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Monday, June 9, 2025

GRICE E SABBADINI

  sTom^   DEL   CICERONIANISMO   E DI ALTRE QUESTIONI LETTERARIE   NELL'ETÀ DELLA RINASCENZA     DEL PROF.     REMIGIO SABBADINI   (Libro premiato dalla R. J^coad.exxiia d.e' Xiizioei).      TORINO  ERMANNO LOESCHER   FIRENZE ROMA   Via Tornabnoni, 80 Yin del Corso, 307   1885     Digitized by VjOOQ IC     .^5     PROPRIETÀ LETTERARIA     Torino - Vikcbkzo Boha, Tip. di S. M. e de'RR. Principi.     Digitized by VjOOQIC     PREFAZIONE     Hk^co qui la storia di dieci tra le più famose questioni  letterarie dibattute dagli umanisti. Per essi erano vitali;  per noi sembreranno e forse sono, fortunatamente, oziose.  Diventeremmo però oziosi noi, se deplorassimo che fossero  vitali, noi che nella storia non cerchiamo l'ideale dell'uma-  nità, ma ciò ch'ella era. E da questo riguardo quelle dieci  questioni ofifrono il massimo interesse , perchè chiariscono  meglio di ogni altro studio Tintima vita letteraria del periodo  umanistico. Del resto quanta originalità , che personalità,  talora sfrenata, ma sempre altamente sentita e altamente  affermata, non sapevano quei battaglieri e appassionati ri-  suscitatori dell'antichità sviluppare da simili contese ! Tanto  è vero che spesso l'interesse e l'originalità non consistono  nell'argomento, ma nell'ingegno di chi lo tratta. Chi oserebbe  dire che dopo V Iliade e V Eneide abbiano perduto il tempo  l'Ariosto a cantare di Orlando e il Tassoni d'una Secchiaf     Digitized by VjOOQ IC     II giudìzio, molto benevolo e lusinghiero, portato dalla  R. Accademia de' Lincei su questo lavoro, vi notò una certa  sproporzione nella parte accessoria. Non lo nego ; ma quegli  ax^cessori contengono le prove di quanto è esposto nella parte  principale e mettono più che mai in rilievo le qualità più  •caratteristiche degli umanisti, che sono una minuziosa e  tenace scrupolosità congiunta a una finissima arguzia. Con-  tuttociò io chiedo al lettore, sopra ogni cosa, pazienza ed  indulgenza.   Sarego, 26 settembre 1885.   R. Sabbadini.     Digitized by VjOOQIC     CRONOLOGIA     PRINCIPALI UMANISTI NOMINATI IN QUESTO LIBRO     Alberti Leon Battista (U04?.1472).  Alciati Andrea (1492-1550).  Aleandro Girolamo (1480-1542).  Amaseo Komola (1489-1552).  Argiropulo Giovanni (morto 1473).  Badio Ascensio (1462-1535).  Barbaro Ermolao (1464-1493).  Barzizza Gasparino (1370?-143i;.  Bembo Pietro (1470-1547).  Beroaldo Filippo (1453-1505).  Biondo Flavio (1388-1463).  Bisticci (Vespasiano da) (1421-1498).  Boccaccio Giovanni (1313-1375).  Bonamico Lazaro (1479-1552).  Bruni Leonardo (1369-1444).  •Budeo Guglielmo (1467-1540).  Campano Gio. Antonio (1427-1477).  Ciriaco d'Ancona (13917-1450?).  Cortesi Paolo (1465-1510).  Crinito (Eicci) Pietro (1465-1505?).  Boleto Stefano (1509-1546).  Erasmo Desiderio (1467-1536).     Fazio Bartolomeo (morto 1457).  Filelfo Francesco (1398-1481).  Florido Francesco (1511-1547).  Gaza Teodoro (1429-1478).  Giovio Paolo (1483-1552).  Giustiniani Leonardo (1388-1446).  Guarino Veronese (1870?-1460).  Laudi Ortensio (morto 1560?).  Landino Cristoforo (1424-1504).  Lascaris Giano (1447-1535).  Leoniceno Ognibene (1410?4480?).  LoDgolio Cristoforo (1490-1522).  Mancinelli Antonio (1452-1505).  Manuzio Paolo (151M574).  Marullo Micbele (morto 1500).  Monte (Pietro dal) (morto 1457).  Morando Benedetto (metà del sec. xv).  Musuro Marco (1470-1517).  Mureto Marcantonio (1526-1585).  Navagero Andrea (1483-1529).  Niccoli Niccolò (1363-1437).  . Paceo Riccardo (1482-1532) .     Digitized by     Google     — VI   Panormita Antonio (1394-1471).  Petrarca Francesco (1304-1374).  Piocolomini Enea SiMo (1405-1464).  Pico Gianfrancesco (1469-1533).  Pio Battista (1460-1540).  Poggiani Giulio (1522-1568).  Poggio Bracciolini (1380-1459).  Poliziaqo Angelo (1454-1494).  Pomponio lieto (1425-1497).  Pontano Gioviano (1426-1503).  Rayenna (Gio. da) (1445?- 1520?).  Bho (Antonio da) (1* metà del sec. xv).     Bodigino Celio (1450-1525).  Sadoleto Giacomo (1477-1547).  Salutati Coluccio (1330-1406).  Sannazzaro Azzio Sincero(1458-l 530) .  Sarzana (Alberto da) (1385-1450).  Scala Bartolomeo (1430-1497).  Scaligero Cesare (1484-1558).  Traversari Ambrogio (1378 1439).  TrebÌ8onda(Giorgioda)(1396-1485?).  Valla Lorenzo (1407?-1457).  Vegio MaflFeo (1406-1458).  Zazio Ulderico (1461-1535).     Digitized by     Google     INDICE     Storia del Ciceronianismo ....... pag.     Preparazione   Primi tentativi . . . . ' .   Genialità e Grammatica ....   Opposizione   Prime battaglie   Seconda battaglia   Periodo eroico   Sol coniar nuovi vocaboli latini ....   Lotte fra i Latini e i Greci ....   Sui giureconilalti antichi e sui glossatori medioevali   Se si possano leggere i poeti antichi .   Su alcune questioni d^ortografia ....   Sull'allegoria dei poeti, specialmente di Vergiiio .   Quale sia più grande fra i capitani antichi   I calunniatori della lingua latina   Se si deva scrivere latino o italiano .     5   12   19   25   32   46   50   75   81   88   92   99   103   111   122   127     Digitized by     Google      Digitized by     Googk     storia del Ciceronianismo.     La storia del ciceronianismo, che presa nel suo largo signi-  ficato si confonde con la storia della lingua latina e delle sue  forme nel periodo del risorgimento, non è stata ancora scritta.  Eppure è tanto importante. Tutti gli storici dell'umanismo ri-  petono, e giustamente, che l'erudizione di quei secoli, se si  tolgano alcuni risultati nella critica, nell'arte e in altri pochi  rami del sapere, fu un'immensa illusione, della quale quei la-  tinisti in parte erano autori, in parte vittime. Tutto quel com-  plicato e vertiginoso lavorio fu intorno alla forma, che si scam-  biava per la realtà; la forma bella ed elegante dava corpo  alle ombre, la forma rozza e impacciata faceva passare dimen-  ticati come ombre i corpi. Una lettera dalle forme argute de-  finiva felicemente una questione o letteraria o personale o  religiosa, di cui non si sarebbe potuto prevedere la risoluzione;  un forbito ed elegante discorso, condito di citazioni latine, por-  tava alla conclusione di un affare pubblico, da cui la più  astuta diplomazia non avrebbe forse saputo uscire lodevolmente.  Fare un bell'elogio della virtù valeva essere virtuoso; essere  preso di mira da un'elegante invettiva valeva essere un fur-  fante, anche se onest'uomo. Fu quello veramente il tempo  dell'onnipotenza della forma. E intanto si resta meravigliati  a sentire come la vien comunemente giudicata. Sono per la  maggior parte giudizi o vani per la loro generalità o falsi  addirittura. L'uno dice: quella forma è pagana; tutto ciò che   R. Sabbadini, Ciceronianismo e altre questioni letterarie. 1     Digitized by VjOOQIC     . — 2 —   passa per il cervello di un umanista ne esce colorito paga-  namente; l'altro dice: quel latino non è più l'antico; è stato  trasformato, ammodernato; pare un latino nuovo e originale,  quantunque imitato. Più comunemente si odono queste espres-  sioni : che latino elegante, fluido, che ritmo, che maestà, che  asprezza, che barbarie, che disinvoltura, è un nuovo Cicerone,  un nuovo Vergilio, è troppo abbondante , è troppo asciutto,  non è limato e mille altre, che non significano nulla o meglio  significano l'ignoranza o l'ingenuità di chi le dice; peggio aa--  Cora quando tocca sentir pronunziare tutti questi giudizi di-  versi sopra un solo umanista, secondo il capriccio dei critici  che ne parlano. Ma nessuno si è provato di esaminare e trac-  ciare la storia di questa forma, che ha fatto tanto bene e tanto  male, che ha aiutato il perfezionamento del nuovo volgare ita-  liano e che in fin dei conti costituisce — e qui non e' è  bisticcio — l'essenza dell'umanismo.   Sarò io riuscito nell'ardua impresa? non lo so; ma intanto  dal presente saggio risulterà subito e chiaramente dimostrato  un fiatto importantissimo, che cioè il latino degli umanisti può  avere ed ha una storia; che le sue forme sono determinate  non dal capriccio, ma da cause reali; e che ognuna di esse  in qualsiasi degli eruditi deve giudicarsi non con le parole:  è brutta, è' bella, è disadorna, è elegante, sibbene conside-  randola nella sua attinenza col tempo e con le tendenze let-  terarie che la hanno generata.   In questo studio quattro soli autori ho trovato, che mi age-  volarono in qualche modo la via: il Walch, Historia critica  lat linguoje. Colonia 1734; il Burigny, Sur la querelle qui  s'eleva dans le XVI siècle au su jet de Vestirne qui ètoit due  à Cicéron {Histoire de VAcadèmie des Inscriptions , t. 27,  pp, 195-205, anno 1756); il Lenient, De ciceroniano bello apud  recentiores, Parisiis 1855; il Voigt, Wiederbelebung des class,  Alterth., 2* ed. Berlino 1880-1881 (1). Il Voigt, mentre tratta con  molta maestria la letteratura del primo secolo dell'umanismo.     (1) Qualche cenno si legge anche nella Rinascenza Italiana del 6ur-  CKHARDTj edizione francese, Parigi 1885; I, pp. 314-317.     Digitized by VjOOQIC     — 3 —   tocca qua e là dello stile latino degli eruditi e ne traccia la  storia (II, pp. 418-422), fermandosi specialmente a parlare dello  stile del Petrarca (I, pp. 33-36). Il Walch dà parecchie notizie  sul ciceronianismo nei seguenti luoghi: cap. I, § 25; II, 3;  IX, 8; XII, 2, 3, 9, 10; XIV, 3, 4, 14. Poco più del Walch sa  dire il Burigny, il quale, toccato della guerra mossa al cice-  ronianismo fino dai tempi antichi, si ferma di proposito sul  Ciceronianus di Erasmo e sulla polemica mossagli da Cesare  Scaligero e da Stefano Boleto. Il Lenient ha narrato la guerra  dei ciceroniani in un opuscolo di p. 74. Questo libro comincia  con un proemio, dove prima di tutto, come il Burigny, accenna  all'opposizione suscitata contro Cicerone nei suoi tempi stessi  e nei successivi; indi tocca dell^ guerra ciceroniana nel pe-  riodo della rinascenza e parla delle contese tra il Cortesi e  il Poliziano, tra Francesco Pico e il Bembo. Il Lenient non  conosce il lavoro, capitale per questo studio, del Cortesi De  hominibics doctis, né l'altra disputa tra Bartolomeo Scala e  il Poliziano. Quindi entra nell'argomento e nel primo capitolo  espone come si formò in Italia e specialmente a Roma per  opera del Bembo e del Longolio il partito dei ciceroniani e  poscia fa un esame chiaro ed accurato del Dialogus cicero-  nianus d'Erasmo. Nel II capitolo narra le vicende della guerra  ciceroniana dopo la pubblicazione del Ciceronianus fino alle  invettive di Gasparo Scioppius (Schopp). Nel III capitolo con-  clude che questa guerra ha recato un gran bene, quello di  promuovere sempre più lo studio della bella forma. Il Lenient.  si è giovato molto del Walch e del Burigny, ma non li cita  mai; si è giovato anche molto, e con grande vantaggio, del-"  r epistolario d'Erasmo. Ma egli non si preoccupa punto della  preparazione di questa guerra; non conosce la letteratura uma-  nistica del quattrocento, eccettuato l'epistolario del Poliziano,  e pure imperfettamente. Commette anche qualche errore nei  fatti ; dice che il Longolio lesse le sue due orazioni in propria  difesa sul Campidoglio (p. 15); non è vero ; quelle due orazioni  furono pubblicate quando il Longolio era già fuggito da Roma.  Un'altra mancanza osservo nel libro del Lenient ed è ch'egli  si è limitato a raccontare le sole vicende esterne della guerra  ciceroniana, senza entrare mai a parlare delle cagioni intime     Digitized by VjOOQIC     — 4 —   di essa, cioè le diverse maniere con cui si intendeva Timita-  zione. Ciononostante il Lenient fu il primo che scrisse di pro-  posito sulla storia del ciceronianismo.   La storia del ciceronianismo si può raccontare con due me-  todi differenti, che io chiamerò l'uno oggettivo, l'altro sogget-  tivo. Oggettivamente si narrerebbe la storia quando uno per  uno si esaminassero gli scritti dei principali umanisti e si cer-  casse in essi quanta sia stata l'influenza di Cicerone sulla  scelta delle parole, sulla frase, sulla connessione delle propo-  sizioni, sui periodi e sul colorito dello stile in generale. A  questa prova nessun umanista resisterebbe, perchè nessuno si  troverebbe essere oggettivamente ciceroniano. Quante parole  che malamente si leggevano allora nei manoscritti di Cicerone  e che passavano per ciceroniane; ma oggi non più.. Mi basti  citare gli dLggeUÌYÌ pMlosopMcus (1), iUicitum (2), perfino mul-  tissimis (3), che allora s'adoperavano come parole ciceroniane.  « Quam multa barbara vocabula, dice il Mureto, quam multa  vitiosa genera loquendi propter librorum corruptionem usur-  parunt ii qui se nostra patrumque memoria Ciceronianos dici  volebant » (4). Ma senza di ciò al Longolio, p. es., è sfuggito  inelegantia (5), nisi fortasse (6); al Sadoleto influayus (7); a  Paolo Manuzio dissuadere aliquem ab aliqua re, conirarietas,  speculano, ingraiitudo (8). Né poteva essere altrimenti in  tempi, in cui i vocabolari e i repertori da consultare in un  dubbio non e' erano o si cominciavano appena a compilare. E  poi, uno scrittore non può mai assolutamente spogliarsi delle  proprie qualità personali ; e il latino del Bembo, del Sadoleto,  del Longolio, del Manuzio si distinguono l' uno dall' altro per  certe caratteristiche, che non tutti naturalmente avranno tolte     (1) CiCBR., Tuscul. disput., V, 41, 121, ove ora si legge philosophus.   (2) CiCER., prò CluentiOy 47, ove ora si legge nemini licitum.   (3) CiCER., Epist. ad Attic, XI, 2, ove ora si legge multis meis.   (4) MuRET., Orai, et Epist., 1791; II, p. 157.   (5) LoNGOL., Episty I, 28.   (6) Ibi, I, 1.   (7) Sadolet., Epist., XIII, 2.   (8) Walch., Eist. critica l. l., XII, 3.     Digitized by VjOOQIC     — 5 —   all'unico e medesimo Cicerone. — Il metodo poi che io chiamo  soggettivo consiste nell'esaminare dall'un lato il principio sti-  listico che ogni autore si forma, il modo con cui intende la  imitazione, le intenzioni particolari, personali che egli vi  porta; dall'altro lato i giudizi di un umanista, specialmente se  contemporaneo o di poco posteriore, sulle qualità stilistiche  dell'altro, i quali nel maggior numero de' casi sono giudizi  soggettivi, perchè suggeriti o da un diverso indirizzo letterario  o da un modo diverso di intendere l'imitazione. Io mi varrò  principalmente del metodo soggettivo, senza lasciar di tentare  qua e là gli scrittori col metodo oggettivo.  Divido la materia in sette periodi.     PREPARAZIONE.  (F. Petrarca, Gio. Boccaccio, Giovanni da Ravenna, Goluccio Salutati).   Spetta al Petrarca, come in quasi tutti gli altri indirizzi  dell'umanismo, così anche in questo l'onore di avere aperto  la via. Il Petrarca non fu, né volle, né volendo poteva essere  ciceroniano; eppure egli ha preparato a chi venne dipoi il  terreno. Il padre del Petrarca possedeva alcuni scritti di Cice-  rone, ch'egli adoperava non come letterato, ma come giurista.  Essi vennero in mano al figlio, il quale, scolaro allora di  grammatica, li leggeva senza capirli» rubando le ore alla ri-  creazione, e rimaneva tuttavia, per quello straordinario senso  musicale che possedeva, i^apito dalla dolcezza e dalla sonorità  delle parole : « sola me verborum dulcedo quaedam et sono-  ritas detinebat, ut quidquid aliud vel legerem vel audirem,  raucum mihi longeque dissonum videretur » (1). E quei libri  disputò poi al padre, che vedeva in essi la causa che il figlio  trascurasse gli studi giuridici; e più tardi alla polvere dei  chiostri, dove giacevano sepolti. E infatti con febbrile attività     (1) VoiGT, Wiederhelehung etc, I, p. 26.   Digitized by VjOOQ le     - 6 -   il Petrarca cercava le opere di Cicerone o egli stesso visi-  tando i conventi o dandone incarico a tutti i suoi amici, che  ne cercassero, tanto in Italia che fuori, e ogni volta che le  sue ricerche venivano coronate da qualche felice scoperta, era  per lui una gioia indescrivibile. E se egli, chiamandosi lo sco-  pritore di Cicerone, esagerava, affermava anche una grande  verità^ che parte delle orazioni di Cicerone e le lettere ad  Attico da lui scoperte erano state affatto ignote al medio evo ;  e delle altre opere, che pure erano conosciute, egli ravvivò  lo studio (1). L'ammirazione poi per Cicerone era proporzio-.  nata all'ardore con bui rie ricercava le opere. Quello che gli  altri, egli dice, esprimono aridamente e disadornamente, Cice-  rone lo ha espresso con vivacità e fioritura; all'utilità si ag-  giunge il diletto, alla maestà del contenuto lo splendore e la  dignità delle parole. — Cicerone è il fulgido sole dell'eloquenza,  davanti al quale impallidiscono Sallustio, Livio e Seneca. « O  primo creatore dell' eloquenza romana — grida egli in uno  slancio d'entusiasmo — non solo io, ma noi tutti ti ringraziamo,  i quali ci abbelliamo dei fiori della lingua latina. Poiché con  la tua fonte noi irrighiamo i nostri campi. E volentieri noi  confessiamo che guidati da te, indirizzati dal tuo esempio, il-  luminati dalla tua luce e direi sotto i tuoi auspici! noi siamo  pervenuti a questa arte di scrivere qual ch'ella pòssa essere» (2).  E nei Trionfi della Fama al passar di Cicerone l'erba ver-  deggia sotto i suoi piedi, a dimostrare   « quant'ha eloquenza e frutti e fiori » (3).   È chiaro pertanto che Cicerone ha influito molto sullo stile  del Petrarca, ma non fu il solo; leggansi i suoi trattati filo-  sofici e morali, per veder quanta p^rte vi ebbe Seneca; leg-  gasi V Africa, e si vedrà quanto Livio vi si trova; e quanto  Vergilio nelle Egloghe. Né il Petrarca potea fermarsi a imitare     (1) VoiGT, I, pp. 38-44.   (2) Ibi, I, p. 28.  (3; 111, 18.     Digitized by VjOOQIC     un solo autore, il che fu possibile soltanto quando le scoperte  dei classici erano finite e gli eruditi avevano agio e mezzo di far  la loro scelta. Ma il Petrarca si vedeva crescere tra mano^  d'ora in ora e per opera sua, il tesoro degli antichi latini ed  è naturale che l'ultimo scoperto gli lasciasse qualche cosa di  nuovo nel pensiero e per conseguenza nella forma. A questo  si aggiunga il modo con cui egli intende l'imitazione, da lui  stesso chiaramente e largamente esposto in una lettera a  Giovanni da Gertaldo. In essa gli parla del giovinetto Giovanni  da Ravenna, che allora egli teneva da qualche anno in casa  sua come copista e a cui faceva da maestro più che con la  parola, con l'esempio. Ecco un bel passo di questa lettera:  « Questo giovine ha molta inclinazione alla poesia... Egli però  non medita ancora quello che deve dire, e quello che dice lo  esprime con molta pompa e fioritura. Talvolta gli vien fatta  qualche poesia, che non manca di armonia, di bellezza e di-  gnità e che chi non conosce l'autore potrebbe attribuire ad  un uomo provetto ed esercitato. Il suo animo e il suo stile  acquisteranno un po' alla volta, io spero, maggiore solidità e  allora egli potrà se non fuggire, dissimulare almeno l'imita-  zione dei singoli autori, in modo da non rassomigliare a nes-  suno e da arricchire di una nuova maniera la lingua e la  poesia latina. Ora egli si diletta molto, come porta la sua età,  dell'imitazione degli altri ; e, rapito dalla bellezza della poesia  antica, egli si lascia contro le leggi dell'arte trasportare tan-  t'alto, che a stento si può risolvere di tornare addietro quando  egli se ne accorge o altri lo fanno avvertito., Più di tutto  egli è ammiratore di Vergilio, di cui spesso innesta qualche  passo ne' suoi versi. Siccome con intima compiacenza me lo  veggo crescere sotto gli occhi ed io di tutto cuore gli desi-  dero che possa diventare ciò che io vorrei essere, cosi io lo  ammonisco paternamente e gli ripeto che ciò ch'egli scrive  dev'essere simile, ma non uguale al suo modello: simile come  un figlio al padre, non come un ritratto al suo originale. Che  un ritratto è tanto migliore, quanto più rassomiglia all'origi-  nale; ma che un figlio al contrario può quasi in tutti i suoi  lineamenti essere dissimile dal padre e nondimeno avere una  cert'aria, alla quale ciascuno riconosce tosto il padre. Come     Digitized by VjOOQIC     — 8 —   le api traggono dai fiori il sugo, senza conservarne il colore,  e da diversi sughi preparano il miele, che è migliore di cia-  scuno di quei sughi da cui è stato formato, cosi i poeti e gli  scrittori devono bensì appropriarsi i pensieri e anche il colo-  rito degli altri, ma non mai parlare con le loro parole. Aven-  dogli io ripetuto nuovamente questi avvertimenti, egli mi  rispose: voi avete ragione, ma molti esempi e il vostro stesso  mi hanno incoraggiato ad usare di quando in quando qualche  giro felice, qualche frase di grandi scrittori. Al che io stupito  soggiunsi: se ne trovi traccia nei miei scritti, sappi che non  l'ho fatto apposta, ma sbadatamente. Perchè, quantunque di  simili esempi ne ricorrano molti ne' buoni scrittori, io mi  sforzo jpi tutt'uomo, e qui per me consiste una delle più gravi  difficoltà nello scrivere^ di non camminare né sulle orme degli  altri né sulle mie proprie » (1).   Pare che in Giovanni da Ravenna, spirito irrequieto e ar-  dente, il Petrarca veda riprodursi esatta l'imagine di sé  stesso, quand'era giovane. Dal modo pertanto com'egli inten-  deva l'imitazione, risulta che anche imitando voleva rimanere  originale. Ognuno, dice altrove, dee formarsi e mantenersi un  proprio stile, giacché ognuno ha cosi nel volto e nel gesto,  come, nella voce e nel parlare, un che di suo proprio e par-  ticolare che deve conservare, non mutare: « suus stilus cuique   formandus servandusque est Et est sane cuique naturaliter   ut in vultu et gestu, sic in voce et sermone quiddam suum  ac proprium, quod colere et castigare quam mutare cum fa-  cilius tum melius atque felicius sit » (2). Lo stile per lui e la  vita sono la medesima cosa: « scribendi enim mihi vivendique  unus finis erit » (3). E lo stile del Petrarca é veramente  l'uomo. Quello che a noi piace tanto di trovare nei suoi scritti  e ch'egli vuol far valere, é appunto la sua personalità, coi  suoi sentimenti, con le sue aspirazioni, con le sue passioni e  convinzioni, col suo bisogno di espandersi, di moltiplicarsi in     (1) Mehus, Yita Ambr. IVavers., p. 349.   (2) VoiGT, I, p. 35.   (3) Ibi, I, p. 34.     Digitized by VjOOQIC     — 9 —   mille oggetti, di riprodursi per mezzo della parola. A questo  senso profondo deirindividualità propria s'aggiungono un'anima  aperta a tutte le impressioni e una mente libera dai vincoli  della scolastica, le quali hanno trovato in Cicerone e in Livio  una forma più variata, più elegante, più adatta a rappresen-  tare sé stesse : ed ecco il Petrarca descriver la natura secondo-  ch'ella opera sopra i suoi sensi e sul suo cuore; esporre i  propri pensieri e tutto quello che gli tumultua •nell'animo;  raccontare i casi altrui e i propri, scrivere di politica, di  filosofia, di morale, parlare a sé stesso, parlare agli italiani,  agli stranieri, ai morti autori romani, a tutti di tutto, perchè  ha bisogno di sfogare un'immensa piena di affetti, un'esube-  ranza di idee e di sentimenti, una ricchezza inesausta di espe-  rienza e di cognizioni. La sovrabbondanza perciò e la loqua-  cità, come si potrebbe chiamare, del suo stile sono una  necessaria conseguenza del suo carattere e il carattere non  si lascia mai oscurare o travisare dalle forme latine di qual-.  siasi autore; egli imitando rimane originale, perchè il suo  stile è personale.   Una prova oggettiva dello stile latino del Petrarca dà per  risultato che vi si trovano barbarismi, neologismi, sgramma-  ticature, costruzioni poco pure, frasi toscane latinizzate; ma  tutto questo era inevitabile, com'era inevitabile a Giotto ri-  sentire l'influenza della .vecchia scuola, pur creando l'arte  nuova. Si confronti però dall'altra parte il latino del Petrarca  col latino degli scolastici, che dico? col latino di Dante stesso,  che lo precedette di tanto poco e si scorgerà un abisso fra  l'uno e l'altro e ciascuno facilmente si persuaderà, che il la-  tino scolastico è stato inevitabilmente condannato a perire e  che ritornare ad esso sarebbe stato violare le leggi del pro-  gresso umano.   Lo stile del Petrarca dagli umanisti posteriori fu giudicato,  fatta forse una sola eccezione, molto sfavorevolmente e tor-  tamente. Già nei primordi del secolo decimoquinto gli eruditi  seguivano un indirizzo stilistico diverso, perché il vero cice-  ronianismo faceva capolino. A Firenze specialmente il Bruni  e il Niccoli movevano guerra allo stile del Petrarca, di cui,  come in generale del triumvirato toscano, si parlava molto     Digitized by VjOOQIC     - 10-   male nell'opera del Bruni, intitolata: Libellus de disputationum  exercitationisqi^ ^tudlorum usu{X\ Questo libro è del 1401;  più tardi, nel 1436, scrivendo la vita del Petrarca, il Bruni  diceva che veramente il Petrarca fu il primo a richiamare  in vita l'antica scorrevolezza dello stile e che apri la via ai  posteri, ma che molto gli mancò alla perfezione. Nella prima  metà del medesimo secolo giudicava press' a poco cosi del  Petrarca anehe Flavio Biondo. Il Petrarca, dice egli, fu il  primo che con grande ingegno e con diligenza più grande ri-  chiamò in vita la vera poesia e l'eloquenza; ma egli non rag-  giunse, più per mancanza di opere antiche che di genialità,   10 splendore dell'eloquenza ciceroniana, di cui molti al nostro  tempo vanno forniti. E poco più sotto ripete ancora che, per  la scoperta delle nuove opere latine, al suo tempo si parlava  e scriveva meglio che al tempo del Petrarca (2). Il Valla rim-  proverava al Petrarca di non aver saputo intitolare il libro  Be sui et aliorum ignorantia, avendosi dovuto dire: De sica  et aliorum (3). Molto importante è il giudizio di Paolo Cortesi,  deUa fine del secolo: « lo stile del Petrarca non è latino ed  è aspro assai, le idee sono molte, ma aride; le parole di bassa  lega, la composizione più accurata che elegante. Fu il primo  a ristorare l'eloquenza e le sue rime volgari attestano quanto  avrebbe potuto conseguire col suo grande ingegno, se non gli  fosse mancato lo splendore e l'eleganza dello scriver latino;  ma fu colpa del rozzo secolo in cui visse. In lui perciò non  cercheremo il diletto, ma l'utile ; quantunque, se devo dire il  vero, dilettano, cosi disadorni come sono, quei suoi libri: «ab  eo non est delectatio petenda, sed transferenda utilitas ; quam-  quam omnia eius, nescio quo pacto, sic inornata delectant » (4).   11 Cortesi sentiva perciò e apprezzava giustamente il valore  dello stile petrarchesco. Nel secolo decimosesto Erasmo lo giu-  dicava cosi : « il Petrarca fu il fondatore della rinascenza in     (1) VoiGT, 1, pp. 385^87.   ^) Fl. Blondus Forliv., Italia illustrata; Basii. 1559; p. 346.   (3) L. Valla, Eleg. ling. lai., II, 1.   (4) P. CoRTESius, De hominib. doctis dialogus; Firenze 1847.     Digitized by VjOOQIC     — 11 —   Italia; ingegno vivace, grande erudizione, eloquenza più che  mediocre; ma vi desideri qua e là maggior perizia nella lingua  latina e tutto lo stile risente della durezza di quel secolo ».  E il Florido, ripetendo in parte il giudizio d'Erasmo, scriveva  in quello stesso tempo: « Il Petrarca diede opera pecJl primo  a trarre dai ruderi e dairantichità la lingua latina, ma non  gli riusci troppo felicemente, o perchè mancava ancora una  huona parte dei migliori libri, o perchè non era impresa da  condursi a buon termine da un solo. E le sue opere se mo-  strano in lui sommo ingegno e non mediocre erudizione^ spesso  mancano di purezza latina » (1).   Infinitamente inferiore al Petrarca, come in tant'altre parti,  fu pure nello stile latino il Boccaccio, il quale è trasandato,  né guidato da nessun criterio chiaro e costante d'imitazione  e che perciò meritò gli aspri giudizi di quegli umanisti che  si degnarono di parlarne. Il Bruni (2) dice che non ha mai  saputo trattare con sicurezza la lingua latina. Veramente se-  vero è con lui il Cortesi : « excurrit licenter multis cum sa-  lebris ac sine circumscriptione ulla verborum; totum genus  inconditum est et claudicans et ieiunum » (3). Erasmo si con-  tenta di chiamarlo inferiore al Petrarca e nell'efficacia del  dire e nella proprietà dello stile (4).   Di Giovanni Ravennate dice Flavio Biondo che infiammava  i suoi scolari all'imitazione di Cicerone (5); ma che non riusci a  imitarlo nemmeno da lontano; i suoi dialoghi, dice il Cortesi (6),  appena si leggono una volta. E il Salutati è chiamato da  Filippo Villani « scimia di Cicerone », in senso onorifico, non  come lo intendono alla fine del secolo. È ben lontano però  dall'essere ciceroniano; anzi Cicerone ha avuto pochissima in-  fluenza sul suo stile, perchè egli era già vecchio, quando co-     (1) Floridus Sabinus, Apologia in ling. lat. calumniatores ^ Basii.  1538, p. 106.   (2) Vita del Petrarca.   (3) De homin. doctis.   (4) Dialogus ciceronianus ; Napoli 1617.   (5) Italia illustrata^ p. 346.   (6) Op. cit.     Digitized by VjOOQIC     — 12 —   nobbe più da vicino quello scrittore. La lode del Villani si  riferisce ad un merito reale e veramente grande del Salutati,  il quale fu il primo a dar forma più elegante allo stile di can-  celleria; sullo stile però delle sue lettere private più che Cice-  rone influirono Seneca e il Petrarca. Del resto il Salutati  appartiene agli scrittori dallo stile fiorito e pomposamente so-  noro, oppresso da soverchia erudizione e troppo sentenzioso.  Questo stile è una degenerazione o meglio un'esagerazione di  quello del Petrarca. Ecco come lo giudica il Cortesi: «que-  st'età (l'età di Leonardo Giustiniani) riponeva l'eloquenza in  una certa esuberanza, ne conobbe la discrezione; credevano  di aver conseguito fama di eloquenza, se avessero affastellato  una gran quantità di cose. Questo genere di scrivere è stato  disprezzato e abbandonalo da ingegni più illuminati, perchè  ogni discorso dev'essere temperato e nelle parole e nelle sen-  tenze, in modo da non eccedere i propri limiti » (1). Di tutto  questo primo periodo cosi giudica il Pontano: che negli scritti  latini e Dante e il Petrarca e il Boccaccio e il Salutati « non  modo parum latine, sed ne grammatico quidem saepenumero  loquuntur; quod qui non credit eorum libros inspiciat » (2).     PRIMI TENTATIVI.  (Leon. Brani, Gasp. Barzizza, Guarino, Giorgio da Trebisonda).   11 secondo periodo viene aperto dall'aretino Leonardo Bruni  e da Gasparino Barzizza. Il Bruni ha abbandonato nelle lettere  il fare artificioso del Salutati e introdotto una maniera più disin-  volta e naturale. « In un buono scrittore di lettere, egli dice,  oltre alle parole e al suono si trova depositato il proprio animo,  il quale si indovina dalle vibrazioni delle parole, come dal mo-     (1) Op, cit.   (2) De aspir attorie^ lì, 2.     Digitized by VjOOQIC     — 13 —   vimento degli occhi si scopre Tanimo di chi parla »• (1). Nella  storia il suo stile si solleva ancora più, come dice lo stesso  Cortesi, il cui giudizio sul" Bruni è molto favorevole, ed io qui  lo reco per intero. « Leonardo fu il primo , dice egli , a la-  sciar l'uso di scrivere scorrettamente e a introdurre uno stile  più armonioso. Sono molti i suoi pregi come oratore; ma nella/  storia si eleva di più: historiam complexus est animo aliquanto  malore; ma in essa riesce più liviano che ciceroniano: con-  sectatur in historia quiddam livianum^ non ausim dicere cice-  ronianum. Non è molto accurato il più delle volte nella scelta  delle parole, alcune delle quali sono troppo basse ed antiquate;  ma per compenso la sua forma è condita di eleganza e di un  certo splendore » (2). Il Cortesi lo riteneva il primo del suo  tempo, ma l'età nostra, egli soggiunge, è molto schizzinosa:  « nostri homines nil nisi excultum, nisi élegans, nisi politum,  nisi pictum probant ». Erasmo dice che nella facilità e nella  chiarezza dello stile il Bruni si accosta alquanto a Cicerone,  ma che manca di efficacia e di nervi e che talvolta offende  la purezza dello scrivere latino (3).   Ma il vero apostolo del ciceronianismo fu il Barzizza : « cuius  ductu et auspiciis, scrivea Guarino nel 1422 (4), Cicero amatur,  legitur et per Italorum gymnasia summa cum gloria volitat ».  Di Cicerone illustrò il De oratore, il De senectute, il De of-  fìciiSi le Filippiche e le Epistole (5). Parlando delle sue let-  tere dichiara di non aver avuto libro più caro di quello:  « nescio an alium ex libris meis cariorem ilio haberem ». E  con quale entusiasmo non scrive egli di alcune orazioni di  Cicerone mandategli da Antonio Loschi: « iam totus ardeo  illarum studio; numquam mihi ita fuit fervens animus; ma--  gnum aliquem spero inde fructum elicere » (6).   Quale fosse il suo principio d'imitazione, non so, perchè non  ne fa parola nelle sue opere; ma che egli ammettesse una   (1) L. Bruni, Epist., VII, 3; cfr. Voigt, II, p. 423.   (2) Op. cit.   (3) Dialo^. ciceron.   (4) Bibl. Bodl. di Oxford, Land. Lat. 64, fol. 3.   (5) Barzizius, Opera^ ed. Furietti, Roma 1723; pr(ief. p. XIII.   (6) Ibi, pp. 194-195, 206.     Digitized by VjOOQ IC     — 14 —   certa libertà^ si può dedurre dalla conclusione del suo trat-  tatello De composUione: « ut rebus, de quibus dicendum est,  ars numerorum serviat et non resarti», cioè l'armonia per  l'argomento, non l'argomento per l'armonia. Questo trattatello  discorre déìVordzne, del nesso e del ritmo nella composizione.  Per essere libro grammaticale è dettato con una correttezza ed  un'eleganza, che invano si cercherebbero nelle stesse Eleganze  del Valla. L'esemplare che egli inculca sono le orazioni di Ci-  cerone; e le norme che dà, specialmente riguardo al ritmo, sono  molto bene intese; quantunque poi qualche volta se ne dimen-  tichi egli medesimo, dove, p. e., trasgredisce la norma, già  osservata tanto scrupolosamente da Cicerone, di non terminare  un periodo con- una finale di verso esametro. Noto queste mi-  nuzie, perchè il Barzizza è molto esatto e intendo sottoporlo  per poco alla prova oggettiva, non trovando che del suo stile  si siano molto occupati gli umanisti, se si eccettui il Cortesi,  che toccandone appena, lo loda come grammatico accuratis-  simo e quasi perfetto, ma biasima l'aridità della forma e la  soverchia diligenza (1).   Il Barzizza ha composto orazioni e lettere; comincio dalle  orazioni e prendo la prima della raccolta (2). Ecco quali parole  vi trovo non ciceroniane, taluna delle quali nemmeno è latina  di buona lega: visUatzo, intersptrare , affectio, usata da sola;  ecco alcune ò^di^ì:"" antecedere, pra£cedere aliquem, rispetto  al tempo; attìngere aliquem, eguagliarlo; acceptos se reddere;  se remittere; adpedes tuos accesszmus; quantum clefnentia  tua nos fideles servos tuos amxiret; devotione colere; per tot  honorum, gradus et quasdam velut scalaSj dove a fkr passare  sca^las bastano a stento il quasdam e il velut, — Qualche altro  esempio, raccolto qua e là, di frasi e costruzioni : nmeror non-  dum est passus m^ ad te scribere (3) ; suis iussit ut neque  mortem eius (che si riferisce al soggetto) et in eius fu-  nere (4)...; satis ac super, invece di satis superque, — Inte-     (1) Op. cit; se pure questo giudizio si riferisce al Barzizza.   (2) Op, cit., pp. 15-17.   (3) Ibi, p. 57.   (4) Ibi, p. 58.     Digitized by VjOOQIC-     — 15 —   ressante è vedere come il Barzizza si contenga negli argomenti  sacri. Prendo l'elogio di S. Francesco (1)> da cui scelgo alcune  dizioni : religionis caput habemus acprinctpem dominum no-  strum; quos sanctissimos confessor es appellamus ; in ilio  caelesii senatu; Deus princeps omnium rerum; cum adfiuc  seculari hàbitu uteretur; ex divino prodita or acuto insti-  iutio; virtus, qitam humilitatem religio vocat; characteres  sacratissimx) eius corpori divinitus inusti; passio Domini;  sentire m£dius fldius videor beatissim/zm illam, Francisci  animxmi ab astris intuentem. Qui vediamo termini sacri con-  servati quali li voleva la tradizione cristiana; altri che già  hanno assunto una mezza tinta pagana ; altri che sono paga-  nizzati interamente; però vi è un tale contemperamento di  forma cristiana e pagana, che rende molto grave e originale  questo stile. E mi pare che tra i latinisti il Barzizza ahbia  trovata la migliore risoluzione della disputa, divenuta in se-  guito tanto famosa e accanita, se negli argomenti sacri si do-  vesse tenere lo stile ecclesiastico o adottare il classico: eccesso  vizioso si l'uno che l'altro. Solo pochi anni dopo, nel 1430,  frate Alberto da Sarzana ragionava lungamente contro Poggio,  perchè costui nella sua lettera contro i minori osservanti avea  detto nettare di Giove per vino (2).   Gonchiudo che le orazioni del Barzizza sono di tre specie:  le confidenziali e in queste lo stile è molto andante; le sacre  e in queste lo stile è più sostenuto, ma sempre ritiene un co-  lorito cristiano; le orazioni di argomento più grave, nelle quali  lo stile è assai più forbito; quantunque in generale vi sia poco  movimento. Le parole non sono sempre ciceroniane, ma sempre  scelte ; non è sempre ciceroniana la costruzione, ma corretta  sempre.   Vengo alle lettere. Queste si distinguono in famigliari e in  lettere d'esercizio. Comincio dalle prime e ne traggo alcune  costruzioni: fecit quod neque mihi neque aliis auxiliari pos-  sim(p.99); non est dubium, quod haberet (p. 107); sed cer-  tum est, qu^d possent (p. 107); ita occupa tus sum, quod parum     (1) Ibi, pp. 45-50.   (2) Albert, a Sarte., Op., epist. XXI.     