Uf uh CENTRO sruoi ? GODETTI 2 )K\ d°no ziNO ZINI {.HO /fS> / l<3 L * *Hài GIUSTIZIA STORIA D’UNA IDEA TORINO FRATELLI BOCCA, EDITORI MILANO - ROMA - FIRENZE IQ07 Proprietà Letterarja Torino - Vincenzo Bona, Tip. di S. M. (10333) * A A A tlAXAiiAi ***-* » à * A itUlJtlUAXM^ PREAMBOLO La storia umana non è solo di fatti, essa è anche, e sopratutto, d’idee. Il mondo esteriore è una vasta officina in cui l’uomo, Dedalo ma- raviglioso e solerte artefice del suo proprio de¬ stino, converge con lavoro indefesso le disperse energie naturali al proprio vantaggio, le accumula, le trasforma, le distribuisce. Il vastissimo regno dell’opera umana, politica, guerra, economia, arte, si svolge sotto l’occhio indagatore della storia, che lo ricompone nel suo racconto coi mille dettagli della sua critica esplorazione nel cimitero del passato. Il senso storico, che è, per così dire, un nuovo sesto senso collettivo, che si aggiunge all'uomo in quanto è un essere sociale, si è venuto depo¬ sitando per strati nello spirito, come una co- VI GIUSTIZIA scienza comune proiettata all’indietro ; una co¬ scienza di continuità e di tradizione, che il progresso della intelligenza e del linguaggio rafforza, illumina ed estende, creando l’imperioso bisogno di ricomporre idealmente la catena delle vicende, per guisa che il momento attuale della vita nella sua ricca complessità, si ricongiunga alle più remote fasi delle sue umili origini. La storia è scienza, perciò appunto che riallacciando gli avvenimenti e risalendo nel fiume del tempo a ritroso dagli effetti presenti alle cause passate, dà ragione di ciò che è, e ponendo la legge dell'evoluzione sociale, addita al corso delle opere umane il proprio ideale destino. Il senso storico è dunque un aspetto del senso sociale; esso si afferma e consolida nella vita collettiva vagamente dapprima, nella tradizione religiosa, nel canto nazionale, nella leggenda ; quindi si materializza nelle tombe, nei monu¬ menti e nelle epigrafi, affinandosi man mano nelle cronache, negli annali, nei racconti storici d’ogni maniera fino a conseguire lo svolgimento straordinario, l’abbondanza e la precisione della ricerca storica e della critica moderna. Il suo progresso è correlativo a quello stesso della ci¬ viltà, poiché solamente un’adeguata conoscenza della propria storia permetterà alle società umane PREAMBOLO VII di apprezzare nel loro giusto valore le condizioni di fatto in cui esse si trovano, di darsene ra¬ gione, e di farne con relativa probabilità la proiezione nell’ avvenire. Ma le energie umane, che si sono esteriorizzate nei fatti e concretate in opera militare, politica, industriale, non esau¬ riscono tutta l'attività dell'abitatore terrestre ; l'uomo non à soltanto agito, esso à anche sentito e pensato, e le sue idee e le sue emozioni, fissate e trasmesse per mezzo di quella mirabile tele¬ grafia che è il linguaggio, sommate all’infinito ed accumulate nella serie delle generazioni, formano quei precipitati dello spirito, quelle cristallizza¬ zioni della coscienza, che la civiltà custodisce e deposita in ciascuno di noi, precipitati più o meno puri, cristalli più o meno normali, che noi chiamiamo i nostri pensieri e i nostri sentimenti. Tento nelle pagine seguenti tracciare l’intima storia psicologica di uno di questi prodotti spi¬ rituali, il più nobile e complesso di tutti loro, la giustizia. Bisogna credere che il grande problema del nostro mondo umano sia contenuto in questa parola. Il Newton dell'Etica sarà quegli che det¬ terà la formula di questa meccanica sociale, per cui le relazioni degli uomini debbano essere re¬ golate, equivalente nel dominio morale alla legge Vili GIUSTIZIA di gravitazione in quello fisico. Kant à profeti¬ camente annunciato nei suoi Tràume eines Gcistersekers erlàutert durch Trattine der Meta- physik, questo mondo degli spiriti unificato e governato da una legge etica universale. « Di là nascono gli impulsi morali che ci spingono spesse volte contro il nostro personale interesse, la forte legge di stretta obbligazione, la legge più debole della benevolenza, che l'una e l'altra ci costringono a più d’un sacrificio, e per quanto ambedue siano di tempo in tempo vinte dalle inclinazioni egoistiche, non mancano d esprimere la loro realtà nella natura dell’uomo. Per modo che noi ci sentiamo, nei più riposti moventi della nostra condotta, sotto la dipendenza di una norma di volontà universale, donde risulta un regno di tutte le nature pensanti, un’unità mo¬ rale ed una costituzione sistematica secondo leggi esclusivamente spirituali. Non e forse per mezzo di questa dipendenza sentita.dalla volontà particolare verso la volontà universale che il mondo immateriale conquista la sua unità morale costituendosi, secondo le leggi di questa conca¬ tenazione che gli è propria, in un sistema di spirituale perfezione?». Sarebbe però illusorio porre questa volontà legislativa fuori dell umanità stessa, mentre essa PREAMBOLO IX soltanto si realizza storicamente nell’anima sociale, come supremo fatto di spiritualità collettiva. I profeti d’Israel appaiono forse all’alba del¬ l’incivilimento, come i primi audaci architetti di questo tempio grandioso di giustizia, che gigan¬ teggia oggi imponente nella coscienza umana, aspettando che i secoli venturi vengano a coro¬ narne di vittoria e di luce i più elevati fastigi; essi posero le solide larghe pietre della base profonda, creando il Dio giusto e cavandone fuori l’immagine della loro stessa ardente passione. Nei loro scritti Jahvò, la vecchia divinità sangui¬ naria, capricciosa e crudele, scompare, e sorge in sua vece un Dio di giustizia e di misericordia, amico del povero e vendicatore delle iniquità, finché poco a poco in uno slancio di carità, il cuore dell' uomo si apre al sentimento della fra¬ tellanza umana e dell’amore. Allora è venuto il momento di far scendere sulla terra un Dio nuovo; il Figlio prende il posto del Padre. Mentre 1 Oriente semitico compieva questo mi¬ racolo per mezzo della fede, il genio ellenico, per un altra via, per quella della ragione, giun¬ geva alla solenne affermazione della virtù e della giustizia. I pensatori della Grecia, Socrate, Pla¬ tone, Aristotele, sono il contrapposto dei profeti di Giuda, Isaia, Geremia, Cristo. X GIUSTIZIA Roma raccoglie le due eredità, la filosofia greca e la religione cristiana, e i suoi sommi giuristi fondano col diritto, l’impero della legge. La coscienza moderna sprofonda le sue radici in quelle tre grandi stratificazioni del nostro pas¬ sato. Ma l'albero della civiltà che cresce robusto e protende rigogliosi i suoi floridi rami, nella pre¬ sente fase storica domanda al suo pieno sviluppo il fecondo concorso d’un’altra energia, il calore del nuovo astro di vita, già alto sul nostro orizzonte, la Scienza. » T^» fT»TT » » CAPITOLO I. Il reale e l’ideale. Il primo pensiero, che deve essere germogliato nella mente degli uomini, quando guardarono all'atto umano in quanto* è causa di un avveni¬ mento utile o dannoso a sè o agli altri, fu senza dubbio questo: ch’esso rispondeva ad una vo¬ lontà superiore preordinatrice del mondo e delle sue vicende. Questo ingenuo e primordiale fa¬ talismo è talmente proprio d’ogni mentalità in¬ colta e semplice, che noi vediamo tuttora nei bimbi, come nei selvaggi e nelle genti della campagna, una supina rassegnazione ad accetta jb tutto un ordine di fatti, d’imposizioni e di regol; prestabilite, sempre quando non siano in troppo stridente contrasto colle esigenze istintive della loro indole. La natura umana è piuttosto docile che ribelle, la sua volontà si piega più assai che non resista, e subisce la suggestione e l’impulso, più che non lo dia, e questo in una misura mag¬ giore o minore in tutti i gradi e in tutte le fasi della vita collettiva. La capacità di adattarsi e di plasmarsi ad un regime sociale già fatto è infi- Zixo Zini, Giustizia. 1 2 GIUSTIZIA nitamente maggiore di quella di reagirvi o di modificarlo. Noi stessi ne facciamo esperienza cotidiana quando, anche nolenti e fastidiati, su¬ biamo nella vita famigliare e cittadina un’infinità di piccole e di grandi tirannie, alla cui conven¬ zionalità, che la fredda ragione dimostra sciocca o puerile, non sapremmo nè vorremmo sottrarci. E sì che in una persona educata lo spirito critico, rafforzato dal confronto e dall analisi dei fatti, sembrerebbe dover diventare potente molla all'affrancamento dal pregiudizio o dalla tradi¬ zione. in verità chiunque non voglia giudicare l’umanità dalle eccezionali apparizioni di pochi audaci Prometei, ritrovatori di nuove forme di vita materiale o morale, o di qualche squilibrato, la cui eccentricità non è che una logica alla ro¬ vescia, dovrà persuadersi che la passività volitiva è di gran lunga superiore all'iniziativa o allo spirito di resistenza (i). Non comprenderemmo del (i) La nolontà è nel mondo assai maggiore della vo¬ lontà. Quella è dei più, questa dei meno. Una filosofìa morale, come quella di Nietzsche, che ponga a suo fon¬ damento l’affermazione del volere, contraddice alle aspi¬ razioni dell’infinita maggioranza. Dante, insuperabile maestro nella rappresentazione poetica del reale umano, à efficacemente reso questo concetto dell’innata docilità passiva, che è la legge del mondo pratico : Ed io, che riguardai, vidi una insegna, Che girando correva tanto ratta Che d’ogni posa mi pareva indegna : E dietro le venia sì lunga tratta Di gente, ch’i’ non avrei mai creduto, Che morte tanta n’avesse disfatta. Inferno, III, 52-57. CAP. I - IL REALE E L’iDEALE 3 resto senza di ciò i progressi mirabili della coor¬ dinazione sociale, cui sono legati i destini stessi della nostra stirpe. Con ciò facilmente s’intende che in fondo ad ogni concetto di giustizia stia essenzialmente un’idea di ordine (i), per quanto vagamente in- (i) L’inizio dell’idea d’ordine è prima fisico e poi mo¬ rale. Poincaré à una profonda osservazione, là dove parlando dell’astronomia quale madre di verità scienti¬ fica, pone il dato astronomico nella sua stessa sempli¬ cità primitiva, come nucleo d’ogni concezione di legge. Se l’uomo avesse sempre vissuto sotto un ciclo coperto di nuvole, nessuna scienza si sarebbe fonnata nel suo spirito. Quegli antichissimi Caldei, che pei primi ànno guardato il firmamento, osservarono che la moltitudine di punti luminosi che lo popolano, non sono una turba confusa errante a capriccio, bensì un esercito discipli¬ nato. Di qui sorse nella loro mente il primo pensiero della regolarità (Cfr. G. Rageot, La philosophie d’uti géomètre, “ Revue de Paris „, 15 fév. 1906). A conferma di ciò trovo, che la radice Rta nel sanscrito significa ordine, e nello stesso tempo esprime essenzialmente l’entità divina indicata col nome di Varuna e gli Aditas, ossia il sole e i pianeti. È evidente il sorgere iniziale del concetto d’ordine dal regolare moto astrale. Rta, moto, ordine, legge, finisce per generalizzarsi. Il mondo intero è Rta. I fenomeni, che si riproducono nella stessa maniera o ànno un ritmo, implicano una nozione d’or¬ dine. ‘ I fiumi convogliano il Rta ,„ * secondo il Rta l’aurora figlia del cielo, risplendette ,„ " intorno al cielo circola la ruota a dodici raggi, la ruota del Rta, che non invècchia mai „ ossia l’anno. Presto nel Rta pe¬ netra l’elemento morale, esso diventa il vero e il giusto, cosicché esso si trasforma nell’astratta legge del mondo fisico e del mondo morale. Gli dei delle grandi meteore 4 GIUSTIZIA tuito, ordine la cui imposizione si fa risalire ad un potere superiore regolatore delle cose terrene ed umane. Bisogna riconnettere questi modi di pensare colle abitudini mentali dell’uomo religioso, qua¬ lunque possano poi essere le espressioni con¬ crete della sua fede. Giusto è ciò che Dio vuole, e ciò che accade è volontà di Dio, dunque qua¬ lunque cosa accada è giusta. Il sillogismo ò pei- fetto. Questa filosofia del fatto compiuto è più frequente di quello che non si creda. Essa può da una rozza e grossolana rassegnazione mus¬ sulmana, che fa piegare il capo docilmente ad ogni evento, elevarsi fino alla spirituale apatia del panteismo stoico, o alla mistica immedesi¬ mazione in Dio dei santi : può dalla superstiziosa e cieca fede, che fa di un feticcio il padrone della esistenza nella volontà di un selvaggio, tra¬ sformarsi nel principio etico di uno Spinoza o nella concezione determinista di un filosofo spen- ceriano. Lo spirito dell'uomo oscilla tra due opposti poli, e per un lato sembra abbandonarsi volen¬ tieri alla comoda presunzione che una rete d’in¬ visibili fili regga e diriga ogni moto nel mondo delle cose e degli uomini. Chi abbia nelle mani queste redini non importa; Dio, fato, natura, fa lo stesso, purché vi sia una volontà od una celesti, incarnano l’idea dell’ordine. Varuna (Rta) pro¬ tegge il diritto. H. Oldenberg, La Religion du Veda. Paris, 1903, pag. 163, 164, 244 e seg. CAP. I - IL REALE E L IDEALE 5 legge... Com’è bello poter dire a se medesimo: dev'essere così — era fatale. Questa risposta la dia la religione o la scienza, è in fondo la me¬ desima cosa: 'AvdTKr|. Quando questa parola è pronunciata e il destino chiude le sue porte di bronzo al desiderio e alla speranza violenta degli uomini, l’uomo sente levarglisi dalle spalle il pe¬ sante fardello della vita, e ne scarica tutta la responsabilità su quella misteriosa occulta neces¬ sità, che spinge il mondo per le oscure vie se¬ gnate fatalmente al suo corso. Ma lo spirito umano è il regno delle più tra¬ giche antinomie ; l’amara ironia, che è insita nella vita e che ne forma lo scherno, è il senso di libertà che emerge ribelle dalla coscienza, e che si contrappone audacemente in faccia ad ogni legge, di cui è negazione violenta e sfrontata (i). Necessità e contingenza; necessità fuori di noi, nella schiavitù fìsica dell’universo; contingenza dentro di noi nella libertà psichica dell’uomo. Forza indocile ed autonoma, sbrigliata cavalla (i) Credo che Kant abbia ragione quando confessa in una lettera a Garve, che il primo impulso a filosofare gli venne dalla coscienza delle antinomie, che tiranneg¬ giano l’intelligenza umana colla loro implacabile osses¬ sione , libertà o necessità, eternità o principio delle cose, ecc. Sono questi pungenti aculei che lo indussero alla Critica della Ragione pura, per far cessare, come egli stesso dice, lo scandalo della contraddizione, e l’in¬ timo conflitto della ragione con se stessa. V. Delbos, La philosophie pratique de Kant. Paris, 1906, pag. 57 in nota. 6 GIUSTIZIA pronta ai più furiosi galoppi sotto lo sprone del desiderio attraverso tutti gli ardenti campi della passione, la volontà è veramente il Mazeppa della leggenda, nel medesimo tempo infinita¬ mente schiava ed infinitamente libera (i). Che se il mondo esterno ci appare colla scorta di una fede, che ce lo dipinge alla maniera di Tertulliano, come una liturgia, che si svolge, mo¬ deste tamquam sub oculis Dei, o una divina or¬ chestra, di cui ogni nota è scritta ed eseguita sotto la bacchetta del gran Maestro concertatore del¬ l’universo; ovvero alla luce della scienza, che formula le sue leggi in equazioni algebriche, come una ferrea catena di fatti, stretti fra loro da un indissolubile vincolo di causalità; il mondo dell’anima è invece un puro dominio di possibi¬ lità. Qual’è l’illusione? la necessità fuori di noi, o la libertà dentro di noi, o entrambi ? tutto sa¬ rebbe dunque ugualmente necessario, il mondo fisico e il mondo spirituale, ovvero tutto egual¬ mente libero? L’universo è una necessità, ovvero una contingenza senza fine? Vi sono nella nostra coscienza dati sufficienti per la soluzione d un tal problema? In verità, confessiamo la nostra igno¬ ranza e la parzialità dei nostri giudizi. Nel mondo fisico noi giudichiamo dal risultato, e giudichiamo da ciò che è, a ciò che deve es- (i) Et il traverse d’un bond sur ses ailes de fiamme Tous les champs du possible, tous les mondes de [l'àine. Victor Hugo. CAP. I - IL REALE E L’IDEALE 7 sere. Il reale è necessario. Quale fondamento abbia questo ragionamento è troppo evidente. Forsechè è escluso che le cose possano essere diverse da ciò che sono, mentre per giudicarle tali, noi dobbiamo fatalmente aspettare ch'esse siano? Lo stesso principio di causalità, data l’in¬ finita combinazione degli elementi causali, che risalendo a ritroso degli effetti possiamo ricono¬ scere e più potremmo se più conoscessimo; è un'illusione, o meglio un simbolo logico. Nel mondo della coscienza, noi giudichiamo dalle possibilità, cioè da ciò che avrebbe potuto essere, a ciò che è in effetto, e perciò ammet¬ tiamo implicitamente una pluralità di eventi. È per questo che, mentre il dominio delle energie fisiche è concepito dai più come un universo, il dominio delle forze morali è praticamente trat¬ tato come un pluriverso (i). Questa è la ragione per cui, se siamo gene¬ ralmente disposti ad accettare la serie delle vi¬ cende naturali, che compongono l'evoluzione del nostro mondo, daH’altcrnarsi delle stagioni al¬ l’apparizione e alla scomparsa delle forme vitali, rispettando senza protesta la legge di natura, anche quando essa ci colpisce più crudamente, insorgiamo invece molto spesso contro l’atto umano, sia accusando la volontà che lo inspira, sia condannando gli effetti che ne derivano. È vero che talvolta il dolore ci muove ad ac- (i) W. James, The will lo believe. New-York, 1903. — The dilemma of detcrminism, pag. 145 e seg. 8 GIUSTIZIA cusare di crudeltà la natura o Dio; ma questa è una delle tante illusioni antropomorfe, a cui soggiace fatalmente il nostro spirito. Così l'anima dell'uomo è l’oscuro teatro di queste antinomie, che si rispecchiano nei mag¬ giori concetti elaborati dalla coscienza progres¬ siva, giustizia, verità, bellezza. La giustizia è una legge dell'universo? Per un certo lato l’uomo ha una irresistibile tendenza a crederlo, ed io penso che sia appunto questa communi* opimo che l'ha spinto così di buon ora alla costruzione d'un mondo metafisico, in cui si realizza un ordine di necessità morali, che noi siamo incapaci di raggiungere sulla terra. In questo senso il giusto ò divino; ciò e a dire, è un sistema di necessità prevolute e presta¬ bilite da Dio. Come però sempre Dio e le sue intenzioni sono stati composti con elementi psi¬ cologici ricavati dalla coscienza umana, ne con¬ segue che il concetto del giusto si dovette in¬ spirare alle finalità stesse dell’uomo, per quanto riferite alla volontà divina (i). (i) Fino a che punto possa spingersi questa trasla¬ zione alla volontà divina dei desideri e degli interessi dettati dall’ egoismo o dalla passione dell’uomo, pos¬ siamo giudicarlo dalla tranquilla dichiarazione di Stahl, quando afferma che Dio à, circa le questioni politiche e sociali più importanti, le stesse idee dei grandi pro¬ prietari rurali della Prussia. Gli e per questo, che il grido Dio lo vuole à potuto servire di giustificazione a tutte le iniquità e a tutte le follie. Un popolo o una fa¬ zione si impadroniscono di Dio, e se ne servono come CAP. I - IL REALE E L’IDEALE 9 I! pensiero religioso dell’umanità percorre questo lungo cammino: comincia coll'affermare incondizionatamente che ogni atto del volere e del potere divino è giusto. Giusto è ciò che Dio vuole, e termina concludendo che Dio vuole ciò che è giusto. La strada è assai lunga; perchè va dalla semplice constatazione dell’effetto alla meditata ricerca d’una causa. E qui è veramente tutto l’innato razionalismo d’ogni umana filosofia. Dire, come fa l’anima esclusivamente religiosa, Dio è giusto sia fatta la sua volontà, è accettare passivamente, senza spirito di critica, il corso delle vicende, di cui si ignora la legge moderatrice. Asseverare in¬ vece come fa Socrate n e\\'Eutifrone « il santo non è già ciò che gli Dei vogliono, bensì gli Dei lo vogliono perchè è il santo » o dichiarare come S. Tommaso, che la volontà divina si ac¬ corda col giusto, ovvero dire con Leibniz che il giusto è dell’essenza di Dio come il vero, e che le cose tutte giungono ad un’armonia pre¬ stabilita che si realizza nella mente di Dio, tutto ciò equivale a presupporre un ordine morale, una legge della condotta universale preesi¬ stente alla volontà stessa di Dio, e anzi fa rientrare Dio e la sua potenza nei piani razionali disegnati dalla nostra intelligenza; in una pa- stromento di guerra e di sterminio contro altre schiatte, contro altri partiti. A. Menger, Lo Stato socialista. Torino, 1905, pag. 210. — Renan, Histoire dii peup/e d‘Israel, I, 263, 264. Ziko Znri, Giustizia . 2 IO giustizia rola è l’uomo che si fa legislatore morale del¬ l'Universo (i). Da questo momento la ragione umana pre¬ tende di conoscere il perchè della volontà divina e della sua opera nel mondo, e in un certo senso essa sostituisce sè stessa nella intenzione e Creatore. Come del resto avrebbe potuto essere diver¬ samente, mentre questo Creatore, i suoi mezzi, i suoi fini, sono la proiezione antropomorfica dell’uomo stesso nell’infinito? Nè mutano le cose perchè l’uomo sostituisce Dio e vi mette al suo posto la natura; poiché ostinato nel suo invincibile antropomorfismo mette in realtà sempre sè stesso come norma dell Uni¬ verso, e quando crede di aver penetrato i se¬ creti propositi della natura, nelle vicende de mondo che lo circonda, non à in definitiva altro scoperto che la sua propria ragione e i fini, che essa è in grado dedicargli. Il diritto, esclama Grozio, esiste anche si darernus Deum non esse. E senza saperlo diceva una verità assai più pro¬ fonda di quello che non porti l’espressione ver¬ bale, poiché il diritto esiste in quanto esiste l’uomo, che lo sente e che lo pensa. Con questo la concezione di un diritto natu¬ rale non deve essere giudicata una semplice il¬ lusione teorica senza portata pratica. E una pio- fi) I Vanni, Lezioni di filosofia del diritto. Bologna, 1904, pag. 272 - 274 - - Th. Gomperz, Les penseurs de la Grece. Paris, i9°5> H> P a S - 37^ 377- CAP. I - IL REALE E L’IDEALE II fonda osservazione questa, fatta da Jaurès a proposito della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, che il diritto di natura, qual fu affermato dai legislatori della Grande Rivoluzione sulla traccia della Filosofia del XVIII secolo, à un profondo significato politico, che non può essere trascurato (i). Non è soltanto un astratto formulario, in cui si esprima lo spirito dottrinale di quella età; ma è sopratutto una reazione pratica contro Io stato di fatto e il sistema dei privilegi di classe sanzionato dalla tradizione storica; contro il di¬ ritto feudale ed ecclesiastico delle classi supe¬ riori, che vanta per la sua legittimità una lunga tradizione di secoli ed attesta la storia in suo favore, la borghesia, illuminata dalla ragione dei tempi nuovi, impugna Tarma del diritto na¬ turale, che il razionalismo filosofico à foggiato negli arsenali della speculazione giuridica e mo¬ rale, ed ai diplomi, alle pergamene dei nobili, dei preti, oppone titoli di ben più alta antichità e valore, titoli eterni scritti nel codice della na¬ tura e letti dalla ragione. La Ragione ecco la nuova Dea, installata vit¬ toriosa sugli altari del mondo ; il suo tempio spirituale eleva la fronte superba verso il cielo e sfida gli anatemi impotenti della credulità teo¬ logica; dentro al santuario ministrano, solenni (i) G. Salvemini, La Rivoluzione Francese. Milano, 1905, pag. 143. 12 GIUSTIZIA sacerdoti davanti al nume, i filosofi del XVIII se¬ colo ed ogni setta à la sua cappella particolare per celebrare il suo culto. E dalle solitarie celle dei pensatori, i suoi fanatici devoti traggono a forza, nella grande opera di demolizione sociale e morale della Rivoluzione, la strana divinità pei le vie di Parigi, tra il furore dei demagoghi, e l’offrono all’adorazione delle plebi, cosicché Dio e re siano decapitati nel medesimo tempo. L’uomo si persuade d’essere diventato arbitro del proprio destino : la società e il suo progresso sono l'opera della sua ragione, ed egli ne detta orgogliosamente il patto fondamentale e le leggi. Non si sarebbe potuto compiere una Rivolu¬ zione, nè instaurare un regime nuovo ab iviis senza questa audace presunzione. Bisogna rico¬ noscere questo merito ai dottrinari, che foggia¬ rono nei loro principi etico-giuridici quella leva possente del razionalismo critico per cui un mondo costituito fu spostato dal suo asse ; 1 umanità ci¬ vile compì allora uno sforzo immenso per aprire al proprio cammino una via nuova, e vi riuscì tra errori, delitti c follie ; ma per riuscirv i do¬ vette persuadersi dell’onnipotenza della sua ra¬ gione. Ma come suol sempre accadere, la ragione che era stata rivoluzionaria divenne presto conser¬ vatrice, quando sulla demolizione del passato ebbe inalzato il nuovo edifizio legislativo. Allora la legge diventa l’espressione positiva del giusto, e il legislatore il suo infallibile interprete. Cade il magico miraggio del Vernunftrecht , logico pio- CAP. ! • IL REALE E L IDEALE 13 dotto della mente umana, e trionfa l’empirismo a braccetto coll'utilitarismo economico; ciò che è legale è giusto ed ò legale ciò che è utile. Soltanto che una volta adottato come misura¬ tore degli atti lo standard dell' utilità, 1’ uomo diventa soggetto delle più curiose idiosincrasie morali, e troppo facilmente smarrisce il senso della giustizia nell’aspra difesa dell’interesse. Fortunatamente presto la critica riprende la sua rivincita sull’adesione pura e semplice allo statu quo. Penetra cogli studi biologici e storici la coscienza di una continua trasmutazione nei processi sociali e nelle relazioni etico-giuridiche tra gli umani, che li rispecchiano. Il diritto è una categoria della storia ( 1 ). La norma giuridica sorge come le altre ma¬ nifestazioni della vita collettiva nel clima storico di una determinata fase della civiltà. Dio non crea la giustizia, e non la scrive nelle tavole di pietra del suo decalogo, allo stesso modo che la natura non à fissata a priori la regola della vita umana e dell’umano destino. Le finalità del vivere collettivo non sono proposte, ma imposte in una ragionevole comprensione dello svolgi¬ mento civile dell'umanità, non proposte da una volontà intelligente e preordinatrice, nè da una forza originale e imperitura del mondo; bensì imposte dalle condizioni di fatto, storicamente mutevoli, logicamente interpretate e comprese dall’intelletto umano. (1) I. Vanni, op . cit . *4 GIUSTIZIA La giustizia è umana, come tutto ciò che forma parte del mondo spirituale; è sentimento ed idea. Essendo umana è relativa. Per una parte è rispetto di ciò che è, per altra parte è ten¬ denza verso ciò che dovrebbe essere. Tutto l’uomo è impastato di questa antinomia fondamentale; l'essere e il dover essere (sein und seinsollenden) ; l’essere è l’elemento fisico, il dover essere è l’elemento metafisico della nostra na¬ tura. Impossibile abolire l'uno a profitto dell altio, senza cadere nelle assurdità unilaterali dell'em¬ pirismo e dell’idealismo. Nel campo della giu¬ stizia l’essere è la legge, il legale; il dover essere è la coscienza individuale o collettiva, 1 ideale. Anche l’ideale è una forza del mondo, la maggior forza forse dell’universo spirituale. Essa sollecita lo sforzo, illumina l'intelligenza, indirizza ed ec¬ cita la volontà, attua il progresso morale. L’onda incalzante della giustizia riformatrice che investe la coscienza moderna, trae le sue scaturigini da questo profondo sentimento del dover essere che contrapponendosi alle crudeli ed aspre necessità di ciò che realmente è, sollecita l'umanità all at¬ tuazione progressiva de’ suoi stessi ideali. CAPITOLO IL La giustizia come idea ed emozione. Poche parole hanno nel vocabolario di tutte le genti un uso così frequente, e possono dar adito a tanto soffio di passione e di speranza, come questa divina parola di giustizia, che sembra contenere ancora in sò qualche parte di quella essenza sacra, che animava l’intimo senso della antichissima c misteriosa radice, donde prima¬ mente sorse negli idiomi della nostra stirpe il vocabolo, destinato a chiudere, nel breve giro delle sue sillabe, il più nobile sentimento e in pari tempo l'idea più elevata dell'umanità (i). Tutti gli interessi vitali vi sono strettamente congiunti, i primi e fondamentali bisogni del cibo, delle vesti, del ricovero, dell’amore ; e poi (i) A. Fick, Vergleichendes IVórterbuch der Indoger- manischen Sprachen. Gottingen, 1891-1894, 1 . Th. S. 112. — M. Bréal et A. Bailly, Dictionnaire étymologique latin. Paris, 1891, pag. 143-144. i6 GIUSTIZIA via via gli altri secondari, quelli che nascono dalla vita di relazione e dalla simpatia, amor proprio e 1 amor alti ni ( i)- Gli è che veramente il contenuto morale e sociale di questa parola è così denso di pensiero ed ingloba un così grande numero di assodati psichici, tanto di natura emotiva quanto din - La intellettuale, da formare una delle piu abbon¬ danti masse appercettive, come d,cono > P^ | oai moderni, sempre pronta ad essere posta m movimento. Ciò deve essere considerato come la base di quella speciale reazione, che chiamiamo il senso della giustizia. Il suo contenuto psichico è tale, che, rievocandolo è quasi tutta la vita dell'umanità che si suscita: lotta, violenza, tirannia del forte sul debole, la donna, >1 fanciullo, lo schiavo ; arbitrio di classi, oppressioni di Stato di Chiesa, dall’antropofagia all’iniquità protezio¬ nista ; inanello stesso tempo anche tutto 1 apo¬ stolato umano, lo spirito di tutte le rivendica¬ zioni, l’anima di tutte le rivoluzioni. Fiatjustitia , pereat mundus. (!) Antichissimo e fortemente radicato nella diffusa coscienza collettiva è questo senso della giustizia, semp ' mutato sul vecchio tronco delle idee teologich eTei sistemi religiosi. Conf. G. Maspero, Histoireatu cienne des peupies de VOrient class,que a™, na „ l 8 g-ioo. - Chantefie de la Saussaye, Marne , ttératurefrecque, Paris, 1896-99, l P*S- 4T9&* III, pag. 265. CAP. H - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 17 La giustizia è stata quasi sempre considerata piuttosto come un’idea che non come un senti¬ mento. Orbene è precisamente il contrario che avrebbe dovuto essere. Questo della giustizia è prima di tutto un quesito psicologico. Il lato emotivo della giustizia precede quello intellettivo. Questa reazione cosciente dell’orga- nismo nervoso, che afferma il suo diritto alla sopravvivenza, è all'inizio, come Bacone aveva già divinato ed espresso colla forte indicazione di wild, justice, un impulso alla vendetta, prima personale, e poi collettiva (i). Tutta la primitiva storia della giustizia, rico¬ strutta sui dati della antropologia e della socio¬ logia comparate (ad es. da Letoumeau), ne è una dimostrazione inconfutabile ( 2 ). Ella s’impernia sul taglione, questa roccaforte d’ogni istituzione penale, che mostra d’essere talmente legata al meccanismo fisio-psichico della nostra natura, che dopo secoli e millenni, corrisponde ancora al metro comune della giustizia repressiva presso i popoli più civili e trova la sua legittimazione morale nella nota formola : quia peccatovi. Nè serve a mascherarla il celare la sua odiosa faccia di bassa brutalità sotto la vernice della vendetta sociale, colla quale avremmo forse la pretesa d’averla nobilitata. In fondo è la stessa wild jus¬ tice che parla oggi per bocca d’un così detto (1) J. M. Baldwin, Diciionary of philosophy. London, 1901, voi. I, pag. 585 e seg., art. justice. (2) C11. Letourneau, L’évolution juridique. Paris, 1891. Zrwo Zini, Giustizia. 3 i8 GIUSTIZIA difensore della società nei nostri tribunali ; come quella che armava il braccio dell’abitatore delle caverne (i). L’espressione mosaica: occhio per occhio, dente per dente e l’espressione evangelica. qui gladio ferti gladio perit\ coincidono colla legge del contrappasso, che suggerì al poeta cristiano di comporre quella mostruosa architettura pe¬ nale, che faceva inorridire giustamente Scho¬ penhauer. La reazione all’offesa è il sentimento della giustizia; almeno in parte (2). Nell’animale può manifestarsi colla forma della vendetta. L’intelligenza animale arriva fino a ciò (3). Ma per aver la reazione, bisogna avere la forza ed anche la sua coscienza, donde nasce il diritto. L’essere debole non reagisce, subisce ed accetta. Nel rapporto di sola subordinazione non c è possibilità di questa coscienza giuridica, non si sente l’ingiustizia. I viaggiatori sono concordi nel dipingerci la remissione passiva del selvaggio di fronte alla violenza del capo. Schweinfurth narra, che un re Niam Niam si divertiva a prendere di tempo in tempo al laccio un uomo nella folla, che stava ai piedi del suo trono, e poi a tagliargli la testa (4). L’onnipotenza del capo si estende dalla persona alle cose. Così nell’Oceania, mentre (1) H. SinuwicK, The methods of Ethics. London, 1900, pag. 281. — H. Hóffding, Morale, ecc. Paris, 1903, pag. 511 e seg. (2) F. Paulsen, System der Ethik. Berlin, 19°°. ‘L B. S. 128 f. (3) H. Spencer, La giustizia. Trad. it., prime pagine. (4) Letourneau, op. cit., pag. 85. CAP. U - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 19 un capo neo-zelandese, che aveva commesso uno di questi assassini regali, montava, come ci riferisce Cook, in una grandissima collera, quando gli si diceva che per una cosa così perfettamente insignificante, egli sarebbe stato impiccato in In¬ ghilterra, questi medesimi capi sulle terre dei loro soggetti, si attribuiscono il diritto di tagliar alberi, cogliere frutti; tanto che quando uno d'essi diceva ad un indigeno: a chi appartiene questo maiale, o questo albero, il proprietario non rispondeva mai: a me; ma sempre: a te e a me (i). Maupassant racconta d’aver assistito in Al¬ geria ad un curioso episodio. All’angolo d’una via un fanciullo gli lustrava le scarpe; appena egli ebbe terminata la sua operazione, e Maupas¬ sant gli ebbe gettata una piccola moneta, ecco che dall’altro canto della strada un moro sui se¬ dici anni, che era rimasto fino allora a guardare, si leva di botto, si getta sopra il lustrascarpe, lo butta a terra e violentemente gli strappa di mano la moneta, quindi ritorna tranquillamente al suo posto come un nibbio rapace farebbe, dopo aver ghermita la preda. Tutto ciò s'era svolto nel modo più naturale di questo mondo, senza che a nessuno dei presenti venisse in mente di protestare in favore del debole op¬ presso, quasi si sarebbe potuto dire senza che nemmeno questi si mostrasse troppo maravi- (1) Letourneau, op . cit ., pag. 57-59. 