B. Alberti: v. la recensione di 
Gh. Ghinassi a M. Dardano, «Sintassi e stile nei “Libri della famiglia” di L. B. 
Alberti» (Cult, neolatina, XXIII, 1963) in Lingua nostra, XXV, 1964, pp. 59-61, a 
P- 59. 

CAPITOLO Vili 

* p. 312, n. 86: in fondo si aggiunga V. ora P. V. Mengaldo, «Appunti su V. Calmeta e 

la teoria cortigiana», in Ross. lett. it., LXIV, 1960, pp. 446-469. 

p. 314, r. 9 dal basso-, invece di premessa all’edizione del 1527 si legga 
scritta nel 1527 e premessa all’edizione del ’28, 

* p. 320, n. 95: in fondo si aggiunga V. ora H. Baron, «Machiavelli on thè Ève of thè 

“Discourses": thè Date and Place of his “Dialogo intorno alla nostra lingua”», 
in Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance, XXIII, 1961 pp. 449-475. Dubbi 
sull’attribuzione al Machiavelli di questo Dialogo ha posto C. Grayson, 
«Machiavelli e Dante. Sulla data e l’attribuzione del “Dialogo intorno alla 
nostra lingua”», in Studi e problemi di critica testuale, II, 1971, pp. 5-28; 
l’articolo del Grayson ha suscitato un ampio dibattito, non ancora concluso. 

* p. 324, n. 100: in fondo, a capo, si aggiunga Sul Gelli si veda ora A. De Gaetano, «G. 

B. Gelli and thè Questione della lingua», in Italica, XLIV, 1967, pp. 263-281; Id., 
«G. B. Gelli and thè Rebellion against Latin», in Studies in thè Renaissance, 
X2V, 1967, pp. 131-158. 

p. 328, r. 12 dal basso: invece di di origine dalmata, vissuto a lungo a 
Pordenone) si legga pordenonese, che aveva avuto alti uffici a 
Trieste) 

p. 331, r. 2 dal basso: 1601 si legga 1602 

p. 340, r. 12 dal basso: invece di dal Cian con si legga dal Cian e poi dal 
Ghinassi con 

ibid., r. 9 dal basso: invece di e del Bembo) si legga e del bembiano 
Giovanni Francesco Valerio) 

ibid., n. 145-. in fondo si aggiunga ; Gh. Ghinassi, «Postille all’elaborazione del 
“Cortegiano”», in Studi e problemi di critica testuale. III, 1971, pp. 171-178. 

* p. 344, r. 13: dopo consiglio si aggiunga ; Michelangelo sottopose alcune 

sue poesie alla revisione del Giannotti e del Riccio. 

* p. 356, n. 205: in fondo, a capo, si aggiunga Per le norme stabilite dal Trissino v. M. 

Vitale, «Di alcune forme verbali nella prima codificazione grammaticale 
cinquecentesca», in Acme, X, 1957, pp. 235-275. 

p. 365, rr. 1-2 dal basso: cateto, lemma, ecc. si legga per esempio lemma. 

p. 366, r. 6 dal basso: si cancelli omologare, 

* p. 372, n. 259: in fondo si aggiunga Per cerasa v. ora G. Rohlfs, in Medium Aevum 

Romanicum, Monaco, 1963, p. 291. 

[L’edizione economica elimina varola.] 

p. 380, rr. 12-13: da importato a «borsa, guaina», si legga di questa età 
(come busta «involucro», entrato a Venezia dal Levante, 


Aggiunte e correzioni 


675 


* p. 381, r. 15.- si cancelli zaino 


CAPITOLO IX 

P ' T 10 Tf?’ ■ ln f ond f°\ a “PO' s£ aggiunga Su queste innovazioni v ora M Vitale 
T del . Viario della Crusca”. Tradizione e iLovazSone 
nelia cultura linguistica fiorentina secentesca», in Acme, XVIII 1963, pp. 89 - 

* P ’ 75: si a ? g Ì“ rlga Sfondo ■. V. ora M. Vitale, «Leonardo di Capua e il 
capuismo napoletano. Un capitolo della preistoria del purismo ling uistico 
italiano, *in Acme, XVIII, 1903, pp. 89-159 purismo linguistico 

P ' datata 5 1 601 ) baSS ° : fVenezia 1601) si ^ga Venezia 1602; prefazione 

pp. 438, r. 4: G. Paganino, si legga P. Gaudenzio, 

P- 447, r. 13: agrimani (Lippi) si legga agrimani, 

capitolo x 

p. 461, r. 13 dal basso: attribuita a B. Marcello, si legga del p. F. A. Arizzi, 

p. 467 r. 5-6: da (che a opere) si legga (dopo la sua morte furono citati 
molti esempi tratti dalle sue opere) 

ibid., rr. 12-13.- invece di attribuita a B. Marcello si legga del p. F. A. Arizzi, 

p. 474, r. 9 dal basso-, si cancelli tra gli It alian i 

ibid., r. 6 dal basso: prima di i maestri di ballo si legga i sarti, 

* p. 479, n. 126: in fondo si aggiunga Sull’uso dell’italiano in Voltaire, v. ora G 

Polena, «Divagazioni sull’italiano di Voltaire», in Studi in onore di V. Lugli e 
D. Valeri, Venezia, 1981, pp. 391-424. 

* Ì54: invece di quadripartizione del Gigli si legga quadripartizione 
suggerita al Gigli da F. O. Tondelli 

p. 504, r. il: si cancelli probabilmente da lui stesso fomite, 

ibid., r. 21: si cancelli (più volentieri con prefìssi) 

ibid., r. 23: dopo berlinale, si legga cardinalume. 


capitolo xi 

p. 545, r. 19 dal basso.- dà Vocabolario a modi si legga Dizionario de’ 
francesismi e degli altri vocaboli e modi 


676 


Storia della lingua italiana 


p. 554, rr. 17-18: da oltre a di M. si legga la raccolta di M. 

ibid., r. 20-. spogli. Su si legga spogli, fu compendiata e riveduta dal 
Compagnoni. Su 

ibid., r. 26: invece di nel 1806 si legga tra il 1806 e il 1811 
ibid., r. 28: tratte da si legga tratte in gran parte da 


CAPITOLO XII 

p. 605, n. 11: in fondo si aggiunga Cfr. M. Raicìch, «Questione della lingua e scuola 
(1860-1900)», in Bel/agor, XXI, 1966, pp. 245-268 e 369-408. 

p. 615, r. 19: invece di quasi si legga più che 

p. 623, r. 13: (Rocca S. Casciano 1871-1892) si legga, (Rocca San Casciano 
1892) 

p. 629, r. 5: invece di tagliate si legga con un taglio 

* p. 638, n. 100-. infondo si aggiunga ; ora G. Herczeg, Lo stile indiretto libero, Firenze, 

1963. 

* p. 641, n. 109: si aggiunga infondo : Già nel 1835 V. Hugo aveva pubblicato gli 

Chants du crépuscule, nei quali intendeva esprimere «cet étrange état 
crépusculaire de l’àme et de la société dans le siècle où nous vivons». Alcuni 
precedenti italiani e francesi della parola sono indicati in Lingua nostra, 
XXIII, 1962, p. 113, e XXVIII, 1967, p. 23. 

p. 662, r. 12: invece di dell’aggettivo «brutto» si legga di «non esser brutto» 

p. 666, r. IO-, invece di operette come La Geisha (1906) si legga opere e 
operette (Butterfly, 1904; La Geisha, 1906) 


INDICE ALFABETICO 


Sono inclusi nello spoglio tutti i vocaboli di cui si tratta nel volume 
mentre dei nomi propri e dei fenomeni linguistici si citano solo i più 
notevoli. 


a con il compì, agente, 211 
a con il compì, oggetto, 213 
a: il tipo pollo allo spiedo, 476, 490 
a-, 152 

■a plurale, 69, 208, 487, 564, 632 
abadessa, abbadessa, 463 
ab antico, 178 

abate, abbate, 360, 423, 434, 495, 562 
abbacchio, 652 

abbadessa, abbate : v. abadessa, aba- 
te 

abbagliocchi, 651 
abbagliare, 412 
abbandonare, 81 
abbassagione, 412 
abbattitoio, 650 
abbazia, 82 
abbiatico, 651 
abbordo, -are, 518 
abbonita ( all ’) 79 
abbruciare, 480 
abbrugiare, 419, 480 
abbutire, 595 
abento, 128 
aberrazione, 514 
abiatico, 651 
abile, 520 
-abile, 505 
abimé, 593 
abitaggio, 412 
abitanza, 375 
abituro, 412 

«ablativo assoluto», 569 
ablato, 218 
Ablaut. 665 


abolire, 369 
aborrendo, 277 
Abruzzi, 207, 253 
absorto, 155 
abulia, 641 

academia, 480, 481, 562, 581 
Acarisio, A., 331 
acaro, 433 

Accademia, 4, 269, 362, 480 
Accademia del Cimento, 393 
Accademia della Crusca, 326-327, 
333-334, 407-410, 449, 464, 466-468, 
529, 546-548, 554-555, 622 
Accademia Fiorentina, 333, 467 
Accademia Senese, 333 
accademici, nomi, 405 
Accademie, 284, 286-287, 332-334 391 
529 

accalappiacani, 644 
accalappiare, 412 
accanto, 412 
accaparrare, 584 
accattare, 414 
accensibile, 576 
accenso, 513 

accento e sua posizione nelle parole 
23-24, 157, 262, 424, 484 
accento grafico, 260, 349, 422 483 
561, 628 
-acchio, 152 
accia, 374 
acciale, 372 
accidente, 155 
accidioso, 55 1 
accipitrare, 437 


678 Storia della lingua italiana 


acciuga, 34, 165, 268 
accollare «abbracciare», 219 
accompagno, 579 

accordo con l' indefinito di quantità, 
211 

accozzare i pentolini, 584 
accudire, 381 
accumulatore, 642 
«accusativo alla greca», 191, 569 
«accusativo con l’infinito», 71, 212, 
427, 569 
acervato, 589 
acetito, 499 
Achille, 403 
Achillino, G. F„ 331 
acidulo, -olo, 514 
aconito, 631 
acqua, 27 
acquario, 659 
acquavitaro, -aio, 652 
acquavite (aqua vitae) 155 
acquerella, 213 
acquidotto, 480 
acroamatico, 590 
acrobazia, 658 
acrostico, 442 
adagiare, 376 
adagio, 448 
adamante, 613 
adamantino, 631 
adastare, 134 
addiettivo, 216 
addobbare, 159 
addome, addomine, 481 
addrizzare, 520 
Adelfi, 572 

adepto, adetto, 515, 516, 517 
adesso, 129 

adesso, 129, 317, 344, 551 
adificare, 155 
adimare, 180 
adiviniri sic. ant., 128 
adomine, 562 
adonco, 367 
Adone, 403 
adorare, 390, 520 
adomezze sing., 148 
adugge, 541 
adulterio, 408 
adunche, 268 
adunco, 218, 367 
ae dittongo lat., 347, 628 
aere, 539, 587 




aeroferetro, 643 
aerolito, 592 
aeronauta, 516 
aeronautica, 514 
aeroplano, 627, 640 
aerostato, 496, 514, 516 
afasia, 641 
aferesi, 423 
affascinare, 520 
affettare, 369 
affiorare, 520 
afflao, 105 
affusto, 593 

Africa, Affrica, 276, 443, 626 
àgape, 658 
Agelli, Agello, 28 
agenzare, 134, 161, 219, 375 
agevole, 156 
aggettivo, 216 

aggettivo attributivo e sua colloca 
zione, 218, 492 
aggetto, 277 
agghiacciamento, 432 
agghiadare, 412 
aggio «età», 219 
-aggio, 132, 134, 152, 161, 595 
aggiornare, 571 
aggiotaggio, 519 
aggiotatore, 497, 519 
aggiugninfìne, 364 
aggiugninmezzo, 330, 364 
aggiugninnanzi, 330, 364 
aggressione, 442 
agio, 448 
agire, 446 
agnazione, 442 
Agnesi, G., 471 
agnizia, 217 
■agno, 152 
agnostico, 641 
àgora, 656 
agostaro, 154 
Agostino, sant’, 23 
agrario, 659 
agresto, 28 

agricola, -colo, 179, 579 
agrimani, 447 
agro, 42 
agugliere, 121 
aguglino, 154 
aia, 370 

Aielli, Aiello, 28 
aigua. 129 


Indice alfabetico 


679 


aio, 380 

•aio, 69, 98, 153, 208, 261, 578 

aita, 375, 541, 613 

aitare-, pres. io aiuto, 209 

aiutare (adiutore), 36, 38 

ala, 383 

alabarda, 382 

alabastro, 400 

àlacre, 513 

alalà, 656 

alambicco, 164 

alare, 435 

alazano, 381 

alba, 44 

albergata, 137 

albergo, 67, 78 

albemuccio, 279 

albero, 27 

albero «pioppo», 650 

Alberti, L. B„ 240-242, 273 

Alberti, F.: v. D’Alberti, F. 

albertista, 572 

albicocca, 176 

albo, 65 

album, 592 

alcali, 164 

alcaloide, 578 

Alcamo, Cielo d’, 122, 124 

alce (alces), 77 

alchimia, 164 

alciri sic. ant., 129 

alcohol, 383 

Aldebaran, 163 

Alderotti, T., 144 

aldrimani, 279 

■ale, 152, 273, 505 

alea, 447 

alena, 655 

àlere, 277 

alesare, 661 

Alessandri, G. M., 345 

alessandrinismo, 192 

Alessio, sant’: v. Sant'Alessio 

alfabeta, 658 

alfiere, al fino, 164 

Alfieri, V., 457, 464, 504 

algalia, 279 

Algarotti, F„ 457, 477 

algebra, 163 

algebraico, 437 

algido, 656, 657 

algore, 541 

algoritmo, 163 


alienigena, 277 
aligero, 370 

Alighieri, Dante.- v. Dante 
alimenti «elementi», 156 
alimonia, 277 
Alimurgia, 516 
aliquoto, 369 
■aliter, 367 
alivolo, 656 
alla «misura», 160 
allargo, 579 
allarmante, 520 
allarmista, 571 
alleanza, 520 
allegranza, 436 
«Alleluia», 115 
alleluiare, 180 
allenare, 642, 655 
allianza, 447 
allibrare, 152 
allibratore, 655 
allicere, 370 
allidere, 442 

• allo : plur. -ai, -agli, 207 
allocuzione, 425 
allodola, 31 
allotropo, 646 
allotta, 316 
allumare, 521 
alluminio, 577 
alluvionale, 577 
alluvione, 645 

alma, 129, 317, 375, 506, 540 
almirante, 381 
almogàvero, 220 
almuada, 382 
alopecuro, 500 
alpenstock, 665 
Alphonse, 661 
alpinismo, 603, 642 
alpostutUìo, 376 
altalena, 373 
altare, 47 
altezze sing., 148 
altezzoso, 509 
altimetria, 217 

alti piani, altipiani, 561, 577 

altissimevolmente, 440 

alto, 27 

altogatto, 582 

altramenti, 214 

altra volta, 521 

altresì, 376 


680 


Storia della lingua italiana 


altretale, 562 
altrimenti, 214 
alume, 562 
Alunno, F., 331 
divano, 273 
alveare, -ario, 481 
alzarsi, 434 
amaca, 384 
amanticida, 440 
amanza, 129 

amaranto, -antho, 276, 277, 412, 430 

amariglio, 445 

amar meglio, 376, 521 

Amaseo, R., 398 

amatorio, 277 

amazone, 216, 562 

amba, 665 

ambedue, 551 

ambiente, 5, 638, 645 

ambizioso, 403 

ambo, 551 

ambracane, 381 

ambrosia, 218 

ambulanza, 591, 593 

amburo, 132 

àmeda, 374 

amende honorable, 522 
ameno, 277 
Amenta, N., 466 
americanismi, 384 
ametisteggiare, 438 
amiatina, postilla, 93 
amistanza, 129 
amistate, 129 
amitto, 277 
ammalato, 434 
ammanco, 579 
ammazzasette, 433 
ammazzatoio, 650 
amminicolo, 277 
amministrazione, 287, 529, 530 
ammiraglio, 152, 162 
ammiraglio «specchio», 436 
ammiritatu sic. ant., 128 
ammissura, 277 
ammosfera, 518 
ammucciarsi, 445 
ammuchuni, 273 
ammuinare, 445 
amoerre, 522 
amoranza, 137 
amorarmicantante, 506 
amorca, 370 


amore, 148, 541 

amòri e amuri sic. ant., 127 

amorose vespe, 192 

amorosi vermi, 192 

ampere, 624 

ampolla, 33 

amuerro, 522 

amurca, 370 

ana, 158 

anacoluto, 369 

anafonesi, 10 1, 147 

anagogia, 431 

analfabeta, -o, 442, 658 

analisi, 514 

analizzare, 517 

analogia, 330 

ananas, 384 

ananke, 656 

anarcoide, 644 

anatomia, 408, 443, 562 

anca, 79 

ancella, 367 

anche, 268 

anchiovi, 268 

anelila, 367 

ancillare, 658 

anciscocolo, 373 

anco, 377 

ancona, 82 

àncora, 431 

andanico, 158 

andare-, la forma vanno, 177 
andare perifrastico, 490 
andar per la maggiore, 589 
Andrea da Grosseto, 144 
andrienne, 496, 518 
androne, 82 
-ane, 70 

aneddoto, anecdoto, 516, 518 

anelante, 277 

anello,- 36 

anello «ditale», 620 

anemone, 412 

anestesia, 642 

anestetico, 658 

anfibologia, 399 

anfora, 33 

anfratto, 442 

angaria, angheria, 73 

ange, 541 

angela, 134 

angelicato, 134 

angelico, 134 


Indice alfabetico 


681 



angelo, 35, 214, 551 
anghelos, 656 
Angioini, 114 
angioletto, 134 
angiolo, 551 

anglicismi, 279, 382, 524-525, 597, 663- 
664 

anglo-latinismi, 516, 590, 659 
anglomania, 516 
angonia, 372 
angosciare, 23 
a nguilliforme, 516 
anguria, 82 
angustiare, 137 
angusto, angosto, 367 
a dice, 33 
anile, 442 
animalcolo, 514 
animante, 277 
ahimastico, 587 
annegazione, 581 
annevato, 438 
annichilare, 155 
annuire, 589 
annulo, 270 
-ano, 152 
anofele, 658 

Anonimo Genovese, 140 
ansia ( anxia), 29 
anta, 131, 372, 584 
antagonia, 590 
antediluviano, 503, 505 
Antelami, 54 
antenna, 442 
a nti-, 438 
anticheggiare, 438 
Anticrusca, 438 
antictoni, 442 
Anticupido, 438 
antidiluviano, 503 
antisatira, 364 
antiscorbutico, 505 
antisemita, 659 
antisepsi, 642 
antitriplicista, 639 
antropofago, 218, 630 
antropoide, 578 
antropometria, 578 
-anza, 132, 134, 161, 191 
Anzampàmber, 575 
apatista, 441 
apetalo, 499 
Apocalipsi, -issi, 626 


apocope, 364 
apocope, 109, 202, 423 
Apofasimeni, 572 
apogeo, 442, 645 
Apollo, 276 

apostolo, appostolo, 155, 480 
apostrofo, 349, 483, 628 
appannaggio, 379 
apparare, 508 

apparire: pass. rem. appo.ri.nno, 177 

appartamento, 381 

appello, 593 

«Appendi* Probi», 15 

appetire, 137 

appetito, 506 

appio, 374 

applaudire, 277 

appo, 539 

apposizione con di, 210, 266 
apprendere, 44 
approntici, 521 
approcciare, 436 
approfondire, 521 
appulcrare, 180 
appuntamenti, 595 
■aprico, 217, 564 
apro, 370 
aquarium, 659 
aquidoccio, 480 
aquilino, 154 

-ar- ed -er-, 101, 147, 323, 351, 422, 426, 
581, 643 
ara, -o, 582 
araba, influenza, 85 
arabismi, 162-164, 220, 279, 383-384 
arabo-persiana, influenza, 162 
Aragonesi, 114 
arancia, -o, 164, 373 
Araolla, G., 307 
arboreo, 277 
arbuscolo, 277 
arbusto, 277 

Arcadia, 449, 451-452, 455 
arcaismi, 193, 375-376, 508-510, 586- 
589, 635-655 
arcasino, 438 
archiatra, -o, 659 
Archiloco, 424 

architettura e sua terminologia, 270, 
293 

arci-, 438 
arcifanfano, 274 
arcifreddissimo, 438 


682 


Storia della lingua italiana 


Indice alfabetico 


683 


arcilunghissimo, 438 
arcimusa, 438 
arcinasarca, 438 
arcoltu, 99 
ardire, 81 
■ardo, 72, 161, 274 
area, 370 
aree laterali, 39 
■arello, 643 
arena, -are, 547, 626 
arenga, 78 
areoplano, 627 
Aretino, P., 344 
arfasatteria, 574 
argano, 82 
Argentina, 625 
argento, 367 
argento «denaro», 378 
Argo, 403 
orgoglio, 129 
arguzia, 369 
aria, 33, 213 
oriento, 367 
aringa, 272 
Ariostista, 437 

Ariosto, L., 304, 321, 340-342, 372 

arismetì.r)ica, 156 

aristocrazia, 571 

aristotelismo, 115 

arlecchineggiare, 574 

Arlecchino, 361, 386 

Arila, C„ 623 

armellino, 372 

armigero, 277 

armilla, 541 

armo, 277 

Amauld, A., 418 

Arnaut de Marueilh, 188 

arnese, 159 

arnesi «finimenti», 623 
aromale, 611, 644 
arpa, 77 
Arpia, 272, 369 
arpice, 372 
arpone, 381 
arraffare, 80 
arrancare, 78 
arrangiarsi, 651 
arredare, 78 
arrenare, 547, 626 
arrendamento, 382 
arresta, 121 
arrestare, 571 


arroge, 437 
arrostalo. 578 
arrubinare, 318 
arruffapopoli, 573, 574, 579 
«ars dictandi», 114, 142 
«ars notariae», 114 
arsenale, 152, 162, 165 
art de plaire, 522 
arte, 34 

arte della stampa, 270, 284, 339 
o rticiocco, 387 
articolalo, 574, 578 
articolo: forme, 26, 148, 208, 258, 263, 
265, 341-342, 354, 424, 486, 565, 632 
articolo: usi, 210, 266, 357-358, 569 
artiglio, 160 
artista, 155 
arto, 371 
Arturo, 403 
arvale, 277 
arzàgola, 652 
arzanù, 162 

astergo «usbergo», 159 

Asburgo, Leopoldo d’, 418 

ascari, 639, 665 

ascendere, 614 

ascensore, 658, 661, 662 

ascio, 129 

ascitizio, 442 

Ascoli, G. I., 605, 617-619 

asello, 36 

asente, 562 

asilo d'infanzia, 497 

asindeto, 192 

asineggiare, 438 

asinibbio, 438 

asino, 27, 36 

asino-, mettere l’a. a cavallo, 583 

asolare, 433 

aspe, 216, 367 

aspicere, 277 

aspo, 78 

assaiato, 137 

Assassino, 164 

asse ( axis ), 432, 547 

assecla, 590 

assegnato, 593 

assegno, 641, 664 

assempro, 216, 375 

assentatore, 277 

assentazione, 277 

assenteismo, 597 

assessore, 155 


assiduo avv., 276 
assillo, 272 

assimilazione, 207, 261, 353, 563 

assioma, 379 

assise, 159 

assolutismo, 591 

assolutista, 572 

assonante, 443 

assurdità, 442 

asteroide, 578 

astiare, 79 

asticciuola, 414 

astivo, 219 

astia bologn., 28 

astore, 160 

astragalo, 270 

astrea, 645 

astrico, 273 

astronomaco, 654 

astuccio, 381 

atanto, 375, 376 

atare, 376, 586 

àtavo, 277, 371, 656 

ateismo, 362 

Ateneo, M. A., 329 

atimo, 581 

atomo, 395, 442 

atrio, 31 

atro, 179 

atroce, 218 

atrofia, 645 

attaccapanni, 626 

attaccare al muro, 584 

attaccato, 595 

attarello, 643 

attendente a casa, 612, 640 
atterello, 134 
attinente, 369 
attinia, 645 
attitudine, 5, 277, 447 
attivare, 571 
atto, 348 
at topato, 214 
attoscaneggiare, 364 
attraits, 593 
attrattivo, 395 
attrazione, 502 
attribuzione, 612 
attrufu lucano, 32 
attuale iactualis), 155 
attualità, 595 

au nei Siculo-tose., 131, 147 
au sost. con al o con a, 261, 352 


aucidere, 131 

Aufklàrung, 664 

auge, 163 

augella, 437 

augelleggiare, 438 

augello, 129, 131, 191, 506, 613 

augumento, 367 

Augusto, 11 

aulente, 613, 655 

auletride, 656 

aulico, 170 

aulire, 131, 655 

«Auliver», 199 

aunore, 131 

aure, 278 

auscultare, 591 

auscultazione, 577 

auspizio, 586 

austero, 218 

«austriacàn», 624 

austriacismi, 77, 624 

autem, 276, 367 

autentico, 218 

autocommento, 643 

autocoscienza, 641, 643, 66-i 

autodidatta, -o, 659 

autogoverno, 643 

autoinduzione, 664 

automobile, 640, 643, 658, 661 

automobilismo, 603, 643 

autor della Giunta, 390 

autore, 481 

autorevole, 375, 376 

autorista, 214 

autorità, 269 

autoritario, 639 

autorizzare, 520 

auttore, 481 

autunnale, 574 

avacciare, 508 

avaccio, 375 

avale, 274, 375 

avamposto, 593 

avanti, 37 

Avantil, 664 

avenente, 129 

avere, 27 

avere-, le forme abbo, abo, aggio, c. 