Digitized by VjOOQIC     - 16 -   prodessem (p. 107); non est expectandum, quod sit par tibi  (p. 107); scio carum illum amore meo habeiis (p. 115); vide  si quid a me potest fieri (p. 121); fama pervenerat, qiM)d  auctus eras (p. 122); scis quantum te diligo (p. 123). Questa  lista si potrebbe prolungare a piacimento, ma non aggiun-  gerebbe nulla di più a provare che qui lo stile è assai na-  turale, veramente famigliare e libero d' ogni pesantezza eru-  dita, come la hai nel Petrarca, d'ogni fioritura eccessiva, come  la trovi nel Salutati, a segno che pecca spesso contro la gram-  matica; ma la grammatica il Barzizza la conosceva molto bene  e questa trascuratezza è cercata, è voluta, per dar movimento  più naturale alla lettera; qui troviamo per la prima volta il  vero stile epistolare. Peccato che queste lettere non destino  per il loro argomento tanto interesse nel lettore, quanto ne  destano per la loro forma. Che il Barzizza del resto sapesse  rispettare la grammatica anche nello stile epistolare, lo mo-  strano le sue lettere d'esercizio: Epistolae ad exerciiationem  CLCCommodatae, Sono adattate a molti e diversi argomenti e  contengono proposta e risposta. Reco qui il principio d'una  risposta: « Etsi rumor sinister de rebus vestris adversis ad me  delatus esset, non tamen putabam omnia apud vos desperata  esse. Plura ergo, quam venire mihi in mentem potuissent,  vobis acciderunt. Sed omnia vobis ab exteris hostibus adverse  ceciderint: fremat bellicus tumultus et circumsonent moenia  vestra: toleranda sunt omnia et fortiter ferenda, quae ab illis  vobis imminent. Illud magis visum est mihi miserum, quod  de seditione et odiis civium ad me scripsisti. Quae res nisi  Consilio et auctoritate eorum , qui bene volunt reipublicae con-  sultum esse, mitigetur, piane mihi divinare videor omnia futura,  quae etiam tu maxime times ». — E basti quest'esempio per  tutti. Qui diffìcilmente si incontra una parola, una frase non  ciceroniana ; non è sempre ciceroniano il sapore, assai di rado  ciceroniano il movimento, perchè lettere di argomento simu-  lato; ma nell'insieme vi è una correttezza, una scrupolosità,  di cui prima del Barzizza non si hanno esempi e ben pochi  anche dopo di lui, finché non si arriva a Paolo Cortesi.   Nel Barzizza dunque abbiamo tre gradazioni di stile : il più  puro e più corretto è nelle lettere d'esercizio ; meno puro nelle     Digitized by VjOOQIC     — 17 —   orazioni; più trascuratezza si nota nelle lettere famigliari, ma  questa trascuratezza costituisce il maggior merito del Barzizza,  il quale del resto ci ha disusati dai neologismi, dai barbarismi  e dalla scorrettezza, di cui non va esente il suo grande con-  temporaneo, Leonardo Bruni.   Ora dò un saggio di critica stilistica, come la facevano in  quel tempo. Guarino era allora uno dei piir grandi institutori;  e fu certo il primo, perchè il metodo che si attribuisce a Vit-  torino da Feltre probabilmente glielo insegnò lui stesso. Guarino  in massima era ciceroniano ; la prima istruzione egli la faceva  cominciare sull'epistole di Cicerone ; lo stile di Cicerone, scrive  egli, dev'essere imbevuto dal giovinetto e gli va instillato come  il latte materno (1). E nel lodare lo stile a taluno usava dire  che s'accostava a Cicerone, che arieggiava Cicerone, che era  un Cicerone. Ma nell'atto pratico era ben lontano il suo stile  dall'ideale ciceroniano; molta trascuratezza, troppa slegatura  delle membra del periodo e troppe reminiscenze poetiche.  Giorgio da Trebisonda gli fece la critica, un po' acerba, se si  considera che fu forse T invidia che ve lo trasse, ma giusta,  se la si considera oggettivamente. Giorgio prese ad esame nella  sua Rettorica (2) l'orazione composta da Guarino nel 1428 in  lode del Carmagnola; di essa trascrive tre passi e indi li rac-  concia come crede che dovrebbero stare, mutando solo qualche  parola e facendo in fine qualche osservazione particolare. Io  citerò un solo passo, prima come lo scrisse Guarino, poi come  lo racconciò il Trebisonda:   « Plerique sunt, Comes insignis ductorque magnifice, qui res  et facta veterum singulari admiratione consequantur et prae-  cipuis laudibus in caelum efferant et recte sane. Dignissimum  enim est eos suis non fraudare praeconiis, qui aut vitam per  inventas artes excoluere aut praeclara edidere facinora. Verum  enimvero iidem adeo asperi vel fastidiosi potius rerum aesti-  matores sunt, ut aetatem nostram aspernentur ac damnent,  quae tamen permultos divino ingenio , excelienti doctrina et  imperatoriis artibus nobis instructos omatosque produxerit».     (1) Bihliot. Vindobon., cod. 3330, f. 148.   (2) Rhetoricorum libri, Basilea 1522, V, pp. 140 sgg.   R. Sabbadini, Ciceronianismo e altre questioni letterarie.     Digitized by VjOOQ IC     - 18 -   Ecco la racconciatura:   « Plerique sunt, Comes insignis ductorque magniflce, qui,  quoniam dignissimum est eos suis non fraudare praeconiis qui  aut praeclara edidere facinora aut vitam per artes excoluere,  ut res atque facta veterum praecipuis laudibus efferunt sin-  gularique admiratione prosequuntur, sic aetatem nostrani asper-  nantur ac damnant ; quos ego ideo asperos vel fastidiosos potius  rerum aestimatores indico, quod hanc aetatem permultos divino  ingenio, excellenti doctrina atque imperatoriisai'tibus instructos  atque ornatos nobis video produxisse ».   In Guarino troviamo tre idee, espresse in tre periodi indi-  pendenti; il Trapezunzio invece ne ha fatto un periodo solo.  Le tre idee sono: 1* molti lodano gli antichi; 2* hanno dovere  di lodarli; 3* ma disprezzano i moderni. Il Trapezunzio ha fatto  dipendere dal pronome relativo qui le idee 1* e 3% coordi-  nandole con le congiunzioni ut^ sic, e ha subordinato l'idea 2*  con un quoniam; in questa maniera ha reso il periodo più  compatto, più raccolte le sue parti, dandogli un giro cicero-  niano. Con un quos e un ideo quod ha subordinato quello che  era coordinato; ha arrotondato il produxerit in \xtì video pro-  duxisse; ha preposto praeclara edidere facinora a vitam  excoluere, per terminar più gravemente la proposizione; ha  levato inventas ad artes per diminuire l'impressione della re-  miniscenza vergiliana e ha sostituito degli atqice e un qice  agli etj e admiratione prosequi a admiratione consequi; e  tolto in caelum alla frase laudibus in caelum efferre. Quanto  al verum. enimvero osserva a Guarino che questa parola non  può stare in un'orazione che appartiene al genere dimostra-  tivo^ e tanto meno in principio, poiché essa è propria del ge-  nere storico.   Io non devo giudicare se la racconciatura abbia migliorato o  no come l'assieme del periodo, cosi anche le singole parti ; mi  basta notare per la storia che nel 1437, quando appunto ha  avuto luogo questa critica (1), gli umanisti non si contentavano  più di un latino scritto senz'arte.     (1) VoiGT, II, pp. 140-141.     Digitized by VjOOQIC     — 19 —   GENIALITÀ E GRAMMATICA.  (Poggio Bracciolini, Fr. Filelfo, E. S. Piccolomini, Campano, Lor. Valla).   Contemporaneamente al Bruni e al Barzizza lavorava a per-  fezionare lo stile latino anche Poggio Bracciolini, ma con una  genialità che non ebbe pari né prima né poi. Poggio cominciò  a formare il suo gusto latino copiando le lettere di Cicerone  ad Attico per Cosimo dei Medici a Firenze; e Cicerone, ch'egli  chiama padre suo (1), elesse per guida nello scrivere : « quid-  quid in me est, hoc totum acceptum refero Ciceroni, quem  elegi ad eloquentiam docendam » (2). Ma in realtà poi se imitò  Cicerone, non lo imitò né nelle parole, né nella frase, né nella  costruzione, ma nel colorito, nella vivacità dello scrivere, nella  genialità dello stile; perché lo stile di Poggio é tutto suo proprio,  né egli poteva imitarlo da altri, né altri potevano imitarlo da lui.  È stile originale, che ci fa rivivere in tutto il suo splendore una  lingua morta ; uno stile che sgorga spontaneo dalla i:icca e ine-  sauribile sua vena, perché maneggia il latino come lingua ma-  terna. Egli non si preoccupa della parola, che inventa se non  esiste e che torce a nuovi significati, se ne ha di bisogno ; non si  preoccupa della costruzione, ch'egli può piegare a tutte le esi-  genze del suo pensiero; non della frase, ch'egli foggia di suo  dagli elementi che la lingua gli porge; non del periodo, ch'egli  lega spezza non secondo le norme di un modello, ma secondo  lo stato dell'animo, che gli detta dentro. Era sicuro del fatto suo,  e ne è prova quello ch'egli dice nella prefazione al Liber fa-  cetiarum, dove raccolse tutte le satire e le oscenità altre volte  raccontate nel tugiale a Roma: di aver cioè voluto con questa  raccolta mostrare come il latino potesse e dovesse essere ado-  perato ad esprimere ogni cosa. Nessuno sgrammaticò più di     (1) Valla, Antidot. in Poggium, I, 32.   (2) PoGGius, Epist, XII, 32.     Digitized by VjOOQ IC     — 20 —   Poggio e pure nessuno scrisse più genialmente di lui; né in  niuno altro meglio che in lui la terza vita della lingua latina,  dopo i tempi di Roma e quelli del medioevo, ha trovato la sua  intera espressione. « in Poggio, dice il Cortesi, ci fu splendor  di eloquenza e se avesse adoperata tant'arte, quanto ebbe genio  di scrivere, avrebbe superato nella gloria dell'eloquenza tutti  i contemporanei. Le sue orazioni mostrano facondia e mirabile  facilità. Volgeva tutte le forze e poneva tutto il suo esercizio  neirimitar Cicerone. Ma quella lucidezza e fluidità di scrivere  del sommo oratore è tale, che si giudica agevole imitarla, e  chi poi he fa la prova, ne perde la speranza; se Poggio non  la consegui, la vagheggiava nel suo pensiero» (1). Il Picco-  lomini lo giudica a nessuno inferiore nell'eloquenza, quantunque  ignaro della lingua (2). Ed Erasmo : « fu di vivace eloquenza ;  ebbe molta naturalezza, ma poca arte ed erudizione » (3).   Alla scuola di Poggio appartengono il Filelfo, che nella fa-  cilità gli rimane molto addietro e che Erasmo giudica più  ciceroniano nelle lettere che nelle orazioni (4); il Piccolomini,  in cui il Cortesi desidera maggior purezza di lingua latina;  e il Campano, la cui fluidità e lucidezza egli tanto più ammi-  rava, perchè congiunta a una certa armonia, di cui i moderni  aveano perduto Fuso (5).   Ecco un saggio dello stile di Poggio, a cui farò seguire la  critica che ne fece il Valla ; il passo è tratto dalla prima in-  vettiva contro il Valla:   « Si quibus in rebus honestum est consensuque omnium per-  missum iniuriam propulsare, in bis maxime pudentis hominis  offlcium esse debet, ut contumeliam depellat, in quibus honoris  et existimationis laus aut ingenii fama a malevolis in discri-  men adduci videatur. Conscium enim eorum, quae obiciuntur,  se fàcere existimatur qui taciturnitate utitur prò defensione.     (1) Op, cit.   (2) De viris clar., XVI.   (3) Dial. cicer.   (4) Ibi.   (5) GORTESIUS, Op. cit.     Digitized by VjOOQIC     — 21 —   quoniam censetur quasi conscientia ductus non esse ausus  improborum maledicentiae respondere ».   Gli nota il Valla che il primo periodo comincia col principio  d'un verso esametro: si quibus in reì)us e termina con la  finale anche di un esametro: adduci videatur. In his maocime:  doveva dire in his certCy o in his prò fedo; essedébet: biso-  gnava dire est oppure videri débet Poi qyiQlpvtdentis hominis  officium esse debet è superfluo; non aveva forse detto: si qui-  bus in rebus honestum est? quando si dice honestum, non  si comprende anche il picdentis hominis officium ì perchè  variare dunque quest'idea già espressa e sostituire a iniuria  la parola contumelia, a propulsare un depellat? e dopo d'aver  detto con^wm^/^, aggiungervi tante parole per dichiararla,  cioè in quibus honoris^ ecc. ? Dunque tutte le parole pudentis  hominis officium esse debet ut contumeliam depellat sono  una inutile e ambiziosa variazione di queste altre: honestum,  est iniuriam propulsare. — E poi perchè l' avversativa aut  ingenti famxiì che forse \ingenii fama è una cosa diversa  ^ià}Xeoctstim/xtix>ì Perchè honoris et eooistim/itionis laus9 non  bastava honor et eodstimatiof Ridondante e vizioso è d'altra  parte il giro: in his rebus honoris et earistim^tionis laus in  discrimen oMucitur^ ecc., perchè le cose in cui pericolano  l'onore e la stima non sono infine che l'onore e la stima stessa.  L'aggiunta a malevolis è superflua, imperocché chi è che de-  trae all'altrui fama, se non un malevolo ? Così pure invece di  oMuci videatur bastava oMud videtur e meglio ancora ad-  dtccitur; ma il pomposo ciceroniano ha voluto chiudere il pe-  riodo con un videatur. Di questi scrittori parolai già si pigliava  gioco Quintiliano quando diceva: « est etiam in quibusdam turba  inanium verborum, qui dum communem loquendi morem re-  formidant, ducti specie nitoris circumeunt omnia copiosa lo-  quacitate, quae dicere volunt». Dopo questa critica il Valla  ricompone il periodo così: «si quando honestum est consensuque  omnium permissum iniuriam propulsare, tunc certe honestum  permissumque est cum honor et existimatio in discrimen ad-  duci tur ». — E il secondo periodo? più vizioso del primo,  esclama il Valla, giacché si compone di due parti, di cui la  seconda dovrebbe contenere la ragione della prima, dovechè     Digitized by VjOOQ IC     — 22 —   invece Tuna è ripetizione deiraltra con mutate parole: infatti  nella prima c'è enim, nella seconda quoniam; ivi existimatur,  qui censetur; ivi conscium se facere, qui quasi conscientia  ductus; ivi taciturnitate utitur prò defensione, qui non esse  ausus respondere; ivi eorum quae óbiciuntur , qui impro-  dorum maledtcenttae. — Poggio è tutto così, conchiude il  Valla ; eppure questo vizio di ripetere e di voltare e rivoltare  le medesime idee con altre parole gli ha acquistato presso gli  ignoranti fama di spontaneità, la quale invece è negligenza,  melensaggine, difettosa affettazione (1).   Siccome è interessante questa critica, cosi ne darò un altro  saggio, desumendolo dall'invettiva del Valla intitolata: in Pog-  gium Fior, actus scaenicus, nella quale nota gli errori con-  tenuti in una lettera di Poggio al Niccoli. Di questi errori io  sceglierò una sola parte e segnerò fra parentesi le correzioni  del Valla. — Barbarismi: quindena (in questo modo si potrebbe  foggiare anche decena e quarantena)', certificare (vocabolo  da cucina); fruslecula (frustula si dee dire); drcumvicini  (accolae); dignificare (dignos facere) \ libruncula castraielli  {lipella vervecini). — Sgrammaticature: libri sacri refrixerunt  pristinum studium humanitatis {refrigescere è intransitivo);  devenire in manibus {in manus); hoc fasciculum {hunc)\  vestes illas attrita^ cupio ut vendantur; melius est peccare  in hanc partem, quam omnino esse incredulus (incredulum);  cupio divitem fieri (dives); sollemniis (sollemnibus); insir  gniis (insignzbus) ; exemplariorum {eocemplarium); abiet  (aMbif); intellige me non dormitare ut ceteri (ceteros); te  non potui convivari (convivari è intransitivo); decadarum  {decadum); unumquemque taedet condttio fortunae suae.  — Improprietà di parole e di frasi: constitue te in locum,  transfer te in locum meum {confer te operge)', pone te in  loco meo {te constitue); cum de proccimo instet coronatio  regis {cum instet dies coronationis) ; quas miseram Pisas per  unam navem, quae iamdudum appulit in portum {quandam  navem... iampridem,,, appulsa est; homo vel ventics appulit);     (1) Valla, Antid. in Poggium, III, pp. 110-Ì12,     Digitized by VjOOQIC     — 23 —   aut amplius {ad summuTYi); sin autem {si non); sumere  Tnutuo libros (commodato; si dice, p. es., mutuo sumere  oleum,, salerriy ecc., e non ollam,, cultrum, ecc.); quae cum  omnibus gravia sint, tum mihi praesertim. consueverunt esse  gravissima (quae cum omnibus, tum vero mihi gravia esse  consueverunt; difftciliter {diffìcile vel difficulter); nec nunc  quoque illum mitto {ne nunc quidem); summa cum aniìni  iocunditate {voluptate); equos conscendentes una versus pon-  tem proficiscuntur {equis conscensis una pontem versus,..) ;  supra pontem cum transirent descendens ex equo quamplures  donavit {per pontem, ... complures); praesto discedere {cito);  ego dixi sibi {ei); ipse cogit me ad eum ire {sé); Rheni ru-  mor ^trepitus fragor); fenestrellae perplures dimissae  {fenestréiìSie complures solo propinquae); volebam Lucretium  prò quindecim. diébus {ad quindecim, dies); penes Sanctum  Petrum (prope); neque tantum damna existimanda sunt, quan-  tum, dedecus {tanti .,. quanti); potissime {potissimum); sed  hic praesto scribit et ego ad vos praesto veniam {et is cele-  riter ... et ego ad vos propere) ; quo ad animum {quantum  ad animum pertinet); credo me propediem valere et rem  m£ confecturum {valiturum, ... ; il secondo me è superfluo) ;  nisi quid ille secus statuit venum ire debere {venum ire senza  il debere).   Questo scatenamento di critica, di cui ho dato due piccolis-  simi saggi, lo provocò il Bracciolini stesso. Egli, vecchio pa-  ladino di Cicerone, si era sdegnato della petulanza del giovinetto  Valla, appena allora uscito dalla scuola, nelFattaccar Cicerone  in quell'opuscolo dove confrontava Cicerone e Quintiliano; da  quel giorno in poi una immortale inimicizia sorse tra questi  due poderosi ingegni, che aspettava un'occasione per erompere  in acri invettive. E l'occasione venne. Avea pubblicato Poggio  un volume di sue lettere, una copia delie quali capitò nelle  mani di un catalano, alunno del Valla, e quel giovinetto vi  fece alcune critiche in margine. Veduto da Poggio quel codice  con le annotazioni, ne sospettò autore il Valla stesso e gli  scrisse contro un' invettiva. Questa invettiva ha molta impor-  tanza, non per le ingiurie di cui è ripiena, ma per la parte  di difensore degli autori antichi e specialmente di Cicerone     Digitized by VjOOQIC     — 24 —   che vi rappresenta Poggio. Egli li difende contro le calunnie  del Valla> cui pretende di cogliere spesso in fallo, massime  quando parla di Cicerone, di cui Poggio vuol saper dire con  molta presunzione se la tal parola, la tal frase la ha o no  adoperata. Fin che si trattava di ingiurie, Poggio era padrone  del campo, ma si pose su un terreno falso, quando questionò  col Valla di lingua e di stile. Ecco un saggio delle critiche  di Poggio. Egli esamina alcuni errori del Valla, che si trovano  nel proemio alle Eleganze, e si introduce cosi : « quid autem  in Ulo suo perlongo insulso ridiculo non prooemio, sed verbo-  rum et somniorum congeriey continetur? inflnitum esset errores  omnes prosequi ». E ne sceglie alcunf. 11 Valla, dice egli, usa  le parole leguleius e architectari: che le ha forse troiate in  Cicerone queste due gemme di parole? Scrive poi il Valla;  « romanum imperium ibi esse, ubi romana lingua dominatur »;  e non si è accorto che non la lingua dominatur, ma gli uomini  dominantur? voleva dire forse: in icsu est etinpretio apud  multos; e poi non è esatto lingua romana, ma lingua latina,  perchè lingua romana significa il solo idioma della città di  Roma. — Prima di confutarlo, il Valla gli osserva che non si  dice in ilio congerie e che invece di suo andava eius e m)n  perlongo ma praelongo; non prosequitur, che vuole sempre  essere accompagnato da un ablativo, ma persequitur. Indi gli  fa sapere che leguleius si trova in Cicerone proprio nel primo  libro del De oratore (236) e che architectari si trova pari-  menti in Cicerone nel De finibics, secondo libro (52) e nei libri  ad Herennium. Quanto alla denominazione di lingua romana,  doversi ritenere giusta, perchè fu Roma che nobilitò e pro-  pagò a tutto l'impero la lingua latina; e quanto all'espressione  lingua dominatur, esser questo un traslato comunissimo (1).  Non solo dunque in fatto di critica e di erudizione gram-  maticale, ma anche nella conoscenza dell'uso ciceroniano il  Valla è immensamente superiore a Poggio. Eppure, esclama  il Valla rivolgendosi a Poggio, tu ti chiami famigliarissimo di  Cicerone; famigliarissimo, ma non sei mai entrato in casa sua;     (1) Valla, Antid. in Poggium, II, pp. 96-101.     Digitized by VjOOQIC     — 25 —   ti si potrebbe tutt'al più chiamare portinaio della casa di Ci-  cerone, o guattero o fornaio o cuoco o stalliere, ovvero, « quod  tibi et honestissimum et iocundissimum est », cantiniere (1).  Glie ne pensavano i contemporanei? Certo i più ci piglia-  vano gusto, ma il pio Alberto da Sarzana di quelle battaglie  (digladiationes) dei ciceroniani, come egli li chiama, metten-  doli tutti in un fascio, si accorava e si scandolezzava; tanto  che nel 1437 di ritorno dalla Terra Santa si augurava di es-  sere morto, anziché tornato tra quelle zuffe (2).     OPPOSIZIONE.  (Lorenzo Valla).   La incontrastata e sempre più inneggiata apoteosi di Cicerone  dai tempi del Petrarca fino ai suoi, stimolò lo spirito opposi-  tore e aggressivo del Valla a una ribellione; la quale fu e  sembrò tanto più ardita, quanto più venerato era Cicerone e  quanto più si considerava Tetà e l'autorità dei suoi ammira-  tori e la giovinezza e l'oscurità del Valla che lo attaccava.  Poiché il Valla poteva avere un 23 anni, quando a Roma  compose il suo libro intitolato: Confronto tra Cicerone e Quin-  tiliano. Il Valla era ammiratore di Quintiliano e dovette certo  essere disgustato, come del troppo onore in che si teneva Ci-  cerone, cosi del disprezzo in che si aveva Quintiliano. Il Filelfo,  p. es., giudicava lo stile di Quintiliano quasi barbaro : « sapit  hispanitatem nescio quam, hoc est barbariem piane quandam ;  nullam habet elegantiam, nuUum nitorem, nuUam suavita-  tem ; ... neque movet dicendo Quintilianus, neque satis docet,  nec delectat» (3). In quel libro il Valla dimostrava che Cicerone     (1) Ibi, II, p. 74.   (2) Alb. a Sarth., Op,; epist. 46.   (3) VoiQT, 1, p. 467, nota 1.     Digitized by VjOOQIC     — 26 —   aveva commesso errori nei suoi precetti rettorici e che anche  nell'arte oratoria aveva difetti; gli anteponeva Quintiliano.  Il libro fece remore ed è a deplorare ch'esso sia andato, ir-  remissibilmente forse, perduto ; io conosceva certo il Fontano  verso la fine del 1500, che neìVAntonms (1) ribatte minuta-  mente e diffusamente i grammatici (alludendo senza dubbio al  Valla), nell'accusa fatta a Cicerone di non aver esattamente  determinato il fine dell'oratore e di non avere definito bene  lo status (termine oratorio): due punti nei quali essi davano  la superiorità a Quintiliano; ma nel 1500 il Florido, che tenne  parola di questi giudizi del Valla e gli rimproverava di aver  preposto Quintiliano a Cicerone, mostra di non aver conosciuto  quel libro e cita solo alcuni passi delle Eleganze e della Dia-  lettica, in cui quei giudizi erano ripetuti (2). Le prime ribel-  lioni sono sempre interessantissime; tanto più che dal Valla  in poi il regno di Cicerone è molto contrastato; e quello che  egli fece per l'arte rettorica, fece non molto dopo la metà del  secolo l'Argiropulo per la filosofia, intaccando Cicerone nelle  sue cognizioni filosofiche.   Però se il Valla era anticiceroniano, ha promosso per parte  sua più di qualunque altro umanista lo studio della latinità  pura, che poi venne ristretta alla sola latinità di Cicerone dai  ciceroniani della fine del quattrocento e della prima metà del  cinquecento. A questo scopo compose il Valla la sua famosa  opera le Eleganze latine, che come lavorò stilistico ha un'im-  mensa importanza storica. Il Valla non è stilista quando scrive,  ma è finissimo stilista quando discute di lingua latina: e tra  il Valla teorico e il Valla scrittore ci è tanta distanza, che i  critici stessi di allora se ne stupivano e il Giovio (3) dice che  lo stile della storia di Napoli del Valla non pare affatto di  quel Valla che insegnò altrui le eleganze, ma non le seppe  usare; e infatti Bartolomeo Fazio scrisse contro di lui tre in-  vettive, mostrando gli errori di parola, di costruzione e di     (1) Opera, Lyon 1514, pp. 177-187.   (2) Floridus, Apologia, pp. 11-12.   (3) Elogia, 13.     Digitized by VjOOQIC     — 27 —   stile che avea commessi nella suddetta storia : p. es. parci-  turiùs; primigenius , per dire primogenito; circiter ad tria  milia; inflatv^ torrens invece di auctus imdribus; peius no-  cere invece di gravius nocere; iubet bombardarurn ictus  emettere, invece di iubet tormentis muros quati; virUibus  partibus dividere per viritim od aequis portionibus etc. (1);  errori che il Valla difende più con prontezza di erudizione e  con spirito, che con verità (2).   Anche il Cortesi si domanda una spiegazione di questo fatto  e risponde benissimo che altro è scrivere, altro ammaestrare :  «non est eadem ratio scribendi, quae praecipiendi »; che il  Valla cercava il valore delle parole, ma non esaminava se-  riamente la struttura del discorso ; quindi emendò molta bar-  barie e l'uso corrotto e fu di grande utilità alla gioventù,  ma che la vera arte dello scrivere o l'ha trascurata o non  rha conosciuta. Imperciocché oltre che al significato delle pa-  role in sé stesse, bisognava studiare il loro ufficio nella frase  e nel periodo e badare alla loro architettura simmetrica, a  quella che si chiama la concinnità: « florens enim ille et  suavis et incorruptus latinus sermo postulat sane conglutina-  tionem et comprehensionem quandam verborum, quibus con-  ficitur ipsa concinnitas » (3). — E mi pare che il Cortesi non  abbia torto.   Il Valla distingue due maniere di scrivere: lo scrivere se-  condo le regole della grammatica e lo scrivere secondo Tele-  ganza latina ; egli non si occupa punto di grammatica, ma ad  altiora . ducente stilo insegna lo scrivere secondo l'eleganza  (1, 15 ; III, 52). E un'altra distinzione, pure importantissima, fa  il Valla, tra l'uso poetico e l'uso della prosa; egli dichiara  francamente di non occuparsi delle licenze dei poeti: «neque  in hoc toto meo opere tam licentiam poetar um consector,  quam usum oratorum » (1, 19; cfr. II, 36; V, 93).   A questi due postulati fondamentali del suo libro il Valla  aggiunge un esatto senso storico della lingua latina. Egli di-     (1) Bartol. Facius, Invectiva I in Vallam.   (2) L. Valla, in Bdrtoh Facium Invectiva I.   (3) Op. cit.     Digitized by.VjOOQlC     — 28 —   stingue due periodi principali di essa, il periodo di Cicerone  e il periodo posteriore, ch'egli denomina di Quintiliano (II, 50);  questo secondo periodo comincia con Livio, Vergilio e Orazio  (II, 43) ed è una distinzione acutissima e nuova per quel tempo ;  il Valla deve aver notato l'influenza della sintassi greca sui  poeti Vergilio ed Orazio e l'influenza di Vergilio sulla prosa  di Livio, i quali perciò appartengono più al periodo posteriore  che all'anteriore. Vedasi con che sicurezza egli giudica a quale  dei due periodi appartiene una locuzione: quatenus nel senso  di quoniam non si trova in Cicerone, bensì nel secolo di  Quintiliaixo (II, 43); nel secolo di Quintiliano si usa temere per  fere; le parole alioquin, alias, nihilominus , supra, super  sono nel periodo posteriore adoperate in significato un po' di-  verso da quello che dà loro Cicerone e altre se ne sono ag-  giunte: proculdubio; oMer per spedaliter; quotzens per  quando; citra per sine; interim per aliquando; m^o, tuOy  hoc nomine, per m^a, tua, Uojg causa (II, 50); novissimus per  ultim,us (HI, 36). Quello che dei periodi, dicasi degli autori. Il  Valla pone come somme autorità Cicerone e Quintiliano; di  Quintiliano dice: « quem omnibus sine controversia ingeniis  antepone » (I, 31) ; e di Cicerone : « quid non recte Cicero  dicat? » (IV, 77); di tutti due: « duo lumina atque oculi cum  omnis sapientiae , tum vero eloquentiae latinae » (I, 15) (1).  Egli è tanto famigliare con questi due autori , conosce tanto  bene i loro usi particolari e il loro stile, che se trovasse  p. es. in loro un quam con un aggettivo positivo, invece di  valde, non esiterebbe a dichiararlo un errore di scrittura  (I, 19). Il Valla sa che Cicerone e Quintiliano ad ille quidem  fanno sempre seguire un sed (II, 23); che la particella affer-  mativa utique non si trova mai o quasi mai in Cicerone,  spesso invece fra i posteriori (II, 27); che simul ripetuto non  l'ha mai trovato in Cicerone (II, 32); che olim presso Cicerone  è rarissimo, frequentissimo presso Quintiliano (II, 35); che et     (1) Gfr. Antid. in Pogg.^ I, p. 39 : neminem posse neqtie QuintiUanum  inielligere, nisi Ciceronem optime teneat, neque Ciceronem probe sequi,  nisi Quintiliano pareat.     Digitized by     GcToQle     — 29 —   non si trova in Cicerone nel significato di etiam (II, ò9); che  affectus non è usato da Cicerone, bensì affectio; mentre Quin-  tiliano usa poco affectio e più spesso affecius (IV, 78); che  vicisstm in Cicerone e Quintiliano non si trova che nel senso  di secundo loco, e diverso, e contrario; e che inoltre Quinti-  liano usa invicem per vicissim e per alter alterum in senso  reciproco (II, 60).   Un'altra prova del senso storico che guidava il Valla nel  trattare la lingua latina Tabbiamo in questo, che di molte co-  struzioni erronee egli trova l'origine nel greco. Cosi i verbi  benedico e maledico furono costruiti talora con l'accusativo,  per influenza del greco (1, 12); alcuni col genitivo partitivo di un  nome che esprime pluralità adoperano il comparativo, p. es.  maior discipulommy imitandolo dagli scrittori ecclesiastici, che  traducevano dai greci (I, 15) (1); si confonde l'uso delle parti-  celle velut e sicut, delle quali il greco ha una sola corrispon-  dente (II, 36); e si scambia l'uso di an e di aut, nel quale « ple-  rique multis iam seculis peccaverunt et peccant », perchè i  traduttori dal greco hanno trovato la sola congiunzione fi cor-  rispondente alle due latine. Reca poi una seconda ragione, e  questa mi pare importante in bocca di un umanista come il  Valla, ed è l'influenza della lingua italiana, la quale adopera  la congiunzione o tanto per an quanto per aut (II, 17). Quest'in-  fluenza della lingua italiana sulla latina, che gli umanisti per  disprezzo del volgare non avrebbero mai confessata, ebbe molta  parte nel foggiare il nuovo stile latino, il quale in autori come  il Poliziano- e più ancora il Fontano, specialmente nelle loro  poesie, si è amalgamato con l'italiano, in modo da generare  una forma nuova affatto e tanto attraente per noi, perchè  sotto a quell'involucro latino sentiamo vibrare l'armonia del  nostro idioma materno. Del resto, tra gli umanisti più umili,  tra i piccoli grammatici qualcuno, come p. es. il Mancinelli,  nella seconda metà del secolo XV cominciava a insegnare i  rudimenti grammaticali col volgare paesano; anzi il Manci-  nelli compose una grammatichetta, intitolata Donatus, in cui     (1) Cfr. Antid. in Pogg., 1, pp. 41, 43.   Digitized by VjOOQIC     - 30 -   alle forme latine corrispondono le vernacole, e un frasario la-  tino-vernacolo, intitolato Emporium,   Tornando al Valla, egli nell'insegnare le eleganze latine tiene  costantemente l'occhio all'uso corrotto ; e di solito nell'esporre  le regole ha di mira qualche autore, di cui riferisce il passo  senza nominarlo, e lo corregge. Ciò rende il suo libro assai  più pratico, perchè il Valla non componeva un trattato teo-  rico e astratto, ma combatteva contro i falsi insegnamenti dei  grammatici contemporanei o i cattivi esempi degli scrittori  d'allora. Ecco alcune prove prima di parole errate o barbare,  poi di modi e costruzioni errate e ch'egli corregge. Non si  dice ca^amar/wm, ma theca calamaria (I, 8); benedzcus non  esiste (1, 12); da industria non si forma industriosus ma ^•  dustriuSy come da virtus non si forma virtuosus (1, 23); non è  buono usare ceu per sicut (II, 36); i difetti degli uomini e delle  cose non si traducono per defecius, ma vitia, culpae,  mendae (IV, 6); l'indulgenza in senso religioso non si traduce  per indulgenza, ma per venia (IV, 18); ecclesia non significa  la chiesa, il tempio, ma la società dei fedeli (IV, 47); non si  dice homo carnosus, ma corpulentus (IV, 73); alla fides cri-  stiana potrebbe corrispondere persuasio (V, 30). — Modi e  costruzioni; non si dice: iste est nimis iuvenis ad dandum  sibi tale negotium, ma est nimis iuvenis o iunior quam. ut   ipsi detur tale negotium,, o iunior quayn cui detuf (I, 19);   non è latino urì)s in periculo capiendi est, ma in periculo  est ne capiatur (I, 29) ; non cum gladio se percussit, ma  gladio (U, 6); non modo absolvendum, , sed etiam graviter  puniendum puto; bisognava dire: non m^odo non absolven-  dum.,. (II, 30); non è esatto ebrietas est com^s libidinis et in-  temperantia^y ma libido et iniemperantia est comss ebrietatis  {IV, 38) ; omnia bonum quoddam appetere videntur, meglio  expetere (V, 7); non si usa dare fldem per habere fidem, nel  senso di credere (V, 16). A questi esempi ne aggiungo uno,  in cui il Valla emenda sé stesso. Molti oggi adoperano, egli  dice, la seguente costruzione: non veni solvere legem; ma i  più fra i dotti avrebbero usata quest'altra: ad solvendam. le-  gem; e io ora li imito e li propongo come esempio agli  altri: « quos et ipse nunc imitor et imitandos omnibus ar-     Digitized by VjOOQIC     — 31 —   bitror » (I, 27). E basti cosi. A ognuno di questi esempi e  a moltissimi altri si trova una delle seguenti formole : « ut  aliquis loquitur »; « multi appellant »; « vulgo nunc accipiunt »;  « quidam doctus utitur bis temporibus »; <c quidam dicunt »;  « quidam accipiunt »; « peccavit non incelebris huius aetatis  vir »; € quidam non indoctus hac aetate scribere ausus est »  e simili altre.   Io non esamino fino a che punto siano esatte le osservazioni  e le regole del Valla, perchè io considero qui il libro non nel  suo valore assoluto, nel qual caso ci sarebbe da tirar più di  una volta le orecchie al geniale autore, ma nel suo valore  storico, in quanto che contribuì a ridurre a leggi lo studio  dello scrivere elegantemente, che prima si fondava sulla sola  imitazione empirica; ad acuire il senso critico degli scrittori,  avvezzandoli ad apprezzar lo stile secondo i classici e secondo  i periodi della lingua latina; e a dar bando finalmente a certi  barbarismi, che fino allora aveano insozzate le opere degli  umanisti, non esclusi i più grandi. Molte parti furono trattate  con vera genialità, come la dottrina dei gerundi e dei gradi  degli aggettivi, nel primo libro; altrove mise un riparo a una  scandalosa confusione , come nell' uso dei numeri , nel libro  terzo; alcune regole poi valevano addirittura altrettante sco-  perte nel campo della grammatica, quali del per, del quam  e del quisque con gli aggettivi. E il Valla se ne teneva e  quando si accorse che Antonio da Rho ne faceva passare qual-  cuna per sua o le contraddiceva nella sua enciclopedia alfa-  betica grammaticale, intitolata De imitatone, scrisse le sue  acri Adnotationes ai libro del da Rho. Acri, ma sempre det-  tate con mano maestra, dalle quali risulta la conferma di  quanto ho poco sopra conchiuso. Rimprovera il Valla al da  Rho di non aver nessun discernimento nella scelta degli au-  tori , citando l'Accorsi, né sapendo che « glossatores ab ele-  gantia longissime absunt » (1); citando Macrobio « doctus  quidem vir, sed nequaquam ex eloquentibus » (2); Gelilo « ho-     (1) Valla, Adnotationes^ Venezia 1519, p. 133.   (2) Ihi, p. 135.     Digitized by VjOOQIC     — 32 —   minem curiose nimium et superstitiose loquentem »; e Appuleio  « cuius sermonem si quis imitetur non tam auree loqui, quam  nonnihil rudere videatur » (1). Gli rimprovera di non distin-  guere l'uso proprio dal traslato (2); e un gran numero di bar-  barismi, come: aliqucUis, appodiare, diversimode, avisare,  hancalia, tregua, ridiculose, pariformiter, extrinsecus e in-  trinsecus (aggettivi) > respoliatus , induciari, infiteri, com-  plices, r ancor, pensionarius , instantia, etc. etc. Gli mostra  che si deve dire insula Sicilia e non insula Siciliae (3) e gli  raddirizza, fra gli altri, il seguente periodo: « sed hoc non  satis non hiis modo qui doctrinam hanc ingressi noviter sunt,  ceterum ne bis quoque qui aliquid profuerunt », in questo  modo : « sed boc non satis non iis modo qui doctrinam banc  ingressi recenter sunt, verum ne bis quidem, qui aliquid prò  fecerunt-» (4).     PRIME BATTAGLIE.   (A. Poliziano, Paolo Cortesi, Bartolomeo Scala, G. Pontano,  Beroaldo il Vecchio, Batt. Pio).   n Barzizza era stato il primo apostolo del ciceronianismo;  ma io bo già mostrato quanto fosse lontano dall'essere cice-  roniano. Lo stile di Poggio ba oscurato quello del Barzizza e  quantunque egli si professasse ciceroniano, era ben altro; ma  contribuì molto ad educare gli umanisti a uno stile disin-  volto, libero, originale e questo era il miglior modo per pre-  pararsi ad essere ciceroniano degnamente. Il Valla acni il  senso critico dei latinisti e un ritorno allo stile del Petrarca     (1) Ibi, p. 136.   (2) Ibi, p. 137.   (3) IH, p. 130.   (4) Ibi, p. 138.     Digitized by VjOOQIC     — 33 —   fu reso impossibile; ma fu reso impossibile anche imitare  Poggio nelle sue costruzioni troppo arbitrarie e nelle sgram-  maticature. Perchè, bisogna dirlo, Poggio poteva sbracciarsi  quanto voleva a criticare lo stile del Valla e a metterne a  nudo gli errori nelle sue sconce invettive, accrescendo il pa-  trimonio delle proprie sgrammaticature, mentre voleva cor-  reggere le altrui ; ma il fatto è che il Valla non si era illuso  di raddrizzar le gambe ai cani; egli scriveva il libro delle  Eleganze per i giovani: « non eram nescius iam inde ab initio  cum linguae latinae Elegantias componebam fore ut, quantum  favoris apud iuvenes ac ceteros bene dicendi studiosos mihi  conciliarem ex ilio opere, tantum odii apud eos, qui falsam  sibi elegantiae persuasionem induissent, contraherem » (1). La  gioventù e gli studiosi risposero alle previsioni del Valla e il  terreno veniva ormai preparandosi per un futuro ciceroniano  nel suo vero significato e il ciceroniano fu Paolo Cortesi.   