20 GIUSTIZIA gliato del fatto, non ostante le sue alte strida di protesta. Forse egli nel suo pensiero accettava la grande legge naturale del più forte, preparan¬ dosi inconsciamente per la suggestione dell e- scmpio, ad esercitarla un giorno egli stesso sopra qualche altro più debole di lui. Così praticamente si forma la gerarchia (i). ( "Un”breve aneddoto di questo genere vale più per la storia della formazione naturale della giu¬ stizia, che molti volumi di astruserie filosofiche. La facile rassegnazione delle classi inferiori al loro destino di iniquità e di oppressione è un fatto troppo noto. La schiavitù stessa, che ai nostri occhi appare come l'estrema delle miserie e tanto insostenibile da preferirle la morte, non soltanto trovò modo di farsi giustificare dalla morale pagana e dalla teologia cristiana, che questo può ancora spiegarsi coll egoismo degli interessati, ma ciò che più ci stupisce fu accettata, senza protesta, almeno nella grandissima geneia- lità dei casi, da coloro stessi che ne erano le vittime. In una commedia di Plauto uno schiavo dice tranquillamente ricordando la croce, eh era l’ignominioso supplicio dei servi ribelli : so bene, che quello è il sepolcro che mi aspetta; là sono andati a finire il padre, l'avo, il bisavolo e il tri¬ savolo (2). Tutta la storia è la dimostrazione pra¬ ti) Maupassant, Au soleil, pag. 19-20. (2) Plautus, Miles gloriosus, act. Il, scena IV, v. 19-20: .. scio crucem futuram mihi sepolchrum: ibi mei maiores sunt siti, pater, avos, proavos, abavos. CAP. II - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 21 tica di questo silenzio del sentimento della giu¬ stizia, nella coscienza degli oppressi. 11 popolo è un personaggio muto nella tragedia umana, che ha bisogno, che qualcuno prenda la parola per lui. Nelle rivoluzioni alla difesa del diritto dei deboli e dei soggetti scendono in tutti i tempi uomini d’aristocrazia o per lo meno d'una classe supe¬ riore. Le conquiste della giustizia sono il frutto della propaganda di uomini, che sentono l’ingiu¬ stizia. Ora questi non possono mai essere gli oppressi, o almeno non gli oppressi soltanto. Bi¬ sogna avere dei diritti ed in pari tempo la loro coscienza, per difenderli in nome della giustizia. Qui siamo di fronte al problema fondamen¬ tale: l’apparizione del sentimento della giustizia verso gli altri. La spiegazione di questo grande miracolo può esser tentata dalla psicologia. Questa gio¬ vine scienza è ai suoi primi passi, ma conta di già, assai belle vittorie. Essa volge le sue inda¬ gini là dove i fenomeni sono più semplici, e le sue esplorazioni delicate nei domini dello spirito infantile, mettono in viva luce molti fatti e molte leggi della nostra vita intellettuale e morale. Nel bambino rivive la specie; anche se la legge biogenetica di Haeckel, non resiste nella sua schematica espressione alla critica; è però indu¬ bitato, scrive Baldwin, che per ciò che concerne l’uomo, in lui le tendenze sono essenzialmente ereditarie, e il loro esercizio spontaneo nel barn- 22 GIUSTIZIA bino dimostra la legge di ricapitolazione nel suo significato fondamentale (t). Oggi possediamo già una ricca letteratura sopra questo argomento. Nessuno però meglio di Baldwin ha saputo rintracciare nei complicati processi psichici, che hanno per teatro l’anima infantile, il sorgere e lo svilupparsi della coscienza sociale (2). I due poh della personalità, l 'ego e Valter , sono il frutto della reciproca azione dell'individuo sul gruppo, e del gruppo sull’individuo. In questo senso tanto 1 ' e go quanto Valter sono sociali, ciascuno è un socius creato per imitazione. L’analisi della co¬ scienza dimostra, che le qualità considerate come personali sono dovute al trasporto delle qualità daWalter àSìego per via d’imitazione. Ciò che l’individuo considera sè stesso è il risultato d una lunga incorporazione di elementi, che in una concezione anteriore della propria personalità il soggetto considerava come estranei. Le mie qualità hanno queste origini altrui. Allo stesso modo, tutto quello che è in me, tendo a trasportarlo negli altri. L 'ego e Valter sono pel nostro pensiero una sola e stessa cosa. Di qui nasce il senso dell’uguaglianza. Quando dico : siccome questa è la mia natura, così è nel mio interesse procacciarmi questa data condi¬ ti) Baldwin, Interprétation morale et sociale du deve- loppement meritai. Paris, 1899, pag. 186. — Confi Id., Développement mental ches Penfant et la race. Paris, 1897. (2) Baldwin, Interprétation, eie., pag. io e seg. CAP. !I - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 23 zione ; debbo attribuire agli altri le stesse qualità e perciò anche la medesima mia sorte. 11 predi¬ cato è una funzione di quel tutto che chiamiamo \'io] quanto a lungo il soggetto non varia, il pre¬ dicato rimane anche lo stesso. Questo senso d'eguaglianza d’interessi, di meriti e di destino, dipendenti da una situazione umana identica nel¬ l'evoluzione della personalità, è, dal punto di vista astratto, il senso della giustizia; e dal punto di vista concreto il sentimento della simpatia verso gli altri (i). Il concetto stesso d’interesse, che rap¬ presenta il fulcro di tutti i sistemi edonistici ed utilitari vecchi e nuovi, quando lo si consideri in rapporto a noi, implica necessariamente che Xcgo ponga Xalter sopra un piede d’uguaglianza. Gli interessi dell’uno, le cose di cui Xego ha bi¬ sogno per vivere, sono appunto le cose, che per lo stesso ragionamento egli accorda che gli altri abbiano un pari diritto di ricercare. Quando l’uomo cerca la propria soddisfazione a spese altrui, fa violenza alle sue tendenze di simpatia e al suo senso di giustizia. Quindi diminuisce la propria soddisfazione. Tale è il pensiero dello psicologo americano. Per mio conto io trovo che la sua analisi è stata fatta sotto una luce troppo rosea. Si direbbe che il suo spirito sia penetrato di quella stessa atmosfera legalitaria, che im¬ pronta la vita democratica del suo paese. (i) G. T. Ladd , Philosophy of conduci. New-York, 1902, pag. 290. 24 GIUSTIZIA La natura dei nostri rapporti cogli altri è in realtà assai più complessa e dipende dalla posi¬ zione che abbiamo assunto in faccia a loro. Del resto Baldwin stesso riconosce, che il fanciullo presenta due opposti caratteri ; per un lato è os¬ sequente, servile, imitatore, ossia un vero sog¬ getto delle suggestioni, che gli vengono dal¬ l’esterno, dalle persone che impara a riconoscere superiori. Dall’altro lato è audace, aggressivo ed inventivo, verso tutto ciò cui riesce ad imporsi. Molti osservatori superficiali avevano portato 1 at¬ tenzione quasi esclusivamente sopra questo lato elettivo della personalità infantile. Quindi la facile accusa di egoismo sfrenato, di crudeltà innata, di istintiva ribellione. Le belle pagine di Suliy consacrate a questo argomento distruggono tale pregiudizio (i). C’è tutto il lato opposto, l’elemento soggettivo dell’», che conduce il bambino all’imi¬ tazione dei maggiori per bisogno d’adattamento sociale, e gli fa assumere un atteggiamento su¬ bordinato verso quelle classi di persone, che hanno un carattere di comando, di autorità, di dire¬ zione sopra di lui e dalle .quali ha sempre qual¬ cosa da imparare. Al contrario è aggressivo verso i minori di lui; li plasma a capriccio e li conduce, perchè li conosce benissimo negli atti e nei pensieri; sono la sua eiezione, li opprime e li calpesta. Ma l’analisi non può arrestarsi qui. Dal padre al fratello e alla sorella minori ci sono (i) J. Sully, Studies in chiìdhood, eh. VII. CAP. li - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 25 dei punti di passaggio, degli stati, quasi direi di equilibrio, tra il soggetto e l'oggetto; c’è la classe degli eguali. Già la madre si trova in parte in questa condizione di elemento medio. Pel bam¬ bino ci sono per così dire due madri, quella che lo dirige e quella che gli cede secondo le occa¬ sioni. Ma più ancora sono in tal condizione i suoi coetanei, i suoi fratelli pressa poco della medesima età, che si trovano sottoposti con lui ad una autorità pari. Qui il vero senso del so- cius ha l’occasione di formarsi per una serie di esperienze nella vita famigliare. Qui si elabora quello spirito di giustizia infantile, quel rigido formalismo che fa del fanciullo a tavola, nei giochi, nella ripartizione dei piccoli premi e delle piccole pene della società domestica, un così ri¬ goroso osservatore della giustizia. Bisogna os¬ servare i fanciulli a tavola, quando si sorvegliano l’un l’altro nella distribuzione delle vivande, mi¬ surando il più o il meno cogli occhi, per cogliere sul vivo la genesi della giustizia inter pares. La scuola è poi l’altra grande palestra di questo medesimo tirocinio. Occorre però aggiungere quest’altra osservazione: l'uomo è l’animale sim¬ metrico per eccellenza. Questo senso della misura e della proporzione è senza alcun dubbio uno degli elementi più importanti della psicologia giuridica. Nel gesto, nei movimenti di marcia, come nel linguaggio, come in tutti gli aspetti della condotta umana c'è questo principio d’or¬ dine, di simmetria, di misura. L’antica idea dei Pitagorici del numero, come principio universale Znjo Zini, Giustizia. 4 26 GIUSTIZIA e simbolo dell'assoluto, non è forse che l’intui¬ zione di questa legge d'armonia. Sotto questo aspetto istintiva è la ribellione contro 1 ingiusto, ossia contro ciò che turba la simmetria umana. Caratteristica è al riguardo la condotta del bam¬ bino. 11 formalismo infantile è forse un’inconsa¬ pevole obbedienza alla legge della simmetria. I bambini sono giudici scrupolosamente ligi ad un principio d imparzialita letteialmente intesa. L’uomo è istintivamente giusto, perchè è istin¬ tivamente simmetrico. La vita di relazione, col¬ l’esercizio continuo del confronto, sviluppa in modo particolare questo senso della giustizia; la definizione romana dell’ unicuique suum tribuere, e quella dantesca di proporzione da uomo a uomo, contengono una verità profonda. La co¬ scienza della giustizia, che Aristotele chiama commutativa, è una formazione empii ica, i cui inizi si possono scorgere benissimo nella vita infantile e in quella dei primitivi; in ogni atto di scambio il do ut des , compresa anche la va¬ riazione del facias , è un’esperienza d’un’ evi¬ denza palmare. La giustizia diortetica o repressiva è la reazione contro l’offesa, è il ristabilimento dell’ordine turbato. Questo elemento attivo della giustizia sociale, che chiamiamo la coazione al riconoscimento e al rispetto delle esigenze sociali, è sempre subor¬ dinato al sentimento vivace d’un ordine e d'una proporzione tra i consoci; insomma è psicolo¬ gicamente una domanda di correzione della giu¬ stizia offesa; più che un elemento intrinseco di CAP. Il - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 27 essa. D’altronde emerge qui un elemento utili¬ tario di capitale importanza. Perciò è in esso che la materializzazione della giustizia nella legge mostra avere le sue prime radici. Perchè la giu¬ stizia legale, messe a parte le sue funzioni pu¬ ramente interpretative, rappresenta essenzial¬ mente una coazione sia colla prevenzione, sia colla pena, e la coazione è necessaria alla con¬ servazione dell’ordine sociale. Giustizia e legge penale, primamente sorte da un originario im¬ pulso di vendetta, rappresentano la più antica forma di giustizia. Durkheim ha dimostrato, che i popoli primitivi conoscono soltanto le forme della giustizia criminale, e che la giustizia civile ha uno sviluppo posteriore (i). Infine la giustizia distributiva è la più difficile a sentirsi — la natura o Dio, nella creazione, non sembrano rispettarla; vi è il grande e il piccolo, il bello e il brutto, il forte e il debole, ecc.... V’è insomma la disparità, l'iniquità in tutto il regno naturale e in tutta la vita. Anche lo stato sociale, che è un aspetto della natura o del vo¬ lere divino, manca di giustizia distributiva, anche se intesa aristotelicamente, non come una pro¬ porzione basata sull’eguaglianza, bensì come una proporzione secondo il merito. Eppure nonostante la lezione impartitagli quotidianamente dalla na- (1) Baldwin, Dictionary of philosophy, I, pag. 586. — Durkheim, De la division du travati social. Paris, 1893, pag. 148-157. — Barth, Die Philosophie der Geschichte als Sociologie, I, 86. 28 GIUSTIZIA tura, l’uomo crede fermamente alla giustizia di¬ stributiva. Dalla dispotia asiatica alla democrazia moderna è uno sforzo verso questo limite forse irraggiungibile, la giustizia politica ed economica. La progressiva evoluzione di questa coscienza si svolge nei rapporti di classe, e si afferma man mano che le differenze di nascita, di ricchezza, di coltura tendono a diminuire. Tutte le forme d’aristocrazia contrariano il normale sviluppo del senso della giustizia, quella del sangue, come quella del danaro e dell’ingegno. Il Cristianesimo ha scritto qui una delle sue più belle pagine, fondando sulla fede religiosa l'identità di natura umana, nobilitando ogni spirito , condannando ogni forma di violenza fisica e morale, procla¬ mando la fratellanza. Questo senso superiore della giustizia distri¬ butiva, che va oltre alla semplice reazione del risentimento all’offesa, che sollecita alla vendetta; e nel medesimo tempo eccede gli angusti confini psicologici della simmetria contrattuale, è desti¬ nato a far salire l’uomo alla coscienza del di¬ ritto come integrazione della personalità sociale, ossia come facoltà, riconosciuta a sè e agli altri di far convergere in una certa misura le utilità sociali a vantaggio individuale. Questo sentimento tende a realizzare nel mondo umano un certo ordine, una certa proporzione finalistica, suggerita da imperiosi bisogni di natura ideale, i quali de¬ vono o dovrebbero trovare la loro soddisfazione nel fatto corrispondente. Non è facile spiegare la genesi di simili stati affettivi, che pure rappre- CAP. II - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 2(J sentano una delle maggiori conquiste spirituali dell’umanità, donde sorge il più efficace impulso a quella generosa lotta per il diritto, Kampf utn Rechi , che, giusta la bella concezione di Jlicring, forma veramente la trama della storia politica. Certamente l’uomo non apprese dalla natura questa lezione, perchè la giustizia non è nella natura, fuori di noi, dove c’è solamente la cau¬ salità, bensì dentro di noi, dove c’è la finalità. Tutto quello che accade fuori di noi, nella natura fisica, è il reale, perciò non può essere giudicato nè buono, nè cattivo, nè giusto, nè ingiusto ; ma quello che accade dentro la nostra coscienza è l'ideale, c su questo possiamo pronunciare il nostro apprezzamento di approvazione o di con¬ danna. Ma, come già si disse, più della idea astratta di giustizia, una filosofia dovrebbe pre¬ occuparsi della genesi del sentimento, ossia della giustizia concreta. Certamente essa nasce nel rapporto umano da un giudizio comparativo, in¬ consapevolmente imposto all’uomo dall’istinto imitativo di fronte all’atto o possesso del suo si¬ mile ; in condizioni pure relativamente uguali, quali dovettero essere quelle dei membri del gruppo iniziale. Le sue origini si dovrebbero rintracciare con un processo analogo a quello usato da Baldwin per spiegare la formazione del sentimento morale, e la disciplina sociale nel fanciullo. Molto opportunamente James pone l’impulso all imitazione come una delle forze che maggior¬ mente concorrono allo svolgimento e al progresso 3o GIUSTIZIA della vita sociale (i). Homo sum et humani nihil a me alienum puto , dice il vecchio poeta latino. Ciò che stimola l’uomo all’azione, è veramente questo continuo giudizio di comparazione, ch'egli instituisce tra sè e gli altri, generalmente s in¬ tende quelli che gli stanno dinanzi. Guardarsi all’indietro suppone uno sforzo mentale, precisa¬ mente come piegare il collo, per vedere alle spalle. La visione naturale è davanti a noi, nella strada della vita come su quella della terra. L’uomo è propriamente una creatura nata con istinti egualitari, o meglio con impulso irresistibile a prendere, a fare e ad ottenere quello, che gli altri prendono, fanno ed ottengono (2). Dante aveva già detto così splendidamente : O gente umana, perchè poni il core • là Vè mestier di consorto divieto ? Il gran male è appunto che tutto ciò che pren¬ diamo noi, non lo possono avere gli altri. Ma non è tutto qui. Le relazioni che l’uomo può istituire intorno a sè sono di tre specie : rapporti di superordinazione, di subordinazione e di coor¬ dinazione; cioè a dire rapporti di comando verso gli inferiori, rapporti di obbedienza verso i su¬ periori e finalmente rapporti di reciprocità cogli eguali. Il fatto giuridico, il fatto morale e quello religioso hanno qui rispettivamente le loro sfere di svolgimento. (1) W. James, Principii di psicologia. Milano, 1900, pag. 718. (2) Dante, Purg., XIV, 86-87. CAP. ti - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 3I Che cosa infatti fa il capo politico in ogni consorzio umano? rende giustizia a' suoi subor¬ dinati, creando la massima di diritto. Che fa il suddito verso il suo signore, re sulla terra e Dio nel cielo? ubbidisce, supplica, si raccomanda, scongiura. Il potere politico è un sostitutivo ter¬ restre di quello divino. Ciò soltanto permette di comprendere come mai abbia potuto essere esteso fino al massimo arbitrio. Ogni governo è in origine teocratico, e il cerimoniale di rispetto che circonda ancor oggi la funzione di Stato e i suoi rappresentanti, dalla maestà sovrana all’eccellenza ministeriale e alla inviolabilità parlamentare, è il residuo metamor- fizzato del culto verso la divinità. Ancor oggi lo Stato, come la Chiesa fa col miracolo e colla grazia, governa coll’arbitrio e col favoritismo. Il miracolo è la violenza fatta alla legge na¬ turale e corrisponde all'arbitrio, che è la violenza fatta alla legge sociale. Non è possibile a molti, anche nei sistemi rappresentativi, vedere nei membri del governo, deputati, ministri, altro che i depositari d’un potere superiore, che si tratta di propiziare. Una distanza insormontabile nella coscienza generale separa chi comanda da chi è comandato. La legge della subordinazione impera tuttora negli spiriti, per forza ancestrale. Il feticismo go¬ vernativo è la religione dei tempi nuovi. Lo Stato provvidenza ha preso il posto della divina prov¬ videnza, a lui tutto si domanda e da lui tutto 32 GIUSTIZIA si aspetta. Ni Dieu , ni maitre , sarebbe la vera formula della redenzione umana, se non fosse un’utopia. L’organizzazione militare è il più splendido esempio di questo genere di relazioni umane fondate sulla subordinazione. Vi sono tra gli uomini i temperamenti dell’autorità e quelli del¬ l'obbedienza. L'esemplificazione di ciò è tutti i giorni sotto i nostri occhi. Alcuni fanciulli mo¬ strano l’attitudine al comando, imponendosi per 1 ’ iniziativa, la prepotenza, il maggior egoismo nella famiglia, nella scuola; mentre per altri, in collegio e in molti altri casi, 1’ obbedienza e la sommessione è spontanea. Dickens ha illustrato assai finemente, in alcune scene del David Copperfield , questa genesi spon¬ tanea della gerarchia in un gruppo di ragazzi ; il fenomeno criminale nella madia e nella ca¬ morra riproduce lo stesso fatto. In fondo l'or¬ dine sociale è un complicato sistema di subor¬ dinazioni e di superordinazioni che va dalle caste ai regimi democratici, attenuandosi da forme materiali e violente a forme morali e pacifiche. Tutti abbiamo dei capi, dei superiori. La mo¬ narchia assoluta attaccò il primo anello della ca¬ tena all’uncino della divinità, caput auctoritatis y fondando il potere incondizionato sulla terra, Dieu et mon droit{\). Oggi giorno la superordina- (i) Richelieu afferma attorno alle azioni dei Re (Me- ntoires. Année 1626, éd. Petitot, III, pag. 24, Paris, 1823I: “ Qui serait le juge de ces choses? Qui les considé- CAP. II • LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 33 zione assoluta non esiste più, il relativismo è nel campo politico come in ogni altro ordine feno¬ menico. L eguaglianza del diritto segna 1 ' avvento di una giustizia nuova, mter pares\ solamente però la progressiva perequazione economica può tras¬ formare il diritto ideale nel fatto, ed operare il passaggio dalla giustizia astratta a quella con¬ creta. Le classi medie sono evidentemente le prime a sentire la giustizia. Esse infatti sono nello stesso tempo subordinate, coordinate e sopraordinate. Le aristocrazie sacerdotali e militari hanno il privilegio ancora alla vigilia della storia contem¬ poranea. Le plebi dei campi e delle città non hanno che la tradizione del servaggio. La co¬ scienza del diritto si sveglia nel terzo stato, la borghesia moderna eminentemente legislatrice, rerait sans passion et sans intcrèt? Ce ne serait pas le pape, qui est prince temporei et n’a pas telleinent re- noncé aux grandeurs de la terre, qu’il y soit indifterent. Il n’y a que Dieu seul qui en puisse ótre juge. Aussi les rois ne pèchent-ils qu’envers lui, à qui seul appar¬ tieni la connaissance de leurs actions „. — Bossuet (Po- litique, liv. V, art. i, prop. 2), scrive: “ Ils sont des dieux. Il n’y a que Dieu qui puisse juger de leurs jugements et de leurs personnes „. Tutto il potere viene da Dio : noti est potestas nisi in Deo, dice la Scrittura. — Bossuet, op. ci/., 1 . Ili, art. 1, prop. 12: " Ils sont sacrés par leurs charges, cornine étant des représentants de la Majesté divine, députés par sa Providence à l’exécution de ses desseins — Conf. Id., Troisièttte Sermon pour le dimanche des Rameaux, sur les devoirs des rois. Zino Zini, Giustizia. 5 34 GIUSTIZIA ricca, colta e specificata nella funzione di lavoro mentale ed economico (i). La borghesia crea la I e gg e i e pone il fondamento del contratto politico e civile colla Rivoluzione e col codice Napoleone, tra le classi dello Stato. In che modo il proleta¬ riato agricolo ed industriale potrà fare altrettanto? Passando dalla semplice subordinazione alla coor¬ dinazione sociale. L'organizzazione professio¬ nale, creando la funzione specifica dell’operaio selezionato, fa passare la massa lavoratrice dallo stato di aggregazione amorfa e di conseguente subordinazione servile, a quello di coordinazione funzionale nel corpo sociale. Solo il differen¬ ziamento produce la cooperazione civile e perciò fonda il diritto. L’iniquità sociale ha la sua spiegazione nello stato esclusivamente aggregativo di quelle parti del corpo sociale, sulle quali essa pesa da secoli e da millenni. Coloro, che seguiranno il mio pen¬ siero, potranno forse persuadersi di questa verità, che forma il punto centrale della mia specula¬ zione intorno alla genesi e allo sviluppo dei fe¬ nomeni sociali. L’elevazione intellettuale, morale e materiale del proletariato, mediante Porgano¬ li) L’Orfisrao, che è fortemente penetrato dell’idea di giustizia, à le sue radici nel ceto medio della società greca, e si presenta coi tratti caratteristici di dottrina etico-religiosa d’una classe pacifica in opposizione agli ideali dell’aristocrazia eroica. Dike e Nómos sono le due divinità del Panteon orfico invocate dai deboli contro i potenti. Confi Gomperz, op. cit., I, pag. 147-148. CAP. Il - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 35 zazione operaia e il progresso tecnico nel pro¬ cesso industriale, crea, col differenziamento pro¬ fessionale, l’operaio qualificato (skilled) ; ed esso si trasforma sempre più in organo del corpo so¬ ciale, e la sua funzione cooperativa lo fa sog¬ getto di diritto. Nel rapporto di coordinazione si afferma il diritto, sotto l' impulso convergente della sim¬ metria e della imitazione. Bisogna pervenire al¬ l'idea del proprio simile, per concepire l’iniquità e partecipare a quella particolar forma d’emo¬ zione, che è il sentimento della giustizia disinte¬ ressata. Certo sotto questo rispetto vi deve essere una grande varietà individuale. Vi sono uomini in cui appare quasi congenito il sentimento del giusto : questi spiriti si inalberano quasi istinti¬ vamente di fronte a ciò, che ai loro occhi è una ingiuria fatta al proprio simile, e si accendono di passione, e scattano di rivolta e di protesta. Certamente questi uomini sono dotati d’una più forte dose di simpatia, per quanto non si possa forse ancora risolvere la questione, se questo maggiore altruismo non sia che l’effetto d’una più intensa cerebrazione. Vorrei dire che forse l'uomo, che ha più vivo e più largo il sentimento della giustizia, deve probabilmente una tale ric¬ chezza emotiva al modo stesso di comprendere i rapporti umani e di giudicarli; la sua perce¬ zione è diversa da quella dell’egoista, la visione di quest’ultimo è unilaterale e limitata all’inte¬ resse personale. La reazione individuale di fronte all’ offesa 36 giustizia nostra od altrui è misurata da un’equazione per¬ sonale, che molto verosimilmente dipende dalla massa appercettiva, in cui viene a conglobarsi. Ciascuno à l’esperienza di molti uomini preva¬ lentemente egoisti; alcuni per ristrettezza men¬ tale non riescono a sollevarsi oltre l'angusta cerchia del bisogno o del piacere proprio, affer¬ mano energicamente se stessi nella brutale igno¬ ranza d’un egoismo fanciullesco e fastidioso, in¬ differenti a ciò che non li tocca direttamente, rinnegano in buona fede la parte migliore della vita collettiva e della solidarietà umana, e mo¬ strano dinanzi a pericoli, lotte e sventure o en¬ tusiasmi di portata comune, un’ottusità sentimen¬ tale, che li emancipa da ogni forma di attività simpatica. In altri 1 egoismo è dominatore, e la reazione ingiusta ha un carattere prevalentemente attivo. Ingegni robusti, appetiti violenti, ener¬ giche volontà, questi tipi umani formano la ca¬ tegoria degli eroi nietzschiani, divoratori del branco. Evidentemente l’uomo non è animale socie¬ vole sempre allo stesso grado, è indubitato anzi che la socievolezza sia come intensità sia come estensione è sentita assai diversamente. Molti non escono dall egoismo del gruppo famigliare o pro¬ fessionale ; 1 unisono politico od umano non si raggiunge eccezionalmente che dai riformatori o dai poeti. Eppure questa è la mèta. Sentire 1’ umanità, forse anche più in là, il mondo ; religione, filosofìa, scienza, arte ànno fatto, fanno o faranno questo miracolo generale. I poeti hanno descritto per intuizione mera- CAP. Il - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 37 vigliosa questa emozione della giustizia; che prende talvolta l’intensità d’una vera passione, il cui fondo è una forma dell'ira generosa, uno zelo o sdegno ; un santo odio, odi iniquitatcm , disse Gregorio VII, e negli antichi profeti ebraici come nell’ardente terzina dantesca è sempre il mede¬ simo sentimento. Flaubert ha reso potentemente questa passione della giustizia in un cuore semplice, l'umile eroe popolare dell 'Éducation sentimentale (i). Anche Dio di fronte alla colpa dell'uomo è nella stessa condizione. Il suo giudizio è un Dies irae, la sua giustizia è un atto di grandissimo sdegno contro quelli che muoion nell’ ira di Dio. Gli uomini giusti, dice Ratzenhofer, sono quelli sui quali la società può maggiormente contare (i) Renan, Histoire dii pettp/e d'Israèl, III, pag. 153 e seg., 164 e seg.; dove traccia in modo insuperabile la psicologia dell’apostolo della giustizia, illustrando quel tipo rappresentativo del profetismo giudaico che è Ge¬ remia. G. Flaubert, L‘Éducation sentimentale, pag. 284. — Rousseau, questo sentimentale che à soggiogato tutta una società col fascino della sua natura passionale, de¬ scrive nelle Confessions, Part. I, liv. 1 , pag. 14-15 (Paris, Garnier), l’emozione dell’ingiusto nella sua stessa anima di fanciullo. Sul carattere specifico dell’emozione del giusto, conf. James, The wi/l to be/ieve, pag. 187. Sul va¬ lore morale dello sdegno verso l’iniquo: Hòffding, op. cit-, pag. 528. — Aristotele intende per Nemesis, il sentimento che noi proviamo di fronte alla felicità del¬ l’uomo indegno. Etìiic. Nic. Lipsiae Teub. 1903, B, 7, 1108 b, 1. 38 GIUSTI-ZIA ' P cr 1 ° sviluppo del progresso civile, e ad essi perciò dovrebbe legittimamente appartenere il governo. Se i pubblici offici cadono in mani inique, l'edificio sociale è scosso dalle sue basi. Il più gran sintomo di decadenza è la corruzione della giustizia, però molto a proposito definita dall'Ardigò, come la forza specifica deH’organismo sociale. Gli eroi della morale (Die Helden des Ethos), i quali vivono, secondo l'espressione dan¬ tesca, Esuriendo sempre quanto è giusto; sono quelli che prepongono il bene comune al proprio interesse e alla vita stessa; dal loro nu¬ mero dipende, che in una società domini la legge del dovere; essi rappresentano per così dire le salde colonne, su cui poggia l'intera costruzione morale e giuridica, entro la quale si raccolgono i deboli per assicurare la comune vittoria della giustizia (i). La storia politica ò dunque la lotta per il di¬ ritto, epica lotta che ha adoperato ed adopera tuttora due opposte armi per arrivare al suo fine, la violenza e la persuasione. Volta a volta i due metodi sono stati seguiti. Tutte le forme di vio¬ lenza sono state usate ; e chi può dire che non lo saranno ancora? Non vogliam fare profezie intorno al nostro avvenire morale, già mille volte smentite. Però (i) G. Ratzenhofer, Positive E/hik, die Verwirklichung des Sittlic/i-Seinsolleiiden. Leipzig, 1904, S. 298-299. w ■ CAP. n - LA GII CAP. Il - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 39 è fuor di dubbio, che l'uomo, per quanto lenta¬ mente, si umanizza, i suoi sentimenti sociali si rinforzano, la sua crescente simpatia è una auto¬ matica riduzione del suo egoismo. La stessa progressiva complessità delle relazioni reciproche, intensificando la vita collettiva, eleva il poten¬ ziale della solidarietà, che è anzi tutto un fatto, e diventa quindi una forza ideale. In questo senso si realizza non soltanto la com¬ passione schopenhaueriana, fondata sulla legge buddistica del dolore universale, bensì la sim¬ patia umana, che ha, secondo il pensiero di Rat- zenhofer, il suo fondamento sulla cosciente par¬ tecipazione al destino del nostro prossimo (i). Tutta la nostra vita è una matassa intricata di rapporti coi nostri simili. Parliamo comune¬ mente di classi sociali, di gerarchia di superiori ed inferiori; ma in realtà la trama del tessuto sociale è ben altrimenti complicata; si tratta di un feltro composto di migliaia di fili intrecciati sapientemente tra loro, per modo da creare quella resistente stoffa, che sopporta l’attrito e gli strappi senza cedere e venir meno. In fondo la vita di relazione è tutta la nostra esistenza, la personalità è un suo prodotto, ciò che noi siamo soliti a chiamare la nostra co¬ scienza non è forse che lo specchio soggettivo, in cui si riflette la imagine sociale di noi stessi. Sotto questo aspetto l’individuo è veramente una astrazione, la società è l’unica realtà. (1) G. Ratzenhoker, op. ci/., S. 294. 4° GIUSTIZIA Ci vuole un grado considerevole di sviluppo del pensiero teorico ed una forza poco comune di autocritica, per poter compiere questa delicata operazione di isolare gli elementi strettamente personali della nostra coscienza per formarne qualcosa di veramente individuale. L’egoismo è più che altro un illusione psicologica, un vizio dell’ottica mentale. La concezione della vita sociale,che ha maggior probabilità di accostarsi alla reale natura dei fenomeni sociali, è quella che sui dati delle mo¬ derne scienze psicologiche li avvicina ai fatti dello spirito e più specialmente a quelli della suggestione imitativa e della generalizzazione in¬ cosciente (i). Per molti, abituati alle formule sem- pliciste del materialismo storico, e alla indiscussa preminenza del fattore economico negli eventi sociali, sarà difficile ammettere questa radicale trasposizione di termini, per cui si faccia della vita collettiva prevalentemente, se non esclusiva- mente, un fatto spirituale. Eppure, se si guarda ai veri caratteri del fenomeno associativo, tanto nelle sue forme semplici ed originali, famiglia, cl(in , quanto in quelle complesse e derivate, non ci è difficile persuaderci, che a parte i rapporti puramente esteriori, i quali hanno natura piut¬ tosto di mezzi, come 1' organizzazione politica, (i) Cfr. l’opera sociologica di G. Tarde, Les lois d’imitation, la Logique sociale, e di Baluvvin, Interpré- tation, eie. CAP. II - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 41 militare ed economica, ciò che esso realizza, è essenzialmente un certo stato di coscienza co¬ mune, che diventa poi religione, arte, scienza, morale c diritto. L'essenza della vita sociale è dunque un modo comune di sentire, di pensare e di volere; noi manchiamo di un termine ap¬ propriato per indicare la complessa natura di questo fenomeno, ma possiamo concepire che esso stia ad un fatto di coscienza, come questo sta ad uno fisiologico; sia cioè un processo di sintesi, una specie d'elevazione della vita ad una ennesima potenza, con produzione di nuovo. In questo senso è facile riconoscere il cre¬ scendo continuo della vita sociale, poiché la ge¬ neralizzazione del pensiero e del sentimento, espressa in tutte le forme del linguaggio parlato o scritto, che è la caratteristica dell'attività con¬ sorziale, è in aumento in ogni fase ulteriore del- incivilimento. L’uomo è sempre più col suo intelletto e colla sua volontà una parte di quel- l'aggregato astratto, che chiamiamo la società. Del resto questo termine stesso di società è di un valore troppo indeterminato, poiché, come abbiam visto, si tratta in ultima analisi d' uno stato psichico, d’una potenza più elevata; ma per essere più esatti, lo stato psichico è plurimo, vi è per cosi dire una stratificazione della coscienza sociale, e gli individui, secondo la classificazione distributiva degli elementi nel gruppo, parteci¬ pano di questo o di quell’altro nucleo associa¬ tivo di sentimenti, d’idee e di aspirazioni. Arriviamo solo oggi ad uscire dalla metafora Ziko Zini, Giustìzia. 