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Wednesday, June 18, 2025

GRICE E ZINI

  Uf uh    CENTRO sruoi ? GODETTI   2 )K\   d°no ziNO ZINI    {.HO /fS>   / l<3   L *   *Hài    GIUSTIZIA    STORIA D’UNA IDEA     TORINO   FRATELLI BOCCA, EDITORI   MILANO - ROMA - FIRENZE  IQ07              Proprietà Letterarja    Torino - Vincenzo Bona, Tip. di S. M. (10333)               * A A A tlAXAiiAi ***-* » à * A itUlJtlUAXM^     PREAMBOLO    La storia umana non è solo di fatti, essa è  anche, e sopratutto, d’idee. Il mondo esteriore  è una vasta officina in cui l’uomo, Dedalo ma-  raviglioso e solerte artefice del suo proprio de¬  stino, converge con lavoro indefesso le disperse  energie naturali al proprio vantaggio, le accumula,  le trasforma, le distribuisce. Il vastissimo regno  dell’opera umana, politica, guerra, economia,  arte, si svolge sotto l’occhio indagatore della  storia, che lo ricompone nel suo racconto coi  mille dettagli della sua critica esplorazione nel  cimitero del passato.   Il senso storico, che è, per così dire, un nuovo  sesto senso collettivo, che si aggiunge all'uomo  in quanto è un essere sociale, si è venuto depo¬  sitando per strati nello spirito, come una co-             VI    GIUSTIZIA    scienza comune proiettata all’indietro ; una co¬  scienza di continuità e di tradizione, che il  progresso della intelligenza e del linguaggio  rafforza, illumina ed estende, creando l’imperioso  bisogno di ricomporre idealmente la catena delle  vicende, per guisa che il momento attuale della  vita nella sua ricca complessità, si ricongiunga  alle più remote fasi delle sue umili origini. La  storia è scienza, perciò appunto che riallacciando  gli avvenimenti e risalendo nel fiume del tempo  a ritroso dagli effetti presenti alle cause passate,  dà ragione di ciò che è, e ponendo la legge  dell'evoluzione sociale, addita al corso delle  opere umane il proprio ideale destino.   Il senso storico è dunque un aspetto del senso  sociale; esso si afferma e consolida nella vita  collettiva vagamente dapprima, nella tradizione  religiosa, nel canto nazionale, nella leggenda ;  quindi si materializza nelle tombe, nei monu¬  menti e nelle epigrafi, affinandosi man mano  nelle cronache, negli annali, nei racconti storici  d’ogni maniera fino a conseguire lo svolgimento  straordinario, l’abbondanza e la precisione della  ricerca storica e della critica moderna. Il suo  progresso è correlativo a quello stesso della ci¬  viltà, poiché solamente un’adeguata conoscenza  della propria storia permetterà alle società umane                   PREAMBOLO    VII    di apprezzare nel loro giusto valore le condizioni  di fatto in cui esse si trovano, di darsene ra¬  gione, e di farne con relativa probabilità la  proiezione nell’ avvenire. Ma le energie umane,  che si sono esteriorizzate nei fatti e concretate  in opera militare, politica, industriale, non esau¬  riscono tutta l'attività dell'abitatore terrestre ;  l'uomo non à soltanto agito, esso à anche sentito  e pensato, e le sue idee e le sue emozioni, fissate  e trasmesse per mezzo di quella mirabile tele¬  grafia che è il linguaggio, sommate all’infinito ed  accumulate nella serie delle generazioni, formano  quei precipitati dello spirito, quelle cristallizza¬  zioni della coscienza, che la civiltà custodisce e  deposita in ciascuno di noi, precipitati più o  meno puri, cristalli più o meno normali, che noi  chiamiamo i nostri pensieri e i nostri sentimenti.   Tento nelle pagine seguenti tracciare l’intima  storia psicologica di uno di questi prodotti spi¬  rituali, il più nobile e complesso di tutti loro,  la giustizia.   Bisogna credere che il grande problema del  nostro mondo umano sia contenuto in questa  parola. Il Newton dell'Etica sarà quegli che det¬  terà la formula di questa meccanica sociale, per  cui le relazioni degli uomini debbano essere re¬  golate, equivalente nel dominio morale alla legge            Vili    GIUSTIZIA    di gravitazione in quello fisico. Kant à profeti¬  camente annunciato nei suoi Tràume eines  Gcistersekers erlàutert durch Trattine der Meta-  physik, questo mondo degli spiriti unificato e  governato da una legge etica universale. « Di  là nascono gli impulsi morali che ci spingono  spesse volte contro il nostro personale interesse,  la forte legge di stretta obbligazione, la legge  più debole della benevolenza, che l'una e l'altra  ci costringono a più d’un sacrificio, e per quanto  ambedue siano di tempo in tempo vinte dalle  inclinazioni egoistiche, non mancano d esprimere  la loro realtà nella natura dell’uomo. Per modo  che noi ci sentiamo, nei più riposti moventi della  nostra condotta, sotto la dipendenza di una  norma di volontà universale, donde risulta un  regno di tutte le nature pensanti, un’unità mo¬  rale ed una costituzione sistematica secondo  leggi esclusivamente spirituali. Non e forse per  mezzo di questa dipendenza sentita.dalla volontà  particolare verso la volontà universale che il  mondo immateriale conquista la sua unità morale  costituendosi, secondo le leggi di questa conca¬  tenazione che gli è propria, in un sistema di  spirituale perfezione?».   Sarebbe però illusorio porre questa volontà  legislativa fuori dell umanità stessa, mentre essa          PREAMBOLO    IX    soltanto si realizza storicamente nell’anima sociale,  come supremo fatto di spiritualità collettiva.   I profeti d’Israel appaiono forse all’alba del¬  l’incivilimento, come i primi audaci architetti di  questo tempio grandioso di giustizia, che gigan¬  teggia oggi imponente nella coscienza umana,  aspettando che i secoli venturi vengano a coro¬  narne di vittoria e di luce i più elevati fastigi;  essi posero le solide larghe pietre della base  profonda, creando il Dio giusto e cavandone fuori  l’immagine della loro stessa ardente passione.  Nei loro scritti Jahvò, la vecchia divinità sangui¬  naria, capricciosa e crudele, scompare, e sorge in  sua vece un Dio di giustizia e di misericordia,  amico del povero e vendicatore delle iniquità,  finché poco a poco in uno slancio di carità, il  cuore dell' uomo si apre al sentimento della fra¬  tellanza umana e dell’amore. Allora è venuto il  momento di far scendere sulla terra un Dio  nuovo; il Figlio prende il posto del Padre.   Mentre 1 Oriente semitico compieva questo mi¬  racolo per mezzo della fede, il genio ellenico,  per un altra via, per quella della ragione, giun¬  geva alla solenne affermazione della virtù e della  giustizia. I pensatori della Grecia, Socrate, Pla¬  tone, Aristotele, sono il contrapposto dei profeti  di Giuda, Isaia, Geremia, Cristo.       X    GIUSTIZIA    Roma raccoglie le due eredità, la filosofia  greca e la religione cristiana, e i suoi sommi  giuristi fondano col diritto, l’impero della legge.   La coscienza moderna sprofonda le sue radici  in quelle tre grandi stratificazioni del nostro pas¬  sato. Ma l'albero della civiltà che cresce robusto  e protende rigogliosi i suoi floridi rami, nella pre¬  sente fase storica domanda al suo pieno sviluppo  il fecondo concorso d’un’altra energia, il calore  del nuovo astro di vita, già alto sul nostro  orizzonte, la Scienza.         » T^» fT»TT » »    CAPITOLO I.   Il reale e l’ideale.    Il primo pensiero, che deve essere germogliato  nella mente degli uomini, quando guardarono  all'atto umano in quanto* è causa di un avveni¬  mento utile o dannoso a sè o agli altri, fu senza  dubbio questo: ch’esso rispondeva ad una vo¬  lontà superiore preordinatrice del mondo e delle  sue vicende. Questo ingenuo e primordiale fa¬  talismo è talmente proprio d’ogni mentalità in¬  colta e semplice, che noi vediamo tuttora nei  bimbi, come nei selvaggi e nelle genti della  campagna, una supina rassegnazione ad accetta jb  tutto un ordine di fatti, d’imposizioni e di regol;  prestabilite, sempre quando non siano in troppo  stridente contrasto colle esigenze istintive della  loro indole. La natura umana è piuttosto docile  che ribelle, la sua volontà si piega più assai che  non resista, e subisce la suggestione e l’impulso,  più che non lo dia, e questo in una misura mag¬  giore o minore in tutti i gradi e in tutte le fasi  della vita collettiva. La capacità di adattarsi e di  plasmarsi ad un regime sociale già fatto è infi-    Zixo Zini, Giustizia.    1            2    GIUSTIZIA    nitamente maggiore di quella di reagirvi o di  modificarlo. Noi stessi ne facciamo esperienza  cotidiana quando, anche nolenti e fastidiati, su¬  biamo nella vita famigliare e cittadina un’infinità  di piccole e di grandi tirannie, alla cui conven¬  zionalità, che la fredda ragione dimostra sciocca  o puerile, non sapremmo nè vorremmo sottrarci.   E sì che in una persona educata lo spirito  critico, rafforzato dal confronto e dall analisi dei  fatti, sembrerebbe dover diventare potente molla  all'affrancamento dal pregiudizio o dalla tradi¬  zione. in verità chiunque non voglia giudicare  l’umanità dalle eccezionali apparizioni di pochi  audaci Prometei, ritrovatori di nuove forme di  vita materiale o morale, o di qualche squilibrato,  la cui eccentricità non è che una logica alla ro¬  vescia, dovrà persuadersi che la passività volitiva  è di gran lunga superiore all'iniziativa o allo  spirito di resistenza (i). Non comprenderemmo del   (i) La nolontà è nel mondo assai maggiore della vo¬  lontà. Quella è dei più, questa dei meno. Una filosofìa  morale, come quella di Nietzsche, che ponga a suo fon¬  damento l’affermazione del volere, contraddice alle aspi¬  razioni dell’infinita maggioranza. Dante, insuperabile  maestro nella rappresentazione poetica del reale umano,  à efficacemente reso questo concetto dell’innata docilità  passiva, che è la legge del mondo pratico :   Ed io, che riguardai, vidi una insegna,   Che girando correva tanto ratta  Che d’ogni posa mi pareva indegna :   E dietro le venia sì lunga tratta   Di gente, ch’i’ non avrei mai creduto,   Che morte tanta n’avesse disfatta.   Inferno, III, 52-57.           CAP. I - IL REALE E L’iDEALE    3    resto senza di ciò i progressi mirabili della coor¬  dinazione sociale, cui sono legati i destini stessi  della nostra stirpe.   Con ciò facilmente s’intende che in fondo ad  ogni concetto di giustizia stia essenzialmente  un’idea di ordine (i), per quanto vagamente in-    (i) L’inizio dell’idea d’ordine è prima fisico e poi mo¬  rale. Poincaré à una profonda osservazione, là dove  parlando dell’astronomia quale madre di verità scienti¬  fica, pone il dato astronomico nella sua stessa sempli¬  cità primitiva, come nucleo d’ogni concezione di legge.  Se l’uomo avesse sempre vissuto sotto un ciclo coperto  di nuvole, nessuna scienza si sarebbe fonnata nel suo  spirito. Quegli antichissimi Caldei, che pei primi ànno  guardato il firmamento, osservarono che la moltitudine  di punti luminosi che lo popolano, non sono una turba  confusa errante a capriccio, bensì un esercito discipli¬  nato. Di qui sorse nella loro mente il primo pensiero  della regolarità (Cfr. G. Rageot, La philosophie d’uti  géomètre, “ Revue de Paris „, 15 fév. 1906). A conferma  di ciò trovo, che la radice Rta nel sanscrito significa  ordine, e nello stesso tempo esprime essenzialmente  l’entità divina indicata col nome di Varuna e gli Aditas,  ossia il sole e i pianeti. È evidente il sorgere iniziale  del concetto d’ordine dal regolare moto astrale. Rta,  moto, ordine, legge, finisce per generalizzarsi. Il mondo  intero è Rta. I fenomeni, che si riproducono nella stessa  maniera o ànno un ritmo, implicano una nozione d’or¬  dine. ‘ I fiumi convogliano il Rta ,„ * secondo il Rta  l’aurora figlia del cielo, risplendette ,„ " intorno al cielo  circola la ruota a dodici raggi, la ruota del Rta, che  non invècchia mai „ ossia l’anno. Presto nel Rta pe¬  netra l’elemento morale, esso diventa il vero e il giusto,  cosicché esso si trasforma nell’astratta legge del mondo  fisico e del mondo morale. Gli dei delle grandi meteore          4    GIUSTIZIA    tuito, ordine la cui imposizione si fa risalire ad un  potere superiore regolatore delle cose terrene ed  umane.   Bisogna riconnettere questi modi di pensare  colle abitudini mentali dell’uomo religioso, qua¬  lunque possano poi essere le espressioni con¬  crete della sua fede. Giusto è ciò che Dio vuole,  e ciò che accade è volontà di Dio, dunque qua¬  lunque cosa accada è giusta. Il sillogismo ò pei-  fetto. Questa filosofia del fatto compiuto è più  frequente di quello che non si creda. Essa può  da una rozza e grossolana rassegnazione mus¬  sulmana, che fa piegare il capo docilmente ad  ogni evento, elevarsi fino alla spirituale apatia  del panteismo stoico, o alla mistica immedesi¬  mazione in Dio dei santi : può dalla superstiziosa  e cieca fede, che fa di un feticcio il padrone  della esistenza nella volontà di un selvaggio, tra¬  sformarsi nel principio etico di uno Spinoza o  nella concezione determinista di un filosofo spen-  ceriano.   Lo spirito dell'uomo oscilla tra due opposti  poli, e per un lato sembra abbandonarsi volen¬  tieri alla comoda presunzione che una rete d’in¬  visibili fili regga e diriga ogni moto nel mondo  delle cose e degli uomini. Chi abbia nelle mani  queste redini non importa; Dio, fato, natura, fa  lo stesso, purché vi sia una volontà od una    celesti, incarnano l’idea dell’ordine. Varuna (Rta) pro¬  tegge il diritto. H. Oldenberg, La Religion du Veda.  Paris, 1903, pag. 163, 164, 244 e seg.            CAP. I - IL REALE E L IDEALE    5    legge... Com’è bello poter dire a se medesimo:  dev'essere così — era fatale. Questa risposta la  dia la religione o la scienza, è in fondo la me¬  desima cosa: 'AvdTKr|. Quando questa parola è  pronunciata e il destino chiude le sue porte di  bronzo al desiderio e alla speranza violenta degli  uomini, l’uomo sente levarglisi dalle spalle il pe¬  sante fardello della vita, e ne scarica tutta la  responsabilità su quella misteriosa occulta neces¬  sità, che spinge il mondo per le oscure vie se¬  gnate fatalmente al suo corso.   Ma lo spirito umano è il regno delle più tra¬  giche antinomie ; l’amara ironia, che è insita nella  vita e che ne forma lo scherno, è il senso di  libertà che emerge ribelle dalla coscienza, e che  si contrappone audacemente in faccia ad ogni  legge, di cui è negazione violenta e sfrontata (i).  Necessità e contingenza; necessità fuori di noi,  nella schiavitù fìsica dell’universo; contingenza  dentro di noi nella libertà psichica dell’uomo.  Forza indocile ed autonoma, sbrigliata cavalla    (i) Credo che Kant abbia ragione quando confessa in  una lettera a Garve, che il primo impulso a filosofare  gli venne dalla coscienza delle antinomie, che tiranneg¬  giano l’intelligenza umana colla loro implacabile osses¬  sione , libertà o necessità, eternità o principio delle  cose, ecc. Sono questi pungenti aculei che lo indussero  alla Critica della Ragione pura, per far cessare, come  egli stesso dice, lo scandalo della contraddizione, e l’in¬  timo conflitto della ragione con se stessa. V. Delbos,  La philosophie pratique de Kant. Paris, 1906, pag. 57  in nota.         6    GIUSTIZIA    pronta ai più furiosi galoppi sotto lo sprone del  desiderio attraverso tutti gli ardenti campi della  passione, la volontà è veramente il Mazeppa  della leggenda, nel medesimo tempo infinita¬  mente schiava ed infinitamente libera (i).   Che se il mondo esterno ci appare colla scorta  di una fede, che ce lo dipinge alla maniera di  Tertulliano, come una liturgia, che si svolge, mo¬  deste tamquam sub oculis Dei, o una divina or¬  chestra, di cui ogni nota è scritta ed eseguita sotto  la bacchetta del gran Maestro concertatore del¬  l’universo; ovvero alla luce della scienza, che  formula le sue leggi in equazioni algebriche,  come una ferrea catena di fatti, stretti fra loro  da un indissolubile vincolo di causalità; il mondo  dell’anima è invece un puro dominio di possibi¬  lità. Qual’è l’illusione? la necessità fuori di noi,  o la libertà dentro di noi, o entrambi ? tutto sa¬  rebbe dunque ugualmente necessario, il mondo  fisico e il mondo spirituale, ovvero tutto egual¬  mente libero? L’universo è una necessità, ovvero  una contingenza senza fine? Vi sono nella nostra  coscienza dati sufficienti per la soluzione d un tal  problema? In verità, confessiamo la nostra igno¬  ranza e la parzialità dei nostri giudizi.   Nel mondo fisico noi giudichiamo dal risultato,  e giudichiamo da ciò che è, a ciò che deve es-    (i) Et il traverse d’un bond sur ses ailes de fiamme  Tous les champs du possible, tous les mondes de   [l'àine.   Victor Hugo.        CAP. I - IL REALE E L’IDEALE    7      sere. Il reale è necessario. Quale fondamento  abbia questo ragionamento è troppo evidente.  Forsechè è escluso che le cose possano essere  diverse da ciò che sono, mentre per giudicarle  tali, noi dobbiamo fatalmente aspettare ch'esse  siano? Lo stesso principio di causalità, data l’in¬  finita combinazione degli elementi causali, che  risalendo a ritroso degli effetti possiamo ricono¬  scere e più potremmo se più conoscessimo; è  un'illusione, o meglio un simbolo logico.   Nel mondo della coscienza, noi giudichiamo  dalle possibilità, cioè da ciò che avrebbe potuto  essere, a ciò che è in effetto, e perciò ammet¬  tiamo implicitamente una pluralità di eventi. È  per questo che, mentre il dominio delle energie  fisiche è concepito dai più come un universo, il  dominio delle forze morali è praticamente trat¬  tato come un pluriverso (i).   Questa è la ragione per cui, se siamo gene¬  ralmente disposti ad accettare la serie delle vi¬  cende naturali, che compongono l'evoluzione del  nostro mondo, daH’altcrnarsi delle stagioni al¬  l’apparizione e alla scomparsa delle forme vitali,  rispettando senza protesta la legge di natura,  anche quando essa ci colpisce più crudamente,  insorgiamo invece molto spesso contro l’atto  umano, sia accusando la volontà che lo inspira,  sia condannando gli effetti che ne derivano.   È vero che talvolta il dolore ci muove ad ac-    (i) W. James, The will lo believe. New-York, 1903.  — The dilemma of detcrminism, pag. 145 e seg.          8    GIUSTIZIA    cusare di crudeltà la natura o Dio; ma questa  è una delle tante illusioni antropomorfe, a cui  soggiace fatalmente il nostro spirito.   Così l'anima dell'uomo è l’oscuro teatro di  queste antinomie, che si rispecchiano nei mag¬  giori concetti elaborati dalla coscienza progres¬  siva, giustizia, verità, bellezza.   La giustizia è una legge dell'universo? Per un  certo lato l’uomo ha una irresistibile tendenza  a crederlo, ed io penso che sia appunto questa  communi* opimo che l'ha spinto così di buon ora  alla costruzione d'un mondo metafisico, in cui si  realizza un ordine di necessità morali, che noi  siamo incapaci di raggiungere sulla terra.   In questo senso il giusto ò divino; ciò e a  dire, è un sistema di necessità prevolute e presta¬  bilite da Dio. Come però sempre Dio e le sue  intenzioni sono stati composti con elementi psi¬  cologici ricavati dalla coscienza umana, ne con¬  segue che il concetto del giusto si dovette in¬  spirare alle finalità stesse dell’uomo, per quanto  riferite alla volontà divina (i).    (i) Fino a che punto possa spingersi questa trasla¬  zione alla volontà divina dei desideri e degli interessi  dettati dall’ egoismo o dalla passione dell’uomo, pos¬  siamo giudicarlo dalla tranquilla dichiarazione di Stahl,  quando afferma che Dio à, circa le questioni politiche e  sociali più importanti, le stesse idee dei grandi pro¬  prietari rurali della Prussia. Gli e per questo, che il  grido Dio lo vuole à potuto servire di giustificazione a  tutte le iniquità e a tutte le follie. Un popolo o una fa¬  zione si impadroniscono di Dio, e se ne servono come         CAP. I - IL REALE E L’IDEALE    9    I! pensiero religioso dell’umanità percorre  questo lungo cammino: comincia coll'affermare  incondizionatamente che ogni atto del volere e  del potere divino è giusto. Giusto è ciò che Dio  vuole, e termina concludendo che Dio vuole ciò  che è giusto. La strada è assai lunga; perchè  va dalla semplice constatazione dell’effetto alla  meditata ricerca d’una causa.   E qui è veramente tutto l’innato razionalismo  d’ogni umana filosofia. Dire, come fa l’anima  esclusivamente religiosa, Dio è giusto sia fatta  la sua volontà, è accettare passivamente, senza  spirito di critica, il corso delle vicende, di cui  si ignora la legge moderatrice. Asseverare in¬  vece come fa Socrate n e\\'Eutifrone « il santo  non è già ciò che gli Dei vogliono, bensì gli  Dei lo vogliono perchè è il santo » o dichiarare  come S. Tommaso, che la volontà divina si ac¬  corda col giusto, ovvero dire con Leibniz che  il giusto è dell’essenza di Dio come il vero, e  che le cose tutte giungono ad un’armonia pre¬  stabilita che si realizza nella mente di Dio, tutto  ciò equivale a presupporre un ordine morale,  una legge della condotta universale preesi¬  stente alla volontà stessa di Dio, e anzi fa  rientrare Dio e la sua potenza nei piani razionali  disegnati dalla nostra intelligenza; in una pa-    stromento di guerra e di sterminio contro altre schiatte,  contro altri partiti. A. Menger, Lo Stato socialista.  Torino, 1905, pag. 210. — Renan, Histoire dii peup/e  d‘Israel, I, 263, 264.    Ziko Znri, Giustizia .    2       IO    giustizia    rola è l’uomo che si fa legislatore morale del¬  l'Universo (i).   Da questo momento la ragione umana pre¬  tende di conoscere il perchè della volontà divina  e della sua opera nel mondo, e in un certo senso  essa sostituisce sè stessa nella intenzione e  Creatore.   Come del resto avrebbe potuto essere diver¬  samente, mentre questo Creatore, i suoi mezzi,  i suoi fini, sono la proiezione antropomorfica   dell’uomo stesso nell’infinito?   Nè mutano le cose perchè l’uomo sostituisce  Dio e vi mette al suo posto la natura; poiché   ostinato nel suo invincibile antropomorfismo mette   in realtà sempre sè stesso come norma dell Uni¬  verso, e quando crede di aver penetrato i se¬  creti propositi della natura, nelle vicende de  mondo che lo circonda, non à in definitiva altro  scoperto che la sua propria ragione e i fini, che  essa è in grado dedicargli. Il diritto, esclama  Grozio, esiste anche si darernus Deum non esse.  E senza saperlo diceva una verità assai più pro¬  fonda di quello che non porti l’espressione ver¬  bale, poiché il diritto esiste in quanto esiste  l’uomo, che lo sente e che lo pensa.   Con questo la concezione di un diritto natu¬  rale non deve essere giudicata una semplice il¬  lusione teorica senza portata pratica. E una pio-    fi) I Vanni, Lezioni di filosofia del diritto. Bologna,  1904, pag. 272 - 274 - - Th. Gomperz, Les penseurs  de la Grece. Paris, i9°5> H> P a S - 37^ 377-           CAP. I - IL REALE E L’IDEALE    II    fonda osservazione questa, fatta da Jaurès a  proposito della Dichiarazione dei diritti dell’uomo  e del cittadino, che il diritto di natura, qual fu  affermato dai legislatori della Grande Rivoluzione  sulla traccia della Filosofia del XVIII secolo, à  un profondo significato politico, che non può  essere trascurato (i).   Non è soltanto un astratto formulario, in cui  si esprima lo spirito dottrinale di quella età;  ma è sopratutto una reazione pratica contro Io  stato di fatto e il sistema dei privilegi di classe  sanzionato dalla tradizione storica; contro il di¬  ritto feudale ed ecclesiastico delle classi supe¬  riori, che vanta per la sua legittimità una lunga  tradizione di secoli ed attesta la storia in suo  favore, la borghesia, illuminata dalla ragione  dei tempi nuovi, impugna Tarma del diritto na¬  turale, che il razionalismo filosofico à foggiato  negli arsenali della speculazione giuridica e mo¬  rale, ed ai diplomi, alle pergamene dei nobili,  dei preti, oppone titoli di ben più alta antichità  e valore, titoli eterni scritti nel codice della na¬  tura e letti dalla ragione.   La Ragione ecco la nuova Dea, installata vit¬  toriosa sugli altari del mondo ; il suo tempio  spirituale eleva la fronte superba verso il cielo  e sfida gli anatemi impotenti della credulità teo¬  logica; dentro al santuario ministrano, solenni    (i) G. Salvemini, La Rivoluzione Francese. Milano,  1905, pag. 143.         12    GIUSTIZIA    sacerdoti davanti al nume, i filosofi del XVIII se¬  colo ed ogni setta à la sua cappella particolare  per celebrare il suo culto. E dalle solitarie celle  dei pensatori, i suoi fanatici devoti traggono a  forza, nella grande opera di demolizione sociale  e morale della Rivoluzione, la strana divinità pei  le vie di Parigi, tra il furore dei demagoghi, e  l’offrono all’adorazione delle plebi, cosicché Dio  e re siano decapitati nel medesimo tempo.   L’uomo si persuade d’essere diventato arbitro  del proprio destino : la società e il suo progresso  sono l'opera della sua ragione, ed egli ne detta  orgogliosamente il patto fondamentale e le leggi.   Non si sarebbe potuto compiere una Rivolu¬  zione, nè instaurare un regime nuovo ab iviis  senza questa audace presunzione. Bisogna rico¬  noscere questo merito ai dottrinari, che foggia¬  rono nei loro principi etico-giuridici quella leva  possente del razionalismo critico per cui un mondo  costituito fu spostato dal suo asse ; 1 umanità ci¬  vile compì allora uno sforzo immenso per aprire  al proprio cammino una via nuova, e vi riuscì  tra errori, delitti c follie ; ma per riuscirv i do¬  vette persuadersi dell’onnipotenza della sua ra¬  gione.   Ma come suol sempre accadere, la ragione che  era stata rivoluzionaria divenne presto conser¬  vatrice, quando sulla demolizione del passato  ebbe inalzato il nuovo edifizio legislativo. Allora  la legge diventa l’espressione positiva del giusto,  e il legislatore il suo infallibile interprete. Cade  il magico miraggio del Vernunftrecht , logico pio-     CAP. ! • IL REALE E L IDEALE    13    dotto della mente umana, e trionfa l’empirismo  a braccetto coll'utilitarismo economico; ciò che  è legale è giusto ed ò legale ciò che è utile.   Soltanto che una volta adottato come misura¬  tore degli atti lo standard dell' utilità, 1’ uomo  diventa soggetto delle più curiose idiosincrasie  morali, e troppo facilmente smarrisce il senso  della giustizia nell’aspra difesa dell’interesse.   Fortunatamente presto la critica riprende la  sua rivincita sull’adesione pura e semplice allo  statu quo. Penetra cogli studi biologici e storici  la coscienza di una continua trasmutazione nei  processi sociali e nelle relazioni etico-giuridiche  tra gli umani, che li rispecchiano. Il diritto è  una categoria della storia ( 1 ).   La norma giuridica sorge come le altre ma¬  nifestazioni della vita collettiva nel clima storico  di una determinata fase della civiltà. Dio non  crea la giustizia, e non la scrive nelle tavole di  pietra del suo decalogo, allo stesso modo che  la natura non à fissata a priori la regola della  vita umana e dell’umano destino. Le finalità del  vivere collettivo non sono proposte, ma imposte  in una ragionevole comprensione dello svolgi¬  mento civile dell'umanità, non proposte da una  volontà intelligente e preordinatrice, nè da una  forza originale e imperitura del mondo; bensì  imposte dalle condizioni di fatto, storicamente  mutevoli, logicamente interpretate e comprese  dall’intelletto umano.    (1) I. Vanni, op . cit .       *4    GIUSTIZIA    La giustizia è umana, come tutto ciò che forma  parte del mondo spirituale; è sentimento ed  idea. Essendo umana è relativa. Per una parte  è rispetto di ciò che è, per altra parte è ten¬  denza verso ciò che dovrebbe essere.   Tutto l’uomo è impastato di questa antinomia  fondamentale; l'essere e il dover essere (sein und  seinsollenden) ; l’essere è l’elemento fisico, il dover  essere è l’elemento metafisico della nostra na¬  tura. Impossibile abolire l'uno a profitto dell altio,  senza cadere nelle assurdità unilaterali dell'em¬  pirismo e dell’idealismo. Nel campo della giu¬  stizia l’essere è la legge, il legale; il dover essere  è la coscienza individuale o collettiva, 1 ideale.  Anche l’ideale è una forza del mondo, la maggior  forza forse dell’universo spirituale. Essa sollecita  lo sforzo, illumina l'intelligenza, indirizza ed ec¬  cita la volontà, attua il progresso morale. L’onda  incalzante della giustizia riformatrice che investe  la coscienza moderna, trae le sue scaturigini da  questo profondo sentimento del dover essere che  contrapponendosi alle crudeli ed aspre necessità  di ciò che realmente è, sollecita l'umanità all at¬  tuazione progressiva de’ suoi stessi ideali.            CAPITOLO IL   La giustizia come idea ed emozione.    Poche parole hanno nel vocabolario di tutte  le genti un uso così frequente, e possono dar  adito a tanto soffio di passione e di speranza,  come questa divina parola di giustizia, che sembra  contenere ancora in sò qualche parte di quella  essenza sacra, che animava l’intimo senso della  antichissima c misteriosa radice, donde prima¬  mente sorse negli idiomi della nostra stirpe il  vocabolo, destinato a chiudere, nel breve giro  delle sue sillabe, il più nobile sentimento e in  pari tempo l'idea più elevata dell'umanità (i).   Tutti gli interessi vitali vi sono strettamente  congiunti, i primi e fondamentali bisogni del  cibo, delle vesti, del ricovero, dell’amore ; e poi    (i) A. Fick, Vergleichendes IVórterbuch der Indoger-  manischen Sprachen. Gottingen, 1891-1894, 1 . Th. S. 112.  — M. Bréal et A. Bailly, Dictionnaire étymologique  latin. Paris, 1891, pag. 143-144.         i6    GIUSTIZIA    via via gli altri secondari, quelli che nascono  dalla vita di relazione e dalla simpatia, amor   proprio e 1 amor alti ni ( i)-   Gli è che veramente il contenuto morale e  sociale di questa parola è così denso di pensiero  ed ingloba un così grande numero di assodati  psichici, tanto di natura emotiva quanto din -  La intellettuale, da formare una delle piu abbon¬  danti masse appercettive, come d,cono > P^  | oai moderni, sempre pronta ad essere posta m  movimento. Ciò deve essere considerato come  la base di quella speciale reazione, che chiamiamo  il senso della giustizia. Il suo contenuto psichico  è tale, che, rievocandolo è quasi tutta la vita   dell'umanità che si suscita: lotta, violenza, tirannia   del forte sul debole, la donna, >1 fanciullo, lo  schiavo ; arbitrio di classi, oppressioni di Stato  di Chiesa, dall’antropofagia all’iniquità protezio¬  nista ; inanello stesso tempo anche tutto 1 apo¬  stolato umano, lo spirito di tutte le rivendica¬  zioni, l’anima di tutte le rivoluzioni. Fiatjustitia ,  pereat mundus.    (!) Antichissimo e fortemente radicato nella diffusa  coscienza collettiva è questo senso della giustizia, semp  ' mutato sul vecchio tronco delle idee teologich  eTei sistemi religiosi. Conf. G. Maspero, Histoireatu   cienne des peupies de VOrient class,que a™,   na „ l 8 g-ioo. - Chantefie de la Saussaye, Marne ,   ttératurefrecque, Paris, 1896-99, l P*S- 4T9&* III,  pag. 265.         CAP. H - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 17    La giustizia è stata quasi sempre considerata  piuttosto come un’idea che non come un senti¬  mento. Orbene è precisamente il contrario che  avrebbe dovuto essere. Questo della giustizia è  prima di tutto un quesito psicologico.   Il lato emotivo della giustizia precede quello  intellettivo. Questa reazione cosciente dell’orga-  nismo nervoso, che afferma il suo diritto alla  sopravvivenza, è all'inizio, come Bacone aveva  già divinato ed espresso colla forte indicazione  di wild, justice, un impulso alla vendetta, prima  personale, e poi collettiva (i).   Tutta la primitiva storia della giustizia, rico¬  strutta sui dati della antropologia e della socio¬  logia comparate (ad es. da Letoumeau), ne è una  dimostrazione inconfutabile ( 2 ). Ella s’impernia  sul taglione, questa roccaforte d’ogni istituzione  penale, che mostra d’essere talmente legata al  meccanismo fisio-psichico della nostra natura,  che dopo secoli e millenni, corrisponde ancora  al metro comune della giustizia repressiva presso  i popoli più civili e trova la sua legittimazione  morale nella nota formola : quia peccatovi. Nè  serve a mascherarla il celare la sua odiosa faccia  di bassa brutalità sotto la vernice della vendetta  sociale, colla quale avremmo forse la pretesa  d’averla nobilitata. In fondo è la stessa wild jus¬  tice che parla oggi per bocca d’un così detto    (1) J. M. Baldwin, Diciionary of philosophy. London,  1901, voi. I, pag. 585 e seg., art. justice.   (2) C11. Letourneau, L’évolution juridique. Paris, 1891.    Zrwo Zini, Giustizia.    3      i8    GIUSTIZIA    difensore della società nei nostri tribunali ; come  quella che armava il braccio dell’abitatore delle  caverne (i). L’espressione mosaica: occhio per  occhio, dente per dente e l’espressione evangelica.  qui gladio ferti gladio perit\ coincidono colla legge   del contrappasso, che suggerì al poeta cristiano  di comporre quella mostruosa architettura pe¬  nale, che faceva inorridire giustamente Scho¬  penhauer. La reazione all’offesa è il sentimento  della giustizia; almeno in parte (2). Nell’animale  può manifestarsi colla forma della vendetta.  L’intelligenza animale arriva fino a ciò (3).   Ma per aver la reazione, bisogna avere la forza  ed anche la sua coscienza, donde nasce il diritto.  L’essere debole non reagisce, subisce ed accetta.   Nel rapporto di sola subordinazione non c è  possibilità di questa coscienza giuridica, non si  sente l’ingiustizia. I viaggiatori sono concordi nel  dipingerci la remissione passiva del selvaggio di  fronte alla violenza del capo. Schweinfurth narra,  che un re Niam Niam si divertiva a prendere di  tempo in tempo al laccio un uomo nella folla,  che stava ai piedi del suo trono, e poi a tagliargli  la testa (4). L’onnipotenza del capo si estende dalla  persona alle cose. Così nell’Oceania, mentre    (1) H. SinuwicK, The methods of Ethics. London,  1900, pag. 281. — H. Hóffding, Morale, ecc. Paris, 1903,  pag. 511 e seg.   (2) F. Paulsen, System der Ethik. Berlin, 19°°. ‘L  B. S. 128 f.   (3) H. Spencer, La giustizia. Trad. it., prime pagine.   (4) Letourneau, op. cit., pag. 85.       CAP. U - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 19    un capo neo-zelandese, che aveva commesso  uno di questi assassini regali, montava, come ci  riferisce Cook, in una grandissima collera, quando  gli si diceva che per una cosa così perfettamente  insignificante, egli sarebbe stato impiccato in In¬  ghilterra, questi medesimi capi sulle terre dei  loro soggetti, si attribuiscono il diritto di tagliar  alberi, cogliere frutti; tanto che quando uno  d'essi diceva ad un indigeno: a chi appartiene  questo maiale, o questo albero, il proprietario  non rispondeva mai: a me; ma sempre: a te e  a me (i).   Maupassant racconta d’aver assistito in Al¬  geria ad un curioso episodio. All’angolo d’una  via un fanciullo gli lustrava le scarpe; appena  egli ebbe terminata la sua operazione, e Maupas¬  sant gli ebbe gettata una piccola moneta, ecco  che dall’altro canto della strada un moro sui se¬  dici anni, che era rimasto fino allora a guardare,  si leva di botto, si getta sopra il lustrascarpe,  lo butta a terra e violentemente gli strappa di  mano la moneta, quindi ritorna tranquillamente  al suo posto come un nibbio rapace farebbe,  dopo aver ghermita la preda. Tutto ciò s'era  svolto nel modo più naturale di questo mondo,  senza che a nessuno dei presenti venisse in  mente di protestare in favore del debole op¬  presso, quasi si sarebbe potuto dire senza che  nemmeno questi si mostrasse troppo maravi-    (1) Letourneau, op . cit ., pag. 57-59.           