Il Cortesi era di S. Gemignano di Toscana, ma nacque a Roma,  nel 1465, ove visse gran parte del suo tempo. Ebbe molta di-  mestichezza coi pontefici e con la Corte romana, fu segretario  sotto Alessandro VI e Pio III, indi vescovo di Urbino. Mori  nel 1510(2). Scrisse un libro De cardincUatu, che intitolò a  Giulio II, e quattro libri di sentenze. Ma il libro che più ha  importanza per la storia del ciceronianismo è il suo DMogus  de hominibus doctis, da me tante volte citato e che fu il  primo libro di vera critica letteraria e stilistica nel periodo  del risorgimento. Fu terminato press' a poco nell'anno 1490,  ventesimoquinto del Cortesi; eppure vi si manifesta tanta ma-  turità di critica e di senno. Quel dialogo è una rassegna di  tutti i grandi scrittori italiani da Dante fino ai tempi suoi;  si finge avvenuto nell'isola del lago di Bolsena e fu dedicato  a Lorenzo dei Medici. Il Cortesi ne mandò una copia al Fosforo,  vescovo di Segni, il quale glielo lodò, dicendogli che nella let-  tura del suo libro gli parea di sentire proprio Cicerone stesso;  ne mandò copia col giudizio del Fosforo anche al Poliziano,     (1) Valla, Antid. in Pogg., I, 11.   (2) De hom. doctis, praefai.   R. SABBADim, Ciceronianismo e altre questioni letterarie.     Digitized by VjOOQIC     — 34 -   il quale non fu meno gentile, nel rispondergli e lodarglielo,  che il Fosforo, al cui giudizio sottoscriveva: « Phosphori sen-  tentiae non accedo solum sed et faveo ». Egli scorgeva nel  libro una maturità superiore all'età; schietta e franca la cri-  tica dei letterati; ma lo stile un poco inferiore ancora alla  intenzione dell'autore: « stili quoque voluntas apparet optima  et, ut auguror, a summo non diutius afutura » (1). Il Cortesi  ^fu studiosissimo della forma ciceroniana e difficilmente si trova  in lui qualche parola, come nonnzszy che si scosti dall'uso di  Cicerone, la cui influenza si riconosce nell'andamento piano  e chiaro del discorso, nei passaggi dei periodi: anzi alle volte  pecca nel troppo e di quando in quando scappa fuori una finale  di periodo con esse videatur, tanto rimproverata a Cicerone  nei tempi antichi e ai ciceroniani nei tempi del risorgimento.  Il Volaterrano gli nota una certa mollezza di stile, con la  quale sapeva rammorbidire i concetti duri ed aspri; ma ag-  giunge essere stato tanto in lui lo scrupolo della forma, che  lasciava perdere le idee anziché presentarle in una veste non  adorna (2). E il segreto dell'arte sua stava, com'egli stesso il  Cortesi afferma, nel dare al discorso un giro ritmico, come  si sente appunto in Cicerone e che gli scrittori del suo tempo  ignoravano ancora intieramente : « mea quidem sententia est  orationem latinam numerosa quadam structura contineri o-  portere, quae adhuc omnino a nostris hominibus ignoretur » (3).  È celebre la questione sul ciceronianismo dibattuta fra il  Cortesi e il Poliziano; ma prima di parlarne, devo ricercare  il principio stilistico del Poliziano. Il Poliziano nello stile è  eclettico; non segue nessun autore in particolare, ma piglia  da tutti il meglio, o siano del secolo aureo o dell'anteriore o  del posteriore. Con questo principio egli si piantava contro ai  ciceroniani, i quali gli movevano perciò aspra guerra, come  si scorge dalle difese ch'egli fa qua e là di sé medesimo. In  nessun luogo come nella lettera a Pietro de' Medici (4) si sente     (1) Cortes., De hom. docHs, praef.   (2) Ibidem,   (3) Ibi, p. 231.   (4) PoLiT., Epist, lib. I.     Digitized by VjOOQIC     — 35 -   il dispetto del Poliziano per le critiche che gli si facevano e  ad un tempo una esplicita professione di eclettismo: « uno mi  dirà, egli scrive, che le mie lettere non sono ciceroniane; ma  io gli rispondo che dello stile epistolare di Cicerone non si  deve tenere verun conto; un altro mi rimprovererà di imitar  Cicerone; ma io gli rispondo che niente io desidero meglio  che di acchiappar almeno Tombra di Cicerone ; un altro vor-  rebbe che io imitassi Plinio, scrittore maturo e dotto; ma io  gli dico che ho in disprezzo tutto il secolo di Plinio; a un  altro parrà che io arieggi un po' troppo Plinio e io gli citerò  Sidonio Apollinare, scrittore non dispregevole affatto, che dà  la palma a Plinio nello stile epistolare ». Uno degli avversari  di questo eclettismo e nemico personale del Poliziano per  giunta era Bartolomeo Scala, che si illudeva, dice Erasmo,  di essere ciceroniano, quantunque lo dissimulasse, e a cui non  piacevano Ermolao Barbaro e il Poliziano, perchè poco cice-  roniani: «ma io" del resto preferisco quello che il Poliziano  fa dormendo, a quello che lo Scala scrive da desto e con ogni  diligenza » (1). Lo Scala pertanto, inculcava al Poliziano Fimi-  tazione di Cicerone; e 11 Poliziano gli risponde che Varrone  dava a Cicerone la palma dell'eloquenza, ma quella della  lingua la riteneva per sé; che fra gli scrittori romani vi sono  anche 'Sallustio e Livio e Quintiliano e Seneca e i due Plini ;  e che l'imitar solo Cicerone è una pazzia, perchè con un solo  stile non si può esprimere tutto; lo stile deve variare secondo  la materia, la persona a cui si scrive e il tempo: non so  proprio sopportare certi presunti dotti, che vanno in tutto sulla  falsariga di Cicerone. Lo Scala gli replica che potrebbe essere  d'accordo con lui riguardo a Sallustio e Livio; ma non am-  metterà mai Quintiliano, Seneca e i due Plini fra gli autori  da imitare (2).   Un altro carattere dello stile del Poliziano era una certa  oscurità e singolarità affettata. Egli andava pescando con as-  sidua cura tutti i vocaboli e le locuzioni più rare e meno     (1) Erasmus, Bialog, ciceronianus. .] ;^^\ (f;>   (2) PoLiT., Epist, lib. V. " .1 .. i,Vi (ì\     Digitized by VjOOQIC     — 36 —   note : « e lo faccio apposta, dice egli stesso, perchè io scrivo  per gli eruditi e non per il volgo; etenim si quae cuique  obvia sint, ea tantum noster sermo recipiat, nulla magis quam  tabellionum lingua utemur; d'altra parte reputo giusto rimet-  tere in luce quella recondita suppellettile, a patto che si faccia  con discernimento » (1). Lo Scala, questa volta abbastanza ar-  gutamente, chiamava il Poliziano ed Ermolao Barbaro, dilet-  tante anche lui di parole rare, col nome di ferrurninaiores (2);  Ermolao aveva adoperato questo vocabolo strano. Altri chia-  mavano quelle parole porienta verborum; cosa che dava ai  nervi al Poliziano: « quali siano quelle che chiamano mo-  struosità dt parole, io non lo so; seppure non credono mo-  struosità quelle parole che sono nuove per loro e che hanno  ora udito o inteso la prima volta. Poiché io non ho coniatx>  di mio nessun vocabolo, né adopero se non autori general-  mente adottati. Ma io non sono di quelli che lasciano in gran  parte perire la lingua latina, essendo da ognuno schivate  quelle parole che sono dalla moltitudine ignorate; e infatti  siamo ridotti al punto, che nemmeno le parole dei più stimati  autori possiamo adoperare sicuramente, perché comunemente  sono poco note » (3). Per mostrare con quale compiacenza egli  inserisca queste parole nel suo discorso, serva il seguente  passo : « mox commentarios quoque in easdem silvas (Statii)  publicaturus brevissimos illos quidem, sed tamen prorsus (ut  plautinum verbum paene amissum revocetur) amussitatos » (4).  A lui pareva di salvare e direi quasi di galvanizzare queste  parole, adoperandole: era però una rivendicazione generosa,  ma vana. Pietro Crinito (Ricci) racconta che il Poliziano si  dilettava moltissimo di parole composte, come le seguenti:  arietes reciprocicomes et lantcutes, trovate nei mimi di  Laberio; e di queste altre: hestiaeexungues et excornes, ivo-  vate in Tertulliano; perché quella composizione era simpatica     (i) PoLiT., Epist.^ lib. V; cfr. Miscellanea^ praef.   (2) PoLiT., EpisL, lib. V.   (3) Ibi, III, pp. 78-79.   (4) IH, VI, p. 159.     Digitized by VjOOQIC     — 37 —   e graziosa e non ingrata come in mólte altre (1). Io mi con-  tento di trascrivere qui, come saggio di questo stile, un pe-  riodo della prefazione alle Miscellanee (p. 485), nella quale  pare che il Poliziano abbia voluto pensatamente sbizzar-  rirsi: «Ergo ut agrestes illos et hircosos quaedam ex bis  impolita et rudia delectabunt, exasceataque magis quam de-  dolata nec modo limam sed nec runcinas experta nec sco-  binas, ita e diverso vermiculata interim dictio et tessellis  pluricoloribus variegata delicatiores hos capiet volsos et pu-  nicatos, ne conflatis utrinque vocibus et acquali vel plausu  vel sibilo aut' ad caelum efferar aut ad humum deiciar ». In  conclusione mi sembra che il giudizio di Francesco Pucci, di-  scepolo del Poliziano, definisca meglio di ogni altro questo  stile a mosaico, tutto fiorettato, che non cessa di avere però  gran sapore latino: « de omatu ilio, scrive egli al maestro,  et lepore nitidissimae orationis quid dicam? quae vario quodam  et prope vermiculato intertextu lasciviens omnesque verborum  flosculos captans, candorem tamen ubique latinitatis et quasi  pudicitiam praefert » (2).   E ora vengo alla questione tra il Poliziano e il Cortesi, la  prima vera battaglia del ciceronianismo. Il Cortesi avea fatto  una raccolta di lettere di vari dotti, che mandò al Poliziano,  con cui stava in ottima relazione allora, perchè ne giudicasse  se fosse degna di essere pubblicata. Il Poliziano lasciò passare  parecchio tempo prima di rispondergli e, quando gli rispose,  lo fece con una certa mal dissimulata insolenza, che fa sup-  porre fossero nati degli screzi tra lui e il Cortesi. Gli risponde  secco secco che si pente d'aver perduto il tempo a leggere  quella raccolta, la quale non meritava d'essere fatta dal Cor-  tesi; e con questi complimenti muta la sua risposta in una  filippica contro i ciceroniani, ch'egli chiama scimie di Cicerone  in ben altro senso che il Villani diceva del Salutati. « A me  pare più bella assai la faccia di un toro o di un leone, che  quella di una scimia, quantunque cosi rassomigliante all'uomo».     (1) Grinit., Be honesta disciplina, II, 13.   (2) PoLiTiAN., Epist., lib. VI, p. 163.     Digitized by VjOOQIC     — 38 —   E seguita esponendo quale sia il vero principio deirimitazione :  * Quelli che compongono solo per imitazione mi sembrano al-  trettanti pappagalli o gazze, che ripetono parole che non in-  tendono. Gli scritti di costoro mancano di nervi e di vita,  mancano di movimento, mancano di sentimento, mancano di  ogni impronta originale , sono supini, dormono, ronfano. Non  vi è verità , non sostanza , non efficacia. Mi dice taluno che  io non ritraggo Cicerone: e che perciò? io non sono Cicerone,  ma io, credo, ritraggo me stesso; me tamen, ut opinor, ex-  primo. Vi sono poi di quelli che vanno mendicando lo stile  come il parie a tozzo a tozzo, campando la vita non dico d'oggi  in domani, ma oggi per oggi ; e se non hanno sempre davanti^  il libro, da cui togliere, non sanno mettere insieme tre parole,  e anche queste mal cucite o contaminate di barbarismi. Lo  stile di questi tali è sempre tentennante, barcollante, incerto,  mal preparato e mal digerito; e io non li posso assolutamente  soffrire, quando li sento far *la critica insolentemente ai dotti,  a quelli intendo il cui stile esce dalla lunga fermentazione di  una erudizione profonda, di una svariata lettura e d'un con-  tinuato esercizio. Se vuoi pertanto giovarti dell'imitazione,  leggi pure Cicerone e gli altri, ma leggili molto e a lungo,  abbili sempre in mano, imparali, smaltiscili, fornisciti la mente  di una buona suppelle:ttile di cognizioni e allora, quando ti  preparerai a scrivere, nuota sènza sughero, come dice il pro-  verbio, e. prendi consiglio da te stesso e lascia quella pedan-  tesca e affannosa preoccupazione di scimiottar Cicerone : metti  a prova insomma tutte le tue forze. Poiché quelli che stanno*  estatici a contemplare codesti lineamenti , come voi li chia-  mate e che per me sono ridicoli, non sanno pòi riprodurli con-  venientemente e ritardano lo slancio d.el pròprio ingegno (1) »,  Il principio stilistico del Poliziano è su per giù quello slesso  del Petrarca, che lo stile è l'uomo, e si può compendiare in  queste sue parole: « non exprimis, inquit aliquis, Ciceronem:  quid tum? non enim sum Cicero; me tamen, ut opinor, ex-  primo »:     (1) PoLiTUN., Epist, Vili, 16.     Digitized by VjOOQIC     — 39 —   La replica del Cortesi non manca di tradire un certo  risentimento, ma conserva sempre una tal quale severa  correttezza, veramente ciceroniana. Egli dichiara che, nella  condizione in cui si trovava l'eloquenza al tempo suo, era  necessaria l'imitazione e il modello più perfetto da seguire  essere Cicerone. Imitarlo dunque, ma non come la scimia  l'uomo, bensì come un figlio il padre; quella riproduce le  sole deformità e sconcezze, questi, mentre ritrae del padre  il volto, il portamento, la voce, ha pure qualche cosa di suo :  aliquid suum, aliquid naturale, aliquid diversum; messi a con-  fronto, sembrano dissimili. Ma Cicerone non è cosi facile, come  pare ; riproducono la sua abbondanza, la sua spontaneità, ma i  nervi, gli aculei mancano e allora sono a mille miglia da Cice-  rone. Onde quello che mi potrai rimproverare è di non saperlo  imitare, ma non per questo mi avrai dimostrato che io non  devo imitarlo; meglio seguace e scimia di Cicerone, che sco-  laro e figlio d'altri : ego malo esse assecla et simia Ciceronis,  quam alumnus et filius aliorum. . — « Del resto , seguita  il Cortesi, un autore, pur che sia, bisogna imitarlo; l'imita-  zione è legge naturale. Coloro che non vogliono imitar nes-  suno e ottener fama senza ritrarre nulla da chicchessia,  mancano nello scrivere di robustezza e di forza; e quelli  stessi che danno a credere di fare assegnamento sulle sole  forze del proprio ingegno, non possono a meno di non trarre  idee e concetti dai libri altrui e infarcirne i propri, di che  nasce un genere difettoso di scrivere, giacche ora sono rozzi  e sozzi, ora lindi ed eleganti e rendono imagine di un campo,  dove siano seminate sementi diverse e tra loro nemiche.  Poiché non può essere che cibi troppo diversi non si digeri-  scano male e che non avvenga collisione fra parole tanto  differenti. E che buona impressione poi possono mai fare  quelle parole di significato ambiguo, quei vocàboli sghembi,  quei concetti stentati, quella scabrosa struttura, quei traslati  audaci e mal trovati, quelle ricercate spezzature di periodo?  Questo accade appunto a chi prende un concetto di qua, una  parola di là, senza imitar costantemente nessuno. Lo stile di  costoro mi rassomiglia ad una bottega di ebrei » (1).     (1) POLITUN., Episu, Vili, 17.   Digitized by VjOOQIC     - 40 -   Quest'ultima è un'allusione abbastanza acre allo stile a  mosaico del Poliziano; ma la parte più originale e più arguta  di questa lettera del Cortesi è l' esordio, il quale è tutto una  acutissima satira , una finissima caricatura dell' esordio del  Poliziano. Meritano i due esordi di essere attentamente esa-  minati.   Esordio del Poliziano: « Remitto epistulas diligentia tua  coUectas, in quibus legendis, ut libere dicam, pudet et bonas  horas male collocasse; nam et praeter omnino paucas, mi-  nime dignae sunt quae vel a dodo aliquo lectae vel a te  coUectae dicantur. Quas probem, quas rursus improbem, non  explico; nolo sibi quisquam vel placeat in his auctore me vel  displiceat ».   Esordio del Cortesi: « Nihil unquam mihi tam praeter  opinionem meam accidit, quam redditus a te liber epistularum  nostrarum. Putabam enim illum tibi in tantis occupationibus  excidisse. Nunc autem lectis tuis litteris video illum non modo  a te gustatum, sed etiam piane devoratum, cum et scripseris  puduisse te in eo legendo bonas horas male collocasse et eas  ipsas minime tibi dignas videri quae vel ab aliquo dodo  lectae vel a me collectae fuisse dicantur, praeter nescio quas  hominum perpaucorwn. Ego autem totum istud tibi remitto  nec piane iudicium meum interponam, curii jnefas sit quo-  dammodo a te dissentire et ego is sim qui de altero iudicium  /acere, ut ait M. TuUius, nec velim si possim, nec possim  si velim ».   Primieramente nel tuono di tutto l' esordio del Cortesi ci  è una spiritosa replica al contegno sprezzante del Poliziano,  con cui fanno contrasto quelle espressioni di ironico stupore:  nihil unquam mihi tam praeter opinionem etc; non mx)do  gustatum,, sed devoratum, etc.; e queste altre di ironica  modestia: cum, nefas sit quodammodo a te dissentire etc.  Poi quella frase copiata da Cicerone nec velim si possim etc.  con quell'aggiunta ut ait M. Tullius, messa li proprio nella  risposta ad una lettera in cui si faceva la critica dei cicero-  niani, sono una vera canzonatura; come canzonatura è anche  il modesto minimje dignas videri opposto all' assoluto minime  dignae sunt del Poliziano.     Digitized by VjOOQIC     — 41 — .   In secondo luogo T esordio del Cortesi ha l'aria di essere,  an2i è una lezione di grammatica e di stilistica all'esordio  del Poliziano. Al remitto del Poliziano il Cortesi sostituisce  giustamente un redditus, riservandosi poi di rimbeccarglielo  con l'altro totum isticd tibi remitto. L'anafora esatta dei due  et scripseris jmduisse et eas ipsas minime videri è una sa-  tira ai due pudet et honas.,, nam, et praeter usati negligen-  temente dal Poliziano. Il Cortesi mette il te come soggetto  dell'infinito collocasse e il fuisse come complemento di di-  cantur , due omissioni che si notano nel Poliziano, a cui il  Cortesi finalmente muta omm/trvo pauccLS in perpaucorum,  e docto aliquo in aliquo docto, — Sarei curioso di sapere  perchè il Poliziano, pur tanto arguto quando voleva^ non  abbia rimbeccato questa prova di stile e di spirito veramente,  bisogna dirlo, ciceroniani.   La contesa fra il Cortesi e il Poliziano ha fatto gran re-  more nella classe degli umanisti e fu diversamente giudicata,  secondo le diverse scuole stilistiche. Il Bembo, ardente cice-  roniano, plaudi molto alla lettera del Cortesi, bella, arguta e  nel medesimo tempo seria: «Panili Cortesii epistulam bellam   illam quidem et cum argutulam tum etiam gravem » —   Il Bembo aggiunge che il Cortesi annientò la leggerezza del  Poliziano, dotto ed elevato ingegno, ma poco prudente, il quale  accorgendosi di non potere assolutamente conseguire, né aven-  dola infatti conseguita nemmeno da lontano, la perfezione  dello stile di Cicerone, si rivolse a condannare quelli che lo  ritraevano e che in qualunque modo adoperavano uno stile  d' imitazione (1). Quanto sfavorevolmente il Bembo giudicò  del Poliziano, altrettanto favorevolmente Erasmo, il quale,  esaminato il contenuto delle due lettere, dice quella del Po-  liziano esser veramente ciceroniana, elegante ed efficace nella  sua brevità ; quella del Cortesi prolissa e tutt'altro che cice-  roniana. « Il Cortesi, scrive Erasmo, cade in contraddizione,  dicendo prima che egli vorrebbe rassomigliare a Cicerone  non come una scimia all'uomo, ma come un figlio al padre, e     (1) Risposta a Frane. Pico; Opera, Venetiis 1729.   Digitized by VjOOQ IC     — 42 —   poi che vorrebbe essere scimia di Cicerone, anziché figlio  d'altri. Inoltre il Cortesi divaga dal vero argomento; o era  del parere del Poliziano e perchè gli risponde come se gli  fosse contrario? o non era del parere del Poliziano e per-  chè non lo confutò? » Gonchiude cTie il Poliziano non ri-  spose perchè quella lettera non avea nulla che fare con la  disputa : « cui velut- aliena loquenti nihil respondit Poli-  tianus » (1).   .Riempie del suo stile elegante, fluido e armonioso la seconda  metà del secolo decimoquinto il Pontano. Non ha le sgramma-  ticature e le costruzioni arbitrarie di Poggio, ma si riserva  una certa libertà di foggiare il periodo latino; non è cicero-  niano e scelto come il Cortesi, ma immensamente più vivace  ed eflìcace; è eclettico come il Poliziano, ma schiva quei  vocaboli strani, che danno troppa affettazione allo stile. « Io  potrei trovare, dice Erasmo, a centinaia le parole non cice-  roniane nel Pontano, ma il suo scrivere mi rapisce con quella  placida cadenza; mi solletica le orecchie quel soave armo-  nizzar delle parole; mi abbaglia quello spendore e quella  maestà di stile ». Stupendo giudizio, che non si può riprodurre  meglio che con le sue parole: « me rapit tacito quodam  orationis lapsu ; verboriim dulce quiddam resonantium amoeno  tinnitu permulcet aurés ; demum splendore quodam perstringit  dignitas ac maiestas orationis » (2). Non diversamente lo giu-  dica il suo grande ammiratore Francesco Florido, il «quale  rimprovera ad Erasmo d' aver per poco misurato il Pontano  alla stregua di Cicerone, perchè il Pontano « ha uno stile  tutto suo proprio, che procede misurato, tranquillo e puro,  ma che di quando in quando s'eleva ad un'altezza che è  ad altri impossibile toccare » (3).   Una forma di stile singolare e strana è quella del vecchio  Beroaldo, il quale è più degno di essere un contemporaneo  di Appuleio e di Fulgenzio, che del Pontano e del Poliziano.     (1) Dialog. ctceron.   (2) Dialog. ctceron.   (3) Florio., Lectiones succisivae, III, 6.     Digitized by VjOOQIC     — 43 —   Eppure quello stile non è nato cosi all' improvviso dalla biz-  zarra fantasia del Beroaldo, ma è un troppo rigoglioso svi-  luppo d'un germe che già si trova nello stile del Poliziano.   I portenta verhorum, di cui io ho recato un saggio vera-  mente singolare, traendolo dalia prefazione alle Miscellanee  e che furono tanto giustamente rimproverati al Poliziano,  divennero il pane quotidiano del Beroaldo. Il male gli fu at-  taccato dall'autore stesso del male, cioè Appuleio, col quale  egli, commentandolo, si famigliarizzò al segno, da diventare  l'Appuleio moderno. Quello è uno stile convulsivo, di colorito  africano, come lo scrittore che lo creò,. delizia di una società  degenere, che non gustando più il bello naturale, si pasce  del bello affettato e di stranezze: espressione manierata e  pomposa; periodare rimbombante e sbocconcellato, sminuzzo-  lato ; sciupio di epiteti esornativi ; antitesi e allitterazioni  stuzzicanti; spreco di metafore esagerate; pleonasmi per tutto;  frasi accattate, parole rare e ignote, composizioni di vocaboli  strane ed oscure. E tale è appunto lo stile del Beroaldo;  zeppo di nomi astratti, di aggettivi formati da quei nomi, di  vocaboli greci latinizzati, di antitesi strane e contorte ; d'onde  (jueir oscurità che i contemporanei gli rimproveravano. Ma  egli pare stupito di quei rimproveri, perchè il suo modo di  scrivere sembra a lui il più naturale del mondo. « Io scrivo  per i dotti, rispondeva egli, e non per il volgo e prendo i ,  miei vocaboli tutti da latinisstmi scrittori » (1); latinissimi  scrittori erano per lui tutti gli autori da Plauto a Boezio,  compresi i padri della chiesa e i traduttori della bibbia* I  letterati del suo tempo stuzzicati dalla novità applaudirono,  ma i critici dell'età seguente furono scandolezzati di quel-  r intemperanza di stile. Il Griovio dice : « qua^rebat rancidae  vetustatis vocabula iam piane repudiata a sanis scriptoribus » (2).   II Florido poi fa del Beroaldo una sanguinosa caratteristica,  rimproverandolo di avere appestato il mondo col suo stile e  domandando che si facesse una legge speciale per impedire     (i) Beroal., Orationes et Carmina; Brixiae 1497; lettera al Calchi.  (2) Elogia, 51. . ' "     Digitized by VjOOQIC     — 44 —   la pubblicazione e la lettura delle sue opere, che con una  parola molto energica egli chiama cacationes (1).   Io voglio dare un saggio di questo stile. Non* parlo di vo-  caboli inventati, come secretarius, galleria, sclopus, giran-  dola, di cui si trova nei suoi scritti un'abbondante raccolta;  non di parole rare, come innoTninaMis, ultramundanus, ege-  siosus, sequestratus, auricularius; non di parole greche lati-  nizzate, come mythicon, historicon. Ecco alcune delle sue meta-  fore e personificazioni : « vellem mihi a diis immortalibus dari  fluvium TuUianae eloquentiae et torrentem Demosthenis facun-  diam »; — « si coepero de prudentia tua singulari praedicare,  occurret iustitia, quae postponi gemebunda dolebit; si dixero de  fortitudine, tristabitur temperantia ; si laudavero liberalitatem,  frugalitas ipsa se contemni existimabit; si clementiam extulero,  severitas indignabitur »; — « fulminibus fortunae impotentis  semiustulatus ». Ma più di tutto apparisce questo modo di scri-  vere dall'esame di un periodo intero. Eccone uno : « qui (amor)  ventis requiem, qui mari tranquillitatem (largitur); qui eie-  menta societate conglutinat, qui cunctas animantes familia-  ritate conciliat; benevolentiae largitor, malevolentiae exter-  minator. Et quemadmodum coniungi non potest amaritudo  cum dulcedine, caligo cum lumino, pluvia cum serenitate,  pugna cum pace, cum fecunditate sterilitas, cum tranquil-  litate tempestas, ita cum. amore odium, invidia, malevolentia  copulari non possunt; et quemadmodum, radius a sole, caler  ab igne, rigor a glacie, candor a nive nequeunt separari, ita  ab amore divelli non possunt benevolentia, societas, necessi-  tudo, concordia; hic est enim amabilissimus amicitiae nodus  princepsque ad benevolentiam conglutinandam, unde ab amore  amicitiam nuncupatam esse sapienter tradiderunt. Quod est  in navigio gubernator, quod jn civitate magistratus, quod in  mundo sol, hoc inter mortales est amor. Navigium sine gu-  bernatore labascit, civitas sine magistratu periclitatur, mundus  sine sole tenebricosus efflcitur et mortalium vita sine amore  vitalis non est: toUe ex hominibus amorem, solem e mundo     (1) Lectiones succisivae^ pp. 216-231.   Digitized by VjOOQIC     — 45 —   sustulisse videberis ». — Abuso di astratti , personificazioni,  sciupio di sinonimia, concettosità, anafore e chiasmi, ora soli  ora intrecciati, paronomasie, antitesi, giochi di parole: ecco  tutto.   Più in là del Beroaldo andò il suo scolaro e imitatore Bat-  tista Pio. Ecco un sa^io del suo stile e credo che valga più  di qualunque commento: « Fissiculanti mihi et per horarum  minutias acerrime vestiganti, quidnam sit forte fortuna in hac  labida et morbili ne dicam morbonia et nosocomio mortali-  tatis nobile, regium , consummatum et absolutum, subit id sa-  pientis apophthegma et bracteatus adagio, illum esse nimirum  hominem, qui rerum caducarum et subcisivarum principatum  sceptrumque retinet ». Questo passo è citato dal Florido (1),  il quale fa un'acre invettiva contro il Pio, di cui dice molto  vivacemente che nella immondezza dello stile superò il mae-  stro (2). Anche il Giovio è assai severo col Pio, che scioc-  camente imitando il maestro Beroaldo andava a caccia in  Fulgenzio, Sidonio, Plauto, Valerio Fiacco, con una passione  da matto, dei vocaboli più rancidi che trovasse; lo ammirava  la stolta turba degli scolari , mentre chi aveva fior di senno  se ne rideva. E seguita raccontando il Giovio che quelle mo-  struosità di parole e di locuzioni messe in giro da belli spiriti  entrarono anche nella scena, e infetti fu da costoro composta  una comedia, che è stampata, nella quale si introduce il Pio  a parlare con quel suo gergo, intanto che il grammatico  Prisciano lo rimprovera e denudategli le natiche, lo batte con  lo scudiscio, come si fa ai ragazzi che imparano male la le-  zione. Ma il Pio tranquillo della sua coscienza non si curava  di quelle caricature: « Pius quadrato ingenio eas nasutorum  rumores contempsit, sua conscientia profecto felix » (3).     (i) Apologia^ p. 118.   (2) Lectiones succis., pp. 234238.   (3) lovius, Elogia, 102.     Digitized by VjOOQ IC     — 46 —   SECONDA BATTAGLIA.  (P. Bembo, G. F. Pico, P. Manuzio, G. Poggiani).   Moderata come la prima fu anche la seconda battaglia, com-  battuta tra il Bembo e Gianfrancesco Pico della Mirandola.  Il Pico quale alunno del Poliziano era eclettico, il Bembo  ciceroniano, anzi uno dei più eleganti, dei più perfetti cice-  roniani. In Roma nel 1512 essi aveano agitata a voce la  questione deirimitazione e il Pico in seguito alla discussione  ne scrisse una lettera al Bembo, con la data del 19 settem-  bre 1512, eh' egli compose in poche ore. Il Pico mostra che  l'uomo non deve solamente e unicamente imitare ; l'imitazione  gli potrà essere un aiuto a sviluppare le sue facoltà personali,  ma a queste sopra ogni cosa egli dee tener la mira; e anche  imitando, non bisogna limitarsi ad un solo, ma trarre da tutti  il meglio, come fa il pittore. Chi dice che Cicerone sia pro-  prio perfetto in tutto? ciò è -impossibile e gli antichi stessi  trovavano molto da biasimare in lui ; e d'altra parte i mano-  scritti sono tanto guasti, che sarebbe pazzia pretendere che  ci fosse arrivato genuino Cicerone nelle sue opere. Io mi me-  raviglio, continua il Pico, che al tempo nostro si voglia star  tanto attaccati agli antichi ; eppure ingegni non ne mancano.  Perchè non sviluppano essi le loro facoltà mentali secondo lo  spirito dei nuovi tempi? Ogni età ha i suoi bisogni, i suoi  sentimenti ; a quelli deve servire, quelli esprimere. E poi va-  riano gli argomenti; come si potrà adattare la lingua e lo  stile di un solo autore a tanta varietà? Io veglio ammettere  che si imiti Cicerone ; si imiteranno le sue parole, ma la viva  struttura di esse giammai; provati a disfare un muro e a  rifarlo poi coi medesimi materiali; i materiali restano i me-  desimi, ma la cementa tura sarà diversa e quella è opera tua ;  dunque anche imitando si può e si deve riuscir originali (1).     (1) 1. Frano. Picus, ad P. Bembum, de imitatione.     Digitizedby VjOOQIC -     — 47 —   La risposta del Bembo, in data 1 gennaio 1513, comprende  due parti. Nella prima ribatte il sistema del Pico, mostran-  dogli che quella facoltà, innata da lui ammessa nell'uomo non  esiste e si acquista invece con l'imitazione; io, dice egli, me  la sono acquistata col lungo esercizio e con l'imitare. Tu  mi dici, continua il Bembo, che si devono, se mai, imitare  tutti i buoni. Ma come? domando io. Imitarne lo stile in ge-  nerale desumere il meglio da ciascuno? Nel primo caso con  tante diverse specie di stili non arriverai mai a formarti uno  stile che abbia unità. Nel secondo caso non si imita, ma si  mendica un tozzo di qua, un tozzo di là. Perchè quando si  dice imitare, si intende che bisogna comprendere tutto il com-  plesso della forma e le singole parti : « imitatio totam com-  plectitur scriptionis formam, singulas eius partes assequi po-  stulat, in universa stili structura atque corpore versatur ».  Se io imito Sallustio, non mi devo contentare di riprodurre  la sua brevità, ma anche le sue parole, le sue costruzioni.  Imitare un autore vuol dire rendere la sua fisionomia, il colo-  ritx) individuale : « totam mihi oportet eius stili faciem expri-  mat,. cuius se imita torem dici vult, quem eo nomina dignum  putem ». Ogni autore ha un suo special colorito : oggi io imito  Cesare; s'intende che devo assimilarmi la sua natura; come  potrò io domani spogliarmela d'un tratto, per rivestire il mio  stile, poniamo, del colorito di Sallustio? Questo è impossibile;  impossibile è dunque imitare più di un solo autore. Chi fa  diversamente, riesce ad uno stile proteiforme e tutt'altro che  bello.   Nella seconda parte, non meno caratteristica e importante  della prima, il Bembo spiega la genesi del suo criterio d'imi-  tazione. Da prima, egli scrive, ebbi anch'io la tua opinione  e mi provai di scegliere da tutti gli autori il meglio, ma ben  presto m'accorsi della falsità di questo principio. In secondo  luogo imaginai di formarmi uno stile tutto mio proprio, per-  sonale, pensando che l'originalità del tentativo avrebbe riscossi  gli applausi de' dotti; ma messomi alla prova, vidi che nes-  suna forma di stile poteva esser nuova, giacché qual più qual  meno tutte erano state esaurite dagli antichi; e poi il mio stile,  posto a confronto con quello degli antichi, ci perdeva assai in     Digitized by VjOOQ IC     — 48 —   colorito. Allora risolvetti di appigliarmi all'imitazione; ma da  quali autori cominciare? dai sommi o dai mediocri? mi decisi  per i mediocri, con la speranza ch'essi mi avrebbero avvici-  nato un po' più ai sommi. Ma qual non fu la mia delusione,  quando dai mediocri passai ai sommi. Io aveva già contratta  la natura di quelli, si che invece di essermi avvicinato ai  sommi, me ne ero allontanato. Allora feci ogni sforzo per can-  cellare quanto di quelle letture m'era rimasto nella memoria:  < e memoria nostra deletis penitus iis, quae alte tunc imita-  tione non optimorum insederant », mi volsi all'imitazione dei  sommi e di questi scelsi un solo. Cicerone. — Accusano Cice-  rone di soverchia verbosità, specialmente quando parla di sé;  ma questo non è difetto di stile, bensì debolezza d'animo ; debo-  lezza felice del resto, perchè tutte le volte eh' egli torna a  parlar di sé, lo fa con tanta eleganza. Lo dicono inoltre ca-  rattere incostante, ma nulla da ciò ne soffre lo stile, « qui  esse optimus in vita non optima potest ». Né si obbietti che  Cicerone non è adatto a tutti gli argomenti, perché nelle varie  sue opere si trova una grande varietà di stile. Del resto la  stessa storia naturale di Plinio si potrebbe scrivere in stile  ciceroniano e la estensione maggiore che acquisterebbe sa-  rebbe ad usura compensata dalla dignità e bellezza della locu-  zione (1). — Il Bembo nella sua lettera formula queste tre  leggi dell'imitazione: 1* si imitino gli ottimi; 2* si imitino da  eguagliarli; 3* eguagliatili, cerchiamo di superarli.   Quello che é curioso nella lettera del Bembo, è l'espo-  sizione dei vari tentativi fatti prima di giungere ad un criterio  definitivo d'imitazione. E per l'analogia che ha col Bembo e per  la sua singolarità veglio qui recare anche l'esempio di Paolo  Manuzio, il quale cosi spiega la genesi e la natura del suo  criterio imitativo. Nel discorso, egli dice, bisogna distinguere  Videa e idi parola; come mi conteneva io in sul principio?  pigliavo dagli autori latini le idee con le loro frasi corrispon-  denti e le inserivo tali e quali nei miei scritti. Ma mi accorsi  che era sistema erroneo; era un gioco di memoria; e quando     (1) P. Bembus, ad loh. Francisc. Picum^ de imitatione.     Digitized by VjOOQIC     — 49 —   ^ mi fossi posto a comporre di mio, non sarei riuscito a nulla.   Mutai allora indirizzo ed ecco come praticai. Pigliavo da  Cicerone e da Terenzio le idee e le ruminavo nella mia mente,  cercando di impadronirmene e quindi di vestirle di forma  appropriata ed eletta, non però con parole del testo, bensì con  parole mie: quelle idee per tal guisa acquistavano una certa  originalità. Pigliavo dall'altra parte le parole di quei due au-  tori e, cercando le molteplici significazioni traslate di esse,  mi sforzavo di esprimere con le medesime parole idee diffe-  renti e anche in questo io faceva un lavoro originale. Tutto  quello che io sono, conchiude il Manuzio, lo devo a un simile  sistema (1).   Il metodo del Manu^o è quello stesso del ciceroniano Giulio  Pc^giani, il quale reca anche per maggior chiarezza alcuni  esempi. Il Foggiani dopo di aver detto che i veri ciceroniani  sono assai pochi per due ragioni, la prima che imitano, oltre  a Cicerone, autori di bassa lega, la seconda che non lo sanno  imitare, perchè trasportano di pianta le sue idee e le sue  frasi nei propri scritti, passa a spiegare il suo metodo, ch'egli  raccomanda agli studiosi. Essere intanto una idea falsa il cre-  dere che non si possano trattare se non gli argomenti trattati  da Cicerone ; ma doversi invece potere le parole di lui adattare  a qualsiasi ordine di idee e vestire le proprie idee con parole  diverse dalle sue. Dall'una parte, continua il Poggiani, capi-  tandomi sott' occhio una locuzione di Cicerone, cercavo di  vestire con quella differenti altre idee, p. es. Cicerone* dice:  « PuNii Rutila adulescentiam ad opinionem et innocentiae  et iuris scientiae P. Scaevolae commendavit domus », Io  applicava la frase ad altra cosa in questo modo: «Hanni-  balis Minalis adulescentiam ad opinionem et eloquentiae et  philosqphiae Flaminii Nóbilii consuetudo commendavit ».   » Dall'altra parte pigliavo o da Cicerone o da altri le sentenze,   esercitandomi a porle sotto differente forma; mentre perciò  prima con la medesima cera foggiavo diverse imagini, ora     (1) Lettere inedite di P. Manuzio, Archivio veneto, XXIII; li, let-  tera 3a.     R. Sabbadini, Ciceronianismo e altre questioni letterarie.     Digitized by VjOOQIC     - 50 -   vestivo di un altro abito la medesima persona. P. es. trovando  ne quid nimts; late patet invidia, io traduceva: tenendus  est omnium rerum modus; niìiilnon occupai invidia. Cosi  mutando le parole si fanno creder proprie le sentenze tolte  agli altri, secondo il costume dei ladri, i quali perchè non  vengano riconosciute le cose rubate^ le rimutano, facendo,  p. es., di una giubba un calzone. Altre volte io mi esercitava  a voltar nel senso contrario le parole e le frasi di Cicerone:  egli diceva in laetitia doleo ed io in dolore laetor; egli tar-  dius facere ed io diligentius facere; egli celerius, io negli-  gentius (1).     PERIODO EROICO.  (D. Erasmo, G. Longolio, S. Boleto, G. Scaligero, F. Florido).   È graziosa e spiritosa quanto mai la descrizione di un viaggio  che Suppazio, un interlocutore tìqM' Antonius (2) del Fontano,  intraprende per le città d'Italia a cercarvi un sapiente, verso  la fine del secolo XV. Si indovina alla bella prima che il  sapiente non Tha trovato; ma invece matti, stravaganti, scioc-  chi, corrotti per tutto. A Roma ecco che cosa gli accadde.  