6 42 GIUSTIZIA del corpo sociale, per entrare in quella più vicina al vero dello spirito sociale. Il paragone del fe¬ nomeno sociale col fenomeno biologico deve essere spostato, tanto più che il fenomeno psi¬ chico stesso, che potrebbe figurare come termine medio di questa specie di sillogismo sottinteso, si è reso autonomo, e la sua irriducibilità a quello fisiologico è ornai un datum della mo¬ derna psicologia. Si diceva non è molto : nella società gli unici reali sono gli individui, i sin¬ goli; la collettività è una pura astrazione. Ornai quest illusione cade, l’io è l'epifenomeno del suo gruppo, degli altri con lui associati in un me¬ desimo sistema psichico ; cosicché se material¬ mente non esistono altri corpi, che quelli degli individui viventi, spiritualmente non c' è altra realtà che quella del socius , questo prodotto del fatto sociale, cioè questo fatto di psicologia, non tanto collettiva, quanto generalizzata. Questo aumento progressivo nella vita umana dell’elemento sociale, unito alla sua progressiva coscienza, è per noi la miglior garanzia della ne¬ cessaria sostituzione della cooperazione alla lotta sociale, cooperazione di atti e di sentimenti. Certamente le due vie, quella della violenza e quella della solidarietà, per l’affermazione del di¬ ritto e per la sua difesa, sono tuttora aperte di¬ nanzi ; e non è detto, che nei presenti e nei futuri conflitti dei gruppi antagonisti coalizzati, gli uo¬ mini non debbano ancor molte volte servirsi della forza fisica, economica o morale, impu¬ gnando quelle armi ch’offre loro lo stato di ci- CAP. li - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 43 viltà in cui si trovano ; ma intanto è molto probabile, che la direzione generale del progresso sia nel senso di dare il vantaggio definitivo ai mezzi della cooperazione su quelli della lotta. Scelgo un esempio tra mille, traendolo da quel campo di relazioni, dove è presentemente più aspro il conflitto degli opposti interessi di classe. Nella gara economica tra capitale e lavoro, che è senza dubbio quella, intorno alla quale il cri¬ terio di giustizia è più urgentemente chiamato a formarsi, sono ancora di fronte i due metodi sociali : la lotta e la cooperazione. Il boicottaggio, questa vera arma di guerra, è il residuo della violenza, suggerita e giustificata forse dai bisogni immediati della propria conservazione e difesa, in uno stato di cose in cui la crudezza delle re¬ lazioni spinge gli avversari a combattersi a vi¬ cenda con tutti i mezzi, che la stretta giustizia non vieta, e altrettanto dicasi dello sciopero e della serrata (lock-out). Dall’altro polo sta 1 ’union label , la nuova forma di pacifica lotta, anzi neppur più lotta, ma vera cooperazione di classe allo scopo di far trionfare il diritto. Perchè tale è il profondo significato della nuova associa¬ zione operaia, sorta con tal nome in America. Essa per la protezione degli interessi materiali e morali delle classi lavoratrici, non adopera più l'arma di lotta, per quanto legale, dello scio¬ pero o del boicottaggio contro la classe nemica ; ma si rivolge alla naturale simpatia, che le abi¬ tudini consorziali vengono generalizzando ed in¬ tensificando tra gli uomini ; pel trionfo della giu- 44 giustizia a- n V m C Ìtt0 dd Più deboli «sa fa appello alla coscienza più squisita di quanti sen¬ tono p,u vivamente le offese fatte allo spirito di ZZ PÌCC ° i0 Segn ° ^ ^ a! prodotti industriali, ch'escono da opifici, in cui sono aspettate le norme dell'equità economica e umamtà Per ciò che riflette i salari, gli orari e le condizioni generali del lavoro, è veramente . suggello de"a solidarietà sociale, che segnala uomo di qualunque classe un atto di giustizia compiuta e lo invita a collaborare alla sua de¬ finitiva realizzazione (i). (i) American Journal of Sociotogy. Sept. 100 , Lo stesso programma dell 'Union label, à la Lega Sociale ^«fondata nell, Srfcer, In „ na .t II cons L f" na 1 Glde ne s P ie S a l’utilità pratica così: U consumatore è un re nell’ordine economico - ma bi- 3ie C r^ Che è UnrC Pannubone - Non risponde neanche alla definizione del re costituzionale, che - cgna, ma non governa - imperocché il consumatore ne regna, ne governa. Ora noi vogliamo dare a qu l re senza corona, la coscienza dei propri diritti, come 3“g a uf. ei e Pr r PrI d ° VerÌ ’ C °’ me2ZÌ 3datti ““'esercizio degh un e al compimento degli altri. Lo vogliamo non cietà che SU ° TT 86 ’ qUant ° llell ’ intercsst biella so- 6 S1 confonde col suo La signora Bentzon moni R ™ Ue ^ de ì UX ' Mondes scrive sullo stesso argo- faccia'mo dfi n 'h qUa V ^' t i a n0 ' s P endiamou no scudo noi tacciamo del bene o del male... chi compera un cattivo murale do T de " a pÌÙ bassa lette- atura, le donne che acquistano biancheria o vestiti a troppo buon mercato, sono responsabili del sangue e delle fibre umane, tessute per cosi dire in quelle stoffe - Giovanni Brunhes, promotore del movimento per CAP. II - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 45 Il problema della giustizia deve essere rias¬ sunto in questi termini; da secoli ci siamo abi¬ tuati a pensare un mondo ordinato e convergente ad uno scopo: la volontà d'un Dio creatore. È la favola semitica, che dal fondo dell’Oriente è venuta fino a noi alle nostre orecchie attraverso alla Bibbia, al Vangelo; i padri della Chiesa, i dot¬ tori del medioevo, i teologi riformatori e la filosofia spiritualista, il neo-cattolicismo del Manzoni e i romanzi di Tolstoi, ce Tanno trasmessa in succes¬ sive edizioni alquanto rimaneggiate. Questa favola, che sorse forse nella vecchia Caldea sotto lo scettro di Tlammurabi, mutata la musica, racconta sempre la Lega sociale dei compratori , dice efficacemente agli operai e ai padroni : * poiché voi lavorate per noi, poiché senza di noi, consumatori d’ogni giorno e di tutto, voi non avreste alcuna ragione né d’intridere il pane, nè di condurre i tram, nè d’estrarre il carbone, nè di fab¬ bricare il cioccolatte, noi abbiamo pure qualche cosa da dire e qualche cosa da fare nei vostri conflitti. Voi vi sottomettete a tutte le nostre fantasie, quando noi esigiamo la tale qualità di calda o il nastro del tale altro colore. Voi subite da parte nostra la tirannia di¬ sastrosa del buon mercato a tutti i costi. Ora noi ricono¬ sciamo e proclamiamo che abbiamo il diritto e il dovere di dir pure la nostra parola nell’organizzazione del la¬ voro. Noi non vogliamo più soltanto mobili di lusso o pavimenti a disegni, non vogliamo più soltanto cappelli di feltro, o camicie di cotone, cioccolatte assoluto o cioc¬ colatte al latte...; noi vogliamo altresì che tutti questi oggetti sieno lavorati in condizioni igieniche, da uomini liberi, liberi in diritto e di fatto, pagati come si deve, non depressi, non sopraccarichi, viventi di ima vera vita fisica, morale e civile, viventi, in una parola, di una vita piena,,. 46 GIUSTIZIA lo stesso press a poco così : Dio, un essere in¬ finitamente buono e perfetto, potente e savio, creò il cielo e la terra, le piante e gli animali, e fece 1 uomo, gl'infuse nel petto il suo soffio divino e lo mandò a passeggiare pel giardino del mondo, perchè rispettasse la sua legge. C'è dunque una legge che governa l'universo visibile ed in¬ visibile, e questa legge Dio stesso l'ha imposta alle cose, ed ogni cosa obbedisce alla volontà e all ordine del suo fattore, e l’uomo, che ha la ra¬ gione, ossia vede colla luce che Iddio gli ha accordato creandolo, conosce questo ordine, sa questa legge e deve obbedire a questa volontà. Chi fa così è il giusto, chi fa il contrario è l’empio. Il primo è l'uomo retto che cammina sulle vie del Signore, conosce la verità ed adempie alla sua legge di giustizia, egli gode la serenità su questa terra, dorme tranquillamente i suoi sonni e sarà ricompensato nella vita futura; il secondo è 1 iniquo, è l’empio che opera contro la legge del suo Signore, la sua coscienza è turbata dai rimorso e la mano di Dio si stende minac¬ ciosa sul suo capo (i). (i) Gass, Geschichte der christlichen Ethik. I B, Berlin, 1881, S. 23. “ Beato l’uomo che va per le vie del Si¬ gnore „ (Ps. 1, 1.75, 10-14). “ Initium sapientiae est timor Domini „ [Ps. 111, io). Di qui come dalla radice d’ogni giustizia sorgono tutte le virtù. - V. Cathrein, Maral- philosophit.einewìssenschqftlicheDarlegungdersiMicktn, emschhesslich der rechtlìchen Ordnung. IB, Freiburg in Breisgau, 1904, S. 319-320. CAP. Il - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 47 In faccia a questo racconto teologico sta nel mito classico il pensiero ellenico, che è il fratello pri¬ mogenito del pensiero moderno e della scienza. Pel filosofo ionico, come per l'eleate o il pita¬ gorico, per lo stoico e per l'epicureo il problema è quello della genealogia e della metamorfosi, in altre parole è un problema più di causalità che di finalità. Oscure inesplicate forze domi¬ nano il mondo, un fato travolge le cose e gli uomini nelle loro vicissitudini ; gli dei stessi chi¬ nano il capo in faccia al destino. Democrito che il mondo a caso pone. Non più una creazione disposta nella mente mi¬ rabile d’un architetto divino, ma un cosmo ch’esca dal caos per una fortuita combinazione di atomi dispersi. Abbiamo ancora la mente ingombra della puerile teologia, che la favola semitica ci ha appreso nella fanciullezza religiosa! Guardiamo al mondo cogli occhi creduli ed in ogni aspetto c’illudiamo di scoprire il significato d'un volere, l'espressione d'uno scopo. L’ingenua descrizione finalistica che Wolff ha fatto della terra, questa dimora fatta per propria dell’umana spece, è il capolavoro del genere (i). Solamente oggi (1) Ch. Wolff, Vernùnftige Gedanken voti der Ab- sichten der naturlichen Dirige/ 1872, p. 74-84; dove tra l’altro scrive sul sole: “ Vediamo che Dio ha creato il sole per mantenere le variabili condizioni sulla Terra in 48 giustizia usciamo da questo labirinto antropomorfico nel nostro giudizio sulle cose naturali. Le scienze non si preoccupano più di ordine fisico e di tale ordine che le Creature Viventi, Uomini ed Animali, possano abitarne la Superficie. Siccome gli Uomini sono le più ragionevoli fra le Creature e sono capaci di in- f? r 5, ^visibile di Dio dalla contemplazione del Mondo, il Sole contribuisce pertanto a questo primo proposito della Creazione: senza di esso l’Uomo non potrebbe vivere nè riprodursi... Il Sole fa la Luce del Giorno non solo sulla nostra Terra ma su tutti i Pia¬ neti; e la Luce del Giorno è una delle cose più utili per noi, potendo noi per suo mezzo attendere a quelle occupazioni che di notte sarebbero o del tutto impossi- 7,° almeno impossibili quando non ci provvedessimo di luce artificiale. Gli Animali nei prati possono trovare a loro cibo di giorno, mentre non potrebbero farlo di notte. Dobbiamo essere grati alla Luce del Sole di ve¬ dere ogni cosa sulla superficie della Terra, vicina o ontana che sia, e di riconoscere le cose vicine o lon¬ tane a seconda della loro specie, cosa che ci è neces- sana non solo nel commercio della Vita comune o nei laggi, ma altresì per la conoscenza scientifica della Natura, conoscenza che dipende per la massima parte da osservazioni fatte mediante la Vista, e che senza il Sole sarebbero impossibili. Perchè uno possa raffigu¬ rarsi esattamente 1 grandi vantaggi che ripete dal Sole immagini di vivere anche un solo mese nella Notte più profonda, e osservi come si trarrebbe d’impiccio. Egli si persuaderebbe abbastanza allora, per propria espe- rienza, specie se fosse Persona con molti affari nelle vie o ne. campi... Mercè il Sole noi sappiamo quando è Mezzogiorno, e possiamo regolare bene i nostri orologi, per cui 1 astronomia deve molto al Sole... Col Sole noi troviamo il Meridiano... ma il Meridiano è la base di quegli orologi solari che in italiano si chiamano appunto CAP. Il - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 49 armonie prestabilite. I loro problemi sono uni¬ camente genealogici e metamorfici. Dalla geo¬ logia alla storia non c’è altro studio che quello di ricomporre dinanzi ai nostri occhi la catena dei fatti. Non il caso, ma la causa ha composto il presente assetto cosmico (i). I nostri mezzi d'indagine ci permettono fino ad un certo punto almeno di scrivere i primi capitoli fisici e biologici. Legge è la formula compendiatrice di questo Meridiane, ed in generale non avremmo orari se non avessimo il Sole... „. “ Gli usi, a cui l’acqua serve nella vita umana, sono facili a vedersi e non richiedono una lunga spiegazione. L’acqua è una bevanda universale degli uomini e degli animali. Sebbene gli uomini si siano fabbricate bevande che sono artificiali, essi non avrebbero potuto far ciò senza l’acqua. La birra è fatta di orzo e acqua, ed è l’acqua in essa quella che calma la sete. Il vino è preparato dall’uva, che non potrebbe mai crescere senza l’acqua; e lo stesso dicasi di quelle bevande che in Inghilterra e altrove sono prodotte dalle frutta... Poiché dunque Dio cosi ordinò il mondo che gli uomini potessero abitarvi e trovarvi tutto ciò che è richiesto per loro necessità o convenienza, egli fece pure l'acqua come un mezzo per rendere la terra un cosi ec¬ cellente luogo di dimora. E questo è tanto più mani¬ festo quando consideriamo i vantaggi che otteniamo dall’acqua stessa per la pulizia dei nostri utensili dome¬ stici, dei nostri vestiti e di altri oggetti... Entrando in un mulino si vede che la macina deve essere sempre mantenuta bagnata, e allora uno si fa un’idea anche maggiore dell’utilità dell’ acqua „. Citato da James, Le varie forme della coscienza religiosa, Torino, 1904, p. 425-427 in nota. (1) Cicero, De finibus, I, 6, 19: “ nihil turpius fisico quam fieri quicquam sine causa dicere „. Zino Zini, Giustizia. 7 50 giustizia processo di trasformazione. Potrebbe anche darsi che il nostro determinismo meccanico fosse un’il¬ lusione soggettiva. Ogni Weltansckauungè umana. Ciò che chiamiamo « l’universo reale », il mondo sensibile e le sue leggi, le serie dei fenomeni, che compongono il nostro sapere sistematizzato e formulato, hanno certamente un valore rela¬ tivo. James ha forse ragione nel suo bel para¬ gone : noi osserviamo le cose coi nostri spiriti prevenuti a scoprirvi delle leggi, allo stesso modo che, guardando più punti sulla lavagna, tracciamo delle linee di congiungimento, circoscriviamo degli spazi geometrici (i). (i) W. James, Le vane forme della coscienza religiosa. orino, 1904, pag. 378 in nota. “ Quando si osserva il mondo senza nessuna tendenza teologica nell’un senso o nell altro, si vede che l’ordine ed il disordine, quali noi li riconosciamo, sono invenzioni puramente umane. Noi siamo interessati a certe forme di accomodamento, '-iti e, estetico o morale; — così interessati, che tutte le volte che vediamo realizzate quelle forme la nostra attenzione viene vivamente sedotta. Ne consegue che noi operiamo selettivamente sugli elementi del mondo. Esso e pieno di disposizioni disordinate dal nostro punto 1 vista, ma l’ordine è la sola cosa di cui ci occupiamo e che guardiamo, e scegliendo bene si può trovare sempre un certo ordine in mezzo a qualunque caos. La atura è un ripieno, in cui la nostra attenzione traccia linee capricciose in tutte le direzioni. Contiamo e nomi¬ niamo qualunque cosa giaccia sulle linee speciali che tracciamo, mentre le altre cose e le linee non tracciate, non sono mai nè nominate nè calcolate. Vi sono in realtà infinitamente più cose “ mal adattate „ fra loro in questo mondo, che non ve ne siano di “ adattate ,„ un numero CAP. II • LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 51 Le leggi naturali sono queste coordinazioni mentali in cui imprigioniamo arbitrariamente la realtà soggiacente ai nostri sensi. L’architettura cosmica può essere un arbitrio, anche nella fase scientifica di cui siamo tanto orgogliosi, come fu nella fase mitologica della mentalità antica. Oggettivamente dunque la giustizia ò stata concepita dagli uomini come un ordine dall’alto o ab extra , ordine divino o naturale. La legge è stata accettata come una superordinazione. Voltaire, nonostante il suo scetticismo, alla do¬ manda donde venga all’uomo la nozione del giusto risponde ; « Dio fa il giusto e l’ingiusto ed imprime questa idea fondamentale nel cuore dell’uomo » (i). Diderot, mette la natura legislatrice suprema al posto di Dio ( 2 ); posto reso vacante nello spirito materialista del secolo XVIII, ma questa arbitraria personificazione della natura giustifica l'arguta osservazione del De-Maistre : « la nature? quelle est donc cette femme ? ». infinitamente maggiore di cose con relazioni irregolari che non con regolari. Ma noi cerchiamo soltanto le cose regolari, e ingegnosamente le scopriamo e le rammen¬ tiamo. Esse si accumulano insieme alle altre cose rego¬ lari, finche la collezione loro riempie le nostre enciclopedie. Eppure sempre, attorno e frammezzo ad esse si ritrova un caos infinito ed anonimo di oggetti che nessuno ha mai pensato riuniti, di relazioni che non attrassero mai la nostra attenzione „. (1) Voltaire, Dictionnaire philosophique. Du juste et de Vit juste. (2} Diderot, Encyclopédie, art. juste. 52 GIUSTIZIA In realtà, noi stessi siamo la legge nel giusto, come nel vero. Come la scienza così la morale è solamente umana. Nella realtà esterna non c'è che la causalità meccanica, un determinismo fe¬ nomenico, in mezzo al quale prima coi sensi e poi col ragionamento gettiamo la rete delle nostre categorie. Ogni legge è associazione mentale, cioè uno stato del soggetto (ij. Tale è la risposta del relativismo. Però chi può negare l’importanza educativa dell’assoluto ? La potenza pratica dell'idealismo sta appunto qui : aver proclamato una legge eterna di giustizia, una massima solenne scritta a caratteri di fuoco nel cielo delle fedi coll'ar¬ dente parola dei profeti. Nell'arte della vita la più grande missione è affidata a coloro che sanno imporre all'uomo la fede e sanno mettergli innanzi un principio inflessibile e sicuro, ch'egli deve seguire. Kant aveva ragione ; tutto è ipo¬ tetico quaggiù : solo il dovere deve essere ca¬ tegorico ( 2 ). (1) Karl Pearson, The grani mar of Science. London, 1900, pag 82 e seg. (2) Menger, op. cit., pag. 72, in nota, muove alla nota formula kantiana, che esprime l’imperativo categorico : “ segui nelle tue azioni quella massima che puoi desi¬ derare vedere estesa a legge generale „ (Grund/egmtg sur Methaphysik der Sitfcn (1785). Ed. Kirchmann, 1870, pag. 20, 44, 53I, il rimprovero d’essere affatto priva di contenuto, perchè non ostante la sua sonorità alta e se¬ vera, lascia, nella maggioranza dei casi, al filosofo pra¬ tico piena libertà di fare quello che vuole. CAP. II - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 53 Ma che cosa può dare al dovere questa forza imperati va ? Dei doveri alcuni appaiono certi ed indiscuti¬ bili, mentre altri sono soltanto definiti dal co¬ stume e perciò paiono arbitrari alla riflessione. Ora, finché persistono tali costumi, le aspettazioni umane sorgenti da essi, sono in un certo senso naturali, visto che un uomo giusto è in una specie d’obbligo di adempierle con la sua azione ; ma evidentemente questo obbligo non è nè chiaro nè completo, sia per la naturale variazione del costume, che rende dubbia la validità della norma consuetudinaria, sia per la irrazionalità del costume stesso, tanto che perfino appare più morale infrangerlo, che osservarlo. L’uomo agisce, partendo dal presupposto che il futuro rassomigli al passato, nell’aspettazione dell’evento simile. È naturale che nei rapporti sociali noi ci aspettiamo che ogni individuo faccia ciò che gli altri fanno in circostanze simili, e che egli voglia continuare a fare ciò che in passato ha avuto abitudine di fare; quindi i suoi simili sono inclinati a pensare d’essere offesi, quando egli improvvisamente ommette un atto abitudinario, se tale ommissione causa loro perdita od incon¬ veniente. Che se invece un uomo non ha dato pegno di mantenere una certa abitudine, è dif¬ ficile che egli possa sentirsi obbligato dalla aspet¬ tativa degli altri, che non è garantita dalla sua precedente condotta. Il carattere peculiare d’ogni legge, sia fisica, sia sociale, è questo appunto di far nascere nel 54 GIUSTIZIA nostro animo l’aspettazione fiduciosa in un certo evento. Nell’ordine naturale come nelle relazioni umane, questa aspettativa fondata sulla costanza dei fatti, è 1 unica direzione della nostra condotta (i). fi) Sidgwick, The methods of Ethics , pag. 269 e seg. — Contrariamente E. Mach, Erkenntniss unii Irrlhuni, Skizzen zur Phychologie der Forschung , Leipzig, 1905, cercando di determinare il concetto di legge naturale,- invece di vedere in essa l’aspetto positivo, ne considera il lato negativo, e giunge a questa conclusione che le leggi propriamente dette (nel senso giuridico o morale) come anche le leggi naturali, esprimono delle limita¬ zioni quindi non sono, come pensa Sidgwick, sistemi di previsioni o di aspettazioni di ciò che deve essere, bensì sistemi di esclusioni di quello che non può essere, con questa differenza che le prime ànno per ufficio di mettere limiti alle nostre azioni, le seconde alle nostre aspettazioni. Caratterizzare in tal modo le leggi naturali come esprimenti non già delle aspettative, ma al con¬ trario delle limitazioni a ciò che ci possiamo aspettare (Einschrankungen der Erwartungen ), serve a por bene in luce che l’elemento essenziale del concetto di legge non sta nella previsione dell’evento particolare, bensì nell’indicazione della classe entro cui il fatto rientra, o in cui avviene il suo ricongiungimento con altri. Con¬ segue da ciò la compatibilità tra l’idea di legge perfet¬ tamente determinata per un dato campo di fenomeni e 1 assenza di qualsiasi determinazione pei fenomeni stessi. Così anche si spiega come la più parte delle leggi na¬ turali e non certo le meno importanti, si riferiscono a condizioni ed ipotesi che nel fatto non sono mai com¬ piutamente realizzate. Conf Pearson, op. cit ., pag. 79 e seg.; pag. 93 e seg. Sulla distinzione tra legge naturale e legge positiva vedi Austin, Lectures oh Junsprudcnce. London, 1879 — O. Liebmann, Gedanken and Thatsachen. Strass- burg, 1904,1. B, S. 64. CAP. Il - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 55 I prodigi della natura e gli arbitri nella so¬ cietà si equivalgono in ciò ch’essi ci separano inaspettatamente dal criterio usuale nella con¬ dotta e ci espongono a tutta la pericolosa in¬ certezza del caso. La giustizia è generalmente diretta a prescri¬ vere l’adempimento di tutte queste aspettative, dice Sidgwick, che sorgono naturalmente e nor¬ malmente dalle relazioni volontarie ed involon¬ tarie, nelle quali ci troviamo verso gli altri es¬ seri umani. Cosicché la legge è una sorgente di aspetta¬ zioni naturali, ma non dobbiamo su questa aspet¬ tazione fondare la concezione della giustizia, poiché allora cadremmo nella erronea conclu¬ sione che le leggi vecchie non dovrebbero mai diventare ingiuste, poiché le leggi che hanno esistito da più tempo, hanno creato corrispon¬ dentemente le più forti aspettazioni, ciò che in realtà é smentito dalla storia dell’incivilimento. Ma forse potremmo dire, che a giustificare la trasformazione legislativa in nome della giustizia, sono sorte, da altri elementi della vita sociale, nuove aspettazioni ed esigenze in conflitto colla legge preesistente. E così è veramente, ma dal punto di vista della nostra indagine intorno al fondamento del giusto, con questa spiegazione non è eliminata la difficoltà, ma soltanto spostata, perchè ora si tratta di sapere, che cosa giustifica le esigenze nuove di fronte alle tradizionali aspettazioni, che ii costume aveva fin qui consacrate, in altre pa- 56 GIUSTIZIA role noi siamo pervenuti alla discussione della divergenza tra il reale e l’ideale. A molti sembrerà logico risolvere la questione così : essendo mutate le condizioni dei rapporti sociali ed i corrispondenti stati affettivi, è natu¬ rale che la condotta umana prenda ora questa direzione, la quale corrisponde alla comune co¬ scienza ed al giudizio generale. A questo punto però bisognerebbe domandare perchè un certo modo d’agire sembra più naturale, ossia in altri termini che cosa è naturale. Che cosa è naturale f ciò che rientra nella regola, per contrapposto all’eccezione ? Ma l’ec¬ cezione non è un fatto di natura anch’essa, poiché è un dato della causalità ? Il naturale sa¬ rebbe allora il primitivo; l’originale di fronte al derivato, per opposizione aH’artificiale ? Ma l’o¬ pera dell’uomo non è forse tanto naturale quanto la stessa opera delle piante, degli animali, dei cristalli ? Siamo noi stessi una parte della natura ; la nostra azione è un tratto del suo corso, che è determinata e determina avanti e dietro di sè, come qualunque altra porzione dell’energia co¬ smica (i). Ogni hiatus tra Yhifmanum e l 'extraku- (ij Hodgson, The tnetaphysic of cxperience, London, 1898, rV, p. 5 : “ We ourselves, as self-conscious beings, are part of thè course of Nature; and in adopting on alternative action we deterinine thè course of Nature for thè future (dating troni thè moviment of choice) so far as we,the acting subjects, are concerned, and so far thè rest of thè course of Nature is inodified by our action „. CAP. n. • LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 57 manum è un atto di arbitrio. Dante ha detto la natura figlia di Dio, e l’arte figlia della na¬ tura, e però a Dio quasi nepote. Ogni fatto ar¬ tificiale è una parte del fatto naturale. Rimane il concetto di naturale, come ideale, espressione di ciò che dovrebbe essere di fronte a ciò che è. In questo ultimo senso, per parlare scientifica- mente, dovremmo dire non ciò che dovrebbe essere, ma ciò che verosimilmente dovrà essere. Entriamo cioè in quella regione del sapere scientifico che si esprime in termini d’approssi¬ mazione e in calcoli di probabilità. Sentiamo in altre parole più naturale l’ideale in quanto rap¬ presenta la linea di direzione, la tendenza del movimento, il limite della trasformazione. Che più d’una volta gli uomini, per equivoco facile a spiegarsi, si siano cacciati alle spalle questo ideale, fabbricando arbitrariamente un passato colle aspirazioni dell’avvenire, in contrasto colle condizioni del presente, poco importa. È fuor di dubbio, che il diritto naturale, se può essere accolto, lo deve soltanto in questo senso. Sulla base di questo contrasto tra i due fon¬ damentali significati di naturale, come ciò che è e come ciò che dovrebbe essere, riposa la con¬ seguente divergenza tra i due elementi della co¬ mune nozione di giustizia ; poiché da un lato siamo disposti a pensare che la consuetudinaria distribuzione di diritti, beni e privilegi, come anche di oneri e di pene, sia naturale e giusta, e ch’essa debba essere mantenuta dalla legge, come praticamente è ; ma dall’altro lato noi ri- Zino Zini, Giustizia. 8 58 GIUSTIZIA conosciamo pure un sistema ideale di norme di¬ stributive, il quale dovrebbe esistere, ma che forse non è mai esistito, e consideriamo le leggi come giuste in quanto sono conformi a questo ideale. Tantoché Pollock scrive: * la giustizia legale tende a realizzare la giustizia morale nei propri ordinamenti, e la sua forza in ge¬ nere consiste nell’universale sentimento che ciò sia » (i). Il fondamentale problema della giustizia po¬ litica è la conciliazione tra questi due punti di vista : il reale e l’ideale. Cosicché concludendo sulle traccie delle spe¬ culazioni di Sidgwick e di Baldvvin, pur ammet¬ tendo che l’elemento preminente della giustizia è una specie di parità di trattamento o un'im¬ parziale misura nell osservanza di certe norme distributrici del bene e del male tra gli individui ; riconosciamo che alla sua determinazione pos¬ sono essere assunti due criteri affatto diversi. Infatti, o il criterio del diritto (final arbiter of rights) è lo stato sociale attuale e le normali esigenze che ne derivano, ovvero esso deve de¬ terminarsi riguardo ad un certo ideale. Nascono quindi due giustizie : l'una conservatrice, l’altra riformatrice. La prima è realizzata nell'osservanza della legge e del contratto e nella forza coattiva di certe penalità legalmente stabilite per la loro violazione; e per essa sono rispettate le normali (i) Pollock, Jurisprudence, eh. II, 31. CAP. Il • LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 59 esigenze dell’ordine attuale nella società. La se¬ conda, la giustizia ideale, impone il rispetto di quei diritti, che sono inclusi in un ideale d’uma¬ nità collettiva, in qualunque modo possa essere questo determinato. Due grandi concezioni morali incarnano poi per opposte vie questo ideale di comunità poli¬ tica; l’una individualistica o della libertà, da Kant a Spencer, press’a poco colla medesima formula ripetuta; l’altra socialistica o dell’uguaglianza, enunciata in termini pressoché identici da Platone ai moderni riformatori sociali. La prima pone la eguale libertà per tutti, come ultimo scopo e misura delle giuste relazioni so¬ ciali ; ma non sarebbe difficile dimostrare che la pura nozione di libertà è insufficiente come base pratica ad una solida costruzione sociale, mentre poi è sempre aperto il campo ad arbitraria de¬ finizione di essa e conseguenti limitazioni, rese necessarie dal criterio di convenienza. Ammessi anche quei limiti, e realizzata la libertà nella misura del possibile, il nostro senso di giustizia non sarebbe soddisfatto dinanzi ai risultati fatali d’una concorrenza vitale, che con¬ cluderebbe coll'inesorabile sconfitta dei deboli e dei diseredati. Il qual senso di giustizia affinato dal consorzio, prima facie , sembrerebbe più sod¬ disfatto dall’ideale socialistico d’un'equa distri¬ buzione, fondata sul principio d’un integrale com¬ penso del merito in correlazione d’un servigio o d’un lavoro prestato. Ma non possiamo nascon¬ derci che, quando cerchiamo di precisare questo 6o GIUSTIZIA principio, incontriamo nuove e non minori diffi¬ coltà (i). Queste difficoltà appunto ci consigliano d’ab¬ bandonare la vana ricerca di un ideale di giu¬ stizia assoluta, e ci fanno ritornare, qui come altrove, ad un criterio di relatività, di natura essenzialmente utilitaria, nel senso cioè di affer¬ mare che l'ideale di giustizia, alla cui stregua commisureremo gli atti individuali e collettivi, sia la loro conformità alla generale legge del progresso. L’indice del progresso sociale è l’allungamento della vita umana, in altre parole un più compiuto adattamento a quel fascio d’energie che com¬ pongono il cosmo; nel cui ambito siamo obbli¬ gati a svolgerci. Tutte le forinole astratte sono metafisicherie. Di positivo non sappiamo che questo : l’abitatore della terra deve, per la legge stessa della sua esistenza, vivere sopra di essa quanto più a lungo è possibile. Tutte le tras¬ formazioni sociali dall'età paleolitica al giorno d’oggi hanno camminato in questa direzione. Di¬ scutere della priorità del progresso economico su quello morale ed intellettuale è un puerile non senso. In realtà questa distinzione è un puro arbitrio, poiché si tratta della stessa cosa, veduta sotto diversi angoli visuali. La nostra moralità è un equilibrio, nella grande maggioranza dei casi assai instabile, tra le nostre (i) Sidgwick, op. cit., pag. 292 e seg. CAP. II - LA GIUSTIZLA COME IDEA ED EMOZIONE 6l tendenze e la pressione che sopra di noi eser¬ cita la consuetudine sociale. Ogni turbamento, sia che venga dall'interno come passione, sia che sorga all'esterno come spostamento delle rela¬ zioni consorziali, produce quest’effetto : l'equi¬ librio è rotto e la vita morale abbassa più o meno il suo livello sotto la media normale. Nelle circostanze ordinarie della esistenza il 37° di temperatura morale si ottiene quasi auto¬ maticamente dalla mediocrità umana, un po’ per quel tanto di rcstraint che l’educazione ha de¬ positato in noi, e un po’ per lo stesso stato di pressione sociale, in cui si trova il mezzo am¬ biente, nel quale ci moviamo. Gli uomini moral¬ mente superiori sono quelli che hanno eccezio¬ nalmente elevata la potenza dei freni personali, sottraendosi in pari tempo allo scarto derivante dall’impulso emozionale ed a quello che nasce dalla diminuita resistenza sociale. Ed è ciò, che costituisce il carattere ossia la sta¬ bile unificazione della propria coscienza morale in un sicuro equilibrio, capace di resistere agli urti, sia interni dell’emozione, sia esterni della sug¬ gestione, subordinando la condotta ad una dire¬ zione costante. È fuori di dubbio che un tale stato è più facilmente raggiunto dai temperamenti semplici, che dai complessi, dai volontari più che dagli intellettuali. I grandi caratteri morali sono più frequenti forse nelle società meno avanzate, accompagnano piuttosto la vita degli individui, che sentono l’im¬ pero della fede o religiosa o politica, che non 62 GIUSTIZIA gli uomini d'arte o di scienza troppo emotivi o troppo scettici. Bisogna avere nel cervello poche idee chiare, pochi principi saldi, e andare avanti con quelli, facendo roteare la propria vita intorno a quell’asse centrale solidamente 1 Le abitudini critiche, il prò e il contra d'ogni cosa, disorien¬ tano il giudizio e sfibrano la risoluzione, ren¬ dendo 1 uomo colto più facile preda dell’azione contradditoria. Il santo e il fanatico sono forse in fondo i caratteri più temprati. Si può però dubitare, che socialmente parlando, la loro con¬ dotta riesca in conclusione più profittevole di quella di cento, di mille altre mediocrità, nè an¬ geli nè demoni, nè carne nè pesce. La felicità collettiva più che dallo sforzo di qualche volontà energica o dallo slancio di qualche grande cuore, dipende da mille concessioni e mille piccoli compromessi reciproci. Non è poi improbabile che al tirar delle somme, abbiano più contribuito al nostro reale e attuale benessere le opere meschinissime di centomila anime vol¬ gari, che non gli eroismi sentimentali di qualche dozzina d'apostoli della giustizia e della verità, che compongono il libro d'oro dell'aristocrazia morale. ^-y^s-^VVVV» » rrr»TTfT : rr^V»»T ~-*-r »»-*-* Tr^rrTr. - , iTTTT»’ CAPITOLO III. I frutti del lavoro e la loro distribuzione secondo giustizia. II problema della giustizia ha due faccie: quella positiva della distribuzione, che forse è più opportuno dire d ella retribuzion e; quella ne¬ gativa della repressione, anche questa forse meglio indicata coll’espressione di giu stizia riparatrice . Ora si tratterebbe di trovare per ciascuno dei due aspetti della giustizia la sua forinola adeguata. Cominciamo dal primo quesito, che potrebbe essere posto in questi termini: a chi debbono, secondo ragione e giustizia, appartenere i frutti delle cose utili, intorno alle quali si è ap plicato il lavoro umano ? La società, in un momento qua- lunque~ 3 ella sua esistenza, offre all’uso dei con¬ sociati una massa maggiore o minore di ricchezze, ossia di utilità di diversa natura atte a soddisfare una molteplicità di bisogni fisici e morali. Sotto 64 GIUSTIZIA l’impulso del bisogno e dell’istinto d’imitazione, tutti gli uomini, fatte pochissime eccezioni, ten¬ dono all'acquisto di queste utilità, di cui si può molto presumibilmente ritenere che la quantità totale è assai inferiore al bisogno complessivo di tutti i concorrenti; e già questo fatto solo co¬ stituirebbe, come molte volte gli economisti dello sfatte quo hanno avvertito, un ostacolo insor¬ montabile alla realizzazione della felicità di tutti, fondata sovra un rapporto di pura eguaglianza. Vero è, che però non si vede come ciò possa giustificare l’accaparramento di porzioni ingen¬ tissime della fortuna complessiva, ben oltre ad ogni concepibile bisogno, per parte di alcuni po¬ chissimi, mentre per ciò solo la grande maggio¬ ranza ne resta necessariamente privata. Per ciò che riflette l’attuazione della giustizia distributiva il problema, che si deve risolvere, è quello d’una equa ripartizione de’ frutti. L’uomo non è nel mondo, come il biblico Adamo nel¬ l’Eden, in un giardino lussureggiante di ricchezze, per modo ch’egli non abbia che da stendere la sua mano per prendere quanto più gli piaccia c sod¬ disfare la sete incalzante de’ suoi desideri. La coincidenza tra il dono spontaneo della natura e il bisogno umano è l’eccezione. La regola è la dissociazione tra questi termini, e il lavoro umano è quasi sempre il fattore che attua que¬ st'equazione. L’utilità che le cose hanno, ossia la loro ap¬ plicabilità alla soddisfazione dei nostri bisogni, è ciò che comunemente chiamiamo il valore CAP. Ili • I FRUTTI DEL LAVORO, ECC. 65 degli oggetti ; ora questa qualità vantaggiosa è quasi sempre il risultato d’un processo di mani¬ polazione, per cui si realizza il loro adattamento alle nostre necessità fisiche e morali. Questa me¬ tamorfosi dal naturale all’artificiale è lavoro. 