20    GIUSTIZIA    gliato del fatto, non ostante le sue alte strida di  protesta. Forse egli nel suo pensiero accettava  la grande legge naturale del più forte, preparan¬  dosi inconsciamente per la suggestione dell e-  scmpio, ad esercitarla un giorno egli stesso sopra  qualche altro più debole di lui. Così praticamente  si forma la gerarchia (i).   ( "Un”breve aneddoto di questo genere vale più  per la storia della formazione naturale della giu¬  stizia, che molti volumi di astruserie filosofiche.  La facile rassegnazione delle classi inferiori al  loro destino di iniquità e di oppressione è un  fatto troppo noto. La schiavitù stessa, che ai  nostri occhi appare come l'estrema delle miserie  e tanto insostenibile da preferirle la morte, non  soltanto trovò modo di farsi giustificare dalla  morale pagana e dalla teologia cristiana, che  questo può ancora spiegarsi coll egoismo degli  interessati, ma ciò che più ci stupisce fu accettata,  senza protesta, almeno nella grandissima geneia-  lità dei casi, da coloro stessi che ne erano le  vittime. In una commedia di Plauto uno schiavo  dice tranquillamente ricordando la croce, eh era  l’ignominioso supplicio dei servi ribelli : so bene,  che quello è il sepolcro che mi aspetta; là sono  andati a finire il padre, l'avo, il bisavolo e il tri¬  savolo (2). Tutta la storia è la dimostrazione pra¬    ti) Maupassant, Au soleil, pag. 19-20.   (2) Plautus, Miles gloriosus, act. Il, scena IV, v. 19-20:  .. scio crucem futuram mihi sepolchrum:  ibi mei maiores sunt siti, pater, avos, proavos, abavos.                  CAP. II - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 21    tica di questo silenzio del sentimento della giu¬  stizia, nella coscienza degli oppressi. 11 popolo è  un personaggio muto nella tragedia umana, che  ha bisogno, che qualcuno prenda la parola per lui.  Nelle rivoluzioni alla difesa del diritto dei deboli  e dei soggetti scendono in tutti i tempi uomini  d’aristocrazia o per lo meno d'una classe supe¬  riore. Le conquiste della giustizia sono il frutto  della propaganda di uomini, che sentono l’ingiu¬  stizia. Ora questi non possono mai essere gli  oppressi, o almeno non gli oppressi soltanto. Bi¬  sogna avere dei diritti ed in pari tempo la  loro coscienza, per difenderli in nome della  giustizia.   Qui siamo di fronte al problema fondamen¬  tale: l’apparizione del sentimento della giustizia  verso gli altri.   La spiegazione di questo grande miracolo  può esser tentata dalla psicologia. Questa gio¬  vine scienza è ai suoi primi passi, ma conta di  già, assai belle vittorie. Essa volge le sue inda¬  gini là dove i fenomeni sono più semplici, e le  sue esplorazioni delicate nei domini dello spirito  infantile, mettono in viva luce molti fatti e molte  leggi della nostra vita intellettuale e morale. Nel  bambino rivive la specie; anche se la legge  biogenetica di Haeckel, non resiste nella sua  schematica espressione alla critica; è però indu¬  bitato, scrive Baldwin, che per ciò che concerne  l’uomo, in lui le tendenze sono essenzialmente  ereditarie, e il loro esercizio spontaneo nel barn-        22    GIUSTIZIA    bino dimostra la legge di ricapitolazione nel suo  significato fondamentale (t).   Oggi possediamo già una ricca letteratura sopra   questo argomento.   Nessuno però meglio di Baldwin ha saputo  rintracciare nei complicati processi psichici, che  hanno per teatro l’anima infantile, il sorgere e lo  svilupparsi della coscienza sociale (2). I due poh  della personalità, l 'ego e Valter , sono il frutto  della reciproca azione dell'individuo sul gruppo,  e del gruppo sull’individuo. In questo senso tanto  1 ' e go quanto Valter sono sociali, ciascuno è un  socius creato per imitazione. L’analisi della co¬  scienza dimostra, che le qualità considerate come  personali sono dovute al trasporto delle qualità  daWalter àSìego per via d’imitazione. Ciò che  l’individuo considera sè stesso è il risultato d una  lunga incorporazione di elementi, che in una  concezione anteriore della propria personalità il  soggetto considerava come estranei.   Le mie qualità hanno queste origini altrui.  Allo stesso modo, tutto quello che è in me, tendo  a trasportarlo negli altri. L 'ego e Valter sono pel  nostro pensiero una sola e stessa cosa.   Di qui nasce il senso dell’uguaglianza. Quando  dico : siccome questa è la mia natura, così è nel  mio interesse procacciarmi questa data condi¬    ti) Baldwin, Interprétation morale et sociale du deve-  loppement meritai. Paris, 1899, pag. 186. — Confi Id.,  Développement mental ches Penfant et la race. Paris, 1897.  (2) Baldwin, Interprétation, eie., pag. io e seg.           CAP. !I - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 23    zione ; debbo attribuire agli altri le stesse qualità  e perciò anche la medesima mia sorte. 11 predi¬  cato è una funzione di quel tutto che chiamiamo  \'io] quanto a lungo il soggetto non varia, il pre¬  dicato rimane anche lo stesso. Questo senso  d'eguaglianza d’interessi, di meriti e di destino,  dipendenti da una situazione umana identica nel¬  l'evoluzione della personalità, è, dal punto di vista  astratto, il senso della giustizia; e dal punto di  vista concreto il sentimento della simpatia verso  gli altri (i). Il concetto stesso d’interesse, che rap¬  presenta il fulcro di tutti i sistemi edonistici ed  utilitari vecchi e nuovi, quando lo si consideri  in rapporto a noi, implica necessariamente che  Xcgo ponga Xalter sopra un piede d’uguaglianza.  Gli interessi dell’uno, le cose di cui Xego ha bi¬  sogno per vivere, sono appunto le cose, che per  lo stesso ragionamento egli accorda che gli altri  abbiano un pari diritto di ricercare. Quando  l’uomo cerca la propria soddisfazione a spese  altrui, fa violenza alle sue tendenze di simpatia  e al suo senso di giustizia. Quindi diminuisce la  propria soddisfazione. Tale è il pensiero dello  psicologo americano. Per mio conto io trovo che  la sua analisi è stata fatta sotto una luce troppo  rosea. Si direbbe che il suo spirito sia penetrato  di quella stessa atmosfera legalitaria, che im¬  pronta la vita democratica del suo paese.    (i) G. T. Ladd , Philosophy of conduci. New-York,  1902, pag. 290.           24    GIUSTIZIA    La natura dei nostri rapporti cogli altri è in  realtà assai più complessa e dipende dalla posi¬  zione che abbiamo assunto in faccia a loro. Del  resto Baldwin stesso riconosce, che il fanciullo  presenta due opposti caratteri ; per un lato è os¬  sequente, servile, imitatore, ossia un vero sog¬  getto delle suggestioni, che gli vengono dal¬  l’esterno, dalle persone che impara a riconoscere  superiori. Dall’altro lato è audace, aggressivo ed  inventivo, verso tutto ciò cui riesce ad imporsi.  Molti osservatori superficiali avevano portato 1 at¬  tenzione quasi esclusivamente sopra questo lato  elettivo della personalità infantile. Quindi la facile  accusa di egoismo sfrenato, di crudeltà innata,  di istintiva ribellione. Le belle pagine di Suliy  consacrate a questo argomento distruggono tale  pregiudizio (i). C’è tutto il lato opposto, l’elemento  soggettivo dell’», che conduce il bambino all’imi¬  tazione dei maggiori per bisogno d’adattamento  sociale, e gli fa assumere un atteggiamento su¬  bordinato verso quelle classi di persone, che hanno  un carattere di comando, di autorità, di dire¬  zione sopra di lui e dalle .quali ha sempre qual¬  cosa da imparare. Al contrario è aggressivo  verso i minori di lui; li plasma a capriccio e li  conduce, perchè li conosce benissimo negli atti  e nei pensieri; sono la sua eiezione, li opprime  e li calpesta. Ma l’analisi non può arrestarsi qui.  Dal padre al fratello e alla sorella minori ci sono    (i) J. Sully, Studies in chiìdhood, eh. VII.        CAP. li - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 25    dei punti di passaggio, degli stati, quasi direi di  equilibrio, tra il soggetto e l'oggetto; c’è la classe  degli eguali. Già la madre si trova in parte in  questa condizione di elemento medio. Pel bam¬  bino ci sono per così dire due madri, quella che  lo dirige e quella che gli cede secondo le occa¬  sioni. Ma più ancora sono in tal condizione i  suoi coetanei, i suoi fratelli pressa poco della  medesima età, che si trovano sottoposti con lui  ad una autorità pari. Qui il vero senso del so-  cius ha l’occasione di formarsi per una serie di  esperienze nella vita famigliare. Qui si elabora  quello spirito di giustizia infantile, quel rigido  formalismo che fa del fanciullo a tavola, nei  giochi, nella ripartizione dei piccoli premi e delle  piccole pene della società domestica, un così ri¬  goroso osservatore della giustizia. Bisogna os¬  servare i fanciulli a tavola, quando si sorvegliano  l’un l’altro nella distribuzione delle vivande, mi¬  surando il più o il meno cogli occhi, per cogliere  sul vivo la genesi della giustizia inter pares. La  scuola è poi l’altra grande palestra di questo  medesimo tirocinio. Occorre però aggiungere  quest’altra osservazione: l'uomo è l’animale sim¬  metrico per eccellenza. Questo senso della misura  e della proporzione è senza alcun dubbio uno  degli elementi più importanti della psicologia  giuridica. Nel gesto, nei movimenti di marcia,  come nel linguaggio, come in tutti gli aspetti  della condotta umana c'è questo principio d’or¬  dine, di simmetria, di misura. L’antica idea dei  Pitagorici del numero, come principio universale    Znjo Zini, Giustizia.    4         26    GIUSTIZIA    e simbolo dell'assoluto, non è forse che l’intui¬  zione di questa legge d'armonia. Sotto questo  aspetto istintiva è la ribellione contro 1 ingiusto,  ossia contro ciò che turba la simmetria umana.  Caratteristica è al riguardo la condotta del bam¬  bino. 11 formalismo infantile è forse un’inconsa¬  pevole obbedienza alla legge della simmetria. I  bambini sono giudici scrupolosamente ligi ad  un principio d imparzialita letteialmente intesa.  L’uomo è istintivamente giusto, perchè è istin¬  tivamente simmetrico. La vita di relazione, col¬  l’esercizio continuo del confronto, sviluppa in  modo particolare questo senso della giustizia; la  definizione romana dell’ unicuique suum tribuere,  e quella dantesca di proporzione da uomo a  uomo, contengono una verità profonda. La co¬  scienza della giustizia, che Aristotele chiama  commutativa, è una formazione empii ica, i cui  inizi si possono scorgere benissimo nella vita  infantile e in quella dei primitivi; in ogni atto  di scambio il do ut des , compresa anche la va¬  riazione del facias , è un’esperienza d’un’ evi¬  denza palmare. La giustizia diortetica o repressiva  è la reazione contro l’offesa, è il ristabilimento  dell’ordine turbato.   Questo elemento attivo della giustizia sociale,  che chiamiamo la coazione al riconoscimento e  al rispetto delle esigenze sociali, è sempre subor¬  dinato al sentimento vivace d’un ordine e d'una  proporzione tra i consoci; insomma è psicolo¬  gicamente una domanda di correzione della giu¬  stizia offesa; più che un elemento intrinseco di       CAP. Il - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 27    essa. D’altronde emerge qui un elemento utili¬  tario di capitale importanza. Perciò è in esso che  la materializzazione della giustizia nella legge  mostra avere le sue prime radici. Perchè la giu¬  stizia legale, messe a parte le sue funzioni pu¬  ramente interpretative, rappresenta essenzial¬  mente una coazione sia colla prevenzione, sia  colla pena, e la coazione è necessaria alla con¬  servazione dell’ordine sociale. Giustizia e legge  penale, primamente sorte da un originario im¬  pulso di vendetta, rappresentano la più antica  forma di giustizia. Durkheim ha dimostrato, che  i popoli primitivi conoscono soltanto le forme  della giustizia criminale, e che la giustizia civile  ha uno sviluppo posteriore (i).   Infine la giustizia distributiva è la più difficile  a sentirsi — la natura o Dio, nella creazione, non  sembrano rispettarla; vi è il grande e il piccolo,  il bello e il brutto, il forte e il debole, ecc....  V’è insomma la disparità, l'iniquità in tutto il  regno naturale e in tutta la vita. Anche lo stato  sociale, che è un aspetto della natura o del vo¬  lere divino, manca di giustizia distributiva, anche  se intesa aristotelicamente, non come una pro¬  porzione basata sull’eguaglianza, bensì come una  proporzione secondo il merito. Eppure nonostante  la lezione impartitagli quotidianamente dalla na-    (1) Baldwin, Dictionary of philosophy, I, pag. 586. —  Durkheim, De la division du travati social. Paris, 1893,  pag. 148-157. — Barth, Die Philosophie der Geschichte  als Sociologie, I, 86.        28    GIUSTIZIA    tura, l’uomo crede fermamente alla giustizia di¬  stributiva. Dalla dispotia asiatica alla democrazia  moderna è uno sforzo verso questo limite forse  irraggiungibile, la giustizia politica ed economica.   La progressiva evoluzione di questa coscienza  si svolge nei rapporti di classe, e si afferma man  mano che le differenze di nascita, di ricchezza,  di coltura tendono a diminuire. Tutte le forme  d’aristocrazia contrariano il normale sviluppo del  senso della giustizia, quella del sangue, come  quella del danaro e dell’ingegno. Il Cristianesimo  ha scritto qui una delle sue più belle pagine,  fondando sulla fede religiosa l'identità di natura  umana, nobilitando ogni spirito , condannando  ogni forma di violenza fisica e morale, procla¬  mando la fratellanza.   Questo senso superiore della giustizia distri¬  butiva, che va oltre alla semplice reazione del  risentimento all’offesa, che sollecita alla vendetta;  e nel medesimo tempo eccede gli angusti confini  psicologici della simmetria contrattuale, è desti¬  nato a far salire l’uomo alla coscienza del di¬  ritto come integrazione della personalità sociale,  ossia come facoltà, riconosciuta a sè e agli altri  di far convergere in una certa misura le utilità  sociali a vantaggio individuale. Questo sentimento  tende a realizzare nel mondo umano un certo  ordine, una certa proporzione finalistica, suggerita  da imperiosi bisogni di natura ideale, i quali de¬  vono o dovrebbero trovare la loro soddisfazione  nel fatto corrispondente. Non è facile spiegare  la genesi di simili stati affettivi, che pure rappre-       CAP. II - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 2(J    sentano una delle maggiori conquiste spirituali  dell’umanità, donde sorge il più efficace impulso  a quella generosa lotta per il diritto, Kampf utn  Rechi , che, giusta la bella concezione di Jlicring,  forma veramente la trama della storia politica.   Certamente l’uomo non apprese dalla natura  questa lezione, perchè la giustizia non è nella  natura, fuori di noi, dove c’è solamente la cau¬  salità, bensì dentro di noi, dove c’è la finalità.  Tutto quello che accade fuori di noi, nella natura  fisica, è il reale, perciò non può essere giudicato  nè buono, nè cattivo, nè giusto, nè ingiusto ; ma  quello che accade dentro la nostra coscienza è  l'ideale, c su questo possiamo pronunciare il  nostro apprezzamento di approvazione o di con¬  danna. Ma, come già si disse, più della idea  astratta di giustizia, una filosofia dovrebbe pre¬  occuparsi della genesi del sentimento, ossia della  giustizia concreta. Certamente essa nasce nel  rapporto umano da un giudizio comparativo, in¬  consapevolmente imposto all’uomo dall’istinto  imitativo di fronte all’atto o possesso del suo si¬  mile ; in condizioni pure relativamente uguali,  quali dovettero essere quelle dei membri del  gruppo iniziale. Le sue origini si dovrebbero  rintracciare con un processo analogo a quello  usato da Baldwin per spiegare la formazione del  sentimento morale, e la disciplina sociale nel  fanciullo.   Molto opportunamente James pone l’impulso  all imitazione come una delle forze che maggior¬  mente concorrono allo svolgimento e al progresso       3o    GIUSTIZIA    della vita sociale (i). Homo sum et humani nihil  a me alienum puto , dice il vecchio poeta latino.  Ciò che stimola l’uomo all’azione, è veramente  questo continuo giudizio di comparazione, ch'egli  instituisce tra sè e gli altri, generalmente s in¬  tende quelli che gli stanno dinanzi. Guardarsi  all’indietro suppone uno sforzo mentale, precisa¬  mente come piegare il collo, per vedere alle  spalle. La visione naturale è davanti a noi, nella  strada della vita come su quella della terra.  L’uomo è propriamente una creatura nata con  istinti egualitari, o meglio con impulso irresistibile  a prendere, a fare e ad ottenere quello, che gli  altri prendono, fanno ed ottengono (2). Dante  aveva già detto così splendidamente :   O gente umana, perchè poni il core  • là Vè mestier di consorto divieto ?   Il gran male è appunto che tutto ciò che pren¬  diamo noi, non lo possono avere gli altri. Ma  non è tutto qui. Le relazioni che l’uomo può  istituire intorno a sè sono di tre specie : rapporti  di superordinazione, di subordinazione e di coor¬  dinazione; cioè a dire rapporti di comando verso  gli inferiori, rapporti di obbedienza verso i su¬  periori e finalmente rapporti di reciprocità cogli  eguali. Il fatto giuridico, il fatto morale e quello  religioso hanno qui rispettivamente le loro sfere  di svolgimento.    (1) W. James, Principii di psicologia. Milano, 1900,  pag. 718.   (2) Dante, Purg., XIV, 86-87.         CAP. ti - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 3I    Che cosa infatti fa il capo politico in ogni  consorzio umano? rende giustizia a' suoi subor¬  dinati, creando la massima di diritto. Che fa il  suddito verso il suo signore, re sulla terra e Dio  nel cielo? ubbidisce, supplica, si raccomanda,  scongiura. Il potere politico è un sostitutivo ter¬  restre di quello divino.   Ciò soltanto permette di comprendere come  mai abbia potuto essere esteso fino al massimo  arbitrio. Ogni governo è in origine teocratico, e  il cerimoniale di rispetto che circonda ancor oggi  la funzione di Stato e i suoi rappresentanti, dalla  maestà sovrana all’eccellenza ministeriale e alla  inviolabilità parlamentare, è il residuo metamor-  fizzato del culto verso la divinità.   Ancor oggi lo Stato, come la Chiesa fa col  miracolo e colla grazia, governa coll’arbitrio e  col favoritismo.   Il miracolo è la violenza fatta alla legge na¬  turale e corrisponde all'arbitrio, che è la violenza  fatta alla legge sociale. Non è possibile a molti,  anche nei sistemi rappresentativi, vedere nei  membri del governo, deputati, ministri, altro che  i depositari d’un potere superiore, che si tratta  di propiziare. Una distanza insormontabile nella  coscienza generale separa chi comanda da chi è  comandato.   La legge della subordinazione impera tuttora  negli spiriti, per forza ancestrale. Il feticismo go¬  vernativo è la religione dei tempi nuovi. Lo Stato  provvidenza ha preso il posto della divina prov¬  videnza, a lui tutto si domanda e da lui tutto         32    GIUSTIZIA    si aspetta. Ni Dieu , ni maitre , sarebbe la vera  formula della redenzione umana, se non fosse  un’utopia.   L’organizzazione militare è il più splendido  esempio di questo genere di relazioni umane  fondate sulla subordinazione. Vi sono tra gli  uomini i temperamenti dell’autorità e quelli del¬  l'obbedienza. L'esemplificazione di ciò è tutti i  giorni sotto i nostri occhi. Alcuni fanciulli mo¬  strano l’attitudine al comando, imponendosi per  1 ’ iniziativa, la prepotenza, il maggior egoismo  nella famiglia, nella scuola; mentre per altri, in  collegio e in molti altri casi, 1’ obbedienza e la  sommessione è spontanea.   Dickens ha illustrato assai finemente, in alcune  scene del David Copperfield , questa genesi spon¬  tanea della gerarchia in un gruppo di ragazzi ;  il fenomeno criminale nella madia e nella ca¬  morra riproduce lo stesso fatto. In fondo l'or¬  dine sociale è un complicato sistema di subor¬  dinazioni e di superordinazioni che va dalle caste  ai regimi democratici, attenuandosi da forme  materiali e violente a forme morali e pacifiche.  Tutti abbiamo dei capi, dei superiori. La mo¬  narchia assoluta attaccò il primo anello della ca¬  tena all’uncino della divinità, caput auctoritatis y  fondando il potere incondizionato sulla terra,  Dieu et mon droit{\). Oggi giorno la superordina-    (i) Richelieu afferma attorno alle azioni dei Re (Me-  ntoires. Année 1626, éd. Petitot, III, pag. 24, Paris, 1823I:  “ Qui serait le juge de ces choses? Qui les considé-       CAP. II • LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 33    zione assoluta non esiste più, il relativismo è nel  campo politico come in ogni altro ordine feno¬  menico.   L eguaglianza del diritto segna 1 ' avvento di  una giustizia nuova, mter pares\ solamente però  la progressiva perequazione economica può tras¬  formare il diritto ideale nel fatto, ed operare il  passaggio dalla giustizia astratta a quella con¬  creta.   Le classi medie sono evidentemente le prime  a sentire la giustizia. Esse infatti sono nello stesso  tempo subordinate, coordinate e sopraordinate.   Le aristocrazie sacerdotali e militari hanno il  privilegio ancora alla vigilia della storia contem¬  poranea. Le plebi dei campi e delle città non  hanno che la tradizione del servaggio. La co¬  scienza del diritto si sveglia nel terzo stato, la  borghesia moderna eminentemente legislatrice,    rerait sans passion et sans intcrèt? Ce ne serait pas le  pape, qui est prince temporei et n’a pas telleinent re-  noncé aux grandeurs de la terre, qu’il y soit indifterent.  Il n’y a que Dieu seul qui en puisse ótre juge. Aussi  les rois ne pèchent-ils qu’envers lui, à qui seul appar¬  tieni la connaissance de leurs actions „. — Bossuet (Po-  litique, liv. V, art. i, prop. 2), scrive: “ Ils sont des dieux.  Il n’y a que Dieu qui puisse juger de leurs jugements  et de leurs personnes „. Tutto il potere viene da Dio :  noti est potestas nisi in Deo, dice la Scrittura. — Bossuet,  op. ci/., 1 . Ili, art. 1, prop. 12: " Ils sont sacrés par leurs  charges, cornine étant des représentants de la Majesté  divine, députés par sa Providence à l’exécution de  ses desseins — Conf. Id., Troisièttte Sermon pour le  dimanche des Rameaux, sur les devoirs des rois.    Zino Zini, Giustizia.    5          34    GIUSTIZIA    ricca, colta e specificata nella funzione di lavoro  mentale ed economico (i). La borghesia crea la  I e gg e i e pone il fondamento del contratto politico  e civile colla Rivoluzione e col codice Napoleone,  tra le classi dello Stato. In che modo il proleta¬  riato agricolo ed industriale potrà fare altrettanto?  Passando dalla semplice subordinazione alla coor¬  dinazione sociale. L'organizzazione professio¬  nale, creando la funzione specifica dell’operaio  selezionato, fa passare la massa lavoratrice dallo  stato di aggregazione amorfa e di conseguente  subordinazione servile, a quello di coordinazione  funzionale nel corpo sociale. Solo il differen¬  ziamento produce la cooperazione civile e perciò  fonda il diritto.   L’iniquità sociale ha la sua spiegazione nello  stato esclusivamente aggregativo di quelle parti  del corpo sociale, sulle quali essa pesa da secoli  e da millenni. Coloro, che seguiranno il mio pen¬  siero, potranno forse persuadersi di questa verità,  che forma il punto centrale della mia specula¬  zione intorno alla genesi e allo sviluppo dei fe¬  nomeni sociali. L’elevazione intellettuale, morale  e materiale del proletariato, mediante Porgano¬    li) L’Orfisrao, che è fortemente penetrato dell’idea  di giustizia, à le sue radici nel ceto medio della società  greca, e si presenta coi tratti caratteristici di dottrina  etico-religiosa d’una classe pacifica in opposizione agli  ideali dell’aristocrazia eroica. Dike e Nómos sono le due  divinità del Panteon orfico invocate dai deboli contro  i potenti. Confi Gomperz, op. cit., I, pag. 147-148.         CAP. Il - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 35    zazione operaia e il progresso tecnico nel pro¬  cesso industriale, crea, col differenziamento pro¬  fessionale, l’operaio qualificato (skilled) ; ed esso  si trasforma sempre più in organo del corpo so¬  ciale, e la sua funzione cooperativa lo fa sog¬  getto di diritto.   Nel rapporto di coordinazione si afferma il  diritto, sotto l' impulso convergente della sim¬  metria e della imitazione. Bisogna pervenire al¬  l'idea del proprio simile, per concepire l’iniquità  e partecipare a quella particolar forma d’emo¬  zione, che è il sentimento della giustizia disinte¬  ressata. Certo sotto questo rispetto vi deve essere  una grande varietà individuale. Vi sono uomini  in cui appare quasi congenito il sentimento del  giusto : questi spiriti si inalberano quasi istinti¬  vamente di fronte a ciò, che ai loro occhi è una  ingiuria fatta al proprio simile, e si accendono  di passione, e scattano di rivolta e di protesta.  Certamente questi uomini sono dotati d’una più  forte dose di simpatia, per quanto non si possa  forse ancora risolvere la questione, se questo  maggiore altruismo non sia che l’effetto d’una  più intensa cerebrazione. Vorrei dire che forse  l'uomo, che ha più vivo e più largo il sentimento  della giustizia, deve probabilmente una tale ric¬  chezza emotiva al modo stesso di comprendere  i rapporti umani e di giudicarli; la sua perce¬  zione è diversa da quella dell’egoista, la visione  di quest’ultimo è unilaterale e limitata all’inte¬  resse personale.   La reazione individuale di fronte all’ offesa          36    giustizia    nostra od altrui è misurata da un’equazione per¬  sonale, che molto verosimilmente dipende dalla  massa appercettiva, in cui viene a conglobarsi.  Ciascuno à l’esperienza di molti uomini preva¬  lentemente egoisti; alcuni per ristrettezza men¬  tale non riescono a sollevarsi oltre l'angusta  cerchia del bisogno o del piacere proprio, affer¬  mano energicamente se stessi nella brutale igno¬  ranza d’un egoismo fanciullesco e fastidioso, in¬  differenti a ciò che non li tocca direttamente,  rinnegano in buona fede la parte migliore della  vita collettiva e della solidarietà umana, e mo¬  strano dinanzi a pericoli, lotte e sventure o en¬  tusiasmi di portata comune, un’ottusità sentimen¬  tale, che li emancipa da ogni forma di attività  simpatica. In altri 1 egoismo è dominatore, e la  reazione ingiusta ha un carattere prevalentemente  attivo. Ingegni robusti, appetiti violenti, ener¬  giche volontà, questi tipi umani formano la ca¬  tegoria degli eroi nietzschiani, divoratori del  branco. Evidentemente l’uomo non è animale socie¬  vole sempre allo stesso grado, è indubitato anzi  che la socievolezza sia come intensità sia come  estensione è sentita assai diversamente. Molti non  escono dall egoismo del gruppo famigliare o pro¬  fessionale ; 1 unisono politico od umano non si  raggiunge eccezionalmente che dai riformatori o  dai poeti. Eppure questa è la mèta.   Sentire 1’ umanità, forse anche più in là, il  mondo ; religione, filosofìa, scienza, arte ànno  fatto, fanno o faranno questo miracolo generale.   I poeti hanno descritto per intuizione mera-        CAP. Il - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 37    vigliosa questa emozione della giustizia; che  prende talvolta l’intensità d’una vera passione, il  cui fondo è una forma dell'ira generosa, uno zelo  o sdegno ; un santo odio, odi iniquitatcm , disse  Gregorio VII, e negli antichi profeti ebraici come  nell’ardente terzina dantesca è sempre il mede¬  simo sentimento.   Flaubert ha reso potentemente questa passione  della giustizia in un cuore semplice, l'umile eroe  popolare dell 'Éducation sentimentale (i).   Anche Dio di fronte alla colpa dell'uomo è  nella stessa condizione. Il suo giudizio è un Dies  irae, la sua giustizia è un atto di grandissimo  sdegno contro   quelli che muoion nell’ ira di Dio.   Gli uomini giusti, dice Ratzenhofer, sono quelli  sui quali la società può maggiormente contare   (i) Renan, Histoire dii pettp/e d'Israèl, III, pag. 153  e seg., 164 e seg.; dove traccia in modo insuperabile  la psicologia dell’apostolo della giustizia, illustrando quel  tipo rappresentativo del profetismo giudaico che è Ge¬  remia. G. Flaubert, L‘Éducation sentimentale, pag. 284.  — Rousseau, questo sentimentale che à soggiogato tutta  una società col fascino della sua natura passionale, de¬  scrive nelle Confessions, Part. I, liv. 1 , pag. 14-15 (Paris,  Garnier), l’emozione dell’ingiusto nella sua stessa anima  di fanciullo. Sul carattere specifico dell’emozione del  giusto, conf. James, The wi/l to be/ieve, pag. 187. Sul va¬  lore morale dello sdegno verso l’iniquo: Hòffding, op.  cit-, pag. 528. — Aristotele intende per Nemesis, il  sentimento che noi proviamo di fronte alla felicità del¬  l’uomo indegno. Etìiic. Nic. Lipsiae Teub. 1903, B, 7,  1108 b, 1.           38    GIUSTI-ZIA    ' P cr 1 ° sviluppo del progresso civile, e ad essi  perciò dovrebbe legittimamente appartenere il  governo. Se i pubblici offici cadono in mani  inique, l'edificio sociale è scosso dalle sue basi.  Il più gran sintomo di decadenza è la corruzione  della giustizia, però molto a proposito definita  dall'Ardigò, come la forza specifica deH’organismo  sociale. Gli eroi della morale (Die Helden des  Ethos), i quali vivono, secondo l'espressione dan¬  tesca,   Esuriendo sempre quanto è giusto;  sono quelli che prepongono il bene comune al  proprio interesse e alla vita stessa; dal loro nu¬  mero dipende, che in una società domini la legge  del dovere; essi rappresentano per così dire le  salde colonne, su cui poggia l'intera costruzione  morale e giuridica, entro la quale si raccolgono  i deboli per assicurare la comune vittoria della  giustizia (i).   La storia politica ò dunque la lotta per il di¬  ritto, epica lotta che ha adoperato ed adopera  tuttora due opposte armi per arrivare al suo fine,  la violenza e la persuasione. Volta a volta i due  metodi sono stati seguiti. Tutte le forme di vio¬  lenza sono state usate ; e chi può dire che non  lo saranno ancora?   Non vogliam fare profezie intorno al nostro  avvenire morale, già mille volte smentite. Però    (i) G. Ratzenhofer, Positive E/hik, die Verwirklichung  des Sittlic/i-Seinsolleiiden. Leipzig, 1904, S. 298-299.         w   ■ CAP. n - LA GII    CAP. Il - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 39    è fuor di dubbio, che l'uomo, per quanto lenta¬  mente, si umanizza, i suoi sentimenti sociali si  rinforzano, la sua crescente simpatia è una auto¬  matica riduzione del suo egoismo. La stessa  progressiva complessità delle relazioni reciproche,  intensificando la vita collettiva, eleva il poten¬  ziale della solidarietà, che è anzi tutto un fatto,  e diventa quindi una forza ideale.   In questo senso si realizza non soltanto la com¬  passione schopenhaueriana, fondata sulla legge  buddistica del dolore universale, bensì la sim¬  patia umana, che ha, secondo il pensiero di Rat-  zenhofer, il suo fondamento sulla cosciente par¬  tecipazione al destino del nostro prossimo (i).   Tutta la nostra vita è una matassa intricata  di rapporti coi nostri simili. Parliamo comune¬  mente di classi sociali, di gerarchia di superiori  ed inferiori; ma in realtà la trama del tessuto  sociale è ben altrimenti complicata; si tratta di  un feltro composto di migliaia di fili intrecciati  sapientemente tra loro, per modo da creare quella  resistente stoffa, che sopporta l’attrito e gli strappi  senza cedere e venir meno.   In fondo la vita di relazione è tutta la nostra  esistenza, la personalità è un suo prodotto, ciò  che noi siamo soliti a chiamare la nostra co¬  scienza non è forse che lo specchio soggettivo,  in cui si riflette la imagine sociale di noi stessi.  Sotto questo aspetto l’individuo è veramente una  astrazione, la società è l’unica realtà.    (1) G. Ratzenhoker, op. ci/., S. 294.             4° GIUSTIZIA    Ci vuole un grado considerevole di sviluppo  del pensiero teorico ed una forza poco comune  di autocritica, per poter compiere questa delicata  operazione di isolare gli elementi strettamente  personali della nostra coscienza per formarne  qualcosa di veramente individuale. L’egoismo è  più che altro un illusione psicologica, un vizio  dell’ottica mentale.   La concezione della vita sociale,che ha maggior  probabilità di accostarsi alla reale natura dei  fenomeni sociali, è quella che sui dati delle mo¬  derne scienze psicologiche li avvicina ai fatti  dello spirito e più specialmente a quelli della  suggestione imitativa e della generalizzazione in¬  cosciente (i). Per molti, abituati alle formule sem-  pliciste del materialismo storico, e alla indiscussa  preminenza del fattore economico negli eventi  sociali, sarà difficile ammettere questa radicale  trasposizione di termini, per cui si faccia della  vita collettiva prevalentemente, se non esclusiva-  mente, un fatto spirituale. Eppure, se si guarda  ai veri caratteri del fenomeno associativo, tanto  nelle sue forme semplici ed originali, famiglia,  cl(in , quanto in quelle complesse e derivate, non  ci è difficile persuaderci, che a parte i rapporti  puramente esteriori, i quali hanno natura piut¬  tosto di mezzi, come 1' organizzazione politica,    (i) Cfr. l’opera sociologica di G. Tarde, Les lois  d’imitation, la Logique sociale, e di Baluvvin, Interpré-  tation, eie.         CAP. II - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 41    militare ed economica, ciò che esso realizza, è  essenzialmente un certo stato di coscienza co¬  mune, che diventa poi religione, arte, scienza,  morale c diritto. L'essenza della vita sociale è  dunque un modo comune di sentire, di pensare  e di volere; noi manchiamo di un termine ap¬  propriato per indicare la complessa natura di  questo fenomeno, ma possiamo concepire che  esso stia ad un fatto di coscienza, come questo  sta ad uno fisiologico; sia cioè un processo di  sintesi, una specie d'elevazione della vita ad una  ennesima potenza, con produzione di nuovo.   In questo senso è facile riconoscere il cre¬  scendo continuo della vita sociale, poiché la ge¬  neralizzazione del pensiero e del sentimento,  espressa in tutte le forme del linguaggio parlato  o scritto, che è la caratteristica dell'attività con¬  sorziale, è in aumento in ogni fase ulteriore del-  incivilimento. L’uomo è sempre più col suo  intelletto e colla sua volontà una parte di quel-  l'aggregato astratto, che chiamiamo la società.   Del resto questo termine stesso di società è  di un valore troppo indeterminato, poiché, come  abbiam visto, si tratta in ultima analisi d' uno  stato psichico, d’una potenza più elevata; ma per  essere più esatti, lo stato psichico è plurimo, vi  è per cosi dire una stratificazione della coscienza  sociale, e gli individui, secondo la classificazione  distributiva degli elementi nel gruppo, parteci¬  pano di questo o di quell’altro nucleo associa¬  tivo di sentimenti, d’idee e di aspirazioni.   Arriviamo solo oggi ad uscire dalla metafora   Ziko Zini, Giustìzia.    6       42    GIUSTIZIA    del corpo sociale, per entrare in quella più vicina  al vero dello spirito sociale. Il paragone del fe¬  nomeno sociale col fenomeno biologico deve  essere spostato, tanto più che il fenomeno psi¬  chico stesso, che potrebbe figurare come termine  medio di questa specie di sillogismo sottinteso,  si è reso autonomo, e la sua irriducibilità a  quello fisiologico è ornai un datum della mo¬  derna psicologia. Si diceva non è molto : nella  società gli unici reali sono gli individui, i sin¬  goli; la collettività è una pura astrazione. Ornai  quest illusione cade, l’io è l'epifenomeno del  suo gruppo, degli altri con lui associati in un me¬  desimo sistema psichico ; cosicché se material¬  mente non esistono altri corpi, che quelli degli  individui viventi, spiritualmente non c' è altra  realtà che quella del socius , questo prodotto del  fatto sociale, cioè questo fatto di psicologia, non  tanto collettiva, quanto generalizzata.   