Dedicò due giorni ai monumenti sacri e profani; il terzo  giorno andò a zonzo per osservare i costumi della gente ; ma  incontrò rufl3ani, bordellieri, tavernieri a campo dei Fiori;  usurai a ponte S. Angelo; al Laterano cuochi e bettolieri; per  •le strade e i viottoli ubbriachi e magnoni. E fino allora Tavea  passata liscia, col pericolo però di lasciare il mantello in  mano di qualche meretrice o di essere schiacciato sotto le  mule dei preti; quando imbattutosi in un tale, non si può  tenere dallo sfogarsi e dirgli: ma qui si marcisce neirozio:  « otio marcescunt homines ». Non V avesse mai fatto il mal-     <1) Lettera di G. Foggiani in Mureti, Orai, et Epist. II, pp. 183-185.  (2) Lyon, 1514, pp. 213-217.     Digitized by VjOOQIC     - 51 —   capitato. Quel tale era un grammatico, che prese a pugni il  povero Suppazio, perchè i verbi, uscenti in esco come mar-  Cesco non ricevono il caso ablativo. Suppazio ebbe un bel  citare Cicerone, Vergilio, Plinio, ma se ne dovette fuggire  malconcio. Lo vide uno che passava e gli chiese se gli aves-  sero fatto del male. Sì, rispose, ho patito ingiuria da un gram-  matico: « iniuriam passus sum ». — L'interlocutore era per  disgrazia anche questa volta un grammatico ; e dove hai tro-  vato, gli saltò su, la frase iniuriam pati, vecchio ignorante  di latino? Citò Suppazio la terza FUùppica e il Lelio di Cice-  rone: flato sprecato, l'altro levava i pugni. E Suppazio via;  e si ricoverò in provincia a Velletri, a Terracina; ma incontrò  di peggio: altri grammatici anche là e cosi insolenti che,  mentre egli parlando con un medico usò la parola frictio, uno  lo interruppe villanamente, facendo un fracasso indiavolato,  che si dovea dire fricatio.   Questa la caricatura; ma tale o poco meno era la società  romana, e a Roma questioni più o meno oziose di gramma-  tica, di purismo e di stile si dibatteano molto frequentemente:  basti per tutte quella tra irBembo e il Pico. Certo è che nella  prima metà del secolo XVI il centro del ciceronianismo è  Roma, dove l'accademia romana rappresenta la parte mili-  tante, Pietro Bembo il duce. Ciceroniano il papa Leone X,  ciceroniani i suoi due famosi abbreviatori il Bembo e il  Sadoleto, ciceroniani gli accademici Lelio Massimi, P. Pazzi,  Battista basali, Porcio Camillo, il Marino, il Castellani, Giulio  Tomarozi, il Flaminio, l'Ubaldino. Il Bembo sarebbe giunto a  dichiarare di preferire lo scrivere ciceroniano al possedere  il ducato di Mantova (1), a cui faceva eco, rincarando la dose,  Lazaro Bonamico, che preferiva l'essere ciceroniano all'essere  re papa. Traduceva il Bembo senato della repubblica veneta  con patres conscripti; dicchi e ducati con reges e regna; re  della Persia e dei Turchi con reges Armeniae et Thracum;  Lodovico con Aloysius. Nelle date delle lettere e dei brevi     (1) BuRiGNY, Leben des Erasmics aus dem franzós., von G. Henke,  Halle 1782, 1, p. 548.     Digitized by VjOOQ IC     — 52 —   pontifici metteva le calende e gli idi ; chiamava Dio col nome  collettivo di dii immortales; la Vergine era per lui dea; Gesù  un heros; rendeva fides con persuasio ; ewcommunzcare con  aqua et igni interdicere; morituro peccata remittere con  deos superos manesque UH placcare (1). Un ciceroniano, per  poco che non volesse derogare alla sua dignità, si teneva nel  suo gabinetto una effigie di Giove che scende in braccio a  Danae, anziché un Gabriele che annunzia alla Vergine il con-  cepimento; e così il ratto di Ganimede, anziché l'ascensione  di Cristo (2). Papi e cardinali alternavano e spesso scambia-  vano il Vaticano col Campidoglio; scambiavano Dio con Giove,  Cristo con Apollo, Maria con Diana, i santi coi numi e divi-  devano una giornata fra una predica sacra e una comedia  antica. Un frate ciceroniano fece una predica sulla morte di  Cristo, presente papa Giulio IL Gli accessori dell'orazione,  cioè l'esordio e l'epilogo, più lunghi dell'orazione stessa. L'e-  sordio chiamava Giulio II il Giove ottimo massimo, che nella  destra onnipossente tenendo e vibrando il trisulco e inevi-  tabile fulmine, col solo cenno otteneva quel che voleva; indi  seguiva^ l'oratore a mostrare che Giulio II col suo cenno avea  operato tutto quello che era accaduto nell'Europa negli anni  precedenti. Il discorso si divideva in due parti : la morte e il  trionfo di Cristo. L'oratore nel parlar della morte tirò in  campo il sacrifizio dei Deci, di Curzio, di Cecrope, di Ifigenia  e le morti di Socrate e di Focione; il trionfo poi di Cristo  era illustrato da quelli di Scipione, di Emilio Paolo, di Cesare (3).   Questa società ciceroniana spensierata e deliziata nelle bel-  lezze d'una vita e d'un'arte tutta pagana fu messa a remore  per ben due volte da due stranieri, l' uno ammiratore entu-  siastico, l'altro avversario giurato del ciceronianismo: il Lon-  golio ed Erasmo.   Cristoforo Longueil, latinizzato Longolius, ingegno precoce,  spirito irrequieto, anima passionata e infelice, é il cavaliere     (1) Leniknt, p. 12; Walch, Qp. cit., XII, 3.   (2) Erasmus, Bialogus cicer., p. 82.   (3) Ibi, p. 67     Digitized by VjOOQ IC     — 53 —   errante del ciceronianismo. Nato a Maclinia, nel Belgio, e vis-  suto poco più d'un decennio nel secolo XV, e gli altri due  decenni nel XVI, egli si senti irresistibilmente attratto alla  Italia, allora esuberante di una vit^ intellettuale invidiata e  sospirata dagli stranieri. La sospirò tanto Erasmo e la sospirò  ardentemente il Longolio, il cui sogno era il genio d'Italia:  « felicem illum ac piane divinum genium Italiae sum secu-  tus » (1). Ma quante peripezie non dovette egli traversare  prima d'arrivarvi. A otto anni fu mancato agli studi a Parigi,  dove rimase fino all'anno sedicesimo. Indi accompagnò in  Spagna Filippo d'Austria per pochi mesi, dopo i quali si fermò  nell'Aquitania a studiar diritto; ivi a 18 anni compose per  esercizio rettorico un'orazione, che poi gli fu fatale, dove con-  frontando i Galli coi Romani dava la palma ai Galli. Continuò  poi per altri sei anni gli studi giuridici a Valenza; esercitò  quindi due anni l'avvocatura a Parigi. Finalmente venne a  Roma, d'onde, dopo tre anni di soggiorno, fuggi per ricove-  rarsi oltre Alpe e finalmente a Padova, ove fini, nel 1522,  la sua vita a 34 anni nelle braccia di Reginaldo Polo, che  l'amava come un fratello (2). Scrisse di storia naturale, ora-  zioni contro i luterani, discorsi ed epistole ciceroniane; fU  soldato, venne carcerato, ebbe a combattere coi doganieri  svizzeri, fu ingiuriato e corse pericolo della vita a Roma e  a Padova: la sua vita è una delle più avventurose che si  possano imaginare. Questa irrequietezza che lo tormentava  era cagionata da una invincibile smania di imparare, ch'egli  sperava finalmente di poter appagare a Roma, dove avrebbe  studiato il greco e perfezionato il suo stile latino. Infatti il  Giovio ce lo descrive entrare in Roma in abito straniero, col  cappuccio rosso e la tunica stretta alla vita, che aveva l'aria  di un mezzo soldato tedesco. Era sua intenzione, dice il Giovio,  di dissimulare sotto quell'abito il suo vero scopo: voleva am-  mirare i monumenti, studiare gli ingegni italiani, visitare le     (1) Lettera del Longolio in S adolet. , Epist, 18.   (2) LoNGOLius, Orationes, I, pp. 10-11; cfr. la vita del Longolio ivi  premessa.     Digitized by VjOOQ IC     — 54 —   biblioteche e formarsi più squisito il gusto artistico e lette-  rario, che in nessun luogo si trovava cosi fino come in Roma (1).  Ma appena entrato nel ginnasio cominciò a dar saggio del suo  acuto ingegno e delle sue cognizioni; e alcuni romani, il  Tomarozi e il Castellani, si presero cura di lui, gli fecero  mutar veste e lo alloggiarono in casa propria. In questo modo  il Longolio potè farsi conoscere ed entrare in domestichezza  coi principali personaggi di Roma, fra i quali lo stesso papa  Leone X, il Sadoleto e iL Bembo ; ma più di tutti col Bembo,  che gli fu protettore e consigliere negli studi. Infatti dietro  le esortazioni del Bembo il Longolio depose a poco a poco quella  sua primitiva forma eclettica e si venne famigliarizzando con  Cicerone, di cui lesse per cinque anni continuamente i libri,  senza occuparsi di altri autori. Dopo quattr'anni di esercizio  ciceroniano il Longolio domandava al suo protettore, che cosa  gli paresse del suo stile, e il Bembo gli rispondeva che il pro-  gresso era stato molto, ma che alla perfezione ci correva an-  cora un buon tratto : « ut Giceronem ipsum, quem tibi unum  scribendi magistrum, me auctore , proposuisti, eundem uni-  versum non solum vores sed etiam concoquas atque in sucum  et in sanguinem convertas tuum » (2). Il Longolio per varie  cagioni attirava le simpatie altrui: integrità di costumi, lon-  tananza dalla patria, ingegno acuto e vivace, una eroica  costanza nello studio; ce n'era d'avanzo perchè spiriti colti  e gentili come il Bembo e il Sadoleto prendessero interesse  di lui (3). Il Bembo era specialmente ammirato della sua avi-  dità di leggere, per cui lo chiamava divoratore di libri, libro  rum helluo (4). Passati già due anni che dimorava in Roma,  a cui avea mostrato la propria gratitudine componendo cinque  discorsi in lode e di Roma e d'Italia, il suo amico Castellani  lo propose al senato per la cittadinanza romana, che gli fu  conceduta. Ma questo atto fu fatale a lui, perchè gli sollevò  contro parte dei cittadini.     (1) lovius, Elogia^ 67.   (2) P. Bemb., Epist. famil., V, 17.   (3) Ibi, V, 13; cfr. Sadol., Epist., 15.   (4) P. Bemb. Epist. famil., V, 13.     Digitized by VjOOQIC     — 55 —   I nemici del Longolio cercarono o al bisogno inventarono  calunnie e accuse per negargli la cittadinanza romana. Dissero  ch'egli era stato mandato a Roma da Erasmo e dal Budeo,  con l'incarico di prender tutti i libri che si trovassero in Roma  e portarli oltr'Alpe (1). Scovarono perfino quella tale orazione  che recitò quando era nell'Aquitania e nella quale posponeva  i Romani ai Galli e gliene fecero un delitto di lesa maestà;  e tanto fu il tumulto sollevatogli contro, che la sua vita, non  ostante le alte protezioni ch'egli vi godeva, correa pericolo;  «pagavano gli operai, dice il Longolio stesso, perchè mi in-  sultassero e mi aizzavano contro la plebe. Io era esposto ai  fischi del volgo, perseguitato dalle calunnie dei nobili, dalle  minacce dei potenti, cosicché io dovetti seriamente pensare a  ricoverarmi da Roma in salvo » (2). E fuggì infatti da Roma,  dopo di aver composto due orazioni in sua difesa, che lasciò  manoscritte agli amici suoi. In esse l'autore, fingendole reci-  tate davanti al senato e parlando come se veramente si fosse  trovato ne' panni di Cicerone quando recitava una Filippica,  si difende con uno stile ciceroniano e con un'enfasi, che è  tutta di fantasia e per nulla eccitata da circostanze reali, dai  quattro capi di accusa seguenti: 1° il Longolio in una sua  orazione aveva parlato con poco onore dell'Italia; 2° avea lo-  dato Erasmo e Budeo che sono barbari; 3° quei due stranieri  lo aveano subornato a venire in Italia a prendersi i migliori  libri per portarli oltr'Alpe, acciocché i barbari potessero con-  tendere all'Italia il primato delle lettere; 4° un uomo barbaro  non poteva essere cittadino romano.   Questi capi d'accusa erano sviluppati nel discorso tenuto da  Gelso Mellini contro il Longolio, quando egli era già fuggito  da Roma. Gelso era un nobile romano, delle antiche famiglie  patrizie, il quale fu messo su dagli amici perchè difendesse  l'onor della patria minacciato, come dicevano, da uno stra-  niero: « ut patriae suae dignitati et famae adesset ». Nel Gam-  pidoglio dunque alla presenza del senato e del papa il Mellini     (1) LoNGOLius, Orationes^ II, p. 33.   (2) Ibi, I, p. 12; II, p. 40. Cfr. Bemb., Epist famil, V, 16.     Digitized by VjOOQIC     — So-  lesse la sua orazione, la quale fu molto applaudita e della  quale Roma fece il tema dei giornalieri discorsi per qualche  tempo. Ma la gente savia dava ragione al Longolio, i cui  amici pensavano il modo di salvare la sua causa, e il Flaminio  propose che si recitassero le due orazioni di difesa scritte dal  Longolio, ma prevalse invece l'opinione di farle stampare; e  furono infatti stampate, con generale vantaggio dell'autore, le  cui qualità letterarie furono dal pubblico favorevolmente ap-  prezzate dopo la lettura delle due orazioni (1). In seguito fu-  rono nuovamente avviate le pratiche per conferire la citta-  dinanza al Longolio, a cui finalmente il senato la confermò.  Questi tumulti avvenivano in Roma nel 1519. Il Longolio  intanto viaggiava per la BEettagna e passando da Genova eT  ai*rivando a Lione intese parlare dei fatti di Roma dopo la  sua partenza, dei quali egli era ancora all'oscuro. In Inghil-  terra amici e parenti lo sconsigliarono dal tornare in Italia,  dove avrebbe nuovamente corso pericolo di vita; ma il suo  astro oramai era quello e non potè resistere alla tentazione  di seguire nuovamente il genio d'Italia e vi tornò in sul finire  dello stesso anno (2). Si fermò l'inverno a Venezia presso il  Bembo (3) e di là passò a Padova, dove attese a perfezionarsi  negli studi e specialmente nello stile ciceroniano (4). Gli fu  proposta nel principio del 1520 la cattedra di letteratura a  Firenze (5), ch'egli rifiutò, adducendo per pretesto che non  voleva distrarsi nell'insegnamento, al quale si sentiva poco  chiamato, e dovea badare più assiduamente ai suoi studi (6).  A Padova , fra i disagi di una vita stentata (7) e i timori di  nuove minacce da parte de' suoi nemici (8), visse tre anni     (1) Sadolet., Epist. 13; e lettera del Longolio, «6t, 18.   (2) Ibiy 14; e lettera del Longolio, ihi^ 18.   (3) P. Bemb., Epist. famil., V, 13.   (4) P. Bemb., Epist. pontif., XVI, 30.   (5) P. Bemb., Epist. famil, V, 15; Sadolet., Epist. 17.   (6) Lettera del Longolio in Sadolet., Epist., 18.   (7) Bemb., Epist. pontif., XVI, 30; Epist. fam., V, 14; Sadol., Epist. 27;  lettere del Longolio in Sadol., Epistol. 23 e 24.   (8) Bemb., Epist. fam., V, 16.     Digitized by VjOOQIC     — 57 —   scarsi, raccomandando in morte agli amici di bruciare i suoi  scritti anteriori, perchè non erano dettati in stile ciceroniano:  perfino nell'istante di terminare una esistenza travagliata e in-  felice non Tavea lasciato la preoccupazione ciceroniana, che  gli logorò e amareggiò gli ultimi anni.   La vita avventurosa e lo spirito appassionato, Tijigegno pre-  coce di questa vittima del ciceronianismo furono cagione che,  anche dopo morto, del LongoKo giudicassero e scrivessero gli  eruditi con molto interesse, fino a dar luogo ad accanite con-  tese letterarie. Il Florido, buon giudice in fatto di stile, lo  chiama smilzo a confronto del Poliziano, del Valla, del Fon-  tano (1). Paolo Manuzio è ancora più severo; lo dice nullo,  smilzo nelle idee, punto splendido nella forma; che trasportò nei  suoi scritti parole, frasi e periodi ciceroniani, ma senza discer-  nimento; forse avrebbe fatto meglio se la morte non l'avesse sor-  preso (2). Più di proposito ne parlò Erasmo: « uomo di grande  ingegno, egli dice, e di una perspicacia straordinaria, dotto,  felice nel trattar gli argomenti, si procacciò moltissima fama,  ma a troppo caro prezzo ; si torturò per tanto tempo e final-  mente mori prima d'aver compito l'opera, con non piccolo  danno degli studi, ai quali avrebbe potuto giovare di più, se  non fosse corso dietro a un vano fantasma, se non fosse stato  roso da una pazza ambizione, che gli guastò il frutto dei suoi  studi e gli troncò la vita ». Giudicando poi le sue opere, nota  l'eleganza delle lettere, ma «come sono vuote e quali futili  argomenti trattano 1 Rassomigliano ad alcune lettere di Plinio  e a quelle di Seneca, che di lettere non hanno che il titolo;  quanto movimento invece, quanta passione, che naturalezza  di stile, che attrattiva della materia nelle lettere di Cicerone,  nate veramente dalle vicissitudini della vita reale e non nel  chiuso gabinetto di un pedante ». Con le orazioni del Longolio  Erasmo è più severo e spesso adopera un'ironia abbastanza  acre. Intende le due orazioni scritte in propria difesa, nelle  quali vede un povero illuso, « che sogna un mondo imaginario     (1) Lectiones succisiv., 1, 2.   (2) P. Manuzio, Lettere ined. ecc.     Digitized by VjOOQIC     — 58 —   di senato, di consoli, di tribuni, di province, di municipi, co-  lonie, alleati, di Roma capo del mondo, di Romolo e di Quiriti,  ch'egli crede di poter evocare con la potenza del suo stile  ciceroniano, che rassomiglia tanto a Cicerone come i versi  della Batracomiomachia ai versi ^oiVEiade » (1).   Contro Erasmo si è scagliato Stefano Dolete (2), il quale  chiama il giudizio di Erasmo addirittura un'invettiva contro  il Longolio e ne vuol trovare la cagione nel confronto che  colui avea fatto tra Erasmo e il Budeo, preferendo il Budeo (3).  Questa è una calunnia del Dolete, perchè se il Longolio ebbe  forse qualche rancore contro Erasmo, questi se ne duole, non  vedendo di averne dato motivo : « quamquam in me videtur  habuisse nescio quid stomachi, certe praeter meum meritum,  qui de ilio semper optime tum sensi tum praedicavi » (4).  Comunque, il Dolete pigliando le difese del Longolio mostra,  condendo di frequenti insulti il suo discorso, che lo stile di  lui, contrariamente a quel che ne disse Erasmo, è grandioso  e splendido, che vi è acutezza, ricchezza di sentenze; efficacia  e robustezza, gravità ed elevatezza (5); che gli argomenti di  molte sue lettere non sono niente affatto futili, ma seri e che  del resto nelle lettere devono trattarsi cose di interesse quo-  tidiano; che le orazioni, ancora che gli sia mancato il vero  pubblico antico, hanno sempre importanza, quando oltreché  all'uditorio si badi anche alla causa e che quantunque morte  le antiche istituzioni, pure si possono adoperare le formolo  antiche davanti ad uditori che le comprendano.   Se avesse ragione il Dolete o Erasmo, lo dica il seguente  esordio della prima delle due orazioni del Longolio : « Quod  per hosce quadraginta dies (questa determinazione di tempo  è imaginaria) a Dee opt. max. precatus sum, patres conscripti,  ut, si eo in senatum populumque romanum animo semper     (1) Dialog, ciceronianus.   (2) Dialogus de ciceroniana imiiatione.   (3) BuRiGNY, Leben des Erasmus, 1, pp. 253-256.   (4) Erasmus, Epist, 817; Lyon 1703.   (5) DoLETus, Dial. de cicer. imitatione, pp. 19-20.     Digitized by VjOOQIC     fuissem quo mortales omnes esse deberent, daretur milii ali-  quando a perpetua illa et piane hostili accusatorum meorum  insectatione respirandi spatium, ut hoc in loco et accusationem  tuto refellere et innocentiae meae rationes vobis libere expli-  care possem, id ego mihi hodie tandem singulari vestro Con-  silio, tum efiam beneficio, videor consecutus, qui me, quod  erat quidem aequitate vestra dignissimum, sed, in tantis ad-  versariorum meorum opibus, mihi hoc tempore minime spe-  randum, praeter omnium opinionem ad causam hac in arce  Capitolina dicendam admisistis », — Se non fosse pur troppo  concepito seriamente da uno spirito illuso, si direbbe che è  una finissima parodia degli esordi ciceroniani, da mettere in-  sieme con l'altra argutissima che fa del secentismo il Manzoni  nella prefazione dei Promessi Sposi.   Dopo il L'ongolio la società ciceroniana di Roma fu messa  a remore da Erasmo, il terribile avversario del ciceronianismo.  Erasmo si era formato un genere di scrivere che, pur rispet-  tando scrupolosamente la grammatica, offendeva la purezza  latina, e sempre portava una certa impronta di libertà; ma  era una libertà geniale e in quel latino abbastanza impuro si  può scorgere la produttività e la vena inesauribile della mente  d'Erasmo: è uno stile originale. Ma quello stile non doveva  assolutamente piacere ai ciceroniani, né con quel suo prin-  cipio stilistico Erasmo doveva guardarli di buon occhio. Già  verso il 1520 in una lettera al Longolio scriveva, alludendo  allo stile ciceroniano di lui, ch'egli non mettea troppo scru-  polo nella scelta delle parole, sembrandogli che una simile affet-  tazione non convenisse punto a chi rivolgeva la massima at-  tenzione alle cose (1). Era grazioso quel suo verso che spesso  pronunziava: decem annos consumasi in legendo Cicerone; a  cui fingeva che l'eco rispondesse- la parola greca 6v€, asino! (2).  Ma la sua attività contro il ciceronianismo comincia propria-  mente l'anno 1526 e ce ne è prova il suo epistolario, in cui  da quest'anno diviene frequente e sempre più vivace l'allu-     (1) In LoNGOL., Epist., Ili, 63.   (2) Lenibnt, p. 16.     Digitized by VjOOQ IC     — 60 —   sione ai ciceroniani. Erasmo conosceva la disputa avvenuta  circa quindici anni prima a Roma tra Grianfrancesco Pico  e il Bembo e ora vi vedeva, per opera del Longolio, risorto il  partito ciceroniano, ch'egli chiamava secta ciceronianorum (1),  factio ciceronianorum (2), chorus ciceronianorum (3), e fremere  contro di lui quella società pagana di eruditi, con a capo  Girolamo A leandro e Alberto principe di Carpi (4), i quali  miravano a cancellare dall'albo dei dotti Erasmo e il Budeo (5)  e tutta la Germania e la Gallia (6). Ma la Germania e la Gallia  per mezzo di uno di quei loro due grandi rappresentanti si  apparecchiavano a rispondere alle sfide. Il Budeo eccitato da  Erasmo ad attaccar battaglia non rispose all'invito (7); allora  usci Erasmo solo in campo. Nell'ottobre 1527 scriveva già o  pensava il Ciceronianus, perchè nella lettera di questa data si  trovano molte frasi che si rivedono in quello (8); l' anno se-  guente, 1528, il Ciceronianus era uscito: la guerra era dichia-  rata e accanita.   Questo libro interessantissimo e caratteristico è in forma di  dialogo tra Nosopono ciceroniano, Buleforo anticiceroniano e  Ipologo, un personaggio di ripiego, che professa il ciceronia-  nismo, ma che facilmente si converte; più difficile è la con-  versione meglio la guarigione di Npsopono, perchè la sua  è una malattia, ma alla fine del dialogo esso è già ben av-  viato verso la guarigione. Il dialogo ha tre parti: nella prima  Erasmo fa una graziosa caricatura dei ciceroniani; nella se-  conda confuta la loro dottrina; nella terza fa il catalogo degli  eruditi della rinascenza, italiani e stranieri, morti e contem-  poranei, giudicati dal punto di vista dello stile ciceroniano. In  questo libro si mescolano la più grave serietà con la più ar-     (1) Erasm., Epist, 820, del 16 maggio 1526; cfr. 804.   (2) IH, 821; 16 maggio 1526.   (3) Ihi, 842; 26 decembre 1526.   (4) Ibi, 820; 16 maggio 1526.   (5) Ibi, 821; 16 maggio 1526.   (6) Ihi, 804; 23 marzo 1526.   (7) Lenient, p. 16.   (8) Erasm., Epist, 899.     Digitized by VjOOQIC     — 61 —   guta e fina ironia: Tuna serve a mettere l'altra in rilievo  e l'effetto che ne nasce è stupendo. Con che mordacità e  festività egli tratteggia il carattere di Roma e dei ciceroniani,  questa società di oziosi « desidentes in Giceronis myrotheciis  ac rosariis et in illius sole apricantes », che non cercano altro  che il modo di far del chiasso, come è costume dei romani:  « ut ea civitas undequaque captat voluptatis materiam » (1).  Non fanno che sognare e parlare al senato e al popolo ro-  mano ciceronescamente; il senato? ma se mai ce ne è uno a  Roma, di latino non ne capisce; il popolo romano? ma parla  harbaramente, nonché prenda gusto alla frase ciceroniana. E  sempre Roma in bocca; povera Roma, che non è più Roma,  ma un mucchio di rovine e di cui non resterebbe nemmeno  l'orma, se non fossero i papi, la corte pontificia, le ambasciate  e una colluvie di parassiti che accorre colà a far fortuna li-  bertatis amore. Risuscitano con la loro malata fantasia il Cam-  pidoglio ; povero Campidoglio, ridotto alle meschine proporzioni  di una casetta, per farvi recitare dai ragazzi le comediole.  Risuscitano le reminiscenze della cittadinanza romana ; e ci è  forse più merito ad essere cittadino di Basilea, che cittadino  di Roma, « si contemptis verborum fumis rem aestimare liceat ».  Caustica, ma ad un tempo velatamente patetica, è la rap-  presentazione di Nosopono, il ciceroniano. Forse Erasmo non  se ne è accorto, ma nel creare questa figura, ch'egli voleva  rendere ridicola, l'ha resa invece sentimentale. Di Nosopono  il lettore, prima che gli spunti il riso, sente compassione. Era  una volta un buon compagnone, faceto, rubicondo, grassotto  e ricco d'ogni bellezza giovanile. Ma ora è malato; è una ma-  lattia di cervello, ch'egli chiama malattia di cuore: «amore  depereo », egli dice; amo la dea TTcìeib, l'eloquenza ciceroniana;  sono dieci anni che la sospiro in vano; ma o possederla o  morire: « nil medium est». Felice il Longolio, che potè mo-  rire per essa ! — Da sette anni non legge che libri di Cicerone;  dagli altri scrittori si astiene come i certosini dalla carne;  l'imagine di Cicerone egli l'ha fatta porre in tutte le stanze     (1) Erasm., Dialog. ciceronianus^ p. 138. '   Digitized by VjOOQIC     — 62 —   della sua casa;, la porta sempre con sé nell'anello, la sogna  di notte. In questi sette anni di preparazione ha compilato  tre indici ciceroniani. Nel primo ha raccolto tutti i vocaboli  ciceroniani, con la loro flessione, indi con le derivazioni e  finalmente con le composizioni; ad ogni parola ha citato il  passo per intiero di cui fa parte , il luogo in cui si trova ,  foglio, facciata, riga, se in mezzo, in principio o in fine di riga.  Della flessione delle singole parole ha notato con una linea  rossa le forme che si trovano in Cicerone e con una linea  nera quelle che non vi si trovaho: p. es. amabam si trova,  ma non amabatis; amor, amoris, ma non amores, amorum;  legOy ma non leg(yr; ornatus, ornatissimus, ma non omatior;  cosi dei derivati, p. es. lectio si trova, ma non lectiuncula;  così dei composti, p. es. perspicio si trova, ma non dispicio.  Nel secondo indice, più vasto del primo, notò le frasi, i tropi,  le sentenze, 1 motti e simili. Nel terzo, più vasto del secondo,  tutti i ritmi e i piedi con cui Cicerone comincia i suoi pe-  riodi, li sviluppa e li chiude. Passati i primi sette anni di  preparazione, vengono i sette anni di imitazione. Nosopono si  mette a tavolino a notte tarda, per non essere disturbato da  alcun romore, e il suo gabinetto per questo scopo è situato  nella parte più interna della casa. Non deve essere molestato  da nessuna passione o cura mondana, epperò non ha preso  moglie, né ha voluto rivestire alcun ufl[ìcio né secolare, né  ecclesiastico: meglio essere ciceroniano, che console o papa.  Quelle sere che vuole lavorare, si mantiene leggiero lo sto-  maco, per lasciar più libera la mente, prende soli dieci acini  di uva passa e tre confetti : « ciceronianum esse sobria res  est». Quando scrive, ecco come fa; deve fare p. es. una let-  tera? prima butta giù i pensieri come vengono; indi comincia  a sfogliare parecchie lettere di Cicerone e i tre indici ; trovate  le parole, le frasi, i ritmi, adatta a quelli i pensieri. Scrive  un periodo per notte, la lettera non avrà più di sei periodi.  Quindi la riconfronta dieci volte con ciascuno dei tre indici ;  poi la mette dentro al cassetto, per rileggerla a mente fredda  alquanti giorni dopo e limarla e rimutarla: « ego malim multum  scribere quam multa». Quando parla, Nosopono schiva di  parlar latino, o se vi è costretto, si serve di certe formolo     Digiti     zedby Google     - 63 —   adatte alle più comuni circostanze della vita, raccolte dai libri  di Cicerone e mandate a memoria. Se deve fare una lunga  conversazione, dove chi sa quante locuzioni non ciceroniane  gli sfuggiranno, consacra poi un mese alla lettura ciceroniana  per rifarsi il gusto. Se deve fare un discorso, se lo prepara  e lo manda a memoria; non improvvisa maL — Erasmo non  ci fa ridere con questa caricatura, perchè il nostro pensiero  senza volerlo, e i contemporanei Taveano realmente creduto,  ricorre al Longolio, da cui pare che Fautore abbia tolto le  principali caratteristiche del suo Nosopono. Erasmo ha escluso  qualunque allusione personale (1) e non c'è ragione di negargli  fede, ma è impossibile che la storia e le vicende del Longolio  non abbiano influito sulla concezione, almeno, di questa cari-  catura ciceroniana.   Le idee d'Erasmo sull'imitazione hanno molto di comune  con quelle sviluppate da Gianfrancesco Pico nella lettera al  Bembo. Imitare vuol dire scegliere il meglio da tutti gli autori:  l'ape sceglie da molti fiori il polline, il pittore sceglie da vari  volti i lineamenti delle sue figure. Cosi il letterato non deve  limitarsi all'imitazione di un solo, si chiami pur esso Cicerone.  Cicerone ha vizi che gli antichi già biasimarono, né le sue  opere sono pervenute a noi intere e quelle che ci rimasero  furono guaste dal tempo e dai copisti. Inoltre Cicerone non  esauri tutte le forme diverse dello stile, né trattò tutti gli ar-  gomenti; per il che volendo scrivere col suo stile, in molti  argomenti saremmo condannati al silenzio. E posto pur che  si debba imitare, riprodurremmo le sue qualità esteriori, le pa-  role, le costruzioni, il ritmo, ma la sua vivacità, i suoi senti-  menti, il suo colorito personale non mai; sicché una vera  imitazione ciceroniana, come la voghono i ciceroniani, fosse  anche ammissibile, non sarebbe possibile. Si imiti pure Cice-  rone, ma non si riproduca; i tempi sono mutati; gli istinti, i  bisogni, i sentimenti nostri non sono più quelli di Cicerone;  prendiamo esempio da lui, il quale imitando i Greci ha saputo  formarsi uno stile personale e suo proprio, e anche noi seri-     ci) Erasm., Epist, 981.     Digitized by VjOOQ IC     — 64 —   vendo badiamo a formar opera originale e non un lavoro di  mosaico. E cosi riesciremo uomini del tempo nostro e saremo  utili veramente ai nostri volghi, i quali di tutt' altro hanno  bisogno che di Cicerone. Lo scrivere lettere e orazioni cice-  roniane è nulla più che esercizio rettorico. A chi le scrivono  quelle lettere? a quattro italiani, che si danno l'aria di cice-  roniani; e quelle orazioni niente hanno di serio: uno le fa,  un altro le recita, lasciano il tempo che trovano; sono tutte  del medesimo stampo : elogio del personaggio a cui sei inviato  ambasciatore, proteste di stima da parte sua e quattro luoghi  comuni.   Anche qui Erasmo non lascia mancare la nota satirica.  Questi ridicoli si stimano tanti Ciceroni, se arrivano a finire  un periodo con esse videatur o a cominciare un discorso con  un quamquam, un etsi, un antmadver% un cum,, un si, a  scrivere eiiam, atque etzam per vehew£nter, mazorem in  modum per valde, identidem per subinde , Rowwn cogi-  taham, per statuebam. Romxim proftcisci, a intarsiare i loro  scritti di queste frasi: non solum, peto, verum etiam, oro  contendoque; valetudinem tuam, cura et me ut facis ama;  ahtehac dileooisse tantum, y nunc etiam amare miJii videor.  Guai a mettere Tanno nella data delle lettere ! Cicerone poneva  solo il mese. Guai a scrivere Carolo Corsari Codrus Urceus  salutem invece di Codrus Urceus Carolo Caesari saìutem;  a mettere salutem, plurimam dicit invece di salutem, dicit;  Regi Ferdinando invece di Ferdinando Regi,   Ma la parte veramente capitale del Dialogus dceronianus  è la confutazione del paganesimo, che si faceva strada sotto  l'elegante maschera del ciceronianismo. Erasmo lo dice nella  prefazione! •« sotto questo nome specioso di imitazione cice-  roniana si subodora l'intenzione di renderci pagani». E più  chiaramente ed efficacemente nel dialogo: « siamo cristiani di  nome; il corpo è battezzato con l'acqua santa, ma la mente  è impura; la mano fa la croce, ma l'animo disprezza la croce;  professiamo con la bocca Gesù, ma portiamo Giove e Romolo  nel cuore; non abbiamo il coraggio di dichiararci pagani, ci  copriamo sotto il nome di Cicerone: pa^ganitatem, profiteri  non audemuSy Ciceroniani cognomen oUendimMS ». E si     Digitized by VjOOQIC     — 65 —   sdegna del paganeggiare che fanno i ciceroniani coi nomi  più santi della religione cristiana, consacrati ormai dalla pietà  e dalla tradizione. Siccome questo rivestire i nomi e le for-  mole cristiane alla pagana è una delle più singolari caratte-  ristiche del ciceronianismo, ne voglio recare un elenco quale  lo dà Erasmo. Si adoperava adunque lup. Opt Maoo, per  Pater; Apollo e Aesculapius per Filtus , Christus ; Diana  per Virgo; salerà contio, civitas, respuUica per ecclesia;  pei^dueUis per ethnicus; factio per haeresis; Christiana per-  sua^siD per fiMs; proscriptio per excommunicatio ; diris de-  volere, aqua et igni interdicere per excommunicare; legati  veredarii per apostoli; flamen dioMs, summus civitatis  praefectus per pontifex romanus (ma ^ìkpontifex era forma  pagana ài papa); patres conscrfpti per consessus Cardinalium;  Senatus populusque retpuNicae christianae per synodiùs gè-  neralis; praesides provinciarum per episcopi; comitia per  electio episcoporum; sycophanta per diaboliùs; vates, divinus  per propheta; or acuta divum per prophetiae; tinctura per  Mptismus; viciima per missa; sacrosanctum paniflcium  per consecratio corporis dominici; sanctifìcum crustulum  per eucharistia; sacrificulus, sacrorum antistes per sacerdos;  minister, curio per diacomcs; numinis munifìcentia per  gratia Bei; manumissio per absotutio, — Ottiene poi il mas-  simo effetto comico un medesimo passo scritto da Erasmo,  prima in stile teologico, poi tradotto in stile ciceroniano. Ec-  colo in stile teologico: « lesus Christus, verbum et Filius  aeterni Patris, iuxta prophetias venit in mundum ac factus  homo sponte se in mortem tradidit ac redemit ecclesiam suam  offensique Patris iram avertit a nobis eique nos reconciliavit ;  ut per gratiam fidei iustificati et a tyrannide liberati inse-  ramur ecclesiae et in ecclesiae communione perseverantes  post hanc vitam consequamur regnum caelorum ». — Ora  segue la ti*aduzione ciceroniana : « Optimi maximique lovis  interpres ac fllius servator rex iuxta vatum responsa ex  Olympo devolavit in terras et hominis assumpta figura sese  prò salute reipublicae sponte devovit diis manibus atque ita  rempublicam suam asseruit in libertatem ac lovis 0. M. vi-  bratum in nostra capita fulmen restinxit nosque cum ilio re-  fi. SABBADmi, Ciceronianismo e altre questioni letterarie. 5     Digitized by VjOOQ IC     — 66 —   degit in gratiam, ut persuasionis munificentia ad innocentiam  reparati et a sycophantae dominatu manumissi, cooptemur in  civitatem et in reipublicae societate perse verantes, cum fata nos  evocarint ex ha e vita, in deorum immortalium consortio  rerum summa potiamur ». — È una graziosissima satira delle  esagerazioni ciceroniane; e Nosopono, il malato di ciceronia-  nismo, non può tenersi dal riderne anche lui. Trattare gli ar-  gomenti sacri in questo modo, dice Erasmo, sarebbe come  disfare un mosaico che rappresenta il ratto di Ganimede e  rifare coi medesimi pezzi l'arcangelo Gabriele.   Il Ciceronianus sollevò grandi proteste e indignazioni,  com'era da aspettarsi, in Italia e fuori. Fuori e specialmente  in Francia si era menato scalpore e gridato allo scandalo per  un confronto che Erasmo avea, nel catalogo degli eruditi, fatto  tra il Badie e il Budeo; confronto, siamo giusti, veramente  fuor di luogo e fuor di proposito, perchè il Badie infinfine non  era che un libraio e un raffazzonatore e più spesso sconciatore  di commenti, dovechè il Budeo era un ingegno di primo or-  dine e originale» L'eco di queste ire, di questi scalpori si può  cogliere minutamente nell'epistolario di Erasmo (1). Ma dove  più -si gridò contro Erasmo fu in Italia e a Roma specialmente;  il che egli avea però facilmente preveduto, perchè l'Italia era  stata da lui direttamente presa di mira : « Ciceronianus meus  non paucos offendit Italos, quod satis divinabam fere » (2). 11  Bembo e il Sadoleto si son tenuti in disparte e hanno sempre  conservato un contegno amico ad Erasmo, da cui erano avuti  in grand'onore, come mostra il giudizio ch'egli ne diede nel  suo dialogo. Ma due dei più simpatici italiani erano stati da  lui veramente malmenati in un modo indegno: il Fontano e  il Sannazzaro. Egli li rimprovera di aver troppo paganeggiato  nei loro scritti e in questo non ci sarebbe nulla di male; ma  gli Italiani sì sono sdegnati di espressioni insultanti come  queste: del Sannazzaro avea detto che il suo poema sulla     (1) Epist., 969; 975; 982; 999; 1002; 1015; 1105, 1135. Gfr. Lenient,  pp. 32-35.   (2) Epist., 1082.     Digitized by VjOOQIC     — 67 —   Vergine, se si considera come primo tentativo poetico di un  giovane, può passare, ma per lavoro di un uomo serio gli va  preferito il solo inno di Prudenzio sulla nascita di Gesù (1);  e del Fontano diceva che preferiva, al solito, un inno di Pru-  denzio a una nave carica di versi pontaniani (2). Il Florido,  nemico acerrimo dei ciceroniani, ammiratore d'Erasmo, ma  però sempre adoratore della bella forma, come tutti gli italiani,  non potè tenersi dal confutare energicamente il grande critico  straniero e dirgli chiaro e aperto che egli non si potea per-  suadere che avesse scritto in quel modo, se non mosso da  livore e, quel che è peggio, da invidia (3).   