11 lavoro è adunque il maggior coefficente del valore, sempre quando sia applicato a creare le utilità, e queste sono indicate dal bisogno. In una dottrina giuridica relativa ai frutti, bi¬ sogna abbandonare il punto di vista classico, che li considera come prodotti organici (organiscke Erzeugnisse) delle cose naturali, uniti quindi per un vincolo di accessoria dipendenza a quegli oggetti, che formano la materia precipua del di¬ ritto superiore di proprietà (accessori-uni sequitur principalej, per accogliere il concetto nuovo di giustizia che emerge da una più chiara coscienza dei rapporti economici, e che fa capo all’idea fondamentale di lavoro e considera la ricchezza come un risultato sociale, e i frutti come pro¬ dotti superorganici (1). (1) Sul concetto di frutto conf. Heimbach, Die Lehre von der Frucht, 1843. — Janke, Dos Fruchtrecht des red- lichen Besitzers und des P/andg/aubigers, 1862. — Goppert, Ueber die organischen Erzeugnisse, 1869. — Brinz, Lehrbuch der Pandekten, 1873 ,1 B, S. 546-554. — Windscheid, Lehrbuch des Pandektenrechts, 1882 ,1 B, S. 591-598. — Leo von Petrazycki, Die Lehre vom Einkom- men. Berlin, 1893, I B, S. 6-12; dove illustra molto bene il passaggio dalla unilaterale ed oggettiva concezione del frutto come un prodotto della natura a quella che lo consi¬ dera soggettivamente in relazione all’uomo come un ri¬ sultato del suo lavoro. La teoria naturalistica dei frutti è Zrso Zini. Giughi». U 66 GIUSTIZIA Ricercare la causa della continuità nella tra¬ dizione giuridica di Roma e della sua persistente azione nel sistema odierno di diritto è problema storico, che non può qui occuparci. Constatiamo soltanto il fatto. « Un biologo può da un solo frammento fossile ricostrurre tutta la forma di un animale primitivo. Analogamente può dirsi degli istituti sociali. Ma nel caso nostro se do¬ mani si desse ad un sociologo l’incarico di de¬ terminare, partendo dal Codice come da un documento storico, a qual grado dell’evoluzione civile appartenga la società ivi descritta, e di ri¬ costruire su di esso tutto l’edificio del corrispon¬ dente corpo sociale, certo quel dotto e brav'uomo andrebbe ad urtare in ostacoli insormontabili. Da talune parti del Codice trarrebbe la conclu¬ sione, che al momento della sua compilazione, quel popolo si occupasse quasi esclusivamente d'agricoltura e che ad ogni modo la grande pro¬ duzione industriale dell'epoche posteriori non esistesse, che le relazioni del credito fossero an¬ cora alla loro fase embrionale, che la cosidetta in fondo provvidenziale e teologica, come appare dal citato passo di Galvanus, De usufructu dissertationes variae, 1788, pag. 327: “ Generari lapides e terra fri- gefacta geluque conscricta docet Plutarchus. Notandum igitur est lapides nasci, vivere, crescere, mori, renasci sic providente creatore, qui voluit edam viscera terrae am¬ mani ud, vel abjecdssima mundi portio miraculis omnipo- tentiae divinae superbiret,,. Il frutto è una sua creazione: “ is tantum fructus naturalis est, qucm res aliqua natu- raliter et se ipsa producit, cum a ferendo ipsum quoque fructus nomen sit derivatum ... CAP. Ili - 1 FRUTTI DEL LAVORO, ECC. 67 questione sociale non fosse ancora sorta, che il lavoro libero rappresentasse ancora una parte insignificante dell'economia nazionale. È vero che d’altra parte cercherebbe invano gli schiavi, e la traccia della produzione servile, che stava a base dell’antica società. Cosicché dovrebbe conchiu¬ dere che le disposizioni del Codice non offrono per nulla il vero ritratto dello special grado di civiltà, del quale pure è chiamato a regolare i rapporti » (1). Ed è vero, poiché le relazioni sociali dell’antica Roma prevalgono invece delle moderne. Nessun dubbio che il mondo economico mo¬ derno non può essere contenuto in una veste legislativa cavata fuori dal Corpi/s juris. Esso domanda che gliene sia tagliata una più comoda c nuova nella viva stoffa dei rapporti sociali, che la società ha elaborato. L’economia del mondo antico à per fulcro la schiavitù. In un siffatto sistema i rapporti tra capitale e lavoro sono profondamente spostati. La questione sociale, almeno come l’intendiamo oggi giorno, non esiste ancora. Ciò che con quella si confonde dai più é il pauperismo, cosa assai diversa. Giudicare le leggi agrarie o fru¬ mentarie, l'agitazione dei Gracchi o la complicata legislazione sul panis gradilis (2) come prodromi del movimento sociale contemporaneo, è indizio di corta veduta, di mancanza di critica nell'ap- (1) L. von Petrazicki, op. ci/., II B, 1895, S. 45 °- (2) Hodgkin, ltaly and her invaders. Oxford, 1892, voi. Il, pag. 565 e seg. 68 giustizia prezzamelo dei fatti storici. Se fosse vera la de¬ filimene grossolana, che i Tedeschi hanno dato della questione sociale nell’aforisma die soziale rage ist eme Magenfrage , essa sarebbe dav¬ vero antica come il mondo. Ma in verità v’è qui qualchecosa di più che una semplice questione di stomaco. Il pauperismo è un fenomeno patologico, che accompagna la vita della società umana, più o meno acuto, più o meno latente, secondo il grado i civiltà o 1 intensità delle crisi economiche. Il suo triste spettacolo si offre tuttora ai nostri occhi tra i miracoli della nostra attività scientifica e della nostra ricchezza industriale, tanto da far esclamare al Brunetière, dinanzi alla miseria nera d una grande città americana: * Quanti misera- ih ci vogliono per fare una metropoli del AlX secolo! » (i). L oriente in tutte le sue legislazioni e in tutte e sue religioni, da Buddha a Maometto, ha com¬ battuto questo flagello coll’elemosina. È questo Io specifico somministrato per secoli di cura al gran corpo malato, senza che l'attesa guarigione sopraggiungesse. Forse si era confuso il veleno coll’antidoto. A Roma, il pauperismo, che finisce alla cerchia de le mura, prende un aspetto essenzialmente politico. La grande capitale dell'impero, che ha (x) F. Brunetière, Dans l'Est America,,,. des deux-Mondes i« nov. i8q 7 . Revue CAP. U 1 • I FRUTTI DEL LAVORO, ECC. 69 spogliato il mondo a suo profitto, sacrifica una quota minima del bottino per saziare lo stomaco della sua plebe oziosa e miserabile. Impossibile confondere la famelica e sfaccendata plebe di Roma col proletariato del tempo nostro. Il lavoro libero era allora depresso dal lavoro servile; il capitale comperava non il lavoro sol¬ tanto, ma lo stesso lavoratore, lo schiavo, acqui¬ stando sopra di esso un diritto pieno, assoluto, duraturo. Il tipo di legislazione, che si dovette formare allora per regolare i rapporti nascenti da una siffatta condizione, non può adattarsi ad una società, che ha per base della sua vita eco¬ nomica il contratto, e la legge dell’offerta e della domanda. La società classica non ha prodotto mai la persona libera di sò, responsabile dei suoi atti e padrona della sua attività, in altre parole l’uomo, che sotto ogni aspetto della vita sua, e sopratutto sotto quello economico, provveda a se stesso, e governi se stesso, l’individuo del self-help e del self-government ; il cui tipo energico spicca così bene nella civiltà industriale e democratica d’In¬ ghilterra e d’America. Certo si parla spesso in Roma della persona sui juris, ma essa è pura astrazione, finzione giuridica. In realtà la vita ro¬ mana è rimasta alla fase della fatnilia e del- \urbs. L’individuo non esiste, l’uomo è civis o paterfamilias. Civitas e patria potestas , ecco i due maggiori diritti che competono alla persona. Insomma è l'uomo nel gruppo, civitas, gens , fa- milia , è sempre il regime comunitario e corpo- ?o GIUSTIZIA rativo proprio del mondo antico, esso si perpetua trasformato nel medio-evo colla feudalità, col convento, colla maestranza, col Comune. Il diritto, che emerge da questo sistema di re¬ lazioni, è essenzialmente corporativo, e deriva all'uomo più dalla sua posizione nel gruppo che dal suo sforzo personale. Nè poteva essere di¬ versamente in una società, nella quale il lavoro non crea il diritto. L’opera servile produce la ricchezza a favore di chi possiede lo schiavo, nell’agricoltura o nel¬ l'industria. Al di sopra di queste jumili forze produttrici, stanno la professioni liberali con un carattere prevalentemente gratuito, le cariche ad honorem , le gestioni degli affari altrui e degli altrui patrimoni (mandatimi e depositata), adem¬ piute come officium o amicitia , senza com¬ penso (i). Ora non è chi non veda quanto i termini si siano spostati. Mentre, nella società antica, di cui il diritto romano è l’espressione formale, il la¬ voro personale non crea il diritto economico, perciò appunto ch’essa è basata sul privilegio di casta, di classe o di città, e quella civiltà non perviene mai all'idea dell’uomo libero, lavora¬ tore e produttore, il mondo moderno ha consa¬ crato questo principio della libertà di lavoro ed ha organizzato un sistema complesso di produ¬ zione che ha per fondamento la cooperazione. (1) Petrazicki, op . cit ., II, 442. CAP. Ili - I FRUTTI DEL LAVORO, ECC. 71 La terra è diventata sotto i nostri occhi una vasta e maravigliosa officina di trasformazione e specificazione industriale. L’intelligenza umana, servita da una molteplicità di organi meccanici ognor più differenziati ed adatti, plasma la ma¬ teria e crea la forma industriale, il manufatto, l’oggetto d’uso, in altre parole attua l'utilizza¬ zione umana del mondo. Il problema della giu¬ stizia distributiva è il problema della equa ap¬ partenenza dei frutti del lavoro sociale. Invano noi domandiamo la sua soluzione ai nostri sistemi di diritto civile, infeudati all’idea tradizionale ro¬ mana d’un dominium ex iure quìritium , che va fino a W'u tendi ed abutendi della cosa, che con¬ cepisce il diritto di proprietà come una terribile forza d’attrazione, che come una legge di gravità giuridica fa ripiombare sul proprietario, quanto avendo avuto o potendo avere attinenza coll'og¬ getto da lui posseduto, rientra nel circolo magico del suo dominio. Nè deve maravigliarci se il mondo classico, Roma specialmente, abbia svolto in tutta la sua forza il concetto del proprietario (dominus) e della proprietà (dominium ex iure quiritium). Questa astrazione giuridica è nata in opposizione dello schiavo (servus) e dello straniero (kosiis , peregrinile), e si è fortificata sotto l’impero predominante della forza. Al contrario oggi si svi¬ luppa in più larga misura l’idea dell’usufrutto e del godimento. Le proprietà perdono quel ca¬ rattere di esclusiva distribuzione e di rigida ap¬ partenenza ed adesione ad un uomo o ad un consorzio, per assumere un valore di posizione 72 GIUSTIZIA molto relativo, rispetto a chi ne ha il godimento. Non è possibile valutare fino a qual punto il cri¬ stianesimo abbia contribuito a svolgere questa coscienza della transitorietà e della fugacità dei beni di questo mondo, dando al vincolo che unisce la ricchezza all uomo un valore di relativa dissolubilità e di fortuita adesione, cui l'uomo non deve attribuire molta importanza. Ciò in complesso ha dovuto indebolire il rude senso del possesso creato dalla forza nei tempi classici. L elasticità del rapporto economico moderno e la larga sostituzione del simbolo sotto tutte le forme (carta moneta , rendita , titoli industriali , ecc.) alla proprietà reale, creano certo la condizione più favorevole alla formazione della coscienza dell’usufrutto. Il grande proprietario moderno è più che altro un amministratore; alla dissipazione lussuosa an¬ tica, che ha per base 1 egoismo, si sostituisce progressivamente l’uso sociale della ricchezza nell'incremento dell’industria, della coltura, della beneficenza (i). Le grandi fortune patrimoniali appartengono oggi all’uomo più come mezzo di produzione e ^ fi) Sono i concetti espressi dal miliardario Andrew Carnegie sulla funzione della ricchezza. — Confr. Wundt, Ethics (trad. ingl.), voi. Ili, London, 1901, pag. 129-200: I roppo diffusa è l’insensata nozione che la proprietà è un diritto, al quale non corrisponde un dovere „, “ la pubblica coscienza è sempre più vigile verso le forme im¬ morali dell’acquisto, che verso quelle immorali dell’uso CAP. Ili - I FRUTTI DEL LAVORO, ECC. 73 di potenza economica o politica, che non come mezzo di consumo. Si è per così dire verificato col progresso civile un livellamento nella poten¬ zialità della spesa individuale, per cui il ricco oggi è tale più per quello che fa che per quello che consuma. La ricchezza diventa nelle sue mani una vera funzione sociale. Il palazzo favoloso di un nabab, le vesti di seta e d’oro, il servitorame, i banchetti, Xharem , ecc., in una parola il lusso asiatico, il fasto del patrizio romano, la corte bandita e le baldorie del castellano medioevale, la mensa del canonico, ecc. (i), tutto a poco a poco scompare dinanzi alla democratizzazione della vita, e il denominatore comune d'uno standard oj life medio, realizzato e generalizzato dal com¬ fort > dallo sport , dalla strada ferrata e dall 'hotel, per modo che un individuo, che maneggia mi¬ lioni di affari vive, alloggia, veste, mangia e si diverte press'a poco come il modesto impiegato a poche migliaia di lire di stipendio. L’uomo moderno è essenzialmente un produt¬ tore; ma non basta; questo concetto deve coni¬ li) Sul lusso della nobiltà francese nel secolo XVII vedi G. Hanotaux, Histotre dii Cardinal de Richelieu. Paris, 1896, tom. I, pag. 225. Un abito solo costava da tre o quattro mila lire, e un gentiluomo ne cambiava parecchi. “ Toute la noblesse du royaume étoit fondue de luxe „ diceva Luigi XIII. Oggi questo sperpero pel vestiario si è trasferito, benché in proporzioni minori, nella donna. — Sul lusso femminile in Italia nel se¬ colo XIV vedi Ph. Monnier, Le Quattrocento. Lausanne, 1901, I, pag. 72. Zino Zini, Giustizia. 10 74 GIUSTIZIA pletarsi con quest'altro: l’uomo moderno è es¬ senzialmente un cooperatore ; produzione e cooperazione sono i due cardini della vita eco¬ nomica moderna (]). Quindi una dottrina giuridica del frutto e della sua legittima appartenenza deve foggiarsi corre¬ lativamente a queste nuove condizioni di fatto, realizzate dal consorzio umano nell’attuale fase del suo sviluppo industriale. La giustizia esige il rispetto della realtà storica. Le contraddizioni tia il fatto e il diritto si traducono in iniquità. Ora se noi ci domandiamo quale concetto si fa la legge civile di frutto, e in base a tal con¬ cetto come ne fissi l’appartenenza, scorgiamo subito quanto di inadeguato, e quindi di ingiusto, sia nella costruzione giuridica, e perciò nella forinola legislativa, che a quella s’informa. Persiste infatti tuttora nella legge l’idea del frutto come prodotto naturale, la quale si formò nel diritto antico, per la convergenza di diversi fattori d’indole taluno psicologico, tal altro so¬ ciale. I giureconsulti romani non vi hanno visto che il risultato delle forze attive della natura, ciò che dovette anche dipendere, oltre che dal (i) L. Stein, La question sociale au point de vuc piti- losop/iique, Paris, 1900, p. 349. - Albion W. Small, General Sociology, Chicago, 1905, dimostra che la civiltà, come organizzazione dei fini, è un alterno processo d’emersione di interessi privati sotto la pressione del bisogno personale, e di riduzione di questi stessi inte¬ ressi al denominatore comune dell’utilità sociale. CAP. Ili - I FRUTTI DEL LAVORO, ECC. 75 carattere rudimentale della industria e della man¬ canza della coordinazione economica, dalla pre¬ valente concezione animistica e personale della natura e delle sue forze (alma tellus). Come tutto ciò è oggi profondamente mutato, e come balza chiaro ai nostri occhi il significato profondamente sociale del frutto, che ha il lavoro umano associato per sua condizione assoluta ! Una teoria nuova, coll’intervento deH’elemento sociale, si lascia già intravedere feconda di larghissimi corollari per l'attuazione della giustizia distributiva. 11 concetto abituale del frutto naturale, pro¬ dotto organico, perde terreno ed è sostituito da quella del frutto prodotto supcrorganico nel senso spenceriano, poiché è stato giustamente osservato, che non valgono le leggi della biologia, bensì quella dell’economia e della sociologia nelle costruzioni giuridiche (i). Tuttavia l’arresto di sviluppo e la cristallizza¬ zione conservatrice, che sono la caratteristica dei sistemi legali, ci riconducono ancor oggi alla tradi¬ zionale concezione del frutto della dottrina ro¬ mana, quando leggiamo ancora nel nostro Codice : « i frutti naturali e i frutti civili appartengono per diritto d'accessione al proprietario delle cose che li produce. Sono frutti naturali quelli che proven¬ gono direttamente dalla cosa, vi concorra o non vi concorra l'industria dell’uomo. Sono frutti civili quelli che si ottengono per occasione della cosa» (2). (1) Petrazicki, op. a/., I B, S. 7. (2) Cod. civ., art. 444. 76 giustizia Con quanta ipocrita modestia questo umile articolo di legge risolve in un batter d'occhio uno dei problemi fondamentali dell’economia e del diritto ! Parlare di (rutti naturali provenienti da cose, senza che vi concorra il lavoro umano, supporre in altri termini la spontaneità del frutto, il sem¬ plice dono della natura, è quanto meno una bella ingenuità nel nostro mondo meccanico, dove tutto è diventato industria, e dove ogni industria, spe¬ cializzandosi e corredandosi pel proprio esercizio di mezzi tecnici sempre più complessi, suppone una crescente applicazione di lavoro umano. Ma non è ancora qui il nodo della questione. Poiché si tratta dell’equa aggiudicazione dei frutti delle cose, intorno alle quali si è applicata una somma maggiore o minore di lavoro, sorge spontanea la domanda: quali sono i diritti di questo lavoro? quali i diritti di chi già detiene la cosa lavorata come proprietà? Poiché questo è il fatto, che le piesenti condizioni economiche realizzano quo¬ tidianamente e che il legislatore, che ha gli occhi al passato, per sempre morto nella storia, non sembra neppur sospettare; la dissociazione costante tra materia prima, stromenti e mezzi di produ¬ zione, e lavoro trasformatore e creatore di ric¬ chezze! L insufficenza legislativa appare manifesta, quando per troncare la questione si provoca l’in¬ tervento inaspettato d’un Deus ex mackina , sotto forma di diritto d’accessione, per cui i frutti delle cose sono fatalmente attratti verso il proprietario di esse. CAP. Ili - I FRUTTI DEL LAVORO, ECC. 77 Accessio cedit principali. Ecco un canone giu¬ ridico ereditato dalla romanità e formatosi nella società classica, sotto l’azione di peculiari con¬ dizioni economiche, che oggi si sono profon¬ damente mutate. Infatti il concetto dell’acces¬ sione dei frutti al proprietario della cosa, è la logica creazione d’una società a schiavi, in cui il lavoro umano servile non era un elemento attivo, ma esclusivamente passivo nella produzione della ricchezza. Lo schiavo sul terreno del pa¬ drone lavora, il terreno produce, lo schiavo, il terreno, i frutti sono del dominus del fondo. Questo è il fatto reale, indipendente da ogni speculazione filosofica o costruzione giuridica, precedente ad ogni aforismo e ad ogni teoria. Ex facto oritur jus. Più tardi, trattandosi di de¬ finire in un sistema di legge e di dottrina, in base a qual principio giuridico il proprietario di un fondo possa detenere le piantagioni, che altri vi abbia seminate, ovvero come possa dichia¬ rarsi proprietario dell’edifizio, che altri vi abbia innalzato, sorse il concetto d’accessione, che è caratteristico per l’essenza del dominio, e sta a rappresentare un elemento organico della pro¬ prietà romana, l'attrazione materialistica, che questa esercita su tutto ciò, che rientra nel suo chiuso recinto e indirettamente anche la repul¬ sione a tollerare entro la sua sfera diritti stra¬ nieri (i). (i) Bonfante, Istituzioni di diritto romano. Milano, 1902, pag. 225 e seg. 78 GIUSTIZIA Cosicché, se ben si guarda in fondo all’isti¬ tuto dell’accessione romana, v’è come un conflitto tra due forze giuridiche, quella rappresentata dal dominio, e quella rappresentata da un valore se¬ condario, che al primo si aggiunga, che in quello s’incorpori per modo che il conflitto termina colla vittoria del più forte (i). Ma questo medesimo concetto di principale ed accessorio, introdotto nei diritto odierno per risolvere il problema della legittima appartenenza dei frutti, è un assurdo, poiché o la loro acquisi¬ zione ò basata sopra un diritto sulla cosa che li produce, ovvero è basata sopra un rapporto di persona o quanto dire un contratto. Ad ogni modo non c’è qui conflitto giuridico tra princi¬ pale od accessorio come nel concetto romano, c'è anzi cooperazione, collaborazione per il pro¬ dotto nuovo, ogni qualvolta, come può dirsi nel mondo economico moderno accade quasi sempre, sia necessario alla creazione dell’ utilità il con¬ corso del lavoro umano. Ora il più elementare senso di giustizia vuole, che là dove il fatto della cooperazione produttiva si manifesta, al diritto d’accessione, che è l’espressione del diritto del più forte nella meccanica giuridica, si sostituisca il concetto nuovo dell’equa partizione del fratto ottenuto. Si può veramente dire che il diritto antico non abbia conosciuto questo problema, divenuto (i) Bonfante, op. cil., pag. 234. CAP. Ili - I FRUTTI DEL LAVORO, ECC. 79 oggi così comune della trasformazione della ma¬ teria prima per effetto del lavoro e la conseguente creazione di un valore nuovo? feenza dubbio no; soltanto che le condizioni particolari della pro¬ duzione economica ne fecero piuttosto un’ecce¬ zione che non la regola ordinaria, cosicché sotto un prevalente sistema di lavoro servile, applicato ad una proprietà assoluta ed esclusiva, non potè sorgere di fronte a qualche sporadico caso di opera industriale libera, altra preoccupazione che quella di una curiosità giuridica, una eie- gantia juris, qual’è veramente in diritto romano la dottrina della specificazione, colla sua ben nota disputa tra Proculeiani e Sabiniani (i). 11 pensiero di questi ultimi, dinanzi al quesito: ex aliena materia speciem aliquam facere , de¬ sunto dalla nattiralis ratio , è che il proprie¬ tario della materia acquisti anche la proprietà della nuova cosa prodotta, mentre i Proculeiani propendevano per la soluzione opposta. Era il concetto dei Sabiniani più antico e meglio ri¬ spondente alla classica concezione della proprietà romana, per cui essa aderisce alla sostanza delle cose, per modo che sia naturale conseguenza dell'idea di dominio, che il proprietario della ma¬ teria rimanga anche proprietario dell’ oggetto fabbricato con essa? Può essere; e in tal caso questo principio corrisponderebbe anche alle con¬ fi) O. Karlowa, Romische Rechtsgeschichie. Leipzig, 1892, Il B, I Ab, S. 427, ff. — Bonfante, op. cit., pa¬ gina 230. 8 o GIUSTIZIA dizioni reali dei tempi antichi, quando ciascuno doveva essere allora, rispetto ai suoi rapporti economici, in condizioni d’isolamento, ciascuno doveva produrre coll’aiuto degli schiavi e della famiglia quello di cui abbisognava. Che taluno poi qua e là abbia potuto lavorare talvolta intorno a materia aliena, può essere ac¬ caduto, ma dovettero essere casi rari, che non potevano dare sufficente motivo per creare un’ec¬ cezione al principio sostanziale del concetto di proprietà. Come poi la divisione del lavoro si formò, e le industrie di fabbricazione si organiz¬ zarono con una certa estensione, potè anche esser fatto valere il pensiero, che dovesse appar¬ tenere al fabbricante la proprietà sul fabbricato in ogni caso. Quindi dovrebbe essere il cangia¬ mento successivo nei rapporti reali, che ha pro¬ vocato l’opinione dei Proculeiani. Questo non è però il pensiero di qualche ro¬ manista competentissimo, il quale dubita che ve¬ ramente così tardi sia l'industria diventata un ramo della produzione per sè stante presso i Ro¬ mani (i). Forsechè soltanto verso la fine della Re¬ pubblica hanno i proprietari rurali romani comin¬ ciato a produrre vino ed olio anche per uso altrui e a farne commercio? Hanno gli abitanti delle città, specialmente di Roma, fatta eccezione dei ricchi, i quali possedevano molti schiavi, po¬ tuto produrre da sè con proprio materiale tutto (i) Karlowa, op . cit . CAP. in - I FRUTTI DEL LAVORO, ECC. 8l ciò che esige il bisogno della vita? Secondo il suo pensiero anche i Sabiniani vedono in quel ex aliena materia speciem aliquam facere la in¬ tenzionale creazione di cosa nuova per mezzo d'un fatto umano e non soltanto un mutamento della stessa cosa. Scompare il primitivo oggetto e Gaio parla della cosa manipolata come d’una extinta res, nuovo è l’oggetto del diritto, diversa è la proprietà su di esso dalla proprietà sulla materia. Certo la proprietà comprende anche la sostanza contenuta nella forma della cosa, ma la forma non è indifferente per l’identificazione dell oggetto del diritto. Un completo rimaneg¬ giamento della cosa, come annientamento della forma preesistente, è annientamento dell'oggetto del diritto, ossia annientamento del diritto stesso. Poiché la proprietà abbraccia anche la materia, può anche, secondo la concezione dei Sabiniani, produrre che il proprietario del primo oggetto del diritto acquisti la proprietà del nuovo oggetto del diritto. Che, secondo il concetto di Gaio, la specificazione annienti l’antico oggetto e il cor¬ rispondente diritto di proprietà, risulta da ciò ch’egli non pone a fondamento dell’opinione dei Sabiniani : quia eadem res est, sed quia sine ma¬ teria nulla species effici potest. 11 proprietario della materia acquista la proprietà del nuovo oggetto del diritto, perchè questa, senza la preesi¬ stente contenutavi materia non avrebbe potuto sorgere. E allora trattandosi di cosa nuova , sorta intenzionalmente per fatto umano, la naturalis ratio, sembra al Karlowa che, secondo il carat- Zino Zini, Giustizici. Il 82 GIUSTIZIA tere morale e giuridico romano, che dà maggior peso al fatto che alla materia, debba dichiararsi in favore del trasformatore. L’impronta perso¬ nale imposta alla materia indica il dominus di essa. Noi non vogliamo impegolarci di più in queste sottili bisantinerie del diritto e della sua interpretazione; ma è dubbio, che la personalità di cui ragiona il Karlowa sia quella personalità di lavoro e di produzione economica, che forma oggi la base della più moderna rivendicazione al prodotto integrale del lavoro (i). A Roma ha prevalso il concetto pubblico sul privato. L’an¬ tichità, che dal più al meno è comunitaria e col¬ lettiva nell ’oikos o nella polis, non conosce nò il lavoro, nè la coscienza personale. Ma nel tempo nostro, la progressiva emancipazione dell’ indi¬ viduo gli ha fatto acquistare un valore personale, che si esplica nell’ ordine economico, come in quello morale. Tutto oggi è lavoro; non si può più parlare di frutti senza concorso di lavoro umano. Quindi il criterio proporzionale del diritto riposa oggi sul lavoro personale, in rapporto alle generali condizioni della società, cioè apprezzato dal punto di vista dell'utilità collettiva. Se specificazione è la trasformazione della materia, tutto il processo industriale è una continua specificazione, com¬ piuta sulla base d’un contratto, che non deve (i) A. Menger, Le droit an prodiiit integrai da travati . Paris, 1900. CAP. in - I FRUTTI DEL LAVORO, ECC. 83 essere solo imposto come una necessità econo¬ mica, ma accettato come una giustizia sociale. Se la questione sociale è, per la massima parte, la questione della distribuzione dei frutti, essa non si può risolvere senza prendere come punto di partenza il lavoro, che è il precipuo fattore della trasformazione specificatrice. Il fondo dell’economia moderna è un vasto sistema di collaborazione, che tende a farsi sempre più cosciente e perciò ad affermarsi in correla¬ tivo sistema di diritti riconosciuti. La ricchezza è il prodotto del lavoro intellettuale e tecnico coordinato, e la grande industria ha centuplicato la forza creatrice di questo lavoro, sussidiato dalla macchina e diretto dalla scienza: i processi di fabbricazione complicatissimi fanno passare del tutto in subordine la materia prima, che il più delle volte à un valor minimo. Convengono verso questa ricchezza per la sua distribuzione le forze produttrici : l’interesse del capitale, il profitto dell’impresa, la rendita della terra, il sa¬ lario della mano d’opera, il premio dell’assicura¬ zione. L’equa determinazione di ciascuna di queste proporzioni dovrebbe essere la forinola della giu¬ stizia distributiva. Ma possiamo sperare di trovarla o dobbiamo lasciare che si determini da sè stessa, secondo l’opportunità? L’equazione economica ha troppe incognite, per poter esser risolta nello stato attuale della società industriale; ma è ab¬ bastanza visibile la tendenza generale e per così dire il limite, verso cui la formola della giustizia distributiva si avvicina. La concorrenza crea essa 8 + GIUSTIZIA stessa l'accordo. Il capitale impersonale scende progressivamente ed automaticamente al saggio del minimum d'interesse, e ciò per l’affluenza stessa dei capitali creati dal risparmio verso un impiego industriale, che assicuri loro il tasso nor¬ male del mercato, quando un sistema d'assicura¬ zione li tuteli, oltre che dai soliti rischi, anche da quelli più strettamente dipendenti dalle crisi economiche. L’avvenire dell'assicurazione è la formola pratica della solidarietà sociale, e rappre¬ senta un sistema d’equilibrio e di compensa¬ zione reciproca dei vari fattori della produzione e del lavoro (x). Anche l'elemento del profitto è soggetto ad un processo di trasformazione regressiva : è in questo senso che la speculazione deve far posto alla cooperazione produttiva ; l'imprenditore sarà sostituito dal direttore tecnico. Ualea, che ha rappresentato e rappresenta tuttora tanta parte della vita economica, tende ad eliminarsi grado a grado per la regolarizzazione dei mercati. Ci avviamo verso l’unità delle forze economiche, l’equilibrio dell’atmosfera industriale. Si fissano i tipi dei prodotti, si uniformano i processi tecnici, si eguagliano i prezzi, si specificano i centri di produzione. Ciò che oggi si ottiene col protezionismo di Stato e coi trusts , si otterrà do¬ mani con una naturale legge di accentramento (i) Novicow, Les gaspillages des sociétés moderna. Paris, 1894, pag. 312-313. CAP. IH • I FRUTTI DEL LAVORO, ECC. 85 e di distribuzione nella produzione; si delimite¬ ranno spontaneamente le zone economiche sulla carta terrestre. Diminuendo il fattore casuale, la speculazione perde del suo carattere di legitti¬ mità in favore della partecipazione agli utili. Ora, il lavoro umano, massimo tra i fattori nella creazione della ricchezza, non sarà ammesso a questa partecipazione ai benefici d’ un’ impresa, mentre vi è ammesso sotto forma di dividendo il capitale d'un azionista qualunque, che non prende personalmente parte all’opera comune, se non versando una somma* di danaro ?