131, 210 

avere come ausiliare, 26 

490, 568, 635 
aver ricorso, 521 
aviazione, 658 


684 Stona della lingua italiana 


avifauna, 644 
avio, 656 
avire, 102 
avolo, 72 
avolterio, 408 
avorio, 400 
avvantaggio, 521 
avvegnaché, 653 
awenante tali'), 588 
avvenirista, 643 
avventura, 160 
avverbio, 364 

avverbi in mente a coppia, 151, 356- 
357, 425 

avviamento, 640 
avviso, 361, 392 
avvocatessa, 640 
aw ocazione, 571 
azienda, 381 
azione, 523 
azzardare, 412 
azzardo, 446 
Azzeccagarbugli, 580 
azzurro, 163 

b e v alternanti, 105, 107 
babbo (babbus), 37, 174 
babordo, 381 
baccalà, 444 
boccale, 273 
bàccare, 278, 599 
baccelliere, 159 
bacchettone, 429 
baciamano, 380 
baciapile, 429 
bacillo, 642, 658 
bacio (fare unì, 651 
Backfisch, 665 
baco, 373 
baco da seta, 373 
bacoca, 412 
bàcolo, bàculo, 278 
badessa, 463 
badinerie, 521 
, badino, 521 
baggiana, 36 
bagiggi, 586 
bagno, 33 
baia, 381 
baionetta, 519 
baita, 651 
baiulo, 179 


baiaselo 163 
balaustro 365 
balco, 79 
balcone, 386 
balena, 33 
balenare, 582 
balestra, 33 
balia, 363 
balice, 372 
balio, 219 
balla, 76 

balla ( trovarsi di), 583 

ballata, 574 

ballìa, 129 

balma, 31 

baloardo, 663 

balocco, 580 

balsamo, 137 

balsic o. 373 

baltèo, 216 

baluardo, 663 

baluginare, 30 

bambagia, 82 

bambino, 541 

bambocciata, .430 

bamboccio, 541 

bambola (di specchio ), 372 

bambolo, 541 

banale, 662 

banana, 385 

banausico, 659 

banca, 76, 79 

bancabile, 640 

bancario, 364 

bancarotta, 386 

banchettissimo, 643 

banchieresco, 504 

banchisa, 661 

banco, 386 

bancone, 137 

banda, 78 

banderuola, 506 

bandiera, 76, 159 

bando, 78 

bandò, 476 

bandoliera, 446 

bara, 76, 79 

barabba, 573 

baratta, 80, 375 

barba di stoppa, 583 

barbacani della S. Sede, 573 

barbagrazia (in), 587 

barbandrocco, 364 


barbano, 273 
Barberino, F. da, 197 
Barbieri, G. M., 125 
barbitondere, 504 
barcarola, 525 
bardella, 614 
barège, 596 

Baretti, G„ 462-463, 468, 504 

barga, 31 

Bargagli, S., 412 

bargagnare, 81 

bargello, 373 

barnagio, 132 

barocco, 391 

barocco, gusto, 394-397 

baroccolo, 153 

barometro, 432 

barone, 81 

barricata, 543 

barriera, 446 

Barsegapè, Pietro da, 139 
Bartoli, C., 323-324, 338 
Bartoli, D„ 397-398, 413-415, 418, 536, 
537 

Bartoli, G., 339 
Bartoli, M., 39 

Bartolo da Sassoferrato, 183, 185 

baruffare, 80 

basare, 595 

basci buzuk, 665 _ 

base (a), 612 

Basile, G., 406 

basilica, 34 

basilico, 82 

basso, 653 

bastare, 178 

bastione, 386 

Batastero, 405 

batata, 384 

battelliere, 581 

battere in breccia, 662 

battere in visiera, 662 

batteria, 379 

batterio, 577 

battersela, 583 

battesimo, 34 

battezzare, 34 

battifredo, 80, 159 

baule, 444 

bazar, 596 

bazarro, bazzarro, 596 
beatificare, 47 
beato, 390 


Indice alfabetico 685 


beccaio, 434 

Beccari, Antonio, 199-201 
becco «rostro», 31 
becco «capro», 546 
Becelli, G. C., 461 
bécero, 584 
befana, 34 
bega, 75, 78 
begriffi 664 
Belcalzer, V., 202 
bel dire (avere un), 521 
belgiui, 279 
belle arti, 496, 519, 521 
belletterista, 665 
bellezze sing., 148 
bellezze eterne, 362 
bellicone, 445 
belligerante, 515 
bell'ingegno, 496 
Bellini, B., 622 
Bellini, L., 393 
bello, 40 

bello-, formazione del plur., 191, 632 . 
bellore, 436 

bellunese, ritmo storico, 106 

Belluzzi, G. B., 372 

bel mondo, 496, 521 

bel paese, 194 

beltate, 134 

bemberia, 364 

Bembo, P., 304-306, 310-311, 328-329, 
348, 372 
benché, 358 
bene, 27, 453 
Bene da Firenze, 142 
Beni, P., 411 
beni-fondi, 519 
beninanza, 436 
benna, 31 

bennere «vendere», 20 . — 

Benvenuto da Imola, 198 

Berchet, G., 537 

bere (bibere), 27, 41 

berengena, 301 

Bergamo, 309, 330 

Bergantini, G. P., 467 

bèrgolo, 193 

berlinale, 504 

Bernardino da Siena, san, 273 
Bernardoni, G., 555, 571 
Berni, F., 344 
bernoccolo (avere il), 577 
bernuccio, 279 


686 


Storia della lingua italiana 


berroviere, 159 
berze, 509 
bestemmiare , 34 
bestiari, 142 

Béthune, Eberardo di, 157 
Betina ven., 28 
béton, 661 
betoniera, 661 
Bettinelli, S., 477 
betulla, 31 
bezzo, 382 
biacca, 79 

Bianchi, B., 621, 622 
bianco, 78, 79 
bianco mangiare, 381 
biavo, 78 

Bibbia, 23, 145, 283, 287 
bibliofilo, 516 
bibliomane, 516 
Bibliopea, 516 
bibliopola, 371 
bibliotafio, 516 
biblioteca, 441 
biblioteche, 392 
bibo, 218 
bica, 75, 79 
bicchiero, 581 
bicicletta, 640, 661 
biciclo, 577 
bidè, 519 
bie o Bie, 656 
biella, 661 
bifolco, 32 
bigatto, 373 
biglietto di banco, 523 
bigiotteria, 576 
biglione, 497 
bignè, 476, 519 
bigoli ven., 511 
bigoncio, 29 
bigonzoni, 372 
bigordo, 160 
bilancetta, 431, 432 
bilancia, 386 
bilanciare, 481 
bilancio, 214, 386 
bilanziare, 481 
bilifero, 506, 516 
bilingui, sonetti, 198 
bill, 597 
billon, 519 
biltà, 193 

bimetallismo, 644, 658 


binocolo, -occolo, -oculo, 626 

biocca, 372, 585 

biografo, 495, 515 

biondo, 78 

biondo Apollo, 455 

birba, 534 

birichino, 512 

birra, 380 

birrocratico, 574 

bisaccia, 38 

bisboccia, 596 

bisciaccole, 373 

bismuto, bisemuto, 382 

bisogna, 375 

bisogno, 381 

bisonte, 277 

bistento (a), 508 

bisticcio, 402-403 

bistro, 594 

biturro, 419 

bivacco, 446 

Bizantini in Italia, 50-51, 54, 57-58 

bizantinismi, 81 

bizantino, 646 

bizocone, 137 

bizzeffe, 271 

blaga, 662 

blasmari sic. ant., 129 

blaterare, 590 

blé delle Indie, 522 

bleu, 519, 522, 596 

blo, 519, 522, 596 

bloccardo, 639, 661 

bloccare, 519 

blocco militare, 446 

blocco politico, 639, 661 

bioio, 159 

blu, 519, 522, 596 

bluff, 663 

boa, 576 

boatta, 596 

bobe «a voi», 92 

bobolce, 273 

bocca Ibucca), 41, 42 

boccacceria, 504 

boccaccevole, 364 

Boccaccio, G.192-194, 214, 243, 305, 
463 

bocce, 513 
bocciare, 651 
bodino, 524 
bòdola, 626, 650 
Boerio, G. 556 


Indice alfabetico 


687 


boetta, 596 
bohème, 641, 661 
bohémien, 661 

Boiardo, M. M., 247-248, 252, 257 
boicottare, 639 
boldoni, 258 
bolero, 640 

bolgia, 160, 180, 273, 509 
Bologna, 114, 125, 471 
bolontade «volontà», 124 
bolta, 124 

Bolzani, G. P., 317-318 
bombarda, 220 
bombice, 373 
bombire, 642 
bombista, 437 
bomboniera, 661 
bompresso, 445 
«Bona qilosia», 140 
Bonagiunta da Lucca, 170 
Boncompagno da Signa, 142 
bonè, 518 

Bonghi, R., 606, 609 
bongiuì, 279 
bonificazione, 277 
bonìgolo, 436 
bon mot, 522 
bonomia, 595 

Bonvicino (Bonvesin) della Riva, 139 

bonzo, 385 

bora, 599 

borace, 164 

borderò, 593 

Borghesi, D., 327, 331 

Borghi, G., 550 

Borgini, V., 330 

borgo, 78 

borgognotta, 444 

borgomastro, 382 

borlanda, 512 

boro, 577 

borrasca, 480 

borsa, 33 

Borsa, 379 

borsale, 452 

boschereccia, 652 

Boschini, M„ 407 

bosco, 80 

bosso, 33 

bossolo, 33 

botanista, 517 

botola, 626, 650 

Botta. C.. 536 


botte, 585 
bottega, 33 
bottiga, 81 
bottoniera, 519 
boudoir, 593 
Bouhours, P„ 417 
boulevard, 663 
bow-window, 663 
boxe, 661, 663 
boycottare, 639 
bozzetto, 641 
bozzolo, 499 
braca, 31 

braca «baco da seta», 373 

braccio, 33, 195 

braco, brago, 31 

braghessa, 372 

bragia, 77 

bragozzo, 651 

braida, 75 

brameggio, 583 

bramose canne, 180 

Branda, O., 462, 472 

brando, 541 

brandone, 273 

Brasile, 625 

bravare, 360 

bravata, 360 

braviere, 500 

bravlo, 217 

bravo, 360 

bravura, 360 

brefotrofio ( brephotrophium ), 47, 591 

brelocco, 519 

brena, 272 

brend moden., 28 

brenti, 31 

brera, 75 

bretelle, 594 

breviter, 276 

briachitide, 644 

Briareo, 403 

briccola, 79 

bridge, 663 

brillante, 428 

brillantina, 661 

brindisi, brindes, brindis, 382 

brinzi, 382 

brio, 444, 598 

brisa, 380 

briscola, 666 — 

brocardo, 217 
brochure. 596 


68b 


Storia della lingua italiana 



Broglio, E-, 610, 615, 617, 622, 648 

Broletto, 153 

brollo, 375 

brolo, 511 

bronfìare, 364 

bronzeo, 574 

bronzo, 163 

brossura, 596 

brougham, 597, 663 

broCvlar it. sett., 75 

bruciare, 480 

bruco, 510 

brughiera, 651 

brugiare, 480 

brùgula, 273 

brulotto, 446 

brum milan., 664 

bruma, 595 

brumista, 664 

Brunetto Latini, 122, 144 

bruno, 78 

Bruno, G., 372 

brunocchiuto, 504, 505 

brusàa el pajon milan., 585 

brusone, 585 

bruttarello, 643 

buatta, 596 

bubbone, bubone, 442, 562 

buccellato, 28 

bucchero, 430, 444 

buccina, 613 

buccola, 519 

bucolero, 272 

budget, 593, 597 

budino, 524 

bue, 27 

buetta, 596 

buffetteria, 593 

buffetto, 446 

buganza, 511, 580 

bugiale, 274 

bugiare, 587 

buglione, 160 

bugno, 372 

buio, 377 

bulbo, 442 

Bulgari presso Iserma, 52 

bulldog, 597 

bullone, 661 

buio, 360 

buna, 383 

Buonanni, V„ 338 QR „ Q7 

Buonarroti, Mich. il gi°v„ 396 39 


buon gusto, 362, 494 
Buonmattei, B., 409, 414 
buono, 27, 620 
buon tono, 521 
Buraffa, 365 
buralista, 593 
burbanza, 376 
burchiellesco, 274 
bure. 371 

Ìurìai 46 . 519, 522, 582, 593, 596 
burino, 652 
Burlafave n. P-, 172 
burlare, 178 

barò, 519, 522, 582, 593 596 
burocratico, stile, 363, 399 
burrasca, 480 
barrino, 652 
burro, 33, 374, 376, 434 
burro, 522 
bursa pastoris, 499 
Burschenschaft, 665 
bus e bas, 297 
buscare, 381 
busta, 380, 580 

butirro^butiro, buttero, 33, 258, 374, 
376, 419, 434 

c palatale: pronunzia, 208 
c velare alternante nella grafia con 

c cori valore di z o alternante con z, 
259, 341, 343, 480-481 

ca «che», 151 „ 

-co-, formazione del plurale, 353 

cablogramma, 662 
cabriolè, 519 

cacao, 384 

cacchio, 28, 44 
cacchione, 44 
Caccia, F., 484 
cacciaffanni, 439 
cacciatorpediniere, 664 

cacciò,, 447 
cachinnare, 278 
cacio, 373 
cacofonico, 369 
cacto, 502, 517 
cadetto, 379 
cado, 576 

cadrega «sedia», 34 
caduno, 34 


Indice alfabetico 


689 


cafaggio, 79, 80 
caffè, 383, 430 
caffeàus, 524 
caffè concerto, 661 
caffeista, 437 
cafise, 101 
cafone, 653 
cagliare, 382 
cagnazzo, 273 
caimano, 384 
caina, 273 

caiserlicchi, 573, 598 
cala, 381 
calamita, 386 
calamitico, 437 
calamo, 278 
calangiare, 219 
calappio, 480 — 

calare, 33 
calato, 371 
calce, 33 
calcedro, 273 
calcio, 577, 603 
calco, 47 

calcolo, calculo, 278, 503 
calde alesse, 372 
calde arroste, 372 
Calderari, 572 
caldo, 27 
caleffare, 272, 375 
-cale gara, 28 
caleghèr venez., 152 
caleidoscopio, 578, 592 
calesse, -o, 430, 446, 481 
calla, 375 

calle «cammino», 540, 543, 654 
calle ven., 481, 511 
■ califfo, 164 
Calisso, Calipso, 581 
Calliope, 179 
calmella, 499 
Calmeta, V., 312 
calmiere, -o, 511 
calmo «innesto», 372 
calòfaro, 498 
calogna, 508 
calorico, 579 
calòro, 220 
calosce, 594 
calotta. 519 
calumare, 82 
calura, 153 
calzabraca. 270 


calzaturificio, 644, 651 

camaglio, 159, 654 

camarilla, 598 

camarlingo, 159 

cambiale, 497 

cambiare, 31 

cambia-valute, 497 

cambio, 153 

cambio secco, 153 

cambista, 505, 517 

camelo, 481 

camera, 33 

Camera «erario», 153 

Camera del lavoro, 639 

Camera di commercio, 497 

camiciluìola, 434 

cammello, 481 

cammino, 31, 626 

camomilla, 498 

camorra, 653 

camoscio, 31 

camperello, 434 

Campidoglio, 367, 659 

campione, 35 

campitello, 434 

campo Un sull, 595 

camporeccio, 434 

Canal, P., 346 

Canale, Martino da, 120 

canapè, 446 

canapificio, 644 

canàr, 476 

cancan, 66 1 

cancrena, 33 

candiero, 445 

candore, 431 

cane, 27 

canèa, 584 

canestro, 33 

Canevazzi, E., 623 

cannibale, 384 

cannone, 432 

cannutiglia, 381 

cano, 218 

canoa, 384 

canonista, 155 

canoro, 369 

canoto, -otto, 523 

causare, 28 

cantambanchi, 228 

cantare, 36, 38 

càntaro, 33 

cantaro, 163 



690 


Storia della lingua italiana 


Indice alfabetico 


691 


cantiere, 45 

c antipiangere, 439 

Cantori Ticino, 602, 624 

cantoniere 661 

canzirru it. mer., 81 

canzonieri antichi, 124-129 

caparbio, 509 

caparrare, 584 

capezzale, 434 

capibile, 505 

capigliara, 272 

capitalista, 497, 517 

capitanio, 586 

Capitano, 361 

capitello, 213 

Capitolio, 319, 367, 659 

capitolo, 155 

capitonné, 661 

capo, 38 

capòc, 447 

capo d'opera, 477 

capolavorare, 644 

capolavorazione, 644 

càpolo, 278 

caporale, 386 

Caporali, C. 372 

capote, 640 

cappa, 372, 587 

cappella, 72, 74 

cappellinaio, 626 

cappello a cilindro, a staio, 

Capponi, G., 553 

Cappuccini, G., 622 

cappuccino, 362, 386 

cappuccio, 385 

caprifoglio, 373 

caprimulgo, 235 

capripede, 513 

capro, 546 

capsola, 518 

captioso, capzioso, cazioso, 
captivare, 657 
Capucottu soprann., 94 
car, 279 
carabina, 372 
Caracalla, 18 
carace, 137 
caracollare, 444 
caracollo, 444 
Carafulla, 331 
caragolo, 444 
càrama sic. ant., 124 
caramella, 646 


caramessa, 383 
carato. 163 
caratteristica, 659 
caratterizzare, 517 
caravaggia, 272 
Carbonari, 572 
carbonico (acido), 499 
carciofo, 163, 164, 270 
Cardano, G., 290, 385 
cardinale, 170 

Carducci, G„ 604, 609, 612, 613, 620, 
648, 655 

carena, 165, 367 
Carena, G. 552, 556 
carezzevole, 509 
cariato, 515 
caribo, 160 
caricare, 36 
caricatura, 430 
carina, 367 
cadiìolio ) it. sett., 30 
carità, 72 

Carlino, M. A. A., 329 
Carlo Alberto, 535 
Carlo Emanuele I, 407 
Carlomagno, 62 
carminare, 586 
carnaggio, 279 
Cameade, 580 
carne da cannone, 573 

576 Caro, A., 301, 306, 372 

carogna, 36, 587 
carolingia, epopea, 115 
carosello, 375 
carota, 408 
carotaio, 408 
carraia, 36 
carriera, 445 
carro (carrus), 31 
carroccio, 153 

517 carro di fuoco, 543 

carrozza, 448, 579 
carta, 33 

carta bianca (dar), 521 
cartellevole, 364 
cartiglio, 381 
cartone, 386 
caruncula, 442 
caruso, 653 
casa, 43 
casamatta, 386 
cascabel, 524 
cascare, 30 


casco, 381 

caseggiato, 572, 584 
caseificio, 644 
casellario giudiziale, 640 
caserma, 445, 448 
casermaggio, 593 
casino, 525, 599 
casista, 437 
caso morto, 583 
caso vivo, 583 
cassazione, 590, 593 
cassero, 163 
casseruola, 594 
cassetta, -o, 650 
càsside, 278 

cassinese, cultura, 84, 90-93 

cassinese, ritmo, 104-106 

cassinesi, placiti, 90-93 

cassitèro, 589 

casso, 375 

casta, 385 

castaido, 80 

castelli in aria, 272 

Castelvetro, L., 330 

caste suore, 455 

castigare, 377 

Castiglione, B., 304, 314-315, 340, 372 

Castore , 216 

Castra, 134 

castrameinltato, 278 

castrapensieri, 574 

castrica, 499 

cata-, 273 

catacogliere, 273 

catalano, 188 

catalogato, 578 

catapano, 82 

cataratta, 277 

catasto, catastico, 152, 158, 268 

catasto prediale, 497 

catastrofe, 361 

catedra, 626 

catena, 31 

catenaria, 514 

catenone, 137 

cateto, 365 

catoio, 273 

catolico, 562, 581 

catello, 372, 588 

Cattaneo, C., 548 

cattivo, 46 

catuno, 34 

Caucaso, 403 


caudatario, 386 
caunoscere, 131 
causa, 155 

causativo (causativus), 155 
cavagnola, 511 
Cavalcanti, Giov., 274 
cavalcioni, 318 

cavaliere, -iero, 159, 366, 373, 581 

cavalleria, 366 

cavalleria, 84, 158-159 

cavallo (caballus), 39 

cave, 383 

cavestro, 614 

cavezza, 221 

cavezzo, 165 

caviale, 270 

Cavour, C., 535 

cavurrino, 647 

cazza, 372 

CE, ci lat., 25, 55, 68 

ce, ci pron., 207 

Ceccoribus, 297 

cécènè it. mer., 45 

cécero, 218„ 408 

ceciliano, 116 

cecino, 583 

cecubo, 656 

cedola, 596 

cefalo, 33 

Cefalogia, 405 

celabro, 367, 587 

celare, 219 

celebriore, 590 

celebrità, 575 

celerifero, 574, 577 

celestìo, 137 

Celispicio, 432 

cella, 72 

cellula, 442 

celluloide, 641 

celone, Ì60 

celtico, 17 

cembalo scrivano, 578 
cengia, 651 
cennamella, 160 
cenno, 30 
ceno «fango», 218 
cenquaranzeesimo, 433 
censimento, 497 
censire, 442 
censo, 218 
censura, 529 
centaurico, 505 


692 


Storia della lingua italiana 


Indice alfabetico 


693 


Centoia, 29 

centraco, cintraco genov., 82 

centralizzare, 572, 578 

centralizzazione, 578 

centrica, 270 

centrico, 278 

centrifugo, 514 

centripeto, 514 

centurione, 591 

ceraldo, 279 

cerasa, 372 

cerbiesco, 274 

cerebro, 367, 377 

cerimonia, 420 

cerimoniale, 429 

cerniera, 519 

cerqua, 273, 372 

cerretano, 268 

certame,271 

Certame coronario, 223, 240-241 

certano, 219 

certare, 278 

certificato, 612 

Certosa, Certrosa, 160 

ceruleo, 656 

cenilo, 277, 613, 656 

cerume (cerumen), 155 

cerusico, 33, 367, 377, 443 

cervela, 258 

cervellata, 385 

cervelliera, 159 

cervello, 45 

cervo, 27 

cervogia, 32, 160 

césano, 435 

Cesari, A., 537, 544, 554 
cesarismo, 591 
Cesarotti, M., 464, 465 
cespugliare, 437 
cestinare, 641, 643 
cesto d’insalata, 453 
cestone, 137 
cetera, 174 
cetonia, 645 
cetra, 33, 174, 542 
c etto, 106, 137 

eh grafia con valore palatale, 
146, 207, 259 

eh nei latinismi e grecismi. 259, 
348, 420, 628, 659 
chanteuse, 661 
charmant, 522 
chauffeur, 640, 661 


che, 27, 70, 93, 488, 565 

che (nel tipo «che bello!»), 428 

che sottinteso, 267, 358, 569 

check, 641, 664 

chelae, 517 

chelleana, 664 

chente, 313, 375, 437 

chèque, 641 

chermisi, 220 

Cherubini, F., 556 

Cherubo, 631 

chi, 565 

chia (cià « tè»), 385 
chiacchierare, 551 
chiana, 31 
chiaro scuro, 270 
Chiaruzzi, G., 343 
chiasso, 73 
chiassuolo, 73 
chiavaro, 434 
chiazzare, 75 
chic, 662 
chicane, 522 
chicca, 583 
chicchera, 384 
chieresia, 587, 588 
chierico 34 
chiesa, 34 
chietino, 363 
chifel, 524 
chignone, 519 
chilo, chilo, 593 
Chimenti, 367 
chinachina, 445 
chincaglie, 446 
chincaglieria, 520 
chiocciola, 33 
chioccolare, 642 
chiòchena, 372 
chionzo, 75 
chiosco, 382 
chiòvina, 582 
chirieleisonne, 276 
chirurgia, 377, 480 
chirurgo, 367, 377, 443 



chissà, 627 

127, 

chiuso, 40 


cholera, 582 

347- 

ghu, chu, 110 


ci + voc., grafia alternante con ti + 
voc., 259 

ci aw. di luogo, 487 
ci pron., 102 


- eia formazione del plur., 631 

cià «tè», 430 

ciaccona, 444 

ciamberga, 430, 444 

ciamberiera, 219 

ciambra, 159, 220 

ciana, 495 

ciancellare, 121 

ciancioso, 194 

ciao, 651 

Ciarlon imperiere, 188 
ciausire, 129, 131 
cibo, 156 
cicada, 341, 367 
cicala, 272, 276, 367 
cicana, 520, 522 
ciccherà, 384 
cicchetto, 651 
ciccia, 504 
cicerbita, 489 
cicerone, 431, 525 
ciceronianismo, 225, 285 
Cicilia, 218, 276 
ciciliano, 218, 276 
cicisbeatura, 503 
cicisbeismo, 505 
cicisbeo, 437, 495, 525 
Ciclismo, 603, 643, 658 
cicloide, 437 

cicorea, 498 

■cida, 440 
cielo, 27 

Cielo d’ Alcamo, 124 
ciera, 129 
ciferà, 408 
cifra, 163 

cifre arabiche, 163 
cifrane, 595 
clga.ro, 582 
cigno, 408, 435 
cignone, 519 
cilecca, 313 
ciliegia. 376 
ciliegio, 33 
cilindro, 576 
cima, 33, 453 

cimbalicrotalitimpanizzando, 439 
cimiero, 543 

Cimminelli, Serafino, 253 
cincinno, 590, 656 
cine, 642 
cinema, 631, 642 
cinematografo, 642, 646, 656 


cinguettare, 318 
ciniglia, 519 

cinquansei, -zei, 264, 487 
cinquanzettimo, 487 
cinquecentesco, 504 
cinquecentista, 517, 644 
Cintoia, 29 
ciocca, 580 

cioccolata, -lato, -late, -latte, 430, 444 
481 

ciottolo, 434 
cipero, 589 
ciperoide, 498 
circolazione linguistica, 21 
circollocuzione, 581 
circonferenza, 218, 270 
circonflesso, 369 
circospezione, 369, 412 
circostanza, circonstanza, circonstan- 
zia, ecc., 480, 576 
circuminessione, 590 
ciregia, ciriegia, 376 
ciriffo, 271, 279 
cirimonia 480 
cirro, 179 
cirrosi, 577 
cirugia, 377 
cirugico, 443 
cirurgia, 480 
cirusia, 480 
cislonga, 593 
cistula, 278 
Citolini, A., 331, 338 
citta, 412 

Cittadini, C., 322, 327 
cittadino, 571 
cittimari sicil., 34 
ciurma, 378 

civanza, 153, 160, 220, 318 
civetta, 272 
civiera, 372 
civilizzazione , 578 
civire, 220 
civismo, 571 
ciucca «zucca», 341 
ciuffo, 79 

Ciullo d’Alcamo: v. Cielo 
ciurlare nel manico. 584 
clade, 278, 371, 589 
claque, 661 
claretto, 380 
Claricio, G., 342 
classicisti, 536-540 


694 


Storia della lingua italiana 


classico, 574 
claudicare, 218 
Claudio, Claudione. 416 
clava, 277 
delia, 495 
Clemente, 367 
Cleopatra, -tràs, 216 
cliché, 661 
clima, 156 
clinica, 369 
clinico, 514 
clipeo, 656 
clisciano, 571 
clistere, 443 
clivoso, 371 
cloro, 577 
cloroformio, 577 
club, 593 

-co: formazione del plurale, 208, 263, 
354, 424, 486, 563, 564, 631 
CO, eco, 93 
co-academico, 505 
coalire, 371 
coalizione, 515 
cobalto, 525 
cobolto, 525 
cocaina, 642 
coccarda, 446 
cocchetta, 518 
cocchetto «bozzolo», 511 
cocchio, 383, 541, 543, 587 
coccia, 38 
cocciniglia, 384 
cocciuto, 513 
cocco, 385 
coccone, 499 
cochetta, 477, 518 
cochetteria, 518 
cochetto, 220 
cocotte, 661 
coda, 24 

codafestante, 579 

Codice Napoleone, 528-529 

codicillo, 155 

codino, 573 

coerente, 442 

coesione, 514 

cofano, 33 

coffaro Icoffarum), 164 
cofrefort, 476 
cognitore, 278 
cogno, 28 

coinè veneto-lombarda o padana, 140 


colazione, 626 
colera, 582 
colezione, 626 
colla, 33 
collabo, 656 
collacrimare, 278 
collasso, 645 
collaudare, 366 
Collenuccio, P., 343 
colleppolarsi, 372 
colletta, 36 
Collodi. C., 648 
collotorto, 363 
collustrare, 278 
colmo, 613 
Colocci, A., 313 
colombeggiare, 438 
colonia, 516 
colonnello, 269, 386 
colono, 650 
color di rosa, 574 
colpo, 33 

colpo di mano, 521 
colpo di testa, 663 
colpo d'occhio, 477, 521 
coltello, 36 
coltrice, 485 
cóltro, 36 
coltura, 367, 626 
colubro, 179 
colza, 596 
coma, 364 
comacino, 54 
comburere, 589 
comere, 219 
comfort, 597 
cominciare, 37, 161 
comincio, 152 
cominzare, 129 
comitato, 593, 597 
— còmito, 68 
comizio, 664 
comma, 364 

commedie con personaggi dialettali, 
308-309 

commensurare, 179 
commerciale, 590 
commerciante, 595 
commercio, 452 
commercio, commerzio, 480 
comminazione, 442 
commissione, 591, 597 
commodo, 481, 562 