In Italia e in Roma le vie, i crocicchi, i ginnasi, le chiese,  i banchetti risonavano del nome nefando di Erasmo, com'egli  stesso dice, e si facevano congiure di giovani per salvare   l'onore di Cicerone: «Itali in me debacchantur sunt aliquot   iuvenes male feriati qui conspirarunt in Italiae et Giceronis  hostem » (4). Pietro Curzio, dell'accademia romana, scriveva  contro Erasmo un libro (5); un certo Longo non adoperava  contro di lui la penna, ma la parola e avea eccitato uno di  Vratislavia a comporre contro Erasmo un libro, che faceva il  giro di tutta l'Italia (6); e un libro contro lui si stampava a  Milano (7). Erasmo in uno dei suoi proverbi avea scritto:  « Myconius calvus, velut si quis Scytham dicat eruditum,  Italum bellacem »; ebbene gli italiani aveano interpretato come  offensive quelle parole, le quali provocarono un libro intito-  lato : Defensiò Italiae adversus Era^mum, stampato a Roma  e dedicato a Paolo HI. S'era sparsa a Roma una lettera, piena  di scurrilità, finta di Erasmo; s'era pubblicato un libro col  titolo: Cicero relegatus et Cicero ab exilio revocatuSy forse     (1) Dialog. ciceronianus.   (2) Epist., 899.   (3) Floridus, Lection. succis., Ili, 6.   (4) Erasm., Epist, 1279.   (5) Ibi, 1276; 1296.   (6) Ibi, 1277.   (7) Ibi, 1288.     Digitized by VjOOQ IC     — 68 -   di Ortensio Landi, nella cui prima parte si calunniava acre-  mente Cicerone e nella seconda freddamente si difendeva; e  un altro libro era in preparazione, che avrebbe portato il  titolo di Bellum civile inter Ciceronianos et Erasmianos (1).  In tutto questo tramestio Erasmo vedeva la mano e l'opera  instigatrice, iniqua di Girolamo Aleandro: era sfato lui ad  instigare Pietro Curzio a scrivergli contro (2); era stato lui a  pubblicare prima un libello sotto il nome dello Scaligero (3)  e poi un altro sotto il nome del Boleto (4). — Ma lo Scaligero  e il Dolete erano stati veramente gli autori; di questi due dirò  ora qualche cosa.   Lo Scaligero e il Dolete rappresentano l'opposizione della  Francia contro Erasmo. Comincio dallo Scaligero. Egli scrisse  contro Erasmo due orazioni, che sono due invettive. La prima  è del 15 marzo 1531, scritta da Agèn. Nell'introduzione lo  Scaligero si scusa se non ha potuto confutar prima il dialogo  d'Erasmo, « dialogus ille nefarius », perchè gli arrivò assai  tardi. L'orazione si divide in tre pai*ti ; là prima è tutta una  nera calunnia contro Erasmo; lo chiama rinnegato, parassita,  correttore di stampe, spacciando ch'egli scrisse quel dialogo  perchè volea distruggere Cicerone, dopo d'essersi fatto bello  dell'imitazione di lui. Nella seconda parte ribatte le censure  personali fatte da Erasmo a Cicerone; nella terza prova, contro  le accuse di Erasmo, che Cicerone è perfetto. Ecco la ragione  per cui dobbiamo seguir sopra ogni altro Cicerone: «non  quoniam Cicero non posuit, damnabimus; sed quoniam dàm-  nanda essent, ipsum non posuisse iudicamus » (5). — Non mi  occupo degli epiteti ingiuriosi con cui egli chiama Erasmo:  monstrum, helluo, neì)ulo, canis, parricida, carnifex; quello  che mi preme avvertire è che in quest'orazione lo Scaligero  non tratta la question dell'imitazione, ma fa unicamente l'apo-  logia di Cicerone. Erasmo parlò di quest'orazione col disprezzo     (1; Erasm., Epist., 1279.   (2) Ibi, 1288.   (3) IH, 1205, 1277.   (4) m, 1288.   (5) luL. Gaes. Scalig., Orat., I, p. 30.     Digitized by VjOOQIC     che meritava, dicliiarando che con tal gente, che adoperava  gli insulti invece degli argomenti, egli non combatteva e che  del resto nemmeno era questione che gli apparteneva, perchè  egli non avea combattuto Cicerone, ma i ciceroniani (1). Per  vendicarsi di questo disprezzo lo Scaligero scrisse nel 1535  un'altra orazione, che è più ancora della prima un'invettiva  personale e che perciò non ha interesse per la nostra storia.  L'odio dello Scaligero non molto dopo pare siasi smorzato;  infatti nel 4 maggio 1536 (2) scriveva da Agen all'Onfalio, che  gli aveva chiesto di £ar la pace con Erasmo, di esser pronto  a farla e sinceramente, protestando ch'egli si mise in quella  polemica non per odio personale, ma per difesa di un prin-  cipio. Non so quanto sia da credere a una simile protesta; ad  ogni modo la riconciliazione dello Scaligero non arrivò a tempo,  perchè Erasmo era morto.   Più interessante è il libro del Boleto (3) contro Erasmo,  quantunque anch' egli mischi vergognosamente le ingiurie e  gli insulti alla discussione. È in forma di dialogo, che si sup-  pone avvenuto a Padova tra Simone di Villanova e Tomaso  Moro, e fu stampato nel 1535. Esso comprende due parti prin-  cipali; la prima è una difesa del Longolio, che il Boleto crede  essere stato posto in caricatura da Erasmo sotto il nome di  Nosopono. In questa prima parte anzitutto difende il Longolio,  dicendo fra le altre cose che alla religione cristiana hanno  recato maggior danno le uggiose e importune dispute di Erasmo,  Lutero e compagnia, che non tutta la paganità dei ciceroniani.  Indi mette a confronto il Longolio con Erasmo, mostrando la  superiorità dello stile di quello su questo e giudicando sfavo-  revolmente ad una ad una tutte le opere di Erasmo. Nella  seconda parte del libro si discute diffusamente sull'imitazione,  la quale è necessaria all'uomo e che il Boleto divide in tre  parti: imitazione di parole, di sentenze, di composizione.     (1) Erasm., Epist,, 1277.   (2) luL. Gaes. Scalig., Epist. et Orationes, pp. 302 sgg.   (3) Steph. Doletus, De ciceroniana imitai, adversus Erasm. prò Chr.  Longolio dialogus ; Lyon 1535.     Digitized by VjOOQIC     — 70 —   Parole: di tutti gli autori latini il più perfetto è Cicerone,  « purissimus linguae latinae fons, flumen, oceanus ». Cicerone  ha parole per qualunque sia ordine di idee; quelle che non  troveremo in lui, prenderemo da altri autori, ma non ci al-  lontaneremo da lui, flnch'egli ci serve. Gli altri si leggano per  l'erudizione, Cicerone sopratutto per la parola. Badisi però che  non meritano nome di ciceroniani quelli che sanno appena  riprodurre qua e là quattro locuzioni ciceroniane, sbagliando,  se occorre, la grammatica: «ciceroniani nomen ei tribuam  qui Ciceronem diligenter legerit, qui Ciceronem intus et in  cute noverit, qui Ciceronem una lectione non vorarit aut  absorpserit, sed sensim delibarit, degustarit, regustarit, exhau-  serit, beneque concoxerit ». — Sentenze: le sentenze derivano  a noi più dalla natura, che dall'imitazione; ma in Cicerone  troveremo l'arte di esporle, di vivificarle, di adattarle ai sin-  goli luoghi ; imparata quest'arte, anche quelle che desumiamo  da lui possiamo invertire e modificare, da parer cosa nuova ;  « in quo imitando quid impedit quin auriflcum industriam  atque artem aemulemur? an si a te bracteam illi accipiant,  non eam, si libet, sic immutant ut nihil formae pristinae  maneat? » — Composizione: anche la prosa deve avere il suo  ritmo e in questo è sommo maestro Cicerone; da lui impa-  riamo il temperamento delle vocali e delle consonanti, delle  sillabe lunghe e delle brevi, gli stupendi effetti dell'antitesi.  Seguitando quindi il Boleto a rispondere alle obbiezioni fatte  da Erasmo nel Ciceronianus, mostra come Cicerone sia atto  a tutti gli ingegni e a tutti gli argomenti : le condizioni della  vita moderna non sono press'a poco le medesime dell'antica?  « tulliano eloquio qui abundet, latum habet perpetuo campum  in quo tuUianam phrasim apte commodeque et profundat et  explicet ». Scrivendo di cose sacre, le parole che non si tro-  vano in Cicerone si desumano giudiziosamente da altra fonte,  ma non. si perda mai di vista l'efl^ìcacia, la robustezza, la pru-  denza, l'acutezza ciceroniana. Cicerone stesso tolse per la filo-  sofia parole dal greco : « ciceroniana imitatio verborum reli-  gione non continetur ». Né ci si dica che il ciceroniano manchi  di varietà; come il cuoco sa dare vari sapori alla medesima  carne, cosi noi possiamo adattare a mille diversi argomenti il     Digitized by VjOOQIC     — 71 —   materiale linguistico di Cicerone : « qui in Cicerone versatur,  eadem semper verba usurpet necesse est, sed ad rem susceptam  ita diverse accommodata ut simul latine, pure, eleganter,  proprie, apte, ornate, copiose, denique tulliane loquatur et  varie, ut nihil repetitum aut plus semel dictum iudices ».  Anche imitando Cicerone, nulla ci impedisce di formarci uno  stile personale e che sia la vera espressione dell'animo nostro:  « auferetne liberam quae sentimus et animo agitamus dicendi  atque scribendi facultatem divinus ille romanae eloquentiae  parens, cum nos verborum copia, schematum cumulo, senten-  tiarum gravitate, numerorum oratoriorum suavitate instruit? »  Quanto alla corruzione dei libri di Cicerone, il Boleto osserva  che ormai per opera dei grandi critici, il Valla, il Poliziano,  il Budeo, il Longolio, furono restituiti alla loro primitiva ge-  nuinità; e quanto finalmente alla paganità dei ciceroniani,  nota che sono tutt' altro che pagani il Sa dolete, il Bembo, il  Longolio.   Si deduce dal lungo e assai noioso dialogo che il Boleto era  ciceroniano, ma non fino alla superstizione, giacché egli am-  mette che si possano adoperare parole di Terenzio, quando  siano appropriate alla prosa, e di altri scrittori, purché siano  di quelle ammesse alla cittadinanza romana, né per troppa  antichità, come il vino, inacidite; e che T imitazione cicero-  niana non consiste tanto nelle parole, quanto nell'arte : « Cice-  ronis imitatio non tam verbis constat, quam artis expressione  diflOinitur neque ciceronianus videtur qui anxie magis verba  Ciceronis emendicat, quam reliqiias illius virtutes in dicendo  sequitur » (1).   Producono effetto veramente comico due intestazioni di let-  tere messe a riscontro dal Boleto, per mostrare la differenza  tra lo scrivere misurato e parco del Longolio e la verbosità  d'Erasmo. Intestazione del Longolio: « Christophorus Longolius  Francisco Valesio regi salutem ». Intestazione d'Erasmo: « In-  clito, virtutibus omnibus illustrissimo victoriisque inflnitis cla-  rissimo atque omnium potentissimo Ferdinando Bohemiae regi     (1) J}e ciceron. imitatione, p. 119.     Digitized by CjOOQIC     — 72 —   sef*vus humillimus et vermiculus terrae pauperculus monachus  Erasmus retócto post tergum cuculio reverenter et cum omni  humilitate sai. plur. dicit ».   Contro il Boleto, il caeritus Alcmaeon, difese Francesco  Florido il criterio stilistico d'Erasmo. Divide rettamente la  lingua latina in tre periodi: Tarcaico con Plauto per rappre-  sentante; il classico con Cicerone; e il periodo di Plinio, nel  quale comincia la decadenza. Gli autori tutti del secondo pe-  riodo e i migliori del primo e del terzo devono essere presi  come modelli di scrivere latino, badando però di non arrivare  più giù di Quintiliano; ma se faccia di bisogno, è meglio ado-  perare una parola anche di Lattanzio, di Boezio, che designare  l'idea con una troppo lunga perifrasi. L'imitazione del solo  Cicerone è una pazzia ignota agli antichi, i quali imitavano,  e Cicerone stesso ne è una prova, non un solo, ma i migliori.  E seguita ripetendo i medesimi argomenti d'Erasmo e accen-  dendosi di quando in quando di ira contro il Boleto, degno,  com'egli dice, di essere soffocato lui nello sterco, che chiamò  sterco tutti gli autori latini, meno Cicerone. Volendo cercare  le ragioni per cui vomitò quella sua tragoedia contro Erasmo,  ne trova due: l'una di farsi un nome, attaccando un illustre  letterato ; l'altra di garantire lo smercio dei suoi commentari  della lingua latina, i quali essendo stati compilati sulle rac-  colte ciceroniane di Roberto Stefano (1) e del Nizolio (2),  avrebbero perduto ogni valore se fosse invalso il principio  eclettico propugnato da Erasmo. In queste sue note il Florido  provoca il Boleto: tutto il suo dialogo, egli dice, non è che  una filza di ciance vane e insulse; «quae.nisi vera sunt,  habebit ipse se purgandi locum, si et nostro de vulnero san-  guinem sequi credet et eodem mihi quo illi pretio sai perhi-  betur » (3). Questo scriveva il Florido nel 1539; l'anno appresso  il Boleto rispose alla provocazione con un libro intitolato:     (1) RoB. Stephanus, Latinitatis thesaurus^ 1536.   (2) NizoLius, Giceronianus apparatus et in Ciceronem observationes ,  1535.   (3) Fr. Florid., LecHones succis,, I, 2 e 4.     Digitized by VjOOQIC     — 73 —   De imitatione ciceroniana adversus Floridum. Si compone  di due parti: nella prima riassume quanto dell'imitazione avea  scritto nel dialogo contro Erasmo; la seconda è un'invettiva  temeraria, invereconda, nella quale chiama barbaro il latino  del Florido, lo accusa di immoralità e di furti letterari. Infine  si trovano alcuni epigrammi, di cui eccone uno per saggio:   Quid Floridus? comedo, heUuo, lurco, venter,  ganeo^ gerro, invidia, maledicum, iners, bardus,  terrae pondus inutile, dolus, scelus, pestis.   n Florido replicò molto più moderatamente del suo avver-  sario con un opuscoletto mìì\jcAdi\/ò:\Adversus Boleti calumnias,  stampato nel 1541 a Roma, nel quale lo taccia di aver cam-  biato, come si dice, le carte in mano, pei*cbè doveva parlare  di imitazione e invece parlò dei nemici di Cicerone; ora il  Florido si protesta anzi ammiratore di Cicerone e che per  difenderlo incontrò non poche inimicizie.   E qui finisco, perchè con questo strascico di lotta tra il  Dolete e il Florido s'è già oltrepassato l'anno della morte di  Erasmo, la quale avvenne nel 1536. Con la morte sua sostò  la guerra ciceroniana e sosto anche io. La guerra si rinnovò  qualche tempo dopo fra gli epigoni: il Ramo dall'una parte, il  Garpentario e il Perionio dall'altra, e più tardi fra il Ricci,  il Camerario, il Lipsie ed Enrico Stefano (1); ma quelle lotte  non hanno più importanza ; gli anticiceroniani e i ciceroniani  ripetono argomenti e insulti che noi già conosciamo da un  pezzo. Ormai tutte le maniere stilistiche del periodo degli uma-  nisti sono esaurite; m inaugura una nuova fase della lingua  latina, che fu e forse sarà per sempre l'ultima, in cui essa  accolse le nuove parole delle lingue moderne e diventò lingua  scientifica universale. Il regno della forma, il ciceronianismo  era inesorabilmente finito con la metà del secolo decimosesto  ed era tempo che la forma cedesse il posto alla sostanza. Pro-  duce grande impressione, ma non inaspettata in chi ha seguito  le vicissitudini del ciceronianismo, sentirne la condanna pro-  nunciata pacatamente e con sicura convinzione da quel grande     (1) Lbnient, pp. 50-64.     Digitized by VjOOQIC     — 74 —   ingegno che fu il Mureto, il quale del resto fu uno dei più  felici ed eleganti cultori della forma latina. Egli che altrove  avea chiamato gazze e pappagalli i ciceroniani (1), in una let-  tera del 1556 ragionando della corruzione dei testi antichi  afferma che il lavoro veramente durevole e apprezzato dai  posteri è il lavoro di emendazione e dilucidazione dei classici,  è la critica dei testi; e che del gran plauso, che ottennero gli  eleganti latinisti del principio del secolo e lo stesso Bemho,  non dura nemmeno l'eco: chi legge oggidì quei poemi, quelle  orazioni, quelle epistole tanto afiTettate nella forma? chi prende  più in mano i libri del Bembo? di lui sopravvive ancora qualche  lucubrazione intesa ad emendare i testi antichi, ma nuiraltro(2).  È una condanna severa, ma giusta e tanto più grave e solenne,  quanto è più autorevole lo scrittore che Tha profferita. Il regno  della forma è finito e quello della critica comincia.   Ciò che del resto in tanto rimescolio di passioni, d'ire, di  partiti, come si son veduti in questo ultimo periodo del cice-  ronianismo, più d'ogni altra cosa ci fa meraviglia, è la calma  sicura e il silenzio dignitoso di Erasmo; non rispose a nessuno;  l'obbligo suo era compiuto: lanciò il libro nel mondo; guardò  tranquillamente all'effetto che vi produsse e tacque. Forse gli  rincrebbe vedersi dai più scambiata la questione; egli aveva  combattuto l'imitazione ciceroniana e gli avversari l'aveano  accusato di movere guerra a Cicerone: in una questione di  principio si era voluto vedere una questione personale. Erasmo  volle dare una testimonianza di affetto a Cicerone e una sod-  disfazione agli avversari; e vegliardo, appena due anni prima  di morire, cosi scriveva nella prefazione alle Tusculane:  « Me vero, tametsi iam vergente aetate, nec pudebit nec pi-  gebit, simulatque extricaro me ab bis quae sunt in manibus,  cum meo Cicerone redire in gratiam pristinamque familiari-  tatem, nimirum multis annis intermissam, renovare menses  aliquot. »     (1) MuRET., Orai, et Epist, I, p. 152; II, p. 64; cfr. I, p. 274; e  Yariae Lectiones, XV, 1.   (2) MuRET., Orat, et Epist, II, p. 158.     Digitized by VjOOQIC     — 75 —  IL   Sul coniar nuovi vocaboli latini.   Il nuovo indirizzo letterario iniziato genialmente dal Pe-  trarca si oppose naturalmente sin dal principio alla barbarie  medioevale e quindi ai barbarismi della lingua latina; e dal  latino scolastico a quello del Petrarca ci è difatto un abisso,  n Petrarca attingeva il suo latino a purissime fonti: a Cice-  rone, a Vergilio, a Livio; vi si trova un po' troppo di Seneca;  ma che si potea pretendere dal fondatore della miova latinità?  E cosi di barbarismi e di neologismi non va scevro nemmeno  il Petrarca; ma bisogna dire che ne ha molto meno di qualche  scrittore che venne dopo di lui e che trovandosi in condizioni  letterarie migliori avea l'obbligo di adoperare un latino più  puro. D'altra parte la questione non fu posta e nemmeno sor  spettata dal Petrarca, il quale in questo riguardo faceva, non  disputava. La questione fti posta poi e ciascuno o tacitamente  la presupponeva risoluta a modo suo o espressamente la trat-  tava, dandole quella risoluzione che più credesse opportuna.  Il campo si divise in due partiti: l'uno di quelli che ammet-  tevano si potessero coniar nuovi vocaboli latini ; l'altro di quelli  che assolutamente non l'ammettevano. C'era poi il partito dei  conciliatori, che cercava di mettere d'accordo le due opinioni  estreme. I due partiti estremi hanno anche la loro ragione  storica nei due principali periodi dell'umanismo: l'uno il pe-  riodo dell'originalità, che va fino oltre alla metà del quattro-  cento; l'altro il periodo dell'imitazione. Nel primo di questi  periodi gli umanisti aveano bisogno di nuovi vocaboli, perchè  a loro la lingua latina era lingua viva; del volgare, che disprez-  zavano, non si servivano; la lingua latina si adoperava nelle  orazioni, nelle corrispondenze, nelle scuole, nelle conversazioni;  è perciò naturale che nel continuo maneggiarla essa non re-  stasse sempre pura; e dall'altra parte per quanto fossero ro-  mani in tutto non potevano affatto sottrarsi all'azione del vol-     Digitized by VjOOQIC     — 76 —   gare, che aveano succhiato còl latte, e al contatto col volgo,  che di latino non ne sapeva ; e poi l'influenza del secolo loro  dovea pur farsi sentire, né potevano esser tanto pagani, che  del loro tempo non restasse in essi traccia alcuna. Si aggiun-  geva poi la genialità di qualche umanista, che a nessun patto  avrebbe rinunziato, anche adoperando una lingua morta, a  trasformarla del suo, in modo da imprimerle una impronta  originale ; e quindi a coniar nuovi vocaboli e a piegar la sin-  tassi a nuovi costrutti.   Chi avrebbe potuto negare a Poggio questo diritto? Glielo  negò Fetà posteriore; ma quell'età non era più originale, essa  viveva tutta d' imitazione, la quale toccò il colmo coi cicero-  niani, che non ammetteano nei loro scritti nessun vocabolo,  se non era di Cicerone. Non si può negare che tanto in Poggio  quanto nel Bembo, corifeo dei ciceroniani, troviamo i due  estremi; ma hanno tutti e due la loro ragione storica. Del  resto se noi dovessimo giudicare fra i due, sceglieremmo Poggio:  qui abbiamo la lingua latina che ha trovata una nuova forma,  la quale storicamente ha tanto valore quanto ne ha quella  delle orazioni di Cicerone e quella della genesi nella Volgata.   Non sarà male sentire come la presente questione è risoluta  da un umanista stesso e sceglieremo, p. es., il Florido (1).  Ecco come la discorre il Florido: « nostro seculo vehementer  Inter doctos ambigitur liceatné bis temporibus novas voces  inducere. » Il Pontano, Ermolao Barbaro, il Gaza si sono presa  una certa libertà nel formar nuove parole: chi li biasima, chi  li loda. Il partito moderato invece ritiene che si possano ap-  plicare nuovi vocaboli solo alle nuove idee: « rebus tantum  recens emergentibus nomina indi posse; » e biasima quelli che  al tempo nostro chiamano le cose con nomi diversi dei ro-  mani. Che sinché la lingua latina era viva, la si poteva ar-  ricchire di nuovi termini; ora è impossibile; eppure i latini  stessi in questo erano assai cauti. E qui il Florido con molti  esempi mostra quanto parco fosse Cicerone neir ammettere  nuovi vocaboli, anche dove la lingua latina ne avea di biso-     (1) Apologia in ling. lai. calumniatores, pp. 68-71 .     Digitized by VjOOQIC     — 77 —   gno. Del resto, conchiude il Florido, quando vi sia assoluta  necessità di coniar nuove parole, si mitighino con le seguenti  formole: ut ita dicam; sic dixerim; si licei dicere; quodam-  modo; permittite mihi sic.   Voglio ora dare un saggio di neologismi, che ho notati qua  e là a caso, leggendo le opere degli umanisti. Non è che un  saggio e nemmeno ordinato secondo un criterio prestabilito,  ma cosi come viene. Sarebbe facile accrescerlo di assai, ma  non avrebbe grande importanza, giacché a confermare il fatto  bastano le prove seguenti:   Poggio. — In una sola lettera, al Niccoli, si trovano i se-  guenti neologismi: quindena (femminile singolare); certificare;  frustecula; vendantur; solemniis (ablativo); insigniis (abla-  tivo); exemplariorum; circumvicini; abiet (per abibit)\ digni-  ficare; lihruncula castratelli; decoMrum.   Antonio da Rho. — Ecco i neologismi che si trovano nel  suo libro De imitatione: aliqualis; aliqualiter; appodiare;  diversimode; avisare; bancaìia; tregua; ridiculose; parifor-  miter; intrinsecus, extrinsecus (aggettivi); respoliatus; phi-  locaptus; induciari ; parvissima ; inflteri; defiteri; complices;  rancor; unu^quisquelihet; pelliparius ; pensionarius; instan-  tia (nome); praesentialiier ; recommendaticius;Yiperia; tri-  butar; granellum; deitas.   Valla. — Il Valla stesso, Tacerbo e instancabile persecutore  degli scrittori che ammetteano barbarismi, e lo sanno appunto  i due citati di sopra, Antonio da Rho e Poggio, ammette neo-  logismi anch' egli e proprio nel libro dove meno ce lo aspet-  teremmo, cioè nelle Eleganze. Ecco quanti ve ne ho trovato:  deornamentum; asciticius; substantivare ; ignorative; tra-  ditu dignissimus; per subintellectionem; pra^animosus; qui  persicasus est. — Altre parole o rare assai o usate in altro  senso : magis momentosum per maioris momenti ; digesti-  bilis; modifìcatus. — Del resto è difficile coglierle il Valla, da  questo lato, in fallo; che altro ci sarebbe da dire sulla pu-  rezza del suo stile, alla quale però non teneva gran fatto.   Ognibene Leoniceno. — Aptitudo; moderniores; apostro-  pìiare; correspondere ; virtuosus; intrinsecus (aggettivo) si  incontrano nel suo commento al Laelius di Cicerone.     Digitized by VjOOQ IC     — 78 —   Giorgio da Trebisonda e Teodoro Gaza. — Costoro nelle  traduzioni dal greco dovettero foggiare nuovi vocaboli, per  supplire in qualche modo alla ricchezza greca. Ecco come dice  del Trebisonda il Poliziano: « libros eos(gli Animali di Ari-  stotele) sic Georgius Trapezuntius luculente vertit, ut vel red-  ditis quae apud veteres invenerat vel per se ójenuo fìctis ex-  cogitatisque vocabulis latiam prorsum indolem referentibus,  vitio factum nostro primus, ut opinor, iuniorum docuerit, cur  ipsi minus multas quam Graeci rerum appellationes habea-  mus » (1).   E di Teodoro Gaza scrive Ermolao Barbaro (2): « is si diu-  tius vixisset, linguam latinara hac quoque parte lòcupletasset ».  — n Giovio (3) lo loda, perchè seppe con molta finezza fog-  giare nuove parole latine: « Hisiorias Aristotelis de anima-  libus et Theophrasti de plantis ita latinas fecit ut romanae  linguae facultatem, cum nova vocabula solerter eflìngeret,  audaci sed generosa translatione locupletarit ». — Cosi adoperò  Ermolao Barbaro, il quale « instrumentum verborum incude  nova fabricatur », come dice il Poliziano (4); anzi confessa egli  stesso di avere coniato del suo una decina di vocaboli nella  versione di Temistio. « Quoniam negari non potest incidere in  philosophia locos, quibus explicandis fingere aut novare quae-  dam necesse sit idque et M. TuUius et omnes veteres conce-   dunt Decem summum circiter verba opere toto comperies,   quae arrepta de foro dici non possint atque horum etiamnum  aliqua iam latinis auribus trita desumpsimus, aliqua ipsi pe-  perimus » (5). Un composto da lui foggiato è cupedivora.   In Pomponio Leto il Poliziano ha notato: grcueulaUm et  sturmatim (6); nel Poliziano, che pure è tanto esatto, io ho  trovato: brevtusculus ; funditator; lignipes; ineliqualitus;  superductidus ; pulpiterius ; reformidabilis; abstrigiUo; exemr  plarius.     (1) Miscellan., 90.   (2) PolitiaNm Epist, lib. XII.   (3) Elogia doctor. vir., 26.   (4) Miscellan., 90.   (5) PoLiTiAN., Epist, lib. XII, p. 419.   (6) PoLiTUN., Epist, lib. 1.     Digitized by VjOOQIC     — 79 —   Beroaldo. — Questo autore è tutt'altro che scrupoloso; ma  il suo stile è già una mostruosità anche per i contemporanei;  sicché non è da far le meraviglie se egli conia vocaboli, p. es.:  secretarius; compater; commater; galleria; sclopus; giran-  dola. Talvolta però in descrizioni dove entrino oggetti moderni  domanda il permesso.   Fontano. — Nel suo dialogo Charon abbiamo questo diverbio  tra Menicello (il grammatico Mancinelli) e Mercurio: Men.  Ricordati di rimproverare acerbamente Antonio Panormita,  che adoperò erroneamente il diminutivo epistolutta. Mere, E  io, caro Menicello, a nome del Panormita ti rispondo che la  lingua italiana non solo ha formato molti nuovi diminutivi,  ma anche certi peggiorativi ; sicché io di incarico del Panor-  mita ti saluto per grammaticonem. — Il Fontano perciò am-  metteva i neologismi, guidato specialmente dall'analogia della  lingua italiana: fenomeno questo di grande importanza; e più  di tutto i suoi neologismi sono, com'egli stesso per bocca di  Mercurio afferma, diminutivi. Ne scelgo alcuni dall'altro suo  bellissimo dialogo, VAntonius: pilleatulus , suffarcinatulus,  fritillus, frustillum, anaticulus, superstiliosulae, hirquitulus.  Altri neologismi, tratti dal medesimo dialogo: asserena scit,  campana, labirynthipleayia (attribuito al Panormita), prae^wm-  ptonem, septicipitem, perpallavit, evomius. Si noti poi questo  passo, dove si parla del fracasso notturno di Euforbia mere-  trice: « clamat, inclamat, frendit, dentitonat, hinnifremit,  rixatur, furit; veru, pelves, patinas iaculatur, Utionatur, can-  delabratur: novis enim vocibus novus beluae huius furor ex-  primendus est. »   Nelle sue poesie poi, dove con una originalità non conosciuta  né prima né poi, se si eccettui forse il Poliziano, innestò sul  vecchio tronco latino il nuovo e vegeto pollone italiano, ricor-  rono più frequenti i neologismi. Ecco qualche esempio:   lube isthaec tibi basiem labella  Succiplena, tenella, mollicelJa.   Suge, canam tibi naeniolam : ne naenia nonne  Nota tibi, nate, est naenia naeniolaì     Digitized by VjOOQ IC     — 80 —   intortis tantum laudata torallis.   Brasiculisque apioque ferum nucibusque coronant.   Eppure il Fontano tanto largo con se di iieologismi^ era  inesorabile con gli altri. Mi basta riferire la critica da lui  fatta a Leonardo Bruni , per la nuova parola coincidentiay  adoperata nella significazione di iato. Quale scrittore usò mai  questa parola? domanjia il Fontano; non è latina certo, né se  fosse latina significherebbe quello che il Bruni vuole. Ma sup-  posto che ci fosse, dovrebbe derivarsi da cum e incido: o è  incido da caedo^ che vale tagliare, e questo non ha che fare  con l'iato di due vocali ; o è incido da cado, che vale urtare  contro, e nemmeno questo verbo può riferirsi a due vocali  che si incontrano. Si aggiunga che il cum non si prepone  mai a verbi composti già con la preposizione in; quindi non  si dice coinvenio, coinhaereo, coinTidbito, coindoleo, coinfero  e simili. Fa eccezione coinquino ; ma inquino o è un verbo  semplice, o^ se è composto, le sue parti non si discernono; e  il verbo cunio infatti, da cui vogliono alcuni grammatici deri-  vare en^w^no, non era in uso nemmeno al tempo di Cicerone.  Io per me credo, conchiude il Fontano, che gli antichi dissero  non coinquinare ma conquinare, come convenire, conferre  e che per rozzezza dei tempi da conquinare si sia fatto coin-  quinare. Sarebbe dunque più tollerabile il Bruni, se avesse  scritto concidentia, da concido, composto di cum e co/lo ; quan-  tunque neppure il verbo cadere si potrebbe applicare all'in-  contro delle vocali.   Tanta scrupolosità del Fontano mostra, non foss' altro, due  cose: runa che gli umanisti prendevano molto in Sul serio la  questione del coniar vocaboli nuovi; l'altra che nel coniarli  tenevano grandissimo conto dell'analogia.     (1; PoNTAN., Be Aspiratione, li, 1.     Digitized by VjOOQIC     — 81 —   HI.   Lotte fra i Latini e i Oreci.   Per quanto gli umanisti italiani abbiano promosso lo studio  del greco, non si può negare che essi erano e si sentivano  sopratutto latini; e il Petrarca chiama solitamente nostri i  Latini in contrapposizione ai Greci (1). Ma questo sentimento  innato e comune negli Italiani, che erano i Latini nuovi, per  motivi particolari fu tramutato ben presto in gelosia fra Latini  e Greci. I Greci che venivano di Costantinopoli erano ordi-  nariamente rozzi a petto dei colti Italiani e nella loro rozzezza  molto presuntuosi. Gli Italiani se ne giovavano, perchè aveano  bisogno della loro lingua, ma non poteano tenersi dal disprez-  zarli (2),. e coglievano qualunque occasione per contraddirli,  come si vede dal seguente fatto, che è raccontato dal Picco-  lomini. Ugo Benzi da Siena, famoso medico e destro dialettico,  una sera in Ferrara invitò a una cena, alla quale assisteva  anche il marchese Nicolò, tutti quei filosofi greci che si tro-  vavano allora in quella città con Eugenio papa per il con-  cilio (1438). Il Benzi, finita la cena, seppe destramente tirar  la discussione su alcune proposizioni, in cui appunto Platone  e Aristotele divergevano, offrendosi di difendere quella delle  due parti che i Greci presenti impugnassero. I Greci accet-  tarono, ma dopo una disputa accanita di parecchie ore il  Benzi ad una ad una confutò vittoriosamente tutte le loro pro-  posizioni. « Che nelle arti della guerra — soggiunge il Picco-  lomini — e nell'onor delle armi i Latini abbiano superato i  Greci, è fatto antico; al nostro secolo era riservato anche di  superarli nella scienza e in ogni ramo di dottrina » (3). Noi     (1) luL. ScHÙCK, Aldus Manutius, p. 12.   (2) PoNTAN., Opera, Lyon 1514; pp. 171-172; cfr. Burckhardt, La Ri-  nascenza italiana, trad. francese dello Schmitt, Parigi 1885; I, p. 241  e nota 1.   (3) Aeneas Silv. Piccolom., Opera, Basii. 1571 ; pp. 450451.   R. Sabbadiui, Ciceronianismo « altre questioni letterarie. 6     Digitized by VjOOQIC     — 82 —   non ci facciamo mallevadori della veridicità del Piccolomini  in questa narrazione, ma teniamo conto del sentimento, di che  fa splendida testimonianza. E allora possiamo imaginare il re-  more che deve avere menato il Poliziano, « eius gentis  (graecae) ingeniis infestus » (1), del trionfo ottenuto sul greco  Galcondila, il quale dovette ritirarsi dall'insegnamento e più  tardi da Firenze, quando vi professava il Poliziano, che oscurò  e mise a tacere il rivale (2). E il Poliziano che delle proprie  lodi non è mai parco a se stesso, se ne gloria in una lettera  al re Mattia. « Questo solo dirò, che io professo da parecchi  anni lettere latine con gran plauso, come tutti sanno; e non  basta, ma anche lettere greche alla pari coi Greci, il che non  so — mi si perdoni l'audacia — se sia toccato a nessun altro  Latino da mille anni a quest'oggi » (3).   E i Greci non la perdonarono mai al Poliziano, che non  osando attaccarlo vivo, lo calunniarono in mille modi dopo  morte: « nam fumantem vivi leonis nasum nemo impune te-  tigit », dice il Barth (4).   Fra gli autori* latini il più stimato dagli umanisti italiani  e il più osteggiato dai Greci era Cicerone. Il Petrarca, che  nel profferire un giudizio sulla preminenza di Cicerone o  Demostene si tenne di solito riservato, lo disse poi chiara-  mente nel Trionfo della Fama:   Quest' è quel Marco Tullio, in cui si mostra  Chiaro quant' ha eloquenza e frutti e fiori.     Dopo venia Demostene, che fuori  È di speranza ormai del primo loco.  Non ben contento de' secondi onori (5).     Il Boccaccio, seguendo ed esagerando, com'era suo costume.     (1) lovius, Elogia^ 28.   (2) Ihi, 38, 29.   (3) Meiners, Lebensbeschreibungen etcZùrich 1795-1797; II, pp. 121-122.   (4) Ibi, p. 177.   (5) III, 19-24.     Digitized by VjOOQIC     - 83 —   i giudizi del Petrarca, ripeteva con Valerio Massimo, che Cice-  rone superò tutti gli oratori antichi e oscurò la gloria di  Platone, Eschine , Demostene. E già Seneca diceva che in Ci-  cerone Roma rivaleggia con la Grecia e la vince. Brunetto  Latini lodava Cicerone come il più grand'oratore del mondo,  li miex parlans hom du monde, e un grammatico contem»-  poraneo del Petrarca e da esso citato lo chiamava il dio del-  l'eloquenza (1).   Dietro queste considerazioni sarà più agevole intendere l'in-  teresse e l'accanimento che posero gli umanisti nella celebre  e pur tanto infruttuosa — come troppe altre — questione  suirèvTeX^X^ict aristotelica. La suscitò l'Argiropulo, bizantino,  il più dotto forse fra i Greci venuti in Italia, ma bisbetico,  vanitoso, intrattabile e troppo famoso come bevitore e man-  giatore (2), il quale, per dare sfogo alla sua smania di mordere,  attaccò un giorno l'autorità di Cicerone, sdegnatosi che avesse  scritto che la lingua greca è più povera di vocaboli della  lingua latina : « nos non modo non vinci a Graecis verborum  copia, sed esse etiam in ea superiores » (3); e volle dimostrare,  per rivendicare il dovuto onore ai Greci, che Cicerone era  un asino (4), e che ignorava non solo la filosofia , ma anche  la lingua greca. L'assunto era un po' difficile a provare, ma  l'Argiropulo colse Cicerone véramente in fallo, sull'interpre-  tazione della èvTcXexeia aristotelica, che Cicerone confuse con  èvòeXéxeia, spiegandola perciò come una continuata motto (5);  dovechè èvreXéxeia, dice l'Argiropulo, significa perfectio, con-  su7mnatio. Del medesimo parere dell'Argiropulo è il Filelfo (6),  suo grande ammiratore.     (1) HoRTis, Studi sulle opere latine del Boccaccio^ Trieste 1879;  pp. 441-442.   (2) P. lòv., Elogia, 27.   (3) De finibus, III, 2, 5.   (4) P. lov. Elogiay 27.   (5) Tusculan. disp., I, 22.   (6) Philelph., Epist, Venezia 1502, p. 264 e 94. — Del resto sul-  révT€Xéx€ia o èvò. si scrivono dissertazioni ancora oggidì; cfr. Jahres'  bericht fùr Alter thumswiss., XIII, Jahrg. 1S85, Heft I, Abth. 1, pp. 7 sgg.     Digitized by VjOOQIC     — 84 —   Il Poliziano fece una vivace difesa di Cicerone (i), mostrando  con le testimonianze di stima rese all' autorità di Cicerone  dagli antichi, quale temerità fosse attaccare un si grand'uomo.  Quanto alla questione del ò o del t nella parola èvieXe'xeia  non potersi decider nulla, per il cattivo stato in cui sono i  codici di Aristotele; e quanto airinterpretazione della parola,  se Cicerone avesse voluto darle una nuova significazione, chi  gliene farebbe colpa ^ uomo dotto e autorevole com'era? Del  rèsto Cicerone conosceva tanto il greco, ch'egli ha saputo tro-  vare che qualche parola latina , p. es. convivium , esprime  meglio l'idea della corrispondente greca (JuilittócTiov e che di  qualche altra, come zneptus, i Greci non hanno affatto la cor-  rispondente. .   Ma al Poliziano più che la difesa particolare di questa ac-  cusa, sta a cuore la questione generale, che è questione di  nazionalità : « vix dici potest quam nos aliquando, idest latinos  homines, in participatum suae linguae doctrinaeque non li-  benter admittat ista natio (graeca). Nos enim quisquilias tenere •  litterarum, se frugem; nos praesegmina, se corpus; nos puta-  mina, se nucleum credit ». E si sdegna nel pensare al tempo  ch'egli era scolaro dell'Argiropulo, quando accoglieva religiosa-  mente come oracoli tutte le scempiaggini che colui gli con-  tava. Ora però che se ne è accorto, mette in sull'avviso tutti  i latinisti: « meas esse partes et item cuiuscunque latini pro-  fessoris existimavi Ciceronis gloriaro, qua vel maooime contila  Graecos stamus, etiam vice capitis omni contentione defen-  sare ». Più tardi, nel maggio del 1494, il Poliziano ne scriveva  in proposito a Pico della Mirandola (2) , a cui domandava il  proprio parere sul modo di scrivere la parola èvieXe'xeia. E  prima ne avea scritto anche ad Ermolao Barbaro, al quale  questa parola rubava i sonni e che sul modo di scriverla opi-  nava che la forma originaria fosse col ò e che nell'attico poi  assumesse il t (3).     (1) Miscellanea^ 1.   (2) PoLiTiAN., EpisU, Xll, 1.   (3) Ibid.     