(i). Se il problema della giustizia è essenzialmente quello della distribuzione dei beni, soltanto una ulteriore evoluzione della società potrà risolverlo (1) Sulla questione della partecipazione ai benefizi industriali (profit-sharing — Gewinnbetheiìigung) confi E. Waxweiler, La participation aux béncficcs. Paris, 1898. — Quarterly Review, January 1905. — Ch. Gide, La partecipazione ai benefizi, nella Semaine littéraire, di Ginevra, tradotta nell 'Idea Liberale, di Milano, 15 gen¬ naio 1905. Nell’evoluzione del salario, l’Inghilterra è entrata in questa fase espressa dalla formula : " il sa¬ lario varia secondo la situazione degli affari „. Agli argomenti di P. Leroy-Beaulieu e di Y. Guyot, che negano alla partecipazione fondamento di giustizia e di scienza, giungendo a definirla un unearned increment, Gide risponde: " gli operai ànno un diritto su tutte le ricchezze uscite dalle loro mani „. Progetti legislativi in tal senso sono stati presentati alla Camera francese c al Parlamento dello Stato più avanzato dal punto di vista sociale, degli Stati Uniti, il Massachusetts. Confi anche Pierson, Trattato d‘economia politica. Torino, 1905, 86 GIUSTIZIA adeguatamente, che abbia per meta quello Stato democratico del lavoro, il quale mira in modo precipuo allo scopo di organizzare il lavoro in¬ tellettuale e materiale dei cittadini e la distri¬ buzione dei frutti prodotti da questo lavoro nell’interesse'MeH’intera popolazione (i). I, pag. 66, dove esclude che il salario faccia parte del costo di produzione, ma bensì del reddito dell’impresa. I collaboratori della produzione partecipano al suo be¬ nefizio. Salari, interessi e profitti non sono parte del costo, ma frutti del lavoro di produzione, suoi risultati, non sacrifizi, ma guadagni; — pag. 78: “ la totalità dei prodotti dell’intera società forma come una grande co¬ munità, a cui ognuno che partecipa all’ industria for¬ nisce il suo contributo, e la disponibilità di tale comu¬ nità di beni si divide tra coloro stessi che contribuirono ; la divisione si effettua, per quanto si riferisce alla gran¬ dezza delle quote, secondo il valore dei contributi di ciascuno, e per ciò che si riferisce alla specie degli og¬ getti, secondo la libera scelta „. (1) Menger, Lo Stalo socialista, p. 56-57, 125 e seg. &&ÉÉÉÉÉÉÉ&ÉÉÉÉ CAPITOLO IV. Libertà od eguaglianza. Quando ci poniamo innanzi il problema della giustizia, bisognerebbe far precedere questa pre¬ giudiziale: la soluzione che intendiamo proporre è destinata a rimanere in un ordine di relazioni puramente astratte, oppure vuole tradursi in una pratica attuazione più o meno approssimativa dei nostri ideali? Perchè in realtà c’è ancora un enorme cammino tra il dominio speculativo e il campo pratico : — nel primo la ragione umana gode d'una illimitata libertà di pensiero, nel se¬ condo la volontà non dispone che di scarsi mezzi d’azione! Gli è così che costruendo teoricamente l 'homo rationalis, precipitato della speculazione, in cui si distillano i caratteri essenziali della sua natura fisica e spirituale, eliminando le scorie etero¬ genee che vi à fatto aderire il processo storico della civiltà, possiamo facilmente pervenire al postulato platonico dell’uguaglianza di fatto, ov- 88 GIUSTIZIA vero a quello kantiano dell’uguaglianza di diritto : possiamo affermare: la giustizia esige parità di trattamento, e questa parità di trattamento si raggiunge, sia ponendo gli uomini in condi¬ zione di Maturale uguaglianza, sia ponendoli in quella di uguale libertà. E così si mettono di fronte i due avversari tradizionali, l’apostolo delle rivendicazioni sociali, che costruisce il piano pere- quatore delle sorti umane, e il filosofo della libertà, che domanda il rispetto della persona umana e il conseguimento spontaneo della sua finalità. E non si accorgono nè l’uno nè l’altro, che mentre non vi può essere una reale uguaglianza imposta, e che perciò essa suppone una parallela libertà, nemmeno può l’uomo essere considerato in condizioni di ugual libertà pratica coi suoi simili, se non si trova con essi sopra un piede di relativa uguaglianza di fatto. Cosicché in fondo è sempre la medesima questione veduta da due punti diversi: eguaglianza è stato, libertà è moto. Ma in realtà statica e dinamica si riuniscono nel mondo fisico come in quello morale; nella meccanica sociale l'individuo è attualmente quello che à potuto essere, e sarà in rapporto a quello che è; la potenza e l’atto, il virtuale e il reale non si scindono che nelle nostre astrazioni. Dobbiamo accontentarci di riporre l’ideale della giustizia sopra la base di una eguale condizione di libertà, ovvero dobbiamo sforzarci di raggiun¬ gere una pratica equità nella distribuzione delle condizioni di benessere ? A me pare che il con¬ cetto kantiano ripetuto dallo Spencer non rea- CAP. IV - LIBERTÀ OD EGUAGLIANZA 89 lizzi nemmeno negativamente la giustizia — nel senso cioè di impedire la iniquità — ma anzi la consacri, accogliendo il fatto compiuto come espressione del giusto. Infatti nell'ordine sociale, come si è svolto storicamente, le eguali condi¬ zioni di libertà sono un'illusione teorica, ed una feroce ironia praticai Sarebbe molto più logico dire : l’uomo ha tanto diritto quanto ha potere ; ma allora perchè protesteremmo così energica¬ mente contro la violenza fisica della schiavitù, mentre accogliamo serenamente la violenza eco¬ nomica del salariato? Gli è che veramente l 'homo rationalis è un fantasma filosofico; non c’è altra realtà che l’uomo di carne e d’ossa, e questo è sempre o un servo od un padrone, od anche un po’ l’uno e un po’ l’altro secondo le circostanze e in diversa misura. Tutta la costruzione cer- vellottica della persona giuridica col suo fascio inviolabile di diritti naturali precipita e sfuma! Non vi sono in realtà che dei diritti acquisiti, e nessuno vorrà certo affermare che la distribu¬ zione dei mezzi d’acquisizione sia fondata sopra condizioni di parità. Qui veramente è il nodo della questione. Il grande equivoco è nato dalla teoria del diritto naturale: essa ha consentito all’ingenuità dei filosofi speculatori la facile con¬ solazione di chiudere la bocca ai nove decimi dell’umanità col falso dono dei diritti naturali, mentre di fatto permetteva al decimo restante dei privilegiati di godersi in pace le mal acqui¬ state ricchezze ! Tutti i diritti sono acquisiti dal tenace sforzo della vita, divenuto cosciente e ca- Zino Zini, Giustizia. 12 go GIUSTIZIA pace di farsi rispettare (i). Si tratta soltanto di rifare da capo la tavola distributiva dei titoli di acquisizione, per rivederne la legittimità. L'uomo, che ha acquistato il diritto alla vita e quello della sua libertà fisica e morale — l’uomo acqui¬ sterà anche il diritto all’integrale compenso della sua cooperazione sociale. Se la giustizia consi¬ stesse soltanto nell’assicurare a ciascuno la libera estrinsecazione delle sue forze, senza curarsi del preventivo equilibrio nella posizione rispettiva di vantaggio o di svantaggio, creato dal rapporto sociale, che è di natura assolutamente imperso¬ nale, in che cosa sarebbe differente — di fronte all’ideale giustizia kantiana — la prepotenza del baione feudale, che domina dalla sua rocca forte, come l’aquila dal suo nido, gl’inermi vassalli appollaiati ai suoi piedi, da quella del moderno re del cotone o del grano, del trustista nord- americano, che nelle sue casse forti chiude il destino economico d’una nazione ? (2). (t) F. Lassalle, Thcorie systematique des droìts tic- quis. Paris, 1904, (trad. frane.), Tom. I, Introduction, pag. vili: “ il diritto è sociale, e nascendo da un fatto è sempre acquisito, e perciò caduco „ — pag. xviii: “ Una rivoluzione sociale è una modificazione dei di¬ ritti acquisiti „. — Conf. Savigny, System des romischen Rec/ds, 1849, tom. Vili, pag. 388, dove giustifica l’espro¬ priazione, combattendo il principio classico della non retroattività della legge. — V. pure E. Gans, Ueber die Grmidlage des Besitzes. (2) Stein, op. cit., “ i grandi sindacati danno ai moderni capitalisti lettera di corsa per depredare la società CAP. IV - LIBERTÀ OD EGUAGLIANZA 91 Cade quindi come una grande illusione spe¬ culativa tutto l'edificio, su cui poggia la bella formola di Kant, che lo Spencer traduce e in¬ cide sul fronte del suo tempio etico, robusta costruzione inalzata con stile positivista. E possibile trovare un criterio che attui la giusta distribuzione del bene e del male ? Se si risponde di sì, bisogna far intervenire una forza superiore, una intelligenza, e una volontà nello stesso tempo, sovrannaturali ; ovvero ammettere che l’uomo nelle condizioni naturali possa raggiungere la giustizia; in altre parole possa comprendere e possa attuare il giusto. Comprendere funzione dell’intelletto, praticare funzione della volontà. C’è stata, è vero, una risposta molto semplice per sciogliere l’enigma: proclamare la persona umana soggetto di diritti naturali, inalienabili e sacri, dotarla essenzialmente della libertà, che tutti li compendia; rispettare questi diritti, ricono¬ scere questa libertà, ecco la giustizia. La filosofia, che fa il suo punto d’appoggio nella libertà per fondare il regno della giustizia, non si preoccupa per nulla di definire questa li¬ bertà, nè di determinarne il valore psicologico. Ora la libertà in abstracto corre rischio d'essere un’illusione. Mirabile vocabolo, parola unica, in cui si sono certo riassunti e quasi integrati aspi¬ razioni, tendenze, desideri molteplici, sorti nella coscienza umana come reazione a violenze, abusi, tirannie materiali e morali. Chiesa e Stato colla loro intollerante oppressione sui corpi e sulle anime ànno fatto esplodere il sentimento della 92 GIUSTIZIA libertà, l'acuta febbre delle rivendicazioni perso¬ nali e collettive, che forma 1' anima di tutte le rivoluzioni tanto nel campo del pensiero che in quello dell’ azione. Il contenuto psicologico di quest’ idea è religioso e politico, e il momento storico della sua apparizione è il secolo XVIII, il grande crogiuolo delle forme libertarie attuate nello Stato borghese (i). In realtà se guardiamo alla pratica della vita, se teniamo conto della sua regolarizzazione pro¬ gressiva, frutto d’una crescente subordinazione professionale e sociale, se pensiamo alla forza della tradizione, all'impero del costume, alla tendenza così spiccata nell'uomo verso l’irresponsabilità, presto ci persuadiamo che il sentimento di libertà à un’azione assai scarsa sulla condotta, c la sua sod¬ disfazione è un fattore secondario della felicità (2). L’uomo è troppo dominato dall’ abitudine in ogni ordine della sua attività per essere vera¬ mente un soggetto attivo di libertà. Cosicché il suo nome, scritto così solennemente nei nostri Codici, è pei più una espressione verbale priva di significato positivo; ideale insufficiente per la grandissima maggioranza umana, che ignora il suo valore spirituale, tanto elevato per un sì stretto circolo di coscienze superiori, che sono pervenute all'isolamento morale e intellettuale del proprio io mediante la volontà e l’intelligenza. (1) A. Sorel, L‘Europe et la Revolution. Paris, 1887-89, I, pag. 106; II, pag. io. (2) A. Menger, Lo Stato socialista, pag. 79-80. r CAP. rv - LIBERTÀ OD EGUAGLIANZA 93 La storia umana è molto più una lotta per il diritto, che per la libertà. In fondo la filosofia liberale è una pallida interpretazione dei bisogni umani nella vita sociale, la sua efficacia alla so¬ luzione del grande dissidio degli interessi mi pare molto limitata, e il novissimo individualismo ultra, che conclude in un olimpico disprezzo per ogni azione diretta dello Stato con una formola nikilista di mussulmana apatia, ripetendo il solito ritornello della libera concorrenza, non va al di là, dopo tutto, di un puro e semplice riconosci¬ mento del fatto compiuto, inspirato dall’egoismo. L’uomo che getta la corda al collo del suo si¬ mile, e lo sottopone alla violenza fisica o morale, compie un atto di volontà ossia di libertà, che non à altro limite che la sua potenza attuale. È questo il diritto naturale, extra-sociale, secondo il pensiero di Spinoza (i), il pesce grosso che mangia il piccolo con diritto uguale a quello dell’uomo forte, intelligente, attivo, che s'innalza sul suo fiacco rivale, che gli strappa di mano la ricchezza, accaparra le sorgenti della vita e del benessere, e si apre nel mondo l’adito alla fortuna, a gomi¬ tate, tra la debole folla che ingombra il suo pas¬ saggio. Ma che cosa c’entra colla constatazione di questa brutale realtà, il principio della giustizia e la sua ideale approssimazione nell’umanità? Tanto vale arrestarsi alla crudele apologia del (i) Spinoza, Tractatus theoìògico-politici, Caput XVI; Ed. van Vloten et Land, Opera II, pag. 121-127. 94 GIUSTIZIA fatto, accettare la necessità dell'iniquo, e depo¬ nendo l’ipocrita maschera del moralista, mostrare francamentè i pugni dello struggle-for-lifer. Ma possiamo veramente accettare questa espli¬ cita rinuncia dell’ideale; in altre parole, l’uomo può arbitrariamente abolire una parte della propria coscienza, quella cioè che contiene le esigenze del dovere (seinsollendcn) ? Ed in base a quali mo¬ tivi noi dovremo dare un’ incondizionata prefe¬ renza a ciò, di cui riconosciamo 1'esistenza mate¬ riale su ciò, di cui sentiamo la necessità morale ? Osserva il Sidgwick giustamente, che il prin¬ cipio di libertà presenta necessariamente limiti e restrizioni, non potendo essere in primo luogo applicato, se non agli esseri umani sufficiente- mente intelligenti per reggersi da sè, cosicché ne rimangono esclusi gl’incapaci di guidarsi, per difetto di età, di mente, come anche coloro, che privi di educazione, permangono ne’ più bassi gradi di civiltà ; e secondariamente, perchè alla libertà impone limiti d’ordine utilitario il con¬ tratto, che può spingersi fino ad una reale vo¬ lontaria schiavitù, più o meno larvata (i). Vediamo, ad esempio, a che si riduce la pre¬ tesa libertà umana rispetto alle cose esteriori, che costituiscono la necessaria integrazione della nostra vita. L’ esercizio di questo diritto chia¬ masi proprietà, e intorno ad essa, come a centro di tutta la vita economica, si è combattuta e si (i) Sidgwick, Mcthods of Ethics, pag. 275 e seg. CAP. IV - LIBERTÀ OD EGUAGLIANZA 95 combatte tuttora una terribile lotta d'interessi e di idee. Non vedo, dice Sidgwick, che questa forma di libertà implichi più che il diritto alla non interferenza per parte d’altri, quando io uso attualmente una cosa, che non può essere usata che da una sola persona per volta. Il diritto di escludere gli altri dall’ uso futuro di una cosa, che un individuo à una volta preso, sarebbe a questa stregua non un atto di libertà, bensì una interferenza nella libera azione degli altri, oltre ciò che è necessario per assicurare la libertà deH’appropriatore. Ma è evidente che a questo modo di vedere contraddice tutto il sistema di leggi che garan¬ tisce l’uso perpetuo ed esclusivo dell’oggetto di proprietà, e Io cinge d’ una insormontabile bar¬ riera. È facile supporre la risposta che l’uomo, appropriandosi una cosa, non invade la libertà altrui, perchè rimane aperto il resto degli oggetti appropriabili nel mondo. Ma questa scappatoia apre l’adito a una grande quantità di obbiezioni, e non elimina le difficoltà della soluzione. Anzi¬ tutto può accadere che più uomini abbiano bi¬ sogno della medesima cosa, ovvero che l’appro¬ priazione d’una cosa renda troppo difficile o faticosa la sua sostituzione, e poi, obbiezione più grave, i mezzi materiali della vita sono forse illimitati ? Ancora se nel sistema delle leggi fosse posto un limite all'appropriazione individuale, ad esempio, della terra, fonte precipua ed originaria d’ogni ricchezza; ma come e dove fissare il criterio di questo limite? Noi non ne conosciamo nessuno 96 GIUSTIZIA che si sia imposto storicamente alla pratica so¬ ciale e giuridica, come forse non sapremmo nem¬ meno proporne uno derivato dalla logica. Supponendo un paese che si apra nuovamente alla civiltà, quanto può essere accordato ad un uomo di appropriazione per prima occupazione ? Forse la misura dell’ uso sembrerebbe la più spontanea; ma come accettarla incondizionata¬ mente, mentre l’uso d’un individuo rispetto alla terra varia indefinitamente crescendo, ad esempio, in estensione di quanto diminuisce in intensione ? Cosicché sarebbe una paradossale deduzione del principio di libertà sostenere che un uomo à di¬ ritto d’escludere gli altri dal pascolo del bestiame sopra una parte della terra, sulla quale debbono estendersi le sue spedizioni di caccia. Eppure ciò è anche accaduto; nel medio-evo il signore feudale, affermando il sua diritto supremo sulla terra, ne consacrò una porzione enorme alla soddisfazione capricciosa del proprio piacere della caccia, evincendo ed affamando il conta¬ dino, e nella campagna nuovamente spopolata ed incolta esercitò le sue barbariche spedizioni di caccia; ma allora l’uomo dei campi era servo della gleba, le classi inferiori erano soggette al tallone ferrato della feudalità. Supporremmo noi oggi possibile la ripetizione di questo delitto di lesa umanità per parte dei grandi proprietari della terra, i quali volessero trasformare in parchi e bandite i campi coltivati a grano o a riso, mettendo per tal modo a razione migliaia e mi¬ lioni di esseri umani, che vivono di quei prò- CAP. IV - LIBERTÀ OD EGUAGLIANZA 97 dotti, facendo rincarare il prezzo delle derrate alimentari, limitando in tal modo la vita? Ipotesi assurda questa, non soltanto perchè mostruosa¬ mente contraria ai senso morale, ma perchè anche antagonista della moderna costituzione economica, che è una solidarietà di lavoro e d’interessi, e in cui la rovina di una classe trascinerebbe nel¬ l’abisso della miseria anche le altre. Piuttosto noi abbiamo assistito al fatto opposto: cioè ab¬ biamo nei sistemi coloniali realizzato la sostitu¬ zione di un diritto superiore ad uno inferiore, il dirittto della civiltà a quello della barbarie. Almeno è con esso che si giustifica la progres¬ siva occupazione territoriale, che i popoli bianchi ànno fatto nei paesi extraeuropei a danno delle popolazioni indigene, ciò che à in molti casi equi¬ valso ad una vera eliminazione di quest’ultime. Necessaria e quindi giusta soppressione dei meno adatti a vantaggio dei più adatti, diranno molti facendo una facile e grossolana applicazione della selezione darwiniana ai rapporti umani. Noi non ci arbitriamo di risolvere cosi alla spiccia una questione tanto ardua e che implica forse la maggiore antinomia etica: il contrasto tra la convenienza e la giustizia. Poiché la ragione calco¬ latrice dei valori approva il fatto storico del più grande adattamento dell’Ecumene al suo abita¬ tore, che è la condizione imprescindibile alla in¬ tensificazione della vita umana, ed accetta anche i mezzi della sua attuazione; mentre d’altra parte la coscienza ripugna a questa vittoriosa espan¬ sione dell’uomo civile o più forte fisicamente ed Zino Zini, Giustizia. 13 98 GIUSTIZIA intellettualmente, che elimina l’essere debole ed ignorante, e lo esclude dalla partecipazione dei mezzi di vita, per ciò solo ch'egli non sa ri¬ trarne tutte le possibili utilità, di cui essi sono suscettibili. E del resto come non sentire tutto il pericolo, che è contenuto in una determinazione utilitaria della giustizia, quando, per esempio, si acco¬ gliesse che il pastore può evincere il nomade, che vive di caccia, e che quello a sua volta può essere evinto dal contadino, e questo dall’indu- striale, che volesse esplorare il sottosuolo? L' insufficenza del criterio di libertà è resa manifesta dalla difficoltà d’accordare questi tre termini, libertà, appropriazione ed eguaglianza. L’uomo senza proprietà è necessariamente meno libero dell’uomo fornito di proprietà. Bastiat dice, e con lui ripetono gli ottimisti di tutti i tempi e paesi, che l’uomo, sprovvisto di proprietà, possiede pur sempre una libertà di contratto, che gli permette di offrire i propri servigi in cambio dei mezzi atti alla soddisfazione de’ suoi bisogni; e che questo cambio gli assicura una maggior somma di benessere che se si trovasse solo in un mondo deserto. Ciò che è perfetta¬ mente vero, poiché ogni consorzio umano rende colla cooperazione industriale la parte della terra, che abita, più adatta a procurare soddisfazione dei desideri di ciascuno e di tutti i suoi membri, compresi anche quelli che ultimi sono venuti ad assidersi a ciò che Malthus chiama il banchetto della vita. Intanto però l'esperienza dimostra che CAP. IV - LIBERTÀ OD EGUAGLIANZA 99 molti uomini in una qualunque società civile, non trovano modo di mettere a profitto i loro servigi o se lo possono, non ne ottengono che mezzi insufficenti alla vita. Che quando pure ciò si supponesse evitato, resterebbe sempre che il consorzio umano col fatto dell' appropriazione, interferisce sulla naturale libertà dei suoi membri poveri. Consentire che l’uomo lavorando, usando cioè liberamente delle sue energie fisiche o spi¬ rituali, si procacci in proporzione più o meno estesa quei vantaggi economici che il tipo di ci¬ viltà, di cui è parte, gli possa offrire, è in un certo senso, rileva Sidgwick, riconoscere il di¬ ritto ad un compenso molte volte inadeguato per quella partecipazione diretta della ricchezza, dalla quale egli si trova escluso (i). In altre parole, la sua ammissione mediante lavoro, al godimento degli agi materiali, è compenso d'una libertà di fatto che la sua fortuna gli à negato, perciò non può essere la realizzazione della libertà lo scopo finale della giustizia. Ciò che la giustizia distribuisce nella relazione sociale che stringe fra loro gli uomini, e forma quasi l’inconsapevole fatto della loro unione mo¬ rale, non è dunque tanto la libertà, inafiferabile astrazione, che si concreta nella potenza, quanto piuttosto i benefici e i pesi, i vantaggi e gli oneri, di qualsiasi natura, materiali ed immateriali, che sorgono ed accompagnano il vivere collettivo. (i) Sidgwick, op. al., pag. 277-78. IOO GIUSTIZIA Ma la determinazione del criterio nella distri¬ buzione è il punctum saliens della questione, poiché, come aveva già avvertito Aristotele, giu¬ stizia non è termine equivalente ad eguaglianza, anzi l’esigenza della giustizia implica una relativa disuguaglianza tra le sorti di coloro che sono ad essa soggetti. Giustizia non è distribuzione egua¬ litaria, ma proporzionale; essa non mira ad una parità di trattamento se non nel senso eh’essa escluda ogni arbitraria parzialità. Si potrebbe anche porre il problema in questa altra forma: la giustizia, come distribuzione di utilità e di carichi nella vita sociale non è iden¬ tica all’ eguaglianza, ma è soltanto esclusiva di illegittima disuguaglianza; essa non aspira diret¬ tamente alla perequazione umana come a suo scopo, ma indirettamente la realizza, in quanto impone per la sua attuazione che cessino molte cause d’ingiusta ineguaglianza. Se noi ripassiamo nella nostra mente la storia morale dell’ umanità, vediamo emergere chiara¬ mente la coscienza di questo problema della di¬ stribuzione, che è poi il problema stesso della giustizia, ed assistiamo ad una catena di sforzi per risolverlo; conati empirici nelle leggi, nelle istituzioni di beneficenza e di protezione, conati teorici nella filosofia e nell’apostolato riformatore. La disuguaglianza sociale è il fatto sperimentale, immanente e multiforme, e invano protesta contro la realtà la coscienza sia come sentimento e sia come ragione. Ma la sua constatazione non esclude la sua interpretazione e spiegazione genealogica. CAP. IV • LIBERTÀ OD EGUAGLIANZA IOI La disuguaglianza umana può essere ridotta a due forme: la naturale e la derivata. La prima origina dalla legge di variazione spontanea che domina ogni ordine di fatti in natura, per cui non c'è nulla di assolutamente identico, tutto è infinitamente diverso, anzi questa diversità cresce in ragione diretta della complessità, e l’uomo, essendo di tutte le manifestazioni naturali quella che offre il più alto grado di complessità, così egli è anche il soggetto di una più ricca combi¬ nazione di elementi, per modo che l'umanità è veramente il maggior campo di variazioni spon¬ tanee, che la nostra esperienza possa e fisica- mente e psichicamente controllare. La categoria delle disuguaglianze derivate è più strettamente sociale, e risulta da cause sto¬ riche, e perciò transitorie, mutevoli e fino ad un certo punto riducibili. Sarebbe però erroneo considerare queste secondarie cagioni della di¬ sparità umana quasi arbitrarie, illegittime e perciò senz’altro inique, per cui si debba quasi fame cadere una responsabilità suH’incivilimento, e la storia di esso venga, come fecero gli scrittori del secolo XVIII, chiamata a comparire dinanzi al tribunale della Ragione, per sentirsi leggere un terribile atto d’accusa riepilogante per sp^mi capi i secolari arbitrii e le antiche iniquità, che pesano sulle classi degli inferiori fa, degli op¬ pressi. La vita storica à le sue lèggi, come la vita organica, per quanto più complesse e; meno conoscibili, facendo parte di una espèrienzà im¬ personale e perciò poco accessibile alfe coscienza 102 GIUSTIZIA individuale. Soltanto che essendo i fatti storici, parte della contingenza (i), ed essendo conosciuti come tali, l’uomo, pervenuto al senso storico della vita di relazione coi propri simili, concepisce la possibilità della reazione attiva del suo spirito critico e della sua volontà sulle condizioni di fatto della coesistenza sociale, e dalla giustizia conservatrice della norma consuetudinaria con¬ cretata nel costume ovvero sancita dalla legge, passa alla giustizia ri formatrice, opponendo al reale 1’ ideale, a ciò che è ciò che dovrebbe essere. Ogni attuazione di diritto superiore è espres¬ sione di potenza. L’errore però del materialismo economico è di credere tal potenza sempre e necessariamente materiale, quasicchè legge fosse concretamento di forza economica acquistata e prevalente nei conflitti di classe e di gruppo, mentre anche gli stati di coscienza generaliz¬ zati, che chiamiamo sentimenti di equità, di uma¬ nità, ecc., sono proprie energie ed imprimono tendenze e provocano spostamenti. Le disuguaglianze d’ordine sociale sono dunque riducibili, almeno in quella misura in che sopra di esse possa spiegarsi l’opera trasformatrice (i) Dante (Par. XVII, 37-39) lo à espresso in modo meraviglioso nella nota terzina: La contingenza, che fuor del quaderno Della vostra materia non si stende, Tutta è dipinta nel cospetto eterno. CAP. IV - LIBERTÀ OD EGUAGLIANZA 103 dell’uomo stesso — e la storia dei conflitti e delle relazioni tra le classi umane ne è sicura testimonianza. Ciò che ne risulta è la diminu¬ zione delle disuguaglianze, almeno di quelle più manifeste e stridenti, che sembravano porre in¬ sormontabili barriere tra uomo e uomo, e fissa¬ vano rigidamente il posto di ognuno nella sua classe, precludendogli l’accesso ai vantaggi con¬ cessi agli ordini superiori. Le caste sono abolite, le aristocrazie tendono a scomparire, l’individuo perde nella società il suo valore di posizione ch’ebbe in passato, per acquistarne uno nuovo di funzione, ossia di lavoro ( 1 ). Ora 1 essenza della giustizia come distribuzione consiste appunto nel proporzionarla a questa fun¬ zione, ciò che in altri termini si esprime dicendo, che ognuno debba essere ricompensato secondo i suoi meriti. C'è in questa proposizione l’implicita convin¬ zione che la radice dell’atto giusto à una stretta attinenza col sentimento della gratitudine. L’esi¬ genza di essa è la ricompensa del beneficio, non solo come impulso naturale, ma come persuasione che tale ricompensa è dovere. Universalizzando questo concetto, perveniamo all’essenza stessa della comune intuizione della Giustizia, cioè la Giustizia (1) Small, op. cit., p. 345 e seg.: “ la forza elementare dello Stato, in quanto è fattore di civiltà, è quella d’un potere che riduce le ineguaglianze arbitrarie delle per¬ sone ad un’ineguaglianza risultante solamente da diverse attitudini a partecipare a un processo d’evoluzione ge¬ nerale 104 GIUSTIZIA come è sentita e come è veduta nella intima sua penetrazione dai più comuni aforismi : « il bene fatto ad un individuo deve essere restituito da lui » od anche « le buone azioni devono essere ricompensate »; « ogni uomo deve essere ricom¬ pensato secondo i suoi meriti ». Tali massime coronate infine dalla salda associazione, che stringe le coppie psicologiche « merito e premio », « demerito e castigo », rappresentano i punti di passaggio d'un medesimo processo morale che va dalla gratitudine, relazione personale, alla giustizia, relazione sociale (i). La Giustizia è praticamente una gratitudine generalizzata in quanto vuole che ciascuno abbia quanto à vera¬ mente meritato, ed è sotto l’aspetto della pena un risentimento o una vendetta pure generalizzata in quanto restituisce il male a chi à male operato ( 2 ). Questo è il punto di partenza, unicuique siami tribuere, inteso in un senso generalissimo, abbia cioè ciascuno quello che gli spetta; cosicché, indipendentemente d’ogni vincolo contrattuale e senza precedenti accordi, è ammesso comunal¬ mente che i profitti d'un’ opera o d un intrapresa debbano essere divisi tra quelli che anno con¬ tribuito al suo successo in proporzione del va¬ lore dei loro servigi. Ma affinchè possa attuarsi (1) Sidgwick, op. cit., pag. 278 e seg. - J. Martineau, Types of ethicaì Iheory. Oxford, 1891, voi. II, pag. 244-250. (2) Ladd, Philosophy of conduci , p. 289. CAP. IV - LIBERTÀ OD EGUAGLIANZA 105 una tal giusta distribuzione bisogna porre come preesistente condizione, la garanzia accordata a ciascuno della più grande libertà, e tale è appunto l’aspirazione d’ogni ordinamento legale, poiché se il merito deve essere ricompensato, deve essere ogni uomo posto nella condizione di procacciarsi questo merito colla propria condotta. Purtroppo questa garanzia legale di libertà à un valore più teorico che pratico nella vita sociale, poiché real¬ mente l’uomo può svolgere sé medesimo nel¬ l'azione solo subordinatamente alle sue condizioni di fatto, cosicché alla formola integrale della giu¬ stizia, che a ciascuno fosse possibile guadagnare la propria ricompensa in proporzione della propria opera, si sostituisce praticamente un sistema di ricompense distribuite in base a ciò che effettiva¬ mente l'uomo può fare in relazione coi propri simili. Gli è perciò che se noi cerchiamo una giusti¬ ficazione morale al diritto di proprietà sulle cose, non possiamo trovarla che nel lavoro, conside¬ rato appunto come un merito che importa una ricompensa, mentre poi ci riesce impossibile di considerare altrimenti che come un fatto, nel quale non è possibile fare alcun apprezzamento d’ordine etico, 1’ originario possesso delle cose materiali sulle quali si è esplicata l’industre opera umana trasformatrice e creatrice del valore eco¬ nomico, a meno che non volessimo ricorrere al concetto di scoperta nella primitiva occupazione delle cose, e quindi di premio alla maggiore abi- ità o audacia o assiduità degli inventori o degli appropriatori di esse. Zino Zini. Giustizia . 14 GIUSTIZIA 106 Ma si sa troppo bene in quali scogli urtano simili ipotesi di fronte alla brutale smentita del fatto storico. Nè d'altra parte trova una piena attuazione la foratola « ogni uomo deve avere un’adeguata ricompensa del suo lavoro », poiché molte volte le leggi tassataci di questa ricom¬ pensa sono estranee al mondo morale. Nella sua aspirazione verso la giustizia l’uomo à molte volte al disopra del suo mondo sensi¬ bile costrutto un mondo religioso, governato da Dio, ponendone come fondamento il pensiero che se l'umana esistenza fosse da noi conosciuta nella sua totalità, troveremmo nella sua ulteriore proiezione oltre i confini della vita terrena, che la felicità vi è distribuita tra gli uomini secondo i loro meriti con perfetta adeguatezza. La divina giustizia è in questo senso pensata come un mo¬ dello della giustizia umana, e noi dobbiamo giu¬ dicare non il modello in sè, che pur troppo molte volte si presenta stranamente difettoso, ma lo sforzo etico che lo ispira e che solleva l'umanità verso un supremo ideale di giustizia. CAPITOLO V. Analisi del merito. Lo spirito umano persegue la giustizia e ne stringe dappresso l’idea, ma capita a lui nella sua assidua ricerca, quello che i racconti epici nar¬ rano dei cavalieri in lotta cogli incantesimi dei maghi : essi non possono raggiungere mai il nemico che sempre sfugge e si trasforma nelle loro stesse mani. Ed anche alla nostra ragione accade il medesimo, dopo un’ostinata caccia quando, sviscerando l’intimo più riposto senso della giustizia, crediamo toccarne il fondo, e ci attacchiamo fidenti all’idea di merito, ci accor¬ giamo d’aver afferrato non più altro che un fantasma. Questo merito, il cui rispetto esaurisce l’ultimo contenuto della giustizia, è in fondo una pallida e mobilissima larva, e tutti gli sforzi che noi facciamo per darle corpo sembrano dover rimanere sterili. Merito è una parola assai fre¬ quente nei più usuali discorsi; continuamente io8 GIUSTIZIA noi lo invochiamo nei nostri giudizi apprezzativi e morali, e lo contrapponiamo volentieri alla fortuna, gettando assai spesso sulle spalle del caso la responsabilità del successo o dell'insuc¬ cesso individuale (i). Ma quando volessimo esplorare il substratum psicologico di questo comunissimo vocabolo, quando volessimo determinarne la portata filo¬ sofica, vedremmo sorgere difficoltà e dubbi da ogni parte. A che cosa infatti ragguagliare il merito? al fatto o all'intenzione? dobbiamo nel proporzionare la ricompensa partire dallo sforzo compiuto e quindi dal sacrificio incontrato ovvero dall’effetto conseguito? Nessun dubbio che la risposta più ovvia sia quella che ricongiunge l'idea di merito a quella di opera, e veramente è questa anche la più facile misurazione della ricompensa; sia giudicato ciascuno secondo ciò che ha fatto. Cosicché, da questo punto di vista, riconoscere il merito e contraccambiarlo, in quella forma di debito socialmente accettato e pagato che chiamiamo atto di giustizia, è accertamento di vantaggi arrecati dall'opera personale e valu¬ tazione di essi. Chi non vede però quanto sia arbitraria questa bilancia dei meriti conguagliati alle utilità procac- (i) Taire, Les origines de la Fraiice contemporaine. Paris, 1895, Regime moderne, Tom. I, pag. 328 in nota, à un aneddoto efficacissimo che dimostra la puerilità di tanti nostri giudizi quando rinfacciamo ai vittoriosi nella vita la loro fortuna. CAP. V - ANALISI DEL MERITO 109 date, mentre il valore attuale d'un servigio umano può dipendere dall’opportunità delle circostanze favorevoli o da accidenti fortuiti, non dovuti al merito dell’agente? Ma anche questo merito reale, in quanto è il prodotto di poteri e di abilità congeniti o svolti da favorevoli condizioni di vita o buona educazione, è veramente suscettivo di ricompensa? Il dono naturale o l’attitudine acquisita sono vera fonte di merito, o non piut¬ tosto insorge vagamente nella nostra coscienza una qualche protesta contro il privilegio della forza o dell’ingegno, non altrimenti di ciò che accade di fronte alla superiorità che dà la ric¬ chezza? Essere bello, sano, o robusto, possedere intelligenza o danaro, avere buone disposizioni per natura o averle acquistate per educazione, non è ancor merito nel più profondo e sincero significato morale. Potremmo forse trovare la via d’uscita restrin¬ gendoci al dominio della volontà; è questo il vero regno etico per eccellenza, come ha ben intuito Kant. Il valore morale di un atto è dunque nella buona volontà, e la ricompensa deve essere proporzionata alla quantità di sforzo volontario diretto ad un fine buono ( 1 ). Ma anche questa rocca forte non può essere battuta e smantellata forse, dall'assalto di un determinismo universale, che estende al mondo dello spirito la legge di cau- ( 1 ) G. Simmel, Einleitung in die Moralwissensc/ia/i. Stuttgart, 1904, IB, S. 213 227. IIO GIUSTIZIA salità? L'atto deliberativo, lo sforzo volontario, d’onde deve sgorgare l’opera buona, pensata e stabilita dall’agente, non è una risultante, un prodotto di molteplici fattori, che possa essere considerato come l’effetto di cause estranee all’uomo? Se accettiamo questo modo di vedere assolutamente determista, dobbiamo anche ac¬ cettarne le ultime conseguenze nel campo mo¬ rale, la cancellazione cioè del merito e del deme¬ rito, e quindi l’impossibilità di distribuire le ricompense. L’ideale della giustizia sembrerebbe dover diventare allora quello d’una perfetta identità, tutti gli uomini avendo diritto a godere di uguali quote di felicità, essendo profondamente ingiusto fare A più felice di B, soltanto perchè circo¬ stanze estranee al suo controllo lo hanno fatto migliore (i). È vero però che estendendo questo ragiona¬ mento dall’uomo alle creature inferiori, noi giun¬ geremmo a conclusioni paradossali, che il buon senso rifiuta. Ma anche senza spingerci a queste ultime conseguenze d’un determinismo che vuole applicare al dominio delle forze psichiche quella causalità meccanica che è il fondo del nostro sapere circa i fatti fisici, possiamo sotto un altro aspetto fare la critica di una teoria morale, che voglia valutare il merito dal suo lato interiore, intenzione e volontà, contrapponendo questa (i) Sidgwick, op. cit., pag. 281. CAP. V ■ ANALISI DEL MERITO III tavola di valori etici desunti dalla bontà intrin¬ seca dell’atto, in quanto è .voluto come inten¬ zionalmente buono, dottrina di Kant, senza ri¬ guardo alla sua bontà estrinseca, ovvero dalla quantità di sacrificio che l’uomo, volendo l’atto morale, s’impone spontaneamente, teoria ascetica ed apologia del dolore, come elemento meritorio dell’opera umana, alla valutazione estrinseca o a posteriori del merito, la quale certamente, come già vedemmo, non è meno irta di difficoltà o manchevole di precisione. Anzitutto pretendere di porre il valore morale e quindi il merito dell’atto compiuto nella volontà pura e semplice di far il bene, distaccandosi da ogni considerazione finale, è ipotesi irrealizzabile, perchè i nostri pensieri sono strettamente con¬ nessi con stati affettivi e ogni nostra volontà è in intima relazione con qualche aspetto della vita pratica, singola o collettiva (i). Creare un do¬ minio astratto di volontà buona senza riferimento ai fini della vita, è formalismo etico, che finisce per distruggere il concetto stesso di merito, poiché la volontà, che dà il suo assenso al dovere, non può farlo senza apprezzare il dovere stesso nelle conseguenze, che il suo adempimento o la sua violazione possa portare con sè. Kant, per spo¬ gliare il bene morale d’ogni scoria eudemonistica, fa per così dire il vuoto pneumatico intorno alla volontà, isola la coscienza umana e toglie le (i) Hoffding, Morale, pag. 21, 37 e seg. 112 GIUSTIZIA vie di comunicazione della facoltà attiva del¬ l'uomo col mondo dei fatti. Ma, ammesso anche che la purezza dell’inten¬ zione possa in una sfera di morale assolutamente superiore costituire il criterio perentorio e sicuro del merito, come è mai possibile che la giustizia, quale virtù eminentemente pratica e sociale, possa assumerlo, mentre nulla più sfugge al suo con¬ trollo del recondito pensiero, che può avere spinto altri ad agire, e il più delle volte per giudi¬ care del proposito non abbiamo altra guida che il fatto, in cui esso si esteriorizza e concreta? (i). Rimane l’altro aspetto della valutazione intrin¬ seca del merito, che ha trovato così caldo ap¬ poggio nelle dottrine morali che rivestono un carattere di ascetismo. Qui il criterio misuratore (i) La morale teologica può assumere questo criterio del merito, perchè Dio conoscendo il cuore dell’uomo, può giudicare non dell’opera, ma dell’intenzione. Si vede quanto sia analogo a questo il concetto che do¬ mina nella storia del dogma della giustificazione. La Chiesa cattolica, che è in fondo, a parte i suoi errori di corruzione e di mondanità, anzi forse per questi ap¬ punto, dominata da uno spirito di praticità anche nella dottrina, e va quasi sempre alleata del buon senso, am¬ mette la giustificazione per mezzo delle opere, che è quanto dire, pone il merito in ciò che s’è fatto, nei sa¬ crifizi sostenuti, di fronte alla dottrina riformata, che sostiene la giustificazione per mezzo della fede, aspetto puramente interiore del merito cristiano; se questa fede poi è un dono della grazia, si cade nell’abisso della predestinazione, e la giustizia divina è seriamente com¬ promessa. CAP. V • ANALISI DEL MERITO 113 è lo sforzo sostenuto, la difficoltà superata. Rico¬ nosciamo agevolmente che un tal modo di vedere è abbastanza famigliare allo spirito umano, anche al di fuori d'ogni impulso ascetico. La vita consi¬ derata come lotta e il successo come premio della vittoria sono concetti correlativi, che fanno parte di un comune modo di apprezzare il fatto umano. Un'esistenza serena trascorsa senza tem¬ pesta, senza affanno e senza fatica, qualunque possano essere i risultati pratici che vi siano stati raggiunti, non ha generalmente ai nostri occhi il valore morale d’una di quelle combattute esistenze, che contrassegnano la missione d’un novatore o d un apostolo. Non è possibile fare astrazione, nell'apprezzamento dell’opera umana, da questo sforzo della volontà perseverante, che consegue la meta attraverso l'ostacolo ( 1 ). Il cam¬ mino sparso di triboli e d'inciampi, il mare insi¬ dioso di scogli e di gorghi, dànno pregio al viaggio di colui che arriva. Anche nel giudizio ( 1 ) Seneca, Opera. Lipsiae Teub. I, De Providentia, IV, 4. 