Questo aumento progressivo nella vita umana  dell’elemento sociale, unito alla sua progressiva  coscienza, è per noi la miglior garanzia della ne¬  cessaria sostituzione della cooperazione alla lotta  sociale, cooperazione di atti e di sentimenti.   Certamente le due vie, quella della violenza e  quella della solidarietà, per l’affermazione del di¬  ritto e per la sua difesa, sono tuttora aperte di¬  nanzi ; e non è detto, che nei presenti e nei futuri  conflitti dei gruppi antagonisti coalizzati, gli uo¬  mini non debbano ancor molte volte servirsi  della forza fisica, economica o morale, impu¬  gnando quelle armi ch’offre loro lo stato di ci-       CAP. li - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 43    viltà in cui si trovano ; ma intanto è molto  probabile, che la direzione generale del progresso  sia nel senso di dare il vantaggio definitivo ai  mezzi della cooperazione su quelli della lotta.  Scelgo un esempio tra mille, traendolo da quel  campo di relazioni, dove è presentemente più  aspro il conflitto degli opposti interessi di classe.  Nella gara economica tra capitale e lavoro, che  è senza dubbio quella, intorno alla quale il cri¬  terio di giustizia è più urgentemente chiamato  a formarsi, sono ancora di fronte i due metodi  sociali : la lotta e la cooperazione. Il boicottaggio,  questa vera arma di guerra, è il residuo della  violenza, suggerita e giustificata forse dai bisogni  immediati della propria conservazione e difesa,  in uno stato di cose in cui la crudezza delle re¬  lazioni spinge gli avversari a combattersi a vi¬  cenda con tutti i mezzi, che la stretta giustizia  non vieta, e altrettanto dicasi dello sciopero e  della serrata (lock-out). Dall’altro polo sta 1 ’union  label , la nuova forma di pacifica lotta, anzi  neppur più lotta, ma vera cooperazione di classe  allo scopo di far trionfare il diritto. Perchè tale  è il profondo significato della nuova associa¬  zione operaia, sorta con tal nome in America.  Essa per la protezione degli interessi materiali e  morali delle classi lavoratrici, non adopera più  l'arma di lotta, per quanto legale, dello scio¬  pero o del boicottaggio contro la classe nemica ;  ma si rivolge alla naturale simpatia, che le abi¬  tudini consorziali vengono generalizzando ed in¬  tensificando tra gli uomini ; pel trionfo della giu-                44    giustizia    a- n V m C Ìtt0 dd Più deboli «sa fa   appello alla coscienza più squisita di quanti sen¬  tono p,u vivamente le offese fatte allo spirito di   ZZ PÌCC ° i0 Segn ° ^ ^ a!   prodotti industriali, ch'escono da opifici, in cui   sono aspettate le norme dell'equità economica e  umamtà Per ciò che riflette i salari, gli orari  e le condizioni generali del lavoro, è veramente  . suggello de"a solidarietà sociale, che segnala  uomo di qualunque classe un atto di giustizia  compiuta e lo invita a collaborare alla sua de¬  finitiva realizzazione (i).    (i) American Journal of Sociotogy. Sept. 100 , Lo  stesso programma dell 'Union label, à la Lega Sociale  ^«fondata nell, Srfcer, In „ na   .t II cons L f" na 1 Glde ne s P ie S a l’utilità pratica così:  U consumatore è un re nell’ordine economico - ma bi-   3ie C r^ Che è UnrC Pannubone - Non risponde  neanche alla definizione del re costituzionale, che -   cgna, ma non governa - imperocché il consumatore  ne regna, ne governa. Ora noi vogliamo dare a qu l  re senza corona, la coscienza dei propri diritti, come   3“g a uf. ei e Pr r PrI d ° VerÌ ’ C °’ me2ZÌ 3datti ““'esercizio  degh un e al compimento degli altri. Lo vogliamo non   cietà che SU ° TT 86 ’ qUant ° llell ’ intercsst biella so-  6 S1 confonde col suo La signora Bentzon   moni R ™ Ue ^ de ì UX ' Mondes scrive sullo stesso argo-   faccia'mo dfi n 'h qUa V ^' t i a n0 ' s P endiamou no scudo noi  tacciamo del bene o del male... chi compera un cattivo   murale do T de " a pÌÙ bassa lette-   atura, le donne che acquistano biancheria o vestiti a   troppo buon mercato, sono responsabili del sangue e   delle fibre umane, tessute per cosi dire in quelle stoffe   - Giovanni Brunhes, promotore del movimento per                CAP. II - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 45    Il problema della giustizia deve essere rias¬  sunto in questi termini; da secoli ci siamo abi¬  tuati a pensare un mondo ordinato e convergente  ad uno scopo: la volontà d'un Dio creatore. È  la favola semitica, che dal fondo dell’Oriente è  venuta fino a noi alle nostre orecchie attraverso  alla Bibbia, al Vangelo; i padri della Chiesa, i dot¬  tori del medioevo, i teologi riformatori e la filosofia  spiritualista, il neo-cattolicismo del Manzoni e i  romanzi di Tolstoi, ce Tanno trasmessa in succes¬  sive edizioni alquanto rimaneggiate. Questa favola,  che sorse forse nella vecchia Caldea sotto lo scettro  di Tlammurabi, mutata la musica, racconta sempre    la Lega sociale dei compratori , dice efficacemente agli  operai e ai padroni : * poiché voi lavorate per noi, poiché  senza di noi, consumatori d’ogni giorno e di tutto, voi  non avreste alcuna ragione né d’intridere il pane, nè  di condurre i tram, nè d’estrarre il carbone, nè di fab¬  bricare il cioccolatte, noi abbiamo pure qualche cosa  da dire e qualche cosa da fare nei vostri conflitti. Voi  vi sottomettete a tutte le nostre fantasie, quando noi  esigiamo la tale qualità di calda o il nastro del tale  altro colore. Voi subite da parte nostra la tirannia di¬  sastrosa del buon mercato a tutti i costi. Ora noi ricono¬  sciamo e proclamiamo che abbiamo il diritto e il dovere  di dir pure la nostra parola nell’organizzazione del la¬  voro. Noi non vogliamo più soltanto mobili di lusso o  pavimenti a disegni, non vogliamo più soltanto cappelli  di feltro, o camicie di cotone, cioccolatte assoluto o cioc¬  colatte al latte...; noi vogliamo altresì che tutti questi  oggetti sieno lavorati in condizioni igieniche, da uomini  liberi, liberi in diritto e di fatto, pagati come si deve, non  depressi, non sopraccarichi, viventi di ima vera vita fisica,  morale e civile, viventi, in una parola, di una vita piena,,.        46    GIUSTIZIA    lo stesso press a poco così : Dio, un essere in¬  finitamente buono e perfetto, potente e savio,  creò il cielo e la terra, le piante e gli animali,  e fece 1 uomo, gl'infuse nel petto il suo soffio  divino e lo mandò a passeggiare pel giardino del  mondo, perchè rispettasse la sua legge. C'è dunque  una legge che governa l'universo visibile ed in¬  visibile, e questa legge Dio stesso l'ha imposta  alle cose, ed ogni cosa obbedisce alla volontà e  all ordine del suo fattore, e l’uomo, che ha la ra¬  gione, ossia vede colla luce che Iddio gli ha  accordato creandolo, conosce questo ordine, sa  questa legge e deve obbedire a questa volontà.  Chi fa così è il giusto, chi fa il contrario è  l’empio. Il primo è l'uomo retto che cammina  sulle vie del Signore, conosce la verità ed adempie  alla sua legge di giustizia, egli gode la serenità  su questa terra, dorme tranquillamente i suoi  sonni e sarà ricompensato nella vita futura; il  secondo è 1 iniquo, è l’empio che opera contro la  legge del suo Signore, la sua coscienza è turbata  dai rimorso e la mano di Dio si stende minac¬  ciosa sul suo capo (i).    (i) Gass, Geschichte der christlichen Ethik. I B, Berlin,  1881, S. 23. “ Beato l’uomo che va per le vie del Si¬  gnore „ (Ps. 1, 1.75, 10-14). “ Initium sapientiae est timor  Domini „ [Ps. 111, io). Di qui come dalla radice d’ogni  giustizia sorgono tutte le virtù. - V. Cathrein, Maral-   philosophit.einewìssenschqftlicheDarlegungdersiMicktn,   emschhesslich der rechtlìchen Ordnung. IB, Freiburg in  Breisgau, 1904, S. 319-320.           CAP. Il - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 47    In faccia a questo racconto teologico sta nel mito  classico il pensiero ellenico, che è il fratello pri¬  mogenito del pensiero moderno e della scienza.  Pel filosofo ionico, come per l'eleate o il pita¬  gorico, per lo stoico e per l'epicureo il problema  è quello della genealogia e della metamorfosi,  in altre parole è un problema più di causalità  che di finalità. Oscure inesplicate forze domi¬  nano il mondo, un fato travolge le cose e gli  uomini nelle loro vicissitudini ; gli dei stessi chi¬  nano il capo in faccia al destino.   Democrito che il mondo a caso pone.   Non più una creazione disposta nella mente mi¬  rabile d’un architetto divino, ma un cosmo ch’esca  dal caos per una fortuita combinazione di atomi  dispersi. Abbiamo ancora la mente ingombra  della puerile teologia, che la favola semitica ci ha  appreso nella fanciullezza religiosa! Guardiamo  al mondo cogli occhi creduli ed in ogni aspetto  c’illudiamo di scoprire il significato d'un volere,  l'espressione d'uno scopo.   L’ingenua descrizione finalistica che Wolff ha  fatto della terra, questa dimora   fatta per propria dell’umana spece,  è il capolavoro del genere (i). Solamente oggi    (1) Ch. Wolff, Vernùnftige Gedanken voti der Ab-  sichten der naturlichen Dirige/ 1872, p. 74-84; dove tra  l’altro scrive sul sole: “ Vediamo che Dio ha creato il  sole per mantenere le variabili condizioni sulla Terra in        48    giustizia    usciamo da questo labirinto antropomorfico nel  nostro giudizio sulle cose naturali. Le scienze  non si preoccupano più di ordine fisico e di    tale ordine che le Creature Viventi, Uomini ed Animali,  possano abitarne la Superficie. Siccome gli Uomini sono  le più ragionevoli fra le Creature e sono capaci di in-  f? r 5, ^visibile di Dio dalla contemplazione   del Mondo, il Sole contribuisce pertanto a questo primo  proposito della Creazione: senza di esso l’Uomo non  potrebbe vivere nè riprodursi... Il Sole fa la Luce del  Giorno non solo sulla nostra Terra ma su tutti i Pia¬  neti; e la Luce del Giorno è una delle cose più utili  per noi, potendo noi per suo mezzo attendere a quelle  occupazioni che di notte sarebbero o del tutto impossi-  7,° almeno impossibili quando non ci provvedessimo  di luce artificiale. Gli Animali nei prati possono trovare  a loro cibo di giorno, mentre non potrebbero farlo di  notte. Dobbiamo essere grati alla Luce del Sole di ve¬  dere ogni cosa sulla superficie della Terra, vicina o  ontana che sia, e di riconoscere le cose vicine o lon¬  tane a seconda della loro specie, cosa che ci è neces-  sana non solo nel commercio della Vita comune o nei  laggi, ma altresì per la conoscenza scientifica della  Natura, conoscenza che dipende per la massima parte  da osservazioni fatte mediante la Vista, e che senza il  Sole sarebbero impossibili. Perchè uno possa raffigu¬  rarsi esattamente 1 grandi vantaggi che ripete dal Sole  immagini di vivere anche un solo mese nella Notte più  profonda, e osservi come si trarrebbe d’impiccio. Egli  si persuaderebbe abbastanza allora, per propria espe-  rienza, specie se fosse Persona con molti affari nelle  vie o ne. campi... Mercè il Sole noi sappiamo quando è  Mezzogiorno, e possiamo regolare bene i nostri orologi,  per cui 1 astronomia deve molto al Sole... Col Sole noi  troviamo il Meridiano... ma il Meridiano è la base di  quegli orologi solari che in italiano si chiamano appunto           CAP. Il - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 49    armonie prestabilite. I loro problemi sono uni¬  camente genealogici e metamorfici. Dalla geo¬  logia alla storia non c’è altro studio che quello  di ricomporre dinanzi ai nostri occhi la catena  dei fatti. Non il caso, ma la causa ha composto  il presente assetto cosmico (i). I nostri mezzi  d'indagine ci permettono fino ad un certo punto  almeno di scrivere i primi capitoli fisici e biologici.   Legge è la formula compendiatrice di questo    Meridiane, ed in generale non avremmo orari se non  avessimo il Sole... „. “ Gli usi, a cui l’acqua serve nella  vita umana, sono facili a vedersi e non richiedono una  lunga spiegazione. L’acqua è una bevanda universale  degli uomini e degli animali. Sebbene gli uomini si  siano fabbricate bevande che sono artificiali, essi non  avrebbero potuto far ciò senza l’acqua. La birra è fatta  di orzo e acqua, ed è l’acqua in essa quella che calma  la sete. Il vino è preparato dall’uva, che non potrebbe  mai crescere senza l’acqua; e lo stesso dicasi di quelle  bevande che in Inghilterra e altrove sono prodotte dalle  frutta... Poiché dunque Dio cosi ordinò il mondo che  gli uomini potessero abitarvi e trovarvi tutto ciò che è  richiesto per loro necessità o convenienza, egli fece pure  l'acqua come un mezzo per rendere la terra un cosi ec¬  cellente luogo di dimora. E questo è tanto più mani¬  festo quando consideriamo i vantaggi che otteniamo  dall’acqua stessa per la pulizia dei nostri utensili dome¬  stici, dei nostri vestiti e di altri oggetti... Entrando in  un mulino si vede che la macina deve essere sempre  mantenuta bagnata, e allora uno si fa un’idea anche  maggiore dell’utilità dell’ acqua „. Citato da James, Le  varie forme della coscienza religiosa, Torino, 1904,  p. 425-427 in nota.   (1) Cicero, De finibus, I, 6, 19: “ nihil turpius fisico  quam fieri quicquam sine causa dicere „.    Zino Zini, Giustizia.    7           50    giustizia    processo di trasformazione. Potrebbe anche darsi  che il nostro determinismo meccanico fosse un’il¬  lusione soggettiva. Ogni Weltansckauungè umana.  Ciò che chiamiamo « l’universo reale », il mondo  sensibile e le sue leggi, le serie dei fenomeni,  che compongono il nostro sapere sistematizzato  e formulato, hanno certamente un valore rela¬  tivo. James ha forse ragione nel suo bel para¬  gone : noi osserviamo le cose coi nostri spiriti  prevenuti a scoprirvi delle leggi, allo stesso modo  che, guardando più punti sulla lavagna, tracciamo  delle linee di congiungimento, circoscriviamo  degli spazi geometrici (i).    (i) W. James, Le vane forme della coscienza religiosa.  orino, 1904, pag. 378 in nota. “ Quando si osserva il  mondo senza nessuna tendenza teologica nell’un senso  o nell altro, si vede che l’ordine ed il disordine, quali  noi li riconosciamo, sono invenzioni puramente umane.  Noi siamo interessati a certe forme di accomodamento,  '-iti e, estetico o morale; — così interessati, che tutte le  volte che vediamo realizzate quelle forme la nostra  attenzione viene vivamente sedotta. Ne consegue che  noi operiamo selettivamente sugli elementi del mondo.  Esso e pieno di disposizioni disordinate dal nostro punto  1 vista, ma l’ordine è la sola cosa di cui ci occupiamo  e che guardiamo, e scegliendo bene si può trovare  sempre un certo ordine in mezzo a qualunque caos. La  atura è un ripieno, in cui la nostra attenzione traccia  linee capricciose in tutte le direzioni. Contiamo e nomi¬  niamo qualunque cosa giaccia sulle linee speciali che  tracciamo, mentre le altre cose e le linee non tracciate,  non sono mai nè nominate nè calcolate. Vi sono in realtà  infinitamente più cose “ mal adattate „ fra loro in questo  mondo, che non ve ne siano di “ adattate ,„ un numero           CAP. II • LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 51    Le leggi naturali sono queste coordinazioni  mentali in cui imprigioniamo arbitrariamente la  realtà soggiacente ai nostri sensi. L’architettura  cosmica può essere un arbitrio, anche nella fase  scientifica di cui siamo tanto orgogliosi, come fu  nella fase mitologica della mentalità antica.   Oggettivamente dunque la giustizia ò stata  concepita dagli uomini come un ordine dall’alto  o ab extra , ordine divino o naturale. La legge  è stata accettata come una superordinazione.  Voltaire, nonostante il suo scetticismo, alla do¬  manda donde venga all’uomo la nozione del  giusto risponde ; « Dio fa il giusto e l’ingiusto  ed imprime questa idea fondamentale nel cuore  dell’uomo » (i). Diderot, mette la natura legislatrice  suprema al posto di Dio ( 2 ); posto reso vacante  nello spirito materialista del secolo XVIII, ma  questa arbitraria personificazione della natura  giustifica l'arguta osservazione del De-Maistre :  « la nature? quelle est donc cette femme ? ».    infinitamente maggiore di cose con relazioni irregolari  che non con regolari. Ma noi cerchiamo soltanto le cose  regolari, e ingegnosamente le scopriamo e le rammen¬  tiamo. Esse si accumulano insieme alle altre cose rego¬  lari, finche la collezione loro riempie le nostre enciclopedie.  Eppure sempre, attorno e frammezzo ad esse si ritrova  un caos infinito ed anonimo di oggetti che nessuno ha  mai pensato riuniti, di relazioni che non attrassero mai  la nostra attenzione „.   (1) Voltaire, Dictionnaire philosophique. Du juste et  de Vit juste.   (2} Diderot, Encyclopédie, art. juste.          52    GIUSTIZIA    In realtà, noi stessi siamo la legge nel giusto,  come nel vero. Come la scienza così la morale  è solamente umana. Nella realtà esterna non c'è  che la causalità meccanica, un determinismo fe¬  nomenico, in mezzo al quale prima coi sensi e  poi col ragionamento gettiamo la rete delle nostre  categorie. Ogni legge è associazione mentale, cioè  uno stato del soggetto (ij. Tale è la risposta del  relativismo.   Però chi può negare l’importanza educativa  dell’assoluto ? La potenza pratica dell'idealismo  sta appunto qui : aver proclamato una legge  eterna di giustizia, una massima solenne scritta  a caratteri di fuoco nel cielo delle fedi coll'ar¬  dente parola dei profeti. Nell'arte della vita la  più grande missione è affidata a coloro che  sanno imporre all'uomo la fede e sanno mettergli  innanzi un principio inflessibile e sicuro, ch'egli  deve seguire. Kant aveva ragione ; tutto è ipo¬  tetico quaggiù : solo il dovere deve essere ca¬  tegorico ( 2 ).    (1) Karl Pearson, The grani mar of Science. London,  1900, pag 82 e seg.   (2) Menger, op. cit., pag. 72, in nota, muove alla nota  formula kantiana, che esprime l’imperativo categorico :  “ segui nelle tue azioni quella massima che puoi desi¬  derare vedere estesa a legge generale „ (Grund/egmtg  sur Methaphysik der Sitfcn (1785). Ed. Kirchmann, 1870,  pag. 20, 44, 53I, il rimprovero d’essere affatto priva di  contenuto, perchè non ostante la sua sonorità alta e se¬  vera, lascia, nella maggioranza dei casi, al filosofo pra¬  tico piena libertà di fare quello che vuole.          CAP. II - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 53    Ma che cosa può dare al dovere questa forza  imperati va ?   Dei doveri alcuni appaiono certi ed indiscuti¬  bili, mentre altri sono soltanto definiti dal co¬  stume e perciò paiono arbitrari alla riflessione.  Ora, finché persistono tali costumi, le aspettazioni  umane sorgenti da essi, sono in un certo senso  naturali, visto che un uomo giusto è in una specie  d’obbligo di adempierle con la sua azione ; ma  evidentemente questo obbligo non è nè chiaro  nè completo, sia per la naturale variazione del  costume, che rende dubbia la validità della  norma consuetudinaria, sia per la irrazionalità  del costume stesso, tanto che perfino appare più  morale infrangerlo, che osservarlo.   L’uomo agisce, partendo dal presupposto che  il futuro rassomigli al passato, nell’aspettazione  dell’evento simile. È naturale che nei rapporti  sociali noi ci aspettiamo che ogni individuo faccia  ciò che gli altri fanno in circostanze simili, e che  egli voglia continuare a fare ciò che in passato  ha avuto abitudine di fare; quindi i suoi simili  sono inclinati a pensare d’essere offesi, quando egli  improvvisamente ommette un atto abitudinario,  se tale ommissione causa loro perdita od incon¬  veniente. Che se invece un uomo non ha dato  pegno di mantenere una certa abitudine, è dif¬  ficile che egli possa sentirsi obbligato dalla aspet¬  tativa degli altri, che non è garantita dalla sua  precedente condotta.   Il carattere peculiare d’ogni legge, sia fisica,  sia sociale, è questo appunto di far nascere nel     54    GIUSTIZIA    nostro animo l’aspettazione fiduciosa in un certo  evento. Nell’ordine naturale come nelle relazioni  umane, questa aspettativa fondata sulla costanza dei  fatti, è 1 unica direzione della nostra condotta (i).   fi) Sidgwick, The methods of Ethics , pag. 269 e seg.  — Contrariamente E. Mach, Erkenntniss unii Irrlhuni,  Skizzen zur Phychologie der Forschung , Leipzig, 1905,  cercando di determinare il concetto di legge naturale,-  invece di vedere in essa l’aspetto positivo, ne considera  il lato negativo, e giunge a questa conclusione che le  leggi propriamente dette (nel senso giuridico o morale)  come anche le leggi naturali, esprimono delle limita¬  zioni quindi non sono, come pensa Sidgwick, sistemi  di previsioni o di aspettazioni di ciò che deve essere,  bensì sistemi di esclusioni di quello che non può essere,  con questa differenza che le prime ànno per ufficio di  mettere limiti alle nostre azioni, le seconde alle nostre  aspettazioni. Caratterizzare in tal modo le leggi naturali  come esprimenti non già delle aspettative, ma al con¬  trario delle limitazioni a ciò che ci possiamo aspettare  (Einschrankungen der Erwartungen ), serve a por bene  in luce che l’elemento essenziale del concetto di legge  non sta nella previsione dell’evento particolare, bensì  nell’indicazione della classe entro cui il fatto rientra, o  in cui avviene il suo ricongiungimento con altri. Con¬  segue da ciò la compatibilità tra l’idea di legge perfet¬  tamente determinata per un dato campo di fenomeni e  1 assenza di qualsiasi determinazione pei fenomeni stessi.  Così anche si spiega come la più parte delle leggi na¬  turali e non certo le meno importanti, si riferiscono a  condizioni ed ipotesi che nel fatto non sono mai com¬  piutamente realizzate. Conf Pearson, op. cit ., pag. 79  e seg.; pag. 93 e seg.   Sulla distinzione tra legge naturale e legge positiva  vedi Austin, Lectures oh Junsprudcnce. London, 1879  — O. Liebmann, Gedanken and Thatsachen. Strass-  burg, 1904,1. B, S. 64.          CAP. Il - LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 55    I prodigi della natura e gli arbitri nella so¬  cietà si equivalgono in ciò ch’essi ci separano  inaspettatamente dal criterio usuale nella con¬  dotta e ci espongono a tutta la pericolosa in¬  certezza del caso.   La giustizia è generalmente diretta a prescri¬  vere l’adempimento di tutte queste aspettative,  dice Sidgwick, che sorgono naturalmente e nor¬  malmente dalle relazioni volontarie ed involon¬  tarie, nelle quali ci troviamo verso gli altri es¬  seri umani.   Cosicché la legge è una sorgente di aspetta¬  zioni naturali, ma non dobbiamo su questa aspet¬  tazione fondare la concezione della giustizia,  poiché allora cadremmo nella erronea conclu¬  sione che le leggi vecchie non dovrebbero mai  diventare ingiuste, poiché le leggi che hanno  esistito da più tempo, hanno creato corrispon¬  dentemente le più forti aspettazioni, ciò che in  realtà é smentito dalla storia dell’incivilimento.  Ma forse potremmo dire, che a giustificare la  trasformazione legislativa in nome della giustizia,  sono sorte, da altri elementi della vita sociale,  nuove aspettazioni ed esigenze in conflitto colla  legge preesistente.   E così è veramente, ma dal punto di vista  della nostra indagine intorno al fondamento del  giusto, con questa spiegazione non è eliminata la  difficoltà, ma soltanto spostata, perchè ora si  tratta di sapere, che cosa giustifica le esigenze  nuove di fronte alle tradizionali aspettazioni, che  ii costume aveva fin qui consacrate, in altre pa-           56    GIUSTIZIA    role noi siamo pervenuti alla discussione della  divergenza tra il reale e l’ideale.   A molti sembrerà logico risolvere la questione  così : essendo mutate le condizioni dei rapporti  sociali ed i corrispondenti stati affettivi, è natu¬  rale che la condotta umana prenda ora questa  direzione, la quale corrisponde alla comune co¬  scienza ed al giudizio generale. A questo punto  però bisognerebbe domandare perchè un certo  modo d’agire sembra più naturale, ossia in altri  termini che cosa è naturale.   Che cosa è naturale f ciò che rientra nella  regola, per contrapposto all’eccezione ? Ma l’ec¬  cezione non è un fatto di natura anch’essa,  poiché è un dato della causalità ? Il naturale sa¬  rebbe allora il primitivo; l’originale di fronte al  derivato, per opposizione aH’artificiale ? Ma l’o¬  pera dell’uomo non è forse tanto naturale quanto  la stessa opera delle piante, degli animali, dei  cristalli ? Siamo noi stessi una parte della natura ;  la nostra azione è un tratto del suo corso, che  è determinata e determina avanti e dietro di sè,  come qualunque altra porzione dell’energia co¬  smica (i). Ogni hiatus tra Yhifmanum e l 'extraku-    (ij Hodgson, The tnetaphysic of cxperience, London, 1898,  rV, p. 5 : “ We ourselves, as self-conscious beings, are part  of thè course of Nature; and in adopting on alternative  action we deterinine thè course of Nature for thè future  (dating troni thè moviment of choice) so far as we,the  acting subjects, are concerned, and so far thè rest of  thè course of Nature is inodified by our action „.        CAP. n. • LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 57    manum è un atto di arbitrio. Dante ha detto  la natura figlia di Dio, e l’arte figlia della na¬  tura, e però a Dio quasi nepote. Ogni fatto ar¬  tificiale è una parte del fatto naturale. Rimane  il concetto di naturale, come ideale, espressione  di ciò che dovrebbe essere di fronte a ciò che è.  In questo ultimo senso, per parlare scientifica-  mente, dovremmo dire non ciò che dovrebbe  essere, ma ciò che verosimilmente dovrà essere.   Entriamo cioè in quella regione del sapere  scientifico che si esprime in termini d’approssi¬  mazione e in calcoli di probabilità. Sentiamo in  altre parole più naturale l’ideale in quanto rap¬  presenta la linea di direzione, la tendenza del  movimento, il limite della trasformazione. Che  più d’una volta gli uomini, per equivoco facile  a spiegarsi, si siano cacciati alle spalle questo  ideale, fabbricando arbitrariamente un passato  colle aspirazioni dell’avvenire, in contrasto colle  condizioni del presente, poco importa. È fuor  di dubbio, che il diritto naturale, se può essere  accolto, lo deve soltanto in questo senso.   Sulla base di questo contrasto tra i due fon¬  damentali significati di naturale, come ciò che è  e come ciò che dovrebbe essere, riposa la con¬  seguente divergenza tra i due elementi della co¬  mune nozione di giustizia ; poiché da un lato  siamo disposti a pensare che la consuetudinaria  distribuzione di diritti, beni e privilegi, come  anche di oneri e di pene, sia naturale e giusta,  e ch’essa debba essere mantenuta dalla legge,  come praticamente è ; ma dall’altro lato noi ri-    Zino Zini, Giustizia.    8       58    GIUSTIZIA    conosciamo pure un sistema ideale di norme di¬  stributive, il quale dovrebbe esistere, ma che  forse non è mai esistito, e consideriamo le leggi  come giuste in quanto sono conformi a questo  ideale. Tantoché Pollock scrive: * la giustizia  legale tende a realizzare la giustizia morale  nei propri ordinamenti, e la sua forza in ge¬  nere consiste nell’universale sentimento che ciò  sia » (i).   Il fondamentale problema della giustizia po¬  litica è la conciliazione tra questi due punti di  vista : il reale e l’ideale.   Cosicché concludendo sulle traccie delle spe¬  culazioni di Sidgwick e di Baldvvin, pur ammet¬  tendo che l’elemento preminente della giustizia  è una specie di parità di trattamento o un'im¬  parziale misura nell osservanza di certe norme  distributrici del bene e del male tra gli individui ;  riconosciamo che alla sua determinazione pos¬  sono essere assunti due criteri affatto diversi.  Infatti, o il criterio del diritto (final arbiter of  rights) è lo stato sociale attuale e le normali  esigenze che ne derivano, ovvero esso deve de¬  terminarsi riguardo ad un certo ideale. Nascono  quindi due giustizie : l'una conservatrice, l’altra  riformatrice. La prima è realizzata nell'osservanza  della legge e del contratto e nella forza coattiva  di certe penalità legalmente stabilite per la loro  violazione; e per essa sono rispettate le normali    (i) Pollock, Jurisprudence, eh. II, 31.         CAP. Il • LA GIUSTIZIA COME IDEA ED EMOZIONE 59    esigenze dell’ordine attuale nella società. La se¬  conda, la giustizia ideale, impone il rispetto di  quei diritti, che sono inclusi in un ideale d’uma¬  nità collettiva, in qualunque modo possa essere  questo determinato.   Due grandi concezioni morali incarnano poi  per opposte vie questo ideale di comunità poli¬  tica; l’una individualistica o della libertà, da Kant  a Spencer, press’a poco colla medesima formula  ripetuta; l’altra socialistica o dell’uguaglianza,  enunciata in termini pressoché identici da Platone  ai moderni riformatori sociali.   La prima pone la eguale libertà per tutti, come  ultimo scopo e misura delle giuste relazioni so¬  ciali ; ma non sarebbe difficile dimostrare che la  pura nozione di libertà è insufficiente come base  pratica ad una solida costruzione sociale, mentre  poi è sempre aperto il campo ad arbitraria de¬  finizione di essa e conseguenti limitazioni, rese  necessarie dal criterio di convenienza.   Ammessi anche quei limiti, e realizzata la  libertà nella misura del possibile, il nostro senso  di giustizia non sarebbe soddisfatto dinanzi ai  risultati fatali d’una concorrenza vitale, che con¬  cluderebbe coll'inesorabile sconfitta dei deboli e  dei diseredati. Il qual senso di giustizia affinato  dal consorzio, prima facie , sembrerebbe più sod¬  disfatto dall’ideale socialistico d’un'equa distri¬  buzione, fondata sul principio d’un integrale com¬  penso del merito in correlazione d’un servigio o  d’un lavoro prestato. Ma non possiamo nascon¬  derci che, quando cerchiamo di precisare questo            6o    GIUSTIZIA    principio, incontriamo nuove e non minori diffi¬  coltà (i).   Queste difficoltà appunto ci consigliano d’ab¬  bandonare la vana ricerca di un ideale di giu¬  stizia assoluta, e ci fanno ritornare, qui come  altrove, ad un criterio di relatività, di natura  essenzialmente utilitaria, nel senso cioè di affer¬  mare che l'ideale di giustizia, alla cui stregua  commisureremo gli atti individuali e collettivi,  sia la loro conformità alla generale legge del  progresso.   L’indice del progresso sociale è l’allungamento  della vita umana, in altre parole un più compiuto  adattamento a quel fascio d’energie che com¬  pongono il cosmo; nel cui ambito siamo obbli¬  gati a svolgerci. Tutte le forinole astratte sono  metafisicherie. Di positivo non sappiamo che  questo : l’abitatore della terra deve, per la legge  stessa della sua esistenza, vivere sopra di essa  quanto più a lungo è possibile. Tutte le tras¬  formazioni sociali dall'età paleolitica al giorno  d’oggi hanno camminato in questa direzione. Di¬  scutere della priorità del progresso economico  su quello morale ed intellettuale è un puerile  non senso. In realtà questa distinzione è un puro  arbitrio, poiché si tratta della stessa cosa, veduta  sotto diversi angoli visuali.   La nostra moralità è un equilibrio, nella grande  maggioranza dei casi assai instabile, tra le nostre    (i) Sidgwick, op. cit., pag. 292 e seg.                CAP. II - LA GIUSTIZLA COME IDEA ED EMOZIONE 6l    tendenze e la pressione che sopra di noi eser¬  cita la consuetudine sociale. Ogni turbamento,  sia che venga dall'interno come passione, sia che  sorga all'esterno come spostamento delle rela¬  zioni consorziali, produce quest’effetto : l'equi¬  librio è rotto e la vita morale abbassa più o  meno il suo livello sotto la media normale.   Nelle circostanze ordinarie della esistenza il  37° di temperatura morale si ottiene quasi auto¬  maticamente dalla mediocrità umana, un po’ per  quel tanto di rcstraint che l’educazione ha de¬  positato in noi, e un po’ per lo stesso stato di  pressione sociale, in cui si trova il mezzo am¬  biente, nel quale ci moviamo. Gli uomini moral¬  mente superiori sono quelli che hanno eccezio¬  nalmente elevata la potenza dei freni personali,  sottraendosi in pari tempo allo scarto derivante  dall’impulso emozionale ed a quello che nasce  dalla diminuita resistenza sociale.   Ed è ciò, che costituisce il carattere ossia la sta¬  bile unificazione della propria coscienza morale in  un sicuro equilibrio, capace di resistere agli urti,  sia interni dell’emozione, sia esterni della sug¬  gestione, subordinando la condotta ad una dire¬  zione costante. È fuori di dubbio che un tale stato  è più facilmente raggiunto dai temperamenti  semplici, che dai complessi, dai volontari più  che dagli intellettuali.   I grandi caratteri morali sono più frequenti  forse nelle società meno avanzate, accompagnano  piuttosto la vita degli individui, che sentono l’im¬  pero della fede o religiosa o politica, che non      62    GIUSTIZIA    gli uomini d'arte o di scienza troppo emotivi o  troppo scettici. Bisogna avere nel cervello poche  idee chiare, pochi principi saldi, e andare avanti  con quelli, facendo roteare la propria vita intorno  a quell’asse centrale solidamente 1 Le abitudini  critiche, il prò e il contra d'ogni cosa, disorien¬  tano il giudizio e sfibrano la risoluzione, ren¬  dendo 1 uomo colto più facile preda dell’azione  contradditoria. Il santo e il fanatico sono forse  in fondo i caratteri più temprati. Si può però  dubitare, che socialmente parlando, la loro con¬  dotta riesca in conclusione più profittevole di  quella di cento, di mille altre mediocrità, nè an¬  geli nè demoni, nè carne nè pesce.   La felicità collettiva più che dallo sforzo di  qualche volontà energica o dallo slancio di qualche  grande cuore, dipende da mille concessioni e  mille piccoli compromessi reciproci. Non è poi  improbabile che al tirar delle somme, abbiano  più contribuito al nostro reale e attuale benessere  le opere meschinissime di centomila anime vol¬  gari, che non gli eroismi sentimentali di qualche  dozzina d'apostoli della giustizia e della verità,  che compongono il libro d'oro dell'aristocrazia  morale.          ^-y^s-^VVVV» » rrr»TTfT : rr^V»»T ~-*-r »»-*-* Tr^rrTr. - , iTTTT»’    CAPITOLO III.   I frutti del lavoro e la loro distribuzione  secondo giustizia.    II problema della giustizia ha due faccie:  quella positiva della distribuzione, che forse è  più opportuno dire d ella retribuzion e; quella ne¬  gativa della repressione, anche questa forse meglio  indicata coll’espressione di giu stizia riparatrice .   Ora si tratterebbe di trovare per ciascuno  dei due aspetti della giustizia la sua forinola  adeguata.   Cominciamo dal primo quesito, che potrebbe  essere posto in questi termini: a chi debbono,  secondo ragione e giustizia, appartenere i frutti  delle cose utili, intorno alle quali si è ap plicato  il lavoro umano ? La società, in un momento qua-  lunque~ 3 ella sua esistenza, offre all’uso dei con¬  sociati una massa maggiore o minore di ricchezze,  ossia di utilità di diversa natura atte a soddisfare  una molteplicità di bisogni fisici e morali. Sotto              64    GIUSTIZIA    l’impulso del bisogno e dell’istinto d’imitazione,  tutti gli uomini, fatte pochissime eccezioni, ten¬  dono all'acquisto di queste utilità, di cui si può  molto presumibilmente ritenere che la quantità  totale è assai inferiore al bisogno complessivo  di tutti i concorrenti; e già questo fatto solo co¬  stituirebbe, come molte volte gli economisti dello  sfatte quo hanno avvertito, un ostacolo insor¬  montabile alla realizzazione della felicità di tutti,  fondata sovra un rapporto di pura eguaglianza.   Vero è, che però non si vede come ciò possa  giustificare l’accaparramento di porzioni ingen¬  tissime della fortuna complessiva, ben oltre ad  ogni concepibile bisogno, per parte di alcuni po¬  chissimi, mentre per ciò solo la grande maggio¬  ranza ne resta necessariamente privata.   