Digitized by VjOOQIC     — 85 —   Trattò la questione poi in favore delFArgiropulo il Budeo (i),  il quale dice del Poliziano che combattè TArgiropulo « magis  ut se ostentaret, quam causae fiducia fretus ». Contro il Budeo  lottò Francesco Florido (2). Il Florido divide in due la que-  stione. Prima dimostra che ai Greci mancano, secondo il giu-  dizio di Cicerone, alcune parole che hanno i Latini, come  inepius e innocens; e si ride di tutte le parole greche che  il Budeo tentò di sostituire a quelle due latine cioè àvdpinocyToq,  àireipÓKaXo^ , àTri0avo<j, (JKaió^, jLidTaio<j, depuri^, àireoiKÓ^ a  ineptus; oiKaKo^, €Òyviu|liujv, èmeiKfi^, òaio^, KaGapaeuwv a in-  nocens. E seguita, adducendo esempi di Cicerone, a dimostrare  che i Latini certe idee le esprimevano meglio dei Greci, come  insania meglio che juavia, furor meglio che jtieXaTXoXia (3),  aegritudo meglio che 7Td0o^(4), divinatio meglio che jaav-  TiKf) (5). Passa quindi alla questione deirevieXexeia, ma tenendo  altra via dal Poliziano, il quale si era accontentato di lasciare  la questione in dubbio per la forma della parola, accordando  a Cicerone il diritto di dare a quel vocabolo un diverso signi-  ficato. Il Florido pare più sicuro della propria causa e vuol  provare al Budeo che Cicerone ha benissimo interpretato la  parola e che èvieXéxeia non è altro che la forma attica di  èvbeX^X^ici.   Da ultimo la questione AeWineptus , delVinnocentia e del-  rèvT€Xéx€ia fu trattata anche da Cesare Scaligero in una lun-  ghissima lettera e che pure non è intera (6). La lettera è  divisa in tre parti : nella prima discute minutamente i vari  significati delle parole aptus, ineptus e delle corrispondenze  greche, che furono proposte. Nella seconda in riguardo della  parola innoceniia^ di cui i Greci non hanno la corrispondente,  sciorina una lunghissima serie di vocaboli latini, di cui il     (1) De Asse, Venetiis 1522; 1, pp. 9-12.   (2) Apologia ling, lat, pp. 65^7; 71-75.   (3) Tuscul disp., Ili, 11.   (4) Ibi, III, 7.   (5) De divinai., I, 1.   (6) luL. Gaes. Scalig., Epist et oraiion., Lyon 1600; pp. 413475.     Digitized by VjOOQ IC     — 86 —   greco non possiede gli equivalenti. La terza, che dovea trat-  tare deirèvT€Xéx€ia, è quella appunto che manca. Lo Scaligero  conosce la questione come fu dibattuta dalPArgiropulo, dal  Poliziano, da Ermolao Barbaro e dal Budeo; ma non mostra  di conoscere l'articolo del Florido.   I detrattori di Cicerone erano, come abbiamo veduto, i Greci,  con a capo FArgiropulo; Teodoro Gaza ci aveva anche la sua  parte (1), e con lui Giorgio da Trebisonda, il Marnilo e il  Musuro, « quibus invisus est Cicero », come dice Erasmo (2).  Giano Lascaris avea pure composto tre epigrammi contro Ci-  cerone (3) per vendicarsi dell'aver egli detto nelle sue Tuscu-  lane {A) che i Romani furono più originali dei Greci, e due  contro Vergilio (5), a cui non sapea perdonare di avere scritto:  crimine ab uno disce omnes; e Umeo Danaos et dona fé-  renies (6).   Coi detrattori greci fecero causa comune gli stranieri e si  è già veduto il francese Budeo difendere TArgiropulo. Il Budeo  avea inoltre affermato che i Latini aveano preso tutto dai  Greci e che mancavano d'ogni originalità (7). A questo bisogna  aggiungere l'inglese Pacco, che nell'opera De docirinae fritciu  pone, riguardo all'originalità, parimenti i Romani assai al di-  sotto dei Greci, specialmente nella storia, nella filosofìa e nel-  l'eloquenza (8).   Tanto più dunque gli Italiani sentono che la difesa è proprio  una questione di nazionalità. Cosi la intese il Poliziano, cosi  il Pontano, ma più di tutti il Florido, il quale, mentre difende  l'accusa parziale dell'Argiropulo contro Cicerone, mette insieme  tutte le altre accuse contro i Romani e fa addirittura la difesa  della lingua latina contro la greca, tirando in campo anche  due antichi, Plutarco e Macrobio, quello perchè nel suo giu-     (1) PoLiT., Miscellan, 1. *   (2) Ciceronianus, Napoli 1617, p. 113.   (3) Florio., Apologia, pp. 63-65.   (4) Tuscul, I, 1.   (5) Apologia ling. lat., pp. 80-86.   (6) Aen., Il, 65, 49.   (7) Florio., Apologia, pp. 76-79; cfr. -Lectiones sttccis., p. 2151   (8) Cfr. Lectiones succis., p. 130.     Digitized by VjOOQIC     — 87 —   dizio su Cicerone gli nega ogni serietà, abbassandolo al livello  quasi di un istrione; questo per i suoi sciocchi confronti tra  Vergilio ed Omero ; a cui però scusa tante strampalerie, per-  ché quando le scrisse era ubbriaco (1). Contro Macrobio avea  già prima menata la sferza il Fontano nel dialogo Antonius (2);  il Fontano lo chiama crasso ingegno, insulsissimo, cane abba-  iatore e lo manda a scuola a imparare il latino, giacche sono  barbare le forme: in digeriem concoquere; in memoriam  atque in ingenium ire; in incrementum succrescere ; tale  praesens hoc opus volo; noscendorum congeriem polliceri  e simili altre, di cui condisce i suoi Saturnali,   La difesa della lingua latina del Florido si risolve, com'è  naturale, in un'apologia di Cicerone e di Vergilio, che sono  i due più grandi rappresentanti della letteratura romana e  quindi i più assaliti dai partigiani della letteratura greca.  Veglio recare un saggio della difesa di Vergilio contro Giano  Lascaris, che lo accusava di parzialità, perchè nel suo poema  trattò male i Greci: timeo Danaos et dona ferentes. Il  Florido mostra che veramente i Greci furono di mala fede  e cita p. es. i loro storici che si fecero spacciatori di tante  favole. Omero, se mai, s'avrebbe a dire parziale, il quale  rappresenta i suoi eroi greci. Achille, Aiace e gli altri, di  tanto superiori ai troiani , dovechè Vergilio fa che Turno ,  che è italiano e quindi suo connazionaje , tremi davanti ad  Enea che è straniero (3). — Questo a titolo di sola curiosità ;  come a titolo di curiosità reco il confronto istituito dal Florido  tra Vergilio ed Omero : « Virgilius in hoc est Homero inferior  quod antiquissimus hic vates posteris scribendorum poematum  normam praefixit eamque oh causam melius de litteris quam  quivis alius cuiuscunque ordinis scriptor meritus est. In re-  liquis Homerus inventione, Virgilius cura iudicioque vincit;  eruditio, elocutio aliaeque tam poeticae quam oratoriae vir-  tutes in utroque pares sunt » (4).     (1) Florio., Apologia^ pp. 56^2 e 86-95.   (2) Venetiis 1519, pp. 79-83.   (3) Apologia, pp. 80.86.   (4) Ibi, p. 100.     Digitized by VjOOQ IC     IV.   Sui giureconsulti antichi e sui glossatori medievali.   Nel periodo del Rinascimento gli umanisti' e i giuristi, ap-  partenendo ad un indirizzo troppo diverso, non potevano tro-  varsi d'accordo. Gli umanisti, entusiastici ammiratori e ripro-  duttori dell'elegante forma antica, doveano naturalmente  guardare con disprezzo i giuristi che si perdevano in quel  caos di suddivisioni, distinzioni, sottodistinzioni delle glosse,,  scritte in un latino affatto barbaro ; e i giuristi alla lor volta,  superbi della loro importanza nella vita pratica e delle ric-  chezze che accumulavano con l'esercizio della loro professione,  guardavano d'alto in basso quei vanagloriosi letterati, che mal  pagati dai principi, si pascevano di belle frasi e di vuoto en-  tusiasmo. Erano due classi di persone che rimasero estranee  runa all'altra e che quindi si disprezzavano reciprocamente,  senza conoscere quello che di buono vi era realmente negli  uni e negli altri. Aggiungasi che più o meno quasi tutti gli  umanisti erano stati da principio avviati dai loro genitori  — naturalmente contro genio — a studiare giurisprudenza, la  quale come la medicina arricchiva, dove che le lettere impo-  verivano 0, come diceva il motto d'allora in voga, la medicina  e la giurisprudenza davano i grani, le altre discipline davano  la pula:   Dat Galenus opes, dat sanctio iustìniana;  ex aliis paleas, ex istis collige grana.   Quegli umanisti pertanto, liberatisi dalla scuola di giurispru-  denza e accostatisi alle lettere, serbavano verso lo spettro gio-  vanile un po' di rancore , che sfogavano contro i giuristi ,  appena se ne fosse offerta l'occasione. Contro i giuristi scris-  sero il Petrarca, il Boccaccio, il Bruni, Poggio. Perfino Enea  Silvio Piccolomini tirò la sua pietra, il quale in una lettera     Digitized by VjOOQIC     — 89 —   a Guglielmo de Lapide (1) racconta di un tal Michele, giurista  impertinente, che per quattro ore lo intronò con un panegi-  rico della sua scienza. Enea li chiama gente materiale, sciocca  e matta, e riporta l'aneddoto di un Polini milanese, dottor di  giurispi'udenza, che facendo riparare dai muratori una sua  casa, mandatili all'ora di cena a mangiare, egli si mise a mi-  surare le travi preparate per terra e trovatele oltrepassare  la distanza da una parete all'altra, ne segò via il di più, non  preoccupandosi come si sarebbero poi incastrate nel muro. Ma  nessuno attaccò i giuristi di proposito e accanitamente come  il Valla, il gran battagliero di quell'età (2).   Mentr'era a Pavia, verso il 1431, un giurista gli espresse  l'opinione che fosse da preferire Bartolo a Cicerone, rinfac-  ciando ai letterati di curarsi più delle parole che del conte-  nuto, più delle foglie che del frutto (3). E il Valla in una notte,  senza aspettar tempo, scrisse un'invettiva contro Bartolo e il  suo libro De in^ignìis et armisi insolentendo contro lui e tutti  i glossatori famosi suoi pari, chiamandoli oche, ma non di  quelle che custodivano il Campidoglio, bensì di quelle che schia-  mazzano per la via, dando noia ai passeggeri (4); e istituendo  un confronto tra Servio Sulpicio e Bartolo, cosi conchiude,  scherzando sul doppio senso della parola ius: « ille non tam  iuris consultus, quam iustitiae fuit; hic non iustitiae, sed iuriSj  hoc est ì)rodii consultus est » (5).   Anche nelle Eleganze (6) egli attacca i giuristi e i glossa-  tori, vantandosi di sapere scrivere in tre anni delle glosse al  Digesto più utili di quelle dell'Accorsi; frase che arieggia  quella di Cicerone, il quale per scherzo si vantava di poter,  se vi si fosse applicato, diventare giureconsulto in tre giorni (7).     (1) Opera omnia, Basii. 1571, p. 619.   (2) VoiGT, II, pp. 482-491.   (3) Valla, Lucuhrationes etc; Lyon 1532, pp. 789-791.   (4) Valla, ìH, p. 788.   (5) Ibi, p. 801.   (6) Praefht. libri III.   (7) Gfr. Ambr. Travers., Epist.^ ed. Mehns, V, 18.     Digitized by VjOOQIC     — 90 —   Ma mentre morde acremente i glossatori, è largo di lodi ai  giureconsulti antichi per l'eleganza della loro lingua. In questa  distinzione fra glossatori e giureconsulti antichi, che già si  trova netta e chiara nel Traversari (1) e in Maffeo Vegio (2),  il Valla si mette un poco dalla parte della ragione, perchè in  realtà gli umanisti generalmente diceano male della giurispru-  denza senza conoscerla; e il Valla lesse il Digesto. Lo lesse,  ma non con intendimenti scientifici, hensi con intendimenti  letterari, anzi grammaticali ; il che fa meritare in parte anche  a lui quello che dissero i giuristi, e di allora e posteriori, agli  umanisti, che cioè prima di sentenziare tanto sicuramente  contro la giurisprudenza, avessero avuto la compiacenza di  studiarla e impararla. Frutto della lettura del Digesto fatta  dal Valla sono gli esempi, ch'egli qua e là cita dai giurecon-  sulti antichi nelle sue Eleganze, e una polemica contro di loro,  che riguarda la significazione e l'uso di una trentina di voca-  boli e che occupa l'ultima parte del sesto libro dell' Eleganze  stesse (3). Ecco come si introduce a questa polemica : « lusti-  niani pace, sive Trebelliani et sociorum, nam lustinianus nec  iura nec forsitan latinas litteras novit ».   A difendere i giureconsulti antichi dagli attacchi del Valla  sorse il famoso Andrea Alciati, il quale si studiò di dimostrare  nel suo libro De verborum signifìcatione (4) false tutte le  osservazioni che il Valla avea fatte sull'uso di quelle parole  dei giureconsulti.   Da queste polemiche è nato nel secolo XVI un libro molto  noto allora, adesso dimenticato, di Francesco Florido, inti-  tolato: De iuris civUis interpr elibus. Il libro si divide in  due parti; nella prima il Florido difende i glossatori e qui  combatte contro il partito del Valla; nella seconda invece  fa l'apologia del Valla contro l' Alciati. Vediamo un po' par-  ticolarmente il contenuto del libro , che non è dei meno     (1) Travers., Epist., V, 18.   (2) Prefazione al De verbor. significai.^ Cod. Ambros.j H 50 inf. (cfr.  Sassi, Hist. typ. Ut. mediolan.).   (3) VI, §§ 35.64.   (4) Gap. IV.     Digitized by VjOOQIC     - 91 —   caratteristici di quei tempi. Le fonti della prosperità di uno  stato, comincia il Florido, sono le arti della guerra e la legis-  lazione; e nelle une e nell'altra furono sommi i Romani. Toc-  cato della superiorità dell'arte militare romana, viene alla  legislazione, di cui tesse in breve la storia, dalle costituzioni  regie e delle dodici tavole agli editti dei pretori, ai giurecon-  sulti della repubblica e dell'impero (pp. 123-125); finalmente a  Giustiniano, che, ignorante com'era, commise d'accordo con  Triboniano quella scelleraggine , quel sacrilegio della compi-  lazione del diritto civile, la quale fu causa che si perdessero  le stupende opere dei grandi giureconsulti romani (pp. 125-126).  Passa quindi a parlare dei glossatori, dall'Accorsi, da Bartolo  e da Baldo, giù giù fino a Paolo Castrense, ad Alessandro da  Imola, a Francesco Aretino e altri e si intrattiene lungamente  e di proposito a difenderli, specialmente l'Accorsi e Bartolo,  dalle accuse che loro lanciavano i suoi contemporanei, perchè  la lingua di quei glossatori era barbara. Barbara sicuro, dice  il Florido, ma bisogna tener conto dei tempi in cui scrissero ;  del resto di barbarie oggi non se ne sente solo nelle scuole  di giurisprudenza; entrate nelle scuole di filosofia e sentirete  che mostruosità di parole, entrate -nelle scuole di teologia e  vi vedrete leggere non Girolamo e Agostino, ma Occa e  Gapreolo, entrate in una scuola di latino e udirete forse spie-  gare non Cicerone e Vergilio, ma la grammatica di Antonio  Nebrissense o di Despanterio Ninivita (pp. 127-128). E seguitando  di questo passo, viene a provare anche la barbarie di Tribo-  niano, di cui esamina questo periodo del proemio ai Digesti:  « Imperatoriam maiestatem non solum legibus armatam sed  etiam armis decoratam esse decet », spendendo cinque pagine  (pp. 130-134) a dimostrare che né le parole, né le locuzioni  sono latine e appropriate.   Tornando alla difesa dei glossatori, per mostrare di che  pelo siano i loro detrattori, prende l'esempio di Giovanni Fer-  rari, che volendo correggere un errore dell'Accorsi, ne com-  mette uno più grave (pp. 135-136). Del resto, conchiude il Florido,  che si bandisca da ogni disciplina la barbarie, io l'approvo;  ma nelle leggi é forza fare un'eccezione, perché se in ogni  altra disciplina abbiamo autori classici latini che bastano al     Digitized by VjOOQIC     — 92 —   bisogno, questo non possiamo dire delle leggi, nello studio delle  quali ci sono necessarie le dotte glosse deirAccorsi, di Bartolo;  <5he se non sono autorità inappellabili, sono autorità somme e  allo studiò di essi non bisogna accostarsi se non dopo una ma-  tura preparazione. E mi muovono a sdegno quei presuntuosi  -che si credono, quando sanno quattro acche di latino, di po-  tersi applicare allo studio delle leggi, quasi fosse cosa da gioco.  Invece si preparino bene e poi si accostino rispettosamente  alle leggi e se riusciranno a dar forma classica latina ai libri  dell'Accorsi e di Bartolo, impresa del resto molto ardua,  avranno fatto opera eccellente (pp. 137-138).   La seconda parte del libro è più uniforme e meno interes-  sante. Sono sessanta pagine (pp. 138-198), nelle quali il Florido  difende le censure del Valla ai giureconsulti contro l'apo-  logia dell'Alciati. Sono esaminate una per una tutte le parole  discusse ; per ognuna di esse il Florido reca prima esattamente  il passo del Valla, indi la confutazione dell'Alciati, finalmente  ia propria difesa, nella quale egli spesso aggiunge esempi nuovi.   Il libro finisce con un'invettiva contro Udalrico Zazió, che  s'era pure dichiarato contro il Valla per le sue annotazióni  ai giureconsulti. Il Florido dimostra che lo Zazio scrive bar-  baramente (pp. 202-206).     Se si possano leggere i poeti antichi.   Ecco una delle più famose questioni suscitatasi da quando  incominciò il rinascimento dell'arte e della poesia antica, alla  quale subito mosse guerra la chiesa e sopratutto il mona-  chismo; si può dire anzi che passò tutto il periodo abbastanza  lungo del Risorgimento e la questione non venne definitiva-  mente risoluta. Ogni umanista si sentiva ripetere la solita can-  tilena , che la poesia antica è spacciatrice di frivolezza , di  falsità, di favole, è dannosa alla morale, è raffreddatrice della     Digitized by VjOOQIC     - 93 —   fede cristiana; e doveva adoperare o i soliti argomenti vecchi^  almanaccarne qualcuno di nuovo per mettere a tacere quelle  querimonie monacali; con la certezza che nessuna delle due  parti litiganti avrebbe persuaso Taltra e che la questione si  sarebbe tosto dopo rinnovata. Io mi restringerò pertanto a  pochi cenni.   Già uno dei precursori del Risorgimento, Albertino Mussato,  avea difeso la poesia con nove argomenti contro un frate (1).  Il Petrarca poi, il vero restauratore della poesia, dovette più  di una volta nella sua vita ritornare su questo tema. Egli  oppone agli argomenti degli accusatori un Girolamo, un Lat-  tanzio, un Agostino, che si dilettarono di poesia e che senza  studiare gli scrittori pagani non avrebbero potuto combattere  vittoriosamente la loro religione. Del resto le similitudini di  Cristo nel Vangelo che altro sono se non una forma allego-  rica della poesia? Starei per dire, soggiunge il Petrarca, che  la teologia è la poesia di Dio (2). Ma il Petrarca era troppo  sicuro di sé, era troppo superiore ai suoi accusatori, per ab-  bassarsi ad intraprendere una difesa seria e ragionata della  poesia; gli bastava di accennare, di ricambiare col disprezzo  le nenie dei frati. Una vera e ampia difesa della poesia in-  traprese il Boccaccio, alla quale egli consacrò • tutto il libro  XIV della sua Genealogia. I nemici eh* egli combatte sono i  giuristi e i monaci. Contro i giurisperiti (XIV, 4) egli fa va-  lere queste ragioni , che i poeti, quantunque poveri, furono e  saranno eternamente tenuti in grand' onore, dovechè i giu-  risti con tutte le loro ricchezze vivono senza gloria; che  inoltre i poeti considerando per quello che veramente sona  i beni mondani, vivono in un aere sereno e puro, felici nella  contemplazione dell' arte e per nulla ansiosi di perdere quel-  r oro che i giuristi apprezzano e bramano tanto. Contro i fi-  losotì e i teologi e i monaci, che senza essere mai entrati  più oltre il limitare della vera filosofia, se ne fanno gli spac-  ciatori e vanno girando, ipocriti , sotto abito onesto, con passa     (1) A. Zardo, Albertino Mussato, Padova 1884, pp. 302-310.   (2) VoiGT, 1, p. 29.     Digitized by VjOOQ IC     -« 94 —   tardo e in atto di distrazione contemplativa, a illuminare  il mondo e a mettere in discredito la poesia (5), contro costoro  il Boccaccio ragiona cosi : Voi chiamate inutile e vana la poesia;  ma essa è una vera facoltà, nata come le altre discipline dal  grembo di Dio, e che nel mondo antico si fece banditrice di  civiltà (6-7); voi chiamate i poeti spacciatori di favole e non  considerate che la favola non è altro che un velo, che copre  delle sublimi e utili verità (9-10) ; voi fate colpa ai poeti di  amare la solitudine e i boschi e di essere quindi privi di ci-  viltà e di costume e non pensate ch'essi nel silenzio medi-  tano però seriamente le loro opere e che la natura nuda e  semplice eleva la loro mente al cielo; che se fuggono la città  e le genti, lo fanno « perchè ricusano comprare, come voi,  la grazia e le lodi deir inerte volgo con la vergognosa e de-  forme ipocrisia, non si curano di essere mostrati a dito dagli  ignoranti, rifiutano di domandare e desiderare dignità, sde-  gnano di camminare per i palazzi reali e diventare adulatori  dei grandi per acquistare qualche beneficio, o per soddisfare  meglio al loro ventre e godersi Tozio, né stanno dietro alle  donnicciuole per trar loro dalle mani qualche danaro, onde  acquistar con inganno quello che non possono coi meriti (11). »  Voi ci dite che i poeti sono astrusi; e che forse i filosofi, che  voi tanto portate alto, sono meno astrusi dei poeti? e lo Spi-  rito Santo ha parlato sempre chiaro? e i sacri testi si deci-  frano al primo leggerli? Il vero è ch^ a « snodare quei dub-  biosi groppi bisogna leggere, affaticarsi, vegliare, interrogare »  e non contentarsi di una boriosa ignoranza, come voi costu-  mate (12). Chiamate bugiardi i poeti e spacciatori del poli-  teismo, ma essi parlano per via di finzioni, che questa è la  essenza della poesia, senza intenzione di ingannare, ma si in-  vece di insegnare ; sono politeisti, ma chi gliene può far colpa,  se non conobbero Cristo? ma poi in fondo in fondo la credenza  in un solo Dio si trova anéhe in loro (13). Rimproverate ai  poeti di essere lascivi e di rappresentar Giove sotto tante forme  diverse: quanto alla prima di queste accuse non dovete di-  menticarvi che sotto quelle apparenze lascive si celano utili  e savi ammaestramenti ; e quanto alla seconda, che anche nella  bibbia Dio è descritto sotto vari aspetti e che la Vergine si     Digitized by VjOOQIC     — 95 —   onora sotto un gran numero di titoli diversi (14). Dite che i  poeti sono eccitatori al peccato ; ma questo dimostra che non  li avete mai lètti, perchè nella sola Eneide di Vergilio vi è  da imparare una folla di virtù e di azioni e di massime ge-  nerose (15). — Finalmente il Boccaccio mostra che non è pec-  cato leggere i poeti, perchè anche vi si imparasse il male,  peccato non è sapere il male, ma l'operarlo; e che se si pos-  sono leggere i libri dei filosofi, non esenti di errori, e i fatti  dei barbari e le perfidie degli eretici, senza commettere pec-  cato, si può senza peccare leggere anche i poeti. L' autorità  di Q-irolamo che chiamò i versi dei poeti cibo dei demoni,  tanto dagli avversari citata, non aver valore, perchè dalle  opere di Girolamo consta ch'egli stesso era lettore assiduo dei  poeti (18). Né aver valore l'autorità di Platone, che bandiva  dalla sua repubblica i poeti, giacché si deve intendere ch'egli  bandiva gli scostumati, come sarebbero Plauto e Terenzio e  Ovidio, ma non mai i poeti come tali (19). Per mostrare dove  arrivasse in quella gente l'odio contro i poeti, il Boccaccio  racconta che mentre leggeva nello studio pubblico il Vangelo  di S. Giovanni, essendosi incontrato nella parola poe^a, un  vecchio venerabile per santità di costumi e anche d'una certa  dottrina , « con la faccia accesa , con gli occhi infiammati e  con più alta la voce del solito, tutto tremando, disse cose scel-  lerate dei poeti. » Alla fine giurò che non avea veduto né mai  voluto vedere libri di alcun poeta (15).   Anche il Salutati difese la poesìa dalle accuse di fra Gio-  vanni di San Miniato, il quale avea chiamato vanità delle  vanità le dolci attrattive dei pagani, e che in bocca di un  cristiano esse erano peccato e la peste dei costumi. Erano le  accuse ribattute dal Boccaccio, ma il Salutati adoperò più  virulenza del Boccaccio nella sua apologia, nella quale provava  che anche la bibbia si serve dell'allegoria come i poeti, che  i sensi riposti della poesia antica combinavano mirabilmente  con la verità teologica e che la bibbia contiene oscenità e  mostruosità come i poeti antichi (1).     (1) VoiGT, Wiederbelebung, I, pp. 208-209.     Digitized by VjOOQ IC     — 96 —   Contro un altro frate, Giovanni da Prato, ebbe da litigare,  già ottuagenario, Guarino. Nel 1450 Giovanni dà Prato faceva  il quaresimale in Ferrara, e avendo inteso che Guarino leg-  geva anche in quei giorni Terenzio coi suoi scolari, si scagliò  nelle sue prediche contro i lettori, i possessori, i compratori  e i rivenditori degli scrittori antichi, ma più specialmente di  Terenzio. Guarino gli mandò una lettera, dove coi soliti ar-  gomenti che già conosciamo difendeva i poeti. Il frate gli ri-  spose dimostrandogli che la teologia è la prima delle scienze  e insistendo nel respingere i poeti lascivi. E la disputa fini li (1).   Il Valla pura si fermò a ribattere minutamente il fatto di  Girolamo, che i nemici degli studi classici tiravano sempre in  campo. Il Valla prova quanta coltura classica vi fosse in Gi-  rolamo e in generale in tutti i grandi luminari antichi della  chiesa: Ilario, Ambrosio, Agostino, Lattanzio, Basilio, Gregorio,  Grisostomo, i quali furono teologi eloquenti. E un teologo non  eloquente, soggiunge egli, « in theologia impudentissimus est  et, si id consulto facere se ait, insanissilnus ». Indi seguitando  con la sua solita arguta mordacità, fa questo confronto tra i  teologi antichi e i moderni: « quei vecchi teologi quali api che  volano anche per pascoli lontani, mi sembra abbiano fabbri-  cato del dolcissimo miele e della cera con mirabile artificio;  i moderni mi paiono formiche, che rubato il grano più pros-  simo che trovano, lo nascondono nelle loro celle ; io quanto a  me non solo preferirei Tessere ape all'essere formica, ma  torrei meglio militare sotto il re delle api, che guidare un eser-  cito di formiche » (2). Enea Silvio Piccolomini smascherando  parimenti questi « qui videri magis quam esse theologi volunt »,  mostra l'insussistenza dei loro argomenti e che fecero più male  alla chiesa i teologi con le loro brighe settarie che non i poeti (3).   Il pio Mancinelli rispose alle accuse contro i poeti antichi  non con la discussione, ma con l'opera, e con un'opera vera-  mente strana ; compose cioè un libro intitolato De arte poe-     (1) VoiGT, I, pp. 558-559. — La risposta del frate si legge nella Bi-  hliot Estense di Modena, Cod. 772, f. 10^.   (2) Elegant. ling. lai, praefat. libri IV.   (3) Aen. Silv. Piccolom., Opera, Basii, 1571, pp. 981-&82.     Digitized by VjOOQIC     — 97 —   tica, nel quale raccogliendo numerosi luoghi dei poeti classici  dimostra che non solo essi non nuocono alla purità della dot-  trina cattolica, ma che anzi confermano tutte le massime dei  dieci comandamenti e contengono la condanna dei sette vizi  capitali. I passi sono ordinati comandamento per comanda-  mento e per ogni vizio capitale.   Un articolo scrisse contro gli accusatori dei poeti anche il  Florido (1). Asseriscono, dice egli, che negli antichi poeti si  leggono sole menzogne, che gllncauti, ingannati dalle attrat-  tive della forma, prendono per verità; e recano l'autorità di  Platone e di Girolamo. Ma Girolamo al contrario lesse molto  i poeti; Platone li riprova solo sotto certe condizioni: del resto  in che alto concetto non tiene egli Omero! I poeti antichi  sono i primi luminari della civiltà e lo provano Orfeo e An-.  fione. Comunque però sia, noi non dobbiamo leggerli per trarne  argomento di fede cristiana, ma per diletto : possiamo seguirli  in quelle massime che s'accordano con la nostra fede. Spesso  certe imagini sotto il velo allegorico nascondono verità sublimi.  D'altra parte Giovanni Grisostomo leggeva avidamente Aristo-  fane, che non è certo il più moderato fra i poeti. E quanti  scrittori cristiani dalla lettura dei poeti antichi non han tratto  argomento a confermare i dogmi della nostra religione! In-  fine, domanda il Florido, perchè vietano la lettura dei poeti  e non dei prosatori, se anche questi ultimi sono pagani? e  perchè molti autori cristiani hanno scritto in poesia?   Altrettanto e più chiaramente si esprime, dove difende il  Fontano e il Sannazzaro dall'accusa di paganità mossa loro  da Erasmo. Che importa se sia pagano o cristiano, se paga-  neggi no chi scrive, purché faccia opera d'arte? E se gli  epigrammi del Fontano sono talvolta osceni, rispondo che gli  epigrammi non dilettano, se non sono conditi d'una certa  lubrica gaiezza. Quanto al Sannazzaro che nel poema sulla  Vergine mischiò mitologia, il Florido soggiunge che quelle  divinità, quei miti, quelle imagini pagane sono necessari ab-  bellimenti della poesia e che chi vi rinunziasse, rinunzierebbe     (1) Lectiones succis., Ili, 7.   R. Sabbadini, Ciceronianismo e altre questioni letterarie. 7   Digitized by VjOOQIC     all'arte. Gonchiude che « conduntur poemata ut nobis cum  delectatione prosint, non ut ex illis Ghristi praecepta di-  5camus » (1).   Né Cesare Scaligero, battagliero com'era, mancò di rompere  la sua lancia contro gli accusatori dei poeti (2), ma se ne  sbriga con poche parole e stizzosamente. I libri dei poeti ali-  mentano la superstizione? ma senza superstizione non vi può  -essere religione. Né i libri sacri sono più morali dei poeti;  del resto tanto può essere nociva la poesia, quanto la storia.   Fra i poeti però ve n'era uno, Vergilio, che veniva rispar-  miato, perché si aveva un alto concetto della sua onestà e il  medio evo n'avea fatto un profeta di Cristo. Il Boccaccio (3)  dimostra quanti ammaestramenti si ricavino dai fatti e dalle  massime dell'Eneide. Enea che esorta i compagni a perseve-  rare, che espone la vita per la patria, che salva sulle spalle  il padre, la sua clemenza verso Achemenide, la risoluzione di  rompere i lacci amorosi di Bidone, la sua giustizia e liberalità  verso gli amici e gli stranieri, la sua prudenza nel discendere  all'inferno, gli eccitamenti alla gloria che sente da suo padre,  la diligenza nel farsi degli amici, la fede nel conservarli, le  pie lagrime versate su Fallante, gli ammonimenti che fa di  quando in quando al figliuolo — tutto questo é scuola di mo-  ralità. « Veramente se Vergilio avesse conosciuto e adorato  Iddio, nessun libro si potrebbe leggere più santo del suo ».   Eppure anche per Vergilio si facevano delle riserve. Nella  disputa fra Guarino e Giovanni da Prato, Guarino gli doman-  dava se Vergilio pure meritava di essere bruciato. Il frate gli  rispose che Vei^ilio, considerato l'onore in che lo tenne  Agostino, poteva eccettuarsi, a patto però di escludere la storia  lubrica di Bidone (4).   Ma la obbiezione che si faceva a questa storia al tempo del  Boccaccio non era tanto di lubricità, quanto di falsità, perchè,     (1) m. III, 6.   (2) I. e. ScALiG., Epist. et orationes, Lyon 1600, pp. 409413.   (3) Geneal., XIV, 15.   (4) VoiGT, I, p. 559.     Digitized by VjOOQIC     — 99 —   dicevano i monaci, Bidone fu casta e Vergilio la rappresentò  violatrice della fede giurata al morto Sicheo. Non è cosi strana  l'accusa, come è strana la difesa che ne fa il Boccaccio (1).  Quattro motivi ragionevoli, egli dice, io trovo che indussero  Vergilio à rappresentare In quel modo Didone. In primo luogo  egli imitava VOdissea e néiVOdzssea il poeta comincia a un  punto molto inoltrato dell'azione; indi fa approdare Ulisse al  paese dei Feaci e ivi gli mette in bocca la narrazione delle  avventure precedenti. Cosi dovea fare Vergilio; e quale luogo  più opportuno di Cartagine poteva egli trovare, dove Enea  ricevesse da Didone amichevole accoglienza? imperocché fino  allora Enea aveva navigato tra i nemici greci. Ivi dunque può  Enea sicuramente narrare le sue precedenti avventure. In se-  condo luogo V Eneide rappresentando la lotta della virtù contro  le passioni umane, le lusinghe di Didone erano adattatissime  ad allacciare la virtù d'Enea e quindi il poeta ha una bella  occasione di mostrare la gloriosa vittoria dell'animo di lui. In  terzo luogo Vergilio volendo glorificare i Giuli e Ottaviano,  non poteva farlo meglio, che mostrando la continenza e la for-  tezza morale d'Enea. Finalmente intendendo Vergilio di ma-  gnificare nelV Eneide il nome romano, non potea adoperare  mezzo migliore che mettendo in bocca di Didone quelle famose  imprecazioni allusive alle guerre tra Cartagine e Roma, dalle  quali l'impero e il nome romano uscirono più forti e gloriosi.     VI.  Su alcune questioni d'ortografia.   Ben presto gli umanisti si occuparono dell'ortografia latina,  che non diede mai pace per quarantasei anni al Salutati,  com'egli confessa (2). Niccolo Niccoli scrisse sull'ortografia     (1) Geneal, XIV, 13.   (2) VoiGT, n, p. 378.     Digitized by VjOOQ IC     — 100 —   latina un opuscolo (1); tutti e due si occuparono specialmente  dei dittonghi. SuU'ortografìa scrissero anche Guarino e il Tor-  telli (2) e con molta lode il Barzizza, il quale compose un  esattissimo dizionario ortografico, preceduto da un trattatello.  Ma nessuno più genialmente del Poliziano si occupò di tali  questioni, il quale ne tratta nelle Miscellanee (3) e nelle let-  tere (4), mostrando, con la scorta delle iscrizioni e dei codici  più antichi, che si dovea scrivere totiens, quotiens^ cottidie (5),  adulescens, intellego, VergUius. Io mi limiterò a dire qualche  cosa sulla questione delle parole miìii, lacrima e Vergilius.  La questione del mihi è nata cosi. Un certo Antonio, gram-  matico, avea rimproverato a Leonardo Bruni di avere scritto  michi e il Bruni gli rispose con la seguente difesa, che io  compendio: Dante, il Petrarca, il Boccaccio, Goluccio hanno  scritto michi e V uso comune vuol cosi. Quelli che pronun-  ciano miJii con l'aspirazione sono certi presuntuosi, che vo-  gliono darsi aria di eruditi : « ostentare se volunt antiquarios  , esse » ; a me invece sembrano giudei e caldei, i quali popoli  parlano più con la gola che con la lingua e le labbra. E che  anche i Romani seguissero non la ragione, ma l'uso, lo prova  appunto l'avere scritto mihi, che per analogia con Ubi, sibi  avrebbe dovuto essere mibt L'uso disapprova oggi quello che  approvava ieri; gli antichi dicevano pessume, decumus, siet,  posiverunt, coeravit, fadundum, etc. ; e noi invece pessima,  decimus, sit, posuerunt, curavit, faciendum etc; cosi l'uso  « nostrae vel superioris aetatis » vuole che a m.ihi si frap-  ponga un e, che i latini stessi frapponevano in sicubi, necubi,  alicubi. Quello che dico di mihi ripetasi anche per nihil ».  — Fin qui il Bruni. Il Barzizza nella sua Orthographia alla  voce nihil osserva che è invalso l'uso di scriver questa pa-  rola col e, perchè la pronuncia comune ve lo fa sentire ; ma  l'uso dover cedere all'arte; tutt'al più per non offendere     (1) R. Sabbadini, Guarino Veronese e il suo Epistol., Salerno 1885, p.59.   (2) VoiGT, II, p. 378. ^   (3) 77.   (4) V, 2-3.   (5) Gfr. p. es. Epist, VII, 32.     Digitized by VjOOQIC     — 101 —   troppo bruscamente le orecchie potersi pronunciare il e con  una leggera aspirazione, ma doversi tralasciare assolutamente  nella scrittura. Quel che si dice di nihil valga anche per mihi.   Il Fontano si prese poi la briga di ribattere minuziosamente  e punto per punto tutto il ragionamento del Bruni. Comincia  dal dire che l'autorità di Dante, del Petrarca, del Boccaccio,  di Goluccio non vale, perchè di latino ne sapevano ben poco.  Il Bruni chiama giudei e caldei quelli che pronunciano mihi  con l'aspirazione: badiamo, dice il Fontano, che non sia un  caldeo chi pronuncia michi, nel guai caso avremmo la con-  sonante aspirata eh e il latino non ha consonanti aspirate,  che sono proprie dei greci e dei barbari, ma solo vocali  aspirate ; erano poi giudei anche i Latini, che pronunciavano  vehemenSy comprehendo, traho etc? Del resto sull'autorità  dell'uso bisogna andar cauti e intendere per esso il consenso  dei dotti : perchè il Bruni non segui l'uso del volgo de' suoi  tempi, che pronunciava mici e non michi? Né i Latini nel  foggiar la parola mihi seguirono l'uso, ma la ragione, e la  ragione era di evitar l'iato; e per questo nelle parole mihi,  vehemens etc., hanno inserito la aspirazione h. Quanto all'a-  nalogia che avrebbe dato miài, come tiM, io non la vedo,  perchè sia pure che fra i casi obliqui mei mihi ws, tui Ubi  te, ci possa essere , ma fra i nominativi effo e tu non che  analogia non ci è nemmeno somiglianza. L'esempio delle pa-  role pessum£y decumus etc., non vale, perchè altro è mutare  una lettera, altro è aggiungerla, come in m^ichi. Finalmente  in sicuN, necubiy il e fu inserito per distinguere queste forme  quando sono unite e quando sono separate.   n Fontano del resto per spiegare l'origine della pronuncia  michi ammette l'influenza dei barbari, i quali aspiravano  troppo fortemente le parole mihi e nihil per l'influenza dell'/,  in modo che ne nasceva un suono che pareva un b; coloro  che non sapevano rendere queir aspirata, pronunciavano come  se veramente ci fosse un e. Lo stesso avviene per la parola  Mahcrmet; che non potendo pronunciarla con l'aspirata, come  gli Arabi, vi inseriamo un e e diciamo Machomet (1).     (1) PoNTAN., De Aspir attorte, il, 1.   Digitized by VjOOQIC     — 102 —   Sull'ortografia di lacrima abbiamo una lettera di Francesco  Filelfo a Pietro Pierleoni (1) del 1437. Jl Pierleoni voleva sapere  se lachryma si scrive con ^/^. Risponde il Filelfo che « il latino  non ba aspirazione, ma che l'uso ve la ha introdotta nella  lettera e, per renderne più forte il suono, come in irichoare,  pulchruniy sepulchrum, lachryma^ quantunque irichoare, se  si deriva da chaos (!), riceverebbe l'aspirazione dal greco.  Lachryma nasce da ÒÓKpuov ; per lo scambio dei suoi d, l si  confronti jneXerfiv e m^ditari. Gli antichi scriveano anche  lachrumxx, non per analogia con optumus, maooumus, che  diventarono poi optim^us, maodmus^ ma per una corrispon-  denza molto frequente di suoni tra il latino e il greco, come  fuga (puTd, tu tu, mus )iOg, sus \5g. Ma allora perchè toc/^r^/ma  aspira e òàKpuov no? Non farà meraviglia a chi confronti  STKupa am^hora, TpÓTiaiov trophaeum, ttùOio^ phythius, 8pKog  horcuSf XapKÓ^ lurcho. L'aspirazione si trova talvolta anche  nelle vocali, come mthiy ahenum, haUudnariy honus, heUuo ».   