6 , 16, “ avida est periculi virtus et quo tendat, non quid passura sit cogitat „, “ calaniitas virtutis occasio est. illos merito quis dixerit miseros, qui nimia felicitate torpescunt, quos velut in mari lento tranquil- litas iners detinet „. " Non est arbor solida nec fortis, nisi in quam frequens ventus incursat. ipsa enim vexa- tione constringitur et radices certius figit. fragiles sunt quae in aprica valle creverunt. prò ipsis ergo bonis viris est, ut esse interriti possint, multum inter formi¬ dolosa versari et aequo animo ferre quae non sunt mala nisi male sustinenti „. Zino Zini, Giustizia. 15 GIUSTIZIA H4 volgare dei nostri atti entra o tanto o poco questo elemento apprezzativo. Siamo nella vita come in un campo di corsa, dove il maggior premio spetta a colui che ha fatto di più, che ha superato barriere più ardue o fossati più larghi ; e il fattore, che impresta il maggior inte¬ resse ad un'opera, è pur sempre questa nota di ardimento e di rischio più grande. Anche nella educazione, che è molte volte tirocinio speri¬ mentale delle energie nascenti, tendiamo a questo rafforzamento della volontà con un aumento pro¬ gressivo della difficoltà, e chi entra nella gara della vita, come in quella del giuoco, deve sotto¬ mettere il suo spirito come il suo corpo ad una prova. La deduzione ascetica è dunque fino ad un certo punto naturale. Se il merito è nella diffi¬ coltà vinta, e se tanto maggiore è il pregio della azione quanto più arduo è il compito al quale l’uomo si sobbarca, può facilmente lo spirito persuader sè medesimo che l’indefinito esercizio della propria volontà nella resistenza alla fatica o al dolore, astrazion fatta dallo scopo, costi¬ tuisca l’essenza stessa del merito (1). In fondo un tale equivoco nasce da una dissociazione abba¬ stanza spontanea tra valore di una cosa e sforzo che è costata. E sono veramente i due termini sempre cosi congiunti od equivalenti, che deb¬ bano supporsi o possano convertirsi l’uno nel¬ l'altro ? ( 1 ) Simmel, op. ci/., ib. CAP. V - ANALISI DEL MERITO II5 Di qui quel donchisciottismo e quel virtuosismo, che caratterizzano certi modi della condotta umana nei più diversi campi, e che sono gli equivalenti sociali moderni della ascesi religiosa nell’età medioevale. Superare ad ogni costo una diffi¬ coltà, correre un'avventura pericolosa, esporsi ad un rischio sono stati e sono tutt’ora prepo¬ tenti impulsi, che hanno spinto l’uomo alle più pazze imprese e allo sperpero più capriccioso delle sue energie; e che oggi noi vediamo rinno¬ varsi nelle forme temerarie dello sport alpino od automobilistico ed in molte eccentricità pro¬ fessionali. Fino a che punto ci può essere qui una vanità o verso gli altri o verso sè stesso? L’uomo ha bisogno di darsi l’illusione dell’eroismo, ma possiamo seriamente dubitare del valore reale di quest’etica del salto mortale, come abbiamo buon motivo di mettere in dubbio il valore este¬ tico di tutti quei prodotti dell’arte, che nascono da una preoccupazione eccessiva di bellezza tecnica e formale. L’apologià del dolore, che è in fondo all'asce¬ tismo, nasce dalla stessa dissociazione tra uno sforzo fatto, una sofferenza o una pena sostenuta e un fine da conseguire. Non dobbiamo avvez¬ zarci a scherzare coll’eroismo. Nella pratica della vita la virtù eroica è il biglietto da cento lire; capita raramente di doverlo e saperlo spendere con profitto, mentre tutti i momenti abbiamo bisogno della moneta spicciola per le minute esigenze della spesa giornaliera. Il dolore ha un valore educativo, è un mezzo e non un fine. GIUSTIZIA Il6 L'errore dell’ascetismo è quello di essere una palestra del dolore a vuoto. Soffrire per sè stante non è nè un bene nè un male, è puramente uno stato del corpo e dello spirito. La ginnastica delle energie morali comporta sforzo e sofferenza come quella delle energie fisiche. Saper resistere, saper rinunciare, dominare e vincere sè stesso, mortificarsi anche, tutto può essere approvato, ma soltanto come preparazione non come scopo in sè stesso; c'è qui appunto la stessa differenza che tra ginnastica ed acro¬ batismo. L’asceta santifica il dolore e si fa un merito delle sue sofferenze, come l’alpinista o lo sportman del loro pericolo mortale. Battendo questa strada si possono giustificare le peggiori aberrazioni. Ma per rimanere nell’orbita della attività pratica, volendo giungere ad una distribu¬ zione delle ricompense basata sopra una valuta¬ zione del merito intrinsecamente considerato, cioè come sforzo volontario o come difficoltà superata per giungere ad un particolare risultato, dovremmo incominciare a porre questa equa¬ zione : lavoro = dolore. In questo caso la ricom¬ pensa è proporzionale al lavoro compiuto ossia al dolore sopportato. Ma chi può darci il metro, 1 unità di misura, una specie di chilogrammetro morale? E chi vorrebbe compensare il lavoro a vuoto, cioè una fatica affrontata e un’opera spesa sterilmente? Il buon senso ha già fatto giustizia di tutte le vane eccentricità, che dissi¬ pano in un lavoro infecondo tanta parte della attività umana. È impossibile nel giudicare questa CAP. V - ANALISI DEL MERITO 117 complessa macchina fisiologica, che è l'uomo, non tener conto del suo rendimento; e il giudizio sul rendimento è di natura essenzialmente so¬ ciale. Sotto un altro aspetto il criterio dello sforzo appare equivoco, in quanto cioè il medesimo atto può costare fatica diversa secondo le condi¬ zioni personali dell agente. E allora dove trovare un punto d’appoggio nella valutazione del merito dal lato intrinseco, mentre ciò che chiamiamo la difficoltà, il sacrificio fatto, il dolore accettato per raggiungere un effetto determinato non hanno un valore costante, ma anzi infinitamente varia¬ bile? Nello stesso individuo la legge d'adatta¬ mento, che chiamiamo abitudine, conduce insen¬ sibilmente ma necessariamente all’ attutimento dello sforzo, all’eliminazione progressiva di questo coefficiente d'ogni lavoro sia manuale sia intel¬ lettuale, che è la fatica o il dolore. E nell’ordine morale avviene lo stesso : l’educa¬ zione ha per risultato l’acquisto di certe attitu¬ dini a compiere con maggiore spontaneità ciò, che inizialmente poteva costarci pena od essere addirittura repugnante. L’origine della virtù è in questo automatismo etico, come aveva tanto acutamente intuito Aristotele quando nel suo felice paragone scriveva : « Si diventa citaristi col suonare la cetra, architetti col fabbricar case, medici esercitando la medicina e virtuosi facendo azioni belle e buone. La virtù morale nasce, si sviluppa e si compie colla pratica. L’azione è creatrice, essa si traduce in un plus d’energia per modo che col tempo ne risulta una disposi- Il8 GIUSTIZIA zione, che tende ad esercitarsi nella stessa dire¬ zione. L’inizio delle virtù è penoso, ma il com¬ pito si alleggerisce man mano che si va innanzi, e si finisce per fare con amore ciò che si in¬ cominciò a fare con sforzo » (i). Ma se noi potessimo supporre che ogni forma di attività umana, essendo specializzata ed eser¬ citata secondo l’attitudine, diventasse piacevole anziché dolorosa, scomparirebbe con ciò il merito delle nostre azioni ? Scomparirebbe con ciò anche ogni criterio di ricompensa ? Noi possiamo augurarci che questo sia: che per la legge dell’abitudine il lavoro possa diven¬ tare costituzionale e fisiologico. Fino ad un certo punto questo è accaduto ; e attuandosi un più largo sistema di specializzazioni e sostituendosi sempre in maggior scala all’uso c all’abuso delle energie umane l’impiego razionale delle energie naturali, ciò sarà maggiormente. L’antica male¬ dizione biblica del lavoro, che pesa come una condanna di obbrobriosa servitù sul genere umano, può essere riscattata. Ma questa progressiva eman¬ cipazione dell’uomo dalla fatica, questa reden¬ zione della nostra vita dal dolore, che è come (i) Mackenzie, Manna! of Ethìcs. London, 1901, p. 14: " virtue exists only in activity * goodness is not a capacity or potentiality, but an activity; in Aristotelian language, it is not a bOvani;, but a èvépyeta „. Aristotele, Ethic Nic., B, 1, 1103ab; ib., 2, 11048, 27-35, ii°4 b, 1-3; Eth. End., B, 2, 1220 a, 39; 1220 b, 1-6; Magna Moralia. A, 34, 1197 b, 37 e seg. James, Principi di psicologia, Cap. IV, pag. 92 e seg. CAP. V - ANALISI DEL MERITO 119 il termine ultimo di un’indefinita approssima¬ zione , dovrà essere giudicata insieme come la scomparsa d’ogni giusta retribuzione basata sul merito, per ciò soltanto che mancherà il criterio del sacrificio compiuto e della pena sopportata ? La sconfitta del dolore nel mondo sarebbe nello stesso tempo quella della giustizia, o in altre parole la vittoria dell’uomo sulla natura dovrebbe avere per risultato il naufragio di una delle più nobili idee, che si siano formate nella storia psicologica deH’umanità? Sentiamo di poter confutare questa tesi pessi¬ mista, che a fondare il regno della giustizia pone come condizione la tirannica persistenza del dolore. Noi tocchiamo qui una delle più difficili analisi del pensiero umano. E quando noi gettiamo nel suo crogiuolo questo concetto del dolore come prezzo del merito, ciò che vi troviamo in fondo è una residuale idea religiosa, uno spirito di sacrificio, di cui il primitivo nucleo d’attrazione formativa sorge nei rapporti della subordinazione umana verso Dio. Nel libro di Job c’è questo pensiero : Dio è padrone di tutto, del bene come del male e può distribuirlo come gli piace. Il dolore ha questo valore morale, che non scuo¬ tendo in Job, non ostante la sua apparente in¬ giustizia, la fiducia in Dio, riafferma la potenza di Dio sull’uomo e fortifica la fede di quest'ul¬ timo verso il suo Creatore. Questo piccolo poema di Job è un meraviglioso riepilogo di pensiero umano intorno all’eterno problema del male. Il 120 GIUSTIZIA male viene da Dio, ma colpisce in pari tempo l’empio ed il giusto. Che l’empio sia distrutto dalla collera divina, è una cosa abbastanza com¬ prensibile per la mente dell'uomo. Anzi bisogna confessare che il concetto della giustizia divina è già qui molto elevato, e che Dio si trova vera¬ mente nella posizione di un giudice del tutto imparziale, perchè la sua giustizia non è inte¬ ressata. Quando egli sentenzia, non de re sua agitar, poiché nè l’offende il peccato dell’uomo nè gli giova la sua virtù. L’onnipotenza divina è al di fuori della sfera d’azione dell’opera umana. Job è l’uomo giusto, che si sente puro di pec¬ cato, eppur vede aggravarsi sopra di sè la mano di Dio ; ond'egli dal fondo della più ineffabile miseria osa levare la voce in faccia al suo Crea¬ tore, distributore del bene e del male sulla terra, per giustificarsi al suo cospetto. Invano i suoi compagni cercano di dissuaderlo e lo tacciano d’empietà, perchè voglia erigersi a giudice del¬ l’opera divina, invece di piegarsi, penitente rasse¬ gnato, a implorare da Dio il perdono della sua colpa e la remissione del castigo. Job è veramente la coscienza morale dell’uomo, fatta carne ed ossa, è la tormentata personifica¬ zione della sua mortale angoscia di fronte allo spettacolo dell’ingiusta spartizione del bene e del male. L’empio sazio di beni e di gioia chiude serenamente il ciclo della sua esistenza terrena; il giusto è oppresso e perseguitato. Questo tra¬ gico dissidio empie d’amara disperazione il cuore CAP. V - ANALISI DEL MERITO 121 dell’uomo, e turba la sua ragione coll’inquietante dubbio della divina provvidenza. Job non è un ribelle, come il prigioniero del Caucaso ; non è il vinto che impreca contro il suo orgoglioso vincitore, è il servo che sotto la verga d’un padrone dispotico domanda : perchè mi colpisci ? pronto a gettarsi nella polvere e baciare umilmente il piede che lo calpesta, ricono¬ scendo giusto nella imperscrutabile saggezza del giudice, che lo detta, il decreto della sua punizione. Job e Prometeo sono le due opposte concezioni di due razze, di due civiltà e di due mondi, l’uno che darà all’uomo la religione, l’altro che gli farà dono della filosofia. Noi possiamo domandarci : c'è veramente me¬ rito a soffrire? E a chi giova questa sofferenza? a colui che la sostiene o agli altri che, vantag¬ giandone, la premiano? Giova a quello, che la soffre, in quanto soffrendo eleva la propria perso¬ nalità morale, o agli altri in quanto il dolore degli uni è parte dell’altrui felicità? Mors tua vita mea ? Noi tendiamo a realizzare un mondo senza dolore , ma non per questo un mondo privo d’una scala di merito. La strana illusione di giudizio, che ha portato ad assegnare un valore etico alla sofferenza, ha la sua radice nel senso di sudditanza dell’uomo verso la divinità. La religione del dolore nasce dalla coscienza della propria abbiezione, dal bi¬ sogno d’espiazione e di purificazione ; essa si afferma nel merito d’una rassegnazione umile alla volontà illimitata di un Essere supremo, Zino Zini, Giustizia. 16 122 giustizia che può disporre a suo talento de] nostro de¬ stino (i). In questo caso soffrire può equivalere alla testimonianza della propria fede in Dio. L’ar¬ dente sede di martirio, che sollecita gli apostoli d ogni ideale, tradisce un'origine comune. L’av¬ versità sostenuta è indiretto segno dell’interesse che la divinità porta a chi ella colpisce, perchè, così operando, gli offre l’opportunità d'acquistare meriti a suoi propri occhi. Ed è curioso osser¬ vare che un simile concetto, tanto caratteristico (i) Th. Gomperz, Pcnseurs de la Grece, I, pag. 147-148, riattacca la genesi di questa idea etico-religiosa nella coscienza ellenica alla crisi sociale e alle concomitanti lotte di classe avvenute nei secoli VI e VII, quando le dure necessità dei tempi insegnarono, in questo vero medio¬ evo greco, agli uomini a pregare, come accade ai po¬ poli dell’Europa latina nell’età di mezzo. Sotto la dura oppressione militaresca, che segue alle vittorie e con¬ quiste doriesi e all’ impianto d’un regime oligarchico senza quartiere, le vittime gettano uno sguardo al di là, domandano alla divinità un compenso ai mali terrestri. Comincia l’antagonismo fra le due opposte tendenze dell’anima umana, il senso del doloree l’impulso della ppsione, comincia la lacerazione della personalità, la distruzione dell’armonia interna, l’ostilità contro la na¬ tura, la rinuncia ascetica delle sue esigenze, anche inof¬ fensive o salutari. Gli Orfici, che sono i puritani della antichità, trasmettono per il tramite di Pitagora questo patrimonio d’idee e di sentimenti a Platone, e quindi parte quella corrente di pensiero, che contiene in sè il divorzio crescente tra l’anima e il corpo, il dualismo tra il mondo e la divinità, e finisce per sfociare nel gran mare del Cristianesimo. CAP. V - ANALISI DEL MERITO 123 della morale cristiana, dove l'uomo pio e giusto più caro alla divinità, è più visitato dalla scia¬ gura, non manca di precedenti nella stessa co¬ scienza classica : gli dei sono gelosi della felicità dei mortali, essi invidiano loro gioie e fortuna, e tengono continuamente la sventura sospesa, come spada di Damocle, sulla testa dei più felici, tanto che non di rado accade che taluno d’essi a rompere questa specie di jettatura d’una vita troppo avventurosa, cerchi procacciarsi volon¬ tariamente qualche causa di contrarietà. La troppa fortuna sgomenta : tanto poco soliti siamo a queste straordinarie e prolungate com¬ binazioni d eventi favorevoli. Wagner, leggendo il Tintole onte di Plutarco, confessava di essere strana¬ mente maravigliato nell’apprendere che la vita del- 1 eroe potesse mai chiudersi tanto serenamente, così poco 1 eterna tragedia del mondo ci ha abi¬ tuati a questo Leto fine, nella tempestosa atmosfera di dolore e di battaglie, che avvolge lo spirito dei grandi. La parabola della vita che discende languidamente in un orizzonte di luce, è una novità così insolita, è una così inaspettata sorpresa che offende la nostra credulità. È vero che Nietzsche oppone a questa pessi¬ mista concezione quella dell’eroe vittorioso e giocondo, che in un largo palpito della sua orgo¬ gliosa volontà di potere afferma il suo diritto ed espande nella pienezza delle energie vitali il fiore della propria individualità. Ma è ovvio osservare che una tale apologia della gioia di vivere conduce fatalmente a professare un evan- 124 GIUSTIZIA gelo edonistico, che sdrucciola sempre più o meno nella sensualità. L’elevazione a potenza della personalità umana ha il più delle volte l’egoismo per esponente (i). A nessuno certo verrà in mente di negare che la difficoltà di un'opera costituisca il suo mag¬ gior valore, ma questo non nel senso che noi, riconoscendone il merito, premiamo in certo qual modo la quantità di dolore umano che è costata, perchè ciò equivarrebbe a ritenere che la nostra elevazione morale fosse a prezzo della sofferenza soltanto, tesi ascetica questa, alla quale è ine¬ rente il gravissimo pericolo di proporre alluomo il dolore come mezzo della sua moralizzazione, e che ha purtroppo condotti molti a soffrire e far soffrire crudelmente, o quanto meno a ren¬ derci meno pietosi alle sventure e meno indul¬ genti agli errori e alle debolezze altrui (2); bensì noi, assegnando un più alto prezzo all’opera più ardua, guardiamo essenzialmente al risultato rag¬ giunto, tanto più che non è poi detto che sempre ad un lavoro difficile corrisponda una fatica real¬ mente sostenuta. E questo si verifica ogni qual volta l’attitudine, le circostanze, il caso o l’eser¬ cizio ci abbiano abilitato ovvero ci abbiano agevolato il compito di qualche cosa. Ciò che nei rapporti sociali si suole apprezzare, non è (1) Gomperz, op. cit., n, pag. 350-351. (2) H. Lea, Histoire de l’inquisition au moyen-àge (trad. frane.). Paris, 1900, Tom. I, pag. 270, 465 e seg., 629 e seg. CAP. V - ANALISI DEL MERITO 125 quindi la difficoltà soggettiva o intrinseca, ma piuttosto quella oggettiva od estrinseca. Per la mano abile d’un grande chirurgo o d’un celebre violinista il colpo di bisturi o quello d'archetto può rappresentare lo sforzo d’un secondo d’at¬ tenzione, o può anche diventare automatico, ciò non ostante noi proclamiamo l’altissimo merito dell'operazione o dell’esecuzione. Allo stesso modo il cantante, che emette la sua più superba nota tenorile e, mandando in visibilio la platea, riempie la cassetta dell’impresa, può far ciò senza la minima fatica, forse anche con piacere, eppure quest’estrema facilità del suo lavoro vocale non esclude la nostra ammirazione e non diminuisce i suoi ingenti guadagni (1). Nè questo può restarci inesplicato, quando pensiamo che ciò che noi apprezziamo e ricompensiamo non è tanto l'opera soggettivamente considerata, quanto il suo valore oggettivo o sociale, che è in fondo un valore di posizione rispetto alle altre opere dello stesso or¬ dine (2). Così si attua qui quella medesima dif¬ ri) Torni Dante, tre paoli; a te la paga Di sei ministri. Giusti. (2) Pierson, Trattato d'economia politica. Torino, 1905, I> P a S- 54 » 60, 63, sul concetto di valore e di utilità marginale (final or marginai utility). H costo di produ¬ zione di una cosa è la somma di' sacrifizi ch’essa do¬ manda; il valore è ciò che ci fa conoscere in che mi¬ sura la cosa stessa è per noi un bene, in base ai van¬ taggi che ci procaccia — pag. 68: veramente le cose non ànno valore perchè sono costate lavoro, ma per 126 GIUSTIZIA ferenza, che gli economisti pongono rispetto al valore di un oggetto sul mercato tra il costo della produzione e quello della sua riproduzione. Nella vita sociale il prezzo delle opere ascende in ragion diretta della maggior difficoltà della loro riproduzione, non tanto in quella della loro produzione. È questo il segreto dell’alto, altis¬ simo, favoloso talvolta, prezzo d'ogni forma di lavoro specializzato. Sono queste ultime specialità tecniche o teoriche, nel campo dell’industria, dell'amministrazione, della scienza, dell’arte, che pongono in una situazione privilegiata i loro for¬ tunati possessori, e in cui lo specialista ossia il monopolizzatore d’una utilità sociale, sottratto totalmente o parzialmente alla concorrenza dei suoi rivali, mette alla sua opera un prezzo arbi¬ trario. Nelle società del passato questa stessa pro¬ porzione, in termini anche più evidenti e più iniqui, era ottenuta colla fissazione a priori d'un rango, una gerarchia di uffici e di persone di¬ stribuite per casta e in cui ad una maggiore re¬ tribuzione e a più alti vantaggi corrispondevano generalmente le minori fatiche e i più facili la¬ vori (i). Non vediamo ancor noi pur troppo veri¬ ficarsi il medesimo inconveniente in quel curri- Pottenimento di questa cosa si spende lavoro perchè anno valore. Quindi non il sacrifizio della produzione, ma piuttosto quello della privazione, fissa il valore delle cose. (i) Taine, op. ci/., AIncieli regime, pag. 82. SlMMEL, Op, CÌ/., 1 , S. 417. CAP. V - ANALISI DEL MERITO 127 colo che sono le pubbliche cariche o gli uffici burocratici? Fattori estranei al inerito e al lavoro veramente compiuto entrano assai spesso come elementi accidentali della ricompensa. Chi può veramente retribuire gli sforzi e i sacrifici dell’inventore, e quanto spesso non ac¬ cade che i benefici della scoperta non siano sfruttati da chi non vi ha preso parte? Giustificare la sproporzione nella distribuzione sociale della ricchezza, ossia della felicità, par¬ tendo dall’ipotesi che ogni società deve sottoporsi al peso di mantenere una classe superiore, donde vengano a lei gli elementi migliori della coltura e del progresso anche col rischio di mettere sul passivo in questo bilancio una grande zavorra di inetti ed oziosi di fronte a pochi fecondi la¬ voratori dello spirito, è forse una strana illusione ed un grave pericolo (1). I reali interessi della ci¬ viltà, come noi la intendiamo usualmente, sem¬ brano meglio affidati alla giustizia che al privi¬ legio; e le esperienze del passato testimoniano contro ogni forma d’aristocrazia e di casta. Re¬ stiamo dunque attaccati a questo saldo concetto di equità e non vogliamo leggermente sacrificarlo ad una malintesa idolatria di progresso. Oggi la scienza, nuovo idolo, domanda agli uomini i suoi sacrifici come un tempo la religione, e come un tempo di questa, così oggi potremmo doman¬ darci di quella che cosa effettivamente restituisca in compenso. Le energie sottratte al nostro reale (1) Simmel, op. cit., S. 421. 128 GIUSTIZIA benessere sono un inutile sperpero. Un sapere, che non contribuisca all'incremento e alla affer¬ mazione vittoriosa della vita, è immeritevole di questo nome (i). Fondamento della giustizia è il merito, ma la sua determinazione manca di criterio esatto. Ve¬ demmo l’impossibilità di determinarlo dal lato intrinseco, come intenzione, sforzo di volontà, dolore sostenuto; rimane il lato esteriore, l'estrin¬ secazione cioè dell’opera umana, l’utilità creata, la nuova ricchezza aggiunta al patrimonio col¬ lettivo. Non ci nascondiamo anche qui le diffi¬ coltà, ma ci lusinghiamo che esse siano più sor¬ montabili. Qui infatti ci soccorre un dato positivo, qui vi è il controllo dell’esperienza, qui vi è la legge suprema dell’adattamento. Le opere umane di¬ versificano all’infinito per qualità e quantità, e il loro apprezzamento comparativo è la conclusione d’un sillogismo che ha l’utile sociale per premessa maggiore. Quindi l’impossibilità manifesta del cri¬ terio d’equivalenza sia nella valutazione graduale delle funzioni, sia nella loro retribuzione. Ma eseguire qualunque forma di lavoro presuppone attitudini e mezzi : le prime procedono da na¬ tura o da educazione, i secondi sono ripartiti se¬ condo l’ordine sociale. Nella concezione di una società razionale questa idea duna conveniente distribuzione degli stromenti e delle funzioni, che sono la sorgente della felicità umana, non do- (i) Pearson, The Gratnmar of Science , pag. 138. CAP. V • AA'ALISI DEL MERITO 12g vrebbe mancare. La convenienza è il concetto socratico della competenza e dell’idoneità, se¬ condo il quale ad ogni specie di lavoro dovrebbe esser chiamato il più adatto, thè rigktest man in thc rigktest place (i). Se non che il principio tanto ragionevole, che tale distribuzione dei vantaggi sociali sia fatta per guisa, che vi concorrano ap¬ punto quelli e che più sono in grado d'usarne, solleva una nuova questione. Ma è veramente il più competente anche il più degno? Non può anche assai spesso accadere, che esso appunto non sia quello che abbia in precedenza reso mag¬ gior servizio d’un altro? La lotta tra l’anzianità ed il merito si afferma in tutte le forme dell’at¬ tività umana, ed è certo che tra il servizio reso e quello da rendere, la bilancia della giustizia oscilla indecisa tra la gratitudine e l’interesse. Potremmo spostare i termini del problema, e presentarlo sotto un nuovo aspetto soggettivo, ma di un soggettivismo pratico. Dall’asceta, che valuta il merito negativamente come dolore, passiamo all’edonista, che lo valuta positivamente come piacere. Se poniamo ben- thamianamente la massimazione della felicità come fine, la perequazione deve subordinarsi al godimento. Ora non si dà una cosa a chi non sappia goderne. Questa capacità d’uso dovrebbe diventare dunque «tetro della distribuzione. Ma il pericolo contenuto in un criterio siffatto è evi¬ dente. L’artista, lo scienziato, l’uomo colto do¬ li) Gomi’erz, np . cit ., Il, pag. 80 e seg. Zino Zini, Giustizia. 17 130 GIUSTIZIA mandano subito una più larga porzione di beni nella vita, ed invocano a giustificazione della loro pretesa la più elevata capacità di goderne ! Senza contare che nessuna espressione è tanto equivoca nella sua determinazione quanto questa. Chi può fissare il bisogno umano? Shakespeare ha detto con verità profonda : « i bisogni non si ragionano — non c’è un mendicante che nella sua stessa indigenza non abbia il superfluo. Ac¬ cordando alla natura solo quello che la natura domanda, abbassi l’uomo al livello del bruto » (i). Se il fine della giustizia è una perequazione di felicità, indipendentemente da considerazione di merito, come hanno proclamato molti apostoli d’utopie sociali, sempre quando alla coscienza d una responsabilità individuale si voglia sosti¬ tuire quella d una responsabilità collettiva, non possiamo far a meno di ricadere nell’esame del bisogno, singolarmente valutato, e per necessità veniamo ad urtarci ad un nuovo ostacolo. La giustizia, si dice, vuole che ciascuno abbia un’eguale parte di felicità almeno in quanto ciò possa dipendere dall’opera altrui. Ma una pari felicità non si raggiunge con una esatta riparti¬ zione degli oggetti del desiderio comune, do¬ mandando alcuni più ed altri meno, per essere egualmente soddisfatti. La scappatoia suggerita di fissare un tipo medio, uno standard of life umano, in cui, evi- fi) Shakespeare, Lear, Atto II, scena IV. CAP. V • ANALISI DEL MERITO I3I tando gli eccessi della superfluità e della indi¬ genza, si normalizzi il massimo e il minimo dei consumi, appare d’una evidente puerilità. Chi infatti dovrebbe determinarlo? È vero che entro certi limiti, teoricamente parlando, data la progressiva conoscenza delle generali condizioni di vita che una fase della civiltà può realizzare, non sarebbe impossibile fissare certi massimi e certi minimi — la storia conosce questi tentativi — è vero però troppo spesso inefficaci. Nessuno può veramente far a meno d’un minimum , come nessuno può oltre¬ passare un maximum nel consumo personale della ricchezza (i). Ma questi due estremi, quando pure siano approssimativamente determinabili, ap¬ paiono evidentemente inadeguati alla valutazione di una stabile normalità. Ricadremmo qui nella stessa difficoltà accennata sopra rispetto al bi¬ sogno. Del resto è facile scorgere come la nozione elementare e comune del merito vada ad urtare fatalmente contro questa utilitaria considerazione di convenienza! È vero però che questo non potrebbe essere ancora un ostacolo definitivo di fronte ad una morale razionalistica, che sfata (1) Wundt, Ethics (trad. ingl.), III, pag. 197: “il prin¬ cipio morale vuole che si eviti il duplice estremo: di deficienza o di eccesso „. Nel paese stesso dell’enormi fortune moderne, l’America, non mancano proposte di limiti alla supercapitalizzazione. — Stein, op. cit., P- 341 - 343 - 132 GIUSTIZIA il facile illusionismo della coscienza empirica, accordando al fatto la precedenza sul sentimento. Ora nessun dubbio che qui — nella vita so¬ ciale — il fatto continuo diretto ed immediato è il bisogno dell’uomo. Dalla più umile alla più superba affermazione di volontà, tutta l’infatica¬ bile opera dell'abitatore terrestre si risolve in un’assidua caccia ad ogni forma di ricchezza, che è quanto dire di mezzo alla soddisfazione del bisogno. Proteo multiforme e sempre nuovo, prontamente risorto dal suo stesso appagamento, tenace dominator della vita, sia che rimanendo latente ci stimoli colla impetuosità irrefrenabile dell’istinto organico, sia che balzi colle più lu¬ singhiere parvenze del desiderio e si assida so¬ vrano della coscienza, il bisogno è il Re del nostro mondo; suscitatore di ogni forza e guida d'ogni energia, ciò che chiamiamo civiltà è la sua creazione ; industria, arte e scienza sono il suo prodotto. L’uomo, servo dei suoi bisogni, può anche far¬ sene giudice chiamandoli dinanzi al tribunale della Ragione a render conto della loro legittima po¬ destà o della loro capricciosa tirannide ! Qui come altrove le correnti del pensiero che tentano in¬ terpretare il segreto senso della vita e del destino umano si sono incanalate per vie divergenti. Ridurre il bisogno umano, ovvero soddisfarlo nel suo crescente sviluppo: queste due opposte tesi, che hanno volta a volta avuto i loro apo¬ logisti , rappresentano le estreme polarizzazioni dello spirito. CAF. V - ANALISI DEL MERITO 133 Da Buddha a Diogene, da Cristo a San Fran¬ cesco, da Savonarola a Tolstoi, attraverso cento religioni e cento filosofie sorte in climi geografici e storici differentissimi, la felicità è stata stret¬ tamente associata alla limitazione dei desideri c alla riduzione dei bisogni, sia che ciò si colle¬ gasse al concetto fondamentale di mortificazione e quindi di merito acquistato col dolore, sia che lo spirito umano affermasse la sua libertà, affran¬ candosi dalla servitù del bisogno e dalla tiran¬ nide convenzionale della civiltà. Natura e civiltà apparvero allora quali termini antinomici, e l’uomo naturale fu opposto all’uomo artificiale. Vivere secondo natura, o secondo Dio, si equivalsero, perchè tanto lo stoico che ha la pretesa di richiamare l’uomo alla sua condizione di vita vera e spontanea, quanto l’asceta che sdegna le vanità del mondo nel miraggio d'una perfezione e d’una felicità trascendenti, giungono al risultato medesimo : rinnegare la secolare opera dell’incivilimento, che accusano di ipocrisia e di menzogna, e spezzare i vincoli artificiosi della sua lunga servitù. Errore capitale e funesto, che, tenacemente fitto nella mente dell’uomo, riappare di tempo in tempo ed insorge come reazione appunto nei momenti culminanti della sua storia civile. In realtà niente separa l’uomo dalla natura, in quanto quello è una parte di questa, una particolare determinazione più com¬ plessa e più alta del suo stesso sviluppo. Soltanto daH’illusorio dissidio tra natura ed uomo prende origine l'ostilità