Per ciò che riflette l’attuazione della giustizia  distributiva il problema, che si deve risolvere, è  quello d’una equa ripartizione de’ frutti. L’uomo  non è nel mondo, come il biblico Adamo nel¬  l’Eden, in un giardino lussureggiante di ricchezze,  per modo ch’egli non abbia che da stendere la sua  mano per prendere quanto più gli piaccia c sod¬  disfare la sete incalzante de’ suoi desideri. La  coincidenza tra il dono spontaneo della natura  e il bisogno umano è l’eccezione. La regola è  la dissociazione tra questi termini, e il lavoro  umano è quasi sempre il fattore che attua que¬  st'equazione.   L’utilità che le cose hanno, ossia la loro ap¬  plicabilità alla soddisfazione dei nostri bisogni,  è ciò che comunemente chiamiamo il valore         CAP. Ili • I FRUTTI DEL LAVORO, ECC.    65    degli oggetti ; ora questa qualità vantaggiosa è  quasi sempre il risultato d’un processo di mani¬  polazione, per cui si realizza il loro adattamento  alle nostre necessità fisiche e morali. Questa me¬  tamorfosi dal naturale all’artificiale è lavoro.   11 lavoro è adunque il maggior coefficente del  valore, sempre quando sia applicato a creare le  utilità, e queste sono indicate dal bisogno.   In una dottrina giuridica relativa ai frutti, bi¬  sogna abbandonare il punto di vista classico, che  li considera come prodotti organici (organiscke  Erzeugnisse) delle cose naturali, uniti quindi per  un vincolo di accessoria dipendenza a quegli  oggetti, che formano la materia precipua del di¬  ritto superiore di proprietà (accessori-uni sequitur  principalej, per accogliere il concetto nuovo di  giustizia che emerge da una più chiara coscienza  dei rapporti economici, e che fa capo all’idea  fondamentale di lavoro e considera la ricchezza  come un risultato sociale, e i frutti come pro¬  dotti superorganici (1).    (1) Sul concetto di frutto conf. Heimbach, Die Lehre  von der Frucht, 1843. — Janke, Dos Fruchtrecht des red-  lichen Besitzers und des P/andg/aubigers, 1862. —  Goppert, Ueber die organischen Erzeugnisse, 1869. —  Brinz, Lehrbuch der Pandekten, 1873 ,1 B, S. 546-554. —  Windscheid, Lehrbuch des Pandektenrechts, 1882 ,1 B, S.  591-598. — Leo von Petrazycki, Die Lehre vom Einkom-  men. Berlin, 1893, I B, S. 6-12; dove illustra molto bene il  passaggio dalla unilaterale ed oggettiva concezione del  frutto come un prodotto della natura a quella che lo consi¬  dera soggettivamente in relazione all’uomo come un ri¬  sultato del suo lavoro. La teoria naturalistica dei frutti è    Zrso Zini. Giughi».    U         66    GIUSTIZIA    Ricercare la causa della continuità nella tra¬  dizione giuridica di Roma e della sua persistente  azione nel sistema odierno di diritto è problema  storico, che non può qui occuparci. Constatiamo  soltanto il fatto. « Un biologo può da un solo  frammento fossile ricostrurre tutta la forma di  un animale primitivo. Analogamente può dirsi  degli istituti sociali. Ma nel caso nostro se do¬  mani si desse ad un sociologo l’incarico di de¬  terminare, partendo dal Codice come da un  documento storico, a qual grado dell’evoluzione  civile appartenga la società ivi descritta, e di ri¬  costruire su di esso tutto l’edificio del corrispon¬  dente corpo sociale, certo quel dotto e brav'uomo  andrebbe ad urtare in ostacoli insormontabili.  Da talune parti del Codice trarrebbe la conclu¬  sione, che al momento della sua compilazione,  quel popolo si occupasse quasi esclusivamente  d'agricoltura e che ad ogni modo la grande pro¬  duzione industriale dell'epoche posteriori non  esistesse, che le relazioni del credito fossero an¬  cora alla loro fase embrionale, che la cosidetta    in fondo provvidenziale e teologica, come appare dal  citato passo di Galvanus, De usufructu dissertationes  variae, 1788, pag. 327: “ Generari lapides e terra fri-  gefacta geluque conscricta docet Plutarchus. Notandum  igitur est lapides nasci, vivere, crescere, mori, renasci sic  providente creatore, qui voluit edam viscera terrae am¬  mani ud, vel abjecdssima mundi portio miraculis omnipo-  tentiae divinae superbiret,,. Il frutto è una sua creazione:  “ is tantum fructus naturalis est, qucm res aliqua natu-  raliter et se ipsa producit, cum a ferendo ipsum quoque  fructus nomen sit derivatum ...      CAP. Ili - 1 FRUTTI DEL LAVORO, ECC.    67    questione sociale non fosse ancora sorta, che il  lavoro libero rappresentasse ancora una parte  insignificante dell'economia nazionale. È vero che  d’altra parte cercherebbe invano gli schiavi, e la  traccia della produzione servile, che stava a base  dell’antica società. Cosicché dovrebbe conchiu¬  dere che le disposizioni del Codice non offrono  per nulla il vero ritratto dello special grado di  civiltà, del quale pure è chiamato a regolare i  rapporti » (1). Ed è vero, poiché le relazioni sociali  dell’antica Roma prevalgono invece delle moderne.   Nessun dubbio che il mondo economico mo¬  derno non può essere contenuto in una veste  legislativa cavata fuori dal Corpi/s juris. Esso  domanda che gliene sia tagliata una più comoda  c nuova nella viva stoffa dei rapporti sociali, che  la società ha elaborato.   L’economia del mondo antico à per fulcro  la schiavitù. In un siffatto sistema i rapporti tra  capitale e lavoro sono profondamente spostati.  La questione sociale, almeno come l’intendiamo  oggi giorno, non esiste ancora. Ciò che con  quella si confonde dai più é il pauperismo, cosa  assai diversa. Giudicare le leggi agrarie o fru¬  mentarie, l'agitazione dei Gracchi o la complicata  legislazione sul panis gradilis (2) come prodromi  del movimento sociale contemporaneo, è indizio  di corta veduta, di mancanza di critica nell'ap-    (1) L. von Petrazicki, op. ci/., II B, 1895, S. 45 °-   (2) Hodgkin, ltaly and her invaders. Oxford, 1892,  voi. Il, pag. 565 e seg.              68    giustizia    prezzamelo dei fatti storici. Se fosse vera la de¬  filimene grossolana, che i Tedeschi hanno dato  della questione sociale nell’aforisma die soziale  rage ist eme Magenfrage , essa sarebbe dav¬  vero antica come il mondo. Ma in verità v’è qui   qualchecosa di più che una semplice questione  di stomaco.   Il pauperismo è un fenomeno patologico, che  accompagna la vita della società umana, più o  meno acuto, più o meno latente, secondo il grado  i civiltà o 1 intensità delle crisi economiche. Il  suo triste spettacolo si offre tuttora ai nostri  occhi tra i miracoli della nostra attività scientifica  e della nostra ricchezza industriale, tanto da far  esclamare al Brunetière, dinanzi alla miseria nera  d una grande città americana: * Quanti misera-  ih ci vogliono per fare una metropoli del  AlX secolo! » (i).   L oriente in tutte le sue legislazioni e in tutte  e sue religioni, da Buddha a Maometto, ha com¬  battuto questo flagello coll’elemosina. È questo  Io specifico somministrato per secoli di cura al  gran corpo malato, senza che l'attesa guarigione  sopraggiungesse. Forse si era confuso il veleno  coll’antidoto.   A Roma, il pauperismo, che finisce alla cerchia  de le mura, prende un aspetto essenzialmente  politico. La grande capitale dell'impero, che ha    (x) F. Brunetière, Dans l'Est America,,,.  des deux-Mondes i« nov. i8q 7 .    Revue          CAP. U 1 • I FRUTTI DEL LAVORO, ECC.    69    spogliato il mondo a suo profitto, sacrifica una  quota minima del bottino per saziare lo stomaco  della sua plebe oziosa e miserabile. Impossibile  confondere la famelica e sfaccendata plebe di  Roma col proletariato del tempo nostro.   Il lavoro libero era allora depresso dal lavoro  servile; il capitale comperava non il lavoro sol¬  tanto, ma lo stesso lavoratore, lo schiavo, acqui¬  stando sopra di esso un diritto pieno, assoluto,  duraturo. Il tipo di legislazione, che si dovette  formare allora per regolare i rapporti nascenti  da una siffatta condizione, non può adattarsi ad  una società, che ha per base della sua vita eco¬  nomica il contratto, e la legge dell’offerta e della  domanda.   La società classica non ha prodotto mai la  persona libera di sò, responsabile dei suoi atti e  padrona della sua attività, in altre parole l’uomo,  che sotto ogni aspetto della vita sua, e sopratutto  sotto quello economico, provveda a se stesso, e  governi se stesso, l’individuo del self-help e del  self-government ; il cui tipo energico spicca così  bene nella civiltà industriale e democratica d’In¬  ghilterra e d’America. Certo si parla spesso in  Roma della persona sui juris, ma essa è pura  astrazione, finzione giuridica. In realtà la vita ro¬  mana è rimasta alla fase della fatnilia e del-  \urbs. L’individuo non esiste, l’uomo è civis o  paterfamilias. Civitas e patria potestas , ecco i  due maggiori diritti che competono alla persona.  Insomma è l'uomo nel gruppo, civitas, gens , fa-  milia , è sempre il regime comunitario e corpo-     ?o    GIUSTIZIA    rativo proprio del mondo antico, esso si perpetua  trasformato nel medio-evo colla feudalità, col  convento, colla maestranza, col Comune.   Il diritto, che emerge da questo sistema di re¬  lazioni, è essenzialmente corporativo, e deriva  all'uomo più dalla sua posizione nel gruppo che  dal suo sforzo personale. Nè poteva essere di¬  versamente in una società, nella quale il lavoro  non crea il diritto.   L’opera servile produce la ricchezza a favore  di chi possiede lo schiavo, nell’agricoltura o nel¬  l'industria. Al di sopra di queste jumili forze  produttrici, stanno la professioni liberali con un  carattere prevalentemente gratuito, le cariche  ad honorem , le gestioni degli affari altrui e degli  altrui patrimoni (mandatimi e depositata), adem¬  piute come officium o amicitia , senza com¬  penso (i).   Ora non è chi non veda quanto i termini si  siano spostati. Mentre, nella società antica, di cui  il diritto romano è l’espressione formale, il la¬  voro personale non crea il diritto economico,  perciò appunto ch’essa è basata sul privilegio di  casta, di classe o di città, e quella civiltà non  perviene mai all'idea dell’uomo libero, lavora¬  tore e produttore, il mondo moderno ha consa¬  crato questo principio della libertà di lavoro ed  ha organizzato un sistema complesso di produ¬  zione che ha per fondamento la cooperazione.    (1) Petrazicki, op . cit ., II, 442.          CAP. Ili - I FRUTTI DEL LAVORO, ECC.    71    La terra è diventata sotto i nostri occhi una  vasta e maravigliosa officina di trasformazione e  specificazione industriale. L’intelligenza umana,  servita da una molteplicità di organi meccanici  ognor più differenziati ed adatti, plasma la ma¬  teria e crea la forma industriale, il manufatto,  l’oggetto d’uso, in altre parole attua l'utilizza¬  zione umana del mondo. Il problema della giu¬  stizia distributiva è il problema della equa ap¬  partenenza dei frutti del lavoro sociale. Invano  noi domandiamo la sua soluzione ai nostri sistemi  di diritto civile, infeudati all’idea tradizionale ro¬  mana d’un dominium ex iure quìritium , che va  fino a W'u tendi ed abutendi della cosa, che con¬  cepisce il diritto di proprietà come una terribile  forza d’attrazione, che come una legge di gravità  giuridica fa ripiombare sul proprietario, quanto  avendo avuto o potendo avere attinenza coll'og¬  getto da lui posseduto, rientra nel circolo magico  del suo dominio. Nè deve maravigliarci se il  mondo classico, Roma specialmente, abbia svolto  in tutta la sua forza il concetto del proprietario  (dominus) e della proprietà (dominium ex iure  quiritium). Questa astrazione giuridica è nata in  opposizione dello schiavo (servus) e dello straniero  (kosiis , peregrinile), e si è fortificata sotto l’impero  predominante della forza. Al contrario oggi si svi¬  luppa in più larga misura l’idea dell’usufrutto e  del godimento. Le proprietà perdono quel ca¬  rattere di esclusiva distribuzione e di rigida ap¬  partenenza ed adesione ad un uomo o ad un  consorzio, per assumere un valore di posizione       72    GIUSTIZIA    molto relativo, rispetto a chi ne ha il godimento.  Non è possibile valutare fino a qual punto il cri¬  stianesimo abbia contribuito a svolgere questa  coscienza della transitorietà e della fugacità dei  beni di questo mondo, dando al vincolo che  unisce la ricchezza all uomo un valore di relativa  dissolubilità e di fortuita adesione, cui l'uomo  non deve attribuire molta importanza. Ciò in  complesso ha dovuto indebolire il rude senso del  possesso creato dalla forza nei tempi classici.  L elasticità del rapporto economico moderno e  la larga sostituzione del simbolo sotto tutte le  forme (carta moneta , rendita , titoli industriali , ecc.)  alla proprietà reale, creano certo la condizione  più favorevole alla formazione della coscienza  dell’usufrutto.   Il grande proprietario moderno è più che altro  un amministratore; alla dissipazione lussuosa an¬  tica, che ha per base 1 egoismo, si sostituisce  progressivamente l’uso sociale della ricchezza  nell'incremento dell’industria, della coltura, della  beneficenza (i).   Le grandi fortune patrimoniali appartengono  oggi all’uomo più come mezzo di produzione e    ^ fi) Sono i concetti espressi dal miliardario Andrew  Carnegie sulla funzione della ricchezza. — Confr. Wundt,  Ethics (trad. ingl.), voi. Ili, London, 1901, pag. 129-200:   I roppo diffusa è l’insensata nozione che la proprietà  è un diritto, al quale non corrisponde un dovere „, “ la  pubblica coscienza è sempre più vigile verso le forme im¬  morali dell’acquisto, che verso quelle immorali dell’uso            CAP. Ili - I FRUTTI DEL LAVORO, ECC.    73    di potenza economica o politica, che non come  mezzo di consumo. Si è per così dire verificato  col progresso civile un livellamento nella poten¬  zialità della spesa individuale, per cui il ricco  oggi è tale più per quello che fa che per quello  che consuma. La ricchezza diventa nelle sue mani  una vera funzione sociale. Il palazzo favoloso di  un nabab, le vesti di seta e d’oro, il servitorame,  i banchetti, Xharem , ecc., in una parola il lusso  asiatico, il fasto del patrizio romano, la corte  bandita e le baldorie del castellano medioevale,  la mensa del canonico, ecc. (i), tutto a poco a poco  scompare dinanzi alla democratizzazione della  vita, e il denominatore comune d'uno standard  oj life medio, realizzato e generalizzato dal com¬  fort > dallo sport , dalla strada ferrata e dall 'hotel,  per modo che un individuo, che maneggia mi¬  lioni di affari vive, alloggia, veste, mangia e si  diverte press'a poco come il modesto impiegato  a poche migliaia di lire di stipendio.   L’uomo moderno è essenzialmente un produt¬  tore; ma non basta; questo concetto deve coni¬    li) Sul lusso della nobiltà francese nel secolo XVII  vedi G. Hanotaux, Histotre dii Cardinal de Richelieu.  Paris, 1896, tom. I, pag. 225. Un abito solo costava da  tre o quattro mila lire, e un gentiluomo ne cambiava  parecchi. “ Toute la noblesse du royaume étoit fondue  de luxe „ diceva Luigi XIII. Oggi questo sperpero pel  vestiario si è trasferito, benché in proporzioni minori,  nella donna. — Sul lusso femminile in Italia nel se¬  colo XIV vedi Ph. Monnier, Le Quattrocento. Lausanne,  1901, I, pag. 72.    Zino Zini, Giustizia.    10       74    GIUSTIZIA    pletarsi con quest'altro: l’uomo moderno è es¬  senzialmente un cooperatore ; produzione e  cooperazione sono i due cardini della vita eco¬  nomica moderna (]).   Quindi una dottrina giuridica del frutto e della  sua legittima appartenenza deve foggiarsi corre¬  lativamente a queste nuove condizioni di fatto,  realizzate dal consorzio umano nell’attuale fase  del suo sviluppo industriale. La giustizia esige  il rispetto della realtà storica. Le contraddizioni  tia il fatto e il diritto si traducono in iniquità.   Ora se noi ci domandiamo quale concetto si  fa la legge civile di frutto, e in base a tal con¬  cetto come ne fissi l’appartenenza, scorgiamo  subito quanto di inadeguato, e quindi di ingiusto,  sia nella costruzione giuridica, e perciò nella  forinola legislativa, che a quella s’informa.   Persiste infatti tuttora nella legge l’idea del  frutto come prodotto naturale, la quale si formò  nel diritto antico, per la convergenza di diversi  fattori d’indole taluno psicologico, tal altro so¬  ciale. I giureconsulti romani non vi hanno visto  che il risultato delle forze attive della natura,  ciò che dovette anche dipendere, oltre che dal    (i) L. Stein, La question sociale au point de vuc piti-  losop/iique, Paris, 1900, p. 349. - Albion W. Small,  General Sociology, Chicago, 1905, dimostra che la civiltà,  come organizzazione dei fini, è un alterno processo  d’emersione di interessi privati sotto la pressione del  bisogno personale, e di riduzione di questi stessi inte¬  ressi al denominatore comune dell’utilità sociale.          CAP. Ili - I FRUTTI DEL LAVORO, ECC.    75    carattere rudimentale della industria e della man¬  canza della coordinazione economica, dalla pre¬  valente concezione animistica e personale della  natura e delle sue forze (alma tellus). Come tutto  ciò è oggi profondamente mutato, e come balza  chiaro ai nostri occhi il significato profondamente  sociale del frutto, che ha il lavoro umano associato  per sua condizione assoluta ! Una teoria nuova,  coll’intervento deH’elemento sociale, si lascia già  intravedere feconda di larghissimi corollari per  l'attuazione della giustizia distributiva.   11 concetto abituale del frutto naturale, pro¬  dotto organico, perde terreno ed è sostituito da  quella del frutto prodotto supcrorganico nel  senso spenceriano, poiché è stato giustamente  osservato, che non valgono le leggi della biologia,  bensì quella dell’economia e della sociologia  nelle costruzioni giuridiche (i).   Tuttavia l’arresto di sviluppo e la cristallizza¬  zione conservatrice, che sono la caratteristica dei  sistemi legali, ci riconducono ancor oggi alla tradi¬  zionale concezione del frutto della dottrina ro¬  mana, quando leggiamo ancora nel nostro Codice :  « i frutti naturali e i frutti civili appartengono per  diritto d'accessione al proprietario delle cose che li  produce. Sono frutti naturali quelli che proven¬  gono direttamente dalla cosa, vi concorra o non vi  concorra l'industria dell’uomo. Sono frutti civili  quelli che si ottengono per occasione della cosa» (2).    (1) Petrazicki, op. a/., I B, S. 7.   (2) Cod. civ., art. 444.           76    giustizia    Con quanta ipocrita modestia questo umile  articolo di legge risolve in un batter d'occhio  uno dei problemi fondamentali dell’economia e  del diritto !   Parlare di (rutti naturali provenienti da cose,  senza che vi concorra il lavoro umano, supporre  in altri termini la spontaneità del frutto, il sem¬  plice dono della natura, è quanto meno una bella  ingenuità nel nostro mondo meccanico, dove tutto  è diventato industria, e dove ogni industria, spe¬  cializzandosi e corredandosi pel proprio esercizio  di mezzi tecnici sempre più complessi, suppone  una crescente applicazione di lavoro umano. Ma  non è ancora qui il nodo della questione. Poiché  si tratta dell’equa aggiudicazione dei frutti delle  cose, intorno alle quali si è applicata una somma  maggiore o minore di lavoro, sorge spontanea  la domanda: quali sono i diritti di questo lavoro?  quali i diritti di chi già detiene la cosa lavorata  come proprietà? Poiché questo è il fatto, che le  piesenti condizioni economiche realizzano quo¬  tidianamente e che il legislatore, che ha gli occhi  al passato, per sempre morto nella storia, non  sembra neppur sospettare; la dissociazione costante  tra materia prima, stromenti e mezzi di produ¬  zione, e lavoro trasformatore e creatore di ric¬  chezze! L insufficenza legislativa appare manifesta,  quando per troncare la questione si provoca l’in¬  tervento inaspettato d’un Deus ex mackina , sotto  forma di diritto d’accessione, per cui i frutti delle  cose sono fatalmente attratti verso il proprietario  di esse.           CAP. Ili - I FRUTTI DEL LAVORO, ECC.    77    Accessio cedit principali. Ecco un canone giu¬  ridico ereditato dalla romanità e formatosi nella  società classica, sotto l’azione di peculiari con¬  dizioni economiche, che oggi si sono profon¬  damente mutate. Infatti il concetto dell’acces¬  sione dei frutti al proprietario della cosa, è la  logica creazione d’una società a schiavi, in cui  il lavoro umano servile non era un elemento  attivo, ma esclusivamente passivo nella produzione  della ricchezza. Lo schiavo sul terreno del pa¬  drone lavora, il terreno produce, lo schiavo, il  terreno, i frutti sono del dominus del fondo.  Questo è il fatto reale, indipendente da ogni  speculazione filosofica o costruzione giuridica,  precedente ad ogni aforismo e ad ogni teoria.  Ex facto oritur jus. Più tardi, trattandosi di de¬  finire in un sistema di legge e di dottrina, in  base a qual principio giuridico il proprietario di  un fondo possa detenere le piantagioni, che altri  vi abbia seminate, ovvero come possa dichia¬  rarsi proprietario dell’edifizio, che altri vi abbia  innalzato, sorse il concetto d’accessione, che è  caratteristico per l’essenza del dominio, e sta a  rappresentare un elemento organico della pro¬  prietà romana, l'attrazione materialistica, che  questa esercita su tutto ciò, che rientra nel suo  chiuso recinto e indirettamente anche la repul¬  sione a tollerare entro la sua sfera diritti stra¬  nieri (i).    (i) Bonfante, Istituzioni di diritto romano. Milano,  1902, pag. 225 e seg.          78    GIUSTIZIA    Cosicché, se ben si guarda in fondo all’isti¬  tuto dell’accessione romana, v’è come un conflitto  tra due forze giuridiche, quella rappresentata dal  dominio, e quella rappresentata da un valore se¬  condario, che al primo si aggiunga, che in quello  s’incorpori per modo che il conflitto termina colla  vittoria del più forte (i).   Ma questo medesimo concetto di principale  ed accessorio, introdotto nei diritto odierno per  risolvere il problema della legittima appartenenza  dei frutti, è un assurdo, poiché o la loro acquisi¬  zione ò basata sopra un diritto sulla cosa che li  produce, ovvero è basata sopra un rapporto di  persona o quanto dire un contratto. Ad ogni  modo non c’è qui conflitto giuridico tra princi¬  pale od accessorio come nel concetto romano,  c'è anzi cooperazione, collaborazione per il pro¬  dotto nuovo, ogni qualvolta, come può dirsi nel  mondo economico moderno accade quasi sempre,  sia necessario alla creazione dell’ utilità il con¬  corso del lavoro umano. Ora il più elementare  senso di giustizia vuole, che là dove il fatto della  cooperazione produttiva si manifesta, al diritto  d’accessione, che è l’espressione del diritto del  più forte nella meccanica giuridica, si sostituisca  il concetto nuovo dell’equa partizione del fratto  ottenuto.   Si può veramente dire che il diritto antico  non abbia conosciuto questo problema, divenuto    (i) Bonfante, op. cil., pag. 234.         CAP. Ili - I FRUTTI DEL LAVORO, ECC.    79    oggi così comune della trasformazione della ma¬  teria prima per effetto del lavoro e la conseguente  creazione di un valore nuovo? feenza dubbio no;  soltanto che le condizioni particolari della pro¬  duzione economica ne fecero piuttosto un’ecce¬  zione che non la regola ordinaria, cosicché sotto  un prevalente sistema di lavoro servile, applicato  ad una proprietà assoluta ed esclusiva, non potè  sorgere di fronte a qualche sporadico caso di  opera industriale libera, altra preoccupazione  che quella di una curiosità giuridica, una eie-  gantia juris, qual’è veramente in diritto romano  la dottrina della specificazione, colla sua ben nota  disputa tra Proculeiani e Sabiniani (i).   11 pensiero di questi ultimi, dinanzi al quesito:  ex aliena materia speciem aliquam facere , de¬  sunto dalla nattiralis ratio , è che il proprie¬  tario della materia acquisti anche la proprietà  della nuova cosa prodotta, mentre i Proculeiani  propendevano per la soluzione opposta. Era il  concetto dei Sabiniani più antico e meglio ri¬  spondente alla classica concezione della proprietà  romana, per cui essa aderisce alla sostanza delle  cose, per modo che sia naturale conseguenza  dell'idea di dominio, che il proprietario della ma¬  teria rimanga anche proprietario dell’ oggetto  fabbricato con essa? Può essere; e in tal caso  questo principio corrisponderebbe anche alle con¬    fi) O. Karlowa, Romische Rechtsgeschichie. Leipzig,  1892, Il B, I Ab, S. 427, ff. — Bonfante, op. cit., pa¬  gina 230.           8 o    GIUSTIZIA    dizioni reali dei tempi antichi, quando ciascuno  doveva essere allora, rispetto ai suoi rapporti  economici, in condizioni d’isolamento, ciascuno  doveva produrre coll’aiuto degli schiavi e della  famiglia quello di cui abbisognava.   Che taluno poi qua e là abbia potuto lavorare  talvolta intorno a materia aliena, può essere ac¬  caduto, ma dovettero essere casi rari, che non  potevano dare sufficente motivo per creare un’ec¬  cezione al principio sostanziale del concetto di  proprietà. Come poi la divisione del lavoro si  formò, e le industrie di fabbricazione si organiz¬  zarono con una certa estensione, potè anche  esser fatto valere il pensiero, che dovesse appar¬  tenere al fabbricante la proprietà sul fabbricato  in ogni caso. Quindi dovrebbe essere il cangia¬  mento successivo nei rapporti reali, che ha pro¬  vocato l’opinione dei Proculeiani.   Questo non è però il pensiero di qualche ro¬  manista competentissimo, il quale dubita che ve¬  ramente così tardi sia l'industria diventata un  ramo della produzione per sè stante presso i Ro¬  mani (i). Forsechè soltanto verso la fine della Re¬  pubblica hanno i proprietari rurali romani comin¬  ciato a produrre vino ed olio anche per uso  altrui e a farne commercio? Hanno gli abitanti  delle città, specialmente di Roma, fatta eccezione  dei ricchi, i quali possedevano molti schiavi, po¬  tuto produrre da sè con proprio materiale tutto    (i) Karlowa, op . cit .         CAP. in - I FRUTTI DEL LAVORO, ECC.    8l    ciò che esige il bisogno della vita? Secondo il  suo pensiero anche i Sabiniani vedono in quel  ex aliena materia speciem aliquam facere la in¬  tenzionale creazione di cosa nuova per mezzo  d'un fatto umano e non soltanto un mutamento  della stessa cosa. Scompare il primitivo oggetto  e Gaio parla della cosa manipolata come d’una  extinta res, nuovo è l’oggetto del diritto, diversa  è la proprietà su di esso dalla proprietà sulla  materia. Certo la proprietà comprende anche la  sostanza contenuta nella forma della cosa, ma  la forma non è indifferente per l’identificazione  dell oggetto del diritto. Un completo rimaneg¬  giamento della cosa, come annientamento della  forma preesistente, è annientamento dell'oggetto  del diritto, ossia annientamento del diritto stesso.  Poiché la proprietà abbraccia anche la materia,  può anche, secondo la concezione dei Sabiniani,  produrre che il proprietario del primo oggetto  del diritto acquisti la proprietà del nuovo oggetto  del diritto. Che, secondo il concetto di Gaio, la  specificazione annienti l’antico oggetto e il cor¬  rispondente diritto di proprietà, risulta da ciò  ch’egli non pone a fondamento dell’opinione dei  Sabiniani : quia eadem res est, sed quia sine ma¬  teria nulla species effici potest. 11 proprietario  della materia acquista la proprietà del nuovo  oggetto del diritto, perchè questa, senza la preesi¬  stente contenutavi materia non avrebbe potuto  sorgere. E allora trattandosi di cosa nuova , sorta  intenzionalmente per fatto umano, la naturalis  ratio, sembra al Karlowa che, secondo il carat-    Zino Zini, Giustizici.    Il          82    GIUSTIZIA    tere morale e giuridico romano, che dà maggior  peso al fatto che alla materia, debba dichiararsi  in favore del trasformatore. L’impronta perso¬  nale imposta alla materia indica il dominus di  essa. Noi non vogliamo impegolarci di più in  queste sottili bisantinerie del diritto e della sua  interpretazione; ma è dubbio, che la personalità  di cui ragiona il Karlowa sia quella personalità  di lavoro e di produzione economica, che forma  oggi la base della più moderna rivendicazione  al prodotto integrale del lavoro (i). A Roma ha  prevalso il concetto pubblico sul privato. L’an¬  tichità, che dal più al meno è comunitaria e col¬  lettiva nell ’oikos o nella polis, non conosce nò  il lavoro, nè la coscienza personale. Ma nel tempo  nostro, la progressiva emancipazione dell’ indi¬  viduo gli ha fatto acquistare un valore personale,  che si esplica nell’ ordine economico, come in  quello morale.   Tutto oggi è lavoro; non si può più parlare  di frutti senza concorso di lavoro umano. Quindi  il criterio proporzionale del diritto riposa oggi  sul lavoro personale, in rapporto alle generali  condizioni della società, cioè apprezzato dal punto  di vista dell'utilità collettiva. Se specificazione è  la trasformazione della materia, tutto il processo  industriale è una continua specificazione, com¬  piuta sulla base d’un contratto, che non deve    (i) A. Menger, Le droit an prodiiit integrai da travati .  Paris, 1900.         CAP. in - I FRUTTI DEL LAVORO, ECC.    83    essere solo imposto come una necessità econo¬  mica, ma accettato come una giustizia sociale.   Se la questione sociale è, per la massima  parte, la questione della distribuzione dei frutti,  essa non si può risolvere senza prendere come  punto di partenza il lavoro, che è il precipuo  fattore della trasformazione specificatrice.   Il fondo dell’economia moderna è un vasto  sistema di collaborazione, che tende a farsi sempre  più cosciente e perciò ad affermarsi in correla¬  tivo sistema di diritti riconosciuti. La ricchezza  è il prodotto del lavoro intellettuale e tecnico  coordinato, e la grande industria ha centuplicato  la forza creatrice di questo lavoro, sussidiato  dalla macchina e diretto dalla scienza: i processi  di fabbricazione complicatissimi fanno passare  del tutto in subordine la materia prima, che il  più delle volte à un valor minimo. Convengono  verso questa ricchezza per la sua distribuzione  le forze produttrici : l’interesse del capitale, il  profitto dell’impresa, la rendita della terra, il sa¬  lario della mano d’opera, il premio dell’assicura¬  zione. L’equa determinazione di ciascuna di queste  proporzioni dovrebbe essere la forinola della giu¬  stizia distributiva. Ma possiamo sperare di trovarla  o dobbiamo lasciare che si determini da sè stessa,  secondo l’opportunità? L’equazione economica  ha troppe incognite, per poter esser risolta nello  stato attuale della società industriale; ma è ab¬  bastanza visibile la tendenza generale e per così  dire il limite, verso cui la formola della giustizia  distributiva si avvicina. La concorrenza crea essa          8 +    GIUSTIZIA    stessa l'accordo. Il capitale impersonale scende  progressivamente ed automaticamente al saggio  del minimum d'interesse, e ciò per l’affluenza  stessa dei capitali creati dal risparmio verso un  impiego industriale, che assicuri loro il tasso nor¬  male del mercato, quando un sistema d'assicura¬  zione li tuteli, oltre che dai soliti rischi, anche  da quelli più strettamente dipendenti dalle crisi  economiche. L’avvenire dell'assicurazione è la  formola pratica della solidarietà sociale, e rappre¬  senta un sistema d’equilibrio e di compensa¬  zione reciproca dei vari fattori della produzione  e del lavoro (x).   Anche l'elemento del profitto è soggetto ad  un processo di trasformazione regressiva : è in  questo senso che la speculazione deve far posto  alla cooperazione produttiva ; l'imprenditore sarà  sostituito dal direttore tecnico. Ualea, che ha  rappresentato e rappresenta tuttora tanta parte  della vita economica, tende ad eliminarsi grado  a grado per la regolarizzazione dei mercati. Ci  avviamo verso l’unità delle forze economiche,  l’equilibrio dell’atmosfera industriale. Si fissano  i tipi dei prodotti, si uniformano i processi  tecnici, si eguagliano i prezzi, si specificano i  centri di produzione. Ciò che oggi si ottiene col  protezionismo di Stato e coi trusts , si otterrà do¬  mani con una naturale legge di accentramento    (i) Novicow, Les gaspillages des sociétés moderna.  Paris, 1894, pag. 312-313.        CAP. IH • I FRUTTI DEL LAVORO, ECC.    85    e di distribuzione nella produzione; si delimite¬  ranno spontaneamente le zone economiche sulla  carta terrestre. Diminuendo il fattore casuale, la  speculazione perde del suo carattere di legitti¬  mità in favore della partecipazione agli utili. Ora,  il lavoro umano, massimo tra i fattori nella  creazione della ricchezza, non sarà ammesso a  questa partecipazione ai benefici d’ un’ impresa,  mentre vi è ammesso sotto forma di dividendo  il capitale d'un azionista qualunque, che non  prende personalmente parte all’opera comune, se  non versando una somma* di danaro ?(i).   Se il problema della giustizia è essenzialmente  quello della distribuzione dei beni, soltanto una  ulteriore evoluzione della società potrà risolverlo    (1) Sulla questione della partecipazione ai benefizi  industriali (profit-sharing — Gewinnbetheiìigung) confi  E. Waxweiler, La participation aux béncficcs. Paris,  1898. — Quarterly Review, January 1905. — Ch. Gide,  La partecipazione ai benefizi, nella Semaine littéraire, di  Ginevra, tradotta nell 'Idea Liberale, di Milano, 15 gen¬  naio 1905. Nell’evoluzione del salario, l’Inghilterra è  entrata in questa fase espressa dalla formula : " il sa¬  lario varia secondo la situazione degli affari „. Agli  argomenti di P. Leroy-Beaulieu e di Y. Guyot, che  negano alla partecipazione fondamento di giustizia e di  scienza, giungendo a definirla un unearned increment,  Gide risponde: " gli operai ànno un diritto su tutte le  ricchezze uscite dalle loro mani „. Progetti legislativi  in tal senso sono stati presentati alla Camera francese  c al Parlamento dello Stato più avanzato dal punto di  vista sociale, degli Stati Uniti, il Massachusetts. Confi  anche Pierson, Trattato d‘economia politica. Torino, 1905,             86    GIUSTIZIA    adeguatamente, che abbia per meta quello Stato  democratico del lavoro, il quale mira in modo  precipuo allo scopo di organizzare il lavoro in¬  tellettuale e materiale dei cittadini e la distri¬  buzione dei frutti prodotti da questo lavoro  nell’interesse'MeH’intera popolazione (i).    I, pag. 66, dove esclude che il salario faccia parte del  costo di produzione, ma bensì del reddito dell’impresa.  I collaboratori della produzione partecipano al suo be¬  nefizio. Salari, interessi e profitti non sono parte del  costo, ma frutti del lavoro di produzione, suoi risultati,  non sacrifizi, ma guadagni; — pag. 78: “ la totalità dei  prodotti dell’intera società forma come una grande co¬  munità, a cui ognuno che partecipa all’ industria for¬  nisce il suo contributo, e la disponibilità di tale comu¬  nità di beni si divide tra coloro stessi che contribuirono ;  la divisione si effettua, per quanto si riferisce alla gran¬  dezza delle quote, secondo il valore dei contributi di  ciascuno, e per ciò che si riferisce alla specie degli og¬  getti, secondo la libera scelta „.   (1) Menger, Lo Stalo socialista, p. 56-57, 125 e seg.          &&ÉÉÉÉÉÉÉ&ÉÉÉÉ    CAPITOLO IV.   Libertà od eguaglianza.    Quando ci poniamo innanzi il problema della  giustizia, bisognerebbe far precedere questa pre¬  giudiziale: la soluzione che intendiamo proporre  è destinata a rimanere in un ordine di relazioni  puramente astratte, oppure vuole tradursi in una  pratica attuazione più o meno approssimativa  dei nostri ideali? Perchè in realtà c’è ancora un  enorme cammino tra il dominio speculativo e il  campo pratico : — nel primo la ragione umana  gode d'una illimitata libertà di pensiero, nel se¬  condo la volontà non dispone che di scarsi mezzi  d’azione!   