Indice alfabetico 


695 


commorare, 278 
commune, 581 
comò, 593 
comodo, 481 
compagno, 35, 639 
comparabile, 369 

comparativo con complemento pos- 
sessivo, 150 

comparativo rinforzato, 357 
comparativo sintetico, 26, 148, 263, 
590 

comparsa, 448 
compatriota, 218 
còmpedi, 371 
compensa, 579 
competente, 431 
compilare, 368 
compitare, 154 

complemento di materia, 211, 266 
complettere, 219 
complimentare, 364 
complimento, 380 
complire, 380 
componitura, 270 
«Compositiones Lucenses», 60 
compositore, 270 

composizione, 36, 37, 72, 152, 215, 364, 
438-440, 505, 579, 643-644 
composti: formazione del plurale, 
563-564 
comptoir, 662 
compungimelo, 587 
comunardo, 639, 661 
comune, 117, 145, 218 
Comuni, 84, 113, 153 
comunicare, 46 
comunione dei beni, 572 
comuniSmo, 591 
comunista, 572 
cona, 82 
conale, 273 
concento, 612 

concertare, -atore, -azione, 278 
concerto, 364 
concerto europeo, 573 
concettare, 428 
concettino, 428 
«concetti predicabili», 397 
concettismo, 399-406 
concettizzare , 428, 438 
concetto, 428 
concettuzzo, 428 
conchiudere, 367 


conciare, 30 

«Concilio della lingua», 332 
concinnità, 277 
conciossiaché, 509, 654 
conciossiacosaché, 509, 654 
conciossiafossecosaché, 509 
conciossiamassimamenteché, 509 
concludere, 367 
concorrenza, 497, 515, 520 
concubina, 217 
concubinesco, 364 
condaghe, 82 
condegno, 217 
condensare, 442, 645 
condeputato, 506 

condizionale ( conditionalis ), 155, 364 
condizionale: forme, 70, 105, 109, 128, 
131, 136, 141, 149, 177, 191, 200, 265’ 
356, 426, 489, 568 

condizionale semplice e condizionale 
composto: uso, 569 
condominio, 442 
condor, 384 

condurre ( conducere ), 38 
condutto, 191 
conestabile, 159 
confabulare, 218, 551 
confetti, 599 
Confienza, 29 
confort, 597 
confortare 47 

confortarsi cogli aglietti, 588 
conforto, 597 
Confraternite, 115 
confrustagno , 382 
confutare, 506 
Confuzio, 481 
congedare, 520 
congelazione, 271 
congeniale, 644 
congenito, 369 
congerie, 369 
congettura, 480 
co nghiettura, 480 

congiuntiva Iconiunctiva), 155, 215 
congiuntivo: usi, 266-267, 636 
congiunzione, 364 
congratularsi, 506 
congregazione, 363, 522 
congressista, 643 

coniata, 511 __ 

conjet'ura, 480 
conlineario, 278 


696 


‘Stona della lingua italiana 


Indice alfabetico 


697 


connubio, 277 
conoide, 442 

conoscere Icognoscere), 37, 38 
conquibus, 367 
conscendere, 278 
conscienza, 626, 659 
consecrare, 191 
consegna, 579 
conservatore, 572, 591, 597 
conservo, 179 
consiglio, 363 
consimile, 218 
consolante, 520 
consolato del commercio, 511 
consolazione, 156 
console, 111, 155 
consonante, 364 

consonanti intervocaliche sorde di- 
ventate sonore, 68, 262 
consonanti scempie e doppie, 26, 206, 
260, 352, 423, 560, 562 
conspetto, 626 
consulente, 442 
consuntivo, 579, 591, 593 
contabile, 595 
contabilizzare, 640 
contadino, 153, 360 
contado, 153 
conte, 45, 68 
contemplo, -tempio, 367 
contennendo, 371 
contento, 219 
contessa, 36 
contezza, 375 
Conti, A., 648 
continente, 369 
contingente, 515 
continovare, 508 
continuo aw., 367 
continuo sost., 381 
conto corrente, 519 
contrabbando, 511 
contraccolpo, 446 
contraddanza, 523 
contradio, 412 
contraporre, 581 
contrappasso, 180 
contrascossa, 574 
contrassegno, 434 
contrattempo, 365 
contrea, 279 
controllare, 593 
controllo, 572, 576, 593 


controllore, 593 
controsenso, 594 
convellere, 442 
convento, 587 
convergenza, 645 
convergere, 432 
conviziatore, 219 
convizio, 219 
convolo, -oglio, 379, 446 
coobare Icohobare), 155 
copello, 160 
coperto, 661 
copicco, 504, 525 
copone, 596 
coppa, 586 

copparosa ( cupri rosa), 155, 382 
coppo, 372 
coprifuoco, 219 
coraggio, 129, 317, 481 
corale, 129 
coralleggiare, 438 
coralloide, 505 
coramvobis, 367 
corazza, 221 
corazzone, 445 
corda, 33 
cordaggio, 595 
cordigliere, 160 
cordoglio, 34 
core, 133, 434 
coriandolo, 646 
coricare, 42 
coricida, 440 
corifeo, 369 
corimbifero, 499 
, corina, 129 
cormentale, 579 
cormorano, 594 
cornice «cornacchia», 219, 367 
cornucopia, 404 
corolla, 501, 514 
corpo, 174, 318 
corporale, 155 
corporazione, 571 
corredare, 78 
corredo, 77 
correligionario, 438 
corrente ( essere al), 595 
correntista, 640 
correre, 27 

correttori tipografi, 342-344 
corret torio, 278 
correzionale, 571 


correzione, 348, 571 

corrida, 598 

corridore, 375, 387 

corrispondenza, 288, 392 

corse, 576, 594 

corsetto, 159 

Corsica, 450, 558, 602 

corsiero, 437 

corsiere, 159 

corte ( fare la), 521 

Corte di Cassazione, 572 

corteare, 161 

cortice, 278, 613 

Corticelli, S., 466, 554 

cortigiana, 359, 385 

cortigiana, lingua, 306-307, 312-319 

cortigiano, 385 

cortina, 34 

cortonese, 405 

cosa interrog., 565 . 

coscienza, 155 

coscritto, 590 

cosimesco, 274 

Cosimo I, 333 

cosmologia, 440 

cosmopolita, 496, 516 

cosmopolitia, 590 

cosmopolitismo, 450 

coso, 539 

cospicuo, 442 

cospissarsi, 371 

costì, 316 

costinci, 316, 376 

costituente, 571 

costituito, 571 

costituzionale, 516, 572, 591 

costituzione, 580, 597 

costole lavere alle), 588 

costuma, 220 

costume, 447 

cotechino, 585 

cotesto, 316, 355, 425 

cótica, 436 

cotichino, 585 

cotoletta, 476, 519 

cotone, 163 

cotonificio, 644 

cotorera, 445 

cotozare , 137 

cotta, 81 

cotteria, 518 

cottìo, 652 

cotto, 365 


cottola, 221, 511 
coturno agg., 278 
coulomb, 624 
coup de tète, 662, 663 
coupon, 596 
couvert, 661 
covare, 44 
covercefo, 159 
covetta, 500 

covricelo, -cefo, 121, 159 

crai, 272 

craice, 382 

crampo, 594 

cravatta, 576 

crazia, 382 

creanza, 380 

creanzuto, 504 

creare, 380, 659 

creato, 380 

crebro, 341 

credenza «armadio», 6 
credenza «fede», 23 
credenziale, 269 

credere: la forma creo, 131; significa- 
to, 191, 613 
cremazione, 658 
crena, 512 
crepare, 43 
crepuscolare, 641 
crepuscolari, 614 
cresima ( chrisma ), 34 
crestaia, 580, 650 
cretino, -ismo, 520 
cria, 317 

criminologia, 641 
crine, 512, 589 
crinolina, 576 
crisalide, 369 
crisolito, 631 
Crisolora, E., 188 
cristalleggiare, 438 
cristallizzare, 438, 645 
cristallo, 400 
cristeo, 443 
cristero, 443 
cristianesimo, 67 
cristianesimo, 17-19, 47 
cristiano, 47 
Cristo, 35, 155 
criterium, 658, 659, 663 
crittogama, 577 
crocaddobbato, 439 
crocande, 476 


698 Stona della lingua italiana 


crocciuolo, 419 
croce, 24 
Croce, B., 612 
crogiuolo, 419 
croio, 375 
cromatica, 442 
cronache, 142 
Cronoprostasi, 405 
cronotopo, 574 
crostaceo, 442 
crotalo, 278, 656 
cruciolo, 419 
crumiro, 639, 665 
Crusca, 334 

Crusca, Accademia della: v. Accade- 
mia della Crusca 
cruscata, 334 
cruscheria, 505 
cr lat. e suoi esiti, 25 
ct lat. diventato g palatale, 141 
cubarsi, 179 
cubebe, 220 
cucchiaio, -aro, 434 
cuccioleggiare, 438 
cucina, 475 
cucire (consuere), 38 
cuculio, 373 
cucurbita, 513 
cucuzzolo, 581 
cui: di cui, 488 
culbuttare, 477 
culla, 28 
cultro, 371 
cultura, 367, 626 
cumulo, -olo, 412, 581 
cuna, 217 
cunta, 180 
cuora, 435 
cuore, 434 
cupè, 519 
Cupido, 276 
cupio, 231 
cupola, 447, 599 
cupolino, 573 
cupone, 596 
curatela, 155 
curattaggio, 161 
curattiere, 161 
curiale, 170 
«cursus», 117, 144 
«curtis» e sua economia, 54 
curto, 191 
cuscino. 159, 434 



indice alfabetico 698 


cute, 441 
cuticola, 442 
cz grafia, 207, 259 
czar, 525 

da, 71 

dactilografia, 626 
daddoli, 539 
daddovero, 508 
dagherrotipia, 578 
dagherrotipo, 578 
daguerrotipia, 561 
daguerrotipo, 561 
data, 373 
D’Alberti, F„ 468 
Dalmazia, 558, 602, 624 
dama, 159 

damaggio, dammaggio, 161, 220 
damigello, -a, 159, 161 
damo, 539 
danaio, 508 
dandy, 597 

D’Annunzio, G., 610, 612, 613, 655-656 
Dante, 167-180, 243, 273, 315-317 
dantista, 214 
dappoco, 509 
dardo, 80 

dare-, forme: dato, 92; diede e dette, 
377 

dare opera, 538 
D’Arezzo, M., 307 
darsena, 152, 162 
darvinismo, darwinismo, 638 
Dati, C., 409, 416 
datore di lavoro, 664 
dattero, 33 
dattilografia, 626 
dattilògrafo, 578 
davantaggio, 121 
davanti, 37 
Davanzati, B., 327 
davvero, 412 
de «ne», 99 
dea, 390 

De Amicis, E., 607 
débàcle, 661 
débauché, 522, 596 
debocciato, 522 
debordare, 476, 520, 595 
deboscia, 522, 596 
debosciato, 477 
débrayage, 661 
début, 596 


debuttare, 663 

debutto, 594, 596 

decampare, 446 

decembre, 626 

decentramento, 627 

decetto, 137 

declinazione, 156 

declinazione del giorno, 611 

decollare, 661 

décolleté, 661 

decoramentale, 644 

decore, 369 

decoro . 369, 412 

decretalista, 214 

decretista, 155 

dedens, 219 

défaillance, 661 

deferente, 156, 442 

deferenza, 515 

defonto, defunto, 216, 419 

degaggiato, 521 

degezione, 216 

degnità, 504 

degno, 368 

degrado, 576 

deO -ùiscere, 278 

De Iennaro, P. I, 254 

deiezione, 216 

deista, 517 

deità, 390 

De Laugier, C., 557 
deleterio; 659 
deletto, 366 
delfino, 33 
deliberanza, 375 
delicato, 480 
delitto, 412 
Della Valle, P., 413 
Della Vigna, Pietro, 115 
delubro, 179, 540, 613, 631 
De Luca, G. B., 393, 411 
demaines, 379 
demanio, 159, 379 
démarrage, 640 
democrazia, 359, 494, 571 
demolcere, 371 
demopsicologia, 664 
Demostenes, 276 
demulcere, 371 
demum, 276 
denaio, 208 
Denina, C., 557 
dertsiore, 263 


dentale, 501 
deperimento, 520 
deperire, 576 
de plano, 217 
deponente, 26 
deportare, 576, 590 
deputatessa, 640 
deputato, 576 
derby, 663 
derenzione, 137 
deriva, 519 

derivazione, 35-37, 71-72, 152-153, 179, 
213-214, 273-274, 364, 437-440, 504- 
505, 578, 643 
dérive, 660 
dentiera, 219 
De Roberto, F., 609 
deroga, 437 
denata, 160 

De Sanctis, F., 535, 604, 606 

desbauciarsi, 380 

desco, 42, 216 

describo, 218 

désenchanté, 593 

desianza, 274 

desiderio, 156 

desidia, 278 

desinare, 160 

desinèa, 160 

despitto, 191, 317, 412 

despota, 611 

despot ismo, 494 

dessert, 519 

destinare, 390 

destino, 362, 390 

destra, 572, 579 

destriere, -iero, 59, 540, 541 

destrina, 577 

destroyer, 663 

destruttore, 592 

determinismo, 659 

detestando, 278 
detta, 160 

dettaglio, detaglio, 446, 477, 522, 576, 
633 

detto, 368 
devere, 191 
devoniano, 577 
dh grafia, 146 
di lat. e suoi esiti, 25 
di- per ghi-, 261, 352, 424 
di. forma, 68 
di appositivo, 210, 266 


700 


Storia aeila lingua italiana 


di partitivo, 210, 490, 569, 636 
diacattolicone, 433 
diacciare, 424 
diaccio, 424 
diacere, 424 
diafinicone, 433 
diagnosi, 514, 645 
diagramma, 645 

dialettalismi, 164, 197, 272, 371-377, 
510-513, 582-586, 648-653 
dialetti satireggiati, 134, 246 
dialetti: uso scritto, 201, 308-309, 406- 
407, 471-473 
dialetto, 369 
diametro, 270 
diana, 42 
diavolo, 155 

diavolo : fare il diavolo a quattro, 446, 
477 

diarrea (.Stappo toc), 514 
diatriontonpipereone, 433 
dibatto, 279 
dibonaiiìre, 161 
Di Capua, L., 414, 460 
dicare, 341 
dicasterdh, 516 
dicco, 220, 383 
dice, Dike, 656 
dicentramento, 627 
Diceosina, 516 
dicere, 319 
diceria, 218 
Dicomano, 29 
diecimo, 218 
dieresi, 483, 561 
Di Falco, B., 332 
difendevole, 364 
difensione, 341 
difesa, 36 

diffalta, 436, 508, 586 
difficile ( mostrarsi ), 521 
difficillimo, 263 
diffignere, 278 
dificio, 156, 218 
difterite, 577, 642 
digiuno, 47 
digno, 368 
digressione, 442 
digrossare, 157 
Dike, 656 
dilapidare, 590 
dilazionare, 505, 576 
dilettante, 525, 599 


dilicato, 480 
diligine, 583 
dilivrare, diliverare, 191 
diluculo, 217 
dimandare, 551 
dimenticare, 40, 506 
diminutivi, 274, 437, 455 
dimissione, 662 
dimostrativo, 329, 366 
dinamica, 432 
dinamite, 642 
dinamo, 642 
dindarolo, 585 
Dio, 150, 362 
Diocleziano, 18 
dipardio, 219 
dipartimento, 519 
dipégnare, 412 
dipintore, 218 
diploma, 495 
diplomatico, -a, 495 
dipoi, 37 
diportevole, 364 
di quella pira..., 575 
dire, 27 

direptione, 348, 371 

direzione, 348, 580, 595 

dirigibile, 643 

dinmere, 442 

diritto, 480 

dirozzare, 157 

diruto, 631 

dis-, 152, 273, 438 

disabbigliato, 518 

disabigliè, 518 

disacerbare, 191, 273 

disamabile, 438 

disanellare, 438 

disappassionarsi, -ato, 438, 504 

disartifizio, 438 

disascio, 129 

discender per li rami, 180 
discentramento, 627 
discifrare, 438 
disco, 441 
discolo, 218 
discorrere, 219 
discrime, 371 

discussioni sulla norma linguistica, 
309-328, 410-414, 459-466, 544-545, 
615-621 
disdoro, 380 
disebriare, 504 


Indice alfabetico 


701 



disferocire, 504 

Dodero (Capitan), 647 

disgruzzolare, 273 

doga, 33 

disguido, 584 

dogana, 163 

disiato riso, 180 

doganale, 572 

disimpegno, 380 

doge , 73, 221 

disinventore, 504 

dogio, 221 

disinvoltura, 380 

dolato, 341 

disio, 134 

dolce far niente, 525 

disiro, 134, 214 

dolcepiccante, 505 

dislodare, 273 

dolcipungente, 439 

dismalare, 180 

dolenti note, 195 

disonor del Golgota, 574 

dolimano, 383 

dispacciare, 381 

dolina, 651, 665 

dispaccio, 381 

dolomite, 577 

disperato è l'amor mio, 575 

dolzore, 153, 191, 317 

displicenza, 371 

domacavalli, 504 

dispaia, 592 

domani, 261 

dispotismo, 517 

domenica, 23, 36, 37 

disputa o disputa, 485 

Domenichi, L., 344 

dissaco, 498 

domestico, 580, 595 

dissenteria, 424 

dominò, 518 

dissipa o dissipa, 485 

don, 380 

distaccamento, 446 

donare «dare», 193 

distemere, 504 

donde, 37 

distillarsi il cervello, 428 

Doni, A. F., 324 

distintivo, 576 

Doni, G. B., 415-416 

distinto, 612 

donna avvocato, 640 

distrarre, 442 

donnadragone, 439 

disvassallarsi, 504 

donnaio, 504 

disviscerare, 438 

donne che studiano, 187 

ditirambici, composti, 439-440 

donne della torma, 195 

ditirambo, 397 

donneare, 161 

dito, 27 

dono di tempo, 153 

ditto, 368 

dónora, 375 

dittongamento di e ed o, 68-69, 127, 

donzello, -a, 159, 161 

130-132, 133, 141, 147, 202, 260 

dopo, 37, 419 

dittongo mobile, 351, 423, 485, 563, 

dopò, 419 

630 

doppia virgola, 629 

diva, 598 

doppiere, 159, 587 

divano, 383 

doppo, 343, 377, 419 

divenire, 598 

dorè, 220, 446 

divergenza, 645 

Doria, Percivalle, 121 

diversorio, 219 

dormire, 27 

divetta, 661 

Dortelata, N., 338 

divimare, 180 

dorura, 380 

divinitade, 155 

Dossi, C., 610, 629, 649 

divinizzare, 517 

dossier, 661 

divino, 272, 362, 390 

dottanza, 129, 587 

divisione in sillabe, 628 

dottare, 129 

divisionista, 641 

dottora, 640 

doario, 379 

dottore ( doctor ), 155 

dock, 598 

dottoressa, 640 

documentario, 658 

dottor Graziano, 361 


702 


Storia della lingua italiana 


dottrice , 640 
dottrina, 155 
dove, 37 

dovere modale, 212 
D'Ovidio, F., 618 
dozzina, 160 
draconiano, 658 
dragata, 274 
dragomanno, 163 
draisienne. Sii 
dramma musicale, 391 
dreadnought, 663 
drenaggio, 595, 597 
dreto, 341 

dreyfusardo, - ista , 639 
dritto, 480 
driturier, 219 
droga, 383 
droghiere, 647 
dromo ven., 158 
drudo, 129 
dubio, 581 
duca, 73, 82, 221 
ducato «moneta», 113, 154 
due e varianti, 208-209, 264, 354-355, 
424 

duecento, 626 
duello 217 
duenna, 382 
Duez, N., 417 
dugento, 626 
dugie, dugio, 221 
Dulcamara, 575, 580 
dulzuri sic. ant., 129 
duma, 665 
duna, 383, 500, 501 
duodeno, 215 
duolo, 36 
duomo, 43 
Dupré, G., 648 
dura, 152 
durazione, 508 
duttile, 515 

-e finale per -i, 253 
-e terminazione del plur. femm., 69 
-e terminazione del plur. di nomi in 
-e, 208, 263 
è ... che, 489 
ebeno, 443 

Eberardo di Béthune, 157 
ébloui, 660 

ebraici, caratteri, 106 


èbulo, 278 
eccentricità, 370 
eccentrico, 156, 370, 502 
eccepire, 590 
■ecchio, 274 
ecciso, 278 
echino, 270 
eclissi, 645 
economia, 482 
economia civile, 497 
economia politica, 497 
economista, 497, 517 
economizzare, 578 
e converso, 216 
edace, 656 
edelweiss, 665 
edereggiare, 438 
edicola «tempietto», 277 
edicola «chiosco», 658 
edificare, 155 
editore, 495 
editoria, 641 

editoria: v. arte della stampa 
edizioni espurgate, 283 
edo, 278 
educare, 370 
edurre, 514 
efebico, 656 
efficere, 371 
ef fìngere, 658 
e f flagrare, 371 
effrazione, 390 
égaré, 593 
Egeo, 403 

-eggiare, 36, 274, 152, 438, 505 

egida, 515, 520, 612 

Egitto, 624 

egli, 551, 564 

eglino, 149, 375, 564, 633 

eglogaio, 504 

egreferenza, 590 

egre soglie, 614 

egro, 587 

eguaglianza, 571 

ei «egli», 564, 633 

eiaculazione, 442 

elaborare, 442 

elasticità, 503 

elastico, 432 

ciato, 278 

elee, 32 

elcina, 273 

elegante, 370 


Indice alfabetico 


703 


èlego, 371 

elemosina, 72, 551, 650 
eletta, 611 
elettricista, 643 
elettrico, 432, 579 
elettrizzare, 503, 517 
elettroargentatura, 643 
elettropuntura, 643 
elezione, 638 
elicere, 541 
elimare, 278 
elio, 658 
eliocentrico, 514 
elisione, 563, 566, 630-631 
élite, 661 

Ella allocutivo, 263, 355, 633 
elle, 564 

elleno, 149, 564, 633 
ellissoide A 

■elio: plur. -ei, - egli , 208, 263, 424, 487, 
564 

elmo, 78, 543 
Elmo, 81 
elocuzione, 370 
elogio, 442 
elongarsi, 278 
elzeviro, 641 
emanazione, 442 
Emanuele Filiberto, 302, 332 
embrionale, 517 
embrione, 517, 645 
embrionico, 517 
emigrato, 571 
emigrazione, 571 
Eminenza, 429 
emolumento, 277 
emorroidi, 443 
emozione, 494, 515 
empiastro, 33 
empicomici, 644 
encamato, 137 
encefalite, 577 

enclisi, 66, 97, 151, 212, 260, 267, 353, 
357, 570, 637 
endecasillabo, 103 
éndice, 44 
energetico, 517 
energiaco, 517 
energico, 517 
energumeno, 218 
enervato, 278 
-engo, 71 
enguana, 221 


enisso, 590 
enologia, 516 
enopolio, 651 
entennenza, 137 
entòma, 367 
entomata, 179 
entragne, 508 
entrambi, 551 
entrasatto, 137 
entrave, 640 
entremets, 594 
entusiasmo, 370, 442 
enveloppe, 580 
■enza, 132, 134, 161 
Enzo, re, 126 
eocene, 577 
eolipila, 514 
epa, 376 
èpate, 589 

epiciclo, 156, 395, 502 
epidemia, 277 
epidimia, 277 
epigrafia, 536 
epilessia, 517 
epistilio, 270 
epitesi, 97, 100, 101 
epoca, 515 
epos, 659 
equare, 278 
equestre, 366, 412 
Equicola, M„ 312-313, 371 
equilibrio, 366 
equipaggio, 380, 446 
equità, 369 
equite, 366 

equivocare ( aequivocare ), 155 
equivoco, 155 
èquore, 278 

-er- da - ar vedi -ar- ed -er- 

erbido, 656 

erbolaio, 508 

erborinato, 651 

Ercules, 276 

Èrebo, 540 

eredità, 155 

■erello, 643, 581 

eremita, 34 

eremo, 34 

eretico, 156 

eretto, 219 

-erta, 437 

Eritrea, 625 

ermo, 34 


704 


Storia della lingua italiana 


■ero, 200 
eroe, 408, 504 

eroe della sesta giornata, 573 
erogare, 366 

eroicomica, poesia, 396 
eroismo, 437 
erotico, 514 
errante, 370 
erubescenza, 217 
erugine, 371 
eruscatore, 590 
es- ed ess-, 419-421 

esagerare, esaggerare, 370, 423, 429, 
581, 626 
esalato, 217 
esaltazione , 215 
esangue, 277 
esardere, 442 
esattore, 218 
esaurire, 513 
escamoter, 662 
escandescenza, 442 

-esco, 71, 152, 214, 274, 505, 644 

esempio, 216 

esercito, 156, 218 

esibizione, 516 

esilarare, 277 

esistenza, 218 

esizio, 278 

esofago, 398 

esoleto, 442 

esonerare, 277 

esorare, 278 

esordire, 156 

espansione, 645 

espettazione, 537 

espilare, 658 

espiscare, -442 

esploatare, 594 

esponimento, 587 

esportare, 497, 515 

esportazione, 497 

esposizione, 579 

espressione geografica, 573 

espurgare, 369 

■essa, 36, 71, 639 

Sr»»ò 6 24, forme antiche, 

esserle) - di casa, 650 

esso fatto, 276 

est, 381 

estasiare, 517 

esterno, 348 


estetica, 516 

estifero, 278 

estimazione, 586 

estimo, 152 

estollere, 541 

estone, 590 

estradare, 661 

estrarre, 497 

estrazione, 497, 520 

estremare, 576 x 

estremità (extremitas), 155 

estrudere, 442 

estruso, 278 

estuante, 278 

estuare, 656 

esuvie, 278 

et (60, 422 

etaira, 656, 657 

état d'àme, 662 

etcetera, 367 

etèra, 657 

etere, 515, 516 

eternale, 155 

eterno, 155 

eteroclito, 370 

etiam, 276 

etichetta, 429, 444 

eticità, 664 ... 

etimologica, figura 17 

etimologiche, grafie H7 347 349 

etimologiche, ricerche, 330, 416 

Etiopia, 191 

E topedia, 440 

etra, 506 

etruscaio, 504 

etruschi, vocaboli, 31 

etrusco, 16 

ettemo, 218 

-etto, 35 

eucalipto, 626 

eunuco, 218 

euritmia, 366 

eutanasia, 369 

eutrapelia, 217 

evadere, 590 

evaginare, 278 

evaporare, 218 

evenire, 278 

eversione, 343, 368 

evo, 613 

-evale, 214, 364, 505 
evoluzione e der., 638, 645 
evulso, 656 


Indice alfabetico 


705 


evviva, 541 
ex, 571 

exaltatione, 156 
exorare, 41 
exploiter, 594 
exprobrare, 278, 343 
ex tempore, 276 
«exultet», 105 
eziandio, 537, 586 

tabellare, 41 
Fabriano, carta di, 99 
facchino, 269, 385 
facciata, 386 
face «faccia», 148 
facere, 319 
facezia, 211 
fàché, 593 
facibene, 439 
facidanno, 439 
facile, 156 
facimale, 439 
facoltà ifacultas), 155 
fadiga, 419 
faeton, 594 
fagiano, 33 
fagiolo, 33 
faglia «fallo», 1?1 
faglia «covone», 372 
fagungio, 273 
faida, 77 
fàlago, 279 
falaise, 661 
falbalà, 518 
falbo, 78 
falda, 271 

Faldella, G., 610, 649 
faldiglia, 381 
faldistoro, 161 
faldone, 435 

falegname, fallegname, 373, 376, 434 
falerno, 612 
falò, 82 

falpalà, 496, 518 
falquiero, 279 
famedio, 640, 651 
fameglia, 221 
famigliarizzarsi, 438 
fanaticismo, 494, 517 
fanatico, 277 
fanatismo, 494, 517 
fancellina, 587 
fandango, 524 


Fanfani, P., 620, 622, 649 
fanfarone, 380 
faniente, 521 
Fanny, 524 
fantasia,- 599 
fantasima, 67 

Fantino da San Friano, 144 

fara, 51 

farad, 624 

faraone, 496, 519 

fardello, 163 

fare, 27 

fare : la forma fenno, 177 

faretra, 218 

far fanatismo, 575 

far furore, 575 

farmacia, 595 

farmacopea, 292 

far niente, 448, 525 

farsa, 279 

farse, 254 

farsi, 476 

far tremar le vene e i polsi, 180 

fasce, 442 

fascinazione, 611 

fascio, 646 

fase, 595 

fashion, 597 

fashionable, 597 

fasse «fasce», 195 

fassone, 279 

fastidio, 156 

fatale, 390 

fatalismo, 493 

fata morgana, 599 

fatica, -iga, 376 

fato, 362, 390, 541 

fattaccio, 652 

fatterello, -arello, 643 

fattibello, 152 

fatti compiuti, 573 

fattista, 437 

fatto ( esser ali, 521 

fattura, 448 

fatturo, 179 

fauta, 378 

Fava, Guido, 122, 142 
favata, 334 
favellare, 41 
favola, 24, 67 
fazenda, 665 
fazone, 129 
fazzolettata. 504 



706 


Storia della lingua italiana 



fazzoletto, 412, 434, 433 
Fagiuoli, G. B., 472 
febre, 319, 581 
febrile, 626 
fecola, 442, 515 
fede, 24, 362 
fedecommesso , 582 
federa. 75 
federalismo, 571 
federalista, 571 
federativo, 571 

federazione, 571 „ 

Federico II di Svevia, 113-114, 123 

fedine, 573 
fedire, 218, 654 
féerique, 594 
fégato, 33, 45 
feld-maresciallo, 598 
feldspato, 525 
«Fé lial», 140 
Feliciano, F., 251 
Felicita, 216 
felicitare, 520 
felspato, 645 

femmina, femina, 174, 481, 583, 626 

femmine da conio, 180 

fenerare, 278 

fenestra, 191 

fenestrella, 581 

fenice, 192 

Fenice, G. A., 346 

fenico ( acido ). 577 

fenomeno, 659 

feo, 220 . 

Ferdinando III d Austria, 418 

ferire, 45 

ferita, 72 

ferletta, 273 

ferma, 497, 519 

fermaglio, 159 

fermiere, 497, 519 

-fero, 516 

ferocia, 590 

Ferragosto, 509 

Ferrara, 227, 252 . 

Ferrara, Antonio da-, v. Beccan, An- 

tonio 

Ferrara, iscrizione di, 102 
ferraro, 435 
ferrea canna, 507, 540 
ferrovia, 577, 597 
ferroviario, 666 


ferrugine, 442 
ferry-boat, 663 
feruta, 375, 377, 436 
fesso, 653 

feticcio, -isce, -isso, 582 
feudalesimo, 57, 158 
feudo, 81 
fiaba, 24, 68 
fiàccaro, 519 
fiàcchere, 596 
fiacre, 594, 596 
fiamma, 192, 400 
fiammifero, 574, 576, 591 
fiasca, fiasco, 76, 78 
fiasco (teatri). 599 
Fiastra. scritta di, 99 
fiata, 540 
fibrilla, 540 
fiche, 522 
fichetto, 512 
-fido, 5, 644 
ficuna, 28 

fidecommisso, fidei- 582 

fidenziana, poesia, 295-297, 397 

federe, 654 

fiera, 23 

fiero pasto, 180 

Figaro, 575, 576, 580 

figlie dell'arco, 456 

figura Etimologica, 117, 144, 403 

figuro, 584 

filantropia, 571 

filantropo, 494 

filare, 41 

Filarmonici, 365 

filastrocca, 583 

filatelia, 642, 658 

film, 663 

filografia, 365 

Filolauro, 365 

Filomati , 365 

filosofia, 492, 647 

filosofia trattata in italiano, 290 

filosofie o, 493 

filosofismo, 493 

filosofo, 493, 647 

filugello, 221, 373 

fimbria, 656 

finaita, 75 

finare, 375, 376 

finca, 584 

finente, 137 



Indice alfabetico 


707 



Fiobbio, 29 
/toppa, 436 

fiorbellaccoglitri.ee, 506 
fior di sangue, 498 
fiore, 148, 151 
«Fiore», 120 • 

«Fiore e vita di filosofi», 144 
«fiorentino», 196-198, 244, 320-328. 