Quanto a Vergilius, il Poliziano sosteneva questa forma ,  appoggiandosi alle iscrizioni e ai codici più antichi (2) e de-  rivando il nome da vergUiae^ o da ver , e non da ^irga  laurea, l'alloro, come faceano altri, perchè molti prima che  nascesse Vergilio portarono il medesimo nome. Il Landino,  maestro del Poliziano, accettò la lezione Vergilius (3), ma  non la accettò Bartolomeo Scala, che ne scrisse al Poliziano (4),  affibbiandogli la derivazione di questo nome da verert II  Poliziano gli risponde (5) ch'egli non avea mai sognato una  simile etimologia e che tutti i suoi conoscenti aveano accolta  favorevolmente la nuova lezione. Ma alcuni, anche di molto  posteriori al Poliziano, non l'accettarono e io cito qui il Flo-  rido, che non si può indurre a scrivere Vergilius, solo perchè  cosi si legge in una lapide (6); il Florido però, quando scri-     (1) Fr. Philelph., Epist., ed. Meuccius, Firenze 1743, II, 31.   (2) Miscellan.y 11.   (3) PoLiTiAN., Epist, V, 3.   (4) IH, V, 2.   (5) Ibi, V, 3.   (6) LecHones succis., 1, 6.     Digitized by VjOOQ IC     — 103 —   veva questo, non dovea avere presente l'articolo del Poliziano^  il quale non si appoggia a una sola iscrizione. Inoltre si  icbierò contro il Poliziano Celio Rodigino (1), il quale tiene  Vìrgììius, perchè cosi trova scritto questo nome presso i  Ctreci, p. es. nel commento d'Eustazio al 2° dell* Iliade e negli  epigrammi greci dell'Antologia; cosi lo trov^a scritto anche  presso Cecilie Minuziano che lo fa derivare da virgis, inter  quas sit natus; e presso Calvo in quel verso:   Et vates cui virga dedit memorabile nom.en  latirea.   Aggiunge a questi Tautorità di Prisciano ; né lo persuade del  contrario il veder citata da Minuziano l'altra opinione, che  fa derivare il nome Vergilius da vergiliae.     YIL  Suirallegoria dei poeti, specialmente di Yergilio.   Il medio evo si era molto dilettato di allegoria, specialmente  riguardo a Vergilio, che fra tutti i poeti amichi era rimasto  sempre anche in quei tempi oscuri il più caro e il più noto.  Le allegorie vergiliane furono raccolte in un sol corpo da  uno dei più strampalati scrittori che registri la storia leicfi-  raria, Planciade Fulgenzio, nel suo libro intitolata De conti-  nentia vergìliana, cioè del contenuto vergiliano: libro mae-  strevolmente esaminato dal Comparelti (2). I fondatori della  Rinascenza , il Petrarca e il Boccaccio , preceduti in ciò da  Dante col suo poema allegorico, furono partigiani passionati  dell'allegoria. Per il Petrarca l' allegoria è V essenza della     (1) Lectiones antiqime, VII, 4.   (2) Virgilio nel medio evo, 1, 8.     Digitized by VjOOQ IC     — 104 —   poesia : « è opera del poeta rivestire la verità di un bel velo,  in modo ch'ella rimanga chiusa al volgo ignorante, non al  lettore illuminato e dotto, il quale fatica sì a scoprirla, ma  tanto più gli riesce dolce, quando V ha trovata (1). E sempre  nelle egloghe e spesso negli altri componimenti sia in prosa  che in poesia egli cela le sue allusioni politiche e i suoi più  gelosi sentimenti sotto il velo allegorico (2).   Partigiano dell'allegoria è anche il Boccaccio, il quale ri-  tiene matti e ridicoli coloro che non ammettevano che sotto  alle favole dei poeti antichi si celasse un senso profondo e  dichiara d'aver composto egloghe, del cui sentimento egli  solo è consapevole (3). Lo stesso dicasi del Bruni, che nella  lettera intitolata De bonis litteris parlando delle lubriche storie  d'amore dei poeti antichi dice : « quis adeo hebes est, ut non  fictas res et aliud prò alio signiflcantes intelligat? » (4).   E venendo alle allegorie vergiliane, il Petrarca ne tocca  nei libri De otto reltgiosorum (5) e in una delle lettere se-  nili (6), che si intitola: Delle morali verità nascoste nell'E-  neide di Vergaio. In essa scrive : « in quel divino poema ben  più sublimi di quello che apertamente si paiono e più impor-  tanti verità volle ei nascondere sotto il velame de' versi suoi ».  E venendo a un esempio, egli nei venti signoreggiati da Eolo  ravvisa le passioni domate dalla ragione: che altro sono esse  le cupe grotte, entro le quali i venti si rintanano, se non  le ascose e recondite cavità de' nostri petti ove, secondo la  dottrina diatonica, han loro albergo le passioni? La mole  sovra imposta indica il capo, che Platone stesso assegnò come  sode alla ragione. Enea è l' uomo forte e perfetto. Acato la  compagnia preziosa d'uomini illustri, industriosi, solleciti (7) »-.     (1) VoiGT, Wiederbelebung, I, p. 32.   (2) VOIGT, I, p. 31.   (3) Genealog., XIV, 10.   (4) JuL. ScHÙCK, Zar Charakteristik der ital. Human., Breslau 1857,  p. 2^.   (5) JuL. ScHÙCK, ibi, p. 18, nota 16.   (6) IV, 5.   (7) HoRTis, Studi sul Boccaccio^ p. 395.     Digitized by VjOOQIC     — 105 —   Il Petrarca, come racconta il Boccaccio (1), nel 1341 tro-  vandosi a Napoli spiegò l' allegoria vergiliana al vecchio re  Roberto, il quale si penti allora di aver tenuto in dispregio  per Tavanti i poeti e volle tosto applicarsi allo studio di Ver-  gilio. n Boccaccio riteneva che Vergilio nell'Eneide intese  mostrare da quali passioni la fragilità umana sia turbata e  con quali mezzi sia dall'uomo costante superata (2); p. es.:  Didone è la concupiscenza, Enea la sua vittima, Mercurio,  che lo richiama al dovere, è il rimorso della coscienza o la  riprensione d'una persona amica (3). Chi è tanto ignorante,  esclama egli (4), che leggendo nella Bucolica (VI, 31) quel  passo   namque canebat uti magnum per inane coacta   o quest' altro nelVEneide (VI, 724)   prìncipio caelum ac terram camposque liquentes   non pensi celarsi nessun sentimento arcano sotto il velo favo-  loso? non riconoscerà invece da essi la riposta filosofia di  Vergilio, per la quale egli guidò Aristeo nei segreti della  terra ed Enea in quelli dell'inferno?   Un sistema di allegoria vergiliana troviamo già nella lettera  del Filelfo a Ciriaco d'Ancona (5), della quale reco un copioso,  estratto. « Tu vuoi sapere, scrive egli, a qual fine intenda  Vergilio nell'Eneide, giacché non ti piace la solita opinione  delle scuole, eh' egli abbia voluto imitare Omero e glorificare  Augusto. Questo anche egli ha voluto, ma il suo spirito divino  segue un più alto scopo. Rappresentando egli la vita con-  templativa e r attiva , ha voluto mostrare con la sapienza e     (1) Geneal, XIV, 22.   (2) Ibi, XIV, 13.   (3) Ibi, XIV, 22.   (4) Ibi, XIV, 10.   (5) Philelph. , Epist. , Venetiis 1502 , p. 2 con la data : ex Venetiis  XII Rai. ianuar. 1427. Cfr. luL. Sghùgk, Zur Charakt., pp. 24-26.     Digitized by VjOOQIC     — 106 —   il valore d' Enea in qual modo si possa conseguire in questo  mondo il sommo bene. Le due vite sono indicate nel prin-  cipio del poema, là dove egli dice di cantare le armi « virtutes  hellicas et activas » e l'eroe « virtutes urbanas intellecti-  vasque » ........   « Però egli non mantiene l'ordine tracciato nella proposi-  sizione, ma canta prima le virtutes urbanae, indi le virtutes  heUicae, E in ciò è stato più perspicace d'Omero, il quale  prima nell'Iliade cantò il valore di Achille, poi nell'Odissea  la sapienza e la prudenza d'Ulisse; poiché noi prima pensiamo,  indi operiamo. Perciò nei primi sei libri dell'Eneide si tratta  della vita tranquiUa, meditativa; negli altri sei della vita guer-  resca, quantunque e nella prima e nella seconda parte si  alternino cenni dell'una e dell'altra vita. Dicendo io che Ver-  gilio descrive la vita umana, intendo l'unione della parte  morale e della iSsica di essa. Perciò egli comincia con Giu-  none, la regina e soprastante dei parti, e con Eolo, il reg-  gitore dei venti, cioè dei desideri e delle passioni, giacché  egli mollitque animos et temperai iras (I, 57). Ecco ora  con quale brevità e ordine Vergilio ha descritto il corso della  vita umana. Comincia col parto del bambino, il quale è molto  pericoloso e a lui e alla madre. Perciò abbiamo in sul prin-  cipio la tempesta, che però cede tosto dinanzi a Nettuno,  perché appena il bambino è nato e quasi uscito dalle onde,  la madre ed esso sono fuori di pericolo. « Nec enim absurdum  cuiquam videri potest, si Neptunus a duobus verbis graecis  veTv, quod est natare, et iTTdu), quod volare signiflcat, deduci  adfirmemus. Nam quemadmodum tarditas parientis periculosa  est, celeritas et quasi volatus in lucem levationem dolorum  effert salutiferamque quietem. Nam quod rursus ad Aeolum  spectat, aloXeiv agitare signiflcat et versare et variare, quae  omnia ac similia humanae vitae competere ambigat nemo; vel  Aeolus quasi Aeonolus, hoc est vitae deletio. Nam aluiv aevum  vitamque signiflcat, òXeTv vero delere. Nascentibus enim om-  nibus vitae discrimen interitusque imminet ». La infanzia poi,  che arriva flno al settimo anno, passa tutta nell'alimentazione,  il che é espresso chiaramente da quei sette cervi uccisi (1, 192).  Alla infanzia succede la fanciullezza, che si diletta di rac-     Digitized by VjOOQ IC     — 107 —   conti ; ed ecco il racconto della presa di Troia e degli errori  di Enea. Segue l'adolescenza, in cui cominciano a svegliarsi  gli appetiti ed ecco gli amori di Enea e Didone. Viene la  gioventù, vaga di onore e di gloria ed ecco i giuochi coi loro  premi. Alla gioventù tien dietro l'età del senno, che si dedica  alla meditazione e alla ricerca della verità ; perciò è descritta  la discesa all'inferno e tutto quello che i pitagorici e i pla-  tonici hanno detto sull'anima umana e sulle cose celesti.  Questo avviene nel sesto libro ; negli altri sei si rappresenta  la vita attiva, quantunque qua e là vi sieno cenni alla giu-  stizia e alla pietà. E come il principio comincia dalla nascita  del bambino, cosi la fine della vita è la morte ; perciò oppor-  tunamente finisce il poema con questo verso : « vitaque cum  gemitu fugit indignata sub umbras (XII, 952). Cosi Turno, che  si era dato all'ingiustizia e alla codardia, muore oscuro e  ignobile; Enea, l'eroe giusto e valoroso, risplende di eteriia  gloria ».   Lo sviluppo più compiuto, più dettagliato, più mostruoso di  questo sistema, lo ha dato il famoso paladino dell'allegoria  vergiliana nel periodo del Risorgimento, Cristoforo Landino.  Il Landino era uno dei principali membri dell'accademia pla-  tonica di Firenze, che fu la grand' officina delle allegorie e  nella quale, con a capo il Ficino, riducevano ad allegoria tutto  il paganesimo e la dottrina platonica, per metter l'uno e l'altra  in buona armonia col cristianesimo. Le allegorie vergiliane  si trovano in due opere del Landino. L'una è il commento a  Vergilio, dove fra una congerie indigesta di note d'ogni argo-  mento e d'ogni colore si dimostra che V Ene^ rappresenta  la conquista del sommo bene. Dell'altra, intitolata Disputa-  tiones Camaldulenses, ecco come discorre il Villari nella stu-  penda introduzione all'opera sul Machiavelli (1).. «Nella state  del 1468 li troviamo (i platonici) nel delizioso convento dei  Gamaldoli, andati colà per godere il Cresco e fare le famose  dispute camaldolesi. V'erano Lorenzo e Giuliano de' Medici,  Cristoforo Landino e suo fratello Alamanno Rinuccini, L. B. Al-     (1) Firenze, 1877, 1, p. 180.   Digitized by VjOOQIC     — 108 -   berti, allora venuto di Roma, e M. Ficino. Dopo aver sentita  la messa andavano all'ombra sotto gli alberi della foresta ed  ivi il primo giorno disputarono sulla vita contemplativa e sulla  attiva, l'Alberti sostenendo con argomenti assai comuni do-  versi preferire la prima; Lorenzo de' Medici invece opponen-  dogli che l'una e l'altra sono del pari necessarie. Nel secondo  giorno si parlò del Sommo Bene ed abbiamo una serie di vuote  frasi e di citazioni classiche. Nel terzo e quarto giorno  l'Alberti dimostrò la sua platonica sapienza con un lungo com-  mento su Vergilio, sforzandosi colle più strane allegorie di  provare, che neW Eneide si trova nascosta tutta quanta la dot-  trina platonica e tutta la dottrina cristiana, le quali in fondo  sono per lui una sola e medesima cosa».   E un trattato di filosofia platonica vede nelV Eneide Celio  Rodigino, il quale citando un po' Platone, un po' Plotino, iin  pò' arzigogolando del suo e in un latino per giunta orribilmente  filosofico, si ingegna di spiegare l'allegoria vergiliana (1).  Anch'egli se la prende come il Filelfo — ma più accanitamente  perchè li tratta da matti — con quelli che riponevano lo scopo  dell'Eneide nell'imitazione di Ometo e nella glorificazione di  Augusto. « Se volete sapere, soggiunge egli, il vero scopo di  Vergilio, ve lo dirò io. Vergilio, « scientissimus et Platonis  mysteriis non leviter imbutus », non altro si propose che  « philosophi definitionem suis voluminibus facundissime ac  aliud agendo explicare ». Infatti Platone definisce il filosofo  come amator Dei^ e gli assegna questo doppio ufficio: cono-  scere meglio che può le cose divine; studiare le umane e  ridurle alle norme della prudenza; nel primo si comprende  la teorica, nel secondo la pratica. Prima dunque il sapiente  medita e ricerca la natura divina del bene; quindi dirige i  propri atti al bene, come a lor fine. A ciò due cose si richie-  dono: l'una conoscere la natura umana e in qual modo ella  possa guidarsi al bene e sottrarsi al male ; l'altra contemperare  i nostri affetti in guisa che tutti siano rivolti al bene. E questo  si ottiene con la virtù morale, che Platone intende sotto il     (1) Lectiones antiquae, VII, 1.     Digitized by VjOOQIC     — 109 —   nome di giustizia. In noi si trovano due specie di appetiti: i  primi sono quelli suscitati da una causa esteriore, primachè  l'anima razionale li richiami ad esame o discerna se siano da  accogliere o da respingere ; i secondi quando l'anima dà il suo  assenso. La virtù che comprime questi secondi appetiti, pro-  clivi al senso, politica est ac dicitur; quella che non solo li  comprime, ma anche li svdidìcsi, purgatoria nuncupatur; la  virtù poi che non solo vince questi secondi, ma o toglie o  tempera anche quegli altri primi, animi iam purgati virtus   appeUatur Ora nei primi cinque libri àoiVEneide non altro   si fa che dimostrare come il sapiente, segregato dalle cure  mondane, purifichi l'anima con le yìviù politiche e purgatorie.  Questo significa la fiera tempesta del primo libro, e il ban-  chetto di Bidone, dove l'anima razionale abbrutendo per gli  incentivi della passione e della carne si dimentica di sé stessa  e si ravvolge nei piaceri corporei. Questi sono agitamenti d'un  animo che si apparecchia alla lotta e si affretta verso l'ori-  gine; il che è espresso in quelle parole:   per tot discrimina rerum  tendimus in Latin m, sedes ubi fata quietas  ostendunt (I, 204-206).   Per Lazio io intendo lo stato dell'animo già purgato, che  è mondo oramai da ogni contatto terreno e di cui è propria,  come dice Plotino, la conoscenza delle cose divine, l'oblio delle  concupiscenze, l'imperturbabilità e un intimo commercio con  la mente divina. Il sesto libro poi, tanquam, virgilianae do-  ctrinae thesaurus longe clarissim^us, contiene la ragione  della natura mortale e dichiara sotto figura poetica l'origine   e la qualità dell'animo Qui sotto figura d'Enea che discende   agli inferi noi contempliamo l'anima che va in questa parte  del mondo, che i platonici chiamano inferi e antro di Dite: e  lo provano i versi (VI, 268-269):   ibant obscuri sola sub nocte per umbras  perque domos Ditis vacuas et inania regna.   Poiché la teologia antica intendeva il mondo col nome di   Digitized by VjOOQ IC     — 110 —   spelonca; infatti la natura umida degli antri contiene il tipo   e il simbolo di tutte le cose che sono nel mondo Gli ùltimi   sei libri poi adempiono Tufflcio filosofico, in quanto riguarda  alle virtù politiche, perchè l'uomo è animale socievole. Però  Enea si agita ancora, imperocché si apparecchiava il passaggio  u purgatoriis virtutibus ad eas quae animi iam purgati  dicuntur, I desideri umani, che fanno guerra all'anima, ten-  tavano di sopraffare Enea; questo significano le nascenti  guerre. Tosto dopo però l'animo rinvigoritosi nel Lazio uccide  Turno, fa tacere i tumulti, disprezza le cose umane e si tras-  forma in Dio Perciò il poeta divino nuU'altro volle aggiun-  gere all'opera sua e sono stolti quelli che la credono imper-  fetta. Per Troia poi io non intendo l'infanzia, come fanno  taluni, ma la parte inferiore del mondo, secondo che dice  Platone nel Teeteto, che i mali non si possono espellere intie-  ramente, bisognando che vi sia sempre qualche cosa contraria  al bene ».   Mi sono ingegnato di rendere più chiaramente che ho potuto  questo enigma cabalistico, in confronto del quale quello dei  Filelfo è una bazzecola; ma non so se io vi sia riuscito. Ad  ogni modo questi enigmi sono la prova più chiara della fal-  sità del metodo e della verità del metodo contrario. E il me-  todo contrario c'era e si scorge dagli sforzi stessi del Filelfo  e del Rodigino per confutarlo. Quel metodo spiegava V Eneide,  forse troppo semplicemente, portando in campo Omero dal-  l'una parte e Augusto dall'altra; e molto più in là per quei  tempi difllcilmente si poteva andare; ma ci si tirava molto  più da vicino, che con le astruserie platoniche e fulgenziane  del Landino.   Il partito contrario ebbe, se non un campione dichiarato, un  illustre rappresentante nel Poliziano, il quale nei commenti  avea lasciato il vezzo di allegorizzare e quantunque nella pre-  lezione sopra Omero si risenta ancora l'influenza della scienza  riposta che vedevano gli antichi in quell'autore, pure siamo  ben lontani dalle intemperanze allegoriche dei Landiniani (1).     <1) luL. ScHÙCK, Zur Charakt., p. 28.     Digitized by VjOOQIC     — IH —   Vero campione invece di questo partito fu il Florido, il quale  ammette bensì l'allegoria nei poeti, perchè altrimenti trove-  remmo in essi troppe cose puerili e poco sobrie e perchè l'al-  legoria aggiunge bellezza alle loro opere; ma non si deve  eccedere. Allegorici, egli dice, sono Platone e più Omero e più  ancora Ovidio e Dante. Chiama barbaro "Fulgenzio, delle cui  sottigliezze si scandqjàzzava perfino il Boccaccio (1), ma più  di tutto egli scatena l'ira sua contro il Landino in due brevi,  ma acerrime invettive (2). Per dare un'idea dell'allegoria del  Landino, reca questo saggio: « Enea, cioè l'uomo probo, tende  all'Italia, cioè al sommo bene, il quale è riposto nella vita con-  templativa. A costui è nemica Giunone, cioè l'ambizione di  regnare, la quale cerca di traviare Enea dalla vita contem-  plativa alla vita attiva. Resistendo egli però , Giunone gli su-  scita contro per opera di Eolo la tempesta, cioè la ragione in-  feriore; ma Nettuno, cioè la ragione superiore, non si lascia  vincere da Giunone e calma la tempesta ». Naturalmente il  Florido non si può tenere e manda il Landino a fare il sagre-  stano. Ecco alcune frasi abbastanza energiche, con cui intra-  mezza il suo giudizio: «insulsum Landini in scrutandis poetarum  allegoriis ingenium»; «singularishominis stultitia»; «stupidum  in explicandis allegoriis iudicium »; « allegoriae nimis super-  stitiose, ne dicam stulte, petitae »; « amens rabula ea secum  de allegoriis comminiscitur, quibus nihil a sano iudicio re-  motius esse potest ».     vni.  Quale sia più grande fra i capitani antichi.   H Petrarca, quantunque non molto apprezzato dagli umanisti  ►me rimatore toscano, pure era sempre tenuto in gran     come     (1) Geneal., II, 52; IV, 23; VI, 7; XIII, 58.   (2) Apologia^ p. 115; Lectiones succis., 11, 24.     Digitized by VjOOQ IC     \     — 112-   rispetto e le sue poesie volgari venivano lette e suscitavano  talora qualche piccola discussione, talora qualche questione  più grave e più lungamente dibattuta, come quella che raccon-  terò ora; a quale cioè fra i capitani antichi dovesse darsi la  palma. Il Petrarca, nel Trionfo della Fama, lascia incerta la  decisione tra Cesare e Scipione. Ecco i suoi versi;   Da man destra, ove prima gli occhi porsi,  La bella donna avea Cesare e Scipio ;  Ma qual più presso, a gran pena m'accorsi.  L'un di virtute e non d'amor mancipio,  L' altro d' entrambi (1).   Un altro confronto fa il Petrarca neW Africa (2). Scipione,  Lelio e Massinissa dopo la battaglia di Zama si intrattengono  conversando la notte. Scipione tesse il più grande elogio di  Annibale e alludendo al giudizio di Annibale stesso, che si  poneva terzo dopo Alessandro e Pirro (3), egli lo dichiara  senz'altro primo fra tutti e superiore ad Alessandro tanto nelle  imprese quanto nei costumi. « Chi non sa che Annibale è  parco, semplice nel vestire, paziente del freddo e della fame;  che Alessandro invece si ubbriacava, contaminava di sangue  umano i conviti, vestiva sfeirzosamente alla persiana ? Quanto  poi alle imprese Alessandro assoggettò l'Asia, ma era barbara;  Annibale vinse in quattro battaglie consecutive i Romani, che  sono il popolo più guerriero del mondo». — Si direbbe che  il Petrarca ci mettesse un po' del suo in questo giudizio di  Scipione e avesse una certa antipatia verso Alessandro e i  Greci che lo esaltano tanto. Al dir di Scipione fu più illustre  Annibale perditore a Zama, che Alessandro vincitore in Asia:   licet omnis graecula circum  obstrepat et testes inculcet turba libellos (4).     (1) 1, 22-26.   (2) Vili, 42-232.   (3) Cfr. Livio, 35, 14.   (4) 208-209.     Digitized by VjOOQIC     — 113 —   Lelio però conchiude il colloquio, che Scipione vincendo An-  nibale gli si mostrò superiore.   Il confronto tra i capitani antichi era tutt 'altro che nuovo;  ne aveano parlato Livio (1), Plutarco nella Vita di Cesare e  Luciano nei Dialoghi dei morii; ma non si può negare che gli  scritti del Petrarca abbiano contribuito a risuscitare la que-  stione. E infatti la troviamo posta a Poggio nel 1435 da Sci-  pione de' Mainenti (2), di Ferrara, confidente di Eugenio IV,  poi dal 30 ottobre 1436 vescovo di Modena (3). Era amico di  Poggio, con cui praticava in Firenze nel 1435, dove si trovava  fra il seguito del papa. Scipione, pazzamente entusiasta del  suo omonimo romano, non solo si occupava delle lodi di lui,  ma obbligava a occuparsene anphe gli altri. In iUius (Scipio-   nis) laudiìms te.., tempora terere et ut ai) aliis terantur   seduto agere, gli scrive nel marzo 1436 il Sartiano (4), che gli  rimprovera quel pazzo amore, che a lui sapeva di troppo pa-  ganismo, sdegnandosi inoltre che in Italia uomini seri si ac-  capigliassero per discutere simili questioni pagane, nacta per-  quam pusilla occasione se invicem, lacessendi atque gravis-  simis ne dicam, immundissimis conviciis insectandi.   Poggio nella sua lettera scritta da Firenze, 10 aprile (5),  esamina primieramente i giudizi degli antichi, indi la vita dei  due grandi capitani e viene alla conclusione, che Scipione nella  virtù e nella rettitudine fu molto superiore a Cesare, a cui non  fu inferiore nella gloria militare e nelle imprese compiute.  Pare la ripetizione del giudizio di Plutarco su Scipione e An-  nibale: « questi due celeberrimi capitani non tanto sembrano  paragonabili nelle virtù domestiche, in cui Scipione fu d'assai  superiore, quanto nelle arti della guerra e nella gloria delle  imprese operate ». Certo anche il nome dell'amico, Scipione,     (1) 35, 14.   (2) R. Sabbadini , Epistolario edito e inedito di Guarino Veronese^,  Salerno 1885, p. 74.   (3) Alb. a Sarthiano, Op., p. 271.   (4) Ibi, episi. 43.   (5) Opera, Basilea 1538, p. 357.   R. Sabbadini, Ciceronianismo e altre questioni letterarie. 8     Digitized by VjOOQ IC     — 114 —   contribuì non poco a far risolvere Po^io per Scipione, anziché  per Cesare.   Non l'avesse però scritta Poggio questa lettera! Quando lo  seppe Guarino, che allora era a Ferrara, ne fece la confuta-  zione, che ha l'aria di un'invettiva, indirizzandola a Poggio e  dedicandola a Leonello d'Este con una letterina, in cui tratta  addirittura Poggio di calunniatore di Cesare: « exortus est  Caesaromastix (1) ». Eccone il contenuto. Poggio avea chia-  mato Cesare parricida linguae latinae. Non parricida, sog-  giunge Guarino, ma litterarum eccpolitor et munditiarum  parens, e cita l'autorità degli antichi ; mettendo in chiaro  quanta cultura ci fu e dopo Cesare e sotto Angusto edurante  l'impero, e come Cesare promosse molto gli studi. Né Cesare  tolse le istituzioni repubblicane; le vere cause della rovina di  Roma furono l'avarizia e il lusso. E se vi furono impera-  tori iniqui, ve ne fu anche di buoni ; né Cesare é responsabile  degli iniqui, come San Pietro non ha colpa dei papi malvagi  che gli succedettero. Indi esamina l'adolescenza di Cesare e  mostra, contro l'asserzione di Poggio, che in essa Cesare operò  molto, che era indizio di animo forte e generoso. Perché va  pescando Poggio tutte le accuse mosse a Cesare dalla mali-  gnità e che sono naturalmente sospette, e tace il buono di cui  si ha notizia sicura? Perché interpreta malamente azioni di  Cesare, che considerate da un animo imparziale sono invece  oneste? — Cesare si servì di largizioni per farsi eleggere con-  sole: ma, lasciando le largizioni, cosa allora comune, chi ha  or più merito dei due. Cesare eletto con tanta lotta, o Scipione  eletto perchè ninno si presentava?   Non vedo che si deva rimproverare a Cesare d'avere pro-  posto il domicilio coatto dei congiurati, giacché non fu egli il  solo, e Catone che lo osteggiò non era poi quell'irreprensibile  uomo, che potrebbe parere. Ma si fece prorogare il comando  della Gallia: e non pensi alla capitale importanza di quella  guerra ? — Del resto Cesare in guerra fu clementissimo e umano.  Ma si avvilì negli amori di Cleopatra : e Scipione non amò una     (1) Vedi le fonti di questa lettera R. Sabbadini, Op. cit, n* 336 e 454.   Digitized by VjOOQIC     — 115 —   serva? — Dici che fu poca gloria vincere i Galli imbelli; leggi  il giudizio di Sallustio e mi saprai poi dire se erano imbelli.  -— Da ultimo Guarino difende Cesare dall'accusa di essere  stato il distruttore della libertà, mostrando che la libertà di  Roma era già morta da prima e che Cesare fu anzi quegli  che la difese. Conchiude che Scipione fu vir ì)onus, civispu-  siUanimiSj imperator excellens; che Cesare fu chyis magna-  rdmus.princeps prudentissimus, imperator exceUentissimus.   La replica di Poggio non si fece aspettare; egli la indirizzò  a Francesco Barbaro, che scelse arbitro della contesa. Con-  fessa nel proemio di non sapersi persuadere, come mai Guarino  abbia preso tanto in sul serio una questione trattata unica-  mente per esercizio di ingegno, e che vi abbia mischiato tanta  acrimonia. Indi risponde, una per una, a tutte le parti della  lettera di Guarino. Cicerone, Vergiho, Sallustio, Orazio furono  del tempo di Cesare, ma nacquero e ricevettero educazione al  tempo della repubblica. Vi furono valenti grammatici sotto  l'impero, ma tutti insieme non valgono una pagina di Varrone;  dopo morto Cesare non si trova un comico come Plauto, un  oratore come Cicerone; e questo dicasi pure dei filosofi, dei  giureconsulti. Quindi Poggio raccoglie tutte le sue forze a di-  mostrare con una lunga serie di testimonianze antiche l'as-  surdità della proposizione di Guarino, che Cesare non solo non  distrusse la libertà di Roma, ma anzi la promosse.   La replica di Poggio è più moderata , caso strano invero,  della confutazione di Guarino, il quale s'era preso tanto a  petto la questione, perchè forse Leonello d'Este era ammira-  tore di Cesare; cosi crede anche Poggio. Però i due conten-  denti non stettero molto a tornar amici com'erano prima. Ma  la questione continuò ancora. In favor di Scipione scrisse a  Poggio una lettera Pietro dal Monte (1), e in favor di Cesare  prosegui contro Poggio la polemica Ciriaco di Ancona, che  prima fa parlar le muse in difesa di Cesare e in vituperio di  Poggio, e indi mette in bocca a Mercmìo l'elogio di Cesare e  dell'impero. Poggio gli scatenò contro una delle sue famose     (1) Rosmini, Yiìa'di Guarino^ II, pp. 96 segg.   Digitized by VjOOQIC     — 116 —   repliche, dove lo chiama uno sfacciato e disordinato ciancia-  tore, uno scempiato, una cicala importuna, un matto vagabondo,  un satiro barbuto, un asino bipede e somiglianti ingiurie (1).   La questione che, quantunque posta a tacere per allora,  dovette dibattersi pur sempre nei circoli letterari, prese pro-  porzioni inaspettate nella prima metà del secolo decimosesto.  Il Florido infatti ne fece un libro intitolato: De Caesaris prae-  stantia, nel quale istituisce un confronto di tutti i capitani  antichi. L'idea del lavoro gli dovette certo venire dal seguente  passo di Plutarco nella Vita di Cesare: « sia che tu confronti  con Cesare i Fabi, i Scipioni, i Metelli e i contemporanei suoi  di poco anteriori. Siila e Mario, i due LucuUi e lo stesso  Pompeo, la cui gloria in ogni genere di virtù militari supera  gli astri, le imprese di Cesare vincono tutti, quale per l'asprezza  dei luoghi, dove portò guerra ; quale per la vastità delle Pro-  vincie soggiogate; quale per la moltitudine e ferocia dei ne-  mici disfatti; quale per la fierezza e ferocia dei costumi che  ammansò; quale per la clemenza e dolcezza verso i vinti;  quale per la liberalità verso i soldati ; tutti poi per l'immenso  numero delle battaglie e dei nemici uccisi ».   Ora ecco l'esposizione un poco minuta dell'opera del Florido,  che si divide in tre libri ed ha forma di dialogo.   Interlocutori: il Florido, Arnoldo Arlenio Perassilo, a cui il  Florido dava a vedere tutti i suoi scritti, Riccardo Seleio in-  glese. La discussione si tiene a Bologna in casa di Bassiano  Laudi piacentino, « in opaco pulchre censiti hortuli angulo ».  11 Laudi apre la discussione su argomenti militari e comincia  dal dimostrare che la milizia antica era più perfetta della  moderna (pp. 2-6). Il Laudi si occupava molto di Plutarco e  seguiva le opinioni di quello nel giudicare dei capitani antichi.   Libro I. — Comincia a parlare il Florido, il quale prima  esamina le imprese esterne di Cesare e prende le mosse dalla  conquista della G-allia (8-14), dalla quale passa alla guerra  civile, alla guerra di Alessandria, di Africa e di Spagna (14-17).  Quindi fa l'elogio delle qualità morali di Cesare. A nessuno  furono resi si grandi onori come a lui; era soave e liberale.     (1) VoiGT, Wiederbelebung, I, p. 340.   Digitized by VjOOQ IC     — 117 —   amato dai soldati, laboriosissimo, osservatore della disciplina,  esperto nel nuoto e nel cavalcare, oratore eloquente ed ele-  gante scrittore e riformatore del calendario; conforta i suoi  giudizi con quelli degli antichi scrittori (17-19).   Finito il Florido, il Seleio sorge a mettere in chiaro le parti  riprovevoli di Cesare : anzitutto Cesare mosse guerra civile a  Roma, con minor ragione di Coriolano, che era stato offeso, e  senza imitar l'esempio di Scipione, che sacrificò il suo amor  proprio alla patria (19-20). Cesare fu impudico e lo prova con  l'esempio di Nicomede e coi numerosi stupri con illustri ma-  trone (20); Cesare trattò male la Spagna come questore (20-21),  e in Gallia e in Roma spogliò templi (21); nel consolato si  contenne un po' dispoticamente e lo sanno Catone imprigio-  nato e Cicerone esiliato (21). Né la sua ambizione lo avrebbe  mai indotto a vivere privato, come tu, o Florido, asserisci ; e  se fu caro ai Romani, le cagioni ne furono le immense ric-  chezze e i doni ch'egli loro acquistò e distribuì, specialmente  ai soldati, ch'egli lasciava saccheggiare e adulava con il lusso  e la rilassata disciplina (21-22). Quanto poi alle sue imprese.  Cesare fu molto secondato dalla fortuna, come egli stesso con-  fessa, spesso più temerario che valoroso; e se fece due spedi-  zioni in Brettagna, fu per la avidità delle margarite (perle).  Quanto al calendario lo riformò, ma non perfettamente, come  dice anche Plutarco (22-23). — Comincia il Florido la sua re-  plica dal ricapitolare la propria esposizione. Indi passa a con-  futare il Seleio con una massima generale , che trattandosi  della palma militare non entrano in considerazione i vizi, se  ne ha avuti: che forse il valore di Annibale è infirmato dalla  sua perfidia punica? (23-24). E ribatte partitamente le obbie-  zioni , cominciando dall'oppressione della patria e si apre la  via cosi: « at patriae beilum intulit: intulerit etiam parenti-  bus; quid hoc ad rem? quid ad imperatoria industriam, feli-  citatem, diligentiam ?» e mostra che alla guerra civile vi fu  tirato a forza da Pompeo e che Cesare non avea mostrato sin  da giovane questo suo intento di impadronirsi di Roma e che  Pompeo mirava evidentemente egli al principato e che fra  quello di Pompeo e quello di Cesare è da preferirsi da ogni  savio quello di Cesare (25-27).     Digitized by CjOOQ IC     — 118 —   QaBiiio airineontinenza, il Florido cerca, e con ragioni e con  altri esempi, di mostrare che le sue pratiche impudiche con  Nieomede furono una mera calunnia, sconfessata da quelli stessi  che Taveano messa in giro : il Florido ci tiene molto a dimo-  strare rinsussistenza di questa turpe accusa (27-28). Degli altri  amori di Cesare con matrone il Florido non tien conto, « cum  spadonem, non virum ah alienis uxoribus tam religiose absti-  nere decuerit »; gliene farebbe colpa solo nel caso che quegli  amori lo avessero distratto dalle sue imprese. Ma fargliene  carico a cose quiete è voler trovare il pel nell'uovo. E poi una  vita irreprensibile non era più possibile in Roma da Scipione  in poi ; e i saccheggi e le largizioni e V imprigionamento di  Catone e simili son cose comuni a qualunque impero (28-29).  Ed è probabile che Cesare avrebbe deposta la dittatura; o non  l'avesse anche deposta, l'avrebbe usata moderatamente e l'a-  verlo ucciso fu non la più illustre, ma la più nefanda azione  commessa in Roma, dacché era stata fondata (29-30). Sulla  rilassata disciplina militare di Cesare nota che se fosse cosi,  non avrebbe vinto tante battaglie; suU'ascrivere a fortuna le  sue vittorie osserva che senza la fortuna non vi può essere  sommo capitano; ma Cesare la seppe bene usare con la sua  perspicacia ; sulla temerità nota come un duce in casi estremi  deve prendere risoluzioni energiche e reca l'esempio di An-  nibale (31-32).   Dalla conclusione si comprende che le accuse di Selcio sono  un puro esercizio rettorico, ma che esse erano realmente mosse  dai calunniatori di Cesare, come il Florido li chiama, dai cui  libri discorsi egli le raccoglie, sdegnandosi che calunnino in  Cesare non solo il calunniabile, ma anche quello che sorpassa  la capacità umana, onde li chiama degni di essere stati inter-  detti non dall'acqua e dal fuoco, ma dalla terra e dal cielo  « oh tam Jniquas frigidasque cavillationes » (32).   Libro II. — Viene la parte del Laudi, che deve parlare dei  duci romani che possono preferirsi a Cesare, e dopo di aver  escluso i duci anteriori alla seconda guerra punica (32-35), si  fa a parlare di Marcello e della sua guerra contro i Galli  (35-36); quindi della grandissima e gloriosa parte che ebbe nella  guerra contro Annibale (37-39); a cui il Florido risponde mo-     Digitized by VjOOQIC     — 119 —   strando diffusarnente che a Marcello non mancò certamente  valore, ma fu troppo audace, di un'audacia però da non pa-  ragonarsi a quella di Cesare, il quale gli è anche senza con-  fronto superiore nel numero delle vittorie (39-42). — All'espo-  sizione delle imprese di Mario in Spagna , in Africa , nella  guerra giugurtina e contro i Cimbri e Teutoni (42-44) risponde  il Florido che non fu tutta di Mario la gloria della guerra  giugurtina e cimbrica (45-46); indi mette in chiaro le parti  riprovevoli di Mario come cittadino e come siasi condotto male  nella guerra sociale (46-47). — Il Laudi narra le azioni di SiUa  nella guerra giugurtina , nella guerra sociale , nella guerra  contro Mitridate e finalmente contro la fazione mariana (48-50);  e il Florido obbietta che le imprese d'Africa più che mostrare  un gran capitano, lo fanno presentire; nella guerra civile  piuttosto si disonorò, avendo vinto Mario, possiamo dire, inerme.  