Gli è così che costruendo teoricamente l 'homo  rationalis, precipitato della speculazione, in cui  si distillano i caratteri essenziali della sua natura  fisica e spirituale, eliminando le scorie etero¬  genee che vi à fatto aderire il processo storico  della civiltà, possiamo facilmente pervenire al  postulato platonico dell’uguaglianza di fatto, ov-               88    GIUSTIZIA    vero a quello kantiano dell’uguaglianza di diritto :  possiamo affermare: la giustizia esige parità di  trattamento, e questa parità di trattamento si  raggiunge, sia ponendo gli uomini in condi¬  zione di Maturale uguaglianza, sia ponendoli in  quella di uguale libertà. E così si mettono di  fronte i due avversari tradizionali, l’apostolo delle  rivendicazioni sociali, che costruisce il piano pere-  quatore delle sorti umane, e il filosofo della libertà,  che domanda il rispetto della persona umana  e il conseguimento spontaneo della sua finalità.  E non si accorgono nè l’uno nè l’altro, che  mentre non vi può essere una reale uguaglianza  imposta, e che perciò essa suppone una parallela  libertà, nemmeno può l’uomo essere considerato  in condizioni di ugual libertà pratica coi suoi  simili, se non si trova con essi sopra un piede di  relativa uguaglianza di fatto. Cosicché in fondo  è sempre la medesima questione veduta da due  punti diversi: eguaglianza è stato, libertà è moto.  Ma in realtà statica e dinamica si riuniscono  nel mondo fisico come in quello morale; nella  meccanica sociale l'individuo è attualmente quello  che à potuto essere, e sarà in rapporto a quello  che è; la potenza e l’atto, il virtuale e il reale  non si scindono che nelle nostre astrazioni.   Dobbiamo accontentarci di riporre l’ideale della  giustizia sopra la base di una eguale condizione  di libertà, ovvero dobbiamo sforzarci di raggiun¬  gere una pratica equità nella distribuzione delle  condizioni di benessere ? A me pare che il con¬  cetto kantiano ripetuto dallo Spencer non rea-       CAP. IV - LIBERTÀ OD EGUAGLIANZA    89    lizzi nemmeno negativamente la giustizia — nel  senso cioè di impedire la iniquità — ma anzi la  consacri, accogliendo il fatto compiuto come  espressione del giusto. Infatti nell'ordine sociale,  come si è svolto storicamente, le eguali condi¬  zioni di libertà sono un'illusione teorica, ed una  feroce ironia praticai Sarebbe molto più logico  dire : l’uomo ha tanto diritto quanto ha potere ;  ma allora perchè protesteremmo così energica¬  mente contro la violenza fisica della schiavitù,  mentre accogliamo serenamente la violenza eco¬  nomica del salariato? Gli è che veramente l 'homo  rationalis è un fantasma filosofico; non c’è altra  realtà che l’uomo di carne e d’ossa, e questo è  sempre o un servo od un padrone, od anche un  po’ l’uno e un po’ l’altro secondo le circostanze  e in diversa misura. Tutta la costruzione cer-  vellottica della persona giuridica col suo fascio  inviolabile di diritti naturali precipita e sfuma!  Non vi sono in realtà che dei diritti acquisiti, e  nessuno vorrà certo affermare che la distribu¬  zione dei mezzi d’acquisizione sia fondata sopra  condizioni di parità. Qui veramente è il nodo  della questione. Il grande equivoco è nato dalla  teoria del diritto naturale: essa ha consentito  all’ingenuità dei filosofi speculatori la facile con¬  solazione di chiudere la bocca ai nove decimi  dell’umanità col falso dono dei diritti naturali,  mentre di fatto permetteva al decimo restante  dei privilegiati di godersi in pace le mal acqui¬  state ricchezze ! Tutti i diritti sono acquisiti dal  tenace sforzo della vita, divenuto cosciente e ca-    Zino Zini, Giustizia.    12        go    GIUSTIZIA    pace di farsi rispettare (i). Si tratta soltanto di  rifare da capo la tavola distributiva dei titoli di  acquisizione, per rivederne la legittimità. L'uomo,  che ha acquistato il diritto alla vita e quello  della sua libertà fisica e morale — l’uomo acqui¬  sterà anche il diritto all’integrale compenso della  sua cooperazione sociale. Se la giustizia consi¬  stesse soltanto nell’assicurare a ciascuno la libera  estrinsecazione delle sue forze, senza curarsi del  preventivo equilibrio nella posizione rispettiva  di vantaggio o di svantaggio, creato dal rapporto  sociale, che è di natura assolutamente imperso¬  nale, in che cosa sarebbe differente — di fronte  all’ideale giustizia kantiana — la prepotenza del  baione feudale, che domina dalla sua rocca forte,  come l’aquila dal suo nido, gl’inermi vassalli  appollaiati ai suoi piedi, da quella del moderno  re del cotone o del grano, del trustista nord-  americano, che nelle sue casse forti chiude il  destino economico d’una nazione ? (2).    (t) F. Lassalle, Thcorie systematique des droìts tic-  quis. Paris, 1904, (trad. frane.), Tom. I, Introduction,  pag. vili: “ il diritto è sociale, e nascendo da un fatto  è sempre acquisito, e perciò caduco „ — pag. xviii:  “ Una rivoluzione sociale è una modificazione dei di¬  ritti acquisiti „. — Conf. Savigny, System des romischen  Rec/ds, 1849, tom. Vili, pag. 388, dove giustifica l’espro¬  priazione, combattendo il principio classico della non  retroattività della legge. — V. pure E. Gans, Ueber die  Grmidlage des Besitzes.   (2) Stein, op. cit., “ i grandi sindacati danno ai moderni  capitalisti lettera di corsa per depredare la società       CAP. IV - LIBERTÀ OD EGUAGLIANZA    91    Cade quindi come una grande illusione spe¬  culativa tutto l'edificio, su cui poggia la bella  formola di Kant, che lo Spencer traduce e in¬  cide sul fronte del suo tempio etico, robusta  costruzione inalzata con stile positivista.   E possibile trovare un criterio che attui la giusta  distribuzione del bene e del male ? Se si risponde  di sì, bisogna far intervenire una forza superiore,  una intelligenza, e una volontà nello stesso tempo,  sovrannaturali ; ovvero ammettere che l’uomo  nelle condizioni naturali possa raggiungere la  giustizia; in altre parole possa comprendere e  possa attuare il giusto. Comprendere funzione  dell’intelletto, praticare funzione della volontà.   C’è stata, è vero, una risposta molto semplice  per sciogliere l’enigma: proclamare la persona  umana soggetto di diritti naturali, inalienabili e  sacri, dotarla essenzialmente della libertà, che  tutti li compendia; rispettare questi diritti, ricono¬  scere questa libertà, ecco la giustizia.   La filosofia, che fa il suo punto d’appoggio  nella libertà per fondare il regno della giustizia,  non si preoccupa per nulla di definire questa li¬  bertà, nè di determinarne il valore psicologico.  Ora la libertà in abstracto corre rischio d'essere  un’illusione. Mirabile vocabolo, parola unica, in  cui si sono certo riassunti e quasi integrati aspi¬  razioni, tendenze, desideri molteplici, sorti nella  coscienza umana come reazione a violenze, abusi,  tirannie materiali e morali. Chiesa e Stato colla  loro intollerante oppressione sui corpi e sulle  anime ànno fatto esplodere il sentimento della         92    GIUSTIZIA    libertà, l'acuta febbre delle rivendicazioni perso¬  nali e collettive, che forma 1' anima di tutte le  rivoluzioni tanto nel campo del pensiero che in  quello dell’ azione. Il contenuto psicologico di  quest’ idea è religioso e politico, e il momento  storico della sua apparizione è il secolo XVIII,  il grande crogiuolo delle forme libertarie attuate  nello Stato borghese (i).   In realtà se guardiamo alla pratica della vita,  se teniamo conto della sua regolarizzazione pro¬  gressiva, frutto d’una crescente subordinazione  professionale e sociale, se pensiamo alla forza della  tradizione, all'impero del costume, alla tendenza  così spiccata nell'uomo verso l’irresponsabilità,  presto ci persuadiamo che il sentimento di libertà à  un’azione assai scarsa sulla condotta, c la sua sod¬  disfazione è un fattore secondario della felicità (2).   L’uomo è troppo dominato dall’ abitudine in  ogni ordine della sua attività per essere vera¬  mente un soggetto attivo di libertà. Cosicché il  suo nome, scritto così solennemente nei nostri  Codici, è pei più una espressione verbale priva  di significato positivo; ideale insufficiente per la  grandissima maggioranza umana, che ignora il  suo valore spirituale, tanto elevato per un sì  stretto circolo di coscienze superiori, che sono  pervenute all'isolamento morale e intellettuale del  proprio io mediante la volontà e l’intelligenza.    (1) A. Sorel, L‘Europe et la Revolution. Paris, 1887-89,  I, pag. 106; II, pag. io.   (2) A. Menger, Lo Stato socialista, pag. 79-80.           r   CAP. rv - LIBERTÀ OD EGUAGLIANZA 93    La storia umana è molto più una lotta per il  diritto, che per la libertà. In fondo la filosofia  liberale è una pallida interpretazione dei bisogni  umani nella vita sociale, la sua efficacia alla so¬  luzione del grande dissidio degli interessi mi  pare molto limitata, e il novissimo individualismo  ultra, che conclude in un olimpico disprezzo per  ogni azione diretta dello Stato con una formola  nikilista di mussulmana apatia, ripetendo il solito  ritornello della libera concorrenza, non va al di  là, dopo tutto, di un puro e semplice riconosci¬  mento del fatto compiuto, inspirato dall’egoismo.  L’uomo che getta la corda al collo del suo si¬  mile, e lo sottopone alla violenza fisica o morale,  compie un atto di volontà ossia di libertà, che  non à altro limite che la sua potenza attuale. È  questo il diritto naturale, extra-sociale, secondo il  pensiero di Spinoza (i), il pesce grosso che mangia  il piccolo con diritto uguale a quello dell’uomo  forte, intelligente, attivo, che s'innalza sul suo  fiacco rivale, che gli strappa di mano la ricchezza,  accaparra le sorgenti della vita e del benessere,  e si apre nel mondo l’adito alla fortuna, a gomi¬  tate, tra la debole folla che ingombra il suo pas¬  saggio. Ma che cosa c’entra colla constatazione  di questa brutale realtà, il principio della giustizia  e la sua ideale approssimazione nell’umanità?  Tanto vale arrestarsi alla crudele apologia del    (i) Spinoza, Tractatus theoìògico-politici, Caput XVI;  Ed. van Vloten et Land, Opera II, pag. 121-127.                94    GIUSTIZIA    fatto, accettare la necessità dell'iniquo, e depo¬  nendo l’ipocrita maschera del moralista, mostrare  francamentè i pugni dello struggle-for-lifer.   Ma possiamo veramente accettare questa espli¬  cita rinuncia dell’ideale; in altre parole, l’uomo  può arbitrariamente abolire una parte della propria  coscienza, quella cioè che contiene le esigenze  del dovere (seinsollendcn) ? Ed in base a quali mo¬  tivi noi dovremo dare un’ incondizionata prefe¬  renza a ciò, di cui riconosciamo 1'esistenza mate¬  riale su ciò, di cui sentiamo la necessità morale ?   Osserva il Sidgwick giustamente, che il prin¬  cipio di libertà presenta necessariamente limiti  e restrizioni, non potendo essere in primo luogo  applicato, se non agli esseri umani sufficiente-  mente intelligenti per reggersi da sè, cosicché  ne rimangono esclusi gl’incapaci di guidarsi, per  difetto di età, di mente, come anche coloro, che  privi di educazione, permangono ne’ più bassi  gradi di civiltà ; e secondariamente, perchè alla  libertà impone limiti d’ordine utilitario il con¬  tratto, che può spingersi fino ad una reale vo¬  lontaria schiavitù, più o meno larvata (i).   Vediamo, ad esempio, a che si riduce la pre¬  tesa libertà umana rispetto alle cose esteriori,  che costituiscono la necessaria integrazione della  nostra vita. L’ esercizio di questo diritto chia¬  masi proprietà, e intorno ad essa, come a centro  di tutta la vita economica, si è combattuta e si    (i) Sidgwick, Mcthods of Ethics, pag. 275 e seg.                 CAP. IV - LIBERTÀ OD EGUAGLIANZA 95   combatte tuttora una terribile lotta d'interessi e  di idee. Non vedo, dice Sidgwick, che questa  forma di libertà implichi più che il diritto alla  non interferenza per parte d’altri, quando io uso  attualmente una cosa, che non può essere usata  che da una sola persona per volta. Il diritto di  escludere gli altri dall’ uso futuro di una cosa,  che un individuo à una volta preso, sarebbe a  questa stregua non un atto di libertà, bensì una  interferenza nella libera azione degli altri, oltre  ciò che è necessario per assicurare la libertà  deH’appropriatore.   Ma è evidente che a questo modo di vedere  contraddice tutto il sistema di leggi che garan¬  tisce l’uso perpetuo ed esclusivo dell’oggetto di  proprietà, e Io cinge d’ una insormontabile bar¬  riera. È facile supporre la risposta che l’uomo,  appropriandosi una cosa, non invade la libertà  altrui, perchè rimane aperto il resto degli oggetti  appropriabili nel mondo. Ma questa scappatoia  apre l’adito a una grande quantità di obbiezioni,  e non elimina le difficoltà della soluzione. Anzi¬  tutto può accadere che più uomini abbiano bi¬  sogno della medesima cosa, ovvero che l’appro¬  priazione d’una cosa renda troppo difficile o faticosa  la sua sostituzione, e poi, obbiezione più grave,  i mezzi materiali della vita sono forse illimitati ?  Ancora se nel sistema delle leggi fosse posto un  limite all'appropriazione individuale, ad esempio,  della terra, fonte precipua ed originaria d’ogni  ricchezza; ma come e dove fissare il criterio di  questo limite? Noi non ne conosciamo nessuno         96    GIUSTIZIA    che si sia imposto storicamente alla pratica so¬  ciale e giuridica, come forse non sapremmo nem¬  meno proporne uno derivato dalla logica.   Supponendo un paese che si apra nuovamente  alla civiltà, quanto può essere accordato ad un  uomo di appropriazione per prima occupazione ?  Forse la misura dell’ uso sembrerebbe la più  spontanea; ma come accettarla incondizionata¬  mente, mentre l’uso d’un individuo rispetto alla  terra varia indefinitamente crescendo, ad esempio,  in estensione di quanto diminuisce in intensione ?  Cosicché sarebbe una paradossale deduzione del  principio di libertà sostenere che un uomo à di¬  ritto d’escludere gli altri dal pascolo del bestiame  sopra una parte della terra, sulla quale debbono  estendersi le sue spedizioni di caccia.   Eppure ciò è anche accaduto; nel medio-evo il  signore feudale, affermando il sua diritto supremo  sulla terra, ne consacrò una porzione enorme  alla soddisfazione capricciosa del proprio piacere  della caccia, evincendo ed affamando il conta¬  dino, e nella campagna nuovamente spopolata  ed incolta esercitò le sue barbariche spedizioni  di caccia; ma allora l’uomo dei campi era servo  della gleba, le classi inferiori erano soggette al  tallone ferrato della feudalità. Supporremmo noi  oggi possibile la ripetizione di questo delitto di  lesa umanità per parte dei grandi proprietari  della terra, i quali volessero trasformare in parchi  e bandite i campi coltivati a grano o a riso,  mettendo per tal modo a razione migliaia e mi¬  lioni di esseri umani, che vivono di quei prò-       CAP. IV - LIBERTÀ OD EGUAGLIANZA    97    dotti, facendo rincarare il prezzo delle derrate  alimentari, limitando in tal modo la vita? Ipotesi  assurda questa, non soltanto perchè mostruosa¬  mente contraria ai senso morale, ma perchè anche  antagonista della moderna costituzione economica,  che è una solidarietà di lavoro e d’interessi, e  in cui la rovina di una classe trascinerebbe nel¬  l’abisso della miseria anche le altre. Piuttosto  noi abbiamo assistito al fatto opposto: cioè ab¬  biamo nei sistemi coloniali realizzato la sostitu¬  zione di un diritto superiore ad uno inferiore,  il dirittto della civiltà a quello della barbarie.  Almeno è con esso che si giustifica la progres¬  siva occupazione territoriale, che i popoli bianchi  ànno fatto nei paesi extraeuropei a danno delle  popolazioni indigene, ciò che à in molti casi equi¬  valso ad una vera eliminazione di quest’ultime.  Necessaria e quindi giusta soppressione dei meno  adatti a vantaggio dei più adatti, diranno molti  facendo una facile e grossolana applicazione  della selezione darwiniana ai rapporti umani. Noi  non ci arbitriamo di risolvere cosi alla spiccia  una questione tanto ardua e che implica forse  la maggiore antinomia etica: il contrasto tra la  convenienza e la giustizia. Poiché la ragione calco¬  latrice dei valori approva il fatto storico del più  grande adattamento dell’Ecumene al suo abita¬  tore, che è la condizione imprescindibile alla in¬  tensificazione della vita umana, ed accetta anche i  mezzi della sua attuazione; mentre d’altra parte  la coscienza ripugna a questa vittoriosa espan¬  sione dell’uomo civile o più forte fisicamente ed    Zino Zini, Giustizia.    13           98    GIUSTIZIA    intellettualmente, che elimina l’essere debole ed  ignorante, e lo esclude dalla partecipazione dei  mezzi di vita, per ciò solo ch'egli non sa ri¬  trarne tutte le possibili utilità, di cui essi sono  suscettibili.   E del resto come non sentire tutto il pericolo,  che è contenuto in una determinazione utilitaria  della giustizia, quando, per esempio, si acco¬  gliesse che il pastore può evincere il nomade,  che vive di caccia, e che quello a sua volta può  essere evinto dal contadino, e questo dall’indu-  striale, che volesse esplorare il sottosuolo?   L' insufficenza del criterio di libertà è resa  manifesta dalla difficoltà d’accordare questi tre  termini, libertà, appropriazione ed eguaglianza.   L’uomo senza proprietà è necessariamente  meno libero dell’uomo fornito di proprietà. Bastiat  dice, e con lui ripetono gli ottimisti di tutti i  tempi e paesi, che l’uomo, sprovvisto di proprietà,  possiede pur sempre una libertà di contratto,  che gli permette di offrire i propri servigi in  cambio dei mezzi atti alla soddisfazione de’ suoi  bisogni; e che questo cambio gli assicura una  maggior somma di benessere che se si trovasse  solo in un mondo deserto. Ciò che è perfetta¬  mente vero, poiché ogni consorzio umano rende  colla cooperazione industriale la parte della terra,  che abita, più adatta a procurare soddisfazione  dei desideri di ciascuno e di tutti i suoi membri,  compresi anche quelli che ultimi sono venuti ad  assidersi a ciò che Malthus chiama il banchetto  della vita. Intanto però l'esperienza dimostra che      CAP. IV - LIBERTÀ OD EGUAGLIANZA    99    molti uomini in una qualunque società civile,  non trovano modo di mettere a profitto i loro  servigi o se lo possono, non ne ottengono che  mezzi insufficenti alla vita. Che quando pure ciò  si supponesse evitato, resterebbe sempre che il  consorzio umano col fatto dell' appropriazione,  interferisce sulla naturale libertà dei suoi membri  poveri. Consentire che l’uomo lavorando, usando  cioè liberamente delle sue energie fisiche o spi¬  rituali, si procacci in proporzione più o meno  estesa quei vantaggi economici che il tipo di ci¬  viltà, di cui è parte, gli possa offrire, è in un  certo senso, rileva Sidgwick, riconoscere il di¬  ritto ad un compenso molte volte inadeguato  per quella partecipazione diretta della ricchezza,  dalla quale egli si trova escluso (i). In altre parole,  la sua ammissione mediante lavoro, al godimento  degli agi materiali, è compenso d'una libertà di  fatto che la sua fortuna gli à negato, perciò non  può essere la realizzazione della libertà lo scopo  finale della giustizia.   Ciò che la giustizia distribuisce nella relazione  sociale che stringe fra loro gli uomini, e forma  quasi l’inconsapevole fatto della loro unione mo¬  rale, non è dunque tanto la libertà, inafiferabile  astrazione, che si concreta nella potenza, quanto  piuttosto i benefici e i pesi, i vantaggi e gli oneri,  di qualsiasi natura, materiali ed immateriali, che  sorgono ed accompagnano il vivere collettivo.    (i) Sidgwick, op. al., pag. 277-78.          IOO    GIUSTIZIA    Ma la determinazione del criterio nella distri¬  buzione è il punctum saliens della questione,  poiché, come aveva già avvertito Aristotele, giu¬  stizia non è termine equivalente ad eguaglianza,  anzi l’esigenza della giustizia implica una relativa  disuguaglianza tra le sorti di coloro che sono ad  essa soggetti. Giustizia non è distribuzione egua¬  litaria, ma proporzionale; essa non mira ad una  parità di trattamento se non nel senso eh’essa  escluda ogni arbitraria parzialità.   Si potrebbe anche porre il problema in questa  altra forma: la giustizia, come distribuzione di  utilità e di carichi nella vita sociale non è iden¬  tica all’ eguaglianza, ma è soltanto esclusiva di  illegittima disuguaglianza; essa non aspira diret¬  tamente alla perequazione umana come a suo  scopo, ma indirettamente la realizza, in quanto  impone per la sua attuazione che cessino molte  cause d’ingiusta ineguaglianza.   Se noi ripassiamo nella nostra mente la storia  morale dell’ umanità, vediamo emergere chiara¬  mente la coscienza di questo problema della di¬  stribuzione, che è poi il problema stesso della  giustizia, ed assistiamo ad una catena di sforzi  per risolverlo; conati empirici nelle leggi, nelle  istituzioni di beneficenza e di protezione, conati  teorici nella filosofia e nell’apostolato riformatore.   La disuguaglianza sociale è il fatto sperimentale,  immanente e multiforme, e invano protesta contro  la realtà la coscienza sia come sentimento e sia  come ragione. Ma la sua constatazione non esclude  la sua interpretazione e spiegazione genealogica.      CAP. IV • LIBERTÀ OD EGUAGLIANZA    IOI    La disuguaglianza umana può essere ridotta a  due forme: la naturale e la derivata. La prima  origina dalla legge di variazione spontanea che  domina ogni ordine di fatti in natura, per cui  non c'è nulla di assolutamente identico, tutto è  infinitamente diverso, anzi questa diversità cresce  in ragione diretta della complessità, e l’uomo,  essendo di tutte le manifestazioni naturali quella  che offre il più alto grado di complessità, così  egli è anche il soggetto di una più ricca combi¬  nazione di elementi, per modo che l'umanità è  veramente il maggior campo di variazioni spon¬  tanee, che la nostra esperienza possa e fisica-  mente e psichicamente controllare.   La categoria delle disuguaglianze derivate è  più strettamente sociale, e risulta da cause sto¬  riche, e perciò transitorie, mutevoli e fino ad  un certo punto riducibili. Sarebbe però erroneo  considerare queste secondarie cagioni della di¬  sparità umana quasi arbitrarie, illegittime e perciò  senz’altro inique, per cui si debba quasi fame  cadere una responsabilità suH’incivilimento, e la  storia di esso venga, come fecero gli scrittori  del secolo XVIII, chiamata a comparire dinanzi  al tribunale della Ragione, per sentirsi leggere  un terribile atto d’accusa riepilogante per sp^mi  capi i secolari arbitrii e le antiche iniquità, che  pesano sulle classi degli inferiori fa, degli op¬  pressi. La vita storica à le sue lèggi, come la  vita organica, per quanto più complesse e; meno  conoscibili, facendo parte di una espèrienzà im¬  personale e perciò poco accessibile alfe coscienza          102    GIUSTIZIA    individuale. Soltanto che essendo i fatti storici,  parte della contingenza (i), ed essendo conosciuti  come tali, l’uomo, pervenuto al senso storico della  vita di relazione coi propri simili, concepisce la  possibilità della reazione attiva del suo spirito  critico e della sua volontà sulle condizioni di  fatto della coesistenza sociale, e dalla giustizia  conservatrice della norma consuetudinaria con¬  cretata nel costume ovvero sancita dalla legge,  passa alla giustizia ri formatrice, opponendo al  reale 1’ ideale, a ciò che è ciò che dovrebbe  essere.   Ogni attuazione di diritto superiore è espres¬  sione di potenza. L’errore però del materialismo  economico è di credere tal potenza sempre e  necessariamente materiale, quasicchè legge fosse  concretamento di forza economica acquistata e  prevalente nei conflitti di classe e di gruppo,  mentre anche gli stati di coscienza generaliz¬  zati, che chiamiamo sentimenti di equità, di uma¬  nità, ecc., sono proprie energie ed imprimono  tendenze e provocano spostamenti.   Le disuguaglianze d’ordine sociale sono dunque  riducibili, almeno in quella misura in che sopra  di esse possa spiegarsi l’opera trasformatrice    (i) Dante (Par. XVII, 37-39) lo à espresso in modo  meraviglioso nella nota terzina:   La contingenza, che fuor del quaderno  Della vostra materia non si stende,   Tutta è dipinta nel cospetto eterno.      CAP. IV - LIBERTÀ OD EGUAGLIANZA    103    dell’uomo stesso — e la storia dei conflitti e  delle relazioni tra le classi umane ne è sicura  testimonianza. Ciò che ne risulta è la diminu¬  zione delle disuguaglianze, almeno di quelle più  manifeste e stridenti, che sembravano porre in¬  sormontabili barriere tra uomo e uomo, e fissa¬  vano rigidamente il posto di ognuno nella sua  classe, precludendogli l’accesso ai vantaggi con¬  cessi agli ordini superiori. Le caste sono abolite,  le aristocrazie tendono a scomparire, l’individuo  perde nella società il suo valore di posizione  ch’ebbe in passato, per acquistarne uno nuovo  di funzione, ossia di lavoro ( 1 ).   Ora 1 essenza della giustizia come distribuzione  consiste appunto nel proporzionarla a questa fun¬  zione, ciò che in altri termini si esprime dicendo,  che ognuno debba essere ricompensato secondo  i suoi meriti.   C'è in questa proposizione l’implicita convin¬  zione che la radice dell’atto giusto à una stretta  attinenza col sentimento della gratitudine. L’esi¬  genza di essa è la ricompensa del beneficio, non  solo come impulso naturale, ma come persuasione  che tale ricompensa è dovere. Universalizzando  questo concetto, perveniamo all’essenza stessa della  comune intuizione della Giustizia, cioè la Giustizia    (1) Small, op. cit., p. 345 e seg.: “ la forza elementare  dello Stato, in quanto è fattore di civiltà, è quella d’un  potere che riduce le ineguaglianze arbitrarie delle per¬  sone ad un’ineguaglianza risultante solamente da diverse  attitudini a partecipare a un processo d’evoluzione ge¬  nerale          104    GIUSTIZIA    come è sentita e come è veduta nella intima sua  penetrazione dai più comuni aforismi : « il bene  fatto ad un individuo deve essere restituito da  lui » od anche « le buone azioni devono essere  ricompensate »; « ogni uomo deve essere ricom¬  pensato secondo i suoi meriti ». Tali massime  coronate infine dalla salda associazione, che  stringe le coppie psicologiche « merito e premio »,   « demerito e castigo », rappresentano i punti di  passaggio d'un medesimo processo morale che  va dalla gratitudine, relazione personale, alla  giustizia, relazione sociale (i). La Giustizia è  praticamente una gratitudine generalizzata in  quanto vuole che ciascuno abbia quanto à vera¬  mente meritato, ed è sotto l’aspetto della pena  un risentimento o una vendetta pure generalizzata  in quanto restituisce il male a chi à male  operato ( 2 ).   Questo è il punto di partenza, unicuique siami  tribuere, inteso in un senso generalissimo, abbia  cioè ciascuno quello che gli spetta; cosicché,  indipendentemente d’ogni vincolo contrattuale e  senza precedenti accordi, è ammesso comunal¬  mente che i profitti d'un’ opera o d un intrapresa  debbano essere divisi tra quelli che anno con¬  tribuito al suo successo in proporzione del va¬  lore dei loro servigi. Ma affinchè possa attuarsi    (1) Sidgwick, op. cit., pag. 278 e seg. - J. Martineau,  Types of ethicaì Iheory. Oxford, 1891, voi. II, pag. 244-250.   (2) Ladd, Philosophy of conduci , p. 289.            CAP. IV - LIBERTÀ OD EGUAGLIANZA    105    una tal giusta distribuzione bisogna porre come  preesistente condizione, la garanzia accordata a  ciascuno della più grande libertà, e tale è appunto  l’aspirazione d’ogni ordinamento legale, poiché  se il merito deve essere ricompensato, deve essere  ogni uomo posto nella condizione di procacciarsi  questo merito colla propria condotta. Purtroppo  questa garanzia legale di libertà à un valore più  teorico che pratico nella vita sociale, poiché real¬  mente l’uomo può svolgere sé medesimo nel¬  l'azione solo subordinatamente alle sue condizioni  di fatto, cosicché alla formola integrale della giu¬  stizia, che a ciascuno fosse possibile guadagnare  la propria ricompensa in proporzione della propria  opera, si sostituisce praticamente un sistema di  ricompense distribuite in base a ciò che effettiva¬  mente l'uomo può fare in relazione coi propri simili.   Gli è perciò che se noi cerchiamo una giusti¬  ficazione morale al diritto di proprietà sulle cose,  non possiamo trovarla che nel lavoro, conside¬  rato appunto come un merito che importa una  ricompensa, mentre poi ci riesce impossibile di  considerare altrimenti che come un fatto, nel  quale non è possibile fare alcun apprezzamento  d’ordine etico, 1’ originario possesso delle cose  materiali sulle quali si è esplicata l’industre opera  umana trasformatrice e creatrice del valore eco¬  nomico, a meno che non volessimo ricorrere al  concetto di scoperta nella primitiva occupazione  delle cose, e quindi di premio alla maggiore abi-  ità o audacia o assiduità degli inventori o degli  appropriatori di esse.    Zino Zini. Giustizia .    14      GIUSTIZIA    106   Ma si sa troppo bene in quali scogli urtano  simili ipotesi di fronte alla brutale smentita del  fatto storico. Nè d'altra parte trova una piena  attuazione la foratola « ogni uomo deve avere  un’adeguata ricompensa del suo lavoro », poiché  molte volte le leggi tassataci di questa ricom¬  pensa sono estranee al mondo morale.   Nella sua aspirazione verso la giustizia l’uomo  à molte volte al disopra del suo mondo sensi¬  bile costrutto un mondo religioso, governato da  Dio, ponendone come fondamento il pensiero  che se l'umana esistenza fosse da noi conosciuta  nella sua totalità, troveremmo nella sua ulteriore  proiezione oltre i confini della vita terrena, che  la felicità vi è distribuita tra gli uomini secondo i  loro meriti con perfetta adeguatezza. La divina  giustizia è in questo senso pensata come un mo¬  dello della giustizia umana, e noi dobbiamo giu¬  dicare non il modello in sè, che pur troppo molte  volte si presenta stranamente difettoso, ma lo  sforzo etico che lo ispira e che solleva l'umanità  verso un supremo ideale di giustizia.       CAPITOLO V.   Analisi del merito.    Lo spirito umano persegue la giustizia e ne  stringe dappresso l’idea, ma capita a lui nella sua  assidua ricerca, quello che i racconti epici nar¬  rano dei cavalieri in lotta cogli incantesimi dei  maghi : essi non possono raggiungere mai il  nemico che sempre sfugge e si trasforma nelle  loro stesse mani. Ed anche alla nostra ragione  accade il medesimo, dopo un’ostinata caccia  quando, sviscerando l’intimo più riposto senso  della giustizia, crediamo toccarne il fondo, e ci  attacchiamo fidenti all’idea di merito, ci accor¬  giamo d’aver afferrato non più altro che un  fantasma. Questo merito, il cui rispetto esaurisce  l’ultimo contenuto della giustizia, è in fondo una  pallida e mobilissima larva, e tutti gli sforzi che  noi facciamo per darle corpo sembrano dover  rimanere sterili. Merito è una parola assai fre¬  quente nei più usuali discorsi; continuamente      io8    GIUSTIZIA    noi lo invochiamo nei nostri giudizi apprezzativi  e morali, e lo contrapponiamo volentieri alla  fortuna, gettando assai spesso sulle spalle del  caso la responsabilità del successo o dell'insuc¬  cesso individuale (i).   Ma quando volessimo esplorare il substratum  psicologico di questo comunissimo vocabolo,  quando volessimo determinarne la portata filo¬  sofica, vedremmo sorgere difficoltà e dubbi da  ogni parte. A che cosa infatti ragguagliare il  merito? al fatto o all'intenzione? dobbiamo nel  proporzionare la ricompensa partire dallo sforzo  compiuto e quindi dal sacrificio incontrato ovvero  dall’effetto conseguito? Nessun dubbio che la  risposta più ovvia sia quella che ricongiunge  l'idea di merito a quella di opera, e veramente  è questa anche la più facile misurazione della  ricompensa; sia giudicato ciascuno secondo ciò  che ha fatto. Cosicché, da questo punto di vista,  riconoscere il merito e contraccambiarlo, in quella  forma di debito socialmente accettato e pagato  che chiamiamo atto di giustizia, è accertamento  di vantaggi arrecati dall'opera personale e valu¬  tazione di essi.   Chi non vede però quanto sia arbitraria questa  bilancia dei meriti conguagliati alle utilità procac-    (i) Taire, Les origines de la Fraiice contemporaine.  Paris, 1895, Regime moderne, Tom. I, pag. 328 in nota,  à un aneddoto efficacissimo che dimostra la puerilità  di tanti nostri giudizi quando rinfacciamo ai vittoriosi  nella vita la loro fortuna.        CAP. V - ANALISI DEL MERITO    109    date, mentre il valore attuale d'un servigio umano  può dipendere dall’opportunità delle circostanze  favorevoli o da accidenti fortuiti, non dovuti al  merito dell’agente? Ma anche questo merito reale,  in quanto è il prodotto di poteri e di abilità  congeniti o svolti da favorevoli condizioni di  vita o buona educazione, è veramente suscettivo  di ricompensa? Il dono naturale o l’attitudine  acquisita sono vera fonte di merito, o non piut¬  tosto insorge vagamente nella nostra coscienza  una qualche protesta contro il privilegio della  forza o dell’ingegno, non altrimenti di ciò che  accade di fronte alla superiorità che dà la ric¬  chezza? Essere bello, sano, o robusto, possedere  intelligenza o danaro, avere buone disposizioni  per natura o averle acquistate per educazione,  non è ancor merito nel più profondo e sincero  significato morale.   Potremmo forse trovare la via d’uscita restrin¬  gendoci al dominio della volontà; è questo il  vero regno etico per eccellenza, come ha ben  intuito Kant. Il valore morale di un atto è dunque  nella buona volontà, e la ricompensa deve essere  proporzionata alla quantità di sforzo volontario  diretto ad un fine buono ( 1 ). Ma anche questa rocca  forte non può essere battuta e smantellata forse,  dall'assalto di un determinismo universale, che  estende al mondo dello spirito la legge di cau-    ( 1 ) G. Simmel, Einleitung in die Moralwissensc/ia/i.  Stuttgart, 1904, IB, S. 213 227.      IIO    GIUSTIZIA    salità? L'atto deliberativo, lo sforzo volontario,  d’onde deve sgorgare l’opera buona, pensata e  stabilita dall’agente, non è una risultante, un  prodotto di molteplici fattori, che possa essere  considerato come l’effetto di cause estranee  all’uomo? Se accettiamo questo modo di vedere  assolutamente determista, dobbiamo anche ac¬  cettarne le ultime conseguenze nel campo mo¬  rale, la cancellazione cioè del merito e del deme¬  rito, e quindi l’impossibilità di distribuire le  ricompense.   L’ideale della giustizia sembrerebbe dover  diventare allora quello d’una perfetta identità,  tutti gli uomini avendo diritto a godere di uguali  quote di felicità, essendo profondamente ingiusto  fare A più felice di B, soltanto perchè circo¬  stanze estranee al suo controllo lo hanno fatto  migliore (i).   È vero però che estendendo questo ragiona¬  mento dall’uomo alle creature inferiori, noi giun¬  geremmo a conclusioni paradossali, che il buon  senso rifiuta. Ma anche senza spingerci a queste  ultime conseguenze d’un determinismo che vuole  applicare al dominio delle forze psichiche quella  causalità meccanica che è il fondo del nostro  sapere circa i fatti fisici, possiamo sotto un altro  aspetto fare la critica di una teoria morale, che  voglia valutare il merito dal suo lato interiore,  intenzione e volontà, contrapponendo questa    (i) Sidgwick, op. cit., pag. 281.      CAP. V ■ ANALISI DEL MERITO    III    tavola di valori etici desunti dalla bontà intrin¬  seca dell’atto, in quanto è .voluto come inten¬  zionalmente buono, dottrina di Kant, senza ri¬  guardo alla sua bontà estrinseca, ovvero dalla  quantità di sacrificio che l’uomo, volendo l’atto  morale, s’impone spontaneamente, teoria ascetica  ed apologia del dolore, come elemento meritorio  dell’opera umana, alla valutazione estrinseca o  a posteriori del merito, la quale certamente, come  già vedemmo, non è meno irta di difficoltà o  manchevole di precisione.   