550-553, 615-620 
Fioretti, B., 414 
fior fiore, 612 
fioricida, 440 
fiorile, 582 
fiorino, 113, 154 
fioritura, 598 

Firenze, 181-182, 323-328, 604, 615 e 
passim 

Firenze: libro di conti del 1211, 101 

Firenzuola, A., 335 

firma idei lotto), 511 

firmare, 366 

Firpo, 81 

fiscella, 217 

fìscia, 519, 522 

fiscina, 43 

fisciù, 518 

fisco, 43 

fiscolo, -a, 43 

fisetere, 277 

Fisi, 656 

fisionomia, 581 — 

Asolerà, 651 
fisonomia, 581 
fissò, 518 
fistiare, 547 
fitoiatria, 440 
fitta, 583. 
fìtto, 219 
Attore, 278 
Fiuggi, 29 

fiume (flumen), 41, 318 
five o' clock tea, 663 
flaclcìone, 519 
Flagellanti, 115 
flagello, 513 
flailli, 179 
flambò, 595 
flambuese, 522 
flanella, 519 
fiavescente, 657 
flavo, 613 
flebite, 577 
flemma, 33, 599 


fleto, 261 

flirt, 663 

flogisto, 501, 515 

Flora, 404 

floreale (mese), 582 

floreale agg., 595 

Fiorio, G., 346, 374, 418 

Fiorio, M., 346 

floscio, 444 

flotta, 381 

flottiglia, 524 

fluvio, 278 

foco, 192 

focolare, 662 

fodra, 372 

foga, 43 

foggia, 161 

Foglietta, U., 299 

fogliettista, 574 

foia, 43 

foiba, foibe, 651 
Foixà, Jofre de, 126 
fola, 24 
folclore, 664 
folia, 317 
folklore, 664 
folla, 434 
fondaco, 163 

Fondi, elenco di redditi, 101 

fonografia, 646 

fonografo, 642, 658 

fontana, 36 

fontanella, 155 

football, 603, 663 

foraggio, 159 

forbottare, 588 

forcaiolo, 639, 644 

forcipe, 370 

forese, 587 

foresetta, 134 

foresta, 74, 80 

forestiere, 58 ì 

foriere, -ero, 159, 379, 428 

formaggio, 373 

formale, 155 

formazione di parole: v. derivazione 
-forme, 516 

formula, -ola, 581, 659 
Fornaciari, L., 538, 554 
Fornaciari, R., 621, 645 
fornaio, 511 
fornire «finire», 358 
f or riere, 278 


V 


708 


Storia della lingua italiana 


fortepiano, 525 
fortuna, 362, 390 
Fortunio, G. F., 328 
forra, 79 
forzore, 149 
Foscolo, U., 533-534, 


536 


fossile, 579 
fotografia, 578, 646 
fotoincisione, 643 
fotoscultura, 643 
foyer, 661 
frac, 596 
Fracassa, 361 
frale, 191, 506, 613 
framboesia, 519, 522 
framboise, 522 
frambuò, 519, 522 
frammèa, 424 
Franceschi, E. L., 607 
Francesco, san, 135 


francese, 4 ciltura= sua conoscenza e 

influenza, 89, 119-121, 172, 1 > 

301, 473-478, 623-624 

francesSS. 128-129, 158-161 193, 
219-220, 278-279, 378-380, 445-447, 
460. 530, 592-596, 620, 660-663 
Franchi in Italia, 53, 56-57 
franchi, vocaboli, 80-81 
franciscata, 56 
franco, 152, 448 
franco arciere, 278 
franco bollo, francobollo, 561 
franco combattente, 279 
francoitaliana, letteratura 199 
franco-latinismi, 446, 515-516 590, 
franco-provenzali, colonie, lu 
frangipana ( concia 1, 437 
franmassone, 522 
franzese, 480 
frappe, 270 
fraseggiare, 438 


frate, 154 

fratello, 36, 72, 154 
frateimo, 537 
fraternizzare, 438 


fratile, 364 
fratismo, 517 
fraticida, - cidio , 580 
fratricida, -cidio, 580 
frattempo, 594 
fraude, 377 


Fràulein, 665 
flebotomia, 547 
freccia, 376 
freddo, 27 
freddura, 428 
fregata, 388 
Fregoli, 647 
fregolismo, 647 
frenesì o, 137 
frenologia, 577 
freschetto, 599 
fresco agg., 78 
fresco Un, a), 213, 488 
f rezza, 376 
frezzoloso, 372 
fricandò, 476, 519 
Frimesson, 522 
frignone, 477 
frisare, 519 
frisatura, 519 
frisetto, 372 
frisore, 519 
fritturaio, 572 
friulanismi, 651 
Friuli, 251 
frivolo, 370 
frode, 377 
frodo, 152 
frontispizio, 277 
frontone, 448 
frottola, 189, 197 
frugale, 218 
frugare, 36 
frugoneria, 504 
frullar per il capo, 650 
fuciliere, 430, 437 
Fucini, E-, 648 
fuga, 386 
fulgetro, 278 
fulminante, 576 
fumarola, 599 
fumido, 613 
fumoir, 661 
funaro, 573 
funere, 231 
funzionare, 576 
funzionario, 572 
fuoco [focus 1, 41 
furbesco, 247 
furgone, 594 
furi «fuori», 131 
furiale, 644 
furibondare, 273 



Indice alfabetico 


709 


furiere, 379 
furiosamente, 520 
furtiva lacrima, 575 
fusetta, 447 
fusionista, 573 
fusoliera, 640, 651 
futa, 665 

fùteri (montare i ), 583 
futurismo, 611, 614, 643 
futuro indicativo: forme, 26, 70, 109, 
132, 149, 190, 200-201, 209, 264, 426, 
436 

g e gg, 352 

■ga: formazione del plur., 353 
gabbare, 134 

gabella, gabbella, 163, 434 
gabinetto, 379, 444, 446 
gafio, 75 

gaggio, 79, 80, 160, 179 
galante, 360 
galanteismo, 504 
galantuomo, 360 
galappio, 408 
galea, 82 

Galeani Napione, G., 465-466 

galenista, 437 

galigaio, 28, 152 

Galilei, G., 392, 398 

galileista, 437 

galleria, 378-379 

Galleria, 404 

galletta, 499 

galletto, 434 

gallicheria, 504 

gallici, vocaboli, 31 

galliamo, 278 

gallicismi: v. francesismi 

gallicume, 504 

gallo {stare ai, 412 

gallone «fianco», 272 

gallone «ornamento», 446 

gallume, 504 

Galluppi, P., 535 

galoppare, 80 

galozza, 372 

galuppo, 269 

galvanoplastica, 643 

gamba, 33, 45 

gambero, 33 

gambrossene, 373 

Gamologia, 516 

ganascia, 82 


Ganimede, 403 

garage, 661 

garantia, 582 

garantire, 81, 626 

garbo, 372 

garbo Idi), 650 

garsonnière, 666 

garga, 583 

Gargani, G. T., 588 

gargiolaro, 435 

garofano, 33 

garretto, 31 

garrire, 588 

Gartiera, 383 

garzoncello, 587 

gas, 577 

gastigare, 377 

gattaconiglio, 214 

gatto, 476 

gàttolo, 372 

gaudio, 156 

gaugio, 129 

gavazza, 588 

gazzerare, 583 

gazzetta, 361, 495 

gazzettante, 495 

gazzettario, 504 

gazzette: v. giornalismo, 451 

ge, gì lat., 25, 68 

gecchire, 134 _ 

geisha, 666 

Gelli, G. B„ 323 

Gello, 28 

gelone, 580 

gelosia, 271 

geloso, 34 

gendarme, 378, 448, 582 
genealogia, 395 
genere, 155, 364 
genere del maschio, 364 
gengiva, -la, 480 
genialoide, 644 
genio, 494, 520 

genitivi latini e loro tracce, 91-92, 148, 
150 

genovese di Rambaldo di Vaqueiras, 
109 

Genovesi, A., 471 
gente agg., 129 
gentedarme, 279 
genti di lettere, 520 
gentilezza, 134 
genzore, 129, 149 


710 


Storia della lingua italiana 


geocentrico, 514 
geografico , 437 
geologia, 440 
Georgio, 368 

gergo, 408 279 382-383, 

germaniSmi, 74-80, 22u, 

447, 524, 598, 6(55 659 

germano-latinismi, 

g erme, 645 

Gerotricamerone, 516 
gerrettiero 383 2QQ 2U 266 

f^SS- Tm- «>• 568 - 637 

gesso, 33 
gestazione, 645 
gestire, 658 
gesuita, 362 

SSttS* 3». 36 

gettone, 446 
geyser, 598 
gh- e -gl; 352 
ghelèr, 279 

ghetta italo-amer 664 
Gherardini, G., 555, 56 
ghette, 518 
ghetto, 362 
g bezzo, 28 
ghiacciaio,-^,, ati 
ghiandaia, 313, 373 
ghiandola, 480 
ghiara ricongelata 271 
Ghibellini, 113, 164 
ghigliottina, 561 
ghiora, 128 
ghiottone, 272 
ghiozzo, ghiozzo, 374 
ghipsoteca, 659 
ghirba, 639, 665 
ghiribizzare, 364 
ghiridone, 519 
ghirlanda, 270 

^iSazion, de. piar., 63. 

mi giacchio, 28 

| ISSSoZ Verona. HO 

HÉ giaguaro, -garo, 582 

fj'j Giamboni, Bon°. ll 4 ’ ^ 5 

HI Giambullan, P.. 323, 

1 | gianda, 341 

M | giandarme, 582 


Gianduia, 575 
gianduia, -otto, 65 1 
giannetta, 279 
giannetto, 279 
giansenismo, 469-470 
giardinaggio, 520 
giardino, 160, 520 
Giardino, 404 
Giarrettiera, 383 
giavanare, 585 
gibigianare, 651 
gibigianna, 651 

SSoTa Sommacampagna, .68 

gigaro, 31 
gigione, 647 
gi gotto, 380, 662 
Gigli, G., 461, 466 
Gilio, G. A-, 338 
gimnasta, 517 
g iranico, 370 
gin, 663 
gina, 375, 376 
ginestra, 31 
Ginipedia, 440 
ginnasio, 366 
ginnastica, 517 
ginnastico, 517 
ginnoto, 499 
ginocchio, 36 
ginseng, 447 
gioa, 366 

giobba italo-amer., 664 
Gioberti, V., 590 
giobia, 373 

giocare «sonare; recitare-, 520 
giocattolo, 580 
gioco di parole, 520 
giocolare, 378 
giocosa, poesia, 396 
giogante, 218 
gioia, gioì, S 10 - 129 
gioiello, 159 

Giordani, P-. S34J35 

Giorgini, G. d-, 6z<i 
Giorgio, 368 

giornale, 495 532 6Q3 

giornalismo, 451, 
giornalissimo, 643 
giornalista, 495 
giornea. 270 
giorno, 36 


Indice alfabetico 


71i 


giostra, 160 
giotto, 341 
giovanella, 134 
giovanesco, 504 
giovanetta, 134 
Giovanni da Viterbo, 143 
giove «giovedì», 373 
giovesco, 504 
Giovio, P., 318, 372 
giovola, 366 
gipsoteca, 659 

girandola «fuoco artificiale», 448 
girandola «raggiro», 587 
Girella, 580 


girellalo, 510 
~ Girolamo, 368 
Girolamo, san, 23 
girovago, 217, 218 
, giubba, 434 
giucco, 539 

giudeo-italiana, elegia, 100 
giudice di. pace, 593 
giudici, 183 

- giuggiolena, 162 
M giuggiolo, 33 

giulebbo, 270, 279 

- giulivo, 193 
giullare, 160 

, giullari, 89, 103, 114, 119, 183 
I giungla, 664, 666 
-giunta , 363 
giuntura, 364 
' : :igiurare, 520 
■T}.! -giurato, 595 
giuri, 593 

giuridici, termini, 431, 496 
'giustacuore, 434, 446 
. Giusti, G., 539, 575-576, 579, 582, 610, 
649 

' Giustinian, L., 249 
H^^itìstiniane, 249 
!l§| gfe grafia, 98, 207 
:.^0iglaio, HO 
f|gg§n<fola, -ula, 480 
‘ sare, 661 

a la lei», 355, 565, 633 

«a loro», 355, 425, 565, 633 
Brina, 577 

fa, gliofa tarant., 32 

le, gliene, 211, 355, 425, 487 

mmero, 254 

salo, 521 

ha, 390 


gloriale, 644 
gloriato, 137 
glorificare, 23, 47 
glossopetra, 501 
glottologia, 578 
gluma, 514 

gn lat. diventato nn, 136 
gn alternante con ng, 352 
gnaffe, 318 
gnaresta, 28 
gnene, 355, 425 
gnomo, 524 

-go: formazione del plur., 263, 424, 
486, 563, 564, 631 
goal, 663 
gobbo, 33 
goccia, -o, 374 
gocciola, 374 
godazzo, 75 
goden dacché, 279 
golare, 180 
Goldoni, G., 459 
goliardo, 655 
goliglia, 524 
golfo, 249 
gomena, 163 
gondola, 82 
gondoleggiare, 438 
gonfalone, 81, 159 
gonfaloniere, 640 
gonfia, 437 
gonfio, 376 
Gorgia, 424 
gorna, 372 
gota, 45 

Goti in Italia, 49-50 
goticismi, 75, 79 
gotico, 361 
governare, 33 

governo negazione di Dio, 573 

gozzo, 374 

Gozzi, C., 465 

gracilare, 642 

grada, 121 

gradino, 42 

gradizza, 272 

grado, 42, 271 

graffiare, 80 

grafìa, 146-147, 206-207, 259-260, 347- 
350, 419-422, 482-484, 560-562, 627- 
629 

grafologia, 642 
grafometro, 365 



712 


Storia della lingua italiana 


gramatica, 481 
gramma , -o, 571, 582, 593 
grammatica, 118, 154, 155, 481 
grammaticali, termini, 364 
grammatiche con esercìzi in volgare, 
119 

gramo, 75, 80 
gramuffa, 271 
grana, 651 
granaio, 40 
granata «bomba», 448 
granata «scopa», 626 
granatiere, 430 
grancévola, 436 
grande , 43 

grande di Spagna, 381 
grandinifugo, 644 
grandioso, 381 
Granelleschi, 465 
grangia, 160 
grano turco, 511 
gran pensante, 494 
granturco , 384 
grappa, 651 
grappolo, 580 
grassatore, 442 
grattacacia, 434 
grattacielo, 663 
grattare, 81 
grattarsi la pera, 584 
grattugia, 434 
grava. 31 
grave, 448 
gravenza, 193, 375 
grazìanesca, lingua, 297 
Graziano, 361 
Grazzini, A. F., 344 
gré (a), 417 

grecismi: vedi latinismi . 

grecismi in latino, 32-35 

grecità in Calabria e in Puglia, 17 

greco, 17, 57, 188, 192 

greggia, 174 

Gregorio Magno, 58 

grello, 121 

grembiule, 434 

greppia, 79 

greto, 79 

gridelino, 446 

grido di dolore, 573 - 

grifagno, 180 

griffa, 521 

grigio. 78 


Grigioni, 602 

griglia, 594 

grinfia, 79 

grinta, 79 

grinza, 79 

grinzume, 574 

grippe, 593, 594 

grissini, 585 

Gròber, G., 19 

grograno, 380 

grongo, 33 

grossecchio, 274 

grossezza, 520 

grotta, 33 

gruccia, 75, 79 

grumereccio, 79 

gu grafia per g velare, 100 

guada, 79 

guadagnare, 81, 520 
guado, 79 
guaglione, 653 
guagnelo, 218 
guaita, 81 
guadìtare, 81 
gualcare, 79 
gualcire, 80 
gualdo, 79 
gualoppare, 508 
gualuppo, 269 
guancia, 19 
guanciale, 434 
guantaio, -aro, 434 
guantiera, 586 
guanto, 81 
guarantire, 626 
guardacuore, 159 
guardaportoni, 505 
guardare, 81 

Guardati, Masuccio, 255-256, 258 

guardia, 78 

guardiano, 78 

guardina, 651 

guardinfante, 444 

guardo, 506 

guarentia, 582 

guarentigia, 582 

guarentire, 81, 626 

guarento, 81 

guari, 376, 412 

Guarini, B., 344 

guarire, 81 

guarnire, 81 

guastada. 159 


Indice alfabetico 


713 


guata, 316 
guatare, 81, 655 
guattero, 79 
gubbia, 585 
guchiarollo, 372 

Guelfi (e Ghibellini), 84, 113, 164 
guercio, 78, 414 
guerco Iguercus), 164 
guemire, 80 
guerra, 78 

guerrafondaio, 639, 644 
guerriglia, 381 
Guglielmo Figueira, 114 
Guglielmotti, A., 623 
Guicciardini, F., 304, 344 
guida, 597 
guidalesco, 79 
guidardone, 317 
guiderdone, 81, 586 
Guido Fava, 122, 142 
Guidotto, 143 
guidrigildo, 77 
guigliottina, 561 
guigne, 661 

Guinizzelli, Guido, 115, 130, 132-134, 
170, 171 
guistrico, 373 

Guittone d’Arezzo, 122, 143-144, 170 
guizzasole, 651 
gusto, 362 

Guyton de Morveau, L.B., 498 
h lat., 25 

h grafia etimologica, 147, 206, 335, 
347-348, 419-420, 482-483 
Ihìalare «respirare», 218 
balte, 593 
hangar, 640, 661 
harakiri, 666 

(hìebere «venir meno»,— 218 
Heliade Ràdulescu, I., 559 
Helioscopia, 432 
Herrico, Se., 410 
< hìiattola , 513 
IHÌieronimo, 368 
hiètamu calabr., 34 
high life, 597 
( hìipotrachelio , 270 
ihìolometro, 365 
ihìomicavallico, 439 
Ihìonorevole, 319 
honorificabilitudinitate, 178 
(hìorrevole. 319 


Ihìortulano, 368 
humus, 592 

i atona finale, 128 
■i terminazione del plur. masch., 69 
-i terminazione del plur. di femm. in 
-a, 208, 263 

i e / distinti nella grafia, 335-336, 349, 
421, 482, 560, 627 
i grafica dopo palatale, 560, 627 
-i- vocale copulativa nei composti 
441 

-i- per -e- protonica, 261 
-i- per -ie-, 147 
-ia, 82, 152 

Iacopone da Todi, 136-138 
iàculo, 179 
ialino, 657 

lancofiore, 193 “ 

iberismi, 219-220, 279, 380-381 443- 
446, 598, 665 
-ibile, 505 
ibis, 235 

ibridismo italo-francese, 119-120 

iceberg, 664 

-ico, 505 

iconomia, 482 

idolo, 390 

idrante, 659 

idrogene, -o, 582 

idrostammo, 432 

ieiuno, 215 

ie ed e, 191, 207, 262, 341, 351 
-ie- per -ia-, 147 
iemale, 657 
iera, 433 

■iere, -iero. 111, 152, 161, 200, 581 

iettatura, 513 

igiene, 577 

ignavia, 218 

ignicolo, 442 

ignivomo, 501, 543 

iguana, 384 

ih grafia per c palatale, 207 

ilare, 277 

ilatro, 31 

-ile, 274 

ilice, 613, 656 

■iliter, 367 

illacrimato, 578 

illecebre, 590 

illiberale, 370 

illodato, 578 


714 


Storia della lingua italiana 







illuminato, 493, 520 
illuminello, 651 
illuminismo, 493 
illustrazione, 575 
illustre, 170 
illustrità, 504 
imaginazione, 481 
imagine, 481, 551, 659 
imago, 541 
imbarcazione, 576 
imbastire, 80 
imbecillità, 590 
imbenarsi, 274 
imbonitore, 652 
imbriacare, 506 
Imbriani, V., 620 
imbracciare, 188 
immacolato, -maculato, 581 
immaginare, 423, 481 
immedesimare, 438 
immediate, 276 
immettere, 497 
immiare, 180 
immilanarsi, 504 
immillarsi, 180 
immissione, 497 
immitare, 423 
immitazione, 423 
immo, 276 
immobiliare, 572 
immorale, 516 
impagabile, 521 
imparadisare, 180 
imparare, 44 
imparnasare, 364 
imparziale, 516 
impassibile, 438 
impegno, 380 
impellersi, 590 

imperativi in coppia asindetica, 212 
imperativo, 149, 209, 635 
imperativo sostantivato, 137 
imperciocché, 653, 654 
imperfetto congiuntivo: forme, 70, 
209, 264-265 

imperfetto congiuntivo per condizio- 
nale, 267 

imperfetto indicativo: forme, 128, 131, 
149, 209, 264, 265, 341-342, 426, 489, 
567-568, 634 
impermeabile, 640 
imperocché, 653 
impiemontizzare, 639 


impio, 191 
impiparsene, 583 
impiparsi dell'Olanda, 549 
impoetico, 578 
impolare, 180 

impolminato, impolmonato, 508 

imponderabile, 578 

imporporare, 438 

importante, 515 

importare, 497 

impratarsi, 438 

impremiato, 578 

impresario, 598 

impressionista, 641, 661 

imprimere, 164, 270 

impromptu, 522 

impronta, 219 

improntare, 160 

impronto, 511 

improviso, 276 

improvvisare, 361 

improvvisatore, 495, 526 

in, 27 

in-, 152, 438, 578 
inaffettato, 578 
inalbare, 191 
inalzare, 481 
inarenare, 438 
Inarìme, 424 
inartigliare, 438 
inaugurale, 516 
inaugurare, -azione, 514 
incalescere, 442 
incalessato, 504 
incantare, 520 
incaparrare, 584 
incappellarsi, 273 
incapperucciare, 372 
incarnazione Uncamatio), 23 
incartamento, 640 
incatalettarsi, 504 
Scavallarsi, 504 
inchiostro, 33 
inciamberlato, 121 
incignare, 34 
incile, 277 
incinquarsi, 180 
incollatura, 661 
incolore, 218 
incombattibile, 505 
incombere, 589 
incompetente, 431 
incongruenza, 442 


indice alfabetico 


715 


incongruo, 442 

inconspicuo, 438 

incontro C incontra ), 37 

incorruttibile tincorruptibilisì, 37 

incrociare le braccia, 662 

incrocio, 643 

Scrunare, 274 

incubo, 631 

incutere, 442 

indagare, 442 

indagine, 442 

indelibato, 578 

indenaiato, 152 

India, 384 

indiano, 384 

indicativo in luogo del congiuntivo, 
636 

indifeso, 364 
indigente, 218 
indirizzo, 580 
indispensabile, 438 
indivia, 81, 82 
individualizzare, 578 
indovarsi, 180 
indovinello veronese, 63-66 
indracare, 180 
induare, 274 
induchessato, 504 
industre, 370 
industria, 515 
industriale, 595 
industrio, 370 
industrioso, 218 
inesatto, 578 
infermo, 513 
infemifocare, 439 
inferno, 36 
inficiare, 438 
infilosofico, 578 

infinito con suffissi flessivi, 210, 266, 
356, 490 - 

infinito: usi, 137, 267, 427, 569, 637 

infirmità, 626 

inflazione, 659 

influenza, 526, 599 

informare, 270 

infrangibile, 438 

infrangi-legge, 504 

infula, 215 

in futurum, 276 

ingaggiare, 519 

ingarzoriire, 438 

ingegnere, 43, 160 


ingegno, 43, 494 
ingenioso, 368 
ingesuitato, 505 
ingigliare, 180 

inglese in Italia, 477-478, 623-624 
inglesismi: v. anglicismi 
Ùngo, 71, 157 
ingombro, 31 
ingratitudo, 276 
ingualivo, 272 
ingurgitare, 218 
inibita, 442 
iniezione, 442 
iniziativa, 591 
inleiarsi, 180 
inlotare, 274 
inluiarsi, 180 
inn-, 581 
innaffiare, 30 
innaiolo, 574 
innalzare, 423, 431 
innanti, 588 
innaverare, 161 
innegabile, 505 
inneggiare, 505, 550 
innesto, 499, 501 
innoltrare, 481 
innondare, 481 
innubo, 590 
innutto, 590 
inobbedito, 578 
inoculare, 516 
inoculazione, 501, 503 
inoffensivo, 578 
inoltrare, 481 
inondare, 481 
inopia, 191, 613 
inreticellato, 504 
insalarsi, 313 
insalutare, 578 
insalvabile, 505 
insaputa talli, 594 
insegnamento, 183, 187-188, 285-286, 
529, 603 
insegnare, 44 

inselvatichirsi del latino, 19, 66 

insemprarsi, 180 

inservire, 658 

inserzione, 501 

insetto, 271, 277 

insignificante, 516 

insignita, 504 

insorgere, 523 


716 Stona della lingua italiana 


inspergere, 513 
inspirazione, 626 
installare, 446 
instellare, 438 
instituzione, 626 
instrutto, 343 
instruzione, 581 
insugherire, 574 
insurgente, 504 
insusarsi, 180 
{iìntamato, 129 
intando, 128 
intellettuale, 643, 658 
* Intelligenza», 120-121 
intendanza, 129 
intendente, 447 
intendere t 161 
interessante, 520 
interesso, 153 
interinare, 366 
internarsi, 180 
intero, 419 
interpellare, 370 

interpunzione, 206, 260, 349-350, 562, 
629 

interribilire, 438 
interview, 664 
intervista, 641, 664 
intiero, 419 
intimare, 47 

intransigente, 639, 659, 665 
intransitivo, 441 
intraprendente, 520 
intrapresa, 520 
intrare, 216 
Uìntrasatto, 128 
intravedere, 594 
intrearsi, 180 
introcque, 176 
introduzione, 497 
intromettere, 497 
introspezione, 641 
intrufolarsi, 652 
intuare, 180 
inurbarsi, 180 
inventari, 290 

inventario Unventarium), 47 
inventrare, 180 
invenzione prelibata, 575 
invernale, 364 
inverno, 36 
inviluppo, 580 
invironare, 520 


Indice alfabetico in 


invito, 219 
invitto, 218 
{invoglia, 128 
Iocondo, 341 
iodo, iodio, 577, 592 
ionadattica, lingua, 405 
Ionie, Isole, 558 
iopparello, 273 
love, 216 
iperbole, 395, 442 
iperboree sizze, 612 
ipersicilianismi, 131 
ipertrofia, 645 
iperurbanismi, 207 
ipocondria, 485 
Ipocràte, 216 
ippotamo, 235 
ipso facto, 276 

irreale, 611 

irredentismo, 639, 666 
irremeabile, 656 
irritabile, 515 
irsuzia, 513 
isbà, 665 

■isc- nei verbi, 425 
-iSenpón ven. sett., 665 
■ismo, 437, 517, 521, 643 
isoleggiare, 438 
ispettore, 576 
issa, 178 

■issimo con sost., 643 
isso fatto, 276 

■ista, 214, 437, 517, 521, 578, 595, 663, 
664 

■ista per -istico, 595 
istantanea, 642, 643 
■istico, 644 
istigare, 509 
istituire, 219 
istoriare, 157 
Istria, 624, 602 
istrione, 31 

Italia dialettale in Dante, 168 
Italia Q’1 farà da sé, 573 
italiana, cultura, in Europa, 344-347, 
416-418, 478-479 

«italiana», lingua, 243, 311-319, 328 e 
passim 
Italiano, 1 15 

italianismi in altre lingue, 385-388, 
447-448, 525-526, 598-599, 666 
italichesco, 504 
italiciano, 27 


■itano, 82 
■ite, 644 
■itide, 644 
iùiuma, 373 
Iulio, 341 
iustizia, 216 
ivernale, 191 

■izzare, 438, 505, 517, 521, 578 

/ lat. resa con i, g, gh, 352 

/: vedi «£ e j» 

jockey, 597 

joli, 522 

junior, 659 

Juradios, 380 

k grafìa, 93, 96, 100, 101, 146, 207, 
562 

k per g velare, 146 
karakiri, 666 
kaulin, 523 
kavaliere, 483 
Kellnerin, 665 
kimono, 666 
kinesiterapia, 656, 659 
ko, 93 
konak, 665 
krach, 664 
Kulm, 665 