antica verso il 134 GIUSTIZIA crescente espandersi del bisogno umano, che è, in altra parola, l’affermazione stessa di civiltà e di progresso. La lotta ascetica contro il desiderio e il pa¬ negirico dell’astensione è giustificato dall’equi¬ voco di credere che i bisogni siano fatti ar¬ tificiali, aggiunti all’uomo dalla civiltà. Si parte dalla natura umana, come da un dato costante, e si desumono quindi le sue necessità. Natural¬ mente con questo procedimento si possono eli¬ minare tutti i nostri bisogni, tranne quelli fonda- mentali della conservazione, nutrizione, riprodu¬ zione, ecc. Ognuno di noi può rifare a ritroso il cammino deH’incivilimento, può spogliare la sua scorza d'educazione, di coltura, di refinement , e ripetendo il ragionamento di Diogene, può ri¬ durre ai minimi termini l 'kumanitas, che qua¬ ranta secoli di storia hanno faticosamente com¬ posto, e realizzare il sogno d’un ritorno alla natura. Ma questo errore di giudizio riposa sopra un equivoco capitale — un sofisma di anfibologia — l’uomo naturale. Al suo posto non c’è che l’uomo sociale, e il bisogno umano ha essenzialmente questo carattere d’essere un pro¬ dotto o un acquisto progressivo della vita sociale. Ogni uomo ha, per conseguenza, i bisogni della sua condizione, poiché ogni uomo è l’unità d’un gruppo, l’espressione personale d’un complesso di relazioni. L'uomo in abstracto, che sottoponiamo all'analisi filosofica, è un’illusione del nostro spi¬ rito , un precipitato logico, ciò che veramente esiste è l’uomo in concreto, e questo è sempre un CAP. V - ANALISI DEL MERITO 135 valore sociale. I bisogni (i), dai più umili ai più ele¬ vati, sono in fondo ciò che chiamiamo la nostra stessa civiltà; la loro progressiva ascensione è l'indice del progresso. La crescente partecipa¬ zione ad essi, alla quale la legge dell'imitazione sociale chiama le classi inferiori, inalzando il loro standard of living, è l’attuazione della giustizia, mentre sotto un altro aspetto è anche la miglior garanzia della pace pubblica e della stabilità sociale, poiché esse crescono in ragione diretta del maggior numero di persone, che vi trovano il loro interesse, perchè vi cercano la soddisfa¬ zione dei loro desideri. Se ci persuadiamo, che l’ingresso d’un'idea di convenienza non fa precipitare la giustizia dagli altari, su cui la ragione l’à posta, in quanto lo spirito umano non fabbrichi i suoi ideali col¬ l'ombra del sogno, ma coi materiali della realtà; ma che anzi ne integra la nozione più sincera, noi vediamo svanire l’ordinaria nozione del merito. Per poggiar il piede sopra un terreno più solido, dobbiamo ritornare fatalmente all’interpretazione utilitaria. « Quando si dice che un uomo merita ricompensa per i servigi resi alla società, si vuol dire in ultima analisi che è conveniente ricompen¬ sarlo in quanto cf^e egli e gli altri possono essere (1) Dei bisogni si può ripetere quello che i psicologi moderni dicono dei desideri, che cioè in una data per¬ sona non sono un fenomeno isolato, ma formano un ele¬ mento nella totalità, o, come suol dirsi, un universo del suo carattere. Conf. Mackenzie, op. cit., pag. 47. I 136 GIUSTIZIA indotti a rendere simili servizi per ottenere simili ricompense » (1). Ammettiamo che la convenienza è un principio utilitario di distribuzione che neces¬ sariamente limita l’attuazione della giustizia in ab¬ stract0. Ma noi, che abbiamo tentato tutte ,le vie per giungere all'identificazione del merito, ab¬ biamo dovuto confessare che la sua idea ultima ci sfugge, o meglio, che in questa idea umana è avvenuta come una convergenza di due correnti di pensiero, molto diverse tra loro per significato e per origine. Per una parte si sono depositati qui alcuni elementi psichici, che traggono la loro origine dal mondo irreale e dai rapporti, che l’uomo instituisce in questo mondo d'illusione e di mi¬ racolo. Sono persuaso, che tutto il valore di un atto o il merito che ne consegue, guardato dal lato intrinseco, come purezza d’intenzione, come dolore, o sacrificio sostenuto, trovi la sua spie¬ gazione soltanto nell’ipotesi di una intelligenza, che vede il pensiero e lo giudica, ovvero d’una potenza, che può essere guadagnata alla nostra causa mediante un olocausto. Dall’altra parte entrano nella stessa composi¬ zione psicologica elementi di natura positiva, dedotti dalle relazioni sociali, il cui carattere fondamentale è l'estrinsecazione nell'opera e la coordinazione coll’interesse comune, ossia l’utilità. (1) Sidgwick, op. cit., pag. 284. » M1 m f TTTTTTTTTTTTTTTT » CAPITOLO VI. La pena riparatrice. La cooperazione sociale è il fatto più sagliente della fenomenologia umana, e per quanto l'ideale di giustizia, che ne emerge, non ci sia vicino, nemmeno però ci appare tanto remoto da pro¬ clamarlo senz’altro irraggiungibile. Il diritto del¬ l'uomo, quale collaboratore grande o piccolo, illustre od oscuro artefice nella grande continua opera creativa della comune ricchezza, sia come fatto, sia come idea, se è pur troppo ancora assai lontano dall'essere riconosciuto, può tuttavia già essere concepito ; comprendere ciò che dovrebbe essere, è l’inizio della sua stessa attuazione ; nel mondo della coscienza l'ideale è la sentinella avanzata del reale. Ma di fronte all’atto umano coordinato ai fini sociali, è rappresentato disgraziatamente ancora su troppo vasta scala, quello contrario a questi fini. Vi è l’uomo cooperatore e vi è l'uomo di- Zino Zini, Giustizia. 18 138 GIUSTIZIA struttore, l’individuo antisociale accanto al sociale, il valore negativo di fronte a quello positivo, la cifra umana preceduta dal segno sottrattivo del¬ l’utilità collettiva, di fianco a quella, che possiede il segno addizionale. La volontà convergente ed armonica colla felicità comune ha il suo contrap¬ posto nella volontà nemica ed egoisticamente dissociata. Il fondo d’ogni ingiustizia ò veramente questo difetto d’orientamento nella bussola delle nostre tendenze, questa declinazione magnetica transitoria o permanente nell'ago della condotta singola dal polo, che segna la felicità generale. Egoismo è ogni forma d’ingiustizia che rimane nell’àmbito morale, come cosciente diniego di cooperazione positiva; delitto è ogni forma d’in¬ giustizia, che è estrinsecata nel campo delle re¬ lazioni sociali, come cosciente attentato agl’inte¬ ressi legittimamente costituiti. L’onesto e il de¬ linquente stanno fra di loro nel rapporto del produttore e del distruttore. Il primo contribuisce, il secondo sottrae al patrimonio dei valori umani, che compongono la ricchezza materiale e spiri¬ tuale della civiltà. Al sentimento di gratitudine universale, che impone, come debito, la ricom¬ pensa d’ogni servizio sociale, corrisponde il ri- sentimento non meno generalizzato che esige come soddisfazione la pena. Confessiamo però, che qui più che nell’opposto campo, ed erano pur già grandissime, si oppongono nuove diffi¬ coltà alla determinazione d'un giusto criterio. Esploriamo un oceano pieno di scogli ed abissi. Il progresso del sentimento umano è minimo CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE 139 di fronte all'offesa. La barbarie è sempre alla porta della nostra vita civile, per non dire ch’essa è tuttora domiciliata nel suo seno, ed urla con grida di bassa vendetta e di crudele espiazione nella nostra stessa coscienza. Contenuto e forma, la giustizia penale è prevalentemente un empi¬ rismo, che corrisponde appena in modo grossolano all’urgenza immediata dei bisogni cotidiani, ma non appaga per nulla nè i diritti della ragione, nè quelli del sentimento. Non è impossibile spie¬ gare questo relativo arresto di sviluppo, che di¬ mostra indirettamente quanto sia erronea quella concezione semplicista del progresso, che Io iden¬ tifica ad un fatto di cresciuta o di svolgimento organico, mentre in realtà esso appartiene ad un ordine assai più complesso, ed è piuttosto una risultante variabile, un rapporto di posizione, che non una condizione statica. La giustizia che chiamiamo civile, corrisponde alla parte sostan¬ ziale del fatto sociale, e il suo svolgimento, per quanto ritardato dalla tradizione e dall’inerzia conservatrice degl’interessi, tuttavia è correlativa, almeno limitatamente, al progresso della coope¬ razione, questo esponente della storia, indice della crescente complessità nei rapporti umani. Che l’uomo non sia più schiavo, è il risultato logico del fatto, che il tipo associativo, che forma la base della schiavitù corrisponde ad un ordine inferiore della collaborazione umana, tanto dal punto di vista materiale, che da quello morale. Che il servaggio della gleba sia stato disciolto ciò dipende dal fatto, che il tipo di civiltà da noi 140 GIUSTIZIA realizzato domanda imperiosamente il lavoro li¬ bero, e reclama il rapido spostamento delle unità umane, attratte nel circolo della produzione indu¬ striale, ciò che si realizza nell’esodo continuo degli elementi rurali verso i grandi centri eco¬ nomici; senza l’urbanismo la civiltà del XIX 0 e del XX° secolo non sarebbe sorta. Che le classi operaie abbiano raggiunto uno standard of life più conforme alle elementari esigenze della giu¬ stizia, che i salari si siano elevati, che sia stato riconosciuto il diritto delle consociazioni operaie per la resistenza e per lo sciopero, che tutto un sistema protettivo di legislazione sociale si sia elaborato, anche questo ha dovuto trovarsi in stretta dipendenza dai nuovi sistemi per la col¬ laborazione umana; una profittevole produzione industriale non potendo essere ottenuta nella moderna fase meccanica senza la intelligente col¬ laborazione d’una mano d’opera selezionata e qualificata, e conseguentemente senza una pro¬ gressiva ascensione nelle condizioni di vita fisica e morale del proletariato (i). (i) Non è il caso di rifare qui quel capitolo d’eco¬ nomia politica, forse il più importante di tutti, in cui sono tracciati i rapporti tra il salario e il profitto, nello sviluppo della grande industria. Prendiamo soltanto in esame il fatto della progressiva riduzione del tempo di lavoro e l’aumento correlativo delle mercedi. In tutti i paesi gli albori della nuova fase industriale sono con¬ trassegnati da enormi, crudeli giornate di lavoro con paghe minime, malgrado lauti profitti. Al principio del secolo XIX" in Inghilterra la durata del lavoro nell’ in- CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE I4I Non altrimenti rispetto alle modificazioni del diritto della persona nella famiglia e nello stato, ogni conquista civile è in rapporto colla trasfor¬ mazione della vita. Un atto di giustizia è in certo qual modo il riconoscimento d’un fatto compiuto. Che i figli siano stati emancipati, ed equiparati in faccia al diritto successorio, che la donna abbia preso posto di parità di fronte all’uomo, che il debitore non risponda più colla sua persona, che la forza del contratto non sia superiore ai diritti dell'esistenza, tutta questa parte po¬ sitiva della nostra legge non è in fondo che la concrezione giuridica più o meno adeguata delle necessità stesse della vita di relazione. Altre trasformazioni si disegnano già all’oriz¬ zonte e domanderanno più o men di tempo dustria cotoniera era da 90 a ioo ore la settimana. Presto però interviene il legislatore; già verso la metà del secolo le ore settimanali sono ridotte a 60, poi a 56, mentre correlativamente le paghe salivano. Nè questo rovinò l’industria, anzi la sviluppò e l’arricchì maravi¬ gliosamente. La legge di ferro dei salari à ormai ce¬ duto il passo alla teoria degli alti salari. Oggi è asso¬ lutamente provato da constatazioni numerosissime, che nel prodotto d’una nazione più evoluta, il costo della mano d’opera, malgrado le più alte mercedi e la minor durata del lavoro, rappresenta una percentuale più bassa, che nel prodotto di nazioni meno evolute. Il la¬ voro meglio rimunerato finisce, pel suo maggior rendi¬ mento, col costare meno. È rimasta celebre, nella sua veste paradossale, la frase d’un ministro inglese : " Sono le lunghe ore di lavoro degli altri paesi, che ci salvano dalla concorrenza „. 142 GIUSTIZIA per ascendere vittoriose nel cielo luminoso della giustizia (i). (i) Il diritto che nasce dal contratto (obligatio) è stato prima un diritto assoluto, d’un’intransigenza ferrea, che avvince corpo ed anima dei contraenti. La legge sui debiti, il ttexum, la feroce espressione decemvirale: si plus minusve secueruul, il credito sanguinario di Shy- lock, ecco la catena legale, che imprigiona il debitore e lo fa schiavo nelle mani del suo creditore. Quello ri¬ sponde del suo debito con tutte le cose sue, con tutta la sua persona: libertà e vita sono pegno della sua ob¬ bligazione. 11 diritto del creditore non à limite, e la sua soddisfazione, capitale ed interessi, è l’imperativo ca¬ tegorico dei rapporti contrattuali. La mitigazione pro¬ gressiva del diritto contrattuale è il fatto più saglientc nella storia dei rapporti giuridici. Che parte vi abbia avuto la Chiesa, con la sua lotta canonica contro l’usura, non è facile stabilire. Certo che oggi non solo la per¬ sona, ma fino ad un certo punto anche le proprietà del debitore si sottraggono alla terribile confisca per parte del creditore; la proprietà almeno nella misura che as¬ sicura il suo sostentamento e quello della sua famiglia (insequestrabilità parziale degli stipendi, inalienabilità dell ‘homestead. Confi P. Bureau, L’Homestcad ou l’in- saisissabilité de la petite proprietà foncière. Paris, 1895). Possiamo antivedere un ulteriore progresso dell’equità in tutta questa legislazione estremamente feroce del pignoramento, sequestro, sfratto, espropriazione e ven¬ dita forzata; vero armamentario di guerra giudiziaria, che la legge mette nelle mani del forte per la dis¬ umana spogliazione del debole, summum jtts, che forse scomparirà nella pratica morale, anche per considera¬ zioni d’un interesse meglio inteso, mentre mezzi legali di assistenza economica saranno trovati per salvare gli sfortunati o gli improvvidi dalle conseguenze di questa estrema miseria, che si risolve dopo tutto in un danno CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE 143 Altrettanto non si può dire quando esaminiamo il lato negativo dei rapporti sociali. L’uomo an¬ tisociale, appunto perchè tale, non è un collabo¬ ratore, e la sua azione non è un elemento attivo, nè può essere coordinata coll’interesse generale. La società si trae dietro questo pesante con¬ voglio delle sue passività, e non ha a sua dispo¬ sizione altro mezzo, che un sistema di elimina¬ zioni più o meno radicali, di repressioni più o meno attenuate. Quella degli istituti penali è una antichissima storia di violenza e di crudeltà ani¬ mata da un’unica passione prevalente, la ven¬ detta, la quale a sua volta evidentemente è su¬ scitata dalla paura. La reazione collettiva sostituita a quella individuale non può avere altro carat¬ tere che questo. Con ciò non neghiamo l'efficace concorso, che all’opera disciplinare delle energie umane deve avere portato l'inflessibile violenza della giustizia. Il tabu polinesiano e il sacer esto della legge decemvirale hanno gettata la prima interdizione in nome della divinità, hanno posto la prima insormontabile barriera vigilata dalla sentinella del terrore religioso. Anche gli orrori delle leggi di Federico II o della costituzione criminale di Carlo V, anche i fasti sanguinari della giustizia nei secoli barbarici, e tutto lo comune. Anche i contratti disastrosi frutto d’un bisogno troppo urgente (lesione enorme. Conf. Sidgwick, op. cif., pag. 187) potranno essere evitati con istituti di credito obbligatorio. La giustizia à qui un largo campo da col¬ tivare. 144 GIUSTIZIA strazio della carne umana, inchiodata sulla croce di mille torture spaventevoli ed ignominiose, pos¬ sono aver raggiunto qualche risultato utile, e la violenta eliminazione degli elementi refrattari aver contribuito alla maggiore stabilità dei rapporti sociali. Non ostante secoli d : esperienza noi continuiamo a comprendere poco il significato della parola delitto. Ciò dipende dal fatto che mentre la pa¬ rola è sempre la stessa, il suo contenuto è infi¬ nitamente variabile, e tale variabilità nasce dalla diversa relazione, che l’atto umano può avere col complesso della vita sociale. Noi stupiamo delle aberrazioni della giustizia, che ha condannato come delitti, fatti che ci sembrano assolutamente indif¬ ferenti, e magari anche meritori. In quella visione retrospettiva delle opere umane, stampata nella memoria,che chiamiamo il racconto storico, questi strani spostamenti di visuale sono abbastanza frequenti. E la spiegazione sta in ciò: il giudizio morale è un giudizio di comparazione, e la con¬ clusione nei giudizi comparativi dipende dalla natura dei termini di confronto. Accade negli atti dell’intelligenza quello che si sperimenta nelle sensazioni. Nessuna di esse è pura o semplice, nè sempre uguale a sè stessa, variando all’infi¬ nito i risultati del processo sensorio per le mo¬ dificazioni che vi arreca la coesistenza o la suc¬ cessione dei dati apportati alla nostra coscienza. Cosi, non essendo gli elementi di giudizio, donde ricaviamo le nostre conclusioni, nè una quantità fissa, nè una quantità costante, nulla di più na- CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE 145 turale che l’apprezzamento del fatto umano sia rappresentato da una variazione continua. Va¬ riazione però, che non è nè capricciosa, nè anomica, ma che si risolve in una tendenza, e contiene un limite d’approssimazione ossia di verità. La connotazione logica di colpa o di de¬ litto è sempre quella di opposizione o lesione d’interessi socialmente generalizzati (1). La trasmu¬ tazione dei valori etici e giuridici segue gli spo¬ stamenti di criterio nella valutazione dell’interesse collettivo, nè questi sono arbitrari, perchè a lor volta corrispondono ad una più alta compren¬ sione del rapporto sociale, o in altri termini, alla crescente coordinazione delle energie singole nella sinergia totale. In questo senso si razionalizza anche la reazione che chiamiamo pena, raffor¬ zi Lester F. Ward, Sociologie pure. Paris, 1906, II, pag. 223, cita questo passo di R. Blatchford: “ ci fu un tempo che si torturavano le donne per stregoneria, e i prigionieri per far loro confessare delitti, di cui erano innocenti: uomini e donne erano arsi vivi per non aver creduto ai dogmi insegnati dalla religione degli altri: gli scrittori avevano le orecchie tagliate per aver detto la verità, ovvero i fanciulli inglesi erano condannati nelle fabbriche ad un lavoro esiziale; operai morenti di fame erano appiccati per aver rubato un pezzo di pane; consigli o comitati di capitalisti e di proprietari fissavano il salario degli operai, le Trade-Unions erano considerate come focolai di cospirazione; e gli uomini ricchi soltanto avevano diritto di voto. Quel tempo è passato, quei delitti sono diventati impossibili, quegli abusi sono cessati „. Zino Zini, Giustizia. 19 146 GIUSTIZIA zandosi o indebolendosi in confronto all’ atto umano che chiamiamo delitto. Il fine della giustizia repressiva è essenzial¬ mente quello d’una dichiarazione di responsa¬ bilità, secondo alcuni; quello invece d’un atto di difesa e di riparazione, secondo altri. Stanno di fronte due opposte dottrine : l’una parte dall'elemento interiore, intenzione malvagia; proposito nocivo ; fa il processo alla volontà e mette un diretto nesso causale tra questa energia psichica e uno stato di fatto esterno, costruisce un giudizio d'imputazione e conclude, assegnando una responsabilità. L’altra parte dall’elemento estrinseco, studia il fatto, lo misura nella sua en¬ tità come danno, risale all'agente e ne determina la temibilità, concludendo con un giudizio di stima dell’uomo, nelle sue tendenze, e ponendolo nel passivo del bilancio sociale, prende nel limite del possibile le sue misure di garanzia e di risar¬ cimento. L’edifizio del sistema penale, quando non sia una semplice pratica, domanda, per essere ele¬ vato con significazione filosofica, il concorso d'en- trambi i principi, responsabilità e difesa ; difesa in quanto una dichiarazione di responsabilità è soltanto giustificata da un danno reale o possi¬ bile, che la società ha legittimo interesse a re¬ spingere da sè ; responsabilità in quanto la difesa penale è legittimamente messa in opera solamente in confronto di coloro, che attentano ai diritti altrui, accompagnando i loro atti criminosi con un certo grado di coscienza di quello che fanno, CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE 147 per cui noi ci sentiamo autorizzati a punirli. Co¬ sicché si vede come le due concezioni di tutela sociale e di responsabilità individuale non pos¬ sano andar disgiunte : ma tutte e due concorrano alla connotazione della giustizia repressiva, inte¬ grandosi mutuamente. Lo studio della difesa sociale è studio di fatti e gli elementi della sua risoluzione rientrano nella conoscenza dell’uomo e della sua opera. Esso implica la prevenzione del danno e la sua ripa¬ razione, e a tal uopo si giova di quanto l’antro¬ pologia e la sociologia criminale possano aver dimostrato sulla natura del delinquente e sulle cause del delitto. Il problema della pena vi è implicitamente contenuto, in quanto questa possa avere un significato diverso da quello di sem¬ plice espiazione, ed agisca : a) come strumento di tutela, sotto ogni forma e in ogni grado, dal più tenue freno inibitivo fino alla più radicale eliminazione ; per quanto però dato il parallelo svolgimento dei nostri sentimenti umanitari, molto probabilmente dovremo rinun¬ ciare nell'applicazione dei nostri sistemi penali a queste estreme forme della difesa collettiva che si attuano colla violenta selezione dei rei (1) ; (1) Wladimir Solovieff (Revuc intern. de Sociologie, Mars, 1898, pag. 183-84) sulla pena capitale, fa osservare come il fatto costante sia la progressiva restrizione le¬ gislativa nell’applicazione, la diminuzione delle sentenze di morte pronunciate, e la scarsità delle esecuzioni ef¬ fettive. Alcuni dati statistici confermano la sua tesi; nei 14 ultimi anni di regno di Enrico Vili si ebbero in In- 148 GIUSTIZIA b) come mezzo di correzione o d’emenda ; dappoiché non ostante tante vane esperienze del passato non è poi legittimo abbandonare del tutto questo concetto, almeno entro certi limiti, e in certi campi d’esperienza. Più che d’una pena emendatrice e molto meno esemplare, nell’antico senso, possiamo parlare d’una pena riforma¬ trice (1), che estende la sua azione entro certi li¬ miti e ordini speciali, sempre subordinando questo scopo al presupposto d’una specificazione penale, che è il capo saldo d’una riforma, che voglia rag¬ giungere scopi praticamente utili; c) infine come riparazione, e qui prende posto il concetto simbionistico dell’adattamento. In altri termini, qui il problema si pone cosi : è possibile ghilterra 72.000 (5000 per anno) suppliziati, sotto Elisa- betta 89.000 (2000 per anno); quindi non ostante l’au¬ mento di popolazione, il numero diminuisce da migliaia, a centinaia, a decine per anno: nel periodo 1800-1825, 1615 esecuzioni, cioè 80 per anno ; durante il regno di Vittoria, da 10 a 38 per anno. In Francia, dal 1820 al 1830, 72 per anno ; dal 1830 al '40, 30; dal '40 al '50, 39; dal 1850 al '60,28; dal 1860 al '70, ix; i87o-’8o, 11, 1880- 9 °. 5 - (1) Hòffding, op. ci/., pag. 521-522; pag. 524, dove si accosta all’idea espressa da Tònnies, che cioè l’idea di pena deve trasformarsi in un’idea più alta, quella cioè di un conveniente trattamento del colpevole: "Se l’in¬ dividuo è stato costretto a riparare nella misura del pos¬ sibile il male causato agli altri, il resto di questo tratta¬ mento penale deve essere logicamente di natura tale che concorra a guarirlo ed educarlo „. “ L’avvenire, non il passato, rende la pena necessaria pag. 525. CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE H9 sì o no, e ad ogni modo entro quali limiti, fare del delinquente, dell’uomo antisociale e distrut¬ tore dei valori civili, un collaboratore e un pro¬ duttore di utilità sociali ? Si tratta di determinare i mezzi opportuni a fine di cercare nei sistemi penali le condizioni artificiali di questa simbiosi. Nessuno si nasconde le difficoltà contenute in queste premesse, ma in pari tempo nessuno può negare ch’esse soltanto custodiscono in sè i germi del progresso futuro, e la soluzione d’una delle più inquietanti questioni che travaglino l’uma¬ nità. Nell’economia delle energie naturali nulla si perde : tutto sta nel trovare il loro punto giusto d’applicazione. « Se la scienza ora ci addita al¬ leanze di due ordini di piante inutili o dannose; i funghi e le alghe, dar luogo ad un terzo ordine utilissimo come il lichene, un tempo si avvicina in cui la società troverà il modo di far vivere, con opportuna coltura simbiotica, non il delin¬ quente nato, l'uomo assolutamente refrattario alle relazioni sociali, che però tende a scomparire man mano, che alla criminalità atavica si sostituisce la criminalità evolutiva, ma il criminaloide in mezzo al fiorire della civiltà progredita, non solo sop¬ portandolo, come si sopportano, immunizzando gii organismi, veleni e tossine dei microbi e dei ba¬ cilli, ma anche utilizzandolo a suo vantaggio !» (1). Isaia non ha scritto : < il lupo e l’agnello pascole¬ ranno insieme e il leone mangerà lo strame come (1) Lombroso, L'uomo delinquente (cause e rimedi). 1897, pag. 621 e seg. GIUSTIZIA ISO il bue, e queste bestie non faranno danno, nè guasto ? » . Rimane da prendere in esame il secondo punto di vista : quello cioè della dichiarazione di responsabilità. La prima domanda che si presenta spontanea è se questa dichiarazione sia necessaria. Per me la risposta è assolutamente affermativa. Anche se noi volessimo giungere alla negazione teorica del libero arbitrio, anche se ac¬ cettassimo la conclusione del più assoluto determi¬ nismo, formulando la massima che ogni delinquente è un ammalato od un irresponsabile, tutto questo conato logico non ci salverebbe dal bisogno pra¬ tico di determinare un criterio di responsabilità, senza il quale nessuna attuazione della giustizia sembra possibile. Il giudizio umano, in quanto è va¬ lutativo del nostro operare, cammina sopra questo terreno, nessuno sforzo per trascendere i limiti della coscienza può approdare a qualche risultato. Impossibile oggi rinnovare le antiche dispute sul problema della libertà, ardente logomachia, che ha perduto per noi ogni reale significato. La responsabilità, giudicata psicologicamente, che è quanto dire scientificamente, è l'attuazione stessa della coscienza. Essa coincide nel suo progressivo sviluppo con ciò che possiamo chiamare la per¬ sonalità, e realizzandosi nei processi integrativi dell 'io, è in un certo senso correlativa al potere di sentire l'unità continuatrice della vita. L'e¬ lemento di coscienza che introduce nella con¬ dotta , facendone convergere gli sforzi verso un fine, ch’è l’ideale di essa, fa conseguente- CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE 151 mente emergere nella coscienza la visione di¬ stinta della nostra personalità, cui aderisce un sen¬ timento di responsabilità, per modo che ogni atto nuovo viene giudicato alla stregua di ciò che già abbiamo realizzato in noi. Ridurre le frazioni aritmetiche di cui si compone la nostra vita allo stesso denominatore d’un comune ideale, ò cer¬ care appunto quell’unità direttiva, e imprimere quell’unico marchio di fabbrica agli elementi molteplici della nostra attività volitiva, che li rende coscienti prodotti nostri, parti integranti della nostra vita. L’uomo sente la sua personalità e la sua li¬ bertà ad un tempo, quando sfuggendo alle mille suggestioni d'una condotta estemporanea, riesce colla riflessione a coordinare gli atti che compie, e a giudicare ognuno di essi in correlazione coi pre¬ cedenti, per modo da rendersi ragione di ciò che fa. La volontà non è una facoltà, ma una funzione: essa agisce coll’educazione in modo stabile sia come freno sia come stimolo, è redine e frusta degli impulsi e delle energie spirituali, e conduce ora trattenendo, ora sollecitando, esperto coc¬ chiere, il carro degli affetti e dei desideri per la difficile via della vita. Tutti i tipi mentali infe¬ riori, che per mancanza d’attività riflessiva non sono pervenuti se non scarsamente ad un certo dominio spirituale di sò stessi, può dirsi vivano una vita più frammentaria che integrale, sentono meno il proprio io come un’unità, e perciò più facilmente soccombono preda all’impetuosa onda dell’istante presente, ed ànno dei loro atti una 152 GIUSTIZIA responsabilità corrispondentemente manchevole. L'elemento collettivo della vita antica, preva¬ lente in tutte le condizioni sociali meno evolute, contribuisce ad ostacolare l’emersione della per¬ sonalità singola dal gruppo, villaggio, tribù, chiesa, setta o famiglia. E questo ci spiega quanto a lungo l'uomo abbia ignorato il problema della respon¬ sabilità personale, e quanto spesso nella pratica giudiziaria dei popoli barbarici il gruppo fu coin¬ volto in una responsabilità collettiva sia come offeso sia come offensore (i). Il punto di vista classico è assolutamente estrinseco, guarda all'a¬ zione compiuta e non fa ricerca della volontà, anzi molte volte affoga questa volontà dell’agente in una misteriosa e suprema volontà fatale, che la travolge senza possibilità di resistenza ! Lo spirito animatore del Cristianesimo ha avuto un'importanza decisiva nella formazione della co¬ scienza morale. Il suo più importante coefficiente è la riflessione continuata sopra sè stesso, a cui la Chiesa obbliga il suo seguace. L’uomo, curvo sulla sua stessa coscienza, ne scruta l’abisso, ne sorveglia i moti, ne vigila e spia ogni tendenza. Questo eccessivo esercizio di controllo e di esame può anche talvolta paralizzare l’azione, sfibrare la volontà, recidere i nervi all’opera. Ma per la prima volta forse l’uomo ha sentito acuto il morso della responsabilità, sia come pentimento dopo il fallo compiuto, sia come ammonimento e scru¬ ti) Hòffding, op . cit ., pag. 512. CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE 153 polo nel dubbioso momento della scelta. II Cri¬ stianesimo è eticamente individualista, in questo senso che pur pareggiando in un comune destino le anime umane, assegna ad ogni spirito un va¬ lore suo proprio ed un fine personale, la sal¬ vazione, e verso questa fa tendere in una con¬ vergenza massima tutti gli sforzi, tutte le energie del volere. Per la prima volta nel mondo morale si opera l'unità della vita interiore, e questo plinto focale , in cui si riassume il fascio dei raggi psi¬ chici, è la fede (1). I gradi della responsabilità sono dunque quelli stessi di questa integrazione personale. Libero de’ suoi atti, in un rigoroso senso psicologico, è l’uomo che li riconduce a motivi, ch’egli ricava dalla stessa costituzione logica del suo pensiero e del suo sentimento. Sotto questo aspetto gli stati emotivi contrastano coll’esplicazione della li¬ bertà morale, in quanto espongono la nostra con¬ dotta a tutti i dislivelli e alle capricciose saltua¬ rietà del momento attuale, non coordinato nè subordinato a ciò, che possiamo chiamare l'espo¬ nente della nostra vita psichica. Wili representes thè higkest coordination of thè ideas, feelings and movements, dice con efficace concisione Maudsley. Una vita guidata dal volere, è quella nella quale man mano che si presenta un'idea impulsiva, è confrontata e subordinata a un ideale più largo, o al complesso valore e proposito, inerente al con¬ fi) Hòffding. Histoire de la phdosop/iie moderne. Paris, 1906, pag. 9-io. Zino Zini, Giustizia. 20 154 GIUSTIZIA cetto della vita ; nella quale all’azione del tipo riflesso è sostituita un’azione, che è il risultato di una scelta deliberata; nella quale in luogo della guida coercitiva dell’idea immediatamente dominante, noi abbiamo la guida, che deriva da una riflessa considerazione delle rispettive esi¬ genze delle diverse idee, che appaiono nel campo della coscienza e competono per la prevalenza. Qui è l’unico e caratteristico elemento dell’atti¬ vità umana, in forza del quale noi attribuiamo il volere all’uomo (i). Tentando una psicologia della scelta bisogna partire dalla concezione di sistemi psichici, che sono risultato di processi associativi resi stabili dal¬ l’abitudine (2). Tutto il problema dell’educazione nella famiglia, nella società, col concorso della religione, della coltura e del costume, consiste nel creare questi sistemi, quanto più numerosi, quanto più ricchi d'associati, quanto più abituali sia possibile. Arrestare l'impulso mediante l’ini¬ bizione, e promuovere la scelta mediante la de¬ liberazione, ciò equivale, in altre parole, a creare il senso della personalità nei nostri atti ; in quanto essi facendo più a lungo soggiorno nella coscienza, (1) Maudsley, Physiology of Mimi, pag. 486. — Conf. Ribot, Les maladies de la volanti. Paris, 1901, pag. 153. — Seth, A Study of Ethical Principlcs. 