Anzitutto pretendere di porre il valore morale  e quindi il merito dell’atto compiuto nella volontà  pura e semplice di far il bene, distaccandosi da  ogni considerazione finale, è ipotesi irrealizzabile,  perchè i nostri pensieri sono strettamente con¬  nessi con stati affettivi e ogni nostra volontà è  in intima relazione con qualche aspetto della  vita pratica, singola o collettiva (i). Creare un do¬  minio astratto di volontà buona senza riferimento  ai fini della vita, è formalismo etico, che finisce  per distruggere il concetto stesso di merito, poiché  la volontà, che dà il suo assenso al dovere, non  può farlo senza apprezzare il dovere stesso nelle  conseguenze, che il suo adempimento o la sua  violazione possa portare con sè. Kant, per spo¬  gliare il bene morale d’ogni scoria eudemonistica,  fa per così dire il vuoto pneumatico intorno alla  volontà, isola la coscienza umana e toglie le    (i) Hoffding, Morale, pag. 21, 37 e seg.          112    GIUSTIZIA    vie di comunicazione della facoltà attiva del¬  l'uomo col mondo dei fatti.   Ma, ammesso anche che la purezza dell’inten¬  zione possa in una sfera di morale assolutamente  superiore costituire il criterio perentorio e sicuro  del merito, come è mai possibile che la giustizia,  quale virtù eminentemente pratica e sociale, possa  assumerlo, mentre nulla più sfugge al suo con¬  trollo del recondito pensiero, che può avere  spinto altri ad agire, e il più delle volte per giudi¬  care del proposito non abbiamo altra guida che  il fatto, in cui esso si esteriorizza e concreta? (i).   Rimane l’altro aspetto della valutazione intrin¬  seca del merito, che ha trovato così caldo ap¬  poggio nelle dottrine morali che rivestono un  carattere di ascetismo. Qui il criterio misuratore    (i) La morale teologica può assumere questo criterio  del merito, perchè Dio conoscendo il cuore dell’uomo,  può giudicare non dell’opera, ma dell’intenzione. Si  vede quanto sia analogo a questo il concetto che do¬  mina nella storia del dogma della giustificazione. La  Chiesa cattolica, che è in fondo, a parte i suoi errori  di corruzione e di mondanità, anzi forse per questi ap¬  punto, dominata da uno spirito di praticità anche nella  dottrina, e va quasi sempre alleata del buon senso, am¬  mette la giustificazione per mezzo delle opere, che è  quanto dire, pone il merito in ciò che s’è fatto, nei sa¬  crifizi sostenuti, di fronte alla dottrina riformata, che  sostiene la giustificazione per mezzo della fede, aspetto  puramente interiore del merito cristiano; se questa fede  poi è un dono della grazia, si cade nell’abisso della  predestinazione, e la giustizia divina è seriamente com¬  promessa.       CAP. V • ANALISI DEL MERITO    113   è lo sforzo sostenuto, la difficoltà superata. Rico¬  nosciamo agevolmente che un tal modo di vedere  è abbastanza famigliare allo spirito umano, anche  al di fuori d'ogni impulso ascetico. La vita consi¬  derata come lotta e il successo come premio  della vittoria sono concetti correlativi, che fanno  parte di un comune modo di apprezzare il fatto  umano. Un'esistenza serena trascorsa senza tem¬  pesta, senza affanno e senza fatica, qualunque  possano essere i risultati pratici che vi siano  stati raggiunti, non ha generalmente ai nostri  occhi il valore morale d’una di quelle combattute  esistenze, che contrassegnano la missione d’un  novatore o d un apostolo. Non è possibile fare  astrazione, nell'apprezzamento dell’opera umana,  da questo sforzo della volontà perseverante, che  consegue la meta attraverso l'ostacolo ( 1 ). Il cam¬  mino sparso di triboli e d'inciampi, il mare insi¬  dioso di scogli e di gorghi, dànno pregio al  viaggio di colui che arriva. Anche nel giudizio    ( 1 ) Seneca, Opera. Lipsiae Teub. I, De Providentia,  IV, 4. 6 , 16, “ avida est periculi virtus et quo tendat,  non quid passura sit cogitat „, “ calaniitas virtutis  occasio est. illos merito quis dixerit miseros, qui nimia  felicitate torpescunt, quos velut in mari lento tranquil-  litas iners detinet „. " Non est arbor solida nec fortis,  nisi in quam frequens ventus incursat. ipsa enim vexa-  tione constringitur et radices certius figit. fragiles sunt  quae in aprica valle creverunt. prò ipsis ergo bonis  viris est, ut esse interriti possint, multum inter formi¬  dolosa versari et aequo animo ferre quae non sunt  mala nisi male sustinenti „.   Zino Zini, Giustizia.    15         GIUSTIZIA    H4   volgare dei nostri atti entra o tanto o poco  questo elemento apprezzativo. Siamo nella vita  come in un campo di corsa, dove il maggior  premio spetta a colui che ha fatto di più, che  ha superato barriere più ardue o fossati più  larghi ; e il fattore, che impresta il maggior inte¬  resse ad un'opera, è pur sempre questa nota di  ardimento e di rischio più grande. Anche nella  educazione, che è molte volte tirocinio speri¬  mentale delle energie nascenti, tendiamo a questo  rafforzamento della volontà con un aumento pro¬  gressivo della difficoltà, e chi entra nella gara  della vita, come in quella del giuoco, deve sotto¬  mettere il suo spirito come il suo corpo ad una  prova.   La deduzione ascetica è dunque fino ad un  certo punto naturale. Se il merito è nella diffi¬  coltà vinta, e se tanto maggiore è il pregio della  azione quanto più arduo è il compito al quale  l’uomo si sobbarca, può facilmente lo spirito  persuader sè medesimo che l’indefinito esercizio  della propria volontà nella resistenza alla fatica  o al dolore, astrazion fatta dallo scopo, costi¬  tuisca l’essenza stessa del merito (1). In fondo un  tale equivoco nasce da una dissociazione abba¬  stanza spontanea tra valore di una cosa e sforzo  che è costata. E sono veramente i due termini  sempre cosi congiunti od equivalenti, che deb¬  bano supporsi o possano convertirsi l’uno nel¬  l'altro ?    ( 1 ) Simmel, op. ci/., ib.       CAP. V - ANALISI DEL MERITO II5   Di qui quel donchisciottismo e quel virtuosismo,  che caratterizzano certi modi della condotta umana  nei più diversi campi, e che sono gli equivalenti  sociali moderni della ascesi religiosa nell’età  medioevale. Superare ad ogni costo una diffi¬  coltà, correre un'avventura pericolosa, esporsi  ad un rischio sono stati e sono tutt’ora prepo¬  tenti impulsi, che hanno spinto l’uomo alle più  pazze imprese e allo sperpero più capriccioso  delle sue energie; e che oggi noi vediamo rinno¬  varsi nelle forme temerarie dello sport alpino  od automobilistico ed in molte eccentricità pro¬  fessionali. Fino a che punto ci può essere qui  una vanità o verso gli altri o verso sè stesso?  L’uomo ha bisogno di darsi l’illusione dell’eroismo,  ma possiamo seriamente dubitare del valore reale  di quest’etica del salto mortale, come abbiamo  buon motivo di mettere in dubbio il valore este¬  tico di tutti quei prodotti dell’arte, che nascono  da una preoccupazione eccessiva di bellezza  tecnica e formale.   L’apologià del dolore, che è in fondo all'asce¬  tismo, nasce dalla stessa dissociazione tra uno  sforzo fatto, una sofferenza o una pena sostenuta  e un fine da conseguire. Non dobbiamo avvez¬  zarci a scherzare coll’eroismo. Nella pratica della  vita la virtù eroica è il biglietto da cento lire;  capita raramente di doverlo e saperlo spendere  con profitto, mentre tutti i momenti abbiamo  bisogno della moneta spicciola per le minute  esigenze della spesa giornaliera. Il dolore ha un  valore educativo, è un mezzo e non un fine.      GIUSTIZIA    Il6    L'errore dell’ascetismo è quello di essere una  palestra del dolore a vuoto. Soffrire per sè stante  non è nè un bene nè un male, è puramente  uno stato del corpo e dello spirito. La ginnastica  delle energie morali comporta sforzo e sofferenza  come quella delle energie fisiche.   Saper resistere, saper rinunciare, dominare  e vincere sè stesso, mortificarsi anche, tutto può  essere approvato, ma soltanto come preparazione  non come scopo in sè stesso; c'è qui appunto  la stessa differenza che tra ginnastica ed acro¬  batismo. L’asceta santifica il dolore e si fa un  merito delle sue sofferenze, come l’alpinista o  lo sportman del loro pericolo mortale. Battendo  questa strada si possono giustificare le peggiori  aberrazioni. Ma per rimanere nell’orbita della  attività pratica, volendo giungere ad una distribu¬  zione delle ricompense basata sopra una valuta¬  zione del merito intrinsecamente considerato,  cioè come sforzo volontario o come difficoltà  superata per giungere ad un particolare risultato,  dovremmo incominciare a porre questa equa¬  zione : lavoro = dolore. In questo caso la ricom¬  pensa è proporzionale al lavoro compiuto ossia  al dolore sopportato. Ma chi può darci il metro,   1 unità di misura, una specie di chilogrammetro  morale? E chi vorrebbe compensare il lavoro  a vuoto, cioè una fatica affrontata e un’opera  spesa sterilmente? Il buon senso ha già fatto  giustizia di tutte le vane eccentricità, che dissi¬  pano in un lavoro infecondo tanta parte della  attività umana. È impossibile nel giudicare questa       CAP. V - ANALISI DEL MERITO    117    complessa macchina fisiologica, che è l'uomo, non  tener conto del suo rendimento; e il giudizio  sul rendimento è di natura essenzialmente so¬  ciale. Sotto un altro aspetto il criterio dello sforzo  appare equivoco, in quanto cioè il medesimo  atto può costare fatica diversa secondo le condi¬  zioni personali dell agente. E allora dove trovare  un punto d’appoggio nella valutazione del merito  dal lato intrinseco, mentre ciò che chiamiamo  la difficoltà, il sacrificio fatto, il dolore accettato  per raggiungere un effetto determinato non hanno  un valore costante, ma anzi infinitamente varia¬  bile? Nello stesso individuo la legge d'adatta¬  mento, che chiamiamo abitudine, conduce insen¬  sibilmente ma necessariamente all’ attutimento  dello sforzo, all’eliminazione progressiva di questo  coefficiente d'ogni lavoro sia manuale sia intel¬  lettuale, che è la fatica o il dolore.   E nell’ordine morale avviene lo stesso : l’educa¬  zione ha per risultato l’acquisto di certe attitu¬  dini a compiere con maggiore spontaneità ciò,  che inizialmente poteva costarci pena od essere  addirittura repugnante. L’origine della virtù è in  questo automatismo etico, come aveva tanto  acutamente intuito Aristotele quando nel suo  felice paragone scriveva : « Si diventa citaristi col  suonare la cetra, architetti col fabbricar case,  medici esercitando la medicina e virtuosi facendo  azioni belle e buone. La virtù morale nasce, si  sviluppa e si compie colla pratica. L’azione è  creatrice, essa si traduce in un plus d’energia  per modo che col tempo ne risulta una disposi-             Il8 GIUSTIZIA   zione, che tende ad esercitarsi nella stessa dire¬  zione. L’inizio delle virtù è penoso, ma il com¬  pito si alleggerisce man mano che si va innanzi,  e si finisce per fare con amore ciò che si in¬  cominciò a fare con sforzo » (i).   Ma se noi potessimo supporre che ogni forma  di attività umana, essendo specializzata ed eser¬  citata secondo l’attitudine, diventasse piacevole  anziché dolorosa, scomparirebbe con ciò il merito  delle nostre azioni ? Scomparirebbe con ciò anche  ogni criterio di ricompensa ?   Noi possiamo augurarci che questo sia: che  per la legge dell’abitudine il lavoro possa diven¬  tare costituzionale e fisiologico. Fino ad un certo  punto questo è accaduto ; e attuandosi un più  largo sistema di specializzazioni e sostituendosi  sempre in maggior scala all’uso c all’abuso delle  energie umane l’impiego razionale delle energie  naturali, ciò sarà maggiormente. L’antica male¬  dizione biblica del lavoro, che pesa come una  condanna di obbrobriosa servitù sul genere umano,  può essere riscattata. Ma questa progressiva eman¬  cipazione dell’uomo dalla fatica, questa reden¬  zione della nostra vita dal dolore, che è come    (i) Mackenzie, Manna! of Ethìcs. London, 1901, p. 14:  " virtue exists only in activity * goodness is not a  capacity or potentiality, but an activity; in Aristotelian  language, it is not a bOvani;, but a èvépyeta „.   Aristotele, Ethic Nic., B, 1, 1103ab; ib., 2, 11048,  27-35, ii°4 b, 1-3; Eth. End., B, 2, 1220 a, 39; 1220 b,  1-6; Magna Moralia. A, 34, 1197 b, 37 e seg.   James, Principi di psicologia, Cap. IV, pag. 92 e seg.           CAP. V - ANALISI DEL MERITO    119    il termine ultimo di un’indefinita approssima¬  zione , dovrà essere giudicata insieme come la  scomparsa d’ogni giusta retribuzione basata sul  merito, per ciò soltanto che mancherà il criterio  del sacrificio compiuto e della pena sopportata ?  La sconfitta del dolore nel mondo sarebbe nello  stesso tempo quella della giustizia, o in altre  parole la vittoria dell’uomo sulla natura dovrebbe  avere per risultato il naufragio di una delle più  nobili idee, che si siano formate nella storia  psicologica deH’umanità?   Sentiamo di poter confutare questa tesi pessi¬  mista, che a fondare il regno della giustizia pone  come condizione la tirannica persistenza del  dolore.   Noi tocchiamo qui una delle più difficili analisi  del pensiero umano. E quando noi gettiamo nel  suo crogiuolo questo concetto del dolore come  prezzo del merito, ciò che vi troviamo in fondo  è una residuale idea religiosa, uno spirito di  sacrificio, di cui il primitivo nucleo d’attrazione  formativa sorge nei rapporti della subordinazione  umana verso Dio. Nel libro di Job c’è questo  pensiero : Dio è padrone di tutto, del bene come  del male e può distribuirlo come gli piace. Il  dolore ha questo valore morale, che non scuo¬  tendo in Job, non ostante la sua apparente in¬  giustizia, la fiducia in Dio, riafferma la potenza  di Dio sull’uomo e fortifica la fede di quest'ul¬  timo verso il suo Creatore. Questo piccolo poema  di Job è un meraviglioso riepilogo di pensiero  umano intorno all’eterno problema del male. Il      120    GIUSTIZIA    male viene da Dio, ma colpisce in pari tempo  l’empio ed il giusto. Che l’empio sia distrutto  dalla collera divina, è una cosa abbastanza com¬  prensibile per la mente dell'uomo. Anzi bisogna  confessare che il concetto della giustizia divina  è già qui molto elevato, e che Dio si trova vera¬  mente nella posizione di un giudice del tutto  imparziale, perchè la sua giustizia non è inte¬  ressata. Quando egli sentenzia, non de re sua  agitar, poiché nè l’offende il peccato dell’uomo  nè gli giova la sua virtù. L’onnipotenza divina  è al di fuori della sfera d’azione dell’opera  umana.   Job è l’uomo giusto, che si sente puro di pec¬  cato, eppur vede aggravarsi sopra di sè la mano  di Dio ; ond'egli dal fondo della più ineffabile  miseria osa levare la voce in faccia al suo Crea¬  tore, distributore del bene e del male sulla terra,  per giustificarsi al suo cospetto. Invano i suoi  compagni cercano di dissuaderlo e lo tacciano  d’empietà, perchè voglia erigersi a giudice del¬  l’opera divina, invece di piegarsi, penitente rasse¬  gnato, a implorare da Dio il perdono della sua  colpa e la remissione del castigo.   Job è veramente la coscienza morale dell’uomo,  fatta carne ed ossa, è la tormentata personifica¬  zione della sua mortale angoscia di fronte allo  spettacolo dell’ingiusta spartizione del bene e  del male. L’empio sazio di beni e di gioia chiude  serenamente il ciclo della sua esistenza terrena;  il giusto è oppresso e perseguitato. Questo tra¬  gico dissidio empie d’amara disperazione il cuore     CAP. V - ANALISI DEL MERITO    121    dell’uomo, e turba la sua ragione coll’inquietante  dubbio della divina provvidenza.   Job non è un ribelle, come il prigioniero del  Caucaso ; non è il vinto che impreca contro il  suo orgoglioso vincitore, è il servo che sotto la  verga d’un padrone dispotico domanda : perchè  mi colpisci ? pronto a gettarsi nella polvere e  baciare umilmente il piede che lo calpesta, ricono¬  scendo giusto nella imperscrutabile saggezza del  giudice, che lo detta, il decreto della sua punizione.  Job e Prometeo sono le due opposte concezioni  di due razze, di due civiltà e di due mondi,  l’uno che darà all’uomo la religione, l’altro che  gli farà dono della filosofia.   Noi possiamo domandarci : c'è veramente me¬  rito a soffrire? E a chi giova questa sofferenza?  a colui che la sostiene o agli altri che, vantag¬  giandone, la premiano? Giova a quello, che la  soffre, in quanto soffrendo eleva la propria perso¬  nalità morale, o agli altri in quanto il dolore  degli uni è parte dell’altrui felicità? Mors tua  vita mea ? Noi tendiamo a realizzare un mondo  senza dolore , ma non per questo un mondo privo  d’una scala di merito.   La strana illusione di giudizio, che ha portato  ad assegnare un valore etico alla sofferenza, ha  la sua radice nel senso di sudditanza dell’uomo  verso la divinità. La religione del dolore nasce  dalla coscienza della propria abbiezione, dal bi¬  sogno d’espiazione e di purificazione ; essa si  afferma nel merito d’una rassegnazione umile  alla volontà illimitata di un Essere supremo,    Zino Zini, Giustizia.    16        122    giustizia    che può disporre a suo talento de] nostro de¬  stino (i).   In questo caso soffrire può equivalere alla  testimonianza della propria fede in Dio. L’ar¬  dente sede di martirio, che sollecita gli apostoli  d ogni ideale, tradisce un'origine comune. L’av¬  versità sostenuta è indiretto segno dell’interesse  che la divinità porta a chi ella colpisce, perchè,  così operando, gli offre l’opportunità d'acquistare  meriti a suoi propri occhi. Ed è curioso osser¬  vare che un simile concetto, tanto caratteristico    (i) Th. Gomperz, Pcnseurs de la Grece, I, pag. 147-148,  riattacca la genesi di questa idea etico-religiosa nella  coscienza ellenica alla crisi sociale e alle concomitanti lotte  di classe avvenute nei secoli VI e VII, quando le dure  necessità dei tempi insegnarono, in questo vero medio¬  evo greco, agli uomini a pregare, come accade ai po¬  poli dell’Europa latina nell’età di mezzo. Sotto la dura  oppressione militaresca, che segue alle vittorie e con¬  quiste doriesi e all’ impianto d’un regime oligarchico  senza quartiere, le vittime gettano uno sguardo al di là,  domandano alla divinità un compenso ai mali terrestri.  Comincia l’antagonismo fra le due opposte tendenze  dell’anima umana, il senso del doloree l’impulso della  ppsione, comincia la lacerazione della personalità, la  distruzione dell’armonia interna, l’ostilità contro la na¬  tura, la rinuncia ascetica delle sue esigenze, anche inof¬  fensive o salutari. Gli Orfici, che sono i puritani della  antichità, trasmettono per il tramite di Pitagora questo  patrimonio d’idee e di sentimenti a Platone, e quindi  parte quella corrente di pensiero, che contiene in sè  il divorzio crescente tra l’anima e il corpo, il dualismo  tra il mondo e la divinità, e finisce per sfociare nel gran  mare del Cristianesimo.       CAP. V - ANALISI DEL MERITO    123    della morale cristiana, dove l'uomo pio e giusto  più caro alla divinità, è più visitato dalla scia¬  gura, non manca di precedenti nella stessa co¬  scienza classica : gli dei sono gelosi della felicità  dei mortali, essi invidiano loro gioie e fortuna,  e tengono continuamente la sventura sospesa,  come spada di Damocle, sulla testa dei più felici,  tanto che non di rado accade che taluno d’essi  a rompere questa specie di jettatura d’una vita  troppo avventurosa, cerchi procacciarsi volon¬  tariamente qualche causa di contrarietà.   La troppa fortuna sgomenta : tanto poco soliti  siamo a queste straordinarie e prolungate com¬  binazioni d eventi favorevoli. Wagner, leggendo il  Tintole onte di Plutarco, confessava di essere strana¬  mente maravigliato nell’apprendere che la vita del-  1 eroe potesse mai chiudersi tanto serenamente,  così poco 1 eterna tragedia del mondo ci ha abi¬  tuati a questo Leto fine, nella tempestosa atmosfera  di dolore e di battaglie, che avvolge lo spirito  dei grandi. La parabola della vita che discende  languidamente in un orizzonte di luce, è una  novità così insolita, è una così inaspettata sorpresa  che offende la nostra credulità.   È vero che Nietzsche oppone a questa pessi¬  mista concezione quella dell’eroe vittorioso e  giocondo, che in un largo palpito della sua orgo¬  gliosa volontà di potere afferma il suo diritto  ed espande nella pienezza delle energie vitali  il fiore della propria individualità. Ma è ovvio  osservare che una tale apologia della gioia di  vivere conduce fatalmente a professare un evan-       124    GIUSTIZIA    gelo edonistico, che sdrucciola sempre più o meno  nella sensualità. L’elevazione a potenza della  personalità umana ha il più delle volte l’egoismo  per esponente (i).   A nessuno certo verrà in mente di negare che  la difficoltà di un'opera costituisca il suo mag¬  gior valore, ma questo non nel senso che noi,  riconoscendone il merito, premiamo in certo qual  modo la quantità di dolore umano che è costata,  perchè ciò equivarrebbe a ritenere che la nostra  elevazione morale fosse a prezzo della sofferenza  soltanto, tesi ascetica questa, alla quale è ine¬  rente il gravissimo pericolo di proporre alluomo  il dolore come mezzo della sua moralizzazione,  e che ha purtroppo condotti molti a soffrire e  far soffrire crudelmente, o quanto meno a ren¬  derci meno pietosi alle sventure e meno indul¬  genti agli errori e alle debolezze altrui (2); bensì  noi, assegnando un più alto prezzo all’opera più  ardua, guardiamo essenzialmente al risultato rag¬  giunto, tanto più che non è poi detto che sempre  ad un lavoro difficile corrisponda una fatica real¬  mente sostenuta. E questo si verifica ogni qual  volta l’attitudine, le circostanze, il caso o l’eser¬  cizio ci abbiano abilitato ovvero ci abbiano  agevolato il compito di qualche cosa. Ciò che  nei rapporti sociali si suole apprezzare, non è    (1) Gomperz, op. cit., n, pag. 350-351.   (2) H. Lea, Histoire de l’inquisition au moyen-àge  (trad. frane.). Paris, 1900, Tom. I, pag. 270, 465 e seg.,  629 e seg.             CAP. V - ANALISI DEL MERITO    125    quindi la difficoltà soggettiva o intrinseca, ma  piuttosto quella oggettiva od estrinseca. Per la  mano abile d’un grande chirurgo o d’un celebre  violinista il colpo di bisturi o quello d'archetto  può rappresentare lo sforzo d’un secondo d’at¬  tenzione, o può anche diventare automatico, ciò  non ostante noi proclamiamo l’altissimo merito  dell'operazione o dell’esecuzione. Allo stesso  modo il cantante, che emette la sua più superba  nota tenorile e, mandando in visibilio la platea,  riempie la cassetta dell’impresa, può far ciò senza  la minima fatica, forse anche con piacere, eppure  quest’estrema facilità del suo lavoro vocale non  esclude la nostra ammirazione e non diminuisce i  suoi ingenti guadagni (1). Nè questo può restarci  inesplicato, quando pensiamo che ciò che noi  apprezziamo e ricompensiamo non è tanto l'opera  soggettivamente considerata, quanto il suo valore  oggettivo o sociale, che è in fondo un valore di  posizione rispetto alle altre opere dello stesso or¬  dine (2). Così si attua qui quella medesima dif¬    ri) Torni Dante, tre paoli; a te la paga  Di sei ministri.   Giusti.   (2) Pierson, Trattato d'economia politica. Torino, 1905,  I> P a S- 54 » 60, 63, sul concetto di valore e di utilità  marginale (final or marginai utility). H costo di produ¬  zione di una cosa è la somma di' sacrifizi ch’essa do¬  manda; il valore è ciò che ci fa conoscere in che mi¬  sura la cosa stessa è per noi un bene, in base ai van¬  taggi che ci procaccia — pag. 68: veramente le cose  non ànno valore perchè sono costate lavoro, ma per          126    GIUSTIZIA      ferenza, che gli economisti pongono rispetto al  valore di un oggetto sul mercato tra il costo  della produzione e quello della sua riproduzione.  Nella vita sociale il prezzo delle opere ascende  in ragion diretta della maggior difficoltà della  loro riproduzione, non tanto in quella della loro  produzione. È questo il segreto dell’alto, altis¬  simo, favoloso talvolta, prezzo d'ogni forma di  lavoro specializzato. Sono queste ultime specialità  tecniche o teoriche, nel campo dell’industria,  dell'amministrazione, della scienza, dell’arte, che  pongono in una situazione privilegiata i loro for¬  tunati possessori, e in cui lo specialista ossia il  monopolizzatore d’una utilità sociale, sottratto  totalmente o parzialmente alla concorrenza dei  suoi rivali, mette alla sua opera un prezzo arbi¬  trario.   Nelle società del passato questa stessa pro¬  porzione, in termini anche più evidenti e più  iniqui, era ottenuta colla fissazione a priori d'un  rango, una gerarchia di uffici e di persone di¬  stribuite per casta e in cui ad una maggiore re¬  tribuzione e a più alti vantaggi corrispondevano  generalmente le minori fatiche e i più facili la¬  vori (i). Non vediamo ancor noi pur troppo veri¬  ficarsi il medesimo inconveniente in quel curri-    Pottenimento di questa cosa si spende lavoro perchè  anno valore. Quindi non il sacrifizio della produzione,  ma piuttosto quello della privazione, fissa il valore delle  cose.   (i) Taine, op. ci/., AIncieli regime, pag. 82.   SlMMEL, Op, CÌ/., 1 , S. 417.       CAP. V - ANALISI DEL MERITO    127    colo che sono le pubbliche cariche o gli uffici  burocratici? Fattori estranei al inerito e al lavoro  veramente compiuto entrano assai spesso come  elementi accidentali della ricompensa.   Chi può veramente retribuire gli sforzi e i  sacrifici dell’inventore, e quanto spesso non ac¬  cade che i benefici della scoperta non siano  sfruttati da chi non vi ha preso parte?   Giustificare la sproporzione nella distribuzione  sociale della ricchezza, ossia della felicità, par¬  tendo dall’ipotesi che ogni società deve sottoporsi  al peso di mantenere una classe superiore, donde  vengano a lei gli elementi migliori della coltura  e del progresso anche col rischio di mettere sul  passivo in questo bilancio una grande zavorra  di inetti ed oziosi di fronte a pochi fecondi la¬  voratori dello spirito, è forse una strana illusione  ed un grave pericolo (1). I reali interessi della ci¬  viltà, come noi la intendiamo usualmente, sem¬  brano meglio affidati alla giustizia che al privi¬  legio; e le esperienze del passato testimoniano  contro ogni forma d’aristocrazia e di casta. Re¬  stiamo dunque attaccati a questo saldo concetto  di equità e non vogliamo leggermente sacrificarlo  ad una malintesa idolatria di progresso. Oggi la  scienza, nuovo idolo, domanda agli uomini i suoi  sacrifici come un tempo la religione, e come un  tempo di questa, così oggi potremmo doman¬  darci di quella che cosa effettivamente restituisca  in compenso. Le energie sottratte al nostro reale    (1) Simmel, op. cit., S. 421.               128    GIUSTIZIA    benessere sono un inutile sperpero. Un sapere,  che non contribuisca all'incremento e alla affer¬  mazione vittoriosa della vita, è immeritevole di  questo nome (i).   Fondamento della giustizia è il merito, ma la  sua determinazione manca di criterio esatto. Ve¬  demmo l’impossibilità di determinarlo dal lato  intrinseco, come intenzione, sforzo di volontà,  dolore sostenuto; rimane il lato esteriore, l'estrin¬  secazione cioè dell’opera umana, l’utilità creata,  la nuova ricchezza aggiunta al patrimonio col¬  lettivo. Non ci nascondiamo anche qui le diffi¬  coltà, ma ci lusinghiamo che esse siano più sor¬  montabili.   Qui infatti ci soccorre un dato positivo, qui  vi è il controllo dell’esperienza, qui vi è la legge  suprema dell’adattamento. Le opere umane di¬  versificano all’infinito per qualità e quantità, e il  loro apprezzamento comparativo è la conclusione  d’un sillogismo che ha l’utile sociale per premessa  maggiore. Quindi l’impossibilità manifesta del cri¬  terio d’equivalenza sia nella valutazione graduale  delle funzioni, sia nella loro retribuzione. Ma  eseguire qualunque forma di lavoro presuppone  attitudini e mezzi : le prime procedono da na¬  tura o da educazione, i secondi sono ripartiti se¬  condo l’ordine sociale. Nella concezione di una  società razionale questa idea duna conveniente  distribuzione degli stromenti e delle funzioni, che  sono la sorgente della felicità umana, non do-    (i) Pearson, The Gratnmar of Science , pag. 138.        CAP. V • AA'ALISI DEL MERITO 12g   vrebbe mancare. La convenienza è il concetto  socratico della competenza e dell’idoneità, se¬  condo il quale ad ogni specie di lavoro dovrebbe  esser chiamato il più adatto, thè rigktest man in  thc rigktest place (i). Se non che il principio tanto  ragionevole, che tale distribuzione dei vantaggi  sociali sia fatta per guisa, che vi concorrano ap¬  punto quelli e che più sono in grado d'usarne,  solleva una nuova questione. Ma è veramente il  più competente anche il più degno? Non può  anche assai spesso accadere, che esso appunto  non sia quello che abbia in precedenza reso mag¬  gior servizio d’un altro? La lotta tra l’anzianità  ed il merito si afferma in tutte le forme dell’at¬  tività umana, ed è certo che tra il servizio reso  e quello da rendere, la bilancia della giustizia  oscilla indecisa tra la gratitudine e l’interesse.   Potremmo spostare i termini del problema, e  presentarlo sotto un nuovo aspetto soggettivo,  ma di un soggettivismo pratico.   Dall’asceta, che valuta il merito negativamente  come dolore, passiamo all’edonista, che lo valuta  positivamente come piacere. Se poniamo ben-  thamianamente la massimazione della felicità  come fine, la perequazione deve subordinarsi al  godimento. Ora non si dà una cosa a chi non  sappia goderne. Questa capacità d’uso dovrebbe  diventare dunque «tetro della distribuzione. Ma  il pericolo contenuto in un criterio siffatto è evi¬  dente. L’artista, lo scienziato, l’uomo colto do¬    li) Gomi’erz, np . cit ., Il, pag. 80 e seg.  Zino Zini, Giustizia.    17         130    GIUSTIZIA    mandano subito una più larga porzione di beni  nella vita, ed invocano a giustificazione della  loro pretesa la più elevata capacità di goderne !  Senza contare che nessuna espressione è tanto  equivoca nella sua determinazione quanto questa.  Chi può fissare il bisogno umano? Shakespeare  ha detto con verità profonda : « i bisogni non si  ragionano — non c’è un mendicante che nella  sua stessa indigenza non abbia il superfluo. Ac¬  cordando alla natura solo quello che la natura  domanda, abbassi l’uomo al livello del bruto » (i).   Se il fine della giustizia è una perequazione di  felicità, indipendentemente da considerazione di  merito, come hanno proclamato molti apostoli  d’utopie sociali, sempre quando alla coscienza  d una responsabilità individuale si voglia sosti¬  tuire quella d una responsabilità collettiva, non  possiamo far a meno di ricadere nell’esame del  bisogno, singolarmente valutato, e per necessità  veniamo ad urtarci ad un nuovo ostacolo.   La giustizia, si dice, vuole che ciascuno abbia  un’eguale parte di felicità almeno in quanto ciò  possa dipendere dall’opera altrui. Ma una pari  felicità non si raggiunge con una esatta riparti¬  zione degli oggetti del desiderio comune, do¬  mandando alcuni più ed altri meno, per essere  egualmente soddisfatti.   La scappatoia suggerita di fissare un tipo  medio, uno standard of life umano, in cui, evi-    fi) Shakespeare, Lear, Atto II, scena IV.         CAP. V • ANALISI DEL MERITO I3I   tando gli eccessi della superfluità e della indi¬  genza, si normalizzi il massimo e il minimo dei  consumi, appare d’una evidente puerilità. Chi  infatti dovrebbe determinarlo?   È vero che entro certi limiti, teoricamente  parlando, data la progressiva conoscenza delle  generali condizioni di vita che una fase della  civiltà può realizzare, non sarebbe impossibile  fissare certi massimi e certi minimi — la storia  conosce questi tentativi — è vero però troppo  spesso inefficaci. Nessuno può veramente far a  meno d’un minimum , come nessuno può oltre¬  passare un maximum nel consumo personale  della ricchezza (i). Ma questi due estremi, quando  pure siano approssimativamente determinabili, ap¬  paiono evidentemente inadeguati alla valutazione  di una stabile normalità. Ricadremmo qui nella  stessa difficoltà accennata sopra rispetto al bi¬  sogno.   Del resto è facile scorgere come la nozione  elementare e comune del merito vada ad urtare  fatalmente contro questa utilitaria considerazione  di convenienza! È vero però che questo non  potrebbe essere ancora un ostacolo definitivo  di fronte ad una morale razionalistica, che sfata    (1) Wundt, Ethics (trad. ingl.), III, pag. 197: “il prin¬  cipio morale vuole che si eviti il duplice estremo: di  deficienza o di eccesso „. Nel paese stesso dell’enormi  fortune moderne, l’America, non mancano proposte  di limiti alla supercapitalizzazione. — Stein, op. cit.,  P- 341 - 343 -       132    GIUSTIZIA    il facile illusionismo della coscienza empirica,  accordando al fatto la precedenza sul sentimento.   Ora nessun dubbio che qui — nella vita so¬  ciale — il fatto continuo diretto ed immediato  è il bisogno dell’uomo. Dalla più umile alla più  superba affermazione di volontà, tutta l’infatica¬  bile opera dell'abitatore terrestre si risolve in  un’assidua caccia ad ogni forma di ricchezza,  che è quanto dire di mezzo alla soddisfazione  del bisogno. Proteo multiforme e sempre nuovo,  prontamente risorto dal suo stesso appagamento,  tenace dominator della vita, sia che rimanendo  latente ci stimoli colla impetuosità irrefrenabile  dell’istinto organico, sia che balzi colle più lu¬  singhiere parvenze del desiderio e si assida so¬  vrano della coscienza, il bisogno è il Re del  nostro mondo; suscitatore di ogni forza e guida  d'ogni energia, ciò che chiamiamo civiltà è la  sua creazione ; industria, arte e scienza sono il  suo prodotto.   L’uomo, servo dei suoi bisogni, può anche far¬  sene giudice chiamandoli dinanzi al tribunale della  Ragione a render conto della loro legittima po¬  destà o della loro capricciosa tirannide ! Qui come  altrove le correnti del pensiero che tentano in¬  terpretare il segreto senso della vita e del destino  umano si sono incanalate per vie divergenti.   Ridurre il bisogno umano, ovvero soddisfarlo  nel suo crescente sviluppo: queste due opposte  tesi, che hanno volta a volta avuto i loro apo¬  logisti , rappresentano le estreme polarizzazioni  dello spirito.        CAF. V - ANALISI DEL MERITO    133    Da Buddha a Diogene, da Cristo a San Fran¬  cesco, da Savonarola a Tolstoi, attraverso cento  religioni e cento filosofie sorte in climi geografici  e storici differentissimi, la felicità è stata stret¬  tamente associata alla limitazione dei desideri c  alla riduzione dei bisogni, sia che ciò si colle¬  gasse al concetto fondamentale di mortificazione  e quindi di merito acquistato col dolore, sia che  lo spirito umano affermasse la sua libertà, affran¬  candosi dalla servitù del bisogno e dalla tiran¬  nide convenzionale della civiltà.   Natura e civiltà apparvero allora quali termini  antinomici, e l’uomo naturale fu opposto all’uomo  artificiale. Vivere secondo natura, o secondo Dio,  si equivalsero, perchè tanto lo stoico che ha la  pretesa di richiamare l’uomo alla sua condizione  di vita vera e spontanea, quanto l’asceta che  sdegna le vanità del mondo nel miraggio d'una  perfezione e d’una felicità trascendenti, giungono  al risultato medesimo : rinnegare la secolare  opera dell’incivilimento, che accusano di ipocrisia  e di menzogna, e spezzare i vincoli artificiosi  della sua lunga servitù. Errore capitale e funesto,  che, tenacemente fitto nella mente dell’uomo,  riappare di tempo in tempo ed insorge come  reazione appunto nei momenti culminanti della  sua storia civile. In realtà niente separa l’uomo  dalla natura, in quanto quello è una parte di  questa, una particolare determinazione più com¬  plessa e più alta del suo stesso sviluppo.   