Kulturgeschichte, 664 
Kulturkampf, 665 
Kursaal, 665 

l nei gruppi lat. «cons. + l» e suo 
trattamento, 69 
l per r, 261 
l per u, 207 
l pronunziata £, 352 
labbia , 134 
labbreggiare, 438 
labefattare, 442 
labere (labi), 179 
lacca «gamba», 512 
lacchè, 379, 446 
laciniato, 514 
ladro, 38 
Zagare, 174 
lagnarsi, 43 
lai, 180, 195, 273 
laidura, 153 
lambiccaboccacci, 365 
lambiccato, 428 
lambrecchia, 273 


Lambruschini, R„ 562, 616 
lamentata, 137 

«Lamento della sposa padovana», 
140 

lampada, 33 
lampaneggio, 588 
lance, 541 
Lancelot, C., 417 
lancia, 33, 543 
Lancia, ser Andrea, 199 
Landino, C., 241-242 
landò, 519 
Landoni, J., 588 
lanfogti, 383 
Lanfranco, G. M., 332 
Lanfranco Cigala, 121 
langoureux, 660 
lanificio, 5, 644 
laniglia, 381 
lanza, 128 
lanzi, 382 
lanziilchinech, 382 
lanzimanno, 382 
laonde, 653 
lapida, -e, 482 
Lapini, E., 346 
lapislazuli, 163 
lappole, 191 
larario, 589 
largo (mus.l, 448 
largo «piazzetta», 653 
larice, 31 
larva, 217 

Las Casas, C. de, 346 
lasciare (laxareì, 41 
lascio, 152 
lascivanza, 137 
lascivire, 658 
lasina, 436 
lassare, 412 
lassativa, 433 
lasso, 590 
lasta, 372 
lastima, 445 
lastrare, 174 
lastrico, 82 
latercolo, 513 

Latini, Brunetto, 115, 120, 122, 144, 
167, 170 

latinismi, 102, 106, 107, 109, 132, 144, 
154-158, 193, 200-201, 214-219, 231, 
274-278, 365-371, 441-443, 513-518. 
589-592, 655-659 


718 


Storia della lingua italiana 


latinità barbara biasimata dagli 
umanisti, 225, 298-299 
latinità medievale, 58-62, 73-74, 184 
latino e volgare, 85-88, 116-119, 171, 
183-187, 285-300, 392-394, 469-471 
latino insegnato per mezzo del vol- 
gare, 142 

latino volgare, 12-15 
latria, 179 
lattescente, 657 
laudare, 133, 318, 586 
laudari, 115 

Laurenziano, ritmo, 104 
lava, 500 
lavaggio, 595 
lavamano, 36 
lavina, 501 
Lavoisier, A. L., 498 
làzaro, 273 
Lazio, 203 
lazione, 442 
lazzarone, 444 
lazzeretto, -aretto, 581 
lazzi, 430 
leader, 597 
lebete, 642, 590 
lecca, 75 
lecchè, 379 
le/a, 75 
lega, 32 

lega operaia, 639 
legalità Uégalitas), 155 
legalizzare, 517 
Legalotre soprann., 152 
legge Tobler-Mussafia, 66, 97, 151, 
212, 267 

leggiadribelluccia, 439 

leggiadro, 134 

legione, 215 

legislatura, 516 

legista, 155 

legitimo, 581 

legittimista, 572 

legnaUuìolo, 373, 376, 434 

legname, 373 

legno santo, 384 

legume d’Aleppo, 507 

lei, 70, 208, 263, 355, 424, 487 

Lei allocutivo, 263-264, 355, 633 

Leitmotiv, 641, 665 

lekythos, 656 

Lelio agg., 274 

lemma, 365 


lenka emil., 28 
lenocinio, 277 
lentiggine, 28 

Lentini, Giacomo da, 115, 123 

Lentulo, Se., 346 

lenzola, 434 

Lenzoni, C„ 323-324 

lenzuola, 434 

Leo, 215 

Leonardi, D. A., 461 
leoncello, 213 
Leonida, 631 
Leonzio Pilato, 188 
Leopardi, G., 535, 590 
lepido, 277 
lepore, 215 
Lepòreo, L., 414 

lepre C aver più debiti della), 583 

lerfo genov., 79 

lero pron., 109 

lesela, 373 

lesina, 76, 78, 626 

lesionare, 643 

lesione, 442 

lessaio, 578 

lestofante, 433 

letale, 442 

letame, 41 

letteratessa, 640 

letterati come segretari, 284 

letterato, 457 

lettericidio, 516 

letto {guardare il), 521 

lettura Uectura), 155 

lettura in volgare di atti latini, 118 

letturino, 435 

leuto, 164 

levar le gambe, 583 
lev'innanzi, 330 
levre, 214 
levriere, 160 
Ih grafìa, 259 

li e gli particelle plur., 565 

liagò, 158 

liaison, 593 

liana, 661 

lias, 577 

libeccio, 163, 166 
libellula, 577 
liberale, 572, 591, 598 
libero, 152 

libero muratore, 522, 523, 572 
libero pensatore, 494 


Indice alfabetico 


719 


libero pensiero, 523 

libertà, 571 

libertaio, 578 

libertario, 639 

liberticida, 571 

libertino, -aggio, 429. 446 

Libia, 625 

libiano, 116 

libito, 179 

librazzo, 435 

libretto, 495, 598 

Libri, Matteo dei, 143 

libriccino della Madonna, 453 

libricciuolo, 495 

libro, 155 

libro da stampo, 270 
libro in forma, 270 
Libumio, N„ 329, 335 
lice, 541 
Liceo, 362 
Liceti, F., 393 
licitazione, 572, 576 
licito, 179, 216 
lidoca. 373 
lietofestoso, 439 
lievore, 214 
lievre, 214 
ligio, 81, 159 
lignaggio, 159 
liguri, vocaboli, 31 
ligustro, 31, 373 
liliale, 611, 644, 658 
lillà, 519 
Lilliputte, 524 
lillipuziano, 495, 524 
limbo, 218 
limiere, 595 

limitrofo Uimitrophus), 47 
limone, 164 
limòsina, 34, 551, 650 
lindo, 381 
linfatismo, 658 
lingeria, 446 
Ungi, 378 
lingotto, 661 
lingua, 34 

lingua e sua funzione sociale, 172 
lingua e sua stabilità, 172 
lingua franca, 559 

lingua parlata, 452-455, 533-535, 605- 
607 

linguaggio amministrativo, scientifi- 
co, ecc.: v. termini ecc. 


linguaggio forense, 457 
linguaggio poetico, 378, 456, 540-544, 
612-614, 620 

linguaggio teatrale, 456, 458-459, 610- 
612 

linguaio, 495 

linguistica, 578 

linguistica spaziale, 39 

Linneo, C„ 498 

liofante, 368 

lion, 597 

lione, 551 

lionedda, 586 

lionfante, 368 

liquido cristallo, 198, 541 

liquirizia, 33 

liquore, 520 

liricetra, 439 

lirismo, 658 

Lissoni, A., 555 

litografia, 578 

litro, 593 

littera, 368 

lituo, 513, 656 

liturgia in volgare, 287 

liuto, 160, 164 

livello, 28, 44 

livragare, 647 

lo riferito a frase precedente, 487 

lobbia «loggia», 78 

lobbia «cappello», 640, 647 

loc, 384 

locale, 584 

lo che, 355, 488 

lock OUt, 639, 664 

locomotiva, 577, 597 

loculo, 514 

Lodi, Uguccione da, 138 

logaritmo, 432 

loggia, 159, 666 

-logia, 516 

logico, 368 

logos, 656 

lograre, 419 

loico, 180, 368 

Lomazzo, G. P., 372 

Lombardelli, O., 331 

Lombardia, 199 

lombardismi, 511, 512, 585, 651 

lombardo, 51, 115, 199 

lombardo Sardanapalo, 574 

longiamenti, 129 

longicollo, 656 


720 


Storia della lingua italiana 


longo, 412 

Longobardi in Italia, 50-54 

longobardismi, 75-77, 79-81 

lonzo, .75 

loppa, 273 

lordò, 279 

loro, 70, 100, 424 

lor signori, 639 

Lotario, 62 

lotta, 36 

lotta di classe, 573 
lotta per la vita, 638 
Lovati, L., 115 
lubricare, 442 
lubrico, 429 

lucchese, ritmo storico, 106 

lucemino, 573 

lucertola verminara, 194 

lucignolo, 33 

luco, 656 

luetico, 644 

luffo, 75, 79 

luffomastro, 220 

luganica, 258 

lùgigìiola, 273 

lui, 70, 208, 263, 344, 355, 424, 487, 564 

Luigi XIV, 417 

luissimo, 427 

lulla, 176 

lumi, 493 

lumifero, 576 

luminello, 651 

Luna, F-, 331 

luna di miele, 596 

lunghesso, 508 

lungi, 38 

luni, 373 

lurco, 273, 573 

lusingarsi, 520 

lusso, 412 

lussuoso, 658 

lustrare, 47 

luterano, -iano, 362 

Luti, E., 550 

luttare, 216 

luvomastro, 220 

m lat. finale, 24 
ma, 99 

macabro, 594, 631, 662 
macadam, 596 
macca (a), 583 
maccaronata, 652 


maccherella «mezzana», 161 
maccheroni, 385 
maccheronico, 386 
maccheronico, 386 
macchiatolo, 238-239, 295-296 
macchinario, 641 
macchinista, 642 
maccione, 99 

macellaio, macellaro, 434, 499 
macello, 650 

Machiavelli, N., 304, 320 
macina, 43 
macro, 150 
madama, 159, 518 
madamosella, 518 
madia, 33 
madido, 277 
madre, 27 
madrèpora, 645 
madrigale, 221, 386 
madrignale, 504 
maestrato, 368, 508, 587 
maestressa, 379 
maestro, 598 
Maffei, Sc„ 475 
mafia, maffia, 653, 666 
mafioso, 653 

Magalotti, L., 398, 409, 413, 477 
magazzino, 163 
Magazzino, 524 

magenta, 576 — 

maggio, 148 

maggioranza, 597 

maggiorasco, 381 

magistero, -erio, 481 

magistratesco, 504 

magistrato, 368 

magistrato delle acque, 655 

magistrato di commercio, 511 

maglia, 159 

Magna Curia, 123 

magnadone, 137 

magnano, 434 

magnare, 453, 513 

magnati ( magnatesi , 155 

magnetico, 502, 503 

magnificare, 217 

Magnifico, 261 

magone, 79 

maidico, 644 

maiesta, 216 

mainò, mai no. 375, 588 
maiolica, 220 


Indice alfabetico 


721 


Maior, P., 559 

maiorasco, 381 

maire, 593 

mais, 384, 644 

mai sempre, 653 

maisì, mai si, 375, 588 

maiuscole, 206, 421, 484, 561, 628 

malannaggia, 653 

malaria, 666 

malarico, 642, 644 

mala signoria, 180 

malato, 434 

mal d’occhio, 500 

male, 27 

male-, non essere male, 662 
mal francese, 279 
malga, 31, 651 ' 

malgrado, 491 
malinteso, 595 
malioso, 611 
malia, 519 
malmantilesco, 504 
malocchio, 513 
malonesto, 521 
malore, 437 
mal sottile, 574 
malta, 33 

Malta, 559, 602, 625 
malva, 573 
malvagio, 46 
malvino, §73 
Mambelli, M., 415 
Mamiani, T., 537, 621 
mamma, 39, 174 
mammana, 70, 436 
mammella bnamilla), 39 
mana, 353 
mancia, 160 
mandare, 45 
mandarino, 445 
mandolino, 525 
mandorlo, 33 
mandracchio, 82 
manducare, 38, 160 
mangiare, 111, 160 
mangiasego, 573 
manicare, 160 

manicare: pres. io manuco, 209 
manicomio, 591 
maniera (maneries)^ 155 
maniera «coniugazione», 329 
manierato, 428 
manierismo, 304, 496 


manifattura, 497, 520 
maniglia, 381 
manigoldo, 80 
mannaggia, 653 
Manni, D. M., 466 
mano, 27, 341, 353 
manomorta, 496 
manovra, 519 
mansione, 580 
mantarro, 273 
mantiglia, 444 
mantino, 585 
manto agg., 134 
manto, 518, 576 
Mantova, 202 
manucare, 160 
Manuzio, A., 347 
Manuzzi, G., 555 

Manzoni, A., 422, 548-553, 563, 610 
manzonicidio, 644 
maogano, -i, 525 
marangone, 373, 376 
maratona, 642 
maravedì, 382 
maraviglia, 174, 377, 581 
marca «contea di confine», 81 
marca «segno», 476, 520 
Marcello, B., 461, 467 
Marche, 203 
marchese, 380, 429 
marchio, 434 
marcia, 520 
marciapiede, 519 
marciare, 379 
marcita, 651 
marcitoia, 651 
marco, 434 
Marconi, F., 623 
marengo, 580 
— marescalco, 161 
margarita, 179 
mariage, 518 
Marinello, G., 331 
marinista, 437 
Marino, G. B„ 394-395 
marionetta, 519 
marittimo, 277 
marmellata, 381 
marmitta, 593 
Marmora, Raffaele, 188 
marna, 520 
marogna, 273 
marrano, 279, 380 


722 


Stona della lingua italiana 


marron , marrone , 661 
marron glacé, 661 
marsina, 430, 444 
marsupio, 231 
Martelli, L., 321, 335 
martetìiano, 495 
marti, 373 

Martignoni, G. A., 468 

Martini, F„ 605, 610, 625, 647 

martirare, 588 

martire, 155 

martiro, 134, 214 

martiri della libertà, 573 

martora, 77 

marza, 499 

marziale, 217 

mascagnotta, 582 

maschio, 36 

masgalano, 445 

massa, 33, 46, 73, 502, 571 

massacro, 379, 576 

massaggio, -agio, 596 

massaro, 650 

masserizia, 587 

masseur, 661 

massicciti, 644 

mastello, 82 

mastio, 424 

mastodonte, 645 

mastra, 82 

Mastrofini, M., 554 

matador, 598 

Matamoros, 361 

matassa, 33 

matematica, 481 

matematica, 290-292 

materialismo, 493 

materialista, 517 

materia prima, 497, 515, 520 

materna, lingua, 154, 328 

matemale, 436 

matinée, 661 

matriselva, 374 

mattarullo, 583 

mattatoio, 650 

matematica, 481 

matterà, 82 

Matteo dei Libri, 143 

mattino, 36 

matto, 272 

matto da legare, 549 

mattoide, 611, 644, 666 

Mauro, G., 372 


mavì, 383 
maxime, 276 
maximum, 592 
mazale, 140 
mazurka, 576 
mazzoneria, 279 
mb diventato mm, 20 
mèa venez., 44 
mebe pron., 92 
medaglia, 270 
medagliesco, 504 
Medea, 404 
medesimità, 364 
medesliìmo, 34, 161 
medianico, 644 
mediante, 210 

Medici, card. Leopoldo de', 409 

Medici, Lorenzo de’ 242-243 

medicina, 292 

medievale, 574 

medievista, 643 

medievitico, 574 

meditullo, 217 

Medusa, 404, 655 

medusa, 577 

meduseo, 656 

meeting, 597, 664 

Mefistofele, 580 

Megera, 404 

meggiona, 583 

Mehrwert, 664 

megio «mezzo», 195 

meismo, 598 

melagrancia, 373 

melanoscheno, 499 

melanzana, 164 

melarancia, 373 

melgone, 511 

Meli, G., 472 

mellificare, 218 

melma, 79 

melo, -a, 33 

melodia, 156 

melodramma, 452, 614 

melone, 412, 434 

Melpomene, 538 

membranza, 193 

memorandum, 592 

mena, 152 

menageria, 447 

Menagio, E., 416 

menar buono, 650 

menare, 44 


Indice alfabetico 


723 


Meneghino, 430 
menestrello, 160 
menisco, 432 
menna, 128, 194 
menomo , 377 
mensile, 572 
mensola, 213 
mentalità, 595 
mente, 132 
-mento, 132, 152, 364 
menu, 661 

menzione onorevole. 571 
menzonare, 317 
meraviglia, 377 
mercadante, 482 
mercanti, 182 
mercatale, 372 
mercede, 134 
merceologia, 642 
merciare, 219 
merciologia, 642 
mèrcore, 373 

mercurio (mercurius ). 155 
Mercurio, 404 
merenda, 28 
mergola, 382 
mergugliese, 160 
merla, 576, 593 
merigge, 148 
merito, 153 
meritometro, 574 
merletto, 373 
merolla, 221 
mertare, 506 
merto, 541 
merzede, 134 
meschita, 279 
mescianza, 188 

mescolanze latino-italiane, 215 235- 
239 

mescolarsi, 520 
mescuglio, 480 
mesenterio, 398 
meslea, 376 
Mesmes, J. P. de, 345 
messa, 23 

messa in scena, 594 
messapico, 17 
messere, 159 
messeta, 82 

mestiere, -iero, 161. 481, 581 
mestizzo, 594 
mèta. 44 


metà, 34 

metafonia, 68. 97. 100, 136, 140, 200, 262 

«metafore di moda», 645 

metaforuto, 438 

metallificare, 365 

metalloide, 578 

metallurgia, 292, 293 

Metastasio, P., 452, 456 

metatesi, 100 

meteci, 614 

meticcio, 594 

metro, 82, 571, 593 

metropolitana, 659 

mettere, 45 

mettere sul tappeto. 4 ■ 
meve, me'’ 1 pron., 14-j 
mezò., 511 
mezzadria, 650 
mezzadro, 650 
mezzaiiuìolo, 650 
mezzeria, 650 
mezzo punto. 364 
mezzule, 176 
mi e me, 265, 487 
miccino, 28 
micieffo, 219 
microb(ik), 631, 642, 645 
microcefalo, 645 
microscopio, 432 
microscopo, 504 
mie «mio *7208 
miglioria, 576 
mignato, 373 
mignatta. 499 
mignotta, 279 
mikado, 666 
Miledi, 524 
milieu, 638 
milionario, 496 
milione, 213 
milite, 215 
milizia, 218 
milizie di ventura, 183 
millefleurs, 593 
million, 475 
Milordio), 524 
Milton, J„ 418 
miluogo, 587, 655 
milza, 79 
mina (buona), 447 
minatorio, 370 
minchia, 28 
minchione. 28 


724 


Storia della lingua italiana 


ndice alfabetico 


725 


minestraio, 578 

miniatura, 448 

Miniera, 404 

minimo, 377 

ministrare, 160 

minnesinghero, 665 

minuetto, 519 

minuzzapetrarchi, 365 

miocene, 592 

mirabolante, 662 

♦ M ir acole de Roma», 144-145 

miracolo, 174 

miradore, 132 

miraggio, 599 

miraglio, 132 

miragusto, 381 

mirausto, 381 

miriade, 514 

mirmillone, 614 

mirrare, 180 

mirteto, 370 

mw-, 214 

misavveduto, 214 
misa\n>entura, 214 
miscadere, 214 
miscuglio, 480 
misericordia, 155, 506 
mislea, 159 
miso, 125 
misogallo, 504 
misprendere, 655 
miss, 663 

missionante, 429, 437 
missionario, 429 
missione, 429, 580 
missiva, 277 
mistificare, 658 
mistoforo, 614 
misura, 520 

misura : a misura che, 520 
misurare (mensurare), 36, 38 
miterino , 545 
mitingaio, 664 
mitraglia, 519, 543 
mo, 317 
mobilitare, 579 
mobilizzare, 578, 579 
moccichino, 412, 580 
, 430 

moda, 475 . 
modante, 430 
moderatismo, 517 
moderantista, 571 


moderato, 572 

modernismo, 641 

modista, 580, 595, 650 

moerre, -o, 522 

mofeta, 498 

moglie, 45, 148 

mógliema, 193 

moglio, 272 

mogno, 445 

moine, 650 

molecola, 442 

molestare, 155 

molla, 506, 520 

molle {animale), 271 

mollettone, 519 

mollicchio, mollusco, 271 

molo, 82, 152, 165 

Molossi, L., 555 

molteplicità {multiplicitas ), 47 

moltifronte, 365 

momento, 431 

momento psicologico. 639 

monaco, 34 

Monaci, E., 114 

Monaldo da San Casciano, 198 
monarchia, 571 
mondan remore, 180 
mondo Imundus), 46 
mondo «gente», 520 
monetaggio, 497 
mongibellare, 437 
mongibello, 501 
mongioia, 375 
monismo, 493 
monofagia, 590 
monopetalo, 499, 514 
monopolio, 497 
monopolizzare, 572, 578 
Monosini, A., 415 
monotono, -ia, 442 
monsoni, 385, 523 
monta, 163 
montaggio, 642 
montagna, 36 

Montagna pistoiese, elenco di deci- 
me, 100 
montare, 520 
monte, 153, 268 

Monte Capraro, memoratorio di, 99 
Montecassino, 84, 119 
Montecassino, ritmo di, 104-106 
monte di pietà, 268 
monte fiammifero, 501 


monte ignivomo, 501 
monte vulcano, 501 
Montemerlo, G S. da, 331 
Monti, P., 556 
Monti, V., 537, 546-548, 554 
montiera, 381 
Montieri, breve di, 102 
montone, 31, 501 
montura, 519 
monumentale, 590 
monumentare, 644 
mora, 376 

morale-didattica, letteratura, 108 

moralizzazione, 578 

Morandi, L„ 622 

moraro, 515 

Morato, P., 332 

morbino, 372 

morceau, 660 

morchia, 33 

morena, 594 

moresca, 361 

Moreto, P., 332 

morfina, 577 

morfologia. 591, 598 

morganato, 137 

morgue, 661 

morice, 443 

morione, 381 

moroide, 443 

morona, 270 

morotrofio, 591 

morsicare. 36 

morta gora, 180 

morta, lingua, 299 

mortadella, 385 

mortalità, 216 

mortificare, 47 

mortissa, 595 

morviglioni, 434 

moscadello, moscatello, 434 

moscardino, 430 

moscareccio, 438 

moschea, 279 

moschetto, 543 

moschicida, 440, 592 

moscio, 434 

moscoleato, 194 

moscone, 646 

mosteruolo, 160 

mostra, 36 

motivazione, 643 

motore. 591 


mousseline, 593 
mozione, 571, 591 
mozzarella, 653 
mozzo, 380 
prt diventato mb , 81 
muerre, 522 
mùfferle, 524 
mugàvero, 220 
mugik, 665 
mulacchia, 374 
multiplicare, 156 
multivolo, 656 
mundualdo, 80 
munere, 231 
munificenza. 370 
munifico, 370 
munuscolo, 274, 589 
muraio, 511 
muratista, 572 
muratore {libero), 522, 572 
Muratori, L. A., 469 
murice, 645 
musa, 541 
musardo, 121, 219 
Museo, 362 
musimagico, 439 
musina, 34 
musmè, 666 
Musogonia, 516 
musoneria, 584 
mussoni, 523 
mustacchi, 383 
mastio, 424 
musulmano, 447 
mutilo, 277 
muto, 377 
mutolo, 377 
Muzio, G„ 318, 368 

nabab, 525 

nada, 382 

nadir, 163 

nàibi, 220 

Nannucci, V., 554 

napoleone, 580 

napoletanismi, 653 

Napoli, 204, 227, 255 

nappa, 79 

narancio, -a, 373 

naranza, 388 — 

narvalo, 523 

narwal, 523 

nasello, 36 


726 


Storia della lingua italiana 


Indice alfabetico 


727 


nosologia, 516 

naspo, 78 

nastro, 79 

natale, 551 

Natale, 36 

natalità, 641 

naticchia, 45 

natiche, 41 

natio, 551 

natio loco, 180 

nativo, 551 

naturale, 155 

nautilo, 502, 645 

naverare, 101, 220 

navigazione, 182 

nazionale, 274, 412 

«nazionale, lingua», 414 

nazione, 494, 571 

nd diventato nn, 20, 136 

ne pron., 102, 487, 634 

nece, 28 

necesse, 178 

negazione, 267 

negghienza, neghienza, 508 

négligé, 522 

negro, 65 

negus, 639, 665 

Nelli, P., 372 

Nembro, 29 

nenia, 370 

neogrammatico, 665 

neologismo, 595, 517 

neonato, 579 • 

neoscolastica, 641 

nepa, 31 

nepitella, 612 

nepote, 592 

nepotismo, 429, 437 

nequizia, 179 

nero ( niger ), 27, 41 

nervo, 33 

nesto, 499 

Nestore, 216 

neutro distinto dal maschile, 97 
neve, 400 

nevicare ( *nivicare ), 36, 38 
nevile, 137 
nezza, 374 

ngn grafia per gn, 259 
Niccolini, G. B., 550 
nìccolo, 525 
Niccolò, 460 
nicessità, nicistà, 218 


nickel, 525 
Nicola, 460 
niece, 28 
nientarchia, 644 
nimico, 581 
nimio, 231 
nimo, 614 
ninfemo, 218 
nipotame, 574 
nipote, 651 
niquitoso, 375 
nirvana, 666 
niso, 513, 515 
nissuno, 581 
nitente, 589 
nitrato, 499 
niuno, 434 
nivale, 657 
Nizza, 528, 558 
nobiltà, 134 
nocca, 79 
nocciòla, 36 
nòda lomb., 28 
nodrire, 368, 581 
noievole, 364 

noi si dice, noi si va. 567 634 
nolo, 33 

nomare, 586, 588 
nome, 364 

nominativi latini e loro tracce, 148 

Nomotesia, 516 

no pron., 102 

non ... che, 490 

non-essere, 598 

non-io, 598 

non ... ma, 99 

nonno (nonnus), 37 

nonpertanto, 509 

non potere, 362 

Norcia, confessione di, 97 

nord, 381 

nordico, 505 

Normanni, 84,158 

norte, 381, 587 

nosocomio inosocomium), 47 

nostalgia. 645 

nostrificare, 624 

nostromo, 444 

notabile, 504 

notaio, 28 

notomia, 408, 443 

nottetempore, 217 

notula, 442 


«Novellino», 142 
novello, 36 
novercale, 442 
novitoso, 583 
nozionale, 505 
w diventato nd, 81 
nubiaduna, 516 
nubile Inubillaì, 216 
nubilo, 231 
nuca, 163 
nudrimento, 581 
nudrire, 368, 581 
nui, 149, 540 
nulla, 38, 386 
nullatenente, 640 
nullismo, 643 
nullo, 434 
nume, 276 

numerali accorciati ivenzei, ecc.), 208, 
264, 433, 487, 546, 564 
numerali moltiplicativi, 26 
numerizzare, 578 
numero, 156, 364, 370, 386 
numine, 276 
nuovo, 27 
nuper, 276 
nuraghe, 653 
nurse, 663 
nutricari, 128 
nutrire, 41, 581 
nuzialità, 641 
ny grafia, 259 

o aperta o chiusa, 485 
o ed uo ■. vedi «uo ed o» 

-o- vocale copulativa nei composti, 43 

obbedire, 551 

obbiettivo, 442 

obbligante, 446, 520 

obbligato, 520 

obblivione, 586 — 

obedire, 319, 626 

oberato, 589 

obeso, 370 

obiettivo, 659 

obitorio, 661 

obliare, 40 

oblio, 654 

obliterare, 277 

oblivione, 586 

oblò, 661 

oboe, oboe, 519 

obruto, 590 


ocarina, 649, 652 
occato «papero», 372 
occhi ( saltare agli), 521 
occhiale, 432 
occhiatella, 499 
occhi-azzurro, 505 
occhi ladri, 214 
occhi-pietoso, 505 
occiduo, 613 
occultismo, 643 
oceàno, 541 
oculare, 442 
oculista, 501 
odiosamato, 505 
odorista, 430, 437 
oe dittongo lat., 347, 628 
Oenologia, 516 
oeste, 381 
offa, 367 

offendere (a, ihJ, 219 

offerta, 72 

officiale, 582, 626 

Officina, 404 

officio, 377, 582, 626, 650 

oftalmia, 592 

oggetto ( obiectum ), 155 

ogliapodrida, 444 

ohm, 624 

-oide, 578, 644 

-oio, 152 

oleografia, -grafico, 647 
oligarchia, 571 
Olimpionice, 441 
olio, 33 
olivello, 373 
Olivetta, 373 
olivo, 33 
-olo, 581 
olometro, 365 
olonista, 572 
oltra-, 438 
oltrabello, 438 
oltracotanza, 161 
oltramirabile, 214 
oltramortale, 438 
oltrapiacente, 214 
oltremontaneria, 504 
omaggiare, 643 
omaggio, 159 
ombra dei cipressi, 574 
ombra romita, 194 
ombre, 444 
omeopatia, 577 


728 


Srona delia lingua italiani. 