1894, pag. 41. — Wundt, Et/iics (trad. ingl.). London, 1901, III, pag. 37. (2) Ladd, Philosophy of conduci, pag. 143 : “ la libertà morale è un acquisto graduale che dipende dall’eser¬ cizio ripetuto di ciò che chiamiamo potere di scelta, sotto il principio dell’abitudine „. CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE 155 prendono maggior contatto cogli elementi della nostra vita anteriore, lasciano di sè un più dure¬ vole ricordo. La traduzione pura e semplice del pensiero in azione, nella condotta impulsiva, ca¬ ratterizza l’incoscienza o quanto meno il minimum di coscienza, l’azione irreflessiva del bambino, del selvaggio, del primitivo e del delinquente. Essa sorge improvvisa e scatta senza prepara¬ zione e senza motivi adeguati, eccessiva e peri¬ colosa. Così nel delitto d’impulso, il pensiero cri¬ minoso traversa come un lampo sinistro il cielo della coscienza, non vi si sofferma, non vi si as¬ socia, non fa personalità. È la vita psichica ad uno stato di coerenza embrionale e d’isolamento. L’atto segue il pensiero con una continuità di¬ retta. La conseguenza è necessariamente lo scarso senso di personalità e di responsabilità che lo accompagna ; c’è qualcosa di non voluto e d’im- posto, di cui l’autore serba come una vaga im¬ pressione : lo stupore d’aver potuto fare 1 L’in¬ coscienza, che rimproveriamo al delinquente, è in certo qual modo la triste giustificazione del suo stesso reato (1). Anche gli stati passionali interessano il pro¬ blema della responsabilità. Sotto il loro impero, parla, gesticola ed agisce il fantoccio dell’eterna commedia umana, sul palcoscenico della vita, quasi alienis nervis mobile lignum. Ma se i poeti anno sentito la passione, questo massimo mo¬ li) Grasset (Revue des Deux Mondes, 15 fév. 1906), Les demi-fous et les demi-responsables, pag. 835 e seg. 156 GIUSTIZIA tore delle energie umane, e tanto frequentemente ànno rappresentato e descritto nell’opera d’arte, ef¬ figiato nei quadri o nelle statue colla sua maschera divina e repugnante di odio e d’amore, questo fiore supremo dell’anima, carico di tutti i pro¬ fumi più inebrianti e di tutti i più letali veleni, che personificato nei mille eroi del teatro, è, volta a volta, la gelosia d’Otello, la follia amorosa di Giulietta, l’avarizia di Shylock, la cupa ambizione di Riccardo III ; la più parte dei filosofi a tutt’oggi si sono accontentati di giudicarla, e quasi sempre sfavorevolmente. Dagli Stoici, infatti, a Kant, la passione fu considerata, come un disordine del¬ l’anima, una malattia dello spirito, che perturba la retta ragione, per cui bisogna estirparla dal cuore, incatenarne gli impulsi, liberarci dalla sua ossessione, che dovette apparire assai spesso, agli occhi del severo moralista cristiano, malefica opera demoniaca. Lo studio scientifico della passione deve ini¬ ziarsi con un’esatta determinazione del suo signi¬ ficato. Troppo a lungo, infatti, questi stati affet¬ tivi sono stati confusi con l’emozione in generale, di cui non rappresenterebbero che un grado di più alta intensità. Bisogna dissipare questo equi¬ voco. Un vero antagonismo sta anzi tra l'emo¬ zione e la passione ; « la prima, dice Kant, agisce come l’acqua che rompe una diga, la seconda come un torrente, che si sprofonda sempre più nel suo letto ; la prima è un’ebbrezza che passa, la seconda un delirio che cova un’idea, la quale s'imprime con tenacia sempre crescente >. CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE 157 Cosicché il Malapert distingue nei caratteri af¬ fettivi i tipi emotivi e i tipi passionali, come opposti tra loro ; e l’esperienza quotidiana dimo¬ stra, che i temperamenti più inclini all’emozione sono alieni dall’abbandonarsi alla lenta e tiran¬ nica predominanza della passione, mentre l’a¬ more, l’odio, l'ambizione, e in generale ogni forma di passione nobile o volgare, sorge in uo¬ mini di carattere saldo, schivi da facili e bruschi impeti d’affetto, caratteri chiusi, come si dice, e apparentemente tetragoni ai suoi assalti (1). Del pari dove è più ricca la vita emotiva, come nelle donne, fanciulli, primitivi, più rare sono le vere passioni, sebbene non manchino del tutto e se ne trovino alcune speciali c allo stato istin¬ tivo. Ma ciò che più caratterizza lo stato passio¬ nale e lo differenzia dall’emotivo, è l’elemento di riflessione ch’esso contiene. Questa intellet¬ tualità della passione, per cui ha potuto essere giustamente definita dal Ribot : « l’idea fissa del cuore » e dall’Hood « otte sterri , tyrannic tougkt, that made all otker toughts its slaves », dà al fatto passionale quel carattere di lunga preme¬ ditazione, di scelta adeguata dei mezzi, che net¬ tamente lo distinguono dal semplice impulso emotivo, improvviso, disordinato e sragionevole, per cui a torto si confondono col nome di delitti passionali quelli dovuti ad un’emozione, mentre la responsabilità può risultare diversa. E infatti, (1) A. Renda, Le passioni. Torino, 1906; — Ribot, Quest-ce qti'utte passion? Commetti les passiotis finis- seni (Revue philosophique, mai-juin 1906). 158 GIUSTIZIA chi non intende che la criminalità emotiva, la quale è un raptus senza preparazione cosciente, sorge improvvisa e rapida, mentre la criminalità passionale è l’esito di un processo lento di al¬ terazione della personalità, è un atto talvolta pre¬ parato con la parvenza di volizione libera, sempre effetto di una accumulazione lenta ed incessante di motivi subcoscienti e spesso illusori ? Illusori perchè nella genesi e nello sviluppo di un fatto passionale ha molta importanza l’immaginazione. Il lavorio rappresentativo, che dissocia i ricordi e li riduce ad un comune denominatore senti¬ mentale, è una gran parte dell’attività psichica della passione. La fantasia l’alimenta col fascino delle imagini rievocate, che hanno ora le carezze d’un sogno attuato, ora i tormenti d’un incubo molesto. È in questo senso che si può vera¬ mente dire che le passioni sono stati caratteri¬ stici della personalità, sono polarizzazioni parti¬ colari degli elementi formativi della coscienza. Il problema complesso della personalità è tut- t’altro che risolto: tuttavia gli studi così sugge¬ stivi di Myers, Binet, Ribot, Janet segnano il cammino che deve condurre alla maggiore sco¬ perta della psicologia (i). L'io, questo summum (i) Myers nel suo saggio sulla coscienza sublimare (Proceedings of thè Society for Psychycal Research, voi. VII, pag. 305). — Bidet, ics altérations de la person- nalité. Paris, 1892. — Ribot, Les maladies de la persoti- nali/é, Paris, 1899. - Jadet, L 1 automatisme psycholo- gique. Paris, 1903. h CAP. VI • LA PENA RIPARATRICE *59 psyckicum, infinitamente vario e complesso, e pur sempre uno ed identico, è oggi compreso come l’epifenomeno di una lenta stratificazione delle esperienze vitali raccolte, associate e strette nella rete della memoria. Armonia musicale unifica¬ trice delle note molteplici della nostra vita, invisibile filo conduttore tra i momenti dell'esi¬ stenza, l ’io si cristallizza secondo sistemi innu- merevolmente diversi, e spesso accade, che il suo processo d’elaborazione possa essere tur¬ bato, ovvero ch’esso, già formato, possa alte¬ rarsi in sèguito. Ogni malattia dello spirito in¬ tacca la personalità, altera ciò che di più delicato ha prodotto la vita psichica, la fisionomia perso¬ nale deH’anima. Se l’emozione è l’oscillazione grande o piccola, il fremito o la scossa dellVc, sempre la rottura brusca dell’equilibrio, la pas¬ sione è la sua lenta disgregazione, è il suo nuovo e permanente orientamento, la direzione costante data alla corrente del pensiero e dell'affetto. Nello spirito accade quello che possiamo avvertire nei moti dell'oceano : le masse liquide del mare s’in¬ crespano, s'innalzano e si sconvolgono, sotto la variabile pressione atmosferica, in onde e tem¬ peste ; questi spostamenti della superfice sono le emozioni ; ma al disotto, per la differenza di tem¬ peratura e di densità, i profondi strati compon¬ gono una rete di correnti continue, e questa si¬ lenziosa circolazione di acque in direzione costante è la passione. La sua morbosità può essere tanto in sè stessa quanto negli effetti ; perchè lo stato passionale è una forma di monoideismo e di au- i6o Gl USTIZIA tomatismo associativo, conseguenza di un pro¬ cesso di riduzione psichica, che tende a far rien¬ trare tutta l’esperienza in un unico cerchio d’attrazione intellettuale. Questa tirannica impo¬ sizione dell'*'0 passionale diminuisce per una parte i freni inibitori, e per l’altra quel potere di se¬ lezione, che è il vero bilanciere nello spirito nor¬ male. Le passioni sono equivalenti psicopatici, soggette perciò alla legge dell'ereditarietà, e con¬ corrono a formare quella zona grigia intermedia tra la sanità e la follia, che, notata dai psichiatri e battezzata con nomi diversi, raccoglie gran¬ dezze e miserie, e dalla quale sbocciano talvolta i fiori del male e i fiori più belli dell'attività umana, eroi, santi, criminali, geni (i). Studi come questi non hanno un interesse sol¬ tanto teorico, ma implicano importanti problemi di responsabilità morale e giuridica, così difficili e complessi, che alla loro soluzione occorre l'a¬ nalisi e il giudizio dell’uomo di scienza. Pur troppo, noi siamo nella pratica sociale ben lontani da questo ideale di giustizia illuminata e co¬ sciente, e ci serviamo tuttora di un grossolano empirismo tradizionale, e ciò che chiamiamo giustizia non è il più delle volte, che l’espressione attenuata e socializzata di quell’antico spirito di vendetta formulato nella legge del taglione : occhio per occhio, dente per dente. Il cuore del¬ l’uomo è pur sempre la cosa più difficile a mu¬ tarsi. (i) Renda, op . cit ., pag. 105. CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE 161 Ma questo problema della responsabilità è molto più complesso e più vasto di quello che potremo a prima giunta sospettare, guardandone soltanto gli aspetti più appariscenti e superficiali. La psiche può avere in sè stessa le cause per¬ manenti o transitorie della sua propria debolezza o della sua deformazione, sia come stati conge¬ niti, sia come forme acquisite nella malattia e nei lenti processi di degenerazione. In tali casi è facile constatare i disordini o le deficienze, che distruggono l'armonia personale, e spengono nell’azione coatta, nel delitto di bestiale ferocia o di lussuria, ogni raggio d’intelletto umano. Ma al disotto di questi tipi d’ irresponsabilità evidente, che arrestano ogni nostro giudizio di condanna, di fronte all’opera del pazzo, o del degenerato o dell’ebbro, quante altre più miste¬ riose e nascoste forme di aberrazione della vo¬ lontà sfuggono alla comune attenzione, e do¬ mandano al loro riconoscimento maggior studio e pili diligente analisi. Per intravedere tutta la gravità del quesito, basti enunciare qui il fatto della suggestione. Soltanto adesso la psicologia comincia a penetrare i segreti di questi stati ge¬ neralissimi dell’anima, che dai più semplici gradi della credulità, della docilità infantile, fino ai più complessi fenomeni dell’ipnosi e del contagio psi¬ chico, lasciano supporre intorno ad ogni spirito umano come una invisibile sfera d’induzioni re¬ ciproche, alla quale potremmo riferire la causa di molte oscure e inesplicate manifestazioni del volere. Zino Zini, Giustizia. 21 IÓ2 GIUSTIZIA Ogni moto della volontà è la risultante d'un infinito numero di fattori ; e non è possibile mettere sopra una bilancia l’atto, in cui il suo dinamismo si concreta, per valutarne il giusto peso. Chi potrà darci ragione della condotta ar¬ bitraria o contradditoria ? Bene e male sono pro¬ dotti morali, ma è ancor troppo puerile il giu¬ dizio di Taine, per cui virtù e vizio escono dal laboratorio della coscienza non altrimenti, che zucchero e vetriolo da quello della chimica. Ma, come dal punto di vista dell’interesse fisio¬ logico non possiamo esimerci dal pronunciare un giudizio apprezzativo intorno alle proprietà utili o dannose del vetriolo e dello zucchero, perchè pretenderemmo proibirci una correlativa valutazione dell’opera umana buona o cattiva, esprimendo intorno ad essa il biasimo o la lode ? L’errore capitale, che ha traviato tanto pensiero speculativo, è appunto in questa arbitraria disgiun¬ zione dei due atteggiamenti che può assumere 10 spirito nostro in faccia alle cose giudicandole, in quanto cioè le conosce e in quanto le stima. Nel primo caso le studia, le analizza e le ricon¬ duce alla causa e alla legge — giudizio teorico — nel secondo le valuta, le apprezza nei loro effetti, le accetta o le respinge — giudizio piratico. L’astrazione può scindere i due momenti del¬ l'attività spirituale e può farne due entità a sè ; 11 filosofo può dire : io guardo all’atto umano in sè, come qualcosa di distinto nel mondo, lo ri¬ conduco al suo agente personale, lo giudico buono o cattivo secondo l’intenzione e il fine a cui è CAP. VI • LA PENA RIPARATRICE 163 converso, lo approvo o lo condanno, e faccio una astratta dichiarazione di responsabilità a carico od in favore del suo autore ; il naturalista può a sua volta affermare : per me non c’è nulla di isolato nell’universo, nulla che debba essere giu¬ dicato in sè, ma sempre in relazione co’ suoi an¬ tecedenti e co’ suoi conseguenti, un atto eroico, come una mostruosa scelleratezza, sono epifeno¬ meni, sono sintesi d’infiniti precedenti fisiologici e psicologici ; io analizzo, io spiego, io non mi entusiasmo, come non m’indigno, ma interpreto soltanto e stabilisco la causalità. Andando per la strada il mineralogo può raccattare colla stessa sollecita curiosità un ciottolo od un diamante, e l’uno e l’altro sono dati dalla realtà, e possono diventare oggetto di scienza I Ciò non toglie che quello stesso ciottolo e quello stesso diamante possano, agli occhi d’uno spaccapietre e d’un gioielliere, diventare oggetto d’un giudizio di stima e di pratica valutazione assai differente. L’uomo conosce ed opera; e il mondo è un complesso di dati e di valori. Un atteggiamento esclusivamente teoretico della morale è assurdo, come sarebbe ugualmente assurdo un atteggia¬ mento esclusivamente prammatico. In fondo bi¬ sogna persuadersi di questo, che anche la stima non meno che la scienza fanno parte della realtà. Non esiste soltanto l’oggetto come parte del reale, ma esistono anche in questo i suoi rapporti col soggetto, rapporto teorico, che chiamiamo rappresentazione, rapporto pratico, che chiamiamo emozione. Anche questi sono elementi deil’uni- 164 GIUSTIZIA verso, allo stesso modo, che è parte della realtà non solo il sole e l’acqua, ma anche la rifra¬ zione del raggio solare nell’acqua, non solo il ferro e l’aria, ma anche l’ossido di ferro, che si forma col loro contatto. Così di fronte al fatto umano è legittimo, anzi doveroso, domandare il perchè di esso, interpretarlo nella sua genesi e seguirlo nel suo svolgimento, ma è egualmente le¬ gittimo valutarlo in rapporto a noi, come utile o come danno, accettandolo con piacere o respin¬ gendolo con repugnanza. E i due fatti procedendo associati, l’elemento razionale illumina d’una co¬ scienza nuova i nostri affetti, e la reazione al- l’offesa o al danno, che costituisce la giustizia repressiva, perde del suo carattere di selvaggia rappresaglia e di vendetta, per acquistare quella di tutela e di riparazione. Il bambino può battere la sedia contro la quale ha urtato, il selvaggio, il primitivo possono rea¬ gire brutalmente sfogando l’ira e il dolore pro¬ vocato da un danno od un oltraggio ; ma l’uomo colto e civile perviene ad un concetto nuovo di colpa, e trasforma parallelamente i suoi mezzi di reazione. Colpa non è più per lui il classico stato d’animo, che si tratta di scrutare, e sorpren¬ dere ne’ suoi intrinseci fattori, facendo un rigo¬ roso processo all’intenzione, non è più il peccato che si deve espiare; colpa è l’atto lesivo dell’in¬ teresse e del diritto umano, colpa è il danno sociale, che deve essere riparato. Noi non pre¬ tendiamo più giudicare l’intimo valore dell’azione — chi può osare tanto? — il mistero della coscienza CAP. VI • LA PENA RIPARATRICE 165 operativa; questo complicato laboratorio della chimica spirituale sfugge a tutti i nostri mezzi d’indagine. Per quale labirinto la volontà giunga all'esplosione dell'atto, noi stessi, che agiamo, non 10 sapremmo dire. L’unico criterio ragionevole del nostro giudizio è fondato sull’esteriorità. La responsabilità di cui oggi parliamo, è soltanto quella che si rivela dai fatti. Noi non aspiriamo al riscatto della colpa, considerata dal lato sog¬ gettivo ; noi miriamo alla riparazione. Ogni forma di pena espiatrice tramonta, il dolore è per sè stesso sterile, e l’uomo che si compiace del ri¬ morso, del pentimento e delle lacrime, che la sofferenza fisica o morale strappa al colpevole, persiste nella tradizionale attitudine, che ha fatto del giudice umano un rappresentante di quello divino sulla terra, e nella crudele domanda d'un sacrificio, come la divinità irata domanda a pla¬ carsi una vittima. Il concetto nuovo che noi abbiamo elaborato della giustizia è la riparazione, senza inquinarne 11 significato con alcun elemento atavico di ven¬ detta o di rappresaglia. Ciò che domandiamo è, che sia risparmiato il dolore d’ogni creatura umana, o che sia mitigato quello, che l’opera umana possa aver provocato. Siamo ritornati in parte all’antica idea della fatalità della colpa, alla comprensione del delitto come una mostruo¬ sità o un’infermità dello spirito ; correlativa alla deformità e alla malattia del corpo. Salvo che, abbiamo potuto fare un passo più in là del pen¬ siero socratico o della finzione allegorica dei tra- i66 GIUSTIZIA gici : la colpa non è soltanto ignoranza o maligna volontà d’un agente esteriore, che grava la sua mano implacabile sopra di noi ; Edipo, parricida e incestuoso e pur innocente, che un destino feroce conduce al delitto e al rimorso. Noi scio¬ gliamo nei suoi fattori il prodotto, noi chiamiamo il fato degenerazione ed ereditarietà, noi facciamo l’analisi della volontà, e decifriamo la misteriosa scrittura delle tendenze malvagie, degli impulsi e delle ossessioni criminose. E questa conoscenza del fenomeno criminale e della natura del delin¬ quente dà nuovo fondamento al giudizio valuta¬ tivo, che facciamo di lui, e illumina di nuova luce il problema della penalità. Ogni atto delittuoso è lesivo della coopera¬ zione umana, che sta a fondamento della giustizia, od in altre parole, è una negazione di questa coordinazione di fatti e pensieri, che compendia la società. In questo senso appunto il crimen è antisociale. Il giudizio di questa antisocialità non ha scopi d'espiazione, ma soltanto di prevenzione, di difesa e di riparazione. In questo senso si potrebbe quasi arrivare alla conclusione, che l’e¬ spressione di giustizia è impropria; perchè infatti parlare di giustizia, mentre si tratta soltanto di misure protettive, che garantiscano la continuità della vita collettiva, e realizzino quei riadattamenti della cooperazione umana, che il delitto ha tur¬ bato? La responsabilità valutata psicologicamente, come espressione della volontà, accompagna sol¬ tanto la vita normale. Ogni reo è in un certo senso un anomalo; noi non siamo quindi chiamati CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE 167 a compiere in suo confronto un vero atto di giustizia, ma soltanto di intelligente previsione dell’evento futuro probabile. Ciò, che oggi è un giudizio penale, diventerà domani determinazione di valori socialmente negativi, graduazione di danni reali o presunti. Fuori di ciò, è sempre nell'esercizio del potere punitivo più o meno ce¬ lato un bisogno di vendetta, un proposito di rap¬ presaglia, una crudele volontà di far scontare il male commesso, quia peccatum (x). La storia della pena è un interessante capitolo della psicologia collettiva : essa parte da una ca¬ pricciosa collezione di supplizi, tormenti e ca¬ stighi, distribuiti secondo criteri personali; e poco a poco, giusta una legge di riduzione, alla puni¬ zione arbitraria e soggettiva si sostituisce, o tende sempre più a sostituirsi, una giustizia egualitaria. Non discutiamo dove si realizzi meglio la san¬ zione penale : in un trattamento oggettivo di tutte le colpe, ovvero in una applicazione della pena con riguardo delle condizioni soggettive del colpevole. La grande illusione, radice di tutti questi sterili tentativi, è quella che la pena sia un male da restituire al colpevole in proporzione del male, che ha fatto. Realizzare questo concetto, (1) Hòffding, Morale , pag. 525: “ la dottrina del ta¬ glione esercita ancora sulle idee ordinarie del delitto e della pena un tale influsso, che si può considerarla come uno dei principali ostacoli ad una sistemazione ra¬ zionale del diritto penale „. — Solovieff, La questiou pénale au potiti de vite élhìque (Renne Interri, de Socio!., 1897, P- 521*524)- i68 GIUSTIZIA trattando tutti alla stessa stregua, senza conside¬ razione personale, ovvero dando a ciascuno quella pena, che sia il condegno castigo del suo fallo, è questione affatto secondaria di fronte al pro¬ blema principale, che è quello di stabilire il signi¬ ficato della pena. Esso è nella nostra coscienza cambiato radicalmente. Lo ripetiamo: la pena non essendo nè espiazione etico-religiosa, nè vendetta individuale o collettiva, non può avere altro fine pratico che un sistema di ragionevole tutela o ap¬ prossimativa prevenzione, innestata sopra un pro¬ gramma minimo d'emenda, e fondata sopra legit¬ timi intenti di riparazione. Dato questo, cessa ogni vana ricerca di proporzionalità colla colpa, che non è in definitiva, se non un’astratta figura di reato artificiosamente composto, e classificato in un testo di legge, e molto meno colla capacità di sentire il castigo per parte del soggetto, perchè questo ci ripiomberebbe nei peggiori eccessi della crudeltà penale, che abbiano disonorato il nostro passato (i). (i) Hóffding, Morale, pag. 525-526: “ Kant considera come un imperativo categorico che ogni uomo debba esser trattato com’egli tratta gli altri. Ma questo impera • tivo non è che un ukase autoritario... Al contrario non si ha diritto d’infliggere sofferenze ad un uomo, se non deve risultarne sia per lui, sia per la società, sia per entrambi, un bene di tanto maggiore „ ; pag. 527 : “ il maggior progresso nello sviluppo morale dell’ uma¬ nità, fu fatto i^ giorno in cui si cominciò a mettere in dubbio il principio : che bisogna rendere il male per il male ... CAP. VI • LA PENA RIPARATRICE 169 Se un criterio di specificazione nella pena deve essere accolto, non può essere altro che quello suggerito dalle qualità del delinquente, dalla sua temibilità. L’unificazione e l’eguaglianza nel si¬ stema penale, che è una esigenza pratica nella nostra fase civile e politica, subita come un’in¬ giusta necessità, è in fondo più fittizia, che reale. Poiché non c’è mente umana che possa distri¬ buire il dolore della pena secondo una perequa¬ zione universale; e quando anche lo potesse non so perchè lo vorrebbe, visto che il fine della giustizia non può essere questa esatta ripartizione del dolore secondo le colpe ; nessun sistema di giustizia può evitare l’ingiustizia. Solo il nostro grossolano senso di democrazia può appagarsi della nota formola: la legge è uguale per tutti, presa nel suo significato brutalmente realista. C’è un certo crudele compiacimento in questa falce livellatrice dei regimi penitenziari, come in quella della morte. Per un’altra via noi ritorniamo al criterio sog¬ gettivo della pena: il giudice dell’avvenire, spoglio d'ogni ultima traccia di questo atavico risenti¬ mento verso il reo, attuerà il sogno d’una giu¬ stizia fondata sulla pietà. In tal caso un certo potere arbitrario affidato al giudice, troverebbe la sua giustificazione nel progressivo convinci¬ mento della coscienza umana, che ogni delitto, essendo una mostruosità o permanente o transi¬ toria, nessun colpevole può suscitare nè disprezzo nè rancore, ma soltanto suggerire caso per caso cure e prevenzioni tutelatrici di lui, come di noi Zino Zini, Giustizia. 22 170 GIUSTIZIA stessi(i). È in questo senso che cade l’intero edi- fizio delle sanzioni, così laboriosamente costrutto nella mente dei teologi, dei filosofi e dei giu¬ risti (2). Si direbbe che l’uomo abbia diffidato a lungo della sua attitudine a formare nel suo pro¬ prio mondo un ordine di giuste relazioni sia come ricompense, sia come castighi, e quasi confessando a sè stesso la sua impotenza, abbia creduto d'al¬ leggerirsi di questo carico increscioso, affidando il compito d’attuario alla natura, a Dio, alla legge! Sempre si è invocato e s invoca la Giustizia, quasi una divina forza terribile, che è fuori di noi, e di cui noi reclamiamo il miracoloso inter¬ vento sulla terra. Ma in realtà c’è tanta giustizia nel mondo per l'uomo, quanto ce n’è nel suo stesso cuore. Noi non dobbiamo domandare agli altri, ma ricercare in noi stessi quello che è giusto. Per conquistare la sua piena autonomia, la vita morale deve perdere ogni carattere di coazione, sia pur essa intrinseca, ed immedesimata nel fan¬ tasma kantiano d’un imperativo categorico, sia essa invece estrinseca, come lode o biasimo, ven¬ detta degli uomini o vendetta della natura e di Dio. Il dovere è parola ancor troppo ferrea per esprimere l’elemento di spontaneità, che dovrà raggiungere l’atto morale. Ed anche la giustizia, che oggi è prevalentemente concretata nelle in¬ flessibili forinole della legge, che vieta o co- fi) Hòi-'fding, op. cit., pag. 518. (2) M. Guyau, Esquisse d’uite morales ans obligation, ni sanclion. Paris, 1893. CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE 171 manda, minacciando a’ suoi trasgressori i rigori delle sue dure sanzioni, viene trasformandosi sem¬ pre più nelle addolcite forme dell’equità. Dalla giustizia coercitiva alla giustizia consensuale, è il passaggio dalla violenza alla libertà, luminosa via di progresso, al cui termine sta la ragionevole adesione dell’uomo al giusto (1). (1) Y. Guyot, Journal ties Economistes, 15 dee. 1899, voi. XL, pag. 322: " il progresso è in ragione diretta dell’azione dell’uomo sulle cose, ed in ragione inversa dell’azione coercitiva dell’uomo sull’uomo „. Epilogo. Progresso è il nostro stesso adattamento : esso si compie inconsciamente in una più lunga fase della storia umana, e coscientemente soltanto nei più brevi, ultimi periodi di essa. Il progresso non ò una finalità della vita, è anzi piuttosto il suo risultato definitivo, e s’attua come una cosciente necessità. Il suo cammino è lento e disuguale, e le sue manifestazioni possono anche presentarsi al nostro giudizio, contradditorie. Come la sua base è es¬ senzialmente biologica, consistendo in ultima analisi in un prolungamento della vita singolar¬ mente considerata e in un aumento numerico degli esseri umani chiamati a parteciparvi, così ciò che lo caratterizza è lo sviluppo intellettuale ed economico (i). (i) Galton, Hereditary Genius. London, 1892, p. 327. “ L’uomo era barbaro ancor ieri, non possiamo quindi pretendere che le attitudini naturali della sua specie EPILOGO 173 Intellettuale perchè il maggior adattamento dell’uomo al suo ambiente terrestre è il risultato duna vittoria dello spirito sulla natura. La do¬ minazione umana è mentale prima d'esser fisica; perchè infatti non sono le forze materiali del¬ l'uomo che siansi sensibilmente accresciute per dargli questa vittoria, bensì quelle dell’intelletto. E qui dissipiamo un facile equivoco: progresso intellettuale non vuol dire che 1 ’ intelligenza umana sia individualmente aumentata, ciò che è in reale aumento è il sapere, come sintesi sta¬ bile. La scienza è questo stromento o questo metodo, questa mirabile e infrangibile arma della nostra conquista sul mondo (1). In aumento sono le condizioni materiali del benessere, in conseguenza del perfezionamento tecnico dell’industria umana. Ma accanto a ciò quanta reale barbarie dentro e intorno a noi ! L’economia delle energie umane è ben lungi dall’essere realizzata. Solo in ristrette oasi del siansi già plasmate armonicamente nel suo progresso troppo recente. La razza umana non era composta ab initio che d’assoluti selvaggi, e dopo milioni di anni di barbarie, l’uomo è solo da pochissimo tempo entrato nella via della moralità e della civiltà,,. (il Pearson, op. cit., p. 12 e seg. “ Il metodo appiana le differenze tra gli spiriti. Quando occorra tracciare un cerchio a mano libera, le differenze d’attitudini pos¬ sono aver la loro importanza, ma quando ci serviamo d’un compasso, queste differenze scompaiono „. Hoff- ding, Histoire de la philosophie moderne, Paris, 1906, 1 , p. 205. 174 GIUSTIZIA lavoro si è parzialmente attuata la solidarietà e l'armonia degli sforzi verso una più elevata uti¬ lità comune. In vastissime plaghe è tuttora pre¬ valente il deserto o la foresta impenetrabile. Mille e mille sorgenti di vita, di ricchezza e di felicità, o rimangono ignorate, o miseramente esauste e isterilite senza frutto. Le funzioni ca¬ pitali della vita consorziale, guidate dall’empi¬ rismo più volgare o imprigionate nelle catene dalle più servili tradizioni, smentiscono la legge del progresso e formano intorno al corpo sociale la fatale camicia di Nesso, destinata ad impri¬ gionare l’Èrcole umano nella tortura dell’impo¬ tenza (i). Ma l’eroe, memore delle sue imprese gloriose e conscio della sua forza, si dibatte nel laccio della sua stessa veste. I bisogni nuovi af¬ fermati dall’intelletto levano la loro voce potente nella coscienza dell’umanità moderna, e lottano contro la tenacia conservatrice e la resistenza passiva del passato. I diritti del futuro saranno salvati. Già le novelle forme della struttura so¬ ciale si lasciano intravedere, nei primi abbozzi delle organizzazioni professionali (2). Il concetto della società si trasforma sotto i nostri occhi ; la coordinazione e l’aggruppamento libero fon¬ dato sulla scelta e sull’interesse prendono il (1) Novicow, Les gaspi/lages des sociétés modernes. Paris, 1894. — Id., La justice et l’expansion de la vie. Paris, 1905. — Haeckel, Enigmes de l'Univers. Paris, 1905, P- 7 - 3 - (2) Durkheim, Le suicide. Paris, 1897, p. 434, 444. EPILOGO 175 posto delle coatte distribuzioni castali della vecchia società, e dànno luogo ad un tipo nuovo di vita collettiva e ad una colleganza spontanea di interessi materiali e di simpatie morali (1). 11 nostro miglioramento etico non sta nella evangelica redenzione di una colpa — come nella grande crisi della civiltà antica s'illuse l’uomo devoto alla sua fede messianica — e nemmeno in un’ipotetica razionalizzazione della vita,seconda grande illusione, nella quale si cullò l’umanità per tre secoli uscendo fuori della notte medie¬ vale dalla Rinascita alla Rivoluzione. La storia naturale dell’ uomo non conosce questi miracoli: oggi sappiamo che non si rifà la nostra natura. Noi non siamo affatto i vermi nati a formar l’angelica farfalla, che vola alla giustizia senza schermi. Per dirla col poeta francese l’uomo morale non merita Ni cet excès d’honneur, ni cette indignité. U) J.{Bryce, The American Commonwealth. New-York, 1906, voi II, p. 539-540, dove, notando lo sviluppo della sensibilità morale e della simpatia filantropica os¬ serva “ che la vista del male che si potrebbe evitare è per noi una pena ed un rimprovero, e colui che predica la pazienza e la fiducia in un progresso naturale, è considerato come un individuo sprovvisto di sensibilità. Ogni uomo mette oggi più ardore a riconoscere la sua responsabilità verso il prossimo e più sforzo a coope¬ rare alle riforme morali „. 176 GIUSTIZIA Nessuna bacchetta magica, nè religiosa, nè dottrinale, à fatto efficacemente sbocciare il nuovo uomo dalla rude scorza del vecchio Adamo, col suo tocco prodigioso. Mille volte i profeti hanno parlato alla turba: ma i loro infiammati discorsi di rinnovazione e di palingenesi morale sono ca¬ duti nel nulla, come l’acqua sulla sabbia, dove non lascia alcuna traccia del suo passaggio. Anche la voce della ragione, come quella del sen¬ timento, è vuoto movimento d’aria, nè desta più che una eco fuggevole nella coscienza. La vita saggia come la vita santa sono nobili sogni, ma non altro, ove non preceda ad essi l’opera deireducanone, cioè a dire l'adattamento e il suo conseguente corteo di sane e forti abi¬ tudini. Il nostro progresso morale consiste nella sistemazione della condotta, ciò che possiamo indicare con una sola parola, carattere. Esso as¬ sicura nell’unificazione della coscienza l’equilibrio stabile della vita. Se la legge del progresso è l’adattamento, questo impone la cooperazione : e ciò nel senso di trarre da ogni energia umana il suo massimo rendimento colla più esatta applicazione al lavoro comune. Il senso di questo vincolo solidale ai fini del progresso generale della vita è un lento acquisto sperimentale, suggerito prima e pur troppo ancor oggi prevalentemente e in modo grossolanamente intuitivo, da un empirismo quotidiano nell’angusta cerchia degli interessi famigliari o professionali ; ma i lenti depositi ch’esso lascia nella coscienza collettiva e che for- EPILOGO 177 mano la parte migliore di ciò che chiamiamo spirito sociale, saranno un giorno almeno nella aristocrazia morale ed intellettuale dell’umanità elaborati dal pensiero scientifico; e noi ricono¬ sceremo in questa solidarietà cosciente tradotta in una pratica costante, la più alta legge della vita consorziale; la forma più stabile dell’e¬ quilibrio tra l’uomo e l’universo sensibile che lo circonda (1). Bisogna pensare alla genera¬ lizzazione ed alla stabile coordinazione di tutti quei mezzi fisici e spirituali, che uniscono la creatura umana al suo simile attraverso tutto lo spazio abitabile, per sorprendere qui la suprema manifestazione dell’ elemento cooperatore, che sta a fondamento dell’universale energia! Il patto d’alleanza che sembra esistere tra le forme infi¬ nitamente varie della forza, e il reciproco influsso che al disopra degli incalcolabili abissi del tempo e delle distanze, ogni frammento del cosmo esercita e subisce sugli altri e dagli altri, può talvolta, anzi spesso, essere stato infranto dall’ egoismo cosciente dell’uomo durante il corso della sua (1) Bryce, op. cit., II, loc. cit. “ La civiltà moderna più complessa ed esigente, scopre altri profitti e van¬ taggi oltre quelli, che il potere organizzato del governo le può garantire, e diventa bramosa di acquistarli. Gli uomini vivono in fretta e sono impazienti della lentezza d’azione della legge naturale. I progressi delle scienze fisiche ànno accresciuti i desideri di benessere, e dimo¬ strato quante cose si possano fare coll’applicazione delle abilità collettive e dei grandi capitali, cose che sono al di là dello sforzo individuale „. Zino Zini, Giustizia. 23 178 GIUSTIZIA terribile e sanguinosa storia di guerra e di vio¬ lenza; ma il suo trionfo definitivo attraverso le lotte più immani e le più sacrileghe iniquità, è assicurata dalla necessità della nostra soprav¬ vivenza. Vi sono, per così dire, due correnti nella storia della società umana, l’una, la più visibile, quella che à formato materia di racconti e di leggende, l 'epos di tutte le genti e di tutte le età, convoglia seco l'egoismo e la sopraffazione dell'individuo o del gruppo gentilizio o etnico sopra l’inerme e soggetto gregge dei vinti, degli umiliati, degli offesi ; dall’antropofagia alla schiavitù, dalla corvée al monopolio, qualunque sia l’arma adoperata, l’ascia del guerriero selvaggio, il nexum del giu¬ reconsulto latino, il contratto dello speculatore moderno, il risultato è sempre il medesimo: vincere ed asservire il debole, prendere la sua vita o il suo lavoro, fondare il proprio diritto sulla negazione della solidarietà umana. L altra tradizione è quella opposta del lavoro associato e complementare, della mutua integrazione delle classi, che sotto le forme più svariate emerge dall’opera sociale : essa si afferma fin dai pri¬ missimi stadi della civiltà, e grado a grado crescendo soverchia la tendenza egoistica e dis- sociatrice per attuare l’alleanza organica di tutte le parti nel corpo collettivo, e coll’armonica cooperazione delle sue unità, concreta nel sim- bionismo sociale la legge del progresso. M v ■> # INDICE Preambolo Pag. v Cap. I. — Il reale e l’ideale . n Cap. II. — La giustizia come idea ed emozione „ Cap. III. — I frutti del lavoro e la loro distribu¬ zione secondo giustizia . . „ Cap. IV. — Libertà od eguaglianza . „ Cap. V. — Analisi del merito . „ Cap. VI. — La pena riparatrice .... „ Epilogo . i .<5 63 87 107 137 172
Wednesday, June 18, 2025
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