Soltanto daH’illusorio dissidio tra natura ed  uomo prende origine l'ostilità antica verso il           134    GIUSTIZIA    crescente espandersi del bisogno umano, che è,  in altra parola, l’affermazione stessa di civiltà e  di progresso.   La lotta ascetica contro il desiderio e il pa¬  negirico dell’astensione è giustificato dall’equi¬  voco di credere che i bisogni siano fatti ar¬  tificiali, aggiunti all’uomo dalla civiltà. Si parte  dalla natura umana, come da un dato costante,  e si desumono quindi le sue necessità. Natural¬  mente con questo procedimento si possono eli¬  minare tutti i nostri bisogni, tranne quelli fonda-  mentali della conservazione, nutrizione, riprodu¬  zione, ecc. Ognuno di noi può rifare a ritroso  il cammino deH’incivilimento, può spogliare la  sua scorza d'educazione, di coltura, di refinement ,  e ripetendo il ragionamento di Diogene, può ri¬  durre ai minimi termini l 'kumanitas, che qua¬  ranta secoli di storia hanno faticosamente com¬  posto, e realizzare il sogno d’un ritorno alla  natura. Ma questo errore di giudizio riposa  sopra un equivoco capitale — un sofisma di  anfibologia — l’uomo naturale. Al suo posto non  c’è che l’uomo sociale, e il bisogno umano ha  essenzialmente questo carattere d’essere un pro¬  dotto o un acquisto progressivo della vita sociale.   Ogni uomo ha, per conseguenza, i bisogni della  sua condizione, poiché ogni uomo è l’unità d’un  gruppo, l’espressione personale d’un complesso di  relazioni. L'uomo in abstracto, che sottoponiamo  all'analisi filosofica, è un’illusione del nostro spi¬  rito , un precipitato logico, ciò che veramente  esiste è l’uomo in concreto, e questo è sempre un        CAP. V - ANALISI DEL MERITO      135   valore sociale. I bisogni (i), dai più umili ai più ele¬  vati, sono in fondo ciò che chiamiamo la nostra  stessa civiltà; la loro progressiva ascensione è  l'indice del progresso. La crescente partecipa¬  zione ad essi, alla quale la legge dell'imitazione  sociale chiama le classi inferiori, inalzando il loro  standard of living, è l’attuazione della giustizia,  mentre sotto un altro aspetto è anche la miglior  garanzia della pace pubblica e della stabilità  sociale, poiché esse crescono in ragione diretta  del maggior numero di persone, che vi trovano  il loro interesse, perchè vi cercano la soddisfa¬  zione dei loro desideri.   Se ci persuadiamo, che l’ingresso d’un'idea di  convenienza non fa precipitare la giustizia dagli  altari, su cui la ragione l’à posta, in quanto lo  spirito umano non fabbrichi i suoi ideali col¬  l'ombra del sogno, ma coi materiali della realtà;  ma che anzi ne integra la nozione più sincera,  noi vediamo svanire l’ordinaria nozione del merito.  Per poggiar il piede sopra un terreno più solido,  dobbiamo ritornare fatalmente all’interpretazione  utilitaria. « Quando si dice che un uomo merita  ricompensa per i servigi resi alla società, si vuol  dire in ultima analisi che è conveniente ricompen¬  sarlo in quanto cf^e egli e gli altri possono essere    (1) Dei bisogni si può ripetere quello che i psicologi  moderni dicono dei desideri, che cioè in una data per¬  sona non sono un fenomeno isolato, ma formano un ele¬  mento nella totalità, o, come suol dirsi, un universo del  suo carattere. Conf. Mackenzie, op. cit., pag. 47.      I    136 GIUSTIZIA   indotti a rendere simili servizi per ottenere simili  ricompense » (1). Ammettiamo che la convenienza  è un principio utilitario di distribuzione che neces¬  sariamente limita l’attuazione della giustizia in ab¬  stract0. Ma noi, che abbiamo tentato tutte ,le vie  per giungere all'identificazione del merito, ab¬  biamo dovuto confessare che la sua idea ultima  ci sfugge, o meglio, che in questa idea umana è  avvenuta come una convergenza di due correnti  di pensiero, molto diverse tra loro per significato  e per origine.   Per una parte si sono depositati qui alcuni  elementi psichici, che traggono la loro origine  dal mondo irreale e dai rapporti, che l’uomo  instituisce in questo mondo d'illusione e di mi¬  racolo. Sono persuaso, che tutto il valore di un  atto o il merito che ne consegue, guardato dal  lato intrinseco, come purezza d’intenzione, come  dolore, o sacrificio sostenuto, trovi la sua spie¬  gazione soltanto nell’ipotesi di una intelligenza,  che vede il pensiero e lo giudica, ovvero d’una  potenza, che può essere guadagnata alla nostra  causa mediante un olocausto.   Dall’altra parte entrano nella stessa composi¬  zione psicologica elementi di natura positiva,  dedotti dalle relazioni sociali, il cui carattere  fondamentale è l'estrinsecazione nell'opera e la  coordinazione coll’interesse comune, ossia l’utilità.    (1) Sidgwick, op. cit., pag. 284.         » M1 m f TTTTTTTTTTTTTTTT »      CAPITOLO VI.   La pena riparatrice.    La cooperazione sociale è il fatto più sagliente  della fenomenologia umana, e per quanto l'ideale  di giustizia, che ne emerge, non ci sia vicino,  nemmeno però ci appare tanto remoto da pro¬  clamarlo senz’altro irraggiungibile. Il diritto del¬  l'uomo, quale collaboratore grande o piccolo,  illustre od oscuro artefice nella grande continua  opera creativa della comune ricchezza, sia come  fatto, sia come idea, se è pur troppo ancora assai  lontano dall'essere riconosciuto, può tuttavia già  essere concepito ; comprendere ciò che dovrebbe  essere, è l’inizio della sua stessa attuazione ; nel  mondo della coscienza l'ideale è la sentinella  avanzata del reale.   Ma di fronte all’atto umano coordinato ai fini  sociali, è rappresentato disgraziatamente ancora  su troppo vasta scala, quello contrario a questi  fini. Vi è l’uomo cooperatore e vi è l'uomo di-    Zino Zini, Giustizia.    18            138    GIUSTIZIA    struttore, l’individuo antisociale accanto al sociale,  il valore negativo di fronte a quello positivo, la  cifra umana preceduta dal segno sottrattivo del¬  l’utilità collettiva, di fianco a quella, che possiede  il segno addizionale. La volontà convergente ed  armonica colla felicità comune ha il suo contrap¬  posto nella volontà nemica ed egoisticamente  dissociata. Il fondo d’ogni ingiustizia ò veramente  questo difetto d’orientamento nella bussola delle  nostre tendenze, questa declinazione magnetica  transitoria o permanente nell'ago della condotta  singola dal polo, che segna la felicità generale.  Egoismo è ogni forma d’ingiustizia che rimane  nell’àmbito morale, come cosciente diniego di  cooperazione positiva; delitto è ogni forma d’in¬  giustizia, che è estrinsecata nel campo delle re¬  lazioni sociali, come cosciente attentato agl’inte¬  ressi legittimamente costituiti. L’onesto e il de¬  linquente stanno fra di loro nel rapporto del  produttore e del distruttore. Il primo contribuisce,  il secondo sottrae al patrimonio dei valori umani,  che compongono la ricchezza materiale e spiri¬  tuale della civiltà. Al sentimento di gratitudine  universale, che impone, come debito, la ricom¬  pensa d’ogni servizio sociale, corrisponde il ri-  sentimento non meno generalizzato che esige  come soddisfazione la pena. Confessiamo però,  che qui più che nell’opposto campo, ed erano  pur già grandissime, si oppongono nuove diffi¬  coltà alla determinazione d'un giusto criterio.  Esploriamo un oceano pieno di scogli ed abissi.   Il progresso del sentimento umano è minimo       CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE    139    di fronte all'offesa. La barbarie è sempre alla  porta della nostra vita civile, per non dire ch’essa  è tuttora domiciliata nel suo seno, ed urla con  grida di bassa vendetta e di crudele espiazione  nella nostra stessa coscienza. Contenuto e forma,  la giustizia penale è prevalentemente un empi¬  rismo, che corrisponde appena in modo grossolano  all’urgenza immediata dei bisogni cotidiani, ma  non appaga per nulla nè i diritti della ragione,  nè quelli del sentimento. Non è impossibile spie¬  gare questo relativo arresto di sviluppo, che di¬  mostra indirettamente quanto sia erronea quella  concezione semplicista del progresso, che Io iden¬  tifica ad un fatto di cresciuta o di svolgimento  organico, mentre in realtà esso appartiene ad un  ordine assai più complesso, ed è piuttosto una  risultante variabile, un rapporto di posizione, che  non una condizione statica. La giustizia che  chiamiamo civile, corrisponde alla parte sostan¬  ziale del fatto sociale, e il suo svolgimento, per  quanto ritardato dalla tradizione e dall’inerzia  conservatrice degl’interessi, tuttavia è correlativa,  almeno limitatamente, al progresso della coope¬  razione, questo esponente della storia, indice  della crescente complessità nei rapporti umani.   Che l’uomo non sia più schiavo, è il risultato  logico del fatto, che il tipo associativo, che forma  la base della schiavitù corrisponde ad un ordine  inferiore della collaborazione umana, tanto dal  punto di vista materiale, che da quello morale.  Che il servaggio della gleba sia stato disciolto  ciò dipende dal fatto, che il tipo di civiltà da noi      140    GIUSTIZIA    realizzato domanda imperiosamente il lavoro li¬  bero, e reclama il rapido spostamento delle unità  umane, attratte nel circolo della produzione indu¬  striale, ciò che si realizza nell’esodo continuo  degli elementi rurali verso i grandi centri eco¬  nomici; senza l’urbanismo la civiltà del XIX 0 e  del XX° secolo non sarebbe sorta. Che le classi  operaie abbiano raggiunto uno standard of life  più conforme alle elementari esigenze della giu¬  stizia, che i salari si siano elevati, che sia stato  riconosciuto il diritto delle consociazioni operaie  per la resistenza e per lo sciopero, che tutto un  sistema protettivo di legislazione sociale si sia  elaborato, anche questo ha dovuto trovarsi in  stretta dipendenza dai nuovi sistemi per la col¬  laborazione umana; una profittevole produzione  industriale non potendo essere ottenuta nella  moderna fase meccanica senza la intelligente col¬  laborazione d’una mano d’opera selezionata e  qualificata, e conseguentemente senza una pro¬  gressiva ascensione nelle condizioni di vita fisica  e morale del proletariato (i).    (i) Non è il caso di rifare qui quel capitolo d’eco¬  nomia politica, forse il più importante di tutti, in cui  sono tracciati i rapporti tra il salario e il profitto, nello  sviluppo della grande industria. Prendiamo soltanto in  esame il fatto della progressiva riduzione del tempo di  lavoro e l’aumento correlativo delle mercedi. In tutti  i paesi gli albori della nuova fase industriale sono con¬  trassegnati da enormi, crudeli giornate di lavoro con  paghe minime, malgrado lauti profitti. Al principio del  secolo XIX" in Inghilterra la durata del lavoro nell’ in-           CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE I4I   Non altrimenti rispetto alle modificazioni del  diritto della persona nella famiglia e nello stato,  ogni conquista civile è in rapporto colla trasfor¬  mazione della vita. Un atto di giustizia è in certo  qual modo il riconoscimento d’un fatto compiuto.  Che i figli siano stati emancipati, ed equiparati  in faccia al diritto successorio, che la donna abbia  preso posto di parità di fronte all’uomo, che il  debitore non risponda più colla sua persona,  che la forza del contratto non sia superiore  ai diritti dell'esistenza, tutta questa parte po¬  sitiva della nostra legge non è in fondo che  la concrezione giuridica più o meno adeguata  delle necessità stesse della vita di relazione.  Altre trasformazioni si disegnano già all’oriz¬  zonte e domanderanno più o men di tempo    dustria cotoniera era da 90 a ioo ore la settimana.  Presto però interviene il legislatore; già verso la metà  del secolo le ore settimanali sono ridotte a 60, poi a 56,  mentre correlativamente le paghe salivano. Nè questo  rovinò l’industria, anzi la sviluppò e l’arricchì maravi¬  gliosamente. La legge di ferro dei salari à ormai ce¬  duto il passo alla teoria degli alti salari. Oggi è asso¬  lutamente provato da constatazioni numerosissime, che  nel prodotto d’una nazione più evoluta, il costo della  mano d’opera, malgrado le più alte mercedi e la minor  durata del lavoro, rappresenta una percentuale più  bassa, che nel prodotto di nazioni meno evolute. Il la¬  voro meglio rimunerato finisce, pel suo maggior rendi¬  mento, col costare meno. È rimasta celebre, nella sua  veste paradossale, la frase d’un ministro inglese : " Sono  le lunghe ore di lavoro degli altri paesi, che ci salvano  dalla concorrenza „.        142    GIUSTIZIA    per ascendere vittoriose nel cielo luminoso della  giustizia (i).    (i) Il diritto che nasce dal contratto (obligatio) è stato  prima un diritto assoluto, d’un’intransigenza ferrea, che  avvince corpo ed anima dei contraenti. La legge sui  debiti, il ttexum, la feroce espressione decemvirale: si  plus minusve secueruul, il credito sanguinario di Shy-  lock, ecco la catena legale, che imprigiona il debitore  e lo fa schiavo nelle mani del suo creditore. Quello ri¬  sponde del suo debito con tutte le cose sue, con tutta  la sua persona: libertà e vita sono pegno della sua ob¬  bligazione. 11 diritto del creditore non à limite, e la sua  soddisfazione, capitale ed interessi, è l’imperativo ca¬  tegorico dei rapporti contrattuali. La mitigazione pro¬  gressiva del diritto contrattuale è il fatto più saglientc  nella storia dei rapporti giuridici. Che parte vi abbia  avuto la Chiesa, con la sua lotta canonica contro l’usura,  non è facile stabilire. Certo che oggi non solo la per¬  sona, ma fino ad un certo punto anche le proprietà del  debitore si sottraggono alla terribile confisca per parte  del creditore; la proprietà almeno nella misura che as¬  sicura il suo sostentamento e quello della sua famiglia  (insequestrabilità parziale degli stipendi, inalienabilità  dell ‘homestead. Confi P. Bureau, L’Homestcad ou l’in-  saisissabilité de la petite proprietà foncière. Paris, 1895).  Possiamo antivedere un ulteriore progresso dell’equità  in tutta questa legislazione estremamente feroce del  pignoramento, sequestro, sfratto, espropriazione e ven¬  dita forzata; vero armamentario di guerra giudiziaria,  che la legge mette nelle mani del forte per la dis¬  umana spogliazione del debole, summum jtts, che forse  scomparirà nella pratica morale, anche per considera¬  zioni d’un interesse meglio inteso, mentre mezzi legali  di assistenza economica saranno trovati per salvare gli  sfortunati o gli improvvidi dalle conseguenze di questa  estrema miseria, che si risolve dopo tutto in un danno            CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE    143    Altrettanto non si può dire quando esaminiamo  il lato negativo dei rapporti sociali. L’uomo an¬  tisociale, appunto perchè tale, non è un collabo¬  ratore, e la sua azione non è un elemento attivo,  nè può essere coordinata coll’interesse generale.   La società si trae dietro questo pesante con¬  voglio delle sue passività, e non ha a sua dispo¬  sizione altro mezzo, che un sistema di elimina¬  zioni più o meno radicali, di repressioni più o  meno attenuate. Quella degli istituti penali è una  antichissima storia di violenza e di crudeltà ani¬  mata da un’unica passione prevalente, la ven¬  detta, la quale a sua volta evidentemente è su¬  scitata dalla paura. La reazione collettiva sostituita  a quella individuale non può avere altro carat¬  tere che questo. Con ciò non neghiamo l'efficace  concorso, che all’opera disciplinare delle energie  umane deve avere portato l'inflessibile violenza  della giustizia. Il tabu polinesiano e il sacer esto  della legge decemvirale hanno gettata la prima  interdizione in nome della divinità, hanno posto  la prima insormontabile barriera vigilata dalla  sentinella del terrore religioso. Anche gli orrori  delle leggi di Federico II o della costituzione  criminale di Carlo V, anche i fasti sanguinari  della giustizia nei secoli barbarici, e tutto lo    comune. Anche i contratti disastrosi frutto d’un bisogno  troppo urgente (lesione enorme. Conf. Sidgwick, op. cif.,  pag. 187) potranno essere evitati con istituti di credito  obbligatorio. La giustizia à qui un largo campo da col¬  tivare.         144    GIUSTIZIA    strazio della carne umana, inchiodata sulla croce  di mille torture spaventevoli ed ignominiose, pos¬  sono aver raggiunto qualche risultato utile, e la  violenta eliminazione degli elementi refrattari aver  contribuito alla maggiore stabilità dei rapporti  sociali.   Non ostante secoli d : esperienza noi continuiamo  a comprendere poco il significato della parola  delitto. Ciò dipende dal fatto che mentre la pa¬  rola è sempre la stessa, il suo contenuto è infi¬  nitamente variabile, e tale variabilità nasce dalla  diversa relazione, che l’atto umano può avere col  complesso della vita sociale. Noi stupiamo delle  aberrazioni della giustizia, che ha condannato come  delitti, fatti che ci sembrano assolutamente indif¬  ferenti, e magari anche meritori. In quella visione  retrospettiva delle opere umane, stampata nella  memoria,che chiamiamo il racconto storico, questi  strani spostamenti di visuale sono abbastanza  frequenti. E la spiegazione sta in ciò: il giudizio  morale è un giudizio di comparazione, e la con¬  clusione nei giudizi comparativi dipende dalla  natura dei termini di confronto. Accade negli  atti dell’intelligenza quello che si sperimenta nelle  sensazioni. Nessuna di esse è pura o semplice,  nè sempre uguale a sè stessa, variando all’infi¬  nito i risultati del processo sensorio per le mo¬  dificazioni che vi arreca la coesistenza o la suc¬  cessione dei dati apportati alla nostra coscienza.  Cosi, non essendo gli elementi di giudizio, donde  ricaviamo le nostre conclusioni, nè una quantità  fissa, nè una quantità costante, nulla di più na-     CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE    145    turale che l’apprezzamento del fatto umano sia  rappresentato da una variazione continua. Va¬  riazione però, che non è nè capricciosa, nè  anomica, ma che si risolve in una tendenza, e  contiene un limite d’approssimazione ossia di  verità. La connotazione logica di colpa o di de¬  litto è sempre quella di opposizione o lesione  d’interessi socialmente generalizzati (1). La trasmu¬  tazione dei valori etici e giuridici segue gli spo¬  stamenti di criterio nella valutazione dell’interesse  collettivo, nè questi sono arbitrari, perchè a lor  volta corrispondono ad una più alta compren¬  sione del rapporto sociale, o in altri termini, alla  crescente coordinazione delle energie singole nella  sinergia totale. In questo senso si razionalizza  anche la reazione che chiamiamo pena, raffor¬    zi Lester F. Ward, Sociologie pure. Paris, 1906, II,  pag. 223, cita questo passo di R. Blatchford: “ ci fu  un tempo che si torturavano le donne per stregoneria,  e i prigionieri per far loro confessare delitti, di cui erano  innocenti: uomini e donne erano arsi vivi per non aver  creduto ai dogmi insegnati dalla religione degli altri:  gli scrittori avevano le orecchie tagliate per aver detto  la verità, ovvero i fanciulli inglesi erano condannati  nelle fabbriche ad un lavoro esiziale; operai morenti  di fame erano appiccati per aver rubato un pezzo di  pane; consigli o comitati di capitalisti e di proprietari  fissavano il salario degli operai, le Trade-Unions erano  considerate come focolai di cospirazione; e gli uomini  ricchi soltanto avevano diritto di voto. Quel tempo è  passato, quei delitti sono diventati impossibili, quegli  abusi sono cessati „.    Zino Zini, Giustizia.    19      146    GIUSTIZIA    zandosi o indebolendosi in confronto all’ atto  umano che chiamiamo delitto.   Il fine della giustizia repressiva è essenzial¬  mente quello d’una dichiarazione di responsa¬  bilità, secondo alcuni; quello invece d’un atto di  difesa e di riparazione, secondo altri.   Stanno di fronte due opposte dottrine : l’una  parte dall'elemento interiore, intenzione malvagia;  proposito nocivo ; fa il processo alla volontà e  mette un diretto nesso causale tra questa energia  psichica e uno stato di fatto esterno, costruisce  un giudizio d'imputazione e conclude, assegnando  una responsabilità. L’altra parte dall’elemento  estrinseco, studia il fatto, lo misura nella sua en¬  tità come danno, risale all'agente e ne determina  la temibilità, concludendo con un giudizio di  stima dell’uomo, nelle sue tendenze, e ponendolo  nel passivo del bilancio sociale, prende nel limite  del possibile le sue misure di garanzia e di risar¬  cimento.   L’edifizio del sistema penale, quando non sia  una semplice pratica, domanda, per essere ele¬  vato con significazione filosofica, il concorso d'en-  trambi i principi, responsabilità e difesa ; difesa  in quanto una dichiarazione di responsabilità è  soltanto giustificata da un danno reale o possi¬  bile, che la società ha legittimo interesse a re¬  spingere da sè ; responsabilità in quanto la difesa  penale è legittimamente messa in opera solamente  in confronto di coloro, che attentano ai diritti  altrui, accompagnando i loro atti criminosi con un  certo grado di coscienza di quello che fanno,      CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE    147    per cui noi ci sentiamo autorizzati a punirli. Co¬  sicché si vede come le due concezioni di tutela  sociale e di responsabilità individuale non pos¬  sano andar disgiunte : ma tutte e due concorrano  alla connotazione della giustizia repressiva, inte¬  grandosi mutuamente.   Lo studio della difesa sociale è studio di fatti  e gli elementi della sua risoluzione rientrano nella  conoscenza dell’uomo e della sua opera. Esso  implica la prevenzione del danno e la sua ripa¬  razione, e a tal uopo si giova di quanto l’antro¬  pologia e la sociologia criminale possano aver  dimostrato sulla natura del delinquente e sulle  cause del delitto. Il problema della pena vi è  implicitamente contenuto, in quanto questa possa  avere un significato diverso da quello di sem¬  plice espiazione, ed agisca :   a) come strumento di tutela, sotto ogni forma  e in ogni grado, dal più tenue freno inibitivo fino  alla più radicale eliminazione ; per quanto però  dato il parallelo svolgimento dei nostri sentimenti  umanitari, molto probabilmente dovremo rinun¬  ciare nell'applicazione dei nostri sistemi penali a  queste estreme forme della difesa collettiva che  si attuano colla violenta selezione dei rei (1) ;    (1) Wladimir Solovieff (Revuc intern. de Sociologie,  Mars, 1898, pag. 183-84) sulla pena capitale, fa osservare  come il fatto costante sia la progressiva restrizione le¬  gislativa nell’applicazione, la diminuzione delle sentenze  di morte pronunciate, e la scarsità delle esecuzioni ef¬  fettive. Alcuni dati statistici confermano la sua tesi; nei  14 ultimi anni di regno di Enrico Vili si ebbero in In-         148    GIUSTIZIA    b) come mezzo di correzione o d’emenda ;  dappoiché non ostante tante vane esperienze del  passato non è poi legittimo abbandonare del tutto  questo concetto, almeno entro certi limiti, e in  certi campi d’esperienza. Più che d’una pena  emendatrice e molto meno esemplare, nell’antico  senso, possiamo parlare d’una pena riforma¬  trice (1), che estende la sua azione entro certi li¬  miti e ordini speciali, sempre subordinando questo  scopo al presupposto d’una specificazione penale,  che è il capo saldo d’una riforma, che voglia rag¬  giungere scopi praticamente utili;   c) infine come riparazione, e qui prende posto  il concetto simbionistico dell’adattamento. In altri  termini, qui il problema si pone cosi : è possibile    ghilterra 72.000 (5000 per anno) suppliziati, sotto Elisa-  betta 89.000 (2000 per anno); quindi non ostante l’au¬  mento di popolazione, il numero diminuisce da migliaia,  a centinaia, a decine per anno: nel periodo 1800-1825,  1615 esecuzioni, cioè 80 per anno ; durante il regno di  Vittoria, da 10 a 38 per anno. In Francia, dal 1820 al  1830, 72 per anno ; dal 1830 al '40, 30; dal '40 al '50, 39;  dal 1850 al '60,28; dal 1860 al '70, ix; i87o-’8o, 11, 1880-  9 °. 5 -   (1) Hòffding, op. ci/., pag. 521-522; pag. 524, dove si  accosta all’idea espressa da Tònnies, che cioè l’idea di  pena deve trasformarsi in un’idea più alta, quella cioè  di un conveniente trattamento del colpevole: "Se l’in¬  dividuo è stato costretto a riparare nella misura del pos¬  sibile il male causato agli altri, il resto di questo tratta¬  mento penale deve essere logicamente di natura tale che  concorra a guarirlo ed educarlo „. “ L’avvenire, non il  passato, rende la pena necessaria pag. 525.           CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE    H9    sì o no, e ad ogni modo entro quali limiti, fare  del delinquente, dell’uomo antisociale e distrut¬  tore dei valori civili, un collaboratore e un pro¬  duttore di utilità sociali ? Si tratta di determinare  i mezzi opportuni a fine di cercare nei sistemi  penali le condizioni artificiali di questa simbiosi.  Nessuno si nasconde le difficoltà contenute in  queste premesse, ma in pari tempo nessuno può  negare ch’esse soltanto custodiscono in sè i germi  del progresso futuro, e la soluzione d’una delle  più inquietanti questioni che travaglino l’uma¬  nità. Nell’economia delle energie naturali nulla si  perde : tutto sta nel trovare il loro punto giusto  d’applicazione. « Se la scienza ora ci addita al¬  leanze di due ordini di piante inutili o dannose;  i funghi e le alghe, dar luogo ad un terzo ordine  utilissimo come il lichene, un tempo si avvicina  in cui la società troverà il modo di far vivere,  con opportuna coltura simbiotica, non il delin¬  quente nato, l'uomo assolutamente refrattario alle  relazioni sociali, che però tende a scomparire man  mano, che alla criminalità atavica si sostituisce la  criminalità evolutiva, ma il criminaloide in mezzo  al fiorire della civiltà progredita, non solo sop¬  portandolo, come si sopportano, immunizzando gii  organismi, veleni e tossine dei microbi e dei ba¬  cilli, ma anche utilizzandolo a suo vantaggio !» (1).  Isaia non ha scritto : < il lupo e l’agnello pascole¬  ranno insieme e il leone mangerà lo strame come    (1) Lombroso, L'uomo delinquente (cause e rimedi).  1897, pag. 621 e seg.     GIUSTIZIA    ISO   il bue, e queste bestie non faranno danno, nè  guasto ? » .   Rimane da prendere in esame il secondo  punto di vista : quello cioè della dichiarazione  di responsabilità. La prima domanda che si  presenta spontanea è se questa dichiarazione  sia necessaria. Per me la risposta è assolutamente  affermativa. Anche se noi volessimo giungere alla  negazione teorica del libero arbitrio, anche se ac¬  cettassimo la conclusione del più assoluto determi¬  nismo, formulando la massima che ogni delinquente  è un ammalato od un irresponsabile, tutto questo  conato logico non ci salverebbe dal bisogno pra¬  tico di determinare un criterio di responsabilità,  senza il quale nessuna attuazione della giustizia  sembra possibile. Il giudizio umano, in quanto è va¬  lutativo del nostro operare, cammina sopra questo  terreno, nessuno sforzo per trascendere i limiti  della coscienza può approdare a qualche risultato.   Impossibile oggi rinnovare le antiche dispute  sul problema della libertà, ardente logomachia,  che ha perduto per noi ogni reale significato. La  responsabilità, giudicata psicologicamente, che è  quanto dire scientificamente, è l'attuazione stessa  della coscienza. Essa coincide nel suo progressivo  sviluppo con ciò che possiamo chiamare la per¬  sonalità, e realizzandosi nei processi integrativi  dell 'io, è in un certo senso correlativa al potere  di sentire l'unità continuatrice della vita. L'e¬  lemento di coscienza che introduce nella con¬  dotta , facendone convergere gli sforzi verso  un fine, ch’è l’ideale di essa, fa conseguente-          CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE 151    mente emergere nella coscienza la visione di¬  stinta della nostra personalità, cui aderisce un sen¬  timento di responsabilità, per modo che ogni atto  nuovo viene giudicato alla stregua di ciò che già  abbiamo realizzato in noi. Ridurre le frazioni  aritmetiche di cui si compone la nostra vita allo  stesso denominatore d’un comune ideale, ò cer¬  care appunto quell’unità direttiva, e imprimere  quell’unico marchio di fabbrica agli elementi  molteplici della nostra attività volitiva, che li rende  coscienti prodotti nostri, parti integranti della  nostra vita.   L’uomo sente la sua personalità e la sua li¬  bertà ad un tempo, quando sfuggendo alle mille  suggestioni d'una condotta estemporanea, riesce  colla riflessione a coordinare gli atti che compie, e  a giudicare ognuno di essi in correlazione coi pre¬  cedenti, per modo da rendersi ragione di ciò che  fa. La volontà non è una facoltà, ma una funzione:  essa agisce coll’educazione in modo stabile sia  come freno sia come stimolo, è redine e frusta  degli impulsi e delle energie spirituali, e conduce  ora trattenendo, ora sollecitando, esperto coc¬  chiere, il carro degli affetti e dei desideri per la  difficile via della vita. Tutti i tipi mentali infe¬  riori, che per mancanza d’attività riflessiva non  sono pervenuti se non scarsamente ad un certo  dominio spirituale di sò stessi, può dirsi vivano  una vita più frammentaria che integrale, sentono  meno il proprio io come un’unità, e perciò più  facilmente soccombono preda all’impetuosa onda  dell’istante presente, ed ànno dei loro atti una        152    GIUSTIZIA    responsabilità corrispondentemente manchevole.  L'elemento collettivo della vita antica, preva¬  lente in tutte le condizioni sociali meno evolute,  contribuisce ad ostacolare l’emersione della per¬  sonalità singola dal gruppo, villaggio, tribù, chiesa,  setta o famiglia. E questo ci spiega quanto a lungo  l'uomo abbia ignorato il problema della respon¬  sabilità personale, e quanto spesso nella pratica  giudiziaria dei popoli barbarici il gruppo fu coin¬  volto in una responsabilità collettiva sia come  offeso sia come offensore (i). Il punto di vista  classico è assolutamente estrinseco, guarda all'a¬  zione compiuta e non fa ricerca della volontà,  anzi molte volte affoga questa volontà dell’agente  in una misteriosa e suprema volontà fatale, che  la travolge senza possibilità di resistenza !   Lo spirito animatore del Cristianesimo ha avuto  un'importanza decisiva nella formazione della co¬  scienza morale. Il suo più importante coefficiente  è la riflessione continuata sopra sè stesso, a cui  la Chiesa obbliga il suo seguace. L’uomo, curvo  sulla sua stessa coscienza, ne scruta l’abisso, ne  sorveglia i moti, ne vigila e spia ogni tendenza.  Questo eccessivo esercizio di controllo e di esame  può anche talvolta paralizzare l’azione, sfibrare  la volontà, recidere i nervi all’opera. Ma per la  prima volta forse l’uomo ha sentito acuto il morso  della responsabilità, sia come pentimento dopo il  fallo compiuto, sia come ammonimento e scru¬    ti) Hòffding, op . cit ., pag. 512.        CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE    153    polo nel dubbioso momento della scelta. II Cri¬  stianesimo è eticamente individualista, in questo  senso che pur pareggiando in un comune destino  le anime umane, assegna ad ogni spirito un va¬  lore suo proprio ed un fine personale, la sal¬  vazione, e verso questa fa tendere in una con¬  vergenza massima tutti gli sforzi, tutte le energie  del volere. Per la prima volta nel mondo morale  si opera l'unità della vita interiore, e questo plinto  focale , in cui si riassume il fascio dei raggi psi¬  chici, è la fede (1).   I gradi della responsabilità sono dunque quelli  stessi di questa integrazione personale. Libero  de’ suoi atti, in un rigoroso senso psicologico, è  l’uomo che li riconduce a motivi, ch’egli ricava  dalla stessa costituzione logica del suo pensiero  e del suo sentimento. Sotto questo aspetto gli  stati emotivi contrastano coll’esplicazione della li¬  bertà morale, in quanto espongono la nostra con¬  dotta a tutti i dislivelli e alle capricciose saltua¬  rietà del momento attuale, non coordinato nè  subordinato a ciò, che possiamo chiamare l'espo¬  nente della nostra vita psichica. Wili representes  thè higkest coordination of thè ideas, feelings and  movements, dice con efficace concisione Maudsley.  Una vita guidata dal volere, è quella nella quale  man mano che si presenta un'idea impulsiva, è  confrontata e subordinata a un ideale più largo,  o al complesso valore e proposito, inerente al con¬    fi) Hòffding. Histoire de la phdosop/iie moderne. Paris,  1906, pag. 9-io.    Zino Zini, Giustizia.    20       154    GIUSTIZIA    cetto della vita ; nella quale all’azione del tipo  riflesso è sostituita un’azione, che è il risultato  di una scelta deliberata; nella quale in luogo  della guida coercitiva dell’idea immediatamente  dominante, noi abbiamo la guida, che deriva da  una riflessa considerazione delle rispettive esi¬  genze delle diverse idee, che appaiono nel campo  della coscienza e competono per la prevalenza.  Qui è l’unico e caratteristico elemento dell’atti¬  vità umana, in forza del quale noi attribuiamo il  volere all’uomo (i).   Tentando una psicologia della scelta bisogna  partire dalla concezione di sistemi psichici, che  sono risultato di processi associativi resi stabili dal¬  l’abitudine (2). Tutto il problema dell’educazione  nella famiglia, nella società, col concorso della  religione, della coltura e del costume, consiste  nel creare questi sistemi, quanto più numerosi,  quanto più ricchi d'associati, quanto più abituali  sia possibile. Arrestare l'impulso mediante l’ini¬  bizione, e promuovere la scelta mediante la de¬  liberazione, ciò equivale, in altre parole, a creare  il senso della personalità nei nostri atti ; in quanto  essi facendo più a lungo soggiorno nella coscienza,   (1) Maudsley, Physiology of Mimi, pag. 486. — Conf.  Ribot, Les maladies de la volanti. Paris, 1901, pag. 153.   — Seth, A Study of Ethical Principlcs. 1894, pag. 41.   — Wundt, Et/iics (trad. ingl.). London, 1901, III, pag. 37.   (2) Ladd, Philosophy of conduci, pag. 143 : “ la libertà  morale è un acquisto graduale che dipende dall’eser¬  cizio ripetuto di ciò che chiamiamo potere di scelta,  sotto il principio dell’abitudine „.         CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE    155    prendono maggior contatto cogli elementi della  nostra vita anteriore, lasciano di sè un più dure¬  vole ricordo. La traduzione pura e semplice del  pensiero in azione, nella condotta impulsiva, ca¬  ratterizza l’incoscienza o quanto meno il minimum  di coscienza, l’azione irreflessiva del bambino,  del selvaggio, del primitivo e del delinquente.  Essa sorge improvvisa e scatta senza prepara¬  zione e senza motivi adeguati, eccessiva e peri¬  colosa. Così nel delitto d’impulso, il pensiero cri¬  minoso traversa come un lampo sinistro il cielo  della coscienza, non vi si sofferma, non vi si as¬  socia, non fa personalità. È la vita psichica ad  uno stato di coerenza embrionale e d’isolamento.  L’atto segue il pensiero con una continuità di¬  retta. La conseguenza è necessariamente lo scarso  senso di personalità e di responsabilità che lo  accompagna ; c’è qualcosa di non voluto e d’im-  posto, di cui l’autore serba come una vaga im¬  pressione : lo stupore d’aver potuto fare 1 L’in¬  coscienza, che rimproveriamo al delinquente, è in  certo qual modo la triste giustificazione del suo  stesso reato (1).   