òmero , 368, 613 
omertà , 653 
omiccino, 504 
ominoso, 658 
omiopatia, 592 
omnibus, 577 
omologare, 366 
omonimia, 38, 258 
omonimo, 370 
■onare, 643 
ondifero, 506 
ondulazione, 514 
■one, 70 
onestà, 134 

onestà (fare delle), 476, 521 

onni-, 440 

o nnifecondo, 440 

onnivoro, 440 

onomastico, 442 

onomatopea, 277 

onor del mento, 507 

onore ( avere 11, 521 

onta, 161 

onto, 372 

onto sottil, 374 

onzione, 480 

openione, 368 

opera, 382, 430, 448, 599 

operare, 506 

opinione, 263, 368 

o pio, 481 

oppenione, 368 

oppidano, 590 

oppio, 481 

opporto (è), 137 

opposizione, 597 

oprire, 137 

optare, 626 

opulento, 277 

opzione, 626 

■ora al plur., 69, 148, 208 

ora, 551 

orafo, 148 

orango, 498 

oratoria, 293-294, 462 

orazione, 218 

orbace, 653 

orbita, 645 

orco, 47 

orda, 550 

ordigno, 30 

«Ordinamenti di giustizia» del co- 
mune di Firenze, 114 


ordinare, 44 

ordine dei pronomi, 95, 149, 212, 357, 
425, 487, 565 

ordine delle parole, 151, 191, 193, 212, 
267, 492, 569, 570, 637-638 
■ore, 132, 152, 161 
Oreadini, V., 335-336 
orecchia, 36 

orecchie della bilancia, 366 
orfano, 33 
orfanotrofio, 591 
organizzare, 438, 571 
organo, 33, 42 
orgoglio, 31 
oricrinito, 439 

origini tarde della lingua e letter. 

ital., 85-88 
origliere, 159 
orittogenia, 515 
orittologia, 515 
ori{u)olo, 368, 434, 443. 650 
oriundo, 442 
orizonomia, 516 
ormeggiare, 82 
omitogonia, 516 
ornitologia, 365, 440 
oro, 24 

orobanche, 500 
orologio, 368, 434, 443, 650 
orrato, 218 
orrendo, 412 
orrepire, 658 

orrevole, 218, 319, 508, 587 

Orti Oricellari a Firenze, 320, 333 

orto, 44, 348 

ortolano, 368 

osanna, 35 

oscillare, -atorio, - azione , 514 
oscioreccio, 41 
osco, 17 

osco-umbri, vocaboli, 32 
oscurantista, 572 
oso, 152 
osolare, 137 
ospe, 216 

ospedale, 626, 650 
osservatorio, 432 
o ssigene, -o, 582 
osso (ossum), 14, 38 
ossorare, 221 — 

ostacolare, 643 
ostaggio, 159 
ostare, 219 


indice alfabetico 


729 


oste «chi dà alloggio e vitto», 160 

oste «esercito», 156, 159, 218, 613 

ostello, 160, 378, 540, 541 

osteriggio, 597 

osterò, 160 

ostetrice, 217 

ostetricia, 501 

ostrica, 33 

ostro, 506 

-oto, 82 

otta, 274, 375, 376 
oftalmia, 592 
ottare, 626 
ottemperare, 277 
ottica, 370 
ottobrata, 564 
ottone, 163 
Ottonelli, G., 412 
Oudin, A., 417 
ovaia, 501 
overiura, 519 
ovidutto, 442 
Owidio, 423 
ozione, 626 
■ozzo, 27 A 

pà, 121 

paccheboto, 523 
pacchetto, 380 
pacifista, 658 
padella, 40 
padiglione, 44 
padovanello, 577 
padre, 27 

padrone, 43, 153, 368 
paesanità, 644 
Paesi Bassi, 383 
pagano, 46 
pagina, 155, 277 
pago, 376 
pagodo, 385 
pailleté, 660 
paiolo, 31 
paladino, 160 
palafitta, 641, 666 
palafreno, 159 
palagio, 319, 377 
palanca, 33 
palanchino, 447 
palazzissimo, 643 
palazzo, 319, 377, 666 
palco, 79 
palco scenico, 561 


paleofrancese, 57, 80 
paleontologia, 577 
paleosardo, 16 
palestra, 217, 366 
paletnologia, 641 
palla, 76, 79 
Palladio, A., 372 
Pallavicino, S., 410, 413 
palmiere, 274 
Palmieri, M., 
palpito, 575 
paltò, 576, 594 
paludamento, 366 
Pamela, 524 
pamela, 495 
pamphlet, 524 
panca, 76, 79 
pancella, 273 
pàndar ven., 28 

pane di ghianda ( tornare al), 583 

panegirico, 442 

panettóne, 651 

«Panfilo», 144 

panfietit)o, 524 

pania, 42 

panificio, 579, 644 

panizzare, 505 

Pantalone, 361, 386 

pantaloni, 576 

pantografo, 432 

Panzini, A., 623 

paolotto, 647 

papa, 37, 74 

papà, 520 

Papa Mundi, 278 

papato e sua influenza linguistica, 17 

papiiìello, 445 

papigliotti, 519 

papilla, 442 

pappolata, 334 

paracadute, 579 

paracalunnie, 579 

paradiso, 390 

par affare, 593 

paraffina, 577, 592 

parafrasi, 370 

parafrodi, 579 

paragone, 82 

paragrandine, 570 

paraguanto, 444 

parainvidia, 579 

paraipotassi, 151 

paraùllo, 480, 547, 580 


730 


Stona della lingua italiana 


Indice alfabetico 


731 


paralizzare, 517 

parallelismo, 143 

parallelo, 485 

paralume, 579 

parangone, 341 

paraninfo, 277 

paraperfidia, 579 

parapetto, 386 

parassita, 591, 645 

parassitico, 645 

parassitologia, 642 

parastrepito, 505 

parata, 381 

paratassi, 27 

pareba, 65 

parentela, 47 

parentesi, 369 

Parenti, M., 556 

parergo, 442 

pareri di Perpetua, 574 

parersi, 65 

parete m., 263 

pargolo, 541 

pariglia, 381 

pariglia [render lai, 381 

«parlamento», 742 

parlare [parabolare), 23, 34, 41 

parlare e sinonimi, 325 

«parlar finito», 534 

parnassiano, 641, 661 

parodia, 442 

parodiare, 505 

parola, 34 

parolaio, 495 

parole-medaglie, 4 

parole-testimoni, 4 

parolibero, 644 

paronomasia, 402-403 

parossismo, 370 

parrocchetto, 446 

parrucca, 446 

parruccone, 573 

partecipe, -efice, 364-368 

parterre, 477, 519 

Partlhienodoxa, 405 

partecipante, voce, 364 

participio, 364 

participio: forme, 191, 209, 211, 265, 
266 

participio: usi, 357, 569 
particolare, -ulare, 368 
partigiana, 269 
partita, 430 


partitivo, 210, 490, 569, 636 
parvenza, 193 
parvità di materia, 503 
parvolo, 541 

Pascoli, G., 605, 613, 656, 665 

pascore, 129, 655 

poso, 28 

pasqua, 35 

pasquinata, 361 

pasquinate, 284 

passabile, 521 

passaggio, 160 

passarsene, 662 

passato, 364 

passato remoto: forme, 70, 149, 209, 
263-266, 356, 426, 568, 635 
passato remoto: uso, 636 
Passavanti, I., 197 
passeggere, 581 
passerella, 661 
passione ( passio 1, 46, 47 
passivo, 364 
passivo, 26, 71, 151 
Pasta, A., 468 
pastetta, 653 
pasticca, 646 
pasticciaio, 578 
pastiglia, 444 
pastocchiata, 334 
pastorelleria, 455, 504 
pastrana, -o, 430, 444 
pasturella, 134 
patata, 384, 500, 580 
patatucco, 573 
Patecchio, Gherardo, 138 
patella, 501 
patema, 514 
pàtera, 513 
patetico, 496 
patologia, 442, 645 
patte, 368 
patria, 494 

patriotitìa, patriotto, 494, 515, 520, 571 

patriotitUco, -ismo, 494, 571 

patrocinare, 431 

patrocinio, 431, 442 

patrona, 447 

patrone, 319, 368 

pattinare, 661 

pattini, 279 

pàtulo, 513 

pavana, 361, 388 

pavaniglia, 388 


pavere, 367 
pavese, 447 
Pauli, S., 468 
pazzo da catena, 549 
peaggio, 521 
peccaminoso, 492 
peccare, 46 
peccata, 588 
peccio, 540 
pechèsce, 598 
peco, 137 
peculiare, 370 
pedalare, 640, 643 
pedante, 361 
pedantesco, 295-297 
pedantuzzo, -eria, -aggine, -esco, -are, 
362 - 

pedicure, 658, 661 
pedignone, 580 
Pegàso, 424 
peghèsce, 598 
pelago, 33 
pelandrone, 651 
pellagra, 501, 511, 599 
pellegrina, 576 
pellegrinaggi, 56 
pellegrino, 72 
pellegrino «elegante», 272 
pèllice, 514 
pelliccilo, 433 
pellicola, 663 
peltro, 31 
pencolare, 30 

pendente [tempo), 329, 364 

pendolo, 373 

pendolo, 431, 437 

penisola, peninsola, 370 

pennelleggiare, 180 

penombra, 432 

pensiero, -iere, 161, 481, 581 

pepe, 33 

peperino, 500 

pepiniera, 594 

per, 27, 135 

per bene, 650 

percalilìe, 576, 594, 596 

percentuale, 640 

perché con propos. concessive, 212 

perdere, 41 

perdita, 36 

perduta, 153 

perennare, 590 

perentorio, 442 


Peresio, G. C., 406-407 
performance, 663 
Pergamini, G., 331, 414, 415 
periclimeno, 374 
perifrasi, 540-541 
perifrasi verbali, 131, 151 
periodizzazione, 5 
periodo e sua struttura 192-194, 357, 
491-492, 570-571, 638 
peripezia, 361, 370 
periscopio, 640 
peritoneo, 398 
peritoso, 376 
periziare, 612, 643 
perizoma, 179 
perla, 272, 400 

per lo, per li: v. preposizione articola- 
ta 

permeare, 645 
permiano, 577 
permissione, 586 
pernicioso, pemizioso, 481 
Perpetua, 574, 580 
per poco che, 490 
perrompere, 513 
permea, 446 

persica, perzica, -o, 68, 434, 512 

Persio, A., 331 

persona, 31 

perspicuità, 442 

perterra, 447 " - — 

Perticari, G., 546 

perir attore, 155 

perzare, 161 

pesalettere, 644 

pesanti, 128 

pesare-, a pesare di, 382 
pesca, 68, 434 
pescecane, 646 
Pescetti, Ò., 332, 411 
pèschio, 34 
pesciaiuolo, 434 
pesciarello, 585 
pesciolino, 585 
pesciuomo, 439 
pescivendolo, 434 
pes'èlé abr., 73 
pestare (pistare ), 36 
petardo, 379 
petit-maitre, 522 
— petizione, 516, 597 

Petrarca, F., 186, 190, 191, 243, 273, 
305 


732 


Storia della lingua italiana 


petrarcalità, 364 
petrarcheria , 364 
petrarchità, 575 
Petrocchi, P., 607-609, 622 * 
petroliere, 661 
pettinare [pedinare ), 36, 38 
pezetere, 614 
pezza, 31 

pezza (teatr., fr. pièce), 522 
pezza (a), 537 
pezza [buona), 375, 653 
pezzire, 512 
pezzo, 31 

pezzo da sessanta, 575 

pezzo d’asino, 583 

pezzuola, 434, 453, 580 

ph grafia, 259, 335, 347, 628, 659 

Philolauro, 365 

piacere, 134, 271 

piagio, 219 

pia madre (pia mater), 155, 164 

pian-forte, 561 

piangere, 43 

pianista, 578 

piano, 520 

pianoforte, 496, 525 

pianto de l’alba, 507 

piattaforma, 446 

piàvola de Franza, 475 

piazza, 33 

pica, 313 

picca, 379 

picca (mettere a), 583 
piccaro, -esco, -iglio, 445 
picchetto, 519 
picciotto, 653 
picco, 594 

«piccole Italie», 602 
piccolo, 599 
pickpocket, 663 
pièce, 522 
pied-à-terre, 661 
piede, 27 
piedestallo, 386 
pieggerìa, 373 
Piemonte, 450-451, 557 
piemontesi, sermoni, 107 
piemontesismi, 651 
piemontesista, 639 
piemontista, 639 
piemontizzare, 639 
pierreries, 660 
pietà, 134 


pietanza, 154 
pietra, 33 
pieve, 47 
pifferaro, 652 
piffero, 220 
Pigafetta, A., 372 
Pigafetta, F., 366 
piggiore, 276 
pigiama, 640, 666 
pigionale, 583 
pigna «grappolo», 580 
pigna «pentola», 372 
pignolo, 652 
pijama, 640 
pila, 599 
piloto, 386 
pimaccio, 434 
pimmeo, 518 
pinguino, 594 
pintore, 218 
pinzuto, 272 
pio (pius), 46 
pioggia, 400 
pioniere, 593, 662 
piomo, 654 
piovifero, 365 
piovomo, 613, 654 
pipa, 430 
piquant, 522 
piragua, 384 
piramide, 156 
piroga, 384, 523 
pirone, 436 
Pisce, 215 
pispissìo, 642 
pista, 661 
pistagna, 444 
pistard, 661 
pistillo, 514 
Pistoia, Cino da, 115 
Pistoia, codicillo di, 100 
pistola, 383 
pistrino, 590 
pitale, 412 
pitchpine, 663 
pitetto, 279 
pittora, 640 
pittore, 218 
pittoresco, 496, 525 
pittura di genere , 429 
piucchepperfetto latino con valore di 
condizionale: v. condizionale 
piumacciuolo, 213 


Indice alfabetico 


733 


pivello, 585 
pizzacherino, 652 
pizzarda, 652 
pizzardone, 652 
pizzicagnolo, 434 
pizzicariutolo, 372, 434 
pizzo, 373 
placenta, 442 
placiri «piacere», 129 
plagiato, 521 
plaid, 576, 598 
planare, 640 
planimetria, 217 
planisferio, 365 
plantigrado, 577 
plastica, 370 
plastico, 370 
plastron, 661 
— platina , -o, 523, 524 
plauso, 360 
plebeo, -eio, 216 
plebescito, 217 
plebiscito, 590 
pletora, 645 
pletorico, 441 
plettro, 277 
pleura, 442 
pleuritide, 442 
pleuronetto, 499 
pliocene, 577 
Plinio il Vecchio, 16 
plinto, 270 
ploro, 214 
plotone, 446 
plùffero, 573 
plurale, 412 
plusore, 149, 193, 220 
plusvalore, 664 
pluteo, 215 
pneumonia, 582 
pneumonite, 582 
pochade, 661 
pòcolo, 443 
podestà, 216 
podestà. 111, 153, 640 
podestà, 81, 183 
podestaressa, 373 
podice, 442 
podismo, 658 
poemazzo, 435 
poetale, 214 
poetesco, 214 
poetevole, 214 


poetico, 214 
poffare, 587 
poggia, 81 
poggio, 33 
poker, 663 
polo, 374 

polenda, -enta, 584, 626, 650 

poliglotta, -o, 659 

polipetalo, 499, 514 

Politi, A., 412 

polka, 576 

pollastro, 434 

polline, 501 

pollo, 43 

polmonèa, 582 

Polo, Marco, 188 

polpettaio, 578 

polpino, 573 

polpo, 33 

poltroncina, 430 

polverero, 278 

polviglio, 445 

pomarancia, poma rancia, 373, 388 

pomata, 385 

pomeriggio, 574 

pomice, 32 

pomo d’Adamo, 164 

pomo di terra, 500, 580 

pomodoro, 384 

pompa, 593 

pompierata, 647 

pompiere, 593, 647 

pompon, 594 

pone, 524 

ponce, 597 

ponchio, 524 

pondo, 504, 524 

pónere, 44 

poney, 597 

ponsò, 446 

Pontano, G., 255 

póntega, 372 

pontica, 81 

pontifice, 368 

ponto, 221 

popolare, letteratura, 532 
popolarizzare, 578 
popolazzo, 655 
popolesco, 588 
popolo, 31, 153, 319, 571 
popone, 412, 434 
poppa (puppa), 39 
poppa (mar.), 376 


734 Storia delia lingua italiana 


populo, 319 
popurì, 522 
porcello, 36 
porco, 27 
poro, 215 
porpora, 33 
porta, 27 
portamonete, 596 
portantina, 430 
portato tessere), 520 
porte-enfant, 662 
porte-monnaie, 596 
portolano, 152, 386 
posadera, 524 
posare, 662 
posata, 382, 444 
poserai, 272 
posereccio, 504 

possessivo con art. indeterm., 211 
possessivo enclitico, 136, 150, 193, 
355 

posta, 268 

postale, 572 

postemastro, 382 

posticipare, 442 

potaggio, 380 

potare, 42 

potenzlùa, 269 

potenziale tpotentialis ), 155 

potere, 178 

pot pourri, 522 

povaro, 412 

pozzo, 27 

Pracchia, -ola, 29 

praesertim, 276 

praeterea, 276 

pragmatismo, 641 

pranso, 480 

pranzo, 480 

pratalia, 65 

Prati, G., 612 

pratico, prattico, 481 

precessione, 442 

precingere, 589 

precipitevolissimevolmente, 440 
precoce, 367, 369 
predella, 79 
predicazione, 228, 454 
prediche miste di latino e di italiano, 
237-238 

preferire, 370 — 

prefetto, 590 
pregadi. 373 


Preggio, 29 
preghiera, 161 
pregiudizio, 494, 520 
pregnante, 590 
preistoria, 641 
preite, 147 
preliare, 137 
prelodato, 612 
premeditare, 218 
premessa, 368 
premio, 597 
premissa, 368 
premorienza, 442 
prence , 160, 506, 588 
prencipe, 368, 419, 480 
prender guardia, 521 
prendendola, 373 
preparo o preparo, 485 
prepose, preposeo 596 
prenze, 174, 193 

preposizione articolata, 486, 566, 632 
preposizioni con pronome affisso, 
209 

preposto, 378 
preromanzo, 15 
prescindere, 442 

presente congiuntivo: forme, 149, 
264, 426, 488-489, 568, 635 
presente indicativo: forme, 200, 209, 
210, 252, 264, 265, 342, 356, 488-489 
presenza di spirito, 521 
presidente, 516 
presiedere, 612 
prestinaio, 584 
prestinaro, 511 
presto, 342, 377 
prestoilare, 137 
prete, 34 
preveniente, 520 
preventivo, 579, 591, 593 
prevenzione, 520 
prezzemolo, 33 
pria, 506, 539, 588 
primaio, 376 
primaveresco, 574 
primaverile, 574 
primicerio iprimicerius ), 47 
primor, 382 
Prina, G., 535 
principe, 480 
princisbech, 524 
prisma, 442 
priso, 125 


pristinaro, 272 
privanza, 380 
privativa, 567 
prò’, 36 
proàulo, 217 
probiviri, 658 
proccurare, 481 
procedura, 582 
procellipede, 516 
processi, 289-290 
processo (processus), 155 
processo verbale, 572 
processura, 582 
proclama, 576 
proclisi, 260 
procombere, 574, 589 
procurare, 481 
procurane, 373 
prode, 36 

Prodenzani, S., 198 
prodigalizzare, 578 
prodigioso, 277 
prodotto, 520 
profazio, 217 
professoressa, 640 
profeta, 155 
profilattico, 514 
profondigorgo, 516 
profumo, 385 
progettare, 446 
Proginnasmi, 405 
prognosi, 514 
progressista, 572 
progresso, 516, 520 
proibito o proibito, 485 
proietto, 442 
prolegomeni, 369 
prolisso, 218 
pronome, 364 

pronome soggetto pleonastico, 211, 
564, 633 

pronomi: forme, 98, 149, 208, 265, 355, 
424, 487, 564, 633 
pronunziativo, 364 
propio, 368, 443 
proponimento, 364 
proprietà, 476 
proprio, 368, 443 
«prosa borghese», 364 
prosapia, 217 
prosatoio, 644 
pròspero, 576 
prossimano. 375 


Indice alfabetico 735 


prostesi, 14, 26, 148, 261, 424, 563, 630 
protagonista, 526 
proteiforme, 516 
protestante, 362 
proto-, 440 
protocollare, 576 
protogiomale, 505 
protoromanzo, 15 
profane, 514 
prova, 36 
provedere, 481 
provenzale, 89, 109, 121 
provenzalismi, 106, 128-129, 144, 161, 
191 

«Proverbi de femene», 108 
provianda, 447 
prò viribus, 276 
provisino, 160 
provvedere, 481 
Provvidenza, 362 
prowisare, 361 
provvisorio, 571, 576 
prusore, 131 
ps lat. e suoi esiti, 25 
pseudo-, 440 
pseudocipero, 499 
pseudoconcetto, 641 
pseudogazza, 364 
pseudolaude, 364 
Pseudo-Uguccione, 138 
psicanalisi, 641, 659 
psiche, 593, 641 
psiche «specchio», 593 
psicologia, 493 
psicometria, 641 
psicosi, 644 
psyché, 593 
pt lat. e suoi esiti, 25 
ptomaina, 642, 644, 658 
pubblica economia, 497 
pubblicista, 643 
pubblicistica, 284 
pubblicità, 529 
pubblico, 481, 520, 551 
pube, 442 
publico, 551, 626 
pudding, -ingo, 524 
pudìa, 81 
pudino, 524 
puella, 137 
puerile, 218 
puerpera, 574 
Puglie, 256 


736 Storia della lingua italiana 


pugile, 370 

Pulci, L„ 271, 273, 276 
Pulcinella, 430, 448 
pulcro, 656 
pùliga, 435 
pulmonia, 582 
putte, 614 
punch, 524, 597 
puncio, 524 

punga «pugna», 178, 273 

puntarella, -erella, 644 

punteggiatura: v. interpunzione 

puntiglio, 380 

punti sugli i, 662 

punto, 429 

punto, 350 

punto e virgola, 350, 629 
punto esclamativo, 350 
punto interrogativo, 350 
Puoti, B., 537, 545, 554, 556 
pupazzetto, 652 
pupazzo, 513 
pupissima, 643 
purismo, 517 

purismo, 536-537, 544-546, 549, 604-605 

purista, 495, 517 

pusillanime, -o, 218 

putrella, 661 

putta, 373 

puttina, 512 

q, 483 

q per g velare, 146 

qua, 385 

quacchero, 524 

quadragesima, 368 

quadrato, 503 

quadretta, 317 

quadriglia, 381 

quaglifero, 506, 516 

qualche con valore plur., 488, 565 

quale, 266 

qualificare, 218 

qualità, 520 

qualunche, 343 

quando, 27 

quarantottata, 573 

quaranzei, 546 

quaresima, 368 

quarzo, 645 

quaternario, 501 

Quazzoldi, 264 

quello al plur., 632 


quercioso, 574 
questionario, 658 

questione della lingua: v. discussioni 
sulla norma linguistica 
questione meridionale, 639 
questuare, 370 
quia, 178 
quidem, 276 
quietismo, 437 
quietista, 437 
quinci e quindi, 376 
quinta, 524 

quinta declinazione latina e sue trac- 
ce, 148, 265 
quintale, 318 
quintessenza, 277 
Quirini, Giovanni, 194 
quodammodo, 276 
quominus, 276 
quoniam, 276 
quora, 435 
quotidie, 514 
quotizzare, 578 

r per t, 141, 261 
r uvulare, 485 
Rabbi, C., 468 
rabicano, 381 
rabula, 590 
racchetta, 163 
raccolta, 495 
raccolte, 451-452 
racemifero, 506 
rachitide, 514 

raddoppiamento delle consonanti: v. 

consonanti scempie e doppie 
radeschi, 598 
radicale, 572, 591, 597 
Ràdulescu, I. H., 559 
rafforzamento delle consonanti: v, 
consonanti scempie e doppie 
ràgano, 436 
ragazzeria, 504 
ragazzesco, 504 
raggi di Rontgen, 646 
raggio, plur. rai : v. rai 
ragionateria, 584 
ragione, 34, 153, 451, 494 
ragione composta, 503 
ragionie) di stato, 359 
ragione inversa, 503 — 

ragioniere, 153 
raglan, 576, 597 


ragnare, 454 

ragoùt, 522 

ragù, 476, 519, 522 

Raguet, 475 

Raguetta, - etto , 416 

rai plur., 192, 208, 506, 654 

raid, 663 

rail, 597 

ratte, 577, 597 

raillerie, 593 

raitro, 382 

Rajna, P., 199 

ramazza, 651 

Rambaldo di Vaqueiras, 109-110 
rame ( aeramen ), 36, 38 
ramparo, 446 
ranchetta, 524 
ranco, 78 
randevù, 596 
rango, 446 
rangolo, 587 
Ranieri da Perugia, 143 
ranno, 79 
rantacare, 412 
ranzonare, 519 
| rapè, 519 

j rapito, 521 

rapportare, 571 
rapporto, 521 
rapsodia, 370 
rarefazione, -442 
raro, 276 
ras, 639, 665 
rascetta, 395 
ì raspìo, 453 

ratina, 511 
ratto, 155 

raunar le fronde sparte, 180 
ravaniglio, 382 
rave, 583 

■ razionale, 155 

? razzese, 160 

I reale trealis), 155 

, realismo, 189, 192 

j realista, 641 

realizzo, 612, 643 
reame, 159 
reatizzare, 576 
rebbio, 79 
reboare, 277 
rebottu, 94 
rebus, 516 
recare, 78 


Indice alfabetico 737 


recensione, 659 
réclame {reclami, 661, 662 
recluta, 444 
record, 663 
Rectitudo, 276 
redazione, 658 

«re dei re», tipo elativo, 427 

redengotto, 523, 524 

Redi, F., 410 

redigere, 590 

redimito, 656 

redine, 36, 38 

redingote, 523 

redolente, 612 

reduce, 574, 591 

refe, 374, 485 

referti medico-legali, 185 

refrattario, 516 

refrigerio (refrigerium), 23 

refurtiva, 590 

regabio, 436 

regalare, 412 

Regali, M., 461 

regalo, 444 

regata, 375, 448 

reggimento (mil.), 430, 446 

regìa, 572, 593 

regime, 572 

registri parrocchiali, 283 
regnarne, 279 
regnicolo, 579 
regno, 318 

regno di Nettuno, 574 
regolarizzare, 578 
«Regole laurenziane», 244 
regressioni, 207 
regrettare, 520 
regretter, 549 * 

regretto, 380, 477 
Reichstag, 665 

religionaio, 578 — 

Religione nazionale, 573, 579 
religiosi e loro circolazione interre 
gìonale, 88 
relitti germanici, 56 
relitti preromani, 31 
rema, 547 
rena, 547 
rendevosse, 447 
rendeva, 476 
rendez-vous, 447, 596 
rendiconto, 595 
renduto, 377 


738 Storia della lingua italiana 


renetta, 661 
renna, 447 
rensa, 160 
renuenza, 576 
repleto, 509 
repubblica, 215, 218 
republicano, 626 
repubblichino, 504 
respitto, 348 
responsabile, 595 
resta, 586 

restaurant, 661, 663 
retaggio, 437, 613 
rete, 24 

retentire, 191, 340 
retico, 16 
retorica, 647 
retroattivo, 572 
retrogrado, 156 
retrovia, 639 
rettifica, 643 
rettifilo, 612, 640, 653 
rettore (rector), 155 
rettorica, 155, 157 
revancia, 595 
rèver, 662 
rèverie, 662 
rèveur, 662 

revisioni di testi, 340-344 
Rezasco, G., 623 
Rhys, J. D., 346 
riàvolo, 435 

ribeba, ribeca, 160, 184 
ribes, 164 
riboboli, 396, 433 
ribotoli, 313 
rìcadla, 580 
Ricci, Matteo, 649 
ricco, 76, 80 
riccomanno, 164 
riccore, 153 

ricercato, 428 

ricienta, 128 
ricordare {recordare ], 41 
riddare, 80 
rideau, 661 
ridò, 519, 661 
ridolente, 513 
riduzione, 524 
riedo, 588 
riflessibile, 505 

riforma della grafìa, 335-339, 484, 562, 
628-629 


riformatore, 362 
rigodone, 519 
rigoglio, 81 
Rigutini, G., 622, 623 
rilieffo, 521 
rima diffìcile, 402 
rima perfetta e rima imperfetta, 125 
130-131 

rimanere (remanere ), 38 
rimarcare, 663 
rimarchevole, 446 
rimarco, 520, 576 
rime guittoniane, 131, 132 
rime siciliane, 133, 135, 137 
rime umbre, 134 
rimembranza, 129 
rimpiazzare, 520 
rinascita, 361, 655 
rinculare, 506 
rinf amare, 180 
rinfocolare, 588 
ringavagnare, 180 
Rinnovamento, 572 
rinoceronte, -ote, 235 
rinomo, 655 
rinovare, 481 
rinvegno, 595 
rione, 29 
ripristinare, 590 
risacca, 444 
risagallo, 164 
riserbatoio, 521 
risma, 163 
riso, 33 
risolvere, 571 
risorgimentale, 644 
risorgimento, 494, 572 
risorsa, 380, 520 
risotto, 651, 666 
rispondiero, -iera, 504 
rissor, 272 
ristorante, 661, 663 
ristoratore, 663 
Ristoro di Arezzo, 142 
ritaglio, 522 
ritentire, 273 
rameggiare, 438 
ritmi storici, 106-107 
ritorte o, 369 
ritorta, 374 
ritrangola, 153 
ritropico, 547 
rittorico, 369 


rivaggio, 193 
rivilicare, 587 
rivista, 596 
riviste, 392, 529, 609 
rivoluzionare, 571, 595 
rivoluzionario, 571 
rìzotomo, 514 
roano, 581 
roastbeef, 597 
rob, 384 
roba, 78, 423 
Roberto d'Angiò, 188 
robiola, 651 
rocca, 55, 78 
raccoglie, 519 
rocco, 164 
Rocco, E., 607-608 
roccolo, 584, 586 
rodò, 518 
rococò, 594 
rodengotto, 523 
roggio, 586, 655 
roi, 188 
roideur, 593 
rollo, 380 