Le altre imprese non sono per nulla da paragonarsi a quelle  di Cesare: non parliamo poi delle sue prave arti di governo  (50-52). — Di Lucullo il Laudi magnifica specialmente le im-  prese contro Mitridate e Tigrane, indi le sue qualità personali,  la dottrina e la sua equità (52-55); ma per il Florido Mitridate  e Tigrane e i loro soldati non erano nemici tanto pericolosi,  da rendere illustrissimo chi li avesse vinti ; essere stata grave  mancanza in Lucullo il non aversi saputo cattivare l'animo  dei soldati: sulla dottrina chi si prenderebbe la briga di con-  frontarlo con Cesare (56-58)? — Sulla famosa guerra di Ser-  torio in Spagna (59-62) il Florido replica che Sertorio deve  reputarsi più gran capitano dei quattro già discussi, ma che  non può confrontarsi con Cesare: Sertorio prometteva di dive-  nire eminentissimo, se non fosse stato tradito (62). — Quindi  il Landi enumera le imprese di PompeOy la sua parte nella  lotta contro i Mariani a favore di Siila, la guerra contro Do-  mizio in Africa, contro Sertorio in Spagna, contro gli schiavi,  contro i pirati e contro Mitridate (64-69); ma, secondo il Flo-  rido, la guerra contro Domizio fu affare di poco momento e  il trionfo concessogli fu per mera condiscendenza di Siila, che  avea bisogno dell'opera di lui ; il secondo trionfo per la guerra  contro Sertorio fu del pari poco meritato, perchè in quella  guerra Pompeo combattè con un esercito senza capitano; il     Digitized by VjOOQ IC     — 120 —   terzo trionfo sopra Mitridate glielo aveano preparato Siila e  Lucullo. La guerra contro i pirati fu cosa di poco momento,  avuto riguardo all'immensa quantità di forze, di cui Pompeo  disponeva (69-74). — Ed ecco il Laudi giunto a Scipione afri-  cano. Comincia dal dire che Scipione fu giudicato il maggior  capitano da Cicerone e dover bastare questo giudizio per di-  mostrare l'assunto. Il Florido gli osserva non doversi dare  troppo peso a questo giudizio, perchè Cicerone chiamava anche  Temistocle il più gran capitano della Grecia: o tutt'al più si  dovrebbe ammettere che Cicerone ivi (nel Brutus) intendesse  solo dei capitani del tempo di Scipione (74-75). — Il Laudi  accenna la bell'azione di Scipione di aver salvato il padre e  il fatto di Canosa e per terzo il celebre assedio di Cartagena:  e nota come in quest' ultima impresa egli dette prova d'o-  nestai consegnando intera la somma all'erario, e di continenza,  restituendo ai suoi la vergine: ben diversamente da Cesare,  rapace e lussurioso (come discendente da Venere) (76). — Il  Florido lo prega di stare in carreggiata e di non perdersi in  invettive contro Cesare (77) e di tenersi solo alle virtù mili-  tari. — Il Laudi prosegue la rassegna delle sue imprese in  Spagna e racconta il suo viaggio in Africa (77-78). Indi espone  diffusamente la sua campagna d'Africa prima dell'arrivo di  Annibale e la famosa battaglia di Zama, e conchiude che solo  l'avere vinto Annibale gli dà il diritto al primato tra i capi-  tani (79-82): accenna anche all'erudizione di Scipione, a cui  da moltissimi furono attribuite le comedie di Terenzio. — Ri-  sponde il Florido: sulla castità di Scipione, anche prescindendo  dall'autenticità del fatto della vergine in Cartagena da alcuni  scrittori antichi non ricordato, si può giudicare essere stato  Scipione più astinente di Cesare, ma questo dipende dalla sua  natura tetrica asperaque, dovechè Cesare discendeva da Ve-  nere. Sulla dottrina ed eloquenza di entrambi decidano i mo-  numenti letterari lasciati da Cesare. Cesare fu in Roma più  influente di Scipione, il quale nella domanda di un consolato  per Lelio fu posposto a Q. Flaminino, che 1q domandò per il  fratello : Cesare invece nulla domandò che non ottenesse. Sci-  pione, quando fu citato, si ritirò in volontario esilio, il che  non avrebbe fatto Cesare, che non avrebbe mai lasciato pas-     Digitized by VjOOQIC     — 121 —   sare una prepotenza. E che ciò Scipione facesse non per amor  di patria, ma per imperizia di padroneggiare i mali civili, lo  mostra Tessere egli abbastanza ardito: e infatti trattandosi  della guerra africana egli osò dichiarare che si sarebbe op-  posto al Senato; ma all'ardimento manca l'arte di Cesare, il  quale non avrebbe mai fatta una simile dichiarazione. E questo  mostra l'ambizione di Scipione, che ,non per nulla fu osteggiato  da Catone e accusato di sottrazione di preda (82-83). Venendo  poi alla gloria militare, il Florido confrontando le battaglie di  Zama e di Farsalo dimostra che se Cesare non fu superiore  a Scipione, gli fu per lo meno eguale (83-84). Confrontando le  restanti imprese di Cesare con le restanti di Scipione, quegli  è superiore a questo senza paragone. Scipione espugnò Car-  tagena e Cesare Alesia ; Scipione debellò in due battaglie tre  eserciti in Spagna e Cesare in una estate gli Elvezi e i Ger-  mani; il legato di Scipione vinse Annone in Spagna; e i legati  di Cesare? e le imprese di Cesare in Africa contro Catone non  valgono quelle di Scipione ivi stesso contro Siface q Asdru-  bale? Restano le innumerabili altre imprese di Cesare, alle  quali Scipione nulla ha da contrapporre. Infine Scipione in  Asia fu inferiore alla sua fama e cosi essere avvenuto di Pompeo,  Annibale, Mario, Marcello, i quali sopravvissero alla loro gloria:  chi comincia troppo presto, decade anche presto; Cesare e  Siila cominciarono tardi e si mantennero sempre uguali. Ter-  mina citando il giudizio di Plutarco, che prepose Cesare ai  Fabi, agii Scipioni, ai Metelli, a Siila, a Mario, ai due Luculli  e allo stesso Pompeo (83-86).   Libro III. — Entra in campo l'Arlenio coi due stranieri e  comincia con Pirro, di cui espone le imprese in Grecia, in  Italia e in Sicilia (87-90). Risponde il Florido essere stato Pirro  capitano instabile: difetto gravissimo. Pirro fu spesso vinto,  non sempre mantenne la data parola e spesso fu nelle sue  azioni negligente. Se vi è dove possa superare Cesare, è solo  nella forza corporale (91-99). L'Arlenio passa ad Annibale,  parlando del suo tirocinio in Spagna, delTespugnazione di Sa-  gunto, della spedizione in Italia e delle sue imprese quivi  compiute e mettendo in rilievo due circostanze, che Annibale  combatteva in suolo straniero e che i suoi guerrieri erano di     Digitized by VjOOQ IC     — 122 —   nazionalità diverse (93-99). Al che il Florido risponde che le  prime vittorie di Annibale sono dovute alla sua superiorità  numerica e al poco valore dei duci romani (100), fermandosi  di proposito a confutare l'opinione di Maarbale che dopo la  battaglia di Canne Annibale avrebbe potuto sorprender Roma  (101-102). Indi mostra che Annibale fu vinto da Fabio Massimo  e da Marcello: e la perdita di Capua? Aggiunge in fine che  Annibale, anche avesse persuaso Antioco a seguire i suoi con-  sigli, non poteva nuocere a Roma (102-103). — Resta Alessandro;  TArlenio comincia dal lodare le sue straordinarie doti giova-  nili: indi accenna alle sue guerre in Grecia e poi più diffu-  samente a quelle d'Asia (103-107). Ma il Florido osserva che  nelle imprese giovanili è superiore Alessandro, non nel resto;  le sue azioni di Grecia essere di un valore solo mediocre; le  sue imprese d'Asia anche di poco momento, avendo avuto che  fare con avversari imbelli. Infine cita per intiero il passo, dove  Livio (9, 17-19) discute se Alessandro avrebbe potuto vincere  Roma, assalendola, nel quale sì confi:*onta Alessandro coi Ro-  mani. — Conclusione: Cesare è il primo capitano; secondo dopo  lui fra i romani Scipione, fra gli stranieri Annibale (107-111).     IX.   I calunniatori della lingua latina.   I detrattori di Cicerone e della lingua latina in generale si  chiamavano calunniatori. Questa denominazione non era molto  nuova, perchè la troviamo già adoperata da Gino Rinuccini,  il quale, difendendo dagli attacchi del Niccoli e del Bruni  Dante, il Petrarca e il Boccaccio, intitola il suo libro : Irvoeì-  tiva contro a certi calunniatori di Dante , etc. Il più acca^  nito, il vero calunniatore fu il Valla, « qui Giceronem velli-  cabat, Aristotelem carpebat,Vergilio subsannabat (1) ». Il primo     (1) Fontani, De sermone^ p. 193.     Digitized by VjOOQ IC     — 123 —   attacco lo rivolse contro Cicerone nel suo libro, dove lo con-  frontava con Quintiliano, a cui lo posponeva. I contemporanei  opposero accanita resistenza alle critiche del Valla; e Poggio,  p. es., difese nelle invettive contro il Valla gli autori da esso,  come egli diceva, criticati, Terenzio, Cicerone, Sallustio e altri;  e Benedetto Morandi scrisse due invettive, nelle quali dichia-  rava reo della pena di morte il Valla, perchè avea infamato  Livio, sostenendo contro la sua autorità che Tarquinio il Su-  perbo non era figlio, ma nepote di Tarquinio Prisco. Però il  libro più famoso nato da queste cosiddette calunnie fu quello  di Francesco Florido, che si intitola appunto Apologia in Un-  gitae latinae calumniatores. A questo libro ha dato origine  una conversazione letteraria, alla quale prendeva parte anche  il Florido, allora, verso il 1535, studente di giurisprudenza a  Bol(^na, ma passionato amatore delle lettere. In quella con-  versazione si faceva il confronto tra Terenzio e Plauto e si  dava la palma a Terenzio; il Florido sostenne la causa di  Plauto e tanto se ne accese, che ne scrisse una difesa intito-  lata: Apologia contro i calunniatori di Plauto. Ma lo sdegno  ch'egli concepì verso quella setta dei calunniatori fu tale e  tanto (1), che non si diede pace, finché non ebbe compreso  nella sua apologia tutti gli altri autori calunniati; e infatti tre  anni dopo (1538) pubblicò la 2* edizione dell'apologia col nuovo  titolo: Apologia adversus linguae latina^ calumniaiores.   La questione della supremazia fra Terenzio e Plauto risa-  liva al Petrarca, che dava la preferenza a Plauto. Raccontando  egli, che leggeva per ricrearsi le comedie plautine, soggiunge:  « mirum dictu quas ibi elegantes nugas inveneram, quas ser-  viles fallacias, quas aniles ineptias, quas meretricum blandi-  tias, quam lenonis avaritiam, quam parasiti voraginem, quam  senum soUicitudinem, quos adulescentium amores.Iam minus  Terentium nostrum miror, qui ad illam elegantiam tali usus  est duce » (2). Ma bentosto dovette formarsi il partito con-  trario, di quelli che davano la palma a Terenzio, e già An-     (1) Lectiones succis.^ p. 215.   (2) Rerum famil., V, 14.     Digitized by VjOOQ IC     — 124 —   tonio da Rho lo preferiva a Plauto (1). Parimenti Erasmo nel  Ciceronianus mostra di pregiare più Terenzio che Plauto e  nella dedica premessa il 12 dicembre 1532 all'edizione di Te-  renzio afferma senz'altro, che in una sola comedia di Terenzio  si mostra maggior rettitudine di giudizio, che in tutte quelle  di Plauto (2). Il Florido poi ci racconta che taluno nutriva  tanto odio contro Plauto, da farsi un obbligo di non leggerne  nemmeno un verso e che tal altro si guardava bene dall'ac-  cordargli un posto nelle proprie librerie (3).   Ma quello che fece più remore, pare sia stata la lettera  scritta in nome di Francesco Asolano da Andrea Navagero  per l'edizione aldina di Terenzio^ che quegli avea apparec-  chiato (4). In quella lettera il Navagero chiaramente ed esplici-  tamente dà la preferenza a Terenzio su Plauto, cercando di  dimostrare l'assurdità del canone dei dieci comici latini di  Volcazio Sedigito (5), il quale pose primo Cecilie, secondo  Plauto, sesto Terenzio, e pigliandosela con quel tale recente  scrittore che trovò giusto quel canone. Ecco il confronto del  Navagero: « Non parliamo dell'eleganza della forma, la quale  dipende dal secolo in cui visse Terenzio e della quale esso ha  la minor parte del merito ; ma venendo alle aitile parti « omni-  bus in rebus Plautus nimius videtur; ilio Terentius parcior;  — hiant nonnunquam ncque satis cohaerent Plauti comoediae,  ita omnia Terentii Inter se nexa ». Plauto osserva poco il  decoro (decorum), ama troppo far ridere, nel che ripose forse  l'essenza della comedia; Terenzio è più moderato. Bisogna di-  stinguere facezia di cosa e facezia di parola; questa spesso  diventa freddura e degenera in • scurrilità ; della prima usa  più spesso Terenzio, della seconda Plauto: « ut uno omnia  vocabulo complectar, in ilio (Plauto) dicacitas, in hoc (TereAtio)  urbanitas conspicitur maxima ». — Indi reca il giudizio di     (1) Valla, Adnotat. in Anton, Rhaudens., Venezia 1519, p. 132.   (2) BuRiGNY, Leben des Erasmus etc, Halle 1782, II, p. 355.   (3) Apologia^ p. 9 e 13.   (4) Andr. Nauger., Opera, Padova 1718, pp. 94 segg.   (5) Gfr. Bernhard^, Edmische Literaturgesch., 5* ediz., p. 460.     Digitized by VjOOQIC     — 125 —   Orazio, che non approva i ritmi e i sali di Plauto [ad Pis.,  270] e dà la palma nell'arte a Terenzio [Epist. II, 1, 59], e  quello di Afranio, che scrisse: « Terentio non similem dices  quempiam » (i).   Udiamo il Florido. Anzitutto il giudizio di Quintiliano su  Plauto e Terenzio non pregiudica la questione della superio-  rità dell'uno o dell'altro (pp. 13-14). Plauto, dicono, ha molti  luoghi oscuri : ma questo dipende dalla corruzione dei testi ;  ha parole antiquate: ma questa non è colpa sua, bensì del  tempo in cui visse. Del resto Plauto, quanto ad eleganza la-  tina, è ottimo modello, se tu ne levi quelle forme arcaiche,  che tutti conoscono (15). — Traggono argomento a deprezzar  Plauto dall'esser più facile imitar lui che il forbito Terenzio  e ne fanno fede le comedie spurie attribuite a Plauto. È vero,  risponde ì\ Florido, ma anche Omero, anche Vergilio ebbero  i loro interpolatori. Però se Omero trovò Aristarco, l'Aristarco  a Plauto non mancò in Varrone : e qui il Florido ragiona sulla  questione della genuinità delle comedie plautine (16-19). Quanto  non fu Plauto più fecondo di Terenzio! E in Plauto trovi tutto  quello che si richiede in un grande scrittore, in Terenzio non  trovi che la proprietà (20-22). Plauto è più ricco di locuzioni  e con le sue parole puoi esprimere tutto quello che riguarda  la vita di un uomo; con Terenzio spesso dovresti tacere. Voi-  cazio e molti altri antichi hanno portato un giudizio assai  favorevole su Plauto (22-23); ed errano quelli che dicono che  il giudizio di Varrone non ha importanza , perchè Varrone  non era poeta: il non esser poeta non escluderebbe il poter  dare un buon giudizio, del resto Varrone era poeta e lo mo-  strano le sue Menippee (24-25). Esamina quindi il giudizio di  Orazio su Plauto, mostrando diffusamente ch'era vezzo d'Orazio  mordere i poeti antichi romani e che in quel luogo dove bia-  sima i numeri e i sali plautini, intende con Plauto i poeti  antichi. Quanto ai sali Plauto non è da biasimare, si piuttosto  Terenzio, che è freddo (25-29). Quanto all'accusa che si dà di  arcaica alla lingua di Plauto, osserva che anche al tempo di     (1) Cfr. Bernhardy, Op. cit, p. 470.     Digitized by VjOOQ IC     — 126 —   Vergilio si usavano parole arcaiche e che del resto Plauto  anche dai letterati dell'ultimo secolo, p. es. Cicerone, era sti-  mato ; e che uno studioso di latino, quando sia bene iniziato,  trae più frutto da Plauto che da Terenzio (29-33). Gonchiude  che in Terenzio si trova più diligenza, ma in Plauto più in-  gegno e che questi non fu superato da quello che nella pro-  prietà (34). Indi, confutato il giudizio di un grammatico an-  tico (36-42) passa, con un'erudizione sorprendente e un'efficace  rapidità di stile, in rassegna i caratteri più importanti e più  spiccati delle comedie plautine, mostrando la loro perfezione:  i vecchi, i giovani dissipati, i servi, i parassiti, i ruffiani, i  soldati spacconi, i sicofanti (36-42).   Dalla difesa del Florido risulta ch'egli non avea di mira il  solo giudizio e l'accusa del Navagero, ma una serie di altri  giudizi e di altre accuse contro Plauto, le quali io ho cercato  invano fra gli scrittori di quel tempo, ma che certo doveano  agitarsi nelle società letterarie e nelle scuole. Fra i calunnia-  tori della lingua latina il Florido assalta con una lunga e acre  conftitazione (i) anche il Marnilo, che in alcuni suoi versi  avea posto come grandi autori della lingua latina certuni,  escludendo certi altri. Altrove difende Servio dalle conside-  razioni critiche o calunnie, come le chiama lui, di Battista  Pio (2) e di Filippo Beroaldo (3); e Cicerone dalle calunnie  dello Zazio, il quale lo posponeva a Catone (4). Fra i calun-  niatori poi dei moderni redarguì abbastanza mitemente Erasmo,  che tacciò di paganismo il Pontano e il Sannazzaro (5) e ag-  gredì rabbiosamente e annientò il povero Mancinelli, che aveva  innocentemente scritto una Lima alle Eleganze latine del  Valla (6).     (1) Apologia^ pp. 45ò3; cfr. Lectiones succis,, p. 130.   (2) Lectiones succis.^ p. 236.   (3) Lectiones succis.^ II, 9-18.   (4) De iuris dv. interprete pp. 203-204.  (o) Lectiones succis., Ili, 6.   (6) Lectiones succis., II, 20-21.     Digitized by VjOOQIC     — 127 —   X.  Se si deva scrivere latino o italiano.   Il Petrarca avea saputo mostrare il suo valore artistico e  letterario si nella lingua latina che nell'italiana o volgare;  ma già egli stesso si era pentito e domandava perdono di quei  suoi sospiri in rima e più volte dichiarò che in faccende ca-  salinghe usava il volgare, perchè il latino non si poteva ab-  bassare a simili argomenti (1). E il Boccaccio, l'autore del'  Decamerone, si vergognava di avere scritto « cose volgari  degne di essere ascoltate dal popolino » (2). Sul volgare por-  tarono giudizi ancora più sfavorevoli i latinisti del principio  del secolo XV e specialmente il Bruni e il Niccoli (3).   Il Rinuccini, che scrisse una invettiva contro questi detrat-  tori della lingua volgare , formula cosi i loro giudizi : « Le  storie poetiche dicono esser favole da femmine e da fanciulli,  e che il non meno, dolce che utile recitatore di dette istorie,   cioè messer Giovanni Boccacci, non seppe grammatica e dei   libri del coronato poeta messer Francesco Petrarca si beffano  dicendo che quel De viris iUustribus è uno zibaldone da qua-  resima Poi per mostrarsi litteratissimi al vulgo dicono lo   egregio e onorevole poeta Dante Alighieri essere suto poeta  da calzolai » (4).   I latinisti non stimavano il volgare atto a trattar d'argomenti  gravi. Il Bruni discutendo nelle sue prose volgari il valore  della parola poeta, conchiude: « Contuttoché queste sien cose  che male dir si possano in volgare idioma ». E il buon Vespa-  siano da Bisticci: <c Molte cose degne si potrebbero dire di     (1) VoiGT, Wiederhelehung^ li, p. 422.   (2) HoRTis, Studi sul Boccaccio, p. 200.   (3) VoiOT, 1, pp. 38.5-388; A. v. Rbumont, Lorenzo il Magnifico^ 2.  Aufl. II, p. 37-38.   (4) Fioretto, Qli umanisti. Verona 1881, p. 122.     Digitized by VjOOQ IC     — 128 —   memorie, che sono scritte da scrittori degnissimi nello ornato  ed elegante latino e non nello idioma volgare, dove non si può  mostrare le cose con quello ornamento, che si fa in latino » (1).   Il Filelfo chiamava il volgare la lingua del popolino e quando  ebbe l'incarico dal duca di Milano di dichiarare in volgare le  rime del Petrarca, se ne sdegnò come di cosa « quae indoctos  potius quam viros doctos et graves sit delectatura » (2);  « le cose che non vogliono essere copiate », scriveva egli nel  1453, « le scrivo sempre alla gi'ossolana »; e nel 1477 parlando  della lingua toscana : « hoc scribendi more utimur iis in rebus,  quarum memoriam nolumus transferre ad posteros » (3).   I latinisti vmsero e verso la metà del quattrocento la causa  del volgare parca perduta; ma non molto dopo cominciò un  potentissimo risveglio della lingua italiana, per opera della  scuola fiorentina, nella quale primeggiarono Leon Battista  Alberti, il Landino e più assai il Poliziano. L'Alberti pose verso  la metà del secolo la questione e la risolse conciliando le due  lingue, dichiarando che la lingua italiana non era inferiore  alla latina (4). Più tardi il Bembo fece un passo avanti, dando  all'italiana la preferenza sulla latina (5). Ecco com' egli ra-  giona : La volgare è la . lingua nostrana , dovechè la lingua  latina ci è, si può dire, straniera (l'avesse detto al Filelfo!).  A quella guisa che i Romani non stimavano biasimevole, anzi  dovere coltivare il latino , lingua patria , senza trascurare il  greco, cosi noi dobbiamo usare il volgare, senza disprezzare  nel medesimo tempo il latino. Il Giovio a queste ragioni e a  tutte le altre che egli stesso reca nella difesa della lingua  italiana, che si trova nei suoi Dialoghi, ne aggiunge una, la  quale non manca di un certo peso, che cioè la lingua etrusca  era gradita alle donne, nella società delle quali perciò non si  potea senz'essa brillare.     (1) Ibi, p. 125.   (2) VoiGT, 1, p. 519.   (3) Ihi, li, p. 422.   (4) L. B. Alberti, La cura della famiglia; lib. Ili, prefaz. Gfr. A.  Reumont, Op. cit, 1, p. 425.   (5) Dialogo sulla volgar lingua, ediz. Sonzogno, pp. 144-145.     Digitized by VjOOQIC     — 129 —   Questi ragionamenti erano semplici e nella loro semplicità  ineluttabili ; ma non li avrebbero o capiti o accettati gli uma-  nisti del quattrocento: i quali consideravano loro patria Roma.  Gli umanisti del 500 al contrario compresero che la loro causa  correva gravissimo pericolo e si diedero gran cura di difen-  derla. Levò gran romore TAraaseo con le due famose orazioni  De lingule latrnae usu retinendo, pronunciate a Bologna nel  1529, davanti a un illustre uditorio, tra cui Carlo V e Cle-  mente VII, d'onde veniva più maestà e importanza alla difesa.   Nella prima orazione TAmaseo traccia per sommi capi la  storia della lingua latina e mostra come dalla corruzione di  essa nacque la volgare. Indi ribatte una delle obbit-zioni che  si facevano contro T uso del latino. Il volgare, dicevano, ci  basta; perchè dovremo noi spendere fatiche a imparare un'altra  lingua, che ci è superflua? Non è superflua, soggiunge TA-  maseo, quando noi con essa possiamo conseguire una maggior  comodità dei Romani stessi, i quali possedevano una sola lingua,  dovechè noi potremmo possederne due, Tuna che servisse ai  dotti, l'altra agli incolti. Ma che parliamo noi di due lingue?  li latino e il volgare non sono che una lingua sola ; questo e  una corruzione di quello e l'uno ha intima affinità con l'altro.  Ciò poi dimostra anche che la lingua latina non è straniei'a,  ma lingua nostra, come il volgare, con cui è tutt'una cosa.   Su quest'idea torna anche nella seconda orazione, dove se-  guitando il suo ragionamento [nostra che la lingua latina ò  da preferirsi come più perfetta. Ma la volgare è immediata-  mente più utile : no, per asserir questo, bisogna negare tutta  la sapienza pratica che hanno depositato nelle loro lingue i  popoli antichi. Né si dica che il volgare costa meno fatica a  imparare del latino , perchè la maggior fatica spesa in que-  st'ultimo è largamente compensata dalla gran diffusione della  lingua latina , per mezzo della quale possiamo metterci in  relazione con tutto il mondo civile; la volgare invece si re-  stringe dentro i confini d'Italia, dove .nemmeno poi è sempre  la medesima, perchè chi la vuole etrusca, chi aulica. Che se  si accampi il pretesto che nessuno possa riuscire dotto e va-  lente nella lingua latina, mi basta di citare i nomi del Fon-  tano, del Sabellico, del Navagero, del Longolio, del Sannazzaro.   R. Sabbadini, Ciceronianismo e altre questioni letterarie.     Digitized by VjOOQ IC     — 130-   Parlò per convinzione profonda TAmaseo o per sfoggio di  rettorica? Il fatto è che in quel tempo la questione tornò più  volte in campo. Ne trattò Pietro Angeli da Barga in un di-  scorso detto nello studio dvPisa; ne trattò Celio Galcagnini  nell'opera deirimitazione a G. B. Giraldi ; Bartolomeo Ricci nel  2^ dei suoi libri deirimitazione; G. B. Goineo e il Sigonio e  altri ancora (1). Ma nessuno più accanitamente di Francesco  Florido, la cui polemica contro la lingua volgare è addirit-  tura un' invettiva e tanto caratteristica, che merita di essere,  quantunque lunga, tradotta e riportata per intero.   « Parliamo ora di quei cotali (egli scriveva verso il 1437), S'/'  che invece delle lettere latine e greche coltivano le volgari  con ogni assiduità e diligenza e messi da parte i divini scrit-  tori di quelle due lingue, in qualunque genere di dottrina e  di eloquenza eccellenti, perdono il loro tempo in cose da nulla.  E questo morbo che serpe tra noi Italiani tanto di giorno in  giorno prende piede e forza, che già più non si cerca quali  siano tra gli autori romani i migliori, ma tutti vengono come  superflui banditi; mentre si vuol far credere al mondo che  la lingua latina allora era necessaria, quando la parlavano  anche le balie ; ma che adesso va buttata in un canto, essen-  done sorta un'altra che non che eguagliata, va preferita alla  latina e che la si deve coltivare e illustrare non meno che  un tempo fecero della loro i Greci e dopo i Greci i Romani.  Le quali assurdità, che moverebbero lo sdegno a qualsiasi  uomo di senno se le udisse anche da uno Scita o da un Medo,  sentendosi in bocca di Italiani, non è a dire che si sia acce-  cato e ottenebrato il mondo? quando gli Spagnuoli, i Francesi,  i Tedeschi, gì' Inglesi e moltissimi altri popoli studiano e am-  mirano grandemente la lingua latina e noi invece ne cerchiamo  un'altra affatto diversa, che solo col chiamarla volgare la  gettano meritamente nel fango. Ed ecco che chi vi abbia speso  intorno pochi giorni vien nominato dalla plebaglia conoscitor  del volgare ed eccoli cotesta razza di gente fondare ogni di  quasi in tutte le città accademie, se pure vanno chiamate     (1) Ap. Zeno, Note al Fontanini, 1, p. 35.   Digitized by VjOOQIC     — i31 —   accademie dove non hai nulla da imparare, nemmeno che sei  un ignorante. Per Iddio, quando vedo la stupidità di certuni !  fa un anno, già, ch*io intesi un Italiano chiedere a un giovane  greco, se avesse a scegliere fra il latino e il volgare, quale  preferirebbe ; se non che non più mi stomacò la buaggine  deir Italiano di quello che mi ricreò il contegno del Greco,  che non gli replicò sillaba e lo lasciò in asso. E perfino hanno  poeti, storici e oratori, da chiamarvi al confronto i Latini; e  il loro Francesco Petrarca lo antepongono non a Tibullo solo  e a Properzio, ma anche a Vei^ilio; e Giovanni Boccaccio  paragonano a Marco Tullio, osando contrapporre le freddure  di quello ai fulmini di questo.   Ma vediamo quali frivole ragioni mettano in campo i so-  stenitori di quest'idioma, per dimostrarne la necessità e l'utilità.  A frugare quanto su tale questione fu scritto , troverai che  tutto si riduce a quest'unico argomento, che ognuno deve  adoprare quella lingua che ha imparato dalla madre e la quale  serva ai più. Futile argomento e di nessun peso; e che non  dovrebbe persuadere nessuno, si trovasse anche essere più  quelli che sanno parlar il volgare che non il latino. Poiché  dato che la lingua volgare sia comune pure alle pescivendolo  e ai cenciaioli e che la latina giovasse soltanto a dieci eru-  diti, la latina sarebbe tanto più utile della volgare, quanto  un solo letterato vai più che molte migliaia di ignoranti. Ma  il fatto è ben diverso; imperocché se tu adopererai codesta  lingua, non ti farai capire in tutta Italia; che dico? se andrai  nelFApulia, nella Calabria con questo linguaggio ti pigleranno  per un Sirofenice, per un Arabo ; ma se tu parlerai ivi il la-  tino, a moltissimi ti farai agevolmente intendere. Se poi tu  navigassi in Sicilia o in Corsica o in Sardegna e scappassi  fuori con questo linguaggio, passeresti, giuro a Bacco, per il  più pazzo del mondo. Ti guardi poi il cielo dalFavventurarti  a parlare il linguaggio volgare nella Spagna, in Germania o  in Francia; ti darebbero la baia i monelli e trarrebbero a  vederti come Torso che balla. Ma sapendo di latino quasi tutti  ti capiranno come se tu parlassi la loro lingua materna. Lo  stesso dicasi di quanto vanno costoro spacciando, che ognuno  deve celebrare le gloria domestiche nella lingua imparata     Digitized by VjOOQ IC     — 132 —   dalla balia. Imperocché se di ciò si potessero far persuase  anche le altre nazioni , non spenderebbero tanta fatica a  imparare un altro linguaggio, ma contente del proprio, scri-  verebbero in modo da farsi intendere dai loro vicini, non  essendovi oggidì provincia che non abbia vari e tanto diversi  idiomi, che tu entro T Italia stessa dovresti mutar linguaggio  ogni dieci miglia, se non volessi parlare ai sordi; del che  avviene che anche codesta lingua volgare, a cui certi sapu-  telli attribuiscono più ch'ella non oserebbe dimandare, non sa  dove pur possa posare e piantare la sua sede. Chi difatto la  vuol trarre dall' interno della Toscana ; chi ammette quella  solo che è in uso presso la corte romana. Ma che dire poi  che nella Toscana non tutti parlano a un modo, essendo di-  versa la favella dei Fiorentini, dei Senesi, degli Aretini, dei  Lucchesi, mentre ciascuna di codeste città sostiene di essere  culla del linguaggio toscano? Per il che avverrà di certo, io  credo, che se i Greci ebbero una volta cinque lingue, codesti  volgari ne produrranno più assai. Ma fannulloni e poco co-  stanti nella fatica siamo noi, che mentre ce la dormiamo fra  due guanciali, mentre nell'apprendere il latino ce ne stiamo  con le mani alla cintola , aspettando che facciano per noi gli  Bei e consumiamo i più belli anni in ciafruscole, ci accorge-  remo dell'erroT-e quando non sarà riparabile e allora , come  non fosse cosa nostra, per non sapere dove batter la testa, ci  rifugieremo tra codeste delizie volgari ; allora , per parlar  chiaro, chi non sarà riuscito nel greco e nel latino, si racco-  manderà al volgare, come chi non spuntandola a sonar l'or-  gano, si contenterà di tirare i mantici.   E che? mi darà qui taluno sulla voce: credi tu che Dante,  Francesco Petrarca e Giovanni Boccaccio ignorassero la lingua  latina? No; che anzi fra loro gran. nome si acquistò il Pe-  trarca, il quale primo tra gli Italiani imprese a trarre in luce  dai ruderi e dall'antichità la lingua latina lungo tempo se-  polta ; ma non essendogli troppo felicemente riuscito, o perchè  mancava ancora una buona parte dei migliori libri o perche  era impresa da non potersi condurre a buon termine da un  solo, si rivolse malgrado suo alla lingua toscana, e lo confessa  egli stesso nei suoi versi: tanto siamo lungi dal poterne dubi-     Digitized by VjOOQIC     — 133 —   tare. E son là le sue opere latine che parlano, le quali se  mostrano in lui sommo ingegno e non mediocre erudizione,  spesso mancano di purezza latina. Che anzi Lorenzo Valla  profondo conoscitx)re della lingua latina , nel secondo libro  delle Eleganze, afferma non aver lui saputo intitolare la sua  opera De sui et aXiorum ignorantia, giacché andava De sua  et aliorum. Fiori prima di costui Dante, ma quanto all'ele-  ganza della lingua volgare poco, come si direbbe, gli arrisero  le muse; o perchè non era ancora abbastanza formata, o  perchè la portata della lingua vernacola non poteva reggere  a un peso immenso. Dopo questi due scrisse Giovanni Boc-  caccio, terzo caporione degli antichi scrittori volgari; né è  fra i piccoli guai di questa lingua che in trecento anni o poco  meno essa non debba dare che tre scrittori, uno per secolo.  Che a questi tre almeno, in tanta rarità, facessero plauso d'ac-  cordo i volgari: ma no; anche questi tre non sono molto in  onore. Dante come scrittore di poca eleganza viene, quasi per  comune consenso /messo dk parte; del Boccaccio moltissime  cose diventarono antiquate; non resta in voga che il Petrarca,  che vien proposto per modello ai poeti, agli oratori e agli  storici. E perchè veda ognuno quanto perspicace intelletto  ebbe il Petrarca, io lo credo l'unico che abbia misurato le  forze della lingua volgare, piegandola a esprimere solo gli  amori e la gaiezza. Il che come felicemente gli riusci, non  cosi felicemente avrebbe tentato opera di maggior mole, con  l'esempio dinanzi di Dante che sperimentò pur troppo come  alla favella volgare mancavano e maestà e vigore; nella quale  cantò d'arme e guerrieri, non senza qualche lode, ai tempi  nostri Lodovico Ariosto ferrarese, scrittore non spregevole per  la sua dottrina nel latino, ma che nel resto non s'^accosta al-  Teccellenza nemmeno dei mediocri fra i Latini: e tuttavia  diede tanto lustro a quel genere di poema, che tutti lo re-  putano fatto da natura per cantar di guerra. Scrisse anche  comedie, che di comodici non han più che il nonie. A com-  porre poi storie ed orazioni in questo idioma ci sarebbe da  eccitare il riso.   E perchè non creda taluno che in quella che alcuni chia-  mano finezza, altri leggiadria, i più dolcezza, la lingua latina     Digitized by VjOOQ IC     — 134 —   sia vinta dal volgare, sappia clie Properzio e Tibullo non ac-  quistarono meno lode in ciò di Francesco Petrarca, il quale  credè che al nome suo si sarebbe fatto il maggior onore,  quando avesse meritato di venire contrapposto a qualsiasi di  quei due. E che la maggior parte dei cultori della lingua  volgare, eccettuati sempre alcuni veramente dotti, sieno poco  addentro negli autori latini, ce ne accorgiamo chiaramente di  qui, che evitano, come si evit uno scoglio^ Dante, in cui la  erudizione, Tingegno e l'acume sono maggiori che nel Petrarca;  anzi gli danno taccia di avere appunto scritto oscuramente  per non farsi intendere, quasi che le profondità della filosofia  e della teologia si possano trattare con la medesima facilità  e lepidezza che i trastulli delle fanciulle e i convegni di amore.  Laonde a quella guisa che si starebbe a disagio con la lingua  latina, s'ella avesse soli Tibullo e Properzio, cosi non si sta-  rebbe troppo a buon agio col volgare, se si accontentasse del  solo Petrarca. Molti però scrivono tutti i giorni; non nego,  ma non han niente che fare cól Petrarca. Anzi meglio di lui  in alcuna parte: sia pure, ma chi gli si possa in tutto para-  gonare, sostengo che oggi non ci è e non ci sarà mai. Ma  levano a cielo la prosa del Boccaccio: la levino anche sopra  cielo, ch'io ne sono contento, purché confessino che non i  migliori latini (giacché farei a loro grave onta), ma qualsiasi  di essi fra i più abbietti supera il Boccaccio in erudizione e  in eleganza. Né credo in questo di fare ingiuria al Boccaccio,  che si ritiene esimio nella prosa; nella quale però dopo lui  infine ad oggi non si é trovato chi si acquistasse la benché  minima lode, rifiutando i più V Arcadia del Sannazzaro, ri-  piena, come dicono, di molti errori.   Che se indaghiamo come derivò a noi il volgare, non più  volgare ma immondo lo chiameremo, non barbaro ma la bar-  barie stessa. E se ne interroghiamo i suoi sostenitori, sapremo  che esso trasse origine dalla prima invasione dei Goti in Italia,  dopo la rovina dell'impero romano, e che quanti più barbari  vi immigrarono, tanto più diventò ricca e copiosa: si può dire  iraaginare nulla di questo più turpe ? Meno male se traesse  origine da una sola invasione; sarebbe comunque tollerabile.  Ma avendovi contribuito per una buona parte i Goti, i^Van-     Digitized by VjOOQ IC     — 135 —   d?li, gli Eruli , per un' altra i Longobardi , non vi è ragione  (li affannarsi tanto per questa lingua, che ha la bella pre-  rogativa di derivare i metri non dai Greci o Latini, ma dai  barbari. E quale norma si trova in essi metri 'ì quale artifizio?  quale varietà e bellezza? Il più adoperato di quelli ha un-  dici sillabe e Taltro, che per eleganza vi si intercala, sette:  dei quali il primo vogliono derivato dall'endecasillabo latino  dal saffico, il secondo dall' aristofanio , vuoi a bello studio,  vuoi, come io credo meglio, a caso, ma depravati a segno, che  non vi si tien conto né dei piedi né della quantità delle sil-  labe e nei quali tu puoi ficcarci quel che ti pare, purché  abbi mente alle sillabe finali e faccia rimare i versi in fine  ogni tre o quattro. Ci é anche un' altra specie di verso, il  dodecasillabo, usato molto dal Sannazzaro^ ma non troppo ele-  gante neppur esso. Quello poi che più fa meraviglia si è che  i cultori della lingua volgare scarseggiarono fino ad ora mol-  tissimo di vocaboli e si diverse mutazioni di regni non riusci-  rono ancora in tanti secoli a compiere una lingua, dimodoché  a portare a termine quest'idioma ci sarebbe di bisogno di  un'altra invasione di barbari.   Ora se altri rinfacciasse tanti e si gravi inconvenienti alla  lingua latina o greca , potrebbe parer matto , massime che i  Greci ricevettero la loro dagli antenati e cosi i Latini la pro-  pria: alla quale se qualche cosa mancò, vi supplirono con  l'imitazione dai Greci. Che dire poi che tutti quasi i nomi del  volgo e dei quali consta la sua lingua non hanno che due  terminazioni, Tunanel singolare, l'altra nel plurale? Non sembra  in questa maniera di stare tra gli Sciti o gli Africani? Giacché  gli articoli, ch'essi vogliono tirare in campo, son cosa morta  di per sé, quando non siano congiunti con la flessione delle  parole, come vediamo nella lingua greca. Quanto non é poi  assurdo che quei pochi vestigi di lingua latina che si trovano  nel volgare cerchino di espellerli anche quelli , onde non ci  sia parola che non si debba ai Goti; imperocché tra tutti quanti  scrivono e parlano il volgare é invalso oggi il principio che  per bene scrivere bisogni allontanarsi da ogni reminiscenza  latina   Mi obbietterà però taluno : lasciamo da parte i meno recenti     Digitized by VjOOQ IC     — 136 —   e veniamo al nostro secolo , in cui nessuno , dotto in latino,  trascura di coltivare anche la letteratura volgare; la quale  se fosse tanto da disprezzarsi, ciascuno tenendosi alla greca  alla latina, trascurerebbe la volgare come sozza e inele-  gante. Sappia costui primieramente che la lode di cosiffatti  uomini non dipende dalla cognizione del volgare , bensì del  greco e latino: che se poscia s'applicarono al volgare, non fu  perchè l'approvassero, ma o por seguir la moda o, ciò che è  più vero, per mostrarci con quanta facilità s'impari questo  idioma, poiché dove solo in venti o venticinque anni potettero  profittare un po' nel latino e greco , in sei mesi soltanto ap-  presero perfettamente il volgare. D'altra parte è ridicolo che  alcuni dei vecchi e anche dei recenti reputino a bene il pic-  colo numero degli scrittori e vadan dicendo che non a tutti  è dato sentire messa accanto al prete. Imperciocché i buoni  ingegni non vollero consumare l'età e spendere i loro migliori  anni nelle baie volgari, ma consultarono gli autori greci e  latini, dei quali quasi inflinito é il numero, dovechè dei toscani  è assai ristretto e, se non ne vengono degli altri, insufficiente.  Che anzi col fatto stesso vediamo trovarsi in migliori condi-  zioni la lingua latina, già lungamente sepolta, che la volgare  tuttora vivente; poiché sappiamo che in maggior numero e  molto più addottrinati s'affaticarono a restaurare la latina che  a promuovere la volgare, massimamente che il Sannazzaro e  il Bembo, vivente ancora e di grande autorità presso tutti e  che finora ha dato di sé ottimi saggi, appartengono quasi in-  tieramente ai latini o per metà almeno. E se pur sono ec-  cellenti nell'una e nell'altra lingua, tanto maggior valore delle  altre hanno le loro scritture latine, quanto il latino è più  nobile, più dolce e più perfetto del volgare (1) ».     (1) Florio., Apologia l. l, pp. 105-108. 

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