Anche gli stati passionali interessano il pro¬  blema della responsabilità. Sotto il loro impero,  parla, gesticola ed agisce il fantoccio dell’eterna  commedia umana, sul palcoscenico della vita,  quasi alienis nervis mobile lignum. Ma se i poeti  anno sentito la passione, questo massimo mo¬    li) Grasset (Revue des Deux Mondes, 15 fév. 1906),  Les demi-fous et les demi-responsables, pag. 835 e seg.           156    GIUSTIZIA    tore delle energie umane, e tanto frequentemente  ànno rappresentato e descritto nell’opera d’arte, ef¬  figiato nei quadri o nelle statue colla sua maschera  divina e repugnante di odio e d’amore, questo  fiore supremo dell’anima, carico di tutti i pro¬  fumi più inebrianti e di tutti i più letali veleni,  che personificato nei mille eroi del teatro, è, volta  a volta, la gelosia d’Otello, la follia amorosa di  Giulietta, l’avarizia di Shylock, la cupa ambizione  di Riccardo III ; la più parte dei filosofi a tutt’oggi  si sono accontentati di giudicarla, e quasi sempre  sfavorevolmente. Dagli Stoici, infatti, a Kant, la  passione fu considerata, come un disordine del¬  l’anima, una malattia dello spirito, che perturba  la retta ragione, per cui bisogna estirparla dal  cuore, incatenarne gli impulsi, liberarci dalla sua  ossessione, che dovette apparire assai spesso, agli  occhi del severo moralista cristiano, malefica  opera demoniaca.   Lo studio scientifico della passione deve ini¬  ziarsi con un’esatta determinazione del suo signi¬  ficato. Troppo a lungo, infatti, questi stati affet¬  tivi sono stati confusi con l’emozione in generale,  di cui non rappresenterebbero che un grado di  più alta intensità. Bisogna dissipare questo equi¬  voco. Un vero antagonismo sta anzi tra l'emo¬  zione e la passione ; « la prima, dice Kant, agisce  come l’acqua che rompe una diga, la seconda  come un torrente, che si sprofonda sempre più  nel suo letto ; la prima è un’ebbrezza che  passa, la seconda un delirio che cova un’idea, la  quale s'imprime con tenacia sempre crescente >.         CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE    157    Cosicché il Malapert distingue nei caratteri af¬  fettivi i tipi emotivi e i tipi passionali, come  opposti tra loro ; e l’esperienza quotidiana dimo¬  stra, che i temperamenti più inclini all’emozione  sono alieni dall’abbandonarsi alla lenta e tiran¬  nica predominanza della passione, mentre l’a¬  more, l’odio, l'ambizione, e in generale ogni  forma di passione nobile o volgare, sorge in uo¬  mini di carattere saldo, schivi da facili e bruschi  impeti d’affetto, caratteri chiusi, come si dice,  e apparentemente tetragoni ai suoi assalti (1).  Del pari dove è più ricca la vita emotiva, come  nelle donne, fanciulli, primitivi, più rare sono le  vere passioni, sebbene non manchino del tutto  e se ne trovino alcune speciali c allo stato istin¬  tivo. Ma ciò che più caratterizza lo stato passio¬  nale e lo differenzia dall’emotivo, è l’elemento  di riflessione ch’esso contiene. Questa intellet¬  tualità della passione, per cui ha potuto essere  giustamente definita dal Ribot : « l’idea fissa del  cuore » e dall’Hood « otte sterri , tyrannic tougkt,  that made all otker toughts its slaves », dà al  fatto passionale quel carattere di lunga preme¬  ditazione, di scelta adeguata dei mezzi, che net¬  tamente lo distinguono dal semplice impulso  emotivo, improvviso, disordinato e sragionevole,  per cui a torto si confondono col nome di delitti  passionali quelli dovuti ad un’emozione, mentre  la responsabilità può risultare diversa. E infatti,   (1) A. Renda, Le passioni. Torino, 1906; — Ribot,  Quest-ce qti'utte passion? Commetti les passiotis finis-  seni (Revue philosophique, mai-juin 1906).         158    GIUSTIZIA    chi non intende che la criminalità emotiva, la  quale è un raptus senza preparazione cosciente,  sorge improvvisa e rapida, mentre la criminalità  passionale è l’esito di un processo lento di al¬  terazione della personalità, è un atto talvolta pre¬  parato con la parvenza di volizione libera, sempre  effetto di una accumulazione lenta ed incessante  di motivi subcoscienti e spesso illusori ? Illusori  perchè nella genesi e nello sviluppo di un fatto  passionale ha molta importanza l’immaginazione.  Il lavorio rappresentativo, che dissocia i ricordi  e li riduce ad un comune denominatore senti¬  mentale, è una gran parte dell’attività psichica  della passione. La fantasia l’alimenta col fascino  delle imagini rievocate, che hanno ora le carezze  d’un sogno attuato, ora i tormenti d’un incubo  molesto. È in questo senso che si può vera¬  mente dire che le passioni sono stati caratteri¬  stici della personalità, sono polarizzazioni parti¬  colari degli elementi formativi della coscienza.  Il problema complesso della personalità è tut-  t’altro che risolto: tuttavia gli studi così sugge¬  stivi di Myers, Binet, Ribot, Janet segnano il  cammino che deve condurre alla maggiore sco¬  perta della psicologia (i). L'io, questo summum    (i) Myers nel suo saggio sulla coscienza sublimare  (Proceedings of thè Society for Psychycal Research,  voi. VII, pag. 305). — Bidet, ics altérations de la person-  nalité. Paris, 1892. — Ribot, Les maladies de la persoti-  nali/é, Paris, 1899. - Jadet, L 1 automatisme psycholo-  gique. Paris, 1903.        h CAP. VI • LA PENA RIPARATRICE    *59   psyckicum, infinitamente vario e complesso, e pur  sempre uno ed identico, è oggi compreso come  l’epifenomeno di una lenta stratificazione delle  esperienze vitali raccolte, associate e strette nella  rete della memoria. Armonia musicale unifica¬  trice delle note molteplici della nostra vita,  invisibile filo conduttore tra i momenti dell'esi¬  stenza, l ’io si cristallizza secondo sistemi innu-  merevolmente diversi, e spesso accade, che il  suo processo d’elaborazione possa essere tur¬  bato, ovvero ch’esso, già formato, possa alte¬  rarsi in sèguito. Ogni malattia dello spirito in¬  tacca la personalità, altera ciò che di più delicato  ha prodotto la vita psichica, la fisionomia perso¬  nale deH’anima. Se l’emozione è l’oscillazione  grande o piccola, il fremito o la scossa dellVc,  sempre la rottura brusca dell’equilibrio, la pas¬  sione è la sua lenta disgregazione, è il suo nuovo  e permanente orientamento, la direzione costante  data alla corrente del pensiero e dell'affetto. Nello  spirito accade quello che possiamo avvertire nei  moti dell'oceano : le masse liquide del mare s’in¬  crespano, s'innalzano e si sconvolgono, sotto la  variabile pressione atmosferica, in onde e tem¬  peste ; questi spostamenti della superfice sono le  emozioni ; ma al disotto, per la differenza di tem¬  peratura e di densità, i profondi strati compon¬  gono una rete di correnti continue, e questa si¬  lenziosa circolazione di acque in direzione costante  è la passione. La sua morbosità può essere tanto  in sè stessa quanto negli effetti ; perchè lo stato  passionale è una forma di monoideismo e di au-        i6o    Gl USTIZIA    tomatismo associativo, conseguenza di un pro¬  cesso di riduzione psichica, che tende a far rien¬  trare tutta l’esperienza in un unico cerchio  d’attrazione intellettuale. Questa tirannica impo¬  sizione dell'*'0 passionale diminuisce per una parte  i freni inibitori, e per l’altra quel potere di se¬  lezione, che è il vero bilanciere nello spirito nor¬  male. Le passioni sono equivalenti psicopatici,  soggette perciò alla legge dell'ereditarietà, e con¬  corrono a formare quella zona grigia intermedia  tra la sanità e la follia, che, notata dai psichiatri  e battezzata con nomi diversi, raccoglie gran¬  dezze e miserie, e dalla quale sbocciano talvolta  i fiori del male e i fiori più belli dell'attività  umana, eroi, santi, criminali, geni (i).   Studi come questi non hanno un interesse sol¬  tanto teorico, ma implicano importanti problemi  di responsabilità morale e giuridica, così difficili  e complessi, che alla loro soluzione occorre l'a¬  nalisi e il giudizio dell’uomo di scienza. Pur  troppo, noi siamo nella pratica sociale ben lontani  da questo ideale di giustizia illuminata e co¬  sciente, e ci serviamo tuttora di un grossolano  empirismo tradizionale, e ciò che chiamiamo  giustizia non è il più delle volte, che l’espressione  attenuata e socializzata di quell’antico spirito di  vendetta formulato nella legge del taglione :  occhio per occhio, dente per dente. Il cuore del¬  l’uomo è pur sempre la cosa più difficile a mu¬  tarsi.    (i) Renda, op . cit ., pag. 105.      CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE    161    Ma questo problema della responsabilità è  molto più complesso e più vasto di quello che  potremo a prima giunta sospettare, guardandone  soltanto gli aspetti più appariscenti e superficiali.  La psiche può avere in sè stessa le cause per¬  manenti o transitorie della sua propria debolezza  o della sua deformazione, sia come stati conge¬  niti, sia come forme acquisite nella malattia e  nei lenti processi di degenerazione. In tali casi  è facile constatare i disordini o le deficienze,  che distruggono l'armonia personale, e spengono  nell’azione coatta, nel delitto di bestiale ferocia  o di lussuria, ogni raggio d’intelletto umano.  Ma al disotto di questi tipi d’ irresponsabilità  evidente, che arrestano ogni nostro giudizio di  condanna, di fronte all’opera del pazzo, o del  degenerato o dell’ebbro, quante altre più miste¬  riose e nascoste forme di aberrazione della vo¬  lontà sfuggono alla comune attenzione, e do¬  mandano al loro riconoscimento maggior studio  e pili diligente analisi. Per intravedere tutta la  gravità del quesito, basti enunciare qui il fatto  della suggestione. Soltanto adesso la psicologia  comincia a penetrare i segreti di questi stati ge¬  neralissimi dell’anima, che dai più semplici gradi  della credulità, della docilità infantile, fino ai più  complessi fenomeni dell’ipnosi e del contagio psi¬  chico, lasciano supporre intorno ad ogni spirito  umano come una invisibile sfera d’induzioni re¬  ciproche, alla quale potremmo riferire la causa  di molte oscure e inesplicate manifestazioni del  volere.    Zino Zini, Giustizia.    21          IÓ2    GIUSTIZIA    Ogni moto della volontà è la risultante d'un  infinito numero di fattori ; e non è possibile  mettere sopra una bilancia l’atto, in cui il suo  dinamismo si concreta, per valutarne il giusto  peso. Chi potrà darci ragione della condotta ar¬  bitraria o contradditoria ? Bene e male sono pro¬  dotti morali, ma è ancor troppo puerile il giu¬  dizio di Taine, per cui virtù e vizio escono dal  laboratorio della coscienza non altrimenti, che  zucchero e vetriolo da quello della chimica.  Ma, come dal punto di vista dell’interesse fisio¬  logico non possiamo esimerci dal pronunciare  un giudizio apprezzativo intorno alle proprietà  utili o dannose del vetriolo e dello zucchero,  perchè pretenderemmo proibirci una correlativa  valutazione dell’opera umana buona o cattiva,  esprimendo intorno ad essa il biasimo o la lode ?  L’errore capitale, che ha traviato tanto pensiero  speculativo, è appunto in questa arbitraria disgiun¬  zione dei due atteggiamenti che può assumere   10 spirito nostro in faccia alle cose giudicandole,  in quanto cioè le conosce e in quanto le stima.  Nel primo caso le studia, le analizza e le ricon¬  duce alla causa e alla legge — giudizio teorico  — nel secondo le valuta, le apprezza nei loro  effetti, le accetta o le respinge — giudizio piratico.   L’astrazione può scindere i due momenti del¬  l'attività spirituale e può farne due entità a sè ;   11 filosofo può dire : io guardo all’atto umano in  sè, come qualcosa di distinto nel mondo, lo ri¬  conduco al suo agente personale, lo giudico buono  o cattivo secondo l’intenzione e il fine a cui è       CAP. VI • LA PENA RIPARATRICE 163   converso, lo approvo o lo condanno, e faccio una  astratta dichiarazione di responsabilità a carico  od in favore del suo autore ; il naturalista può  a sua volta affermare : per me non c’è nulla di  isolato nell’universo, nulla che debba essere giu¬  dicato in sè, ma sempre in relazione co’ suoi an¬  tecedenti e co’ suoi conseguenti, un atto eroico,  come una mostruosa scelleratezza, sono epifeno¬  meni, sono sintesi d’infiniti precedenti fisiologici  e psicologici ; io analizzo, io spiego, io non mi  entusiasmo, come non m’indigno, ma interpreto  soltanto e stabilisco la causalità. Andando per  la strada il mineralogo può raccattare colla stessa  sollecita curiosità un ciottolo od un diamante, e  l’uno e l’altro sono dati dalla realtà, e possono  diventare oggetto di scienza I Ciò non toglie che  quello stesso ciottolo e quello stesso diamante  possano, agli occhi d’uno spaccapietre e d’un  gioielliere, diventare oggetto d’un giudizio di  stima e di pratica valutazione assai differente.   L’uomo conosce ed opera; e il mondo è un  complesso di dati e di valori. Un atteggiamento  esclusivamente teoretico della morale è assurdo,  come sarebbe ugualmente assurdo un atteggia¬  mento esclusivamente prammatico. In fondo bi¬  sogna persuadersi di questo, che anche la stima  non meno che la scienza fanno parte della realtà.  Non esiste soltanto l’oggetto come parte del  reale, ma esistono anche in questo i suoi rapporti  col soggetto, rapporto teorico, che chiamiamo  rappresentazione, rapporto pratico, che chiamiamo  emozione. Anche questi sono elementi deil’uni-       164    GIUSTIZIA    verso, allo stesso modo, che è parte della realtà  non solo il sole e l’acqua, ma anche la rifra¬  zione del raggio solare nell’acqua, non solo il  ferro e l’aria, ma anche l’ossido di ferro, che si  forma col loro contatto. Così di fronte al fatto  umano è legittimo, anzi doveroso, domandare il  perchè di esso, interpretarlo nella sua genesi e  seguirlo nel suo svolgimento, ma è egualmente le¬  gittimo valutarlo in rapporto a noi, come utile o  come danno, accettandolo con piacere o respin¬  gendolo con repugnanza. E i due fatti procedendo  associati, l’elemento razionale illumina d’una co¬  scienza nuova i nostri affetti, e la reazione al-  l’offesa o al danno, che costituisce la giustizia  repressiva, perde del suo carattere di selvaggia  rappresaglia e di vendetta, per acquistare quella  di tutela e di riparazione.   Il bambino può battere la sedia contro la quale  ha urtato, il selvaggio, il primitivo possono rea¬  gire brutalmente sfogando l’ira e il dolore pro¬  vocato da un danno od un oltraggio ; ma l’uomo  colto e civile perviene ad un concetto nuovo di  colpa, e trasforma parallelamente i suoi mezzi  di reazione. Colpa non è più per lui il classico  stato d’animo, che si tratta di scrutare, e sorpren¬  dere ne’ suoi intrinseci fattori, facendo un rigo¬  roso processo all’intenzione, non è più il peccato  che si deve espiare; colpa è l’atto lesivo dell’in¬  teresse e del diritto umano, colpa è il danno  sociale, che deve essere riparato. Noi non pre¬  tendiamo più giudicare l’intimo valore dell’azione  — chi può osare tanto? — il mistero della coscienza       CAP. VI • LA PENA RIPARATRICE 165   operativa; questo complicato laboratorio della  chimica spirituale sfugge a tutti i nostri mezzi  d’indagine. Per quale labirinto la volontà giunga  all'esplosione dell'atto, noi stessi, che agiamo, non   10 sapremmo dire. L’unico criterio ragionevole  del nostro giudizio è fondato sull’esteriorità. La  responsabilità di cui oggi parliamo, è soltanto  quella che si rivela dai fatti. Noi non aspiriamo  al riscatto della colpa, considerata dal lato sog¬  gettivo ; noi miriamo alla riparazione. Ogni forma  di pena espiatrice tramonta, il dolore è per sè  stesso sterile, e l’uomo che si compiace del ri¬  morso, del pentimento e delle lacrime, che la  sofferenza fisica o morale strappa al colpevole,  persiste nella tradizionale attitudine, che ha fatto  del giudice umano un rappresentante di quello  divino sulla terra, e nella crudele domanda d'un  sacrificio, come la divinità irata domanda a pla¬  carsi una vittima.   Il concetto nuovo che noi abbiamo elaborato  della giustizia è la riparazione, senza inquinarne   11 significato con alcun elemento atavico di ven¬  detta o di rappresaglia. Ciò che domandiamo è,  che sia risparmiato il dolore d’ogni creatura  umana, o che sia mitigato quello, che l’opera  umana possa aver provocato. Siamo ritornati in  parte all’antica idea della fatalità della colpa,  alla comprensione del delitto come una mostruo¬  sità o un’infermità dello spirito ; correlativa alla  deformità e alla malattia del corpo. Salvo che,  abbiamo potuto fare un passo più in là del pen¬  siero socratico o della finzione allegorica dei tra-     i66    GIUSTIZIA    gici : la colpa non è soltanto ignoranza o maligna  volontà d’un agente esteriore, che grava la sua  mano implacabile sopra di noi ; Edipo, parricida  e incestuoso e pur innocente, che un destino  feroce conduce al delitto e al rimorso. Noi scio¬  gliamo nei suoi fattori il prodotto, noi chiamiamo  il fato degenerazione ed ereditarietà, noi facciamo  l’analisi della volontà, e decifriamo la misteriosa  scrittura delle tendenze malvagie, degli impulsi  e delle ossessioni criminose. E questa conoscenza  del fenomeno criminale e della natura del delin¬  quente dà nuovo fondamento al giudizio valuta¬  tivo, che facciamo di lui, e illumina di nuova  luce il problema della penalità.   Ogni atto delittuoso è lesivo della coopera¬  zione umana, che sta a fondamento della giustizia,  od in altre parole, è una negazione di questa  coordinazione di fatti e pensieri, che compendia  la società. In questo senso appunto il crimen è  antisociale. Il giudizio di questa antisocialità non  ha scopi d'espiazione, ma soltanto di prevenzione,  di difesa e di riparazione. In questo senso si  potrebbe quasi arrivare alla conclusione, che l’e¬  spressione di giustizia è impropria; perchè infatti  parlare di giustizia, mentre si tratta soltanto di  misure protettive, che garantiscano la continuità  della vita collettiva, e realizzino quei riadattamenti  della cooperazione umana, che il delitto ha tur¬  bato? La responsabilità valutata psicologicamente,  come espressione della volontà, accompagna sol¬  tanto la vita normale. Ogni reo è in un certo  senso un anomalo; noi non siamo quindi chiamati       CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE    167    a compiere in suo confronto un vero atto di  giustizia, ma soltanto di intelligente previsione  dell’evento futuro probabile. Ciò, che oggi è un  giudizio penale, diventerà domani determinazione  di valori socialmente negativi, graduazione di  danni reali o presunti. Fuori di ciò, è sempre  nell'esercizio del potere punitivo più o meno ce¬  lato un bisogno di vendetta, un proposito di rap¬  presaglia, una crudele volontà di far scontare il  male commesso, quia peccatum (x).   La storia della pena è un interessante capitolo  della psicologia collettiva : essa parte da una ca¬  pricciosa collezione di supplizi, tormenti e ca¬  stighi, distribuiti secondo criteri personali; e poco  a poco, giusta una legge di riduzione, alla puni¬  zione arbitraria e soggettiva si sostituisce, o tende  sempre più a sostituirsi, una giustizia egualitaria.  Non discutiamo dove si realizzi meglio la san¬  zione penale : in un trattamento oggettivo di  tutte le colpe, ovvero in una applicazione della  pena con riguardo delle condizioni soggettive  del colpevole. La grande illusione, radice di tutti  questi sterili tentativi, è quella che la pena sia  un male da restituire al colpevole in proporzione  del male, che ha fatto. Realizzare questo concetto,    (1) Hòffding, Morale , pag. 525: “ la dottrina del ta¬  glione esercita ancora sulle idee ordinarie del delitto  e della pena un tale influsso, che si può considerarla  come uno dei principali ostacoli ad una sistemazione ra¬  zionale del diritto penale „. — Solovieff, La questiou  pénale au potiti de vite élhìque (Renne Interri, de Socio!.,  1897, P- 521*524)-         i68    GIUSTIZIA    trattando tutti alla stessa stregua, senza conside¬  razione personale, ovvero dando a ciascuno quella  pena, che sia il condegno castigo del suo fallo,  è questione affatto secondaria di fronte al pro¬  blema principale, che è quello di stabilire il signi¬  ficato della pena. Esso è nella nostra coscienza  cambiato radicalmente. Lo ripetiamo: la pena non  essendo nè espiazione etico-religiosa, nè vendetta  individuale o collettiva, non può avere altro fine  pratico che un sistema di ragionevole tutela o ap¬  prossimativa prevenzione, innestata sopra un pro¬  gramma minimo d'emenda, e fondata sopra legit¬  timi intenti di riparazione. Dato questo, cessa ogni  vana ricerca di proporzionalità colla colpa, che non  è in definitiva, se non un’astratta figura di reato  artificiosamente composto, e classificato in un  testo di legge, e molto meno colla capacità di  sentire il castigo per parte del soggetto, perchè  questo ci ripiomberebbe nei peggiori eccessi  della crudeltà penale, che abbiano disonorato il  nostro passato (i).    (i) Hóffding, Morale, pag. 525-526: “ Kant considera  come un imperativo categorico che ogni uomo debba  esser trattato com’egli tratta gli altri. Ma questo impera •  tivo non è che un ukase autoritario... Al contrario non si  ha diritto d’infliggere sofferenze ad un uomo, se non  deve risultarne sia per lui, sia per la società, sia per  entrambi, un bene di tanto maggiore „ ; pag. 527 : “ il  maggior progresso nello sviluppo morale dell’ uma¬  nità, fu fatto i^ giorno in cui si cominciò a mettere  in dubbio il principio : che bisogna rendere il male per  il male ...        CAP. VI • LA PENA RIPARATRICE    169    Se un criterio di specificazione nella pena deve  essere accolto, non può essere altro che quello  suggerito dalle qualità del delinquente, dalla sua  temibilità. L’unificazione e l’eguaglianza nel si¬  stema penale, che è una esigenza pratica nella  nostra fase civile e politica, subita come un’in¬  giusta necessità, è in fondo più fittizia, che reale.  Poiché non c’è mente umana che possa distri¬  buire il dolore della pena secondo una perequa¬  zione universale; e quando anche lo potesse non  so perchè lo vorrebbe, visto che il fine della  giustizia non può essere questa esatta ripartizione  del dolore secondo le colpe ; nessun sistema di  giustizia può evitare l’ingiustizia. Solo il nostro  grossolano senso di democrazia può appagarsi  della nota formola: la legge è uguale per tutti,  presa nel suo significato brutalmente realista. C’è  un certo crudele compiacimento in questa falce  livellatrice dei regimi penitenziari, come in quella  della morte.   Per un’altra via noi ritorniamo al criterio sog¬  gettivo della pena: il giudice dell’avvenire, spoglio  d'ogni ultima traccia di questo atavico risenti¬  mento verso il reo, attuerà il sogno d’una giu¬  stizia fondata sulla pietà. In tal caso un certo  potere arbitrario affidato al giudice, troverebbe  la sua giustificazione nel progressivo convinci¬  mento della coscienza umana, che ogni delitto,  essendo una mostruosità o permanente o transi¬  toria, nessun colpevole può suscitare nè disprezzo  nè rancore, ma soltanto suggerire caso per caso  cure e prevenzioni tutelatrici di lui, come di noi    Zino Zini, Giustizia.    22        170    GIUSTIZIA    stessi(i). È in questo senso che cade l’intero edi-  fizio delle sanzioni, così laboriosamente costrutto  nella mente dei teologi, dei filosofi e dei giu¬  risti (2). Si direbbe che l’uomo abbia diffidato a  lungo della sua attitudine a formare nel suo pro¬  prio mondo un ordine di giuste relazioni sia come  ricompense, sia come castighi, e quasi confessando  a sè stesso la sua impotenza, abbia creduto d'al¬  leggerirsi di questo carico increscioso, affidando  il compito d’attuario alla natura, a Dio, alla legge!  Sempre si è invocato e s invoca la Giustizia,  quasi una divina forza terribile, che è fuori di  noi, e di cui noi reclamiamo il miracoloso inter¬  vento sulla terra. Ma in realtà c’è tanta giustizia  nel mondo per l'uomo, quanto ce n’è nel suo stesso  cuore. Noi non dobbiamo domandare agli altri,  ma ricercare in noi stessi quello che è giusto.   Per conquistare la sua piena autonomia, la vita  morale deve perdere ogni carattere di coazione,  sia pur essa intrinseca, ed immedesimata nel fan¬  tasma kantiano d’un imperativo categorico, sia  essa invece estrinseca, come lode o biasimo, ven¬  detta degli uomini o vendetta della natura e di  Dio. Il dovere è parola ancor troppo ferrea per  esprimere l’elemento di spontaneità, che dovrà  raggiungere l’atto morale. Ed anche la giustizia,  che oggi è prevalentemente concretata nelle in¬  flessibili forinole della legge, che vieta o co-    fi) Hòi-'fding, op. cit., pag. 518.   (2) M. Guyau, Esquisse d’uite morales ans obligation,  ni sanclion. Paris, 1893.            CAP. VI - LA PENA RIPARATRICE    171    manda, minacciando a’ suoi trasgressori i rigori  delle sue dure sanzioni, viene trasformandosi sem¬  pre più nelle addolcite forme dell’equità. Dalla  giustizia coercitiva alla giustizia consensuale, è il  passaggio dalla violenza alla libertà, luminosa via  di progresso, al cui termine sta la ragionevole  adesione dell’uomo al giusto (1).    (1) Y. Guyot, Journal ties Economistes, 15 dee. 1899,  voi. XL, pag. 322: " il progresso è in ragione diretta  dell’azione dell’uomo sulle cose, ed in ragione inversa  dell’azione coercitiva dell’uomo sull’uomo „.           Epilogo.    Progresso è il nostro stesso adattamento : esso  si compie inconsciamente in una più lunga fase  della storia umana, e coscientemente soltanto  nei più brevi, ultimi periodi di essa. Il progresso  non ò una finalità della vita, è anzi piuttosto  il suo risultato definitivo, e s’attua come una  cosciente necessità.   Il suo cammino è lento e disuguale, e le sue  manifestazioni possono anche presentarsi al nostro  giudizio, contradditorie. Come la sua base è es¬  senzialmente biologica, consistendo in ultima  analisi in un prolungamento della vita singolar¬  mente considerata e in un aumento numerico  degli esseri umani chiamati a parteciparvi, così  ciò che lo caratterizza è lo sviluppo intellettuale  ed economico (i).    (i) Galton, Hereditary Genius. London, 1892, p. 327.  “ L’uomo era barbaro ancor ieri, non possiamo quindi  pretendere che le attitudini naturali della sua specie                EPILOGO    173    Intellettuale perchè il maggior adattamento  dell’uomo al suo ambiente terrestre è il risultato  duna vittoria dello spirito sulla natura. La do¬  minazione umana è mentale prima d'esser fisica;  perchè infatti non sono le forze materiali del¬  l'uomo che siansi sensibilmente accresciute per  dargli questa vittoria, bensì quelle dell’intelletto.  E qui dissipiamo un facile equivoco: progresso  intellettuale non vuol dire che 1 ’ intelligenza  umana sia individualmente aumentata, ciò che è  in reale aumento è il sapere, come sintesi sta¬  bile. La scienza è questo stromento o questo  metodo, questa mirabile e infrangibile arma della  nostra conquista sul mondo (1).   In aumento sono le condizioni materiali del  benessere, in conseguenza del perfezionamento  tecnico dell’industria umana. Ma accanto a ciò  quanta reale barbarie dentro e intorno a noi !  L’economia delle energie umane è ben lungi  dall’essere realizzata. Solo in ristrette oasi del    siansi già plasmate armonicamente nel suo progresso  troppo recente. La razza umana non era composta ab  initio che d’assoluti selvaggi, e dopo milioni di anni di  barbarie, l’uomo è solo da pochissimo tempo entrato  nella via della moralità e della civiltà,,.   (il Pearson, op. cit., p. 12 e seg. “ Il metodo appiana  le differenze tra gli spiriti. Quando occorra tracciare  un cerchio a mano libera, le differenze d’attitudini pos¬  sono aver la loro importanza, ma quando ci serviamo  d’un compasso, queste differenze scompaiono „. Hoff-  ding, Histoire de la philosophie moderne, Paris, 1906, 1 ,  p. 205.        174    GIUSTIZIA    lavoro si è parzialmente attuata la solidarietà e  l'armonia degli sforzi verso una più elevata uti¬  lità comune. In vastissime plaghe è tuttora pre¬  valente il deserto o la foresta impenetrabile.  Mille e mille sorgenti di vita, di ricchezza e di  felicità, o rimangono ignorate, o miseramente  esauste e isterilite senza frutto. Le funzioni ca¬  pitali della vita consorziale, guidate dall’empi¬  rismo più volgare o imprigionate nelle catene  dalle più servili tradizioni, smentiscono la legge  del progresso e formano intorno al corpo sociale  la fatale camicia di Nesso, destinata ad impri¬  gionare l’Èrcole umano nella tortura dell’impo¬  tenza (i). Ma l’eroe, memore delle sue imprese  gloriose e conscio della sua forza, si dibatte nel  laccio della sua stessa veste. I bisogni nuovi af¬  fermati dall’intelletto levano la loro voce potente  nella coscienza dell’umanità moderna, e lottano  contro la tenacia conservatrice e la resistenza  passiva del passato. I diritti del futuro saranno  salvati. Già le novelle forme della struttura so¬  ciale si lasciano intravedere, nei primi abbozzi  delle organizzazioni professionali (2). Il concetto  della società si trasforma sotto i nostri occhi ;  la coordinazione e l’aggruppamento libero fon¬  dato sulla scelta e sull’interesse prendono il    (1) Novicow, Les gaspi/lages des sociétés modernes.  Paris, 1894. — Id., La justice et l’expansion de la vie.  Paris, 1905. — Haeckel, Enigmes de l'Univers. Paris,  1905, P- 7 - 3 -   (2) Durkheim, Le suicide. Paris, 1897, p. 434, 444.         EPILOGO    175    posto delle coatte distribuzioni castali della  vecchia società, e dànno luogo ad un tipo nuovo  di vita collettiva e ad una colleganza spontanea  di interessi materiali e di simpatie morali (1).   11 nostro miglioramento etico non sta nella  evangelica redenzione di una colpa — come nella  grande crisi della civiltà antica s'illuse l’uomo  devoto alla sua fede messianica — e nemmeno  in un’ipotetica razionalizzazione della vita,seconda  grande illusione, nella quale si cullò l’umanità  per tre secoli uscendo fuori della notte medie¬  vale dalla Rinascita alla Rivoluzione.   La storia naturale dell’ uomo non conosce  questi miracoli: oggi sappiamo che non si rifà  la nostra natura. Noi non siamo affatto i vermi   nati a formar l’angelica farfalla,  che vola alla giustizia senza schermi.   Per dirla col poeta francese l’uomo morale  non merita   Ni cet excès d’honneur, ni cette indignité.    U) J.{Bryce, The American Commonwealth. New-York,  1906, voi II, p. 539-540, dove, notando lo sviluppo della  sensibilità morale e della simpatia filantropica os¬  serva “ che la vista del male che si potrebbe evitare  è per noi una pena ed un rimprovero, e colui che  predica la pazienza e la fiducia in un progresso naturale,  è considerato come un individuo sprovvisto di sensibilità.  Ogni uomo mette oggi più ardore a riconoscere la sua  responsabilità verso il prossimo e più sforzo a coope¬  rare alle riforme morali „.            176    GIUSTIZIA    Nessuna bacchetta magica, nè religiosa, nè  dottrinale, à fatto efficacemente sbocciare il nuovo  uomo dalla rude scorza del vecchio Adamo, col  suo tocco prodigioso. Mille volte i profeti hanno  parlato alla turba: ma i loro infiammati discorsi  di rinnovazione e di palingenesi morale sono ca¬  duti nel nulla, come l’acqua sulla sabbia, dove non  lascia alcuna traccia del suo passaggio. Anche  la voce della ragione, come quella del sen¬  timento, è vuoto movimento d’aria, nè desta  più che una eco fuggevole nella coscienza.  La vita saggia come la vita santa sono nobili  sogni, ma non altro, ove non preceda ad essi  l’opera deireducanone, cioè a dire l'adattamento  e il suo conseguente corteo di sane e forti abi¬  tudini. Il nostro progresso morale consiste nella  sistemazione della condotta, ciò che possiamo  indicare con una sola parola, carattere. Esso as¬  sicura nell’unificazione della coscienza l’equilibrio  stabile della vita.   Se la legge del progresso è l’adattamento,  questo impone la cooperazione : e ciò nel  senso di trarre da ogni energia umana il suo  massimo rendimento colla più esatta applicazione  al lavoro comune. Il senso di questo vincolo  solidale ai fini del progresso generale della vita  è un lento acquisto sperimentale, suggerito prima  e pur troppo ancor oggi prevalentemente e in  modo grossolanamente intuitivo, da un empirismo  quotidiano nell’angusta cerchia degli interessi  famigliari o professionali ; ma i lenti depositi  ch’esso lascia nella coscienza collettiva e che for-      EPILOGO    177    mano la parte migliore di ciò che chiamiamo  spirito sociale, saranno un giorno almeno nella  aristocrazia morale ed intellettuale dell’umanità  elaborati dal pensiero scientifico; e noi ricono¬  sceremo in questa solidarietà cosciente tradotta  in una pratica costante, la più alta legge della  vita consorziale; la forma più stabile dell’e¬  quilibrio tra l’uomo e l’universo sensibile che  lo circonda (1). Bisogna pensare alla genera¬  lizzazione ed alla stabile coordinazione di tutti  quei mezzi fisici e spirituali, che uniscono la  creatura umana al suo simile attraverso tutto lo  spazio abitabile, per sorprendere qui la suprema  manifestazione dell’ elemento cooperatore, che  sta a fondamento dell’universale energia! Il patto  d’alleanza che sembra esistere tra le forme infi¬  nitamente varie della forza, e il reciproco influsso  che al disopra degli incalcolabili abissi del tempo e  delle distanze, ogni frammento del cosmo esercita  e subisce sugli altri e dagli altri, può talvolta,  anzi spesso, essere stato infranto dall’ egoismo  cosciente dell’uomo durante il corso della sua    (1) Bryce, op. cit., II, loc. cit. “ La civiltà moderna  più complessa ed esigente, scopre altri profitti e van¬  taggi oltre quelli, che il potere organizzato del governo  le può garantire, e diventa bramosa di acquistarli. Gli  uomini vivono in fretta e sono impazienti della lentezza  d’azione della legge naturale. I progressi delle scienze  fisiche ànno accresciuti i desideri di benessere, e dimo¬  strato quante cose si possano fare coll’applicazione delle  abilità collettive e dei grandi capitali, cose che sono al  di là dello sforzo individuale „.   Zino Zini, Giustizia. 23       178    GIUSTIZIA    terribile e sanguinosa storia di guerra e di vio¬  lenza; ma il suo trionfo definitivo attraverso le  lotte più immani e le più sacrileghe iniquità,  è assicurata dalla necessità della nostra soprav¬  vivenza.   Vi sono, per così dire, due correnti nella storia  della società umana, l’una, la più visibile, quella  che à formato materia di racconti e di leggende,  l 'epos di tutte le genti e di tutte le età, convoglia  seco l'egoismo e la sopraffazione dell'individuo  o del gruppo gentilizio o etnico sopra l’inerme  e soggetto gregge dei vinti, degli umiliati, degli  offesi ; dall’antropofagia alla schiavitù, dalla corvée  al monopolio, qualunque sia l’arma adoperata,  l’ascia del guerriero selvaggio, il nexum del giu¬  reconsulto latino, il contratto dello speculatore  moderno, il risultato è sempre il medesimo:  vincere ed asservire il debole, prendere la sua  vita o il suo lavoro, fondare il proprio diritto  sulla negazione della solidarietà umana. L altra  tradizione è quella opposta del lavoro associato  e complementare, della mutua integrazione delle  classi, che sotto le forme più svariate emerge  dall’opera sociale : essa si afferma fin dai pri¬  missimi stadi della civiltà, e grado a grado  crescendo soverchia la tendenza egoistica e dis-  sociatrice per attuare l’alleanza organica di tutte  le parti nel corpo collettivo, e coll’armonica  cooperazione delle sue unità, concreta nel sim-  bionismo sociale la legge del progresso.           M v ■> #    INDICE    Preambolo    Pag. v    Cap. I. — Il reale e l’ideale . n   Cap. II. — La giustizia come idea ed emozione „  Cap. III. — I frutti del lavoro e la loro distribu¬  zione secondo giustizia . . „   Cap. IV. — Libertà od eguaglianza . „   Cap. V. — Analisi del merito . „   Cap. VI. — La pena riparatrice .... „   Epilogo .    i .<5   63   87   107   137   172 

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