Roma, 253, 391, 604, 606, 615 
romagnolismi, 652 
romanella, 652 
romaneschismi, 652 
Romània occidentale e Romàni a 
orientale, 21 
Romano, 52 

romanticismo, 531, 537-539 
romantico, 496, 574 
romanza, 574 
romanzare, 437 
romanzeria, 437 
romanzesco, 495 
romanzo, 496 
romanzo comune, 15 
rompiparole, 364 
ronco, 586 
rondicchio, 500 
rondò, 519 
rondone, 500 
ronzino, 159 
rosbif, -iffe, 596, 597 
roselo, 372 

Rossano, carta di, 99 
rossardo. 274 
rosso, 27 
rosso Cpolit.), 579 
rosta, 79 


Indice alfabetico 739 


rotaia, 576, 597 
rotina, 476 
ròtolo, 163 
rotta, 381 
rouge, 594 
routier, 661 
rovano, 381 
rovinare, 36 
Boy, 379 
rozzo, 29 
ruba, 214 
rubare, 78 
rubecchio, 30, 178 
rubesto, 273 
rubicondo, 218 
rubidio, 658 
rubrica, 155 
rubro, 179 
ruca, 510 

rud emil., rùd lomb., 28 

ruffiano, 36 

rugiada, 231 

rullìo, 593 

ruolo, 380 

ruota, 27 

ruscelli, 400 

Ruscelli, G., 332, 338, 343 
russare, 75, 80 

rusticale, poesia, 246, 397, 407 
Rustichello da Pisa, 188 
Rutilio Namaziano, 16 
ruvido, 29 

s lat. finale, 25 
s sorda o sonora, 485 
s-, 152 
sabato, 35 
sabbato, 562 
sabglia, 383 
sabotaggio, 661 
sabotare, 639, 661 
sabretascia, 595 
saccoccia, 453 
saccomanno, 164 
sachemi, 504, 525 
sacro, 46, 368, 390, 480 
sacro egoismo, 639 
saga, 665 
sagena, 513 
saggio «savio», 161 
saggio «articolo», 521 
saginato, 387 — 
sognare, 129, 160 




740 Storia della lingua italiana 


Indice alfabetico 


sagro, 368, 419, 480, 581 
saisir, 593 
sala, 76, 159, 547 
salamandrevole, 364 
salarino, 586 
salciza, 258 
saldare, 153 
Salento, 256 
salgazo, 384 
saligastro, 193 

Salimbene da Parma, 116-117 

salimpendola, 373 

salma, 317, 613 

salmone, 31 

saltare, 36 

saltimbocca, 652 

salubre, 631 

salubriore, 590 

salute (salus), 46 

salvaguardia, 446 

salvare, 37, 47 

salvataggio, 661, 662 

salvatore, 47 

Salviati, L„ 326-327, 331, 334 
Salvini, A. M., 467, 482, 504 
Salvioni, C., 202 
sambòn, 476 
sampareglie, 522 
sanari, 128 

sanatore «senatore», 218, 547, 581 
sanatorium, 659 

San Clemente, iscrizione di, 94-95 

sanculotto, 571 

sanfedista, 572 

sangalla itela), 437 

sangue freddo, 521 

sanguettola, 499 

sanguisuga, 37, 499 

sanie, 587 

sanitario, 643 

Sannazzaro, I., 255 

sans pareille, 522 

Sant’Alessio, ritmo di, 104-105 

Santa Margherita, leggenda di, 41 

santarella, -eretta, 581 

santo, 390 

santolo, 372 

santuario di Temi, 574 

sanza, 121 

sapere, 40; forme antiche, 92, 131-132 
sapienza, 155 
sapone, 77 

sapor di forte agrume, 180 


saporetto, 587 
sarabanda, 444 
saramento, 220 
Sardanapalo, 574 

Sardegna, 93, 114, 282, 416, 449. 478 

sardi, documenti, 93-94 

sardismi, 653 

sargasso, -azo, 384 

sargia, 160 

sarrò, 595 

sartie, 82 

sarto, 148, 434 

sartore, 434 

sassafrasso, 445 

satelle, 216 

satellite «scherano», 277 

satellite «corpo celeste», 432 

satellizio, 588, 590 

satira, 397 

Satiri, 29 

satiro, 216 

Satumus, 276 

saturo, 501 

savana, 384 

Savelli, M. A., 393, 413 

savere, 191 

savi della mercanzia, 511 

savi di ragione, 145 

savio, 161 

Savoia, 558 

Savona, carta di, 100 

sbafo, 652 

sbarbare, 152 

sbarcare il lunario, 584 

sbastigliato, 504 

sberleffo, 79 

sbocciare, 480, 626 

sbraitare, 584 

sbreccare, 80 

sbrisso Idi), 372 

sbrizzarsi, 583 — 

sbucciare, 480, 626 

scabino, 81 

scacco, 164 

scaccomatto, 164 

scafandro, 496, 514 

scaffa, 79, 511 

scaffale, 79 

scagnozzo, 582 

scala, 82 

scalco, 80 

Scaldatole, 77 

scaldo, 598 


scalessare, 574 
scalmo, 33 
scalpello, 36 
scaltro, 317, 376 
scalzacane, 439 
scalzagatto, 439 
scamotaggio, 595 
scangè, 279 
scansare, 28 

\ scapigliatura, 641 

scapolo, 365 
Scappino, 448 
j scarabattolo, 444 

j Scarabelli, L., 622 

\ scarabocchiatorio, 504 

Scaramuzza, 435 
] scarana, 272, 372 

j scàrdova, 176 

] scarlattina, 501, 514 

| scarmigliato, 414 

I Scamafol, 52 

scarsella, 153 
\ scartamento, 661 

| scartate ( dar nette), 365 

I scattedrare, 574 

scedone, 213 
| scélerato, 581 

I scelleranza, 588 

I scelta, 366 

scempiare, 317 
l scempio, 43 

scena, 412 
1 Scena, 404 

| scenario. 430 

j scenografia, 366, 370 

I scepticismo, 581 

j scerbet, 383 

scheggia, 33 
\ schei ven., 598 

ì scheletro, 442 

? schembo, 313 

; schena, 341 

scherano, 81 
schermo, 76 
scherno, 76, 80 
scherpa, 77 
scherzare, 80 

| schiaccianoci, 644 

? schiampe, 652 

! schiatta, 78 

schiave bianche, 664 
{ schiavo, 73 

] schiena, 75, 79, 341 


schienale, 270 
schiera, 81, 159 
schietto, 78 
schifare, 81 
schifo, 79 
schincherche, 524 
schioppetti o, 454 
schiuma di sangue, 498 
schivare, 81 
schizzo, 388 
sci, 665 
sciabarà, 596 
sciàbica, 163 
sciabola italo-amer., 664 
sciaccò, 596 
sciaguaro, 582 
scialle, -o, 597 
scialuppa, 519 
sciàmito, 82 
sciampagna, 519 
sciancato, 79 
scianto, 583 
sciantosa, 661, 662 
sciara, 435 
sciarabbà, 596 
sciarada, 594 
scibile Iscibilis), 47 
scicche, 662 

scientifico (scientificus ), 47 
scienza, 155 
scimmietà, 644 
scimmio, 277 
scimmiologo, 644 
scio «so», 259 
scioano, 571 
scioccarello, 581 
sciopero, 639 
sciotta, 445 
sciovinismo, 661 
scirocco, 163 
sciroppo, 164 
sciupateste, 579 
sciurta sic., 162 
sciusciuliare, 642 
sciverta, 220 
scocca, 366 
scocciare, 653 
scocollato, 505 
Scodosia, 77 
scoerro, squero, 511 
scoglio, 165 
scoiattolo, 33 
scolo, 521 


741 


I 



742 


Stona della lingua italiana 


scomberello , 372 

scommunica, 423 

scontare, 153 

scopa, 626 

scopare, 41 

scorbuto, 631 

scortilo, 525 

scorto, 525 

Scorpio, 215 

scorzonera, 444 

scosso, 372 

scottone, 137 

scranna, 79 

scredente, 504 

scrittarello, 643 

scrivano, 70 

scriviarticoli, 574 

scroto, 442 

scrutinio, 368 

scudiere, 159 

scudone, 137 

scugnizzo, 653 

sculdascio, sculdascia, 77 

scultore, 273 

scuriosarsi, 504 

scutica, 513 

sdruccioli, 275, 656 

sdrucire, 626 

sdruscire, 626 

se, 27 

sebbene, 358 

sebe pron., 92, 105 

secchia, 74, 412 

secchiaio, 586 

secco, 27 

secentismo, 485 

secentista, 495, 517 

secento, 365 

secolo (saeculum), 46 

secondarie (scuole), 595 

secrétaire, 593 

secreto, 581 

sedano, 33, 374, 448 

sedia rullante, rollante, 430, 446 

sedicente, 594 

segnacolo in vessillo, 180 

segnare «salassare», 160 

segno di caso, 364 

segnorso, 176 

segone, 573 

segretario (secretarius ), 47 
Segretario Fiorentino, 362, 390 
segugio, 31 


seguidiglia, 524 
séguito, 521 
seguso, 435 
selcio, 434 
selenografia, 443 
selezione, 638, 659 
self govemment, 597 
selfinduzione, 664 
seiino, 374 
selinografia, 443 
Sella (sigaro), 647 
sellerò roman., 448 
sellino, 640 
selva, 80, 277, 400 
selva oscura, 195 
semantica, 659 
semantica cristiana, 45-47 
semantica rustica, 43-44 
sembiante, 121 
sembianza, 193 
sembrare, 131 
Semelè, 179 
semenza, 36 
semi-, 440 
semidigiuno, 440 
semidottore, 440 
sémifiloso fo, 440 
semigigante, 440 
semilibro, 440 
semiluterano, 440 
seminario, 370, 496 
semipelagiano, 440 
semipollo, 504 
semipubblico, 440 
semitiranno, 504 
sempiterno, 155 
sempremai, 587 
senaita, sinaita, 75, 99 
senape, 33 
senato, 363 
senatoconsulto, 366 
senatore, 155 
sene, 509 
seni plur., 661 
senior, 659 
seno, 368 
senno, 81 
sensale, 163 
sensazionale, 644 
sensibile, 497, 521 
sensibilità, 521 
sensitivo (sensitivus ), 155 
senso comune, 523 


sensuale (sensualis), 155 
sentare, 372 
sentenza, 590 
sentimentale, 494 
sentimento, 451, 494 
sentinella, 386 
senza termine, 329 
separatista, 573 
separo o separo, 485 
seppia, 33 
sepsi, 592 
septico, 592 
sepulcro, 656 
sequestrare, 155 
Serao, M., 609 
Serdonati, F., 332 
sere, 159 
serico, 218 
scrocchia, 205, 214 
serpe, 367 
serpente, 403 
serra, 594 
serraglio, 383 ■ 
serrata, 639, 655, 664 
serventismo, 504 
servitore, 580 
servo, 580 
sesquiplebe, 504 
sessione, 516 
setificio, 5, 644 
setteggiare, 274 
Settembrini, L., 616, 653 
settentrione, 218 
settico, 592 
settimanale, 505 
seud o-, 440 
sezzaio, 375, 376 
sfacelo, 442 
sfarzo, 330 
sfavillo, 191 
sfera, 156 
sferisterio, 591 
sferlato, 543, 586 
sferlo, 372 
sferru sic., 585 
sfilinguellare, 583 
sfilosofarsi, 438 
sforzato, 380 
sforzo, 380 
sfrattetur, 514 
sfregolare, 586 
sfroso, 511 
sfruttare, 594 


sfumare. 213- 
sftimatura. 521 
sì? grafia 259 
sgannare. ISO 
sgargiante. 53 S 
sgemmare. 435 
sghembo. 79 
sgherro. 80 
sgomberare. 31 
sguattero , 79 
Shakespeare. W., 418 
sì e se, 487 
siccità, 218 
Sicilia, 218, 276 
Sicilia, 204-205, 256-257 
siciliana, scuola (e sua influenza), 
122-134 

sicilianismi, 653 
siciliano, 276 
siciliano illustre, 169 
siculo-toscani, poeti, 129-134 
sicuranza, 193 
siderale, 657 
sido, 28 
sigaretta, 576 
sigaro, -arro, 582, 632 
signera, 160 
signora, 359 
signore , 359, 380 
signoria, 359 
Signoria Vostra, 425 
Signorie, 114 
signorina studente, 640 
silenzioso, 590 
silfo, 524 
sillaba, 364 
sillogisma, -o, 659 
siluro, 646 
simblanza, 129 
simbolismo, 611, 657 
— simbolista, 641, 661 
simmetria, 366 
sina ven. sett., 665 
sinaita, senaita, 75, 99 
sinalife, 369 
sincope, 364 

sincope, 67, 178, 207, 209, 262 

sindaco, 640 

sinestro, 218 

sinfonia, 156 

sinfonia di odori, 611 

sinfoniale, 644 

singulare, 156 


•741 


Storia della lingua italiana 


mdice alfabetico 


745 


1 


siniscalco, 159, 161 
sinistra, 572, 579 
sino «seno», 368 
sinopsi, sinossi, 517 
sinoride, 442 
sintassi, 44° 
sintesi, 442 
sintomo, 315 
sire, 159 

sirocchia, 28, 5U 
sirocchievol ' 
sisamo, 363 
sismografo, 846 
sitire, 588 
skating, 663 
ski, 665 

sky-scraper, 665 

slancio, 598 

smacco,- 80 

smaferare, 43t 

smagare, 78 

smagato, 509 

smaltire, 79 

smalto, 383 

smalzo, 374 

smarrire, 78 

smeriglio, 82 

smetrizzare, 504 

smoking, 640, 663 

smotta, 500 

snaturato, 505 

snello, 76 

snit bologn., 665 

snob, 663 

snobbessa, 640 

soave, 261, 368 

Soave, F., 466 

socialismo, 591 

socialista, 572 

società, 442 

societario, 659 

socio, 216, 480 

Socrates, 276 

soda, 162 

sodalità, 277 

sodio, 577 

sodisfo, 579 

sofà, 383 

sofferire, 551 

soffiare isufflare) 38 

Soffredi del Grazia 144 

soffrire, 521, 55 

soffrire : la forma soffre, 377 


sofia, 515 
sofistico, 218 
so/o, 515 
sofretoso, 129 
sofrosine, 656 

soggetto isubiectumì, 155, 368 

soggiuntivo, 364 

soirée, 661 

solazo, 128 

soldano, 164 

soldato, 386 

sole, 192, 400 

Sole dell'avvenire, 639 

solere, 151, 191 

solfanello, 576 

solferino, solfino, 576 

sollazzo, 129 

sollo, 433 

solo, 271 

solum, 276, 367 

solvere, 513 

somaio, 161 

Somalia, 625 

somiere, -iero, 159, 161 

Sommariva, G., 250-25 

sommergibile, 640 

somministrare, 370 

sommità, 575 

sonettaio, 505 

sonetto, 386 

sonito, 590 

sonniloquio, 574 

sonnip rendere, 439 

sono verbo, 24 

sonorizzazione delle sorde, 147 
sopperire, 343 
soppiare, 374 
sopra, 368 
sopraccarta, 580 
sopraccoperta, 580 
soprano, 587, 599 
soprascritta, -o, 580 
sopravvivenza di voci latine nei dia- 
letti, 28 

sopravvivenza di voci lat. nella topo- 
nomastica, 27-30 
sopressata, 381 
sor-, 132 
sorbetto, 383 
sorcio, -co, 214 
sorcotta, 159 
sorcotto, 654 
Sordello. 121 


sorella, 72, 154, 214 
sorellissima, 643 
sorgo, 214 
sorice, -ico, 214 
somacare, 75, 80 
sorore, 191, 214 
sororità, 364 
sorpriso, 273 
sorta, 161 
sorte, 390 
sorvegliare, 595 
sospiro, 214 
sospite, 590 
sospizione, 587 
sostanza, 155 
sostrato, 19-20 
sottano, 587 
sotto «sciocco», 379 
sottomarino, 640 
sottoscala, 505 
sottosegretario, 639 
sotto-ufficiale, 572 
soubrette, 661 
sovente, 317, 376 
soverchio, 376 
sovra, 368 
sovra-, 132, 438 
sovramortale, 438 
sovrapiacente, 132 

I sovventore, 590 _ 

j sozio, 216, 480, 537, 587 

; sozzopra, 587 

i spaccare, 75, 77, 80 

spada, 33, 165 
spadroneggiare, 584 
spaghettata, 652 
spaghite, 644 
spagnolismi: v. iberismi 
spagnolo: influenza, 300-301, 416, 
i spago, 28 

spaldo, 376 
| spalla, 35, 45 

ì spalto, 79 

spanna, 79 
sparagnare, 81 
spàresi ven., 511 
sparruccarsi, 504 
sparviere, 160 
spasimo, 33 

spassoso, 435 

spatosa, 501 
spavento, 361 
specchio, 132, 409 


speciale, 216, 481 
specialista, 643 
specie, 155, 480 
specillo, 514 
specioso, 277 
specola, 432 

speculativo ispeculativusì, 155 
spedale, 626, 650 
speech, 597, 664 
spegazzo, 435 
speglio, 132, 409 
spelda, 408 
spelonca, 33 
spelta, 408 
speme, 24 
spencer, 597 
spene, 24 
spensare, 504 
spera, 132 
speranza, 129 
speranzare, 576 
Speroni, S., 299, 311 
spessore, 595 
spettatore, 360-361 
spettro, 432 
speziale, 216, 481 
spezie, 480 
spezzantenne, 439 
spiacenza, 193 
spiacevolezza, 504 
spice, 664 
spiedo, 76, 79 
spiemontizzarsi, 504 
spinacio, 164 
spinilo, 658 
spiritello, 134 
spirito, 134, 155, 377 
spirito forte, 494, 521 
478 Spirito, L., 343 

spirto, 132, 377, 613 
spizio, 525 
spoetarsi, 364 
spogliazza, 588 
spola, 78 
spoltrire, 180 
sponte, 276 
sporta, 378 
sportare, 273 
spranga, 79 
spreco, 579 
spregiudicato, 494 
sprinter, 663 
sprocco, 79 


746 


Stona della lingua italiana 


sprotetto, 504 

spugna, 33 

spulciacodici, 644 

spurio, 31, 218 

sputaincroce, 439 

squero, 82, 158, 511 

squitinio, squittinio, 368, 653 

sreligionato, 504 

- ss - per -zz-, 131 

stabale, 624 

stabilimento, 497 

stabilito, 368 

staccionata, 652 

stadico, 161 

staffa, 76, 79 

staio, 576 

stalagmite, 514 

stalla, 78 

stamani, 261 

stambecco, 79 

stamberga, 79 

stampa: v. arte della stampa 

stampa di libri in volgare, 223. 229 

stampa quotidiana: v. giornalismo 

stampare, 270 

stanco, 272 

stan forte, 164 

stanga, 79 

stapula, 383 

starna, 99 

statico, 161 

stationario, 156 

Stati generali, 504 

Stati Uniti, italiano negli, 625 

stato, 359 

stato d’animo, 662 

statuare, 364 

statuito, 368 

statuti in volgare, 118. 184, 287-288 

statuto, 155, 580 

stearina, 517 

stecca, 79 

stecco, 79, 191 

steeple chase, 597 

Stefano Protonotaro, 126 

stégola, 32 

stella, 214, 400 

stella alpina, 642 

stella errante, 370 

stelle Medicee, 432 

stelo, 44 

stendardo, 159 

Stendhal, 535 


Stenterello, 575 
stephane, 656 
steppa, 523 
steresi, 590 
steriino, 164 
sternutare, 36 
stero, 160 
sterpo, 42 
stertore, 446 
sterzo, 79 
stessissimo, 427 
steura, 383 

sti- per schi-, 261, 352, 424 
stia, 7, 8 
stiampa, 652 
stiattaione, 500 
stidione, 424 
Stigliani, T., 414 
stilare, 505 
stilistica, 598 
stillo, 191 

«Stil nuovo», 130, 132-134, 171, 174, 
189 

stimolo, 42 

stinco, 79 

stipo, 444 

stirpe, 42, 218 

stoa «cavalla», 75 

stoccafisso, 271 

stock, 663 

stolido, 370 

stollo, 79 

stomaco, 33, 631 

stomacone, 137 

stombolo, 42 

storgere, 582 

storia della cultura, 664 

storiare, 157 

storiografia in latino e in volgare, 
293 

storlomia, 156 
stormire, 76 
stormo, 76 
straccalettori, 365 
stracchino, 585 
stracco, 80 

strada ferrata, 577, 597 
stradico, 158 
stradiotesca, lingua, 302 
stradiotto, 269 
strale, 76, 79, 317 
strano, 272 
straticò, 82, 158 


Indice alfabetico 


747 


stratificare, 442 

stratigrafia, 577 

strato, 271 

stravizzo, 383 

stregghia, 176 

strennissima, 643 

streppare, 373 

strep(p)one, 272 

stria, 277, 366 

strillozzo, 500 

stroppa, 374 

strozza, 75, 79 

struggicuori, 439 

stucco, 79 

studentessa, 740 

studianaio, 644 

studiare, 652 

studio, 155 

stufa, 358 

stummia, 582 

suave, 261, 368 

subarcadico, 504 

subbia, 626 

sublime, 494 

subornare, 442 

subsannare, 657 

succedituro, 590 

succhione, 639 

succiamele, 500 

succiso, 156 

sucì, 519 

sudate carte, 574 

Suffetti, 366 

sufficiente, 481 

suffisant, 594 

suffiziente, 481 

suggetto, 368 

suggezione, 581 

sughillo, 586 

sugliardo, 220 

suini, 572 

sulky, 663 

sultano, 164 

SUO, 208, 266, 488 

suon dell’ arpe angeliche, 575 

suora, 154, 214, 506 

suore, 214 

suoro, 214 

super-, 643 

superfetazione, 645, 659 
superficiale, 521 

superlativo, 150, 174, 211, 266, 267, 
427 


superlativo relativo con l’articolo ri- 
petuto, 490, 564 
superstrato germanico, 56 
superuomo, 643 
Suplainpunio, 53 
supra-, 578 
supra-romantico, 578 
surmenage, 662 
surrepire, 658 
surtù, 519 
suscettibile, 446 
sussecivo, 441 
sussiego, 5, 380 
susta, 586 
sustanza, 581 
suto, 316 
suttiliore, 263 
svànzica, 598 
sventramento, 640, 646 
sversato, 583 
svescovato, 364 
Svevi, 113-114 
sviluppamento, 521 
svilupparsi, 645 
svìmero, 496, 524 

t lat. finale, 24 

t lat. intervocalica e suo trattamen- 
to, 108, 201 
tabacco, 384 
Tabarrini, M., 604 
tabellione, 35 
taccia, 219 
taccola, 79, 374 
tacchino, 383 
taccuino, 152, 163 

tacere : pass. rem. tacque e tacette, 177 

tachigrafo, 578 

tachitipo , 578 

tafano, 32 

tafferia, 583 

tafferuglio, 271, 279 

taglia, 121 

tagliaborse, 439 

tagliando, 596 

Tago, 403 

taille, 476 

tailleur, 640 

talento, 129 

Taliano n. pers., 116 

taliter qualiter, 276 

tallero, 382 

tamen, 367 



748 


Stona della lingua italiana 


Indice alfabetico 


749 


tanca, 653 
tandem, 367 
tando, 128 
tanè, 220 
tanfo, 80 

tangere-, non mi tange, 655 

tango, 655 

tantaleggiare, 505 

tanto minus, 276 

tantum, 276 

tappa, 446, 663 

tappeto, 33 

tappeto : mettere sul t., 447 
tappezzeria, 379 
tara, 163 

tara «grave difetto», 595 

fargia, 159 

tariffa, 163, 386 

tarpano, 539 

Tartaglia, N., 290 

Tartaro, 540 

tartaruga, 35 

tartina, 593 

tartufo, 32 

tarzanà, 162 

tasca, 453 

tascabile, 496 

tassabile, 497 

tassametro, 659 

tasso (anim.), 77 _ 

tasso (econ.l, 595 

Tasso, T., 304, 366 

Tassoni, A., 412 

tata, 37 

tattera, 76 

tattow, 525 

taumaturgo, 442 

Tauro, 215 

taverna, 31 

tavola, 68, 153 

tavoletta, 522 

tavolo, 584, 650 

tazza, 220 

tè, 430 

Teatro, 404 

teatro, 529, 603 

tebe pron., 92, 105 

tecmirio, 369 

tecnico, 516 

tecnomasio, 651 

tecomeco, 152 

teda, 614 

tedesco: influenza, 303, 478, 


624 


tedeschismi, 164, 220, 279, 382-383, 
447, 598, 664-665 
tegghia, 24, 68 
teglia, 24, 68 
tegola, 24, 67 
teint, 476 
telegramma, 592 
telepatia, 641 
telescopio, 432, 440 
teletta, 522 
tellurico, 592 
temenza, 193 
temmirio, 369 
tempeste dell’acciaro, 456 
tempo, 453 

Tempo, Antonio da, 198 
Tenca, C., 548 
tender, 577, 596, 597 
tenenza, 640 
tenere, 27 

tenere in bilico, 509 
tener per fermo, 589 
tenorista, 214 
tentarne, 590 
teocrazia, 571 
teofilantropia, 571 
teoria, 611, 659 
tergiduttore, 366 
tergiversare, 442 
teriaca, 33 
Termasse, 215 
Termi, 215 

terminare : pàss. rem. terminonno. 
177 

Termini, 29 

termini amministrativi, burocratici, 
611-612, 620-621, 636 
termini architettonici, 270, 293 
termini artistici, 213 
termini giuridici, 431, 496 
termini grammaticali, 363-364 
termini medici, 500 
termini scientifici, 271, 458, 498-504, 
547, 611 

termini sericoli, 510-511 
termini tecnici, 363 e passim 
termini teologici, 23 
termometro, 440, 646 
terra, 27 
terralcìqueo, 515 
terr amara, 641 
terra natia, 541 
terrapieno, 386 


Terra Santa, 561 
terremoto, 480 
tersanaia, 162 
terza pagina, 641 
terza pagina, 603 
terzenale, 162 
terziario, 501 
teschio, 43 
«Teseida», 186 
tesi, 442 
tesoro, 192, 214 
Tesoro, 404 
testa, 38, 43 

testa-, a testa a testa, 521 
testamento, 47 
teste, 658 

testé, 316, 376, 412, 588 
testimonio, 72 

testore, 273 — — . 

testudinato, 276 

testudo, 513 

tetragono, 179, 180 

Tetragrammatonne, 276 

tetro, 342 

tetta (fitta), 39 

teute, 499 

teve pron., 195 

th grafìa, 98, 146-147, 259, 335, 347-348, 
420, 659 
Thalweg, 596 
tholos, 656 
Thomas, W., 345 
-ti- lat., 25 

ti grafia etimologica, 259, 335, 347- 
348, 419-420 
ti e te, 487 
ticchettio, 642 
tiepido, 509 
Tifi, 403 
tifo, 577, 591 
tifone, 385 
tight, 640, 663 
figlia, 614 
tigre m., 263 
Tigri, G., 616 
tilbury, 657, 697 
timbro «bollo», 593 
timbro «campanello», 662 
timore, 156 
tin tin, 642 
tirabussone, 519, 576 
tirannia, 571 
tirocinio, 370 


titoli, 405 
titolo, 155 
titubazione, 442 
toast, 524 
toccante, 521 
toccare, 521 
Tòdero, 81 
toelette, -a, 522 
fognino, 573 
toilette, 522 
tolda, 381 
tolerare, 481 
toletta, 522 
t olla, 76 
tollerare, 481 

Tolomei, C., 315, 321-322, 332, 335-338 

tornate, 384 

tombaca, -acco, 519 

tombolo, 500, 501 

tomela, 101 

tomismo, 115 

Tommaseo, N., 535, 556, 621, 622 

Tommaso d’ Aquino, 117 

tómolo, 163 

tonaca, 47 

tonfano, 75, 79 

tonfo, 80 

ton(n)ellata, 381 

tonno, 33 

tono, 480, 581, 626 

topistomelli, 214 

topologia: v. ordine delle parole 

topipìè, 522 

-torà, 640 

torba, 383, 500 

torbido (pescare nel), 521 

torcilegge, 574 

-tore, 640 

torero, 598 

torista, 627 

tèrmini, 514 

tomabuona (erba), 384 

tornaconto, 579 

tornagusto, 587 

tornare «ritornare», 45 

tornare «voltare», 121 

tornata, 44 

tomàtile, 514 

tomatura, 44 

torneo, 160 

tomese, 160 

tomiello, 588 

torno, tornio «strumento», 521 



750 Storia della lingua italiana 



tomo, tornio «giro», 521 

tramontana, 386 


torpedine, 646 

tramway, 577, 597, 640, 663 


Torraca, F., 645 

trancia, 661 


torreggiare, 180 

trangugiare, 31 


torrenziale, 659 

tranquillizzare, 517 


Tornano, G., 418 

transazione, 516 


torrone, 381 

transire, 589 


tórso, 44, 270 

transitivo, 364 


tórsolo, 44 

transitorio, 218 


Torti, F„ 547 

Transpadani, -padini, 54 


tory, 524 

transumanare, 180 


tosare (* tornare), 36 

trantran, 595 


Toscana, 189, 196-198 e passim 

tranvai, 627, 640 


toscana, influenza, 143, 196-201, 306, 

trapano, 53 


460-463,- 539, 582-584 

trapassato remoto, 211 


toscanità della lingua, 243-244, 320- 

trapelare, 437 


328, 460 

trappitu, 39 


toscanizzazione dei canzonieri, 125, 

trappola, 79 


130 

trappu, 273 


Toscano, 116 

trasferta, 576 


toso, tosa, 73 

trasformatore, 642 


tostare, 36, 524 

trasformismo, 601, 638 639 


tosto, 342, 377, 524 

traslatore, 277 


totale (fotolisi, 155 

traslocare, 576 


tour, 521 

trasporto, 521 


tour : à notre tour, 522 

trasposizioni, 492 


tour de force, 662 

trattino, 561 


Touring Club Italiano, 663 

trattore, -ia, 594 


toumure, 640 

travaglio, 521 


tovaglia, 160 

Travale, testimonianza di, 98 


tra-, 132, 564, 578 

travedere, 594 


trabante, 383 

travestire, 428 


trabocchello, 588 

travet, 647 


tracasseria, 521 

traviata, 575 


tracotanza, 437 

trecentesco, 544 


tradire, 46 

Tre corone, 194-196, 243, 304 

■ 

tradolze, 132 

tregenda, 221 


tradurre, 276 

tregua, 76, 81 


traduzioni, 186-187, 234-235, 292-293, 

tremuoto, 480, 581 


456, 459 

treno, 446, 579 


trafiletto, 641, 661 

Trentino, 602, 624 


tragediabile, 504 

treppare «saltare», 221 


tragediessa, 504 

trescare, 76, 81 


tragelafo, 277 

trescone, 76 


tragicommedia, 277 

trias, 577 


traiettoria, 659 

tribo, 587 


tròtto, tratto, 148 

tribolato, 506 


tralatare, 277 

triclinio, 276 


tram, 640 

tricolore, 572 


Tramater, 555 

tric trac, 364 


tramelogedia, 504 

Trieste, 602,624 


tramenio, 454 

trigonometria, 478 


tramite, 590 

trilingue, 370 



ndice alfabetico 


trilingui, sonetti, 198 
trina, 373 
trincea, -era, 379 
trinchesvaina {aliai, 382 
Trinità, 216 
triplicista, 639 
tripode, 370 

Trissino, G„ 315-317, 329, 335-336 

triumviri, 591 

triunfare, 179 

tro', 121 

trovadore, 582 

trobadorica, poesia, 114 

trofeo, 277 

trogolo, 79 

troika, 665 

trolley, 640, 663 

troncamento, 250, 262, 353, 485, 563, 
630-631 
tropa, 380 
troppo, 81 
troppo ... per, 490 
trovadore, 378 
trovante. 652 
trovare, 160 
trovatore, 160, 582 
truculento, 218 
tramò, 519 

truppa (mil.l, 380, 419 

truppa «compagnia teatrale», 521 

trust, 663 

trutina, 366, 589 

trutta, 435 

tuba, 576 

tubercolosi, 642, 644, 658 
tucul, 665 
tufazzolo, 77 
tuffare, 75-80 
tulipano, 383 
Tunisia, 624 
tunnel, 577, 597 
tuo, 208 

tuono, 480, 581, 626 
tupipìè, 522 
turba, 383 
turbante, 384 
turbato, 153 
turbina, 642, 661 
turcasso, 82 
Turchia, 624 
turchismi, 383 
turf, 597, 663 
tuffa, 500 


75 ) 


turismo, 663, 664 
turista, 627, 663, 664 
turlupinare, 661 
tufo, 368 
tuttatré, 318 

tutti e due, tutt’e due, 509, 551 
tutto giorno, 521 
tz grafìa, 62, 259 
tzerbet, 383 

-u- lat. semiconsonante e suoi esiti, 
26 

u alternante con o nei latinismi, 352 
u pronunziata alla francese, 485 
-U e -O finali, 95, 97, 99, 101, 105, 127, 
136, 253 

u e v distinti nella grafia, 259, 335, 
336, 349, 421, 482 
u’, 375 
ubbidire, 551 
ubèro, 381 
ubi, 178 
ubriaco, 36 
uccellino, vite, 585 
uccello, 36 

uccidere loccidereì, 38, 41 

ufeggiare, 579 

ufficiale, 582, 626 

ufficio, -izio, 377, 582, 626, 650 

uffiziale, 627 

uffiziolo, 453 

affo, 75, 79 

ufiziale, 626 

ufizio, 626, 650 

uggioso, 551 

Ugolini, F., 556 

ugonotto, 362, 382 

Uguccione da Lodi, 138 

ulcerare, 215 

uliginoso, 520 

-ufo, 581 — 

ultimare, 47 

ultimatum, 592 

ultimo avanzo..., 575 

ulto, 540 

Umanesimo, 182, 224 
umanesimo volgare, 231, 332-334 
umanista, 361 
umanità, 521 
umanizzare, 517 
Umbria, 203-204, 252 
umbro (dial. italico), 17 
ùmero, 368 


752 


Stona della lingua italiano 


Indice alfabetico 


753 


1 


Umidi, 333 

umile, 132 

Umlaut, 665 

umlautizzare, 665 

undici once, 583 

ungarese, 581 

Ungheria, 58J 

unghia, 36 

uni-, 440 

unico, 272 

uniforme, 595 

unisillabo, -ico, 440 

univalve, 365 

universalizzazione, 578 

università luniversitasì, 155 

Università, 114, 152, 183, 284, 286, 529 

unqua, 645 

unquanco, 376, 588 

unto sutile, 258 . 

unzione, 480 

UO ed O, 191, 207, 261, 262, 314, 351, 
423, 434, 485, 551, 563, 620, 630 
uo ridotto a u, 147 
uo «o», 100 
uomo, 148 

uomo «vassallo», 161 
uomo come indefinito di terza perso- 
na, 150 
uopo, 376, 614 
■ura, 132, 152, 161 
uragano, 384 
urango, 498, 645 
urbanismo, 640 
urbano, 624 
Urbino, 252 
urente, 313 
uro (urusì, 77 
usbergo, 81,-159 
usignoleggiare, 438 
«uso» linguistico, 617 
ussero, 383 
ussorìcida, 440 
ustionare, 643 
usucapione, 442 
usurpo, 505 
utente, 590 
utero, 370 
utilizzare, 578 
uuid uid, 642 

vacca, 27 
vaccherella, 581 
vaccina, 501 


vaccinogeno, 644 
vagabondaggio, 593, 595 
vagabundo, 216 
vago, 156 

vagone, 577, 596, 597 
vaiuolo, 434 
valdesi, colonie, 113 
Valeriani, G., 556 
Valeriano, G. P„ 317-318 
Valhalla, 598 
vallare, 179 
valletto, 219 
Vallisnieri, A., 468 
valore, 134 
valtz, valz, 582 
vammastro, 595 
vampate, 274 
vampiro, 504, 525 
va narello, 581 
vanesio, 495 
vanga, 77 
vangelo, 218 
vanni, 654 
vanume, 574 
vanvara (a), 582 
vaporiera, 657 
Varchi, B., 323-326, 339 
varola, 372 
vaso, 318 

vassallo, 32, 81, 159 
vattelappesca, 584 
vebe pron., 105 
vecchio, 72 

vedere: la forma veo, 131 
vedere : veduto e visto, 377 
veedoiie), 382 
veemente, 277 
Vega, 163 
veggio, 176 
veglionissimo, 643 
velen dell’argomento, 180 
velico, 644 
velite, 590 

velivolo, 611,640, 664, 657 
velocifero, 574, 577 
velocipede, 640 
velocipedismo, 603, 643 
velocitare, 437 
velodromo, 661 
veltro, 32, 160 
vendeista, 571 
vendemmiatore, 582 
vendemmiese , 582 


vendetta, 599 
vendetta allegra, 180 
vendilettere, 579 
vendi-sangue, 504 
vendita, 36 
venenoso, 513 
venerabundo, 514 
Venere, 216 

I vènere «venerdì», 373 

venereo, 218 
venefico, 17 

3 venetismi, 372, 435, 510-513, 586, 651 

Veneto, 183, 195 
veneto forense, 454 

! Venezia: arte della stampa, 251-252 

: Venezia: influenza nel Levante, 346 

! vengiare, 193 

ì venire modale, 212, 490 

\ venir di .... 476 

! Veno, 216 

venti generali, 385 
ventilatore, 496, 514 
ventipreda, 439 
Venus, 216, 276 
j Venusso, 216 

I venusto, 218 

; venzei, venzette, 209, 264, 487 

vera, 585 

| verace, 156 

j veranda, 666 

verbale, 612 
verbi di timore, 212 
verbi gratta, 367 
\ verbo, 364 

| verbo: flessione, 149, 208-210, 264-265, 

; 356, 425-426, 488-490, 567, 634-635 

\ verbo in fine, 194, 638 

\ verdatero, 279 

j verde, 272 

! verecondia, 216 

j verecondo, 218 

verecundia, 216 
verga, 597 

j Verga, G., 610 

verginile, 274 
; verismo, 643 

verista, 641 

vermicelli «spaghetti», 448 
vermicello, 373 
ì vermiglio, 159 

] vermut, -utte, 627 

' vernacolo: v. dialetto 

\ vernissage, 661 


vero aw, 276 
Verri, A., 462 
versante, 595 

versiscioltaio, -ato, -eria, 504 

verso bianco, 523 

versorio, 65 

versuto, 589 

vertuoso, 360 

verzaglio, 373 

verziere, 160 

vescovo, 34 

vespro, 46 

vestaglia, 651 

vestibolo, 366 

Vesuvio, 501 

vetrina, 595 

vetriolo ( vitriolumì , 155 
vettina, 372 
vettovaglia, 36 
vettura, 579 
vetula, 215 

vezzeggiativi che perdono il valore 
diminutivo, 36 
vi aw, 487 
viadotto, 577, 597 
via ferrata, 597 , 
viaggi e scoperte, 292 
viaggio, 160 
Viani, P., 556 
viapiù, 481 
vibrione, 577 
Vicchio, 29 
vice-, 438, 440 
Vicedio, 438 
Vicefebo, 438 
vicenome, 364 
vicepiè, 505 
vicetiranno, 504 
Vico, G. B., 460. 469 
victoria, 640 
vigilare, 218 
vigile, 218, 590 
vigliacco, 380, 412 
viglietto, 444, 445 
vigna, 69 

Vigna, Pietro della, 116 
vignetta, 521 
vigogna, 384 
vilipendio, 368 
villa, 525 
villanoviano, 641 
villareccio, 581 
villeggiatura, 525 


754 


Storia della lingua italiana 


Indice alfabetico 


755 


villeggio, 505 

villoso, 370 

vime, 216 

vincibosco, 374 

vinciglio, 374 

viola, 160 

violino, 448 

violoncello, 525 

viosk piem., 28 

viraggio, 642 

virente , 613 

Virgo, 215 

virgola, 349, 442 

virtù ivirtus), 45, 271, 360 

virtuale Ivirtualisì, 155 

virtude, 541 

virtuoso, 360, 448 

visaggio, 121, 161, 436 

visare, 519 

vis-à-vis, 662 

Visconti, Filippo Maria, 226 

Visconti, G., 248 

visibilio { andare in), 650 

vista, 521 

vite, 45 

vitello, 36 

vitreo, 277 

viva, lingua, 299 

vivificare, 41, 156 

vivituro, 590 

vocabolari, 245, 331, 416, 467, 554-556, 
622-663 

vocaboliera, 504 
vocabulizare, 275 
vocale, 364 

vocativi latini e loro tracce, 95, 148 
voce, 24 
vocessa, 437 

voci latine sparite, 40-41 
voci letterarie, 586-589 
volante, 662 
volcano, 501 
volere modale, 212 
volerne, 662 

volgare: prime testimonianze, 62-63 
«volgare», 244, 328 
«volgare illustre», 169 
volgare schiera, 180 
volgarizzamenti, 144-145, 185 (v. an- 
che traduzioni) 
volgo, 368 
volpinesco, 274 
volt. 624. 642 


volta, 44 
Volterra, 104 
voluta, 366 
vongola, 653 
vortice, 442 
Vorwàrtsl, 664 
vosco, 509 
vossignorare, 504 
Vostra Signoria, 263 
vulcano, 384, 501 
vulgo, 368, 581 
vulgo avv., 61 
vulture, 613 

wagon, 596 
walser, 582 
walzer, 576, 582, 598 
water-closet, 663 
Welser, M., 418 
Weltanschauung, 664 
whig, 524 
Wurstel, 665 

x lat. e suo trattamento, 25-26 
x grafia ligure e sicil., 100, 259, 42 1 
xanzio, 499 
xilologia, 516 

y grafia in latinismi e grecismi, 259, 
335, 482, 627, 659 
yacht, 663 

Z e f, 336 

z grafia per s sonora, 207 

z scempia e doppia, 420, 483 

zabbattera, 273 

zafferano, 163 

zaffo, 79 

zàgara, 162, 653 

zaino, 381 

zamarra, 381 

zambello, 272 

zambra, 159, 220 

zambracca, 220 

zampano, 373 

zampogna, 33 

zana, 79 

zanna, 79 

Zanni, 361, 386 

Zannichelli, G. G. e G. 1., 498 

Zanvido, 52 

zanzara, 373 

zara, 164 


zavana, 384 
zazzera, 76, 79 
zebra, 385 

zecca (dove si coniano le monete), 
163 

zecca (insetto), 79 
zeccare, 511 
zecchino, 361 
zenit, 163 

zenzala, -ara, 372, 373 

Zerbino, zerbinotto, -eria, 403 

zero, 386 

zetani, 654 

zettazione, 420 

zibibbo, 164 

zibra, 372 

zifra, 163 

zlgaro, 582 

zighediglia, 524 

zighinetta, 220 

zi gotto, 380 

zimarra, 381 

zimbello, 160 


zinale, 434 

zinco, 519 

zincone, 79 

zinna, 79 

-zione, 152 

zipolo, 79 

zirlare, 642 

zitella, zittella, 626 

zizza, 79 

zoani, 656 

zodiaco, 156 

Zoilo, 403 

zoioso, 159 

zolfanello, 576 

zolfatara, 435 

zolfino ., 576 

zolla, 76 

zona, 217 

zone grigie, 639 

zoofitico, 645 

zoolatrico, 590 

zucchero, zuccaro, 163, 626 

zuppa sauté, 662 



INDICE GENERALE 


Introduzione - Bruno Migliorai e la sua «Storia dalla lingua 


italiana» vii 

Premessa 3 

Nota bibliografica 7 

I. La latinità d’Italia in età imperiale li 


1. Da Augusto a Odoacre, p. 11 -2. Lingua parlata e 
lingua scritta, p. 12 • 3. Fonti per la conoscenza del 
latino parlato, p. 13 - 4. Lingue prelatine, p. 15 --5. 
Condizioni sociali. Il Cristianesimo, p. 17 - 6. Fattori di 
differenziazione, p. 19 - 7. Distacco della lingua lettera- 
ria, p. 22 - 8. Principali fenomeni grammaticali, p. 23 - 9. 

Il lessico: voci che sopravviveranno, p. 27 - 10. Relitti e 
imprestiti, p. 30 - 11. Grecismi, p. 32 - 12. Nuove 
formazioni, p. 35 - 13. Lotta fra parole vecchie e parole 
nuove, p. 37 - 14. Geografia areale. Caratteri delle 
innovazioni italiane, p. 39 - 15. Mutamenti di significa- 
to, p. 42 - 16. Semantica cristiana, p. 45 - 17. Tarde 
coniazioni dotte, p. 47. 

II. Tra il latino e l’italiano (476-960) 49 

1. Limiti, p. 49 - 2. Romani e Germani. I Goti, p. 49 - 3. I 
Longobardi, p. 50 - 4. La circolazione linguistica al 
tempo dei Longobardi, p. 54 - 5. I Franchi, p. 56 - 
6. Bizantini e Musulmani, p. 57 - 7. La latinità medieva- 
le. Alcuni esempi tipici, 58 - 8. L’apparire del volgare, p. 

62 - 9. L’indovinello veronese, p. 63 - 10. Influenza lingui- 
stica dei dominatori e suo carattere, p. 66 - 11. Muta- 
menti fonologici, p. 67 - 12. Mutamenti morfologici, p. 69 
- 13. La derivazione, p. 71 - 14. Mutamenti semantici, p. 


758 


Storia della lingua italiana 


72 - 15. Influenza del latino medievale p. 73 - 16. Gli 
elementi germanici, p. 74 - 17. Distinzione dei vari strati 
germanici, p. 74 - 18. Voci germaniche di età imperiale, 
p. 77 - 19. Voci gotiche, p. 78 ■ 20 . Voci longobarde, p. 79 - 
21 . Voci franche, p. 80 - 22 . Voci bizantine, p. 81. 

III. I primordi (950-1225) 83 

1 . Limiti, p. 83 - 2 . Si può già parlare di testi italiani?, p. 

83 - 3. Eventi storici, p. 83 - 4. Movimenti culturali, p. 84 - 
5. Tardo affermarsi del volgare, p. 85 - 6 . Circolazione 
di persone, p. 88 - 7. Conoscenza delle lingue e lettera- 
ture d’oc e d’oil, p. 89 - 8 . I placiti cassinesi, p. 90 - 
9. Testi del secolo XI. Carte sarde. Postilla amiatina, 
p. 93 - 10 . Iscrizione di S. Clemente, p. 94 - 11 . Confessio- 
ne di Norcia, p. 95 - 12 . Testi del secolo XII, p. 97 - 

13. Testimonianze giudiziarie, p. 98 - 14. Scritte e ricor- 
di, p. 99 - 15. Iscrizione del Duomo di Ferrara, p. 102 - 

16. Ritmi giullareschi. Elegia giudaica, p. 103.- 17. Ritmi 
storici, p. 106 - 18. Versi volgari in un dramma liturgico, 
p. 107 : 19. Sermoni, p. 107 - 20. Versi didattici, p. 108 - 
21 . Il contrasto e il discordo di Rambaldo di Vaqueiras, 
p. 109 - 22. Bilancio di due secoli e mezzo, p. 110. 

IV. Il Duecento 113 

1 . Limiti, p. 113 - 2 . Vicende politiche, p. 113 - 3. Vita 
culturale, p. 114 - 4. Latino e volgare, p. 116 - 5. Cono- 
scenza del francese e del provenzale, p. 119 - 6 . Poe- 
sia d'arte e prosa d’arte, p. 122 - 7. La scuola poetica 
siciliana e la sua lingua, p. 123 - 8 . La lingua dei poeti 
toscani, p. 129 - 9. La poesia religiosa umbra e la sua 
lingua, p. 135 - 10 . La poesia religiosa e didattica nel- 
l’Italia settentrionale, p. 138 - 11 . La prosa. Origini e 
fioritura della prosa d’arte. I volgarizzamenti, p. 141 - 
12 . I fatti grammaticali, p. 145 - 13. Grafia, p. 146 - 

14. Suoni, p. 147 - 15. Forme, p. 148 - 16. Costrutti, p. 149 - 

17. Fatti lessicali, p. 152 - 18. Latinismi, p. 154 - 19. Gal- 
licismi, p. 158 - 20 . Voci di origine orientale, p. 162 - 
21. Altri filoni del lessico, 164. 

V. Dante 167 

1 . Dante «padre della lingua», p. 167 - 2 , Idee di Dante 
sul volgare, p. 168 - 3. La lingua di Dante dalle liriche 
giovanili alla Divina Commedia, p. 173 - 4. Grammatica 
e lessico della Divina Commedia, p. 176 - 5. Efficacia di 
Dante, p. 180. 


Indice generale 


759 


VI. Il Trecento 181 

1 . Il Trecento, p. 181 - 2 . Eventi politici, p. 182 - 3. Vita 
civile e culturale, p. 182 - 4. Latino e volgare, p. 183 - 
5 . Conoscenza di altre lingue, p. 187 - 6 . Il volgare in 
Toscana, p. 189 - 7. Petrarca, p. 190 - 8 . Boccaccio, p. 192 
- 9. Culto delle Tre corone, p. 194 - 10. Preminenza di 
Firenze in Toscana e della Toscana in Italia, p. 196 7 
il. Il volgare nell’Italia settentrionale, p. 198 - 12 . Il 
volgare nell’Italia mediana, p. 203 - 13. Il volgare 
nell’Italia meridionale e nelle isole, p. 204 - 14. I fatti 
grammaticali e lessicali, p. 205 - 15. Grafia, p. 206 - 
16. Suoni, p. 207 - 17. Forme, p. 208 - 18. Costrutti, p. 210 - 

19. Consistenza del lessico e suoi mutamenti, p. 213 - 

20 . La tinismi, p. 214 - 21 . Gallicismi e altri forestierismi, 
p. 219 - 22 . Voci non toscane, p. 221 . 

VII. Il Quattrocento 223 

1 . T .imiti, p. 223 - 2. Eventi politici, p. 223 - 3. Vita 
culturale, p. 224 - 4. La «crisi» quattrocentesca, p. 230 - 
5. Latino e volgare, p. 232 - 6 . L’umanesimo volgare, p. 

241 - 7 . Il volgare in Toscana, p. 245 - 8 . Il volgare 
nell’Italia settentrionale, p. 247 - 9. Il volgare nell’Italia 
mediana, p. 252 - 10 . Il volgare nell’Italia meridionale, 
p. 253 - il. La norma linguistica, p. 257 - 12 . Grafia, p. 

259 - 13. Suoni, p. 261 - 14. Forme, p. 263-15. Costrutti, p. 

266 - 16. Consistenza del lessico, p. 268 - 17. Latinismi, p. 

274 - 18. Forestierismi, p. 278. 


Vili. Il Cinquecento 281 

1. Limiti, p. 281 - 2. Vicende politiche, p. 281 - 3. Vita 
sociale e culturale, p. 282 - 4. Latino e volgare, p. 285 - 
5 . Contatti con altre lingue moderne, p. 300 - 6. La lin- 
gua letteraria, p. 303 - 7. L’uso letterario dei vernacoli, — 
p. 308 - 8 . La questione della lingua, p. 309 - 9. Gramma- 
tici e lessicografi, p. 328 - 10. Interventi di autorità. 

Opera di accademie, p. 332 - 11. Tentativi di riforme 
ortografiche, p. 335 - 12. L’accettazione della norma, p. 

339 - 13. L’italiano fuori d’Italia, p. 344 - 14. Grafia, p. 347 
- 15. Suoni, p. 350 - 16. Forme, p. 353 - 17. Costrutti p. 357 - 

18. Consistenza del lessico, p. 358 - 19. Latinismi, p. 365 - 
20 . Voci dialettali e regionali, p. 371 - 21 . Voci antiquate, 
p. 375 - 22 . Gerarchie di parole, p. 376 - 23. Forestierismi, 
p. 378 - 24. Italianismi accolti in altre lingue, p. 385. 

%r- 


760 


Storia della lingua italiana 


IX. Il Seicento 389 

1 . Limiti, p. 389 - 2. Eventi politici, p. 389 - 3. Vita sociale 
e culturale, p. 390 - 4. Latino e italiano, p. 392 - 5. Scritti 
letterari e scritti pratici, p. 394 - 6. Artifìci del concetti- 
smo, p. 399 - 7. Uso effettivo e uso riflesso dei dialetti, p. 

406 - 8. Il Vocabolario della Crusca, p. 407 - 9. Discussio- 
ni sulla norma linguistica, p. 410 - 10. Grammatici e 
lessicografi, p. 414 - 11. Rapporti con altre lingue, p. 416 
- 12. 1 fatti grammaticali e lessicali, p. 418 - 13. Grafia, p. 

419 - 14. Suoni, p. 422 - 15. Forme, p. 424 - 16. Costrutti, p. 

427 - 17. Consistenza del lessico, p. 428 - 18. Latinismi, p. 

441 - 19. Forestierismi, p. 443 - 20. Italianismi diffusi in 
altre lingue, p. 447. 

X. Il Settecento 449 

1. Limiti, p. 449 - 2. Eventi politici, p. 449 - 3. Vita sociale 
e culturale, p. 450 - 4. La lingua parlata, p. 452 - 5. Scritti 
in versi e scritti in prosa, p. 455 - 6. Discussioni sulla 
norma linguistica, p. 459 - 7. Grammatici e lessicografi, 
p. 466 - 8. Latino e italiano, p. 469 - 9. Uso scritto dei 
dialetti, p. 471 - 10. Rapporti con altre culture e lingue 
europee, p. 473 - 11. I fatti grammaticali e lessicali, p. 

480 - 12. Grafia, p. 482 - 13. Suoni, p. 484 - 14. Forme, p. 

485 - 15. Costrutti, p. 490 - 16. Consistenza del lessico, p. 

493 - 17. Il «linguaggio poetico», p. 506 - 18. Arcaismi, p. 

508 - 19. Dialettalismi e regionalismi, p. 510 - 20. Lati- 
nismi, p. 513 - 21. Francesismi, p. 518 - 22. Altri forestie- 
rismi, p. 523 - 23. Italianismi in altre lingue, p. 525. 

XI. Il primo Ottocento (1796-1861) 527 

1. Limiti, p. 527 - 2. Eventi politici, p. 527 - 3. Vita sociale 
e culturale, p. 528 - 4. Principali tendenze nel mutamen- 
to linguistico, p. 530 - 5. La lingua parlata, p. 533 - 6. Il 
linguaggio della prosa, p. 536 - 7. Il linguaggio della 
poesia, p. 540 - 8. Discussioni sulla lingua, p. 544 - 
9. Grammatici e lessicografi, p. 553 - 10. Rapporti con 
altre lingue, p. 557 - 11. Oscillazioni nell’uso, p. 559 - 
12. Grafia, p. 560 - 13. Suoni, p. 562 - 14. Forme, p. 563 - 
15. Costrutti, p. 569 - 16. Consistenza del lessico, p. 571 - 
17. Voci popolari moderne, p. 582 - 18. Voci letterarie ed 
arcaiche, p. 586 - 19. Latinismi, p. 589 - 20. Francesismi, 
p. 592 - 21. Altri forestierismi, p. 597 - 22. Italianismi in 
altre lingue, p. 598. 


Indice generale 


761 



XII. Mezzo secolo di unità nazionale (1861-1915) 601 

1. Limiti, p. 601 - 2. Eventi politici, p. 601 - 3. Vita sociale 
e culturale, p. 602 - 4. Principali tendenze nel mutameli- 
to linguistico, p. 604 - 5. La lingua parlata, p. 605 ■ 6. D 
linguaggio della prosa, p. 607 - 7. Il linguaggio della 
poesia, p. 612 - 8. Discussioni sulla lingua, p. 615 - 
9 Gr amm atici e lessicografi p. 621 - 10. Rapporti con 
altre ling ue, p. 623 - 11. Oscillazioni nell’uso, p. 626 - 
12. Grafia, p. 627 - 13. Suoni, p. 630 - 14. Forme, p. 631 - 
15. Costrutti, p. 636 - 16. Consistenza del lessico, p. 638 - 
17 . Voci popolari moderne, p. 648 - 18. Voci letterarie 
arcaiche, p. 653 - 19. Latinismi e grecismi, p. 655 - 
20. Francesismi, p. 660 - 21. Altri forestierismi, p. 663 - 
22. Voci italiane in lingue straniere, p. 666. 


Epilogo 

667 

Aggiunte e correzioni 

669 

Indice alfabetico 

677 


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STORIA DELLA 
vLlhffiOA, ITALIANA 
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MILANO ' - ■ 


Saggi Tascabili Bompiani 
Periodico quindicinale anno XIII numero 31 
Registr. Tribunale di Milano n.269 del 10/7/1981 
Direttore responsabile: Francesco Grassi 
Finito di stampare nel mese di aprile 2001 presso 
il Nuovo Istituto Italiano d’ Arti Grafiche - Bergamo 
Printed in Italy 